SportdiPiù magazine Veneto 67_2021

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memoria collettiva: è stata un qualcosa troppo grande, di troppo impattante per poterla dimenticare. In tanti l’hanno sfruttata per ottenere un proprio tornaconto personale e questa è una considerazione disarmante. Un giorno finirà nel dimenticatoio, ma prima che succeda a mio avviso deve passare ancora molto tempo».

periodi estremamente difficili, ma ciò che conta è che la verità sia venuta alla luce. La Corte d’Appello federale nella sentenza di assoluzione, per ristorarmi in parte dell’ingiustizia subita, scrisse che la mia figura in relazione alla vicenda era “terza e lontana da ombre di qualsiasi natura”. Se non ho mai mollato è stato grazie alla mia famiglia: le persone che ho avuto vicino non hanno mai dubitato mai della mia persona e questo ha infuso in me grande forza. Il mio interesse è sempre stato quello dimostrare la mia estraneità ai fatti, ma a bocce ferme la volontà era anche quella di ritornare in campo per dimostrare a tutti la mia serenità, potendo girare a testa alta, com’era giusto che fosse». Ð M[IOMZI\W IЄMZUIZM KPM KQ [QI [\I\I ]VI grossa spettacolarizzazione mediatica di Calciopoli? «Alla faccia del ne bis in idem Calciopoli ha tripartito le sedi di giurisdizione: quella ordinaria, quella sportiva e quella mediatica. C’è stato un grosso problema alla base: non è stato un processo finalizzato a verificare se gli arbitri fossero puliti o meno, bensì un procedimento atto ad accertare che le direzioni arbitrali favorissero il mondo Juventus. Tra oltre quaranta indagati ne è stato condannato solamente uno per una partita, Lecce – Parma, che evidentemente non c’entrava nulla col “Sistema Moggi”. Un dato di fatto che fa pensare molto». +ITKQWXWTQ v ZMITUMV\M ÅVQ\I' «Se la consideriamo come indagine del 2006 è sicuramente giunta al termine. Ciò che sicuramente non sbiadirà mai è l’impatto che essa ha avuto nella nostra

9]IT v QT \]W XMV[QMZW QV UI\MZQI LQ ¹[]Lditanza psicologica”? «Credo che sia un fenomeno umano, ma che non concerna il rapporto tra arbitro e squadra. È una relazione interpersonale: posso essere psicologicamente “condizionato” nel rapporto con un giocatore che possiede una personalità più pronunciata rispetto alla mia o perché ha una caratura importante e per questo mi posso relazionare con lui in un modo differente rispetto a quello che scelgo di utilizzare con altri suoi compagni. Stiamo parlando di una dinamica però che non riguarda il calcio, ma che è presente in diverse sfere della nostra quotidianità. Se vogliamo parlare di sudditanza dobbiamo considerarne la sua bidirezionalità: un calciatore che all’epoca avesse dovuto interagire con un fischietto del livello di Collina è chiaro come avrebbe potuto accettare più serenamente le decisioni di quest’ultimo rispetto a quanto avrebbe potuto fare se ad arbitrarlo fosse stato un arbitro con meno esperienza. È tutto relativo». Quanto quest’esperienza ha mutato la percezione che avevi della tua professioVM' ;M ]V OQWZVW \]W ÅOTQW \Q M[\MZVI[[M il desiderio di diventare arbitro come reagiresti? «Ho iniziato ad arbitrare a sedici anni, da ragazzino, e ho dovuto smettere a quarant’anni: venticinque anni di carriera in cui la mia settimana era finalizzata all’evento per cui ero stato designato. Dai campi delle Provincia fino ad arrivare ai palcoscenici internazionali, le emozioni che ho provato correndo sul rettangolo di gioco sono sempre state le stesse. Diventare arbitro era la mia vocazione, un qualcosa che scorreva nelle mie vene e l’amore che nutro per questo ruolo è rimasto intatto nonostante le pieghe che ha avuto la mia vita. A mio figlio direi di seguire ciò che si sente dentro: se vorrà intraprendere questa strada l’importante è che lo faccia con passione, impegno e dedizione».

Cosa spinge un ragazzo ad entrare nel UWVLW IZJQ\ZITM [IXMVLW KPM Q ¹LWTWZQº [IZIVVW UWT\Q LQ XQ ZQ[XM\\W ITTM ¹OQWQMº' «La vita di un direttore di gara è composta per il 95% da sofferenze e per il restante 5% da gratificazioni. Le percentuali sono chiaramente sproporzionate, ma vi posso assicurare che le poche soddisfazioni ripagano tutte le difficoltà che ti trovi ad affrontare sul percorso. È un fuoco che devi sentire ardere dentro di te: arbitrare ti fa crescere molto più rapidamente rispetto ai tuoi coetanei, insegnandoti ad arrangiarti nella gestione delle tue faccende. Se scegli di impugnare un fischietto devi essere consapevole del fatto che “indosserai quella veste” in ogni aspetto della tua vita, perciò i comportamenti nella quotidianità dovranno essere sempre consoni al ruolo che rappresenti. Essere arbitro è un segno distintivo». Che idea ti sei fatto del Var? «Per come la vedo può considerarsi come una rete per un trapezista: se qualcosa va storto l’arbitro ha la consapevolezza di non cadere nel vuoto. Una tecnologia del genere può essere però un’arma a doppio taglio: talvolta la sensazione è quella che avendo questo strumento a supporto il direttore di gara preferisca astenersi dal prendere una decisione, attendendo che l’intervento “esterno” ripristini la realtà del campo. Una circostanza, quest’ultima, che a mio avviso sminuisce in parte la figura dell’arbitro “decisionista”, finendo col favorire una parsimonia decisionale che diminuisce la credibilità del movimento. È comunque bene ricordare come il Var sia un’innovazione presente da pochi anni nel circuito calcistico, quindi nel futuro a breve e lungo termine sarà soggetto a revisioni che ne miglioreranno sicuramente l’efficacia». Qual è stata la partita che emotivamente ti ha trasmesso le emozioni più forti? «Cito due derby: Lazio- Roma nel gennaio del 2005 e un’Austria-Germania. La stracittadina romana fu un match dalla

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