S.A.M. #2

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LA SOSTENIBILE LEGGEREZZA...

“Al contrario, l’assenza assoluta di un fardello fa sì che l’uomo diventi più leggero dell’aria, prenda il volo verso l’alto, si allontani dalla terra, dall’essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato”.

L’editoriale di questo numero doveva essere completamente diverso, ma poche ore prima di andare in stampa, il mondo ha dovuto salutare per l’ultima volta uno degli scrittori che il sottoscritto ha amato di più: Milan Kundera. Poeta, drammaturgo, saggista di rara intensità. Lucido agitatore culturale quanto immenso ritrattista di ineluttabili picconate ai paradigmi culturali di tutte le epoche che ha attraversato. Ho voluto aprire con un tratto della sua opera più conosciuta: “L’insostenibile leggerezza dell’essere”.

Ma se per Milan Kundera la leggerezza era “insostenibile”, il suo saluto terreno, lo scorso 11 luglio, mi ha ricordato invece quale importanza ha la leggerezza. Una flebile luce che è da sempre la materia di cui mi sono nutrito e che, nella sua accezione più ampia, ha un valore esattamente contrario a quello che gli conferiva Kundera.

Per usare le parole di Italo Calvino: «Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore», la leggerezza - ben diversa dalla superficialità - è anche la linea guida di Spirito Autoctono. Oggi più che mai.

Questo numero di S.A.M. è dedicato all’Emilia Romagna, vista dal nostro punto di vista. Luoghi, locali, stabilimenti balneari, spirits e assaggi gastronomici. Lo facciamo, appunto, con la leggerezza che ci è consona. E non perché vogliamo dimenticare o velare la tragedia che ha colpito il suo popolo qualche mese fa. Quanto perché vogliamo farvi conoscere la forza possente dell’accoglienza e della passione di questa regione. Oltre ogni macigno nel cuore.

Quando leggerete questo numero di S.A.M. l’estate avrà già percorso metà del suo viaggio, ma voi sarete ancora in tempo per vivere ognuna delle esperienze che vi abbiamo raccontato. Tutto sempre all’insegna della leggerezza, quella ironica di Arianna Porcelli Safonov, quella concreta di Anna Maschio, quella amorevole di Pasquale Torrente, quella della bellezza struggente di Lisbona, della Costiera Amalfitana o di Capri.

Buona Estate e buona vita a tutti voi, Francesco Bruno Fadda

Il distopico Direttore

1 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
EDITORIALE

IL FOTOGRAFO DI COPERTINA

LIDO VANNUCCHI

La sua attuale vita inizia nel 1961, ma nemmeno lui sa dire quante vite precedenti può annoverare. Certo è che il suo animo curioso, lo sguardo di un rapace in grado di catturare sempre le emozioni giuste al momento giusto, hanno fatto di lui uno dei migliori fotografi di cibo in circolazione, almeno in questi ultimi anni. Da sempre appassionato di buona cucina grazie a sua madre, ottima cuoca, negli anni ‘90 inizia a dedicarsi seriamente al mondo del cibo e del vino, studiando ma soprattutto bevendo e mangiando. Il diploma di sommelier lo avvicina alla realtà di vigne e vignaioli, e diventa egli stesso “viticultore”. In parallelo fotografa, finché la fame si tramuta in fama. Arrivano commissioni importanti, due volumi sul pane e sul vino, e anche le riviste di settore si accorgono di lui. Cook_inc, Spirito DiVino, Il Sommelier, Touring Club e Il Gambero Rosso, sono solo alcune delle testate che pubblicano i suoi reportage. In parallelo cura personalmente la comunicazione per l’alta ristorazione su tutto il territorio nazionale.

Il suo stile è unico, eppure in continua evoluzione. Vero cacciatore di luce e di emozioni, gli piace raccontare storie per immagini, attraverso ritratti di cuochi e vignaioli e dei frutti della loro sapienza, sempre mantenendo un atteggiamento umile e aperto alla ricerca, vero motore del suo lavoro e del suo essere tutto.

Luglio/Agosto 2023

Direttore editoriale:

Francesco Bruno Fadda direttore@spiritoautoctono.com

Caporedattrice:

Eugenia Torelli eugenia@spiritoautoctono.com

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Paolo Campana

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PASQUALE

3 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
DOSSIER EMILIA ROMAGNA 4 LA SECONDA GIOVINEZZA DEL NOCINO 10 CALDO, FREDDO, GHIACCIATO 12 LUGLIO, AGOSTO, ASTEMIO MIO NON TI CONOSCO 14 LA SCOZIA TORBATA 17 SKY BAR 20 DI MARE, HOTEL, SORSI E ASSAGGI 24 LA SORRENTO COSMOPOLITA DELL’HOTEL MEDITERRANEO PERCHÉ BEVIAMO IL MARTINI - SPECIALE NESSUNO METTE UN MARTINI IN UN ANGOLO SANTA COCKTAIL CLUB A FIRENZE ARIANNA PORCELLI SAFONOV - VODKA O CAMPARI?
- DA GUSTARE, LEGGERE, ASCOLTARE, SAPERE
- IL TOUR
COSTIERA AMALFITANA IN 48H
SOMMARIO
COSE
LISBONA
LA
TORRENTE
CAPRI PIÙ SPIRITOSA
GIARDINO MEDITERRANEO DI GIN MARE
PRODUTTORE: ANNA MASCHIO
CAMICIA A TUTTI - CONSIGLI PER GLI ACQUISTI 27 28 32 36 38 42 46 50 52 54 56 60 65
Magazine n.2
LA
IL
IL
BUONA
Spirito Autoctono

ROMAGNA L’ESTATE ASCIUGA LE FERITE

Vorremmo parlare di spiagge, di estate, di spensieratezza. Vorremmo parlare anche, e magari, di belle donne in costume e di bagnini esperti nell’arte del corteggiamento, come vuole la tradizione riminese risalente agli anni Sessanta, quando l’arrivo in massa delle giovani turiste tedesche fece nascere anche implacabili seduttori locali. Ma non possiamo liquidare così l’argomento e questa volta non per voler essere politically correct o per altre baggianate dei tempi contemporanei.

SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
di Andrea Guolo

Dopo il dramma vissuto lo scorso maggio, riprende la vita normale, ripartendo proprio dai beach club. Ecco gli indirizzi che si possono considerare imperdibili

Quest’anno è inevitabile, parlando di Romagna, un pensiero a quanto è accaduto a metà maggio, all’autentica sciagura che si è abbattuta sotto forma di pioggia, a quelle vittime innocenti. È una premessa dovuta e la finiamo qui, perché i romagnoli, che sono stati i più colpiti dall’alluvione, si sono già tirati su le maniche e hanno fatto tutto quello che era possibile fare, con lo straordinario contributo di una moltitudine di giovani volontari accorsi da tutta la regione e da tutta Italia. “Quei ragazzi ci hanno dato una responsabilità: ora tocca a noi far ripartire la Romagna, lo dobbiamo anche al loro impegno” mi disse un imprenditore di Cotignola una settimana dopo aver perso tutto quel che aveva realizzato in vent’anni di attività: la sua azienda è stata sommersa d’acqua con tutti i macchinari di ultima generazione acquistati pochi mesi prima del disastro.

L’estate è quell’occasione. L’estate è il momento in cui la Romagna spinge sull’acceleratore delle vacanze mettendo a disposizione un sistema turistico fatto di più di 130 km di spiagge e di migliaia di strutture all’avanguardia. L’estate è il momento in cui si incassa e in cui si raccolgono i risultati di investimenti costanti nel tempo. Denaro che contribuirà al recupero del territorio e di quelle attività che non sono ancora ripartite nell’entroterra, dalle colline alle città come Faenza, Forlì, Cesena, fino a Ravenna che è stata salvata perché tanti coltivatori della zona hanno accettato di farsi allagare i campi per risparmiare dall’acqua la città degli affreschi, la capitale dell’Esarcato bizantino, l’ultima dimora del Sommo Poeta. La costa è il punto di scarico dell’acqua e per qualchegiorno non è stata balneabile – a tratti – perché era inevitabile che non lo potesse essere. Ma il pericolo è quasi immediatamente rientrato, e allora che estate sia! Diamo inizio alla festa partendo dai locali che più si prestano a rappresentare l’epicentro dell’estate romagnola: i beach club.

In termini distributivi lo si considera come “un canale”, spesso sottovalutato come fenomeno ma incredibilmente forte dal punto di vista economico e centrale come punto di attrazione della vita d’estate. Potremmo dire che d’estate gli stabilimenti balneari non sono “un

canale”, bensì “IL canale” di riferimento, perché operano e incassano da mattina a sera, e sempre più fino a notte fonda. Si prolungano gli orari, si allungano le stagioni. E la Romagna è il punto centrale di questo fenomeno sia perché ha anticipato le tendenze in atto in tutto il Paese, sia perché lungo la sua costa (considerando anche la parte ferrarese, tecnicamente emiliana perché la Romagna geografica, nel suo versante nord, inizia a sud del Reno) i beach club sono più di mille e pesano per il 10% del totale Italia.

Quali sono i preferiti di Spirito Autoctono? La scelta è ardua, perché in fondo ogni stabilimento ha qualcosa che ci piace, anche se non possiede la miglior carta dei distillati o se tende più al mass market che alla qualità autentica. Ma il bello della Romagna è anche questo, è il suo essere non esclusiva ma inclusiva, popolare, sorprendente, aperta come il carattere dei suoi abitanti. E allora abbiamo allargato il raggio della scelta, inserendo tutti quei beach club dove ci piacerebbe che i nostri lettori mettessero piede almeno una volta nel corso della stagione, perché c’è davvero qualcosa che val la pena di provare. Procediamo quindi da nord a sud, e vediamo cosa offre la Riviera.

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Buonaventura, Marina Romea

Il primo locale che troviamo sorge alla sinistra della foce del Lamone e al tramonto la luce qui è davvero speciale. Ma il motivo per cui lo abbiamo inserito è una sua caratteristica unica: tu porti la carne o il pesce, loro te la grigliano. In cambio si paga una quota per persona e ci si impegna a comprare da bere al bar del chiosco. Davvero top, e la cottura - nelle nostre esperienze pre Covid – era assolutamente perfetta.

Boca Barranca, Marina Romea

Restiamo nella seconda località più a nord della Romagna geografica – la prima è Casalborsetti, sempre comune di Ravenna – e troviamo uno stabilimento di fama consolidata che negli ultimi anni ha elevato la qualità in cucina assoldando come chef Irvin Zannoni, di rientro dall’esperienza alla Capannina proprio di Casalborsetti. E se la spiaggia è attiva dalle otto al tramonto, le cene in riva al mare proseguono fino a oltre la mezzanotte.

Singita, Marina di Ravenna

Il punto di forza di questo beach club è lo stile. Materiali naturali (legno, paglia, soffici tessuti), letti indonesiani a baldacchino, arredi africani e orientali, tanto benessere a partire dalla lista dei drink con frutta fresca per i frullati, gli smoothies e i centrifugati. Ma anche per i cocktail, che vengono serviti in particolar modo all’ora dell’aperitivo, quando parte la musica, si accendono le candele e il fuoco dei bracieri, e la spiaggia viene ricoperta da grandi teli e cuscini bianchi.

Finisterre Beach, Marina di Ravenna

Al Bagno 28 troviamo il Finisterre, beach club famoso per i suoi concerti e sempre più per la proposta enogastronomica, realizzata con la consulenza dello chef Mattia Borroni. Dal pranzo con i piedi tuffati nella sabbia fino alla cena a lume di candela, le formule si moltiplicano e il finale prevede un’ampia scelta di distillati.

Aloha Beach, Marina Romea

E tre! Marina Romea sta vivendo un momento di grazia e dunque come si può tralasciare l’Aloha Beach, uno dei lidi più multitasking della Riviera? Ogni serata ha un tema diverso: afro il lunedì, barbecue con dj set anni 80 il mercoledì, white party al venerdì. E poi surf, gite a cavallo, eventi sportivi, una spiaggia attrezzata per accogliere i cani. E tanti drink, dall’aperitivo fino all’after dinner.

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Vistamare, Lido di Savio

Lettoni a due piazze sulla spiaggia, baldacchini di bamboo, canapa e lino, una infinity pool clamorosa dove è una goduria, al tramonto, degustare il proprio single malt preferito. E poi le diverse esperienze gastronomiche, da quella al Bamboo Vistamare Restaurant al Cucinavista nel centro di Milano Marittima fino al Cru.Do gestito dai proprietari all’interno del Cafè della Rotonda, sempre a Milano Marittima.

Papeete, Milano Marittima

La sua storia recente è stata segnata dai mojito di Matteo Salvini che hanno contribuito a scatenare una crisi di governo. E se le vicende politiche hanno probabilmente fatto più male che bene alla sua reputazione, va detto però che la drink list di questo club è davvero nutrita, con il mojito a farla naturalmente da padrone (due pagine di varianti, tra cui lo Champagne mojito da 35 euro), una parte dedicata agli Spritz (ma creativi) e ampie selezioni di gin, rum, vodka, tequila e whisky.

Turquoise Beach Club, Rimini

Uno dei posti che raccoglie più consensi a Rimini. I drink sono molto apprezzati, l’atmosfera è glamour, la musica dal vivo e la vita vissuta con i piedi immersi nella sabbia. Tutti elementi che fanno di Turquoise un posto di assoluto riferimento nella vita notturna della Riviera romagnola. E pare che il plus sia la gentilezza di tutto il personale.

Fantini Club, Cervia

È il beach club dello sport, quello che ha portato in Italia prima il beach volley e poi Ironman. La sua è una stagione lunghissima, grazie anche agli sport praticati in primavera e in autunno, diverse formule di ristorazione e otto punti bar. Spicca l’ormai rodatissimo appuntamento con l’Aperitivo Orediciotto del Fantini Club. La carta dei distillati è importante, ma al tempo stesso il club spinge sulla direzione healthy con il Fruit Bar sulla spiaggia.

Le Palme, Riccione

La spiaggia del gruppo Leardini, uno dei principali operatori di accoglienza della Romagna, offre tende suite, gazebo, chiringuito, piscine, idromassaggio. L’alternativa per l’aperitivo con vista mozzafiato è il lounge bar Settimo Piano, che si trova a pochi passi e all’ultimo piano dell’Hotel Lungomare.

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STATALE 9 LA DISPENSA D’ITALIA

Mario Soldati aveva scelto il Po per il suo celebre reportage gastronomico, il primo nella storia della televisione italiana. In mancanza di un’imbarcazione, affrontiamo in maniera più contemporanea la Statale 9, alias via Emilia, evitando accuratamente l’autostrada con i suoi autogrill standardizzati e percorriamo l’asse che da Piacenza porta fino a Rimini. Facciamolo a passo d’uomo, perché la sosta d’obbligo è assai frequente. Ci porta ad abbinare tesori d’arte, luoghi da visitare e locali dove degustare le specialità dell’Emilia Romagna, che può vantare la più importante economia agroalimentare italiana ben inquadrabile attraverso il numero delle sue DOP e IGP, che sono ben 44. Per non parlar dei vini, ma certamente con qualche riferimento a liquori e distillati nei quali la regione ha molto da dire e dispone di aziende leader a livello nazionale e internazionale.

Piacenza è la porta di accesso della regione, la cui storia è fortemente legata al culto del maiale, tanto da poter oggi vantare ben tre salumi a denominazione: coppa, pancetta e salame. Il viaggio verso Parma è una trappola di tentazioni

gastronomiche, tra ottimi vini delle valli piacentine (d’obbligo un calice di Gutturnio) e piatti tipici come pisarei e fasò e i classici tortelli conditi con burro, salvia e abbondante Grana Padano DOP, perché la provincia di Piacenza non è ancora terra di Parmigiano Reggiano. Prima di arrivare nella città ducale, non va perso uno dei 32 castelli del ducato di Parma e Piacenza; bellissima la rocca di Fontanellato raggiungibile con una breve deviazione da imboccare poco dopo il salumificio Rossi di Sanguinaro, meta di pellegrinaggio per gli appassionati della Culaccia (ovvero la parte più pregiata del prosciutto privata di osso, gambo e fiocco). Il suo ancor più nobile cugino ovvero il culatello di Zibello regna a Polesine Parmense, dove nelle cantine dell’Antica Corte Pallavicina riposano, in attesa della maturazione, anche i pezzi di proprietà di Re Carlo III. A Parma, chi vuole godersi la cucina tradizionale fatta come Dio comanda ha tante soluzioni, la più gettonata è la trattoria Ai Due Platani, dove però riuscire a prenotare è tutt’altro che facile. A fine pasto è d’obbligo un assaggio di Bargnolino, liquore tipico dell’antico Ducato ricavato dalle bacche blu di un arbusto chiamato comunemente pruno spino. Tra i produttori, annotare Spirito Verdiano (Roccabianca, Parma).

Erbazzone e Lambrusco: dove mai saremo? A Reggio Emilia, città del Tricolore, dei due Ligabue (il pittore di Gualtieri e il rocker di Correggio), dell’Aceto balsamico condiviso con Modena e di diversi liquori: Anisetta, Maraschino, Marenata e, salendo fino a Sassuolo, anche del Sassolino, liquore di anice stellato. Modena non ha bisogno di troppe presentazioni: se prima il mondo la conosceva grazie a un tenore, oggi è meta di pellegrinaggio per la cucina di Massimo Bottura; approfittate della visita per visitare i musei dedicati alla Ferrari (a Maranello) e a Enzo Ferrari (a Modena). Ogni escursione gastronomica tra centro e provincia ha come naturale epilogo la degustazione di un buon Nocino, liquore di noci che si è anche dotato, a Spilamberto, di un proprio Ordine.

Salendo da Modena verso Finale Emilia troviamo un big della distillazione nazionale come Casoni, la cui fama è legata sia ai prodotti tradizionali sia alle ultime novità, tra cui l’Amaro del Ciclista. E sempre nel Modenese, a Mirandola, c’è la Gorfer, famosa per il Nocino e per l’Alchermes, che nella vicina Bologna è l’ingrediente immancabile della Zuppa inglese.

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Da Piacenza a Rimini, un viaggio alla scoperta di una terra unica con le sue 44 DOP e IGP, una cucina di fama internazionale e tante specialità, liquoristiche e della distillazione

Ed eccoci alle porte della Grassa, dopo aver passato quella Castelfranco Emilia che, giusto per placare la guerra dell’attribuzione della paternità del Tortellino, ne viene considerata la culla (da provare quello de La Lumira di Carlo Alberto Borsarini). In località Zola Predosa troviamo la sede del Gruppo Montenegro che produce tra gli altri il brandy Vecchia Romagna, a Castel Maggiore ci fermiamo invece per provare gli eccellenti brandy di Villa Zarri. Per completare la gamma dei liquori, va citato lo zabaglione all’uovo prodotto dalla distilleria Moccia un po’ più su, a Ferrara.

Dopo Bologna si apre la Romagna e arriviamo a Imola che ospita la celebre cucina del San Domenico dove va prova-

to, una volta nella vita, l’iconico Uovo in raviolo di Nino Bergese. E poi Faenza, città delle ceramiche e oggi anche della pizza grazie a Davide Fiorentini di ‘O Fiore Mio. Attraversando Forlì e Cesena, terre di piada e cappelletti, già si respira aria di mare ed eccoci a Rimini, dove la cucina di mare regna sovrana e chiama i grandi vini del territorio in piena ascesa, come l’Albana. E se, nell’affrontare il viaggio, vi mancano alcuni indirizzi per acquistare i migliori distillati, eccone tre: Atlas Whiskyteca & Rumteca a Crespellano (Valsamoggia, Bologna), Whisky Antique a Formigine (Modena) e l’ex Spaccio delle Carceri a Modena.

LE AMPOLLE D’ORO DELLA ROMAGNA 2023

L’Emilia-Romagna si distingue per una grande varietà di spirits

C’è l’imbarazzo della scelta, a guardare l’elenco con le 9 Ampolle d’Oro conquistate dall’Emilia-Romagna nell’edizione 2023 della Guida di Spirito Autoctono. Un riflesso fedele di ciò che rappresenta questa regione, conosciuta nel mondo per la sua tradizione gastronomica ma molto meno – erroneamente – per i liquori e distillati della tradizione. Tutti perfettamente rappresentati da aziende, storiche o no, che puntano alla qualità senza mai smettere di innovarsi e rinnovarsi.

Anche nel campo degli spirits questa regione ha saputo distinguersi legando a sé una grande varietà di prodotti, che rivelano non solo un’alta qualità produttiva, ma anche un’inesauribile ricchezza di storie, persone e tradizioni. In un percorso ideale partiamo dunque dall’aperitivo, con

LIQUORI

Sassuolino – Roteglia 1848 (Opificio Liquori in Sassuolo)

Zabaglione Lolli Limited Edition (Lolli Liquori)

GIN

Sinister Gin – (Evil Spirits)

Ferdinando De Cinque Gin – (Bad Spirits)

Gin Tuono – (Distilleria Tuono)

DISTILLATI

Vecchia Romagna Riserva 18 (Vecchia Romagna)

Ape, firmato dalla Cantina San Marino, per poi proseguire con un vermouth, il Dok ’61, che Gotha Spiriti Nobili ha interpretato in una chiave del tutto contemporanea. Proseguendo nell’assaggio si arriva al Vecchia Romagna, nome noto nel campo dei distillati che propone edizioni limitate del suo notissimo brandy. Ad affiancarlo anche due aziende storiche,  Lolli e Roteglia 1848, che rispettivamente con lo Zabaglione Lolli Limited Edition e il Sassuolino seguono (e bene) la via della tradizione. Tipica italiana, anche se meno emiliana, la Grappa Bianca Cristallo di Grappa Libarna seguita, a chiusura, da tre gin - Sinister Gin (Evil Spirits), Ferdinando De Cinque Gin (Bad Spirits) e Gin Tuono (Distilleria Tuono) - che celebrano il territorio raccontando la storia di una città, quella di una ricetta di famiglia e la bellezza nascosta nei mestieri di una volta.

GRAPPA

Grappa Bianca Cristallo (Grappa Libarna)

VERMOUTH

Dok ’61 – (Gotha Spiriti Nobili)

APERITIVO

Ape – (Cantina San Marino)

9 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
di Federica Borasio

DALLE STREGHE AI COCKTAIL

LA SECONDA GIOVINEZZA DEL NOCINO Il liquore Modenese nato

dalle tradizioni pagane del solstizio d’estate

è in pieno boom. E c’è chi si batte per la nascita di un consorzio

In quella terra di mezzo che è la Bassa, landa ruvida e grassa che se ne sta spaparanzata fra il Po, la nebbia e il colesterolo, ci sono cascati tutti. Chi prima, chi poi, chi per via matrilineare e chi per improvvisa epifania. Per alcuni galeotti sono i nonni, con le loro ricette scritte con calligrafie stentate su quadernetti ingialliti. Per altri basta una cena luculliana in osteria a base di gnocco fritto e salumi, conclusa con un bicchierino oscuro dal peso specifico del cobalto. Poco conta: all’attrazione fatale del nocino non si resiste.

D’altronde, il nocino sta alla liquoristica italiana come i tatuaggi ai Maori: è un simbolo totale, rappresenta l’anima stessa dell’arte un po’ alchemica e un po’ medica di creare elisir con le piante e le spezie del territorio. Come il limoncello, la grappa, gli amari, o il vicino di casa bargnolino, trattasi di spirito autoctono per antonomasia. Solo che il nocino vanta anche natali mistico-esoterici che alimentano il falò della fantasia. E che meritano di essere raccontati.

Prima che del Modenese, la sua italica patria d’elezione, il nocino sembra essere originario della Britannia preromana, dove i Pitti lo preparavano e lo bevevano in occasione del solstizio d’estate, nel corso di nottate piuttosto orgiastiche che richiamavano lo sposalizio della luna col sole e propiziavano la fertilità. Il rito druidico, con tanto di visioni di esserini magici, che tanto avrebbe poi ispirato

10 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
di Marco Zucchetti

Shakespeare per “Sogno di una notte di mezza estate”, impressionò i centurioni, che rientrando a Roma diffusero l’abitudine di bere questo “liqueur de brou de noix” dalla Bretagna alla Liguria fino all’Appennino. Va da sé che gli aspetti pagani del consumo del nocino non fossero ben accetti nel primo Medioevo. Ragion per cui alle divinità celtiche e ai sabba delle streghe – celebri quelli sotto il Grande Noce di Benevento - si sostituì presto il culto di San Giovanni Battista.

Tutto questo la gente della Bassa, che significa Modena, Parma, ma anche Reggio, Bologna, Piacenza, Mantova, Cremona e financo Lodi, lo sa. Lo sa perché il Nocino è patrimonio comune e – pare – in piena fase di rinascimento. A Spilamberto dal 1978 è attivo l’Ordine del Nocino Modenese, un’associazione esclusivamente femminile che difende e tramanda i suoi segreti con successo, tanto che ogni anno si tiene il Palio di San Valentino, concorso fra nocini di produzione familiare. E le etichette si sono moltiplicate. C’è il bolognese Nocino di Amerigo, su ricetta del notaio settecentesco Pellegrino Grappi; c’è il Nocino Benvenuti, che Montenegro ha inserito nel progetto di rilancio dei “Liquori della tradizione italiana”, in cui i malli rimangono in macerazione 9 mesi prima di essere torchiati; c’è il Nocino Riserva prestige Gavioli e c’è il Nocino Spadoni, che replica la ricetta dell’Artusi con scorze di limone. Ma soprattutto c’è il Nocino Toschi.

Già, perché secondo la tradizione le noci devono essere raccolte nella notte fra il 23 e il 24 giugno, proprio la notte dei fuochi di San Giovanni. Tecnicamente è il periodo dell’anno perfetto, perché i malli devono essere ancora morbidi (per capire se è il momento giusto bisogna forarli con uno spillo), ma non troppo acerbi. Tannici ma non troppo. Però la scienza è noiosa, quindi meglio ammantare di fiaba una scelta organolettica e tecnica. Ecco dunque spuntare il mito della guazza di San Giovanni: la rugiada di quella notte, infatti, è creduta una panacea per tutti i mali gastro-intestinali. Merito delle proprietà chelanti e antiossidanti delle noci, ma come abbiamo già detto la scienza è noiosa, mentre l’immagine di donne vergini che a piedi nudi colgono i malli e li lasciano imbevere nella rugiada fino all’alba accende senz’altro di più la fantasia.

Raccontata la storia è tempo di tornare prosaicamente alla realtà. E all’odierna seconda giovinezza di questo liquore, che fa parte delle “Tradizioni e sapori del Modenese” tutelate dalla Camera di Commercio locale. Perché tra i fiumi Secchia e Panaro si trovano i boschi di noce (Juglans regia) i cui frutti sono alla base della ricetta storica. Quella dei frati, e poi quella ritrovata nel ricettario di Ferdinando Cavazzoni (“Liquore detto nocino”, 1860) e negli scritti di Pellegrino Artusi (1891). Contrariamente ad altri liquori, che differiscono parecchio fra loro, le varianti del nocino tradizionale non sono molte. Le noci devono essere raccolte fra il 1 giugno e il 15 luglio, devono essere tagliate in quattro parti e lasciate a macerare al sole in alcol con zucchero e spezie (cannella e chiodi di garofano, qualcuno aggiunge scorze d’agrumi) per minimo 60 giorni, o ancor meglio fino alla notte di Halloween, sempre per rimanere in tema druidico.

Toschi Vignola è un’azienda storica di Savignano sul Panaro, attiva dal 1945, che produce il Nocino e la sua versione Riserva invecchiata 5 anni, indicando su ogni bottiglia il vintage dell’anno di infusione dei malli. Toschi nel nocino crede ciecamente. Innanzitutto è stata la prima a introdurlo nella mixology, con due ricette di “NIO cocktail” brand di drink premiscelati. Una maniera di portare il Nocino oltre la classica bevuta liscia o con ghiaccio, al di là delle sperimentazioni (Nocino e moscato) e dei piccoli godimenti culinari (Nocino sul gelato). Inoltre, Toschi sta portando avanti un’altra battaglia: «Vogliamo creare un Consorzio per la valorizzazione di questo prodotto – spiegano dalla famiglia -. Da sempre è un nostro sogno quello di riunire i produttori e fare sistema». Chissà che non sia la volta buona

11 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE

CALDO, FREDDO, GHIACCIATO

Martello, scalpello e un cubo di ghiaccio. Ecco gli strumenti del bartender che negli anni ‘70 scolpiva il bicchiere più freddo della storia nell’indimenticabile reclame di Brancamenta, mentre il jingle in sottofondo faceva “Brrrrr”. Altro che jigger e cobbler shaker.

Pubblicità a parte, i gradi centigradi al bar contano. Tra macchine del ghiaccio, abbattitori e congelatori, la temperatura di servizio è quella leva invisibile - ma decisiva - che può determinare la riuscita di un drink, farlo amare, riordinare, ricordare, renderlo diverso o (se va male) impossibile da bere.

Esistono allora temperature di servizio rigidamente raccomandate o tutto è legato alle preferenze individuali? Cocktail (e mocktail) devono avere una precisione

millimetrica nel grado centigrado? Ma soprattutto, la temperatura può diventare una componente creativa e quanto influisce il tempo di consumo sulla scelta del servizio?

Spirito Autoctono lo ha chiesto agli specialisti, per scoprire trucchi e best practice delle temperature. Perché a nessuno piace caldo, ma col freddo è bene saperci fare.

DISTILLATI D’AMBIENTE

Partiamo dalle note tecniche e da un trucco. Come ricorda Massimo D’Addezio, bar manager del Chorus Café a Roma, «nel cavo orale si sviluppano due proteine: la TRVP-V1 porta un aumento delle temperature e la TRPM8 genera l’effetto contrario. Entrambe possono essere ingannate

12 SPIRITO AUTOCTONO MAGAZINE
di Giambattista Marchetto

da alcuni elementi». E dunque la percezione può essere differente rispetto alla reale temperatura di ciò che si beve. Premessa questa versione della teoria della relatività, rivolgiamo innanzitutto lo sguardo ai distillati in purezza per cui «la temperatura di servizio dovrebbe essere più neutra possibile – osserva D’Addezio -, tra 18 e 24 gradi» di media. «La bevuta a temperatura ambiente fa percepire gli aromi più volatili che le basse temperature maschererebbero - conferma Ivan Filippelli, bar manager al The Spirit Milano –, permettendo così di percepire carattere aromatico e complessità». Secondo Simone Mina - anima creativa del Ch 18 87, bar dallo spirito contemporaneo dello storico Checchino di Roma– rispetto alle temperature «tutto è molto personale e a volte il ghiaccio con i distillati non è una blasfemia (soprattutto d’estate). Nel caso di prodotti con invecchiamenti importanti, invece, è meglio non scendere sotto i 10/11 gradi e semmai tenere a portata di mano un bicchiere di acqua ghiacciata».

COCKTAIL IN LIBERTÀ

Quanto ai cocktail «analcolico e alcolico sono la stessa cosa per me – chiosa Filippelli –; serve precisione millimetrica sulle temperature, in base alla tipologia di drink che si vuole servire. I miscelati serviti in coppa e quelli on the rocks (stile Old Fashioned) richiedono molta attenzione su raffreddamento e diluizione». Se la precisione millimetrica può difficilmente essere codificata a causa delle troppe varianti possibili, una certezza D’Addezio e Mina la scolpiscono: «L’unico drink su cui essere inflessibili è il Martini. Da servire tra 0° e 2°». Tra cocktail e mocktail «il problema è il mantenimento della temperatura – specifica Mina – se è on the rocks la soluzione è più semplice, per miscelati più complessi bisogna avere chiaro in mente come verranno consumati e sapersi regolare». Valutazioni in cui il luogo conta molto: «Non proporrò un Martini in un beach club – osserva Oscar Quagliarini –, piuttosto ne creo una versione alleggerita».

GIOCO DI TEMPERATURE

In un universo dominato dalla creatività istrionica, la temperatura può diventare una componente su cui giocare. «Con il mio team realizziamo lo stesso cocktail in versione calda e fredda, per capire come cambia la

percezione», riferisce Filippelli. «Bisogna conoscere bene l’argomento – avverte Mina –, si può sfruttare il cambio di temperatura nel corso della bevuta: fa emergere nuovi aromi e racconta un’evoluzione. È però un gioco più difficile di quel che sembra». Un esempio lo fornisce Quagliarini, che con il suo Eclisse immerge nel bicchiere contenente la base (vodka, vermouth bianco e bitter al bergamotto) una iceball nera aromatizzata al whisky, che sciogliendosi regala una tonalità smoky.

IL FATTORE TEMPO

Inevitabile porsi il problema delle tempistiche di consumo: «Un distillato sottoposto a una lunga attesa può evaporare e quindi perdere terpeni – evidenzia D’Addezio –. Si può ovviare coprendo il bicchiere. Nei miscelati caldi il tempo fa svanire l’effetto avvolgente, se freddi, invece, accentua la parte alcolica e se On the rocks causa diluizione». «Per un drink in coppa, tanto più se consumato all’aperto, è importante la dimensione del bicchiere, ché se troppo grande fa danno», osserva Filippelli. Per Mina si tratta di leggere il cliente e regolarsi di conseguenza.

LA TECNICA NEL GHIACCIO

Strizzando l’occhio al Brancamenta, il ghiaccio è essenziale. «Migliora la diluizione e quindi il raffreddamento del drink – rimarca Filippetti -, aiuta a mantenere la temperatura e soddisfa anche l’occhio». Quindi la qualità del ghiaccio diviene fondamentale: «contano la grandezza del cubetto e il tempo fuori dal freezer perché non può esser “sudato” - spiega D’Addezio -; dovrebbe inoltre attestarsi intorno al 20% della parte alcolica». Nei drink shakerati serve, invece, a rompere le molecole. Il ghiaccio permette dunque di lavorare sulla temperatura, ma «è soprattutto la diluizione che rende più accessibili alla beva i cocktail e il bartender può anche applicare un po’ di fantasia per giocare su un servizio particolare», aggiunge Antonio Boccia, bar manager all’Hotel Parker’s di Napoli. In sintesi, «può esaltare le qualità di un drink o rovinarlo irrimediabilmente», conclude Mina.

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La temperatura di servizio è quella leva invisibile che può determinare la riuscita di un drink, farlo amare, riordinare, ricordare, renderlo diverso o (se va male) impossibile da bere

LUGLIO AGOSTO ASTEMIO MIO NON TI CONOSCO

E la chiamano estate, questa estate, a bere il tè… Per fortuna, non è più necessariamente così. Il combinato disposto di scienza e sete ha spinto la ricerca in campo beverage (sia lato aziende, sia lato bartender) a creare innumerevoli opzioni per chi nonostante la caldazza da record non vuole rinunciare al suo drink alcolico e non si rassegna alla tirannia delle bibite. Per cui, sempre manzonianamente con juicio, ecco qualche consiglio per distillati e liquori da consumare nei mesi più torridi.

Mirto

Con quella sua anima balsamica e selvaggia, con quella sua capacità a reggere temperature polari così da essere servito ghiacciato appena estratto dal congelatore, è uno dei liquori italiani più mediterranei, inteso sia per provenienza, sia per clima. I gusti sono gusti, ma noi lo preferiamo meno zuccherato possibile. Liscio oppure on the rocks, lo consigliamo nella sua versione bianca, più rara ma anche più erbacea ad amarognola, dissetante: Mirto Bianco 1929 Silvio Carta, oppure il Mirto verde di Bresca Dorada, più morbido grazie all’aggiunta di miele e prodotto dalle foglie più giovani degli arbusti.

In miscelazione, due dritte: un’aggiuntina di mirto (quello tradizionale, fate voi) al Daiquiri dona una nuova dimensione al re dei drink estivi. Invece, con il Mirto Ruju possiamo realizzare strepitose reinterpretazioni del John Collins: gin (meglio se sardo, tipo il  Gentù Porto Cervo dry gin), succo di limone, sciroppo, soda e mirto.

Amaro

Altro caposaldo del dopocena (o dopopranzo…) nelle giornate più torride. Le etichette sono infinite, ma per l’estate meglio evitare quelli 1) troppo alcolici 2) troppo densi 3) troppo centrati su spezie natalizie, tipo cannella, chiodi di garofano, eccetera. Che poi, nulla vi vieta di bervi lo stesso il Petrus, sia chiaro: restare con l’amaro in bocca non sempre è una cosa sgradevole. Ad ogni modo, liscio o ghiacciato, ecco due consigli agli antipodi dello Stivale: Lyskamm, amaro a basso tenore alcolico (19%) a base di erbe e spezie, che proviene dalle falde del Monte Rosa: genziana, menta, alloro, ma anche zenzero, lo rendono esageratamente rinfrescante. L’altro estremo è Nepeta, amaro siciliano a base di nepitella (menta selvatica) e limoni di Siracusa: anche qui, da berne a secchi. Per la mixology provate il Camatti Mad Mule, versione del Moskow Mule (con ginger beer) a base di Amaro Camatti, dalla Liguria con il fresco riconoscimento di amaro miglio-

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di Marco Zucchetti

re al mondo, e una creazione tutta nostra: un long drink con cedrata, prosecco e Amaro Elorì a base di timo, arancia amara e asparago selvatico.

Gin

Scontato come le penne lisce al supermercato, il gin non può non esserci. Il gin & tonic è l’epitome del drink estivo, basta immaginare il rumore della tonica che frizza e le goccioline di condensa sul bicchiere per salivare tipo cane di Pavlov. Già, ma quale gin? E soprattutto, mica vorremo limitarci al G&T.

Facciamo così, noi ci limitiamo a suggerirvi i tre gin più spiccatamente vacanzieri, poi voi vi regolate di conseguenza dal punto di vista della mixology. Uno agrumato, uno erbaceo e uno costiero. Agrumato: Fulmine, gin impavido elettrico, London dry che esalta limone e pompelmo senza esagerazioni maldestre. Erbaceo: 25Zero14, con anice stellato, timo, rosmarino e basilico, creato da Andrea Pellegrini e al 100% italiano. Costiero: Baciamano (cum grano) salis, distillato sperimentale a partire da una sola botanica distillata – il ginepro – ma tagliato con acqua del mar Ionio.

Whisky

Eh, sarà una perversione di chi scrive, ma rinunciare al whisky solo perché fa caldo è imperdonabile come non dichiarare il proprio amore solo per paura di un rifiuto: poi lo rimpiangereste. Va da sé che non tutti i whisky sono estivi, e che non tutte le sere vanno bene per un single malt.

Per esempio, se il whisky volete assaporarlo puro, senza ghiaccio, magari in una lunga serata di chiacchiere al tavolo di una terrazza sul mare, o perché no in giardino, meglio evitare invecchiamenti in botti ex sherry, che donano note più calde e autunnali al distillato. A nostro gusto, staremmo su qualcosa di non torbato e vi proponiamo: Cragganmore 12 anni, Scotch dallo Speyside di facile reperibilità e massima bevibilità, il minerale Hazelburn, che la distilleria Springbank distilla tre volte rendendolo soave e delicatissimo, e Yellow spot, un Irish whiskey dalle sfumature dolci date dall’affinamento in barili di vino Malaga. Due invece i consigli cocktailistici: un highball con  Tomatin Legacy, probabilmente uno dei migliori entry level di Scozia, e quello che forse è il nostro whisky drink preferito, la Lynchburg lemonade, a base di Jack Daniel’s, triple sec, soda al limone e foglie di menta. Dal Tennessee a Spotorno e ritorno.

Vermouth

Con le sue spezie variopinte, il vermouth è un grande classico senza stagioni. L’extra dry per il Martini cocktail, il ros-

so dolce per il Negroni… Ma il bianco? Eh, il bianco è un mondo a parte, e ce ne sono parecchi che si possono godere freddi freddissimi anche d’estate, come aperitivi. Tutto sta nel trovare quelli più scattanti e vibranti.

Il primo suggerimento arriva dalla montagna, con il Verney di La Valdotaine, a base di erbe locali come la sarieula (timo) e il benefort (assenzio maggiore). Il secondo è biologico, ed è il  Vermouth Controcorrente, che utilizza vino Chardonnay e Durella del Veronese, aromatizzato con melissa, camomilla a mandarino. Il terzo e ultimo consiglio è il florealissimo Vermouth Ulrich della distilleria Marolo, con note di rosa e sambuco valorizzate dalla base di vino Cortese.

Rum

Penultimo capitolo della nostra rassegna tra i distillati dell’estate. Il rum, che per sua natura proviene da zone del mondo calde e assolate, è spesso accostato a un consumo divertente e vacanziero per quanto riguarda il bere miscelato. Al contrario, almeno per chi scrive, il rum liscio – specie se invecchiato - è quanto di meno estivo si possa sorseggiare. Quindi i nostri consigli riguarderanno soprattutto la mixology. Partiamo con il drink più buono di sempre e per sempre (esageriamo? Per nulla…), ovvero il Ti’ Punch, che in sostanza è una versione francofona del daiquiri. Originario della Martinica, lo consigliamo con Rhum Rhum, il rhum agricole prodotto da Vittorio Capovilla e Luca Gargano sull’isola di Marie Galante. Ci sforziamo di non consigliarvi daiquiri, caipirissima o mojito, che alla fine sempre lime e menta implicano, e azzardiamo: Yellow Bird, con rum bianco, Galliano e triple sec. Niente rum cubano però, provatelo con Veritas Foursquare dalle Barbados. Infine, il consiglio da prendere con le pinze: l’Hurricane. Ora, questo cocktail originario di New Orleans prevede 6 cl di rum chiaro e 6 di rum scuro, miscelati con succo di arancia, limone e sciroppo di passion fruit. Va da sé che sia di una pesantezza alcolica rara. Quindi, il suggerimento è di “scaricarlo” un po’ come dosi, magari aumentando la potenza aromatica del rum: provatelo con il super esterificato Hampden giamaicano.

Lo avevamo detto in principio, che non avremmo bevuto tè quest’estate. A meno che… A meno che non ci fosse un benemerito in grado di renderlo alcolico. Detto, fatto: ecco T+, il liquore tutto italiano a base di foglie di tè e distillato di grano ideato da due bartender piemontesi. Con ghiaccio e allungato è già un bel bere, ma noi da quando lo abbiamo assaggiato nel T+Ale, ovvero con la birra lager, non berremmo altro.

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Con il caldo, inevitabile moderare gli alcolici. Ma dal gin al mirto, fino al whisky, c’è una via estiva anche per liquori e distillati

SCOZIA

TORBATA

VIAGGIO NEL TEMPO E NELLO SPAZIO TRA

È il 1983, il mondo dello Scotch Whisky è scosso dalla più grande crisi dell’era contemporanea. Il Proibizionismo degli anni ’20 ha portato a una drastica riduzione dei consumi e della produzione di whisky, ma non ha estirpato il desiderio di consumo del liquido dorato. Nella sola New York si sono contati 32.000 speakeasy, luoghi segreti di somministrazione che – per la fortuna di Al Capone e delle tante mafie che controllavano il commercio di alcolici –riuscivano comunque a dar da bere agli assetati americani. Gli anni ’80 sono diversi. Di alcol se ne beveva tanto, il boom economico del dopoguerra aveva generato un benessere condiviso, ben accettato dalle nuove generazioni che erano nate nel pieno della dolce vita e delle grandi contestazioni del Sessantotto. Un DNA rivoluzionario che ha portato a praticare stili di vita rivoluzionari, in pieno contrasto rispetto a quelli della generazione precedente. E il consumo del whisky era diventato improvvisamente una cosa vecchia, non più di moda, doveva essere sostituito da qualcosa di più moderno e fresco. Nasce così il successo della vodka aromatizzata che, da sola, ridurrà drasticamente il consumo di whisky: nel 1982 e 1983 circa il 60% delle distillerie scozzesi dovette affrontare lunghe chiusure. La metà di queste distillerie non ha più riaperto.

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LE
E LE HIGHLANDS
DISTILLERIE
di Claudio Riva

Sino al 1988, quando l’industria del whisky intercetta il nuovo interesse verso il cibo di qualità. Era da poco nata Slow Food, il consumatore desiderava conoscere la provenienza del cibo che consumava, il suo processo produttivo e il legame con il territorio. Il Single Malt appagava pienamente le aspettative di questa nuova generazione, l’attenzione passò in pochissimi anni dai commerciali Blended Whisky a distillati prodotti con metodi ancestrali in territori osannati dal cinema e dal turismo: le Highlands e le isole scozzesi. Nascevano così i Classic Malts, che hanno fatto conoscere a tutto il mondo i nomi di 6 storiche distillerie a rappresentanza delle 6 diverse anime dello Scotch: Glenkinchie, Dalwhinnie, Cragganmore, Oban, Talisker e Lagavulin.

Nasceva così, spontaneamente o spinto dall’industria non lo sapremo mai, il turismo di distilleria. La Scozia, piccolo francobollo insignificante sul planisfero terrestre, dopo aver insegnato al resto del mondo come si doveva produrre il whisky di qualità, affrontava velocemente il nuovo percorso che avrebbe trasformato l’accoglienza in distilleria in un business importante quanto quello del mercato tradizionale.

Trent’anni di crescita inarrestabile dello Scotch hanno portato nel 2019, ultimo anno prima della pandemia, all’incredibile record di 2.16 milioni di visitatori. Molte, tra le oltre 100 distillerie attive in Scozia, avevano inaugurato un Visitor Centre, che non era solo uno “spaccio aziendale”, ma un vero e proprio punto di contatto tra la storia e il consumatore. Turisti provenienti da ogni parte del mondo potevano toccare con mano il retaggio storico che ogni singola distilleria aveva cucito sul proprio logo. Il termine “single” diventava così sincero, autentico, apprezzato, desiderato.

Un toccasana non solo per il brand ma anche per l’occupazione. Aree che sino a pochi anni prima erano depresse e che vivevano di aiuti statali, si sono improvvisamente trovate a gestire un inatteso boom occupazionale: alle poche unità che grazie agli automatismi portavano avanti la produzione di milioni di litri annui in distilleria, si affiancavano decine di nuovi dipendenti che gestivano le visite guidate, le vendite negli shop e le degustazioni.

Gli anni della pandemia sono stati anni di ripensamento che, anziché portare ad un ridimensionamento dell’accoglienza, hanno visto tutte le aziende spingere sul pedale dell’acceleratore.

I “Four corners of Scotland”

È la stessa azienda che aveva lanciato i Classic Malt – allora UDV, oggi Diageo – ad avere creduto in un format nuovo e ad averlo applicato con successo alla sua rete di distillerie.

L’idea è semplice: il whisky è trendy, il whisky è bene di lusso, l’offerta poteva e doveva essere elevata in qualità.

Quale whisky utilizzare se non lo Scotch Whisky più venduto al mondo? Johnnie Walker rappresenta, in ogni angolo del pianeta, la Scozia bella e desiderata. Ma Johnnie Walker è un Blended Whisky non associabile ad una distilleria in particolare, essendo normalmente composto da una miscela di decine di malti differenti.

L’idea delle 6 distillerie dei Classic Malts è stata rinfrescata e sostituita con il progetto dei “Four corners of Scotland”, una sorta di Johnnie Walker tour delle aree rurali scozzesi. Dei 185 milioni di Sterline investite nel 2020 dalla Diageo per potenziare la propria presenza in Scozia, ben 150 sono stati destinati alla accoglienza turistica.

Le quattro distillerie prescelte sono Glenkinchie (la storica distilleria a sud di Edimburgo), Caol Ila (patria della torba), Clynelish (le vere Highlands) e Cardhu (la prima distilleria acquistata da Johnnie Walker nel 1893).

Ma non bastava, serviva anche un faro che illuminasse questo intricato percorso. Nasce così anche la Johnnie Walker Experience di Edimburgo, uno stabile di 4 piani nel cuore della città, in Princes Street, affacciato su The Rock, l’imponente tetro castello che domina la città e che delimita la parte superiore del Royal Mile.

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Johnnie Walker Edinburgh Princes Street Experience

Con circa 2 milioni di turisti all’anno, la presenza di una così ben fatta attrazione è di sicuro stimolo per lo Scotch Whisky. L’edificio illuminato, caldo e accogliente, offre un sicuro rifugio durante le frequenti giorni fredde e umide che la Scozia regala al visitatore.

Al piano terra l’imponente negozio offre la possibilità di acquistare bottiglie – alcune in edizione limitata ed esclusiva per lo shop, merchandising di sicuro effetto e di prenotare tutte le attrazioni.

Al primo piano, il Journey of Flavour è un viaggio epico nella storia dello Scotch e nelle caratteristiche aromatiche dei quattro angoli di Scozia. Non un semplice museo con visita guidata, ma una esperienza avvolgente, interattiva, con continui giochi di luce, degustazioni e performance musicali. 90 minuti mai stucchevoli che offrono, sia al turista distratto che all’appassionato di whisky, spunti di interesse e che stimolano la curiosità, il desiderio di approfondire.

Il Bothy Bar al terzo piano offre non solo la possibilità di assaggiare qualche dram nell’ampio catalogo Diageo (oltre 150 etichette in mescita), ma anche di sorseggiare cocktail a base whisky abbinati alla raffinata cucina nata dalla collaborazione con gli chef James e Maria Close, due stelle Michelin.

Il 1820 Rooftop Bar permette, nelle giornate di bel tempo, di vivere la stessa esperienza arricchita dalla vista mozzafiato sul Castello e sulla Old Town di Edimburgo.

L’offerta è di qualità elevata, va affrontata con notevole spirito di convivialità, la prenotazione è indispensabile.

Caol Ila, The Islay Home of Johnnie Walker

Riaperto nell’agosto 2022, il Visitor Centre di Caol Ila ha abbandonato il vecchio carattere dimesso si è completamente rivestito con i lussuosi abiti di Johnnie Walker. Dopo un lungo progetto di ristrutturazione, il tour di Caol Ila è oggi affiancato da una coinvolgente esperienza sensoriale che prende spunto dal Flavour Journey di Edimburgo, con la stessa parte multimediale e i giochi di luce, per concentrarsi sulle peculiarità della distilleria e del suo contributo marino e torbato.

Il fascino remoto e selvaggio dell’isola di Islay, patria mondiale della torba, non è mai offuscato dall’accoglienza un poco snob dei nuovi spazi: la ampia vetrata offre uno scorcio sui Paps, le imponenti e selvagge cime dell’isola di Jura. Lo stretto canale che separa le due isole è il Sound of Islay, che in gaelico diventa appunto Caol Ila, dà il nome alla distilleria stessa e ne segna il profondo attaccamento alla sua terra (e acqua) di origine.

Il bar offre assaggio di decine di dram, oltre ad una accurata lista di drink. Nello shop, oltre alle bottiglie commerciali, sono disponibili imbottigliamenti distillery only e viene offerta la possibilità di riempiersi una propria bottiglia.

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SKY BAR

TOCCARE IL CIELO CON UN DITO, E UN DRINK CON LA MANO

C’è una parte delle neuroscienze, la neuroestetica, che si impegna a razionalizzare la reazione del nostro cervello agli stimoli della bellezza. Quando si guarda qualcosa di bello il cervello reagisce più velocemente, l’attenzione aumenta, è inibita l’attività motoria, il ricordo dello stimolo è migliore e a quest’ultimo viene associata una reazione emotiva positiva.

Piccole ma significative trasformazioni del corpo che suggeriscono come anche la semplice osservazione di un panorama da una prospettiva altra possa stimolare i sensi, spingendo verso un’esperienza immersiva unica nel suo genere. Del resto anche lo scrittore francese Stendhal, uscendo da Santa Croce a Firenze, scrisse: “Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti delle arti e i sentimenti appassionati. Ebbi avuto un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere”. Ebbene, così come l’arte è capace di sconvolgere, allo stesso modo anche alcuni luoghi negli anni hanno sfruttato

Otium Rooftop Bar - Torino

All’ultimo piano del Green Pea, il lounge bar Otium è il posto giusto per allontanarsi dalla frenesia cittadina concedendosi qualche ora nella tranquillità del verde, con una suggestiva piscina a sfioro affacciata su Torino. Qui si vive una vera e propria esperienza di gusto, con i signature drink firmati dal bar manager Pier Paolo Cavalli che rifuggono la semplice degustazione del cocktail per coinvolgere tutti i sensi e arrivare alla vista, gratificata da decorazioni importanti e personali. Tra i drink da non perdere il Levender Negroni, signature dell’estate a base di Kinobi Gin, vermouth Mancino Sakura, bitter rouge, bitter plum e affumicatura alla lavanda.

Via E. Fenoglietti 20, 10126 Torino C/o Green Pea 4º piano - Tel. 0116640111 – www.otiumrooftop.com

l’effetto wow per offrire esperienze in grado di stimolare tutti i sensi. Basti pensare ai rooftop, terrazze panoramiche che – complice anche una lunga cinematografia in merito, con i tetti che per lungo tempo hanno rappresentato dei punti fermi negli arsenali dei registi - sono entrate nella memoria collettiva come siti unici e suggestivi, luoghi di socialità dove concedersi momenti di relax con lo sguardo proiettato verso l’orizzonte.

Miscelazione con vista

E visto che l’estate è iniziata, quale occasione migliore per sceglierne uno in base alla propria destinazione? O viceversa? Ecco le nostre 10 mete italiane del cuore a due passi - o quasi - da casa. (Siamo convinti che sarebbero piaciute anche a Stendhal).

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di Federica Borasio

The Roof - Milano

A due passi da piazza Duomo, un locale con spettacolare vista su Milano che accoglie, dall’ora di pranzo al dopocena , nella terrazza panoramica affacciata sulla basilica di Sant’Alessandro e sui palazzi del centro. Godersi un aperitivo al tramonto qui è pressoché un must, considerata anche l’offerta della carta cocktail che accompagna una buona selezione di vini ai grandi classici della miscelazione. All’ora dell’aperitivo provate il loro Hugo (Prosecco, sciroppo di sambuco, soda e lime), vi potrebbe stupire. Ma ricordatevi di prenotare.

Via Alberico Albricci 2-4

(con ingresso dall’Hotel The Square)

Tel. 02 88 57900 – www.theroofmilano.com

Panorama Lounge Bar Limone sul Garda

Ospitato all’interno dell’hotel 5 stelle lusso Eala, my Lakeside Dream di Limone sul Garda – dove va in scena anche cucina stellata di Alfio Ghezzi – il Panorama Lounge Bar offre una terrazza affacciata sul lago, con una visuale che spazia dal Monte Baldo a Malcesine. La miscelazione porta la firma di Eduardo Bortolotti e si traduce in una carta cocktail che richiama i sapori e i profumi del luogo, facendo uso di distillati e ingredienti della zona. Cocktail per l’estate il Punta San Vigilio, che unisce miele al pino mugo dell’Apicoltura del Garda, succo di limoni local, una parte erbacea donata dal Canto Amaro delle Sirene (Azienda di Sirmione), una punta di bourbon whiskey e tonica superfine al cedro di Tassoni.

Via IV Novembre, 86 - 25010 Limone Sul Garda BS

Tel. 0365 954613 - info@ealalakegarda.com

Skyline Rooftop Bar - Venezia

In zona Giudecca, nel quartiere bohémien di Dorsoduro all’ultimo piano dell’Hilton Molino Stucky, questa terrazza è il rooftop bar più alto della città e regala un affaccio da sogno sulla Laguna e monumenti di Venezia. La miscelazione è curata nel dettaglio, con signature intriganti che rievocano la storia del Molino Stucky. Cocktail-icona il Red Sky, un drink da aperitivo a base di vodka mandarin, Cointreau, Campari, spremuta di pompelmo, succo di limone e sciroppo al basilico. Da provare. Per gli amanti del gin anche alcune referenze made in Venice”.

Giudecca, 810 -Tel. 041 2723316 www.skylinebarvenice.it

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Terrazza Maitò

Principe di Piemonte - Viareggio

C’è Simone Corsini, tra le firme più accreditate della mixology contemporanea, al timone del bar del Grand Hotel Principe di Piemonte di Viareggio. Il suo Cocktail Book ha come protagonista il numero 101, filo conduttore nella grafica e nel concept delle otto proposte da bere, di cui due analcoliche, servite al Bar del Piccolo e sulla Terrazza Maitò. 101 come gli anni del Principe, nato nel 1922, e come uno degli speciali dei cocktail in lista. La nostra scelta cade però sul Fluctuating, un Bloody Mary orientale servito come un tè, nella teiera in ghisa e tazza. Qui Mezcal e Amaro Montenegro si uniscono all’acqua di pomodoro e uno shrub all’umami con un risultato tutto da provare. E che dire della terrazza? Un gioiello di eleganza e tranquillità affacciato sul lungomare viareggino.

Piazza Giacomo Puccini, 1

Tel. 05844011 – www.principedipiemonte.com

Se.Sto on Arno The Westin Excelsior - Firenze

All’ultimo piano del Westin Excelsior di Firenze la cucina mediterranea di Marco Migliorati – con un passato all’Enoteca Pinchiorri - incontra la mixology in un ambiente circondato da vetrate con due bellissime terrazze esterne che assicurano una vista mozzafiato su tutta la città.. La zona lounge è un omaggio al bere miscelato, con una proposta che va dai cocktail tradizionali a signature drink originali. Da sorseggiare quest’estate il Welcome to the jungle, con tequila Patron Silver, acqua di cedro Nardini, lime, agave, pompelmo rosa e Fever Tree acqua tonica Mediterranea.

Piazza Ognissanti, 3 Tel. 05527152783 – www.sestoonarno.com

The Court Palazzo Manfredi - Roma

Tra Palazzo Manfredi e le Grand View Suites, il cocktail bar diretto da Matteo Zed può dirsi a tutti gli effetti un luogo unico nel suo genere, a partire dall’affaccio sul Colosseo. Non si tratta in questo caso di un rooftop, ma di una vera e propria corte affacciata sulla bellezza, dove rinnovare il rito del bere bene scegliendo tra cocktail classici o drink sperimentali. Da provare il Porno Pisco Sour, un pisco sour con frutto della passione e sciroppo di mandorle. Qui viene servito accanto a un bicchierino di Champagne sul lato (come la pornostar Martini).

Via Labicana, 125 Tel. 06 69354581 – www.manfredihotels.com

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Terrazza Nainer - Roma

Altro indirizzo da segnare nella Capitale, questa terrazza con vista sui tetti di Roma ospitata al quinto piano di un boutique hotel affacciato sulla storica via del Babuino, tra Piazza del Popolo e Piazza di Spagna. Ogni giorno, dalle 18:00 alle 24:00, va in onda una proposta smart con tapas e assaggi abbinati alla cocktail list del bar manager Kim Fulgencio, originario della Malesia. 10 signature drink tra cui pescare, accompagnati dal suono della musica lounge. Accanto alla carta dei drink una buona selezione di vini e distillati anche di nicchia. Se non sapete cosa scegliere provate il Trendy: Tequila, liquore al frutto della passione, succo di lime e sciroppo di lychee. Vi sembrerà di essere sul set di “Vacanze Romane”.

Via del Babuino, 196

Tel. 06 45220701 – www.palazzonainer.com

Bidder Bar Bond Point 0025

Grand Hotel Parker’s - Napoli

È ancora un hotel ad ospitare una delle terrazze più suggestive e particolari della Campania. Nel cuore di Napoli, al sesto piano del Grand Hotel Parker’s, il bar panoramico è anche casa del bartender Antonio Boccia, che qui propone ben 283 cocktail ispirati a James Bond (ma anche uno dedicato alla moglie Carmen), raccolti all’interno dell’Official Cocktail Book Shaken curato dalla Ian Fleming Foundation. Una vera e propria carta-libro tutta da leggere per provare l’ebbrezza di sentirsi, almeno una volta, come la spia più famosa della storia. E quale cocktail scegliere, dunque, se non l’iconico Vesper, citato per la prima volta da Ian Fleming nel libro capostipite della saga, Casino Royale?

C.so Vittorio Emanuele, 135 Tel. 081 7612474 – www.grandhotelparkers.it

Hotel Continental - Taormina

Questo rooftop coniuga la bellezza di una città senza tempo, con il mare a fare da sfondo, a una proposta azzeccata che ogni giorno, dalle 18:00 alle 24:00, permette di concedersi una pausa gustando buoni drink in abbinamento alle proposte leggere della cucina. Ampia la carta cocktail, in cui convivono grandi classici, signature drink e proposte di tendenza con un’attenzione particolare rivolta al Martini (provate il Don Martini a base di Volcano Dry Gin – Ampolla d’Oro 2023 - e marsala secco) e ai twist su Margarita e Daiquiri. A corollario, una bella lista di vini e una selezione di liquori e distillati con diverse referenze siciliane degne di nota.

Via Dioniso I 2/a Tel. 0942 23805 – www.skybartaormina.com

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DI MARE, HOTEL, SORSI E ASSAGGI

Consigli per soggiornare in luoghi da sogno, dove bere e mangiare molto bene

Il blu fino all’orizzonte, il vento che anticipa il sale del tuffo, il rumore delle onde. È forte il richiamo del mare, decisamente fisico, un po’ seduce e un po’ spaventa, corrode le chiglie e culla nel sonno, sfida, inghiotte e guida lontano. Racconta storie, come quelle di Joseph Conrad che vi consigliamo di chiudere in valigia prima di partire per una delle destinazioni che abbiamo scelto per voi nello stilare questa breve guida. Uno solo l’obiettivo: accompagnarvi in un viaggio che possa stuzzicare mente, occhi e palato. Senza perdere di vista quella riga che si fa blu all’orizzonte. Dal mare delle isole a quello delle città, dalle scogliere che si tuffano nelle onde fino a quello sfiorato sulla sabbia e intravisto dal verde delle campagne. In Italia ogni località costiera porta con sé sapori, storie di terra e tradizioni. Tutte diverse tra di loro. Tutte da scoprire. Ecco, dunque, una piccola collezione di hotel, dimore e – in sostanza - prospettive da cui vivere il mare con in mano un bicchiere ben pensato e, tutt’intorno, ambientazioni da sogno, perfette per un libro. Non vi piace Conrad? Non importa, portate Baricco, l’importante è bere e mangiare bene.

THERASIA RESORT

Vulcano, Isole Eolie (Sicilia)

Tra i sensi prediletti dall’isola di Vulcano la vista è secondaria. La sua anima sulfurea e terrestre si mescola al mare, prende il naso e attraversa le viscere come una voce ancestrale. Al Therasia Resort gli si cammina sulla pelle in un’oasi affacciata sul mare tra terrazze, piscina a sfioro e giardini. Nelle cucine de Il Cappero (1 stella Michelin) l’executive Giuseppe Biuso gioca di accostamenti tra mare e terra, mentre Davide Guidara porta nel piatto de I Tenerumi una magia completamente vegetale, tanto che oltre alla Stella canonica spunta anche quella Verde. L’Arcipelago è la casa della sicilianità in cucina, mentre I Grusoni è luogo del gusto informale, tra griglia, crudi di pesce e pizza. A I Russuri si sosta per un calice in giornata o al tramonto, mentre all’elegante I Faraglioni si può indugiare fino a tarda sera tra un dram e un long drink. Serve altro?

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di Eugenia Torelli

PRAIA ART RESORT

Isola di Capo Rizzuto (Calabria)

Mare, argilla, legno, macchia mediterranea: al Praia Art Resort di Praialonga sono campiture di un quadro che ruba una dimensione, facendosi spazio godibile del lusso e del relax, dimora diffusa abbracciata dalla Riserva Marina di Isola Capo Rizzuto. Tra tuffi in piscina e in spiaggia, il palato trova ristoro nella cucina dell’Osteria del Mare e dello stellato Pietramare Natural Food, dove le ottime materie prime locali narrano l’essenza dell’anima calabrese. Anima che rivive anche nelle creazioni liquide di Massimo Cavallaro, che firma tra gli altri l’Abrakalabria, twist sul Mojito con liquore alla liquirizia Abracadabra del Vecchio Magazzino Doganale, zucchero grezzo, lime, tonica e foglie di menta glaciale.

BORGO EGNAZIA

Savelletri di Fasano (Puglia)

Hotel? Non proprio. A Savelletri di Fasano, sulla costa adriatica del brindisino, entrare a Borgo Egnazia significa ritrovarsi in un racconto dedicato alla Puglia. Sessantatré camere, 92 abitazioni e 28 ville indipendenti, tra archi, tetti e mura candide come farina, dove i sapori regionali sono esaltati dai ristoranti guidati dallo chef Domingo Schingaro. Si va dallo stellato Due Camini fino al Cala Masciola sulla spiaggia privata, passando per il più rustico La Frasca e non solo. Il paradiso per gli amanti del bere autoctono sono i bar, in cui i sapori locali diventano arte liquida da gustare e apprendere, grazie ai Drink Labs che propongono corsi di miscelazione. Mentre ci pensate, potete provare un Egnazia Vermouth Rosso, liscio o in un Negroni coi profumi della Valle d’Itria.

7 PINES RESORT

Baja Sardinia (Sardegna)

Sei chilometri. Sono più o meno la distanza tra Costa Smeralda e Baja Sardinia. Qui vicino, circondato dalla vegetazione e rivolto verso l’arcipelago della Maddalena, si trova un luogo in cui il lusso diventa esperienza lenta e informale, fatta per vivere il territorio. Il 7Pines Resort (Destination by Hyatt) coccola gli ospiti con due piscine, tre ristoranti, spa, beach club privato e, ovviamente, i bar. Tra questi, il Capogiro è la nostra meta e per questa stagione ha pensato bene di proporre un tour dell’isola in tre signature cocktail. Un consiglio? Partite per il Campidano: liquore alla bottarga, Rena 41 Gin, basilico, sedano, succo di lime e sciroppo di cocco. Buon viaggio.

POGGIO AI SANTI E BAR’BQ AGRICOLO IL SAL8 San Vincenzo (Toscana)

Non spiaggia, non mare, ma una deviazione in quella campagna bella e disinvolta che respira aria salmastra nell’entroterra livornese. In collina, a due passi da San Vincenzo, Poggio ai Santi è un relais dall’anima contadina, dove i prodotti dell’orto e dell’aia trovano felice approdo nella cucina del ristorante Il Sale, sotto l’attenta cura del cuoco giapponese Shimpei e della compagna Sayuri, innamorati di questa terra. Country-chic nella veste, edonista green nell’anima, il Bar’BQ agricolo Il Sal8, guidato da Federico Diddi, trasforma le materie prime prodotte dall’azienda in magia liquida, accanto a un’ottima proposta di distillati. E qui la sostenibilità è un modo di essere, vero e profondo.

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THERASIA RESORT PRAI ART RESORT BORGO EGNAZIA

SPLENDIDO BELMOND HOTEL

Portofino (Liguria)

Affacciarsi sulla baia di Portofino e godere dello stesso incanto di cui hanno goduto Maria Callas, Grace Kelly, Charlie Chaplin e molti altri. Oltre che un tuffo nella bellezza, un soggiorno allo Splendido di Portofino è un viaggio nella storia che ha reso celebre questo angolo di Liguria. E proprio alla regione ospite rendono omaggio i piatti del ristorante La Terrazza, gustosi e raffinati come l’ambiente in cui sono serviti, tranquillo e romantico. Al bar, una ben fornita carta che spazia tra territorio e oltre confine, con una lunga selezione di liquori locali, grappe e una lista cocktail che si apre con proposte a chilometro zero, tutte da assaporare.

ST. REGIS VENICE

Venezia (Veneto)

Dalle sue finestre si è affacciato anche Monet per lasciarsi ispirare dai flutti del Canal Grande e chissà quanti altri come lui, soggiornando nella città d’acque unica al mondo che è Venezia. Tutto è arte all’interno del St. Regis Venice, hotel del gruppo Marriott, dalle finiture di pregio alle sculture in vetro realizzate dallo Studio Berengo di Murano. Ma l’arte qui entra anche nei bicchieri, grazie alle creazioni di Facundo Gallegos, che dirige il Gio’s e il più esclusivo Arts Bar. La drink list riproduce opere d’arte in forma liquida, dal Miracolo di San Marco del Tintoretto alla Nascita dei Desideri Liquidi di Salvador Dalì, passando per il murales a pelo d’acqua di Banksy. Mai bevuto un dipinto?

HOTEL EXCELSIOR VENICE LIDO RESORT

Lido di Venezia (Veneto)

Saltare su un taxi, fuggire dal caos del turismo veneziano e rifugiarsi in un angolo tranquillo di laguna, all’Hotel Excelsior Venice Lido Resort. Maestoso e imponente, posizionato tra la laguna e il mare, è qui che buona parte del jet set ama sostare nei giorni della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Al più informale Elimar Beach Bar & Restaurant o seduti ai tavoli dell’elegante Adriatico Terrace, il godimento gastronomico è assicurato, mentre al Blue Bar Dining si entra a pieno titolo nell’atmosfera da cinepresa. A un tavolo con vista o nella sala interna, si sorseggia un Martini sentendosi un po’ Sean Connery, tra luci soffuse, pianoforte e il rumore del mare in sottofondo.

GRAND HOTEL DUCHI D’AOSTA

Trieste (Friuli Venezia Giulia)

“Fabbricata di luce”. Aldo Palazzeschi descriveva così Trieste, meravigliosa città che con aura mitteleuropea domina il golfo a nordest dell’Adriatico. Ampia e solenne, piazza Unità d’Italia abbraccia l’orizzonte sul mare e qui si affaccia il Grand Hotel Duchi d’Aosta, dimora storica dal fascino sofisticato tra il moderno e la residenza d’antan. Per il palato è un paradiso che ruota attorno al bistellato Harry’s Piccolo, intimo salotto dell’arte culinaria aperto da Arrigo Cipriani nel 1972 e oggi guidato da Matteo Metullio e Davide De Pra. Il vicino Bistrò condensa la semplicità in eleganza, mentre l’Harry’s Pasticceria è un colpo alla gola prima di perdere la ragione tra i calici dell’Harry’s Bar.

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7 PINES RESORT
POGGIO AI SANTI SPLENDIDO BELMONDO HOTEL

LA SORRENTO COSMOPOLITA DELL’HOTEL MEDITERRANEO

Si può prendere ciò che è autoctono e valorizzarlo oppure si può fare il procedimento inverso, raccogliere quanto di meglio si trova in giro per il mondo e portarlo casa, per far evolvere ciò che già c’è in qualcosa di più grande. Entrando all’Hotel Mediterraneo di Sant’Agnello (NA), lungo la penisola sorrentina, si ha la sensazione che sia avvenuto esattamente questo. Il design, curato secondo l’estetica dell’hotellerie di lusso internazionale, è reso familiare dalle materie prime e dai colori tipici della Campania. Lava vesuviana, lampade che ricordano le lampare dei pescatori, separé che ne occhieggiano le reti e decorazioni tradizionali in ottone. Tutto senza abbandonarsi al folklore fine a sé stesso. Un linguaggio cosmopolita e allo stesso tempo sorrentino per una struttura che vuole essere l’espressione internazionale del proprio territorio. E lo fa da una posizione di tutto rilievo: in alto sulla scogliera, con discesa diretta a mare e area privata sulla spiaggia della Marinella.

Se la gola chiama, il Mediterraneo si fa letteralmente in quattro. Affacciato sulla piscina, tra palme e alberi di limone, l’Aqua Pool Lounge serve piatti semplici di mare, pizze cotte in forno a legna, snack durante il giorno e, soprattutto, vino e cocktail in pairing durante tutta la giornata. Al tramonto lo spettacolo è il mare e per goderne si può partire dall’Oltremare, il lounge bar con terrazza della lobby, dove stuzzichini raffinati accompagnano i signature cocktail di Arturo Iaccarino, in una proposta che punta a unire tutte le culture del mare nostrum. Una panoramica unica, invece, è quella offerta dal Vista Sky Bar, rooftop dall’anima internazionale che ai drink accompagna musica e finger food con ingredienti provenienti da tutto il globo. Al piano immediatamente inferiore si trova il Vesuvio Panoramic Restaurant, dal cui balcone si ammirano il golfo e il vulcano. Raffinatezza e una profonda adesione al territorio sono evidenti fin dalle prime pagine del menu, dedicate ai prodotti Dop e Igp del luogo. Mentre l’executive chef Giuseppe Saccone porta nel piatto ricette contemporanee e classici senza tempo, la giovane e appassionata sommelier Olimpia Pastore suggerisce sorsi indimenticabili, che vanno dal vino agli spiriti con piccole chicche selezionate a livello nazionale e locale, accanto ai distillati esteri.

C’è poi una nota a piè di pagina. La preparazione e il livello del personale non passano inosservati, così come la capacità di far sentire l’ospite a casa, senza invadenza, ma con cordialità e distensione. Non è poco.

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LA NOSTRA SCELTA HOTEL EXCELSIOR VENIC LIDO GRAND HOTEL DUCHI D’AOSTA ST. REGIS VENEZIA

MARTINI COCKTAIL SPECIALE PERCHÉ BEVIAMO IL

di Collettivo Dry Side

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QUANDO - E PERCHÉ - È DIVENTATO UN MITO ASSOLUTO?

Potrà sembrare banale ma il racconto del cocktail più iconico della storia, il Martini, non può che iniziare con la più semplice, eppure irrisolvibile, domanda: perché piace il Martini cocktail?

Ogni martiniano, ossia ogni accanito e appassionato bevitore di questo cocktail, si è sentito rivolgere decine di volte questo quesito nella vita e, con tutta probabilità, sarà rimasto spesso senza parole. Descrivere le ragioni che portano ad amare così tanto un drink tanto “sbagliato”, sbilanciato, forte e, a volte, anche quasi insapore è un’attività complessa che parte dalla descrizione di cosa sia un Martini cocktail, per arrivare a ciò che rappresenta, e ha rappresentato, nella storia e nella cultura occidentale.

Le premesse d’obbligo per avvicinarsi al mondo del Martini e dei suoi adepti sono perlomeno due: la prima è conoscerne la ricetta (se ne esiste una, spoiler), la seconda sono le sue inafferrabili origini. Partendo dalle base il Martini cocktail è un drink formato da una parte alcolica, gin o vodka, e, in proporzioni differenti, una parte di vermouth dry, entrambi lavorati su ghiaccio e serviti nell’iconica coppetta. A esser però del tutto onesti non vi è una sola ricetta di questo cocktail, semmai ne esistono infinite varianti, un caleidoscopio di ratio (ossia del rapporto matematico fra lo spirito ed il vermouth), guarnizioni e modi di bere questo miscelato, diverse e uniche per ciascuno dei suoi appassionati bevitori. Il Martini cocktail, il Dry Martini Cocktail, è, oggi, un capriccio di gin (se parlate a noi italiani) e vermouth, cui si aggiungono alcuni corollari come oliva, limone e, specie in passato, anche altro, come gocce di bitter aromatico. Il fatto, poi, che le proporzioni dei due ingredienti principali siano variabili come il clima, lo rendono il drink più sfaccettato e meno coeso della storia della miscelazione. Eppure da oltre un secolo è ancora qui a far parlare di sé, attirando – probabilmente anche generando – una precisa tipologia di suoi estimatori, i fantomatici martiniani, atipici e fuori dal tempo, come la bevanda che amano.

Un’essenza effimera che quindi, per sua natura, intriga ed affascina. Così come non può che ammaliare l’idea di un drink ancestrale. Non esiste infatti una data o una testimonianza scritta della nascita di questo drink, così com’è incerta l’etimologia stessa del suo nome. Sin dalla notte dei tempi il Martini cocktail è stato “un modo di bere” e al tempo stesso un modo di identificare sé stessi e gli altri. È forse in questa affermazione che si inizia a intravedere la risposta alla domanda che ha dato l’abbrivio alla nostra riflessione.

Ma qual è dunque la storia di questo Martini? Negli anni Venti e Trenta il sogno di americani ed europei è affrancarsi dalla tradizione. Ricercano il nuovo e l’Art Deco segna, o ridisegna, uno stile di vita improntato al lusso, al moderno.

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Non fu solo arte. Fu un modo per tornare a vivere fuori dal passato, finalmente nella modernità. Diceva Aldous Huxley in una intervista per Vanity Fair nel 1925: “Solo quello che è veramente nuovo, che non ha omologo nell’antichità, è veramente moderno”. Le linee geometriche con cui si presentano per esempio i gioielli, ne sono un piccolo esempio. Semplicità che, unita all’alto valore e all’eleganza delle forme, generano icone. Come icone diventano i grattacieli, il Jazz con la novità del ritmo sincopato, i businessmen in completo spezzato. Questo cambio di passo non coinvolge solo la moda, ma influenza tutto lo stile di vivere di quegli anni. Il Martini, nella sua coppa a Y non è da meno. Semplice, senza colorazioni sgargianti, è pressoché pulito, trasparente, fatto di pochi ingredienti, per questo sale nella scala di gradimento dei bevitori. Preciso, pulito, duro, come gli alti palazzoni in cui si beve, sulle note di Duke Ellington. Cos’hanno in comune? Sono nudi, con pochi fronzoli, bastano a sé stessi ed esprimono al meglio il senso di essere americani nel XX secolo.

Finito il proibizionismo e superata la Grande Depressione, il nostro cocktail consolida la forza della sua iconicità divenendo sempre più un prodotto mainstream. Complice – ci piace pensarlo – il presidente Franklin Delano Roosevelt che lo prepara per ospiti e amici alla Casa Bianca (pare anche male, ma questa è un’altra storia). Farsi un Martini a casa è, dunque, un gesto quotidiano come scaldarsi un toast. Nel salotto dell’americano medio, che a fine giornata rientra nella casetta in periferia, lontana dal centro, c’è sempre una brava moglie a miscelargli un Dry Martini. Le pubblicità dell’epoca sottolineano queste abitudini, i film di Hollywood le certificano e meglio le imprimono nella mente delle persone. Da lì in poi è solo un esercizio di stile personale. Ognuno diventa un sacerdote del Martini in casa propria, sempre pronto a officiare il rito come il primo grande sacerdote alla White House, FDR. Un’abitudine cui un buon statunitense non rinuncia facilmente. Hemingway per potersi bere il suo Martini ben freddo sotto il sole cubano, pare utilizzasse il contenitore delle palle da tennis per congelare l’acqua. Scrittori come “Papa”, giornalisti, gli stessi soldati di stanza in Europa, diffondono il rito americano. Il cinema, pensiamo a 007, gli dona un tocco glamour.

Certo, attraversa anni meno agevoli, dopo il periodo d’oro iniziato con gli anni ‘50. Subisce la contestazione dei figli dei fiori, che lo considera roba da vecchi. “I giovani non amano i Martini”, scriveva James Villas nel 1973 su Esquire. Però vive e prospera tra i colletti bianchi. Nel mondo della finanza si indurisce, la stessa coppa cresce, il vermut diminuisce fino a sparire. È un cocktail americano, che deve rappresentare al meglio la più grande potenza finanziaria del mondo, un proiettile d’argento dei ricchi e famosi, dei duri finanzieri, dei pubblicitari di Manhattan, ma disconnesso con le giovani avanguardie.  Quindi il risorgimento, con la riscoperta del vero American Bar, a opera di Dale De Groff e dei suoi ragazzi, che rispolverano il vecchio libro di

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IL COLLETTIVO DRY SIDE

Collettivo di liberi pensatori che usa dati e logica per analizzare e raccontare il mondo del bar. Un approccio ‘b side’ per spingere a riflettere e per gettare luce sugli aspetti male o poco narrati di questo settore. Un metodo per arricchire il dibattito sugli aspetti del bar che hanno influenzato e cambiato la società. Un luogo aperto, plurale, non ideologico e non identitario per stimolare competenza e responsabilità. In altri termini: il Dry Side.

ricette dell’800 del professor Jerry Thomas. Il Martini si riavvicina alle origini, alle proporzioni di gin/vermut in parti uguali; ma qui siamo già alle storie di barman e bartender, troppo spesso lontane da quelle dei martiniani. Per questi appassionati, però, per gli amanti del Dry Martini cocktail, niente paura, l’icona resta salva dalle stravaganze. I cultori li ha un po’ ovunque, anche perché, diciamocelo pure, con quella ricetta che ognuno si personalizza, è un cocktail senza autore, un miscelato che riflette l’ideale della modernità avanguardisticamente, portando con sé l’irrefrenabile bisogno di vivere guardando avanti.

Bene, questo breve excursus storico ha così forse trovato un’altra caratteristica del nostro drink protagonista: affascinante, personale e iconico. Ma forse, a guardar bene, c’è anche di più. Parlando con un martiniano proprio di queste questioni, una volta ci disse che il Martini è un drink maturo: “Non puoi affacciarti al mondo dei cocktail e come prima cosa provare un Martini, sarebbe come aver appena imparato a leggere e approcciare Eco o aver appena preso la patente e come prima macchina pretendere di guidare una Ferrari. È ovvio che il risultato finale non sarà gratificante”.

Il Martini è un drink che richiede una certa coscienza di sé stessi in quanto persone prima ancora che in quanto bevitori. Capire il momento, il posto, il bartender, la compagnia, il bicchiere, la musica che ti circonda, l’arredamento del locale, l’atmosfera. Molto poi dipende da con chi e come lo si beve perché il carattere, il carattere del Martini, cambia totalmente. C’è quello bonario e guascone del Martini bevuto fra amici, quello ammiccante e sexy del Martini di coppia, e poi c’è quello solitario, che può essere pensieroso o riflessivo, defatigante o esistenzialista, squarcio sulla tela di una brutta giornata o esperienza mistica che ti fa immaginare seduto al bar chiacchierando insieme agli altri grandi martiniani della storia come Hemingway, Winston Churchill, Ian Flaming, Josephine Baker, Zelda Fitzgerald, François Truffaut ed Umberto Eco. Il tutto per bere Martini e, mentre lo si beve, provare la piacevolezza di quella fredda lama tagliente che ti scende giù per la gola. Visto in quest’ottica arrivare ad apprezzare il Martini, ad apprezzarlo così, significa aver compiuto una sorta di rito di passaggio; è un po’ capire, o pensare di aver capito, il senso delle cose, è entrare nell’età adulta e, al tempo stesso, in una ristretta cerchia di eletti.

Insomma quindi, beviamo Martini perché è buono? Ha un gusto secco, per percepire sentori di qualcosa serve un impegno notevole, soprattutto se troppo gelato (eppure così deve essere bevuto), quindi, no, non lo beviamo per il gusto, ma per tutto quello che rappresenta. Decennio dopo decennio si è caricato di qualcosa, di significati che lo hanno rafforzato e a volte indolenzito come icona, ma sempre icona è rimasto. Unico, in questo, nel suo genere.

Probabilmente non smetteremo mai di parlare di Martini, finché ci sarà gente a berlo e gente che guarda gente che lo beve, ammirata. Il fascino continua.

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NESSUNO METTE UN IN UN ANGOLO MARTINI

“Nessuno può mettere baby in un angolo…” Sì, cambiamo parole e filosofia, dalle mitiche Shaken, not stirred di James Bond a quelle di Johnny Castle, overture di una delle scene cinematografiche più emozionanti e travolgenti di tutti i tempi.

Cosa ha che fare Johnny Castle con il Martini? Tanto, credeteci. Relegato al ruolo di aperitivo, il Martini è come un caratterista nel cinema: si bravo eh, ma limitatamente a quella scena minore, e sempre la stessa. Mario Brega il romano ruspante, Harry Dean Stanton il dissociato e alienato americano medio, Tiberio Murgia il siciliano geloso. Il Martini, l’aperitivo pre-dinner!

E se per alcuni degli attori citati, quella di interpretare un personaggio ad honorem per tutta la vita è stata la fortuna e in qualche modo l’unica forma di esprimere il proprio valore, per quanto concerne il Martini se la catena stretta non è stata un vero e proprio ostacolo, almeno per i suoi estimatori, certamente è stato un limite espressivo importante.

Un Martini, anzi, un Dry Martini, quando è fatto a modo, ha giurisdizione in qualsiasi momento della giornata. Freschezza, intensità alcolica e immediatezza, sono i tratti somatici che lo rendono unico quanto versatile. Con gli sci ai piedi, o con questi ultimi nudi a Central Park, a pranzo in campagna o avvolti da una sera stellata in riva al mare, sei i Dry Martini, sei i piatti scelti per spezzare le catene. “Nessuno può mettere il Dry Martini in un angolo…”

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di Francesco Bruno Fadda e Collettivo Dry Side

CHORUS CAFÈ - ROMA ART BAR - FIRENZE

Un Bond Bar “James Bond Recommends” che si rispetti, non può che offrire un’esperienza-martini di livello. L’ambiente ricorda i grandi saloni delle feste della Vecchia Europa: scintillante, a tratti regale. Il cocktail Martini di un maestro come Massimo D’Addezio è una garanzia, il suo marchio di fabbrica. Secco come deve essere. Freddo come deve essere. Sospeso in quell’eleganza alla mano e divertente come solo un grande Martini può.

IL PIATTO: Mugnaia

Scatto (Torino)

Leccia marinata sotto una pasta di limone servita con leche de tigre - preparazione peruviana -, crema di latte aromatizzata con succo di limone e foglie di limone essiccate. Un altro piatto delicato nella materia, intenso nei sapori firmato dalla cucina dei Costardi. Amore e q.b. di tecnica. Boccone e sorso, come l’epica cavalcata del Cagliari di Gigi Riva. Tutto perfetto.

Inusuale, stravagante, unico. Vale per il suo Martini, come per il proprietario che lo prepara, per tutti quelli che lo conoscono è soltanto “Paolino”. L’Art Bar non è, all’apparenza, una di quelle mete da martiniani. Ha le sembianze di un classico pub, con tipica frequentazione di stranieri, ma cela per i bene informati un autentico gioiello: il Martini di Paolino. Il gin esce direttamente dal pozzetto, fa un veloce giro nel ghiaccio – giusto per ‘stemperare’ – e voilà, una spruzzata di vermut, con un accompagno di olive verdi, nere e cipolline.

IL PIATTO: Risotto, pomodoro verde, lumache e caffè Somu (Baja Sardinia)

Sono gli ingredienti stessi a gridare con veemenza la necessità di un abbinamento intenso, fresco e sapido, anche se ci trovassimo a Cortina il 31 dicembre. Figuriamoci accomodati il 15 agosto su una terrazza a strapiombo sul mare. Questo è probabilmente una delle ricette più intense, confortevoli e armoniche di Salvatore Camedda. Se il pairing è concorrenza tra solido e liquido, qui il Martini - o solo un buon gin - è stato di necessità di godimento completo.

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NOTTINGHAM FOREST LONDRA PALACE

Meta storica milanese, che mantiene intatta sia la fama che la fila all’entrata. Altro dettaglio, degno di nota, è la presenza fissa del patron, Dario Comini, che non si assenta mai dal bancone per servire i clienti, nuovi e vecchi. Divenuto famoso per una miscelazione molecolare – l’ha praticamente inventata – Dario e lo staff, gentile, accolgono gli avventori in un ambiente caldo, arredato da legno e bottiglie ovunque. L’occhio curioso potrà divagare su centinaia di etichette che probabilmente non troverà altrove. I cocktail molecolari colpiscono l’occhio, prima ancora che il palato, frutto di studio e fantasia. Il classico Martini cocktail è una punta di diamante, praticamente congelato. Difficile trovarne uno così freddo a Milano.

IL PIATTO: Spaghettini all’acqua di limone, olio e provolone

Antica Osteria Nonna Rosa (Vico Equense)

In un caso eccezionale come questo, dovete solo sedervi a tavola, ordinare un Martini di Comini e gli spaghettini di Guida. Poi in rigoroso silenzio ascoltare lo scambio, la connessione tra i quattro, Martini, Spaghetti, Comini e Guida. Sentirete il suono dei sapori che si intrecciano, le vibrazioni della bellezza, le note appaganti delle tradizioni. Sorso dopo sorso, boccone dopo boccone.

Passeggiando lungo Venezia per la riva degli Schiavoni, appena usciti da Piazza San Marco, il Londra Palace è un ristoro confortevole per gli amanti della buona miscelazione. il bar manager Marino Lucchetti, è meticoloso nella preparazione di grandi classici che ha saputo rivedere col suo tocco personale, apportando un deciso miglioramento nel gusto. Tutto qui sembra essenziale, non ci sono fronzoli, dagli arredi ai drink. Filosofia che si applica anche al Martini cocktail, perfetto, glaciale, pulito. E uno non basta mai…

IL PIATTO: Riso burro affumicato, anguilla e Mela Verde. In Viaggio (Bolzano)

Lo chef non sarà felicissimo di questa proposta, Claudio Melis è grande appassionato e profondo conoscitore di vino. Ma questo piatto, come molti altri del suo menù, sembrano creati appositamente per essere accostati con drink Dry o persino con distillati in purezza. La mela verde dà acidità e spessore, il burro affumicato cremosità e veemenza, l’anguilla delicatezza e succulenza. Decidete voi se questo concerto si può interrompere con un oboe - il vino -, oppure con la forza elegante di un violino - il Martini -.

Roma, centro storico, nei pressi di Piazza di Spagna. Siamo in quella zona della Capitale, piena di locali acchiap-

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ANTICO CAFFÉ GRECO ATRIUM BAR FOUR SEASON

pa turisti che prediligono quantità a qualità. Il Greco è una delle poche eccezioni. Fa sempre piacere sedersi nelle sale frequentate dai più grandi intellettuali dei secoli scorsi. I quadri alle pareti testimoniano il passaggio storico di questo valore culturale. Si tratta di uno dei locali più antichi del mondo (fondato nel 1760), che si trascina dietro questa aura di sacralità, che si mescola alla vivacità dei turisti di ogni parte che lo considerano una meta da vedere, quasi fosse una galleria d’arte. Il suo Martini è ben servito, in una elegante coppa, accompagnata da un buon food.

IL PIATTO: Capellino d’ostrica e bacche di Goji.

Dattilo (Strongoli)

A voler citare Stanlio e Ollio, da Dattilo si sta come due piselli in un baccello. Cucina rigorosa e tecnica al di là della vetrata. Rilassata, appagante e allegra al tavolo. Tanti i piatti che potevano farci gioco in questo specifico abbinamento. Per dirla tutta, l’intero menù di Caterina Ceraudo presterebbe il fianco a freddi Martini, ma i Capellini d’Ostrica e Bacche di goji raccontano una storia. Da un lato uno dei Martini più classici di Roma, dall’altro un piatto che parla di profondità del mare e super food, delicato lì dove il Martini è strong, ed estremamente contemporaneo quando si specchia in un grande classico. Ma si sa, gli opposti si attraggono.

vole sensazione che suscita a prima vista è frutto di oggetti (dall’arredo alle linee del bar) di persone e di concetto. Tutto questo genera un’immagine iconica di questo tempio del bar, dove sostare il più a lungo possibile. E così, sospesi tra il timore e l’estasi, è possibile bere un martini (o un mini Martini) in coppette a Y (un must) congelate. Qui la tecnica accompagna l’eleganza: il cocktail è letteralmente congelato al momento con l’azoto liquido. Bello da vedere, bello da bere.

IL PIATTO: Lumache, lattuga arrosto e casuaxedu

Arieddas (Sanluri)

Totò e Peppino, Tognazzi e Vianello, Gianni Agus e Paolo Villaggio, coppie indimenticabili, pilastri del teatro e della tv in bianco e nero. E chi fosse dei due il capocomico e chi la spalla, non è mai importato granché a nessuno. Colpo di genio, sguardo d’intesa, azione. Godimento del pubblico, applausi. Dal teatro alla cucina il passo non è brevissimo, ma da qualche settimana, una nuova coppia sta calcando il palcoscenico gastronomico della Sardegna. Quello colorato, gustoso, contemporaneo di Arieddas. Loro sono Piergiorgio Parini e Francesco Vitale e questo piatto è il frutto della loro interazione armoniosa. Lumache per il corpo e il leggero amaricante, la lattuga arrosto per la freschezza, il colore e un sinuoso fumé e infine il casu axedu a firmare l’acidità. Come la mettiamo la mettiamo, chiamiamo un Martini e ci piace vincere facile.

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La bellezza senza tempo

SANTA COCKTAIL CLUB A FIRENZE

Siamo a Firenze, al Santa Cocktail Club, e basta uno sguardo indirizzato verso la piazza di Santa Maria Novella e l’inconfondibile facciata della Basilica, per rendersi conto che davvero da queste parti esistono pochi scenari in grado di competere, esteticamente parlando; soprattutto se la volontà è quella di sedersi ad un tavolo, godersi un buon drink e vivere il momento d’oro della miscelazione nel capoluogo toscano. Si perché, guardandosi intorno, anche al netto del Locale, la cui fama splende dall’alto della sua posizione nella The World’s 50 Best Bar, la scena è piuttosto vivace e racconta di talenti che non si nascondono solo nella rutilante movida notturna d’Oltrarno, ma anche in luoghi in grado di offrire eleganza, servizio, contenuti gastronomici di rilievo e competenza. Ed è proprio il caso di Santa, un indirizzo nato negli anni difficili del Covid, che in breve tempo ha saputo imporsi diventando un brand, tanto da essere esportato nell’hotellerie di lusso a Villa Cora (poco fuori il centro storico di Firenze), a Roma (sul rooftop all’interno dell’Hotel L’Orologio), e a breve in quel di Venezia, in un luogo ancora da svelare. Ma non è escluso che anche in questo caso si tratti di in un albergo, viste le caratteristiche della proposta, sempre elegante e centrata sull’unicità di un tradizione che si nutre di modernità, quindi perfetta per una clientela di viaggiatori cosmopoliti, così come per i curiosi frequentatori delle notti urbane alla ricerca di twist e variazioni sul tema.

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dell’eleganza (del servizio) e della creatività

La formula, in centro città, è senza dubbio vincente e rimanda in molte occasioni alla storia delle Arti e dei Mestieri fiorentini, senza lavorare su uno storytelling eccessivo. È il caso di un signature della casa ormai ben conosciuto, il Dr. Punch, ispirato agli speziali che un tempo utilizzavano le spezie arrivate da ogni parte del mondo per scopi alimentari o medicinali; la sua realizzazione occupa la bellezza di 36 ore anche se, ovviamente, non è questo il tempo di attesa al tavolo da parte del cliente. Il Bar Manager Simone Covan, coadiuvato dai bartender Marco Scardino, Christian Borrelli, Luca Zetti e Francesco Paoletti, ha immaginato di immergere le spezie nella parte alcolica per aromatizzare la miscela, e solo dopo 24 ore di lenta macerazione si passa a un processo di milk-washing dove il latte e il limone creano un caglio, filtrato tramite coffee bag, che porta alla chiarificazione del cocktail. Il risultato sarà un drink che, pur con una marcata nota alcolica e un’importante presenza di rum , risulterà piacevolmente fresco, con frutta e spezie che hanno un ruolo tutt’altro che marginale, con ananas, cannella, chiodi di garofano e lime in bella evidenza. Invitante è anche il Welcome to Tijuana, coraggiosa interpretazione anch’essa dedicata a speziali e medici, dove la tequila alle bacche di goji incontra il vermouth infuso alla canapa e si spinge ancor di più verso tipicità messicane con il Tepache di ananas e peperone. La scelta dei cocktail da parte del team di Santa ha sempre un approccio finemente sartoriale, che va dalla scelta di liquori e distillati non convenzionali (indice di curiosità, passione e della volontà di lavorare fuori dal coro) alla ricerca del bicchiere idoneo e del dettaglio che fa la differenza.

È una miscelazione che tende spesso a portare l’ospite in un mondo esperienziale avvincente, dove il pairing e le suggestioni legate alla ristorazione lasciano sempre buoni ricordi. Vedi il caso di un drink giocato su più livelli sensoriali come il Truffle penicillin, che vive delle note smokey dell’aria di Lapsang Souchong e dove il blended whiskey è a suo agio con lo sciroppo di miele al tartufo e zenzero. Forse non per tutti, ma di grande impatto gustativo e divertente nell’abbinamento non solo con i molti finger a disposizione (c’è una buona proposta veg), ma anche con una serie di piatti che si muovono tra la ricerca e il comfort. Come dire che, se la semplicità e il gusto sono il punto di partenza della serata, la cucina gioca benissimo le sue carte anche su preparazioni di buon senso gastronomico comprensibili a tutti. Dai fusilli cacio e pepe al polpo. Infine un consiglio per chi si siede in piazza per un cocktail in questi giorni: uno di più gettonati è il Conte Modenese, twist on classic negroniano con lampone, Bulldog gin infuso ai lamponi, Bitter Campari, Cinzano Vermouth 1757 extra-dry, shrub balsamico (di Casa Rinaldi) sempre al lampone e Italicus Bitter alle mandorle. Un bell’esercizio di stile da sorseggiare lungo l’intera stagione estiva.

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ARIANNA PORCELLI SAFONOV VODKA O CAMPARI? NON SCHERZIAMO!

Graffiante, ironica e autoironica, Arianna Porcelli Safonov non è certo un personaggio da gastrofighettismo e toni patinati. Il politically correct è da sempre ostaggio della sua verve urticante (a tratti ustionante) che non risparmia niente e nessuno. Nemmeno gli spirits, che non vengono necessariamente incensati nell’intervista che l’attrice e autrice ci ha voluto concedere, rispondendo senza filtri. E mentre la nostra redazione spera di poter fare da trainer in vista di un futuro spettacolo su liquori e distillati, Arianna - forte della consapevolezza di donna contemporanea - rivela in poche battute fulminanti piccoli segreti di gioventù e disavventure che… a chi non è mai successo nulla da dimenticare il mattino dopo?

Arianna, qual è il tuo rapporto con gli spiriti?

“Non mi piace risvegliare i defunti, ho già un gran daffare coi vivi”.

Qual è il tuo primo ricordo di una esperienza “spiritosa” e che strascichi ha lasciato?

“Quinta liceo, anzi terzo anno di classico. Lo studio, in quel 2000, non era in top-list: ero appena diventata maggiorenne, mi ero accorta di essere carina. Il pomeriggio che uscirono i quadri incontrai dei compagni di classe che mi dissero “Arianna, bocciata!” , ovviamente me lo aspettavo ma le nostre reazioni di fronte a una brutta notizia sono spesso inaspettate. Così, alle 16 di quel pomeriggio, presi quei compagni e li trascinai al supermercato dove comprai sette bottiglie di Vodka Keglevich alla pesca, sette come il mio sette in con-

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di Giambattista Marchetto

dotta. Portai i compagni in cima ad una collina, a Roma Nord, all’Olgiata e le bevemmo tutte, rigorosamente calde, con quaranta gradi all’ombra. Ancora vedo gli strascichi di quella esperienza”.

Ci sono stati anni o momenti in cui hai trasceso con gli spiriti?

“Chi beve spiriti senza abitudine, trascende sempre”.

Ci sono invece ricordi particolarmente romantici o sentimentali (in senso lato) che leghi agli spiriti?

“Il suono degli anelli di mia nonna russa, Irina, che tintinnano contro il suo bicchiere preferito. Oggi possiedo io quei bicchieri, gli anelli li ha rubati mia zia”.

Ascendenze russo-milanesi: vodka o campari?

“Vodka senza un attimo di dubbio, non scherziamo”.

Ricordo un tuo pezzo sui vini naturali, niente sugli spirits?

“Devo documentarmi, come faccio sempre, prima di accanirmi contro un settore. Ricordo una sera a Palermo, durante un festival di vini naturali: portai il mio spettacolo dedicato a quel mondo che amo tanto ma un produttore non apprezzò qualche battuta e si mise a gridare nel buio del Teatro: “Vai a scopare!!”. Fu così avvilente rendersi conto che se la prendeva direttamente con le mie passioni che dovetti interrompere lo spettacolo. Da quel giorno siamo diventati amici e, secondo me, mette meno porcherie nei suoi vini. Sono pronta al pezzo sugli spirits, basta che mi facciate vivere esperienze degne almeno quanto questa”.

Siamo ciò che mangiamo, ma anche ciò che beviamo?

“Assolutamente. Tutto ciò che ingeriamo ha un impatto importante sulla nostra salute e perciò serve cultura: dobbiamo istruirci per difenderci dagli impostori, da chi ci dice: “Questo è fatto in casa” e poi la casa è una gigantesca fabbrica. A febbraio debutterò a teatro con uno spettacolo dedicato proprio alle armi da conoscere per difendersi nei ristoranti, nei club e alle degustazioni. Speriamo serva!”.

Virando sul serio (ma non troppo), come vedi la polemica sulla demonizzazione dell’alcol?

“Mi pare corretto ricordare che l’alcol sia una delle principali cause del nostro invecchiamento precoce, mi pare ingiusto che lo Stato incassi denaro su tali sostanze e ne proibisca altre secondo il proprio interesse e non secondo la nostra salute. Per esempio, la tv è ancora statale nonostante sia nociva”.

Un tempo gli spirits erano rock e trasgressivi, adesso son diventati fighetti?

“Oggi quasi tutto è fighetto. Per fortuna il fegato è rimasto umile”.

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Da fustigatrice di preconcetti e luoghi comuni, quali sono i preconcetti e luoghi comuni sugli spirits che ti risultano urticanti?

“Da proverbiale ignorante, non capisco l’abuso di ghiaccio di cui questo settore è saturo: perché vi imbottite di ghiaccio? Pensate di poter fare crioterapia endogena?! Ghiaccio, cannucce e barbe da mormoni di certi bartender rovinano la bellezza di un mondo che merita di esser lasciato ruvido”.

E quali invece ritieni siano fondati?

“Non esistono preconcetti fondati, ma io ne ho uno: che la maggior parte delle persone che chiedono un gin tonic ignorano cosa sia e come si ottenga un gin e la maggior parte di quelle persone, dentro di sé, si sente tonica”.

Quanto secondo te gli spirits possono raccontare una cultura o un territorio?

“Avanzo l’ipotesi che qualsiasi materia prima venga rispettata e trasformata nel proprio territorio di origine, abbia il diritto ed il dovere di raccontarlo. Tuttavia, se funziona come più o meno funziona in ambito enologico, esistono esperimenti talmente virtuosi da farci dimenticare il desiderio di sentire un territorio dentro al bicchiere”.

Quanto vale la tradizione che si esprime nella distillazione?

“Non saprei rispondere. Se per tradizione intendiamo una ricetta che ha sempre funzionato, direi perché non onorar-

la?! Penso al Barolo Chinato, anche se qui siamo nel mondo del vino”.

Come vedi la mixology estrema (o estremista) di oggi? Ti piace? Ti fa ridere? Ti imbarazza?

“Mi imbarazza tutto ciò che estremo”.

Se dovessi immaginare (o scimmiottare) la ricetta di un cocktail complessissimo per veri intenditori cosa ci metteresti?

“Un quarto di dignità, due di modestia e uno di buon gusto nella scelta musicale. Impossibile da bere, di questi tempi”.

Bere meno, bere meglio, è tutta fuffa? O ce la faremo ad alzare il livello rispetto allo sballo?

“Dovrebbe funzionare tutto con grande onestà: c’è gente che può bere perché è in grado continuare a vivere senza diventare molesta, perché è fornita di quel microchip lì. E poi c’è gente che deve bere aranciata”.

Lo sballo è una cosa giovanile o un groppo senza età?

Un giovane molesto mi dà molto meno fastidio di un coetaneo. Più si cresce, d’altronde, più la molestia alcolica è condita da ingredienti che coinvolgono anche stress emotivo; benvenuto lo sballo giovanile se diminuisce quello dei vecchi

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L’arte della produzione del rum e quella del mosaico si incontrano per celebrare 135 anni di eredità condivisa tra maestria artigianale e familiare.

Per maggiori informazioni: www.brugal-rum.com Bevi in modo responsabile.

DA GUSTARE, LEGGERE, ASCOLTARE, SAPERE

DA GUSTARE

CAPRICCIOSA DI MARE CON GIN TONIC

di Luca Pezzetta (Pizzeria Clementina)

È arrivata l’estate e la pizza (come nel resto dell’anno) non può certo mancare, soprattutto se possiamo giocare con gusti e sapori che rimandano alla tradizione senza snaturarla. Oggi si dice rivisitazione, ma noi preferiamo usare la parola creatività per descrivere la Capricciosa di Mare di Luca Pezzetta (Pizzeria Clementina – Fiumicino, Roma): prosciutto di tonno fatto in casa, bottarga di muggine, stracotto di datterino rosso e giallo, stracci di mozzarella, terra di olive e petali di carciofo alla Giudia.

Luca Pezzetta oltre a essere un abile lievitista è uno di quelli che da tempo gioca con gli abbinamenti senza esagerare, mantenendo in equilibrio i suoi salumi di mare (dal tonno allo spada ecc.) con una serie di ingredienti che puntano a conservare l’idea stessa di Capricciosa, portandola al mare.

Rimanendo in tema marino, abbiamo recentemente avuto modo di provare la sua Capricciosa con due gin tonic dal ricco sapore mediterraneo: l’U’Mauru Gin dalla Sicilia e il Ginepraio Mediterraneo dalla Toscana. Inutile aggiungere che davvero il lievitato sempre di più sembra essere lo sposo perfetto del Gin Tonic (altro che birra).

COSE

DA LEGGERE DA ASCOLTARE

NOMADE TRA I BARILI di Luca Gargano

Editore: Velier

Luca Gargano è l’imprenditore genovese che sta dietro a Velier, una delle più importanti società italiane indipendenti di importazione di alcolici. Ma Luca non è solo questo, il suo nome è da sempre legato a quello del Rum caraibico, eletto “Mejor experto del ron” dagli stessi produttori e più volte “Best Rum Influencer of the Year”. Gargano è un profondo conoscitore non solo del prezioso distillato ma anche delle rotte marittime che ci dividono dai caraibi e che lo hanno portato a scrivere questo libro. Il suo è un viaggio intimo che parte dagli anni settanta e arriva dritto al futuro prossimo venturo, raggiungendo gli angoli delle più remote isole e incontrando personaggi di ogni tipo (incluso Fidel Castro). Il suo non è solo un manuale di conoscenza, ma un vero diario su come si affronta con passione la vita sorseggiando Rum.

IL MONDO DEL RUM.

LA GUIDA TECNICA

PER ORIENTARSI

NEL MONDO DEL RUM

E DELLA CACHAÇA di Leonardo Pinto (Tecniche Nuove)

Per tutti gli appassionati del tema, questo manuale di Leonardo Pinto è un vero e proprio viaggio nella conoscenza. Dalla storia del Rum alla sua influenza e al legame con tutta la la cultura mondiale, tutto attraversando vari ambiti. Un libro importante per chi vuole davvero conoscere e approfondire tutto il percorso della creazione dalla canna da zucchero all’invecchiamento, passando per imbottigliamento e distillazione. Un percorso ricco di aneddoti che si conclude con vere e proprie schede degustative e la preparazione dei cocktail a base rum.

POGUES Rum, Sodomy And The Lash

L’attitudine punk, la voglia di bere qualcosa di forte prima di ogni concerto, il loro legame con la terra e il loro spirito assolutamente autoctono fa dei Pogues uno dei gruppi che qualsiasi appassionato di distillazione deve conoscere e scoprire. Un gruppo figlio degli anni ’80 ma mai passato di moda, nato dalle varie esperienze (anche alcoliche) dei loro componenti e soprattutto da Shane McGowan, personaggio ribelle e scomodo che ha fatto della sua bruttezza un vanto e del suo atteggiamento riot una vera e propria bandiera.

“Rum, Sodomy And The Lash” (il titolo la dice lunga) è il loro secondo disco, quello della vera maturità artistica, qui i Pogues dimostrano tutta la loro dimestichezza nel giocare a manipolare la materia folk, andando oltre alla rivisitazione dei classici irlandesi. Un album capolavoro dove trovano il loro suono definitivo in un ottimo mix di strumentazione acustica e ritmi forsennati e alcolici; e dove, soprattutto, trovano l’ispirata penna di MacGowan che mette giù testi in cui appare difficile distinguere e seguire le tracce che conducono alla modernità o alla storia. I Pogues danno così voce ad un’infinita schiera di “beautiful losers” a cui prima di loro solo Tom Waits o il primissimo Bruce Springsteen avevano dato tono e voce. Un album monumentale, da ascoltare con in mano un buon whisky o rum agricolo in una serata estiva, con il cuore rivolto all’Irlanda ma riportando a casa quell’atmosfera e quella leggerezza alcolica che solo loro hanno saputo interpretare così bene.

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COSE

CARAIBI SULLE TRACCE DEL RUM

ITINERARI E CURIOSITÀ ALL’OMBRA DEI PIRATI

Per chiunque ami il mare, il sole, le spiagge semi deserte e l’acqua cristallina, esistono al mondo pochi posti da sogno come i Caraibi. Un luogo, tanti luoghi, ma soprattutto per noi che oltre al mare amiamo (e molto) anche i distillati i Caraibi sono la metà perfetta. Barbados, Martinica, Guiana, Cuba, Porto Rico, Nicaragua, Trinidad o Colombia sono le rotte che portano alla coltivazione della canna da zucchero prima e al Rum poi. Abbiamo tentato di stilare una sorta di percorso cognitivo che possa essere utile a chi vuole intraprendere un vero viaggio di conoscenza e consapevolezza sulle differenti tipologie di Rum ma anche di luoghi, spiagge e itinerari estivi.

Per prima cosa cerchiamo di capire come sono fatti e come muoversi ai Caraibi, perché va anche ricordato che sono composti da quasi cinquemila isole, ricche di scogliere e barriere coralline (andiamo li apposta no?), un vera e propria sfida per marinai. Se fossimo in mare provvisti di una bella barca, probabilmente una delle prime tappe sarebbe…

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SAPERE
DA
di Paolo Campana

Le Isole Vergini

Le BVI o Isole Vergini Britanniche sono dei veri e propri paradisi tropicali all’altezza di ogni cliché. Isole incantevoli, mari blu, spiagge da sogno e alcune ottime strutture per i velisti. Sono composte da un arcipelago di circa sessanta isole, poco distanti l’una dall’altra con brevi distanze (da fare ovviamente via mare), i porticcioli e i porti sono abbastanza simili a quelli del nostro Mediterraneo.

Marie-Galante

Qui siamo a 30 km a sud della Grande-Terre di Guadalupa: Marie-Galante è un’isola di 158 km quadrati, accessibili solo tramite imbarcazioni; un posto in effetti poco visitato, che stupisce sia per la bellezza dei suoi paesaggi che per la ricchezza del suo patrimonio. Anche qui le spiagge idilliache sembrano uscite da una cartolina e gli oltre cento mulini presenti (non tuttti in buono stato) sull’Isola aggiungono un fascino tutto locale e un’atmosfera tranquilla; a tutto questo si aggiungono le distese di canna da zucchero per quello che era – e parzialmente ancora è – un luogo da Rum.

Rum consigliato: Rhum Rhum

Barbados e il Treno del Rum

Anche se in molti ne rivendicano la paternità e la storia è un po’ confusa, si dice che il Rum si nato proprio qui, al centro del Mar dei Caraibi. Qui si racconta di Rum (o Rumbullion) già alla fine del ‘600 e da allora ne è passato di distillato sotto i ponti. Oggi sono moltissime le piantagioni di canna da zucchero, mentre sono rimaste poche le distillerie attive, una in particolare ci ha colpito per il suo ‘Treno del Rum’ – stiamo parlando della St. Nicholas Abbey, che attraverso la conservazione della sua storia e del suo patrimonio storico-culturale ha messo in piedi un vero e proprio viaggio in treno della durata di circa un’ora con tanto di (sacrosanta) degustazione.

Le Isole Sopravvento e la Martinica

Uno dei luoghi classici per noi vecchi lupi di mare sono le Isole conosciute come Sopravvento: stiamo parlando di St. Lucia, St.Vincent e le Grenadine, Grenada e ovviamente la Martinica. Questa è una catena di isole che si estende a sud dell’arco caraibico. Spesso si parte proprio dalla Martinica per i tour tra le varie isole e si arriva alle Grenadine, con il loro fascino puramente caraibico sono un buon punto di arrivo. Ovviamente la Martinica ha per noi un fascino particolare anche grazie alla presenza del Rum St.James, la cui storia ha inizio nel 1765 quando il reverendo Edmon Léfebure, padre superiore dell’ordine dei Frères de la Charité, avviò la produzione di Guildive nella prima distilleria della storia situata a Trou Vaillant. La cittadina si trova alle pendici del Vulcano Pélé, dove il terroir vulcanico influisce da sempre sul corpo e la struttura dei migliori Rhum Agricole della Martinica. Oggi la distilleria Saint James ha piantagioni di canna da zucchero per un totale di 275 ettari, capaci di coprire la quasi totalità della materia prima necessaria a produrre i propri rhum agricoles. Come non partire subito?

Parliamo di una distilleria che ha una storia antica e che un tempo si chiamava Nicholas Plantation: una delle più grandi proprietà di Barbados, 415 ettari e una bellissima dimora in stile giacobino. Agli inizi degli anni 2000 fu acquistata dall’architetto Larry Warren che la ribattezzò St. Nicholas Abbey e restaurò tutta la proprietà includendo anche la ricostruzione della distilleria. L’impianto è stato totalmente progettato dall’artigiano tedesco Holstein, che ha costruito un vero alambicco-gioiello affettuosamente nominato “Annabelle”, composto da una caldaia e una colonna di rettifica. St Nicholas Abbey è una delle sole quattro distillerie dell’isola e durante gli anni ha mantenuto i tradizionali metodi di distillazione che hanno reso famoso il Rum di Barbados oltre 350 anni fa. Un posto unico quindi, arricchito dalla possibilità di viaggiare con il treno tra i paesini che circondano la distilleria, guardando il mulino a vapore e le piantagioni, sicuramente un modo interessante e diverso dal solito per vivere un posto magico come questo.

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LISBOA O TOUR DE

Ai confini dell’Europa e con lo sguardo rivolto sempre verso l’Oceano Atlantico, almeno sin da quando nei secoli scorsi le navi partivano dalla capitale alla scoperta di nuovi territori, il Portogallo è una di quelle mete turistiche non proprio convenzionali, che però negli ultimi tempi ha saputo diventare destinazione tra le più ricercate. Ed è proprio Lisbona, in questo senso, a raccogliere le attenzioni più importanti, grazie a un crogiuolo di moderno e antico che lascia a bocca aperta il visitatore, con i suoi palazzi imponenti che passano agilmente dallo stile manuelino alle ardite geometrie del padre dell’architettura portoghese contemporanea, Alvaro Siza. Una città di grande fascino dove convivono anime diverse, ben distinte a seconda dei quartieri in cui si mette piede, e dove spesso ci si sente parte di una piccola comunità come accade in altre capitali europee. In mezzo alle molte occasioni per un turismo non convenzionale, non mancano curiosità legate all’aspetto gastronomico e, per quel che ci riguarda nello specifico, al mondo del buon bere. Le ultime stagioni

TRAVEL

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di Gualtiero Spotti

hanno visto crescere esponenzialmente il ruolo della capitale nel panorama della cucina internazionale, a prescindere dai piatti storici di baccalà universalmente noti; unitamente anche il numero di locali dedicati alla mixology è cresciuto e molti di questi sono entrati a far parte di una movida sempre più vibrante e divertente. Ma andiamo per ordine e vediamo quali sono gli indirizzi da segnare sul taccuino se si capita da queste parti.

Quattro Teste

Nel vivace e centrale quartiere di Mouraria c’è uno degli ultimi arrivati nel mondo dei cocktail bar di Lisbona, che ha già saputo imporsi grazie a un proposta ammiccante che unisce due anime. Ovvero quelle della coppia formata dalla brianzola Marta Premoli e dal basco Alf del Portillo, i quali hanno imbastito un divertente menù figlio delle loro origini. L’esperienza, che sia al banco o ai tavoli di una piccola e accogliente sala, non può però non partire con un rinfrescante bicchiere di Zapiain, il sidro spillato direttamente da un botte (la kupela), alla moda dei Paesi Baschi, prima di passare ad assaggi più impegnativi. Dal Kalimotxo con vino Rioja, Coca-Cola, lampone, limone e sale, tra dolcezze e acidità in bella evidenza, al Navarrico, con liquore Patxaran ottenuto dalla macerazione della prugnola, Martini bitter e succo di arancia, per un esplosione di aromaticità con la frutta in bella evidenza. Di contro l’italico onore è salvo con l’altra parte del menu, dal quale scegliere, tra gli altri, l’Espresso Livornese (Havana 7, caffè e lemon zest) o il Nuclear Melon-Pesto Margarita, con tequila al pesto, il vegetale e speziato Izarra vert, melone e basilico. Quattro Teste è da pochi mesi uno dei Discovery della 50 Best Bar.

Rossio Gastrobar

Siamo nel regno della simpatica e sempre sorridente Flavi Andrade, barmaid di origini brasiliane, nominata per quattro anni, e vincitrice nel 2015, del Lisbon Bar Show. Ha saputo trovare in una delle terrazze più scenografiche di Lisbona (all’ultimo piano dell’Hotel Altis Avenida) il luogo ideale per

mettere nel bicchiere cocktail seducenti, capaci di raccontare la luce e la magia della città, ma anche con un taglio tropicalista divertente e mai banale. Oltre a molti classici di buon senso. Qui però si può puntare sull’Olympia, con Ojo de Tigre, vodka, vaniglia, maracuja e lime, sul Cacilheiro, con Matusalem Gran Reserva, ginja Espinheira, Carcavelos e King bitter, oppure dedicarsi al Beijo, con Martini Vibrante, Ysabel Regina, miele, zenzero e sesamo tostato. Sono sempre dolcezze e contrasti per un bere più giocoso perfetto per la stagione estiva, se vogliamo, che ben si sposa con i piatti che l’esperto cuoco Joao Oliveira serve in accompagnamento, utilizzando una grande materia prima su snack sfiziosi la cui qualità va ben oltre l’idea di un cocktail pairing da aperitivo , e che meritano una sosta ben più prolungata. Come si diceva un tempo, provare per credere.

Red Frog/Monkeymash

Un tempo erano due locali in vie diverse. Ora si trovano nello stesso edificio e a separarli è solo un parete che determina l’ingresso al Red Frog (anno di nascita 2015), lo speakeasy più celebre di Lisbona e l’unico locale portoghese a far parte della lista del 50 Best Bar; o al Monkeymash, estensione e ambientazione tropicale, anima sostenibile e zero waste come diktat imprescindibili per i cocktail, che prevedono lunghi passaggi in laboratorio. Come nel caso del Two Different, con cocco, sedano, cachaca e dry Madeira (con una preparazione che prevede passaggi di re-distillazione in Rotovap, sotto vuoto e centrifuga), o nel Mash Mash, tra una kombucha di zenzero e frutto della passione, tequila, mezcal e togarashi che giocano al palato tra spezie e fermentazioni. Al Red Frog invece, in una saletta raccolta più cozy e discreta, ci si diverte con un White Negroni (Nouaison Reserve, Chartreuse alla genziana e Mancino ambrato) o un Aviation (Tanqueray 10, Gin Raw Lavander e cordiale Purple Kale) e in un serie di twist che spingono in termini di umami. Come sempre le menti dietro entrambi i locali sono quelle di due visionari come Paulo Gomes e Emanuel Minez.

Gli altri: Cinco Lounge, Toca da Raposa, Café Klandestino, Hotel das Amoreiras Bar

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Tantura

Coppia nella vita privata e in quella professionale, Elad Budenshtin e Itamar Eliyahuo sono arrivati nel 2016 a Lisbona e hanno deciso di far crescere tra i vicoli del Barrio Alto il loro progetto di ristorazione; il locale è dedicato alla cucina del mediterraneo, con un focus specifico sull’area mediorientale e israeliana dalla quale la coppia proviene. Nasce così Tantura, dal nome di un antico villaggio di pescatori, un locale dove assaporare hummus, banitsa, pita, falafel, shakshuka, e piatti da condivisione al tavolo, con la consapevolezza di poter sempre affrontare un lungo viaggio che abbraccia diverse culture del cibo, dalla Tunisia all’Iraq, passando per la Bulgaria. Fino ai dolcissimi baklava e halva al momento del dessert. Da non perdere gli shots e i cocktails che lasciano spazio anche alle tipicità lusitane, come il liquore Beirao o la Ginja.

RISTORANTI

Encanto

Un ristorante vegetale firmato dal cuoco lusitano più importante, Josè Avillez, aperto nel marzo 2022 sulle ceneri del suo vecchio indirizzo bistellato Belcanto, quest’ultimo trasferitosi solo a qualche metro di distanza. La cucina, giocata elegantemente su un filosofia no waste che si accompagna a un servizio di sala ineccepibile e a un pairing tra vini e succhi, segue con giudizio un trend attuale anche qui sulle rive del Tago, tra verdure, legumi e fermentazioni. Il menù degustazione però abbraccia sempre i gusti di un ospite che non è strettamente veg, perché le proteine animali vengono adeguatamente rimpiazzate in un percorso avvincente che sa concedersi digressioni di alta cucina a tutto tondo. Come nel caso del Riso con tartufo nero, asparagi e burro di latte di pecora o nell’ottimo dolce di Meringa con crema al pino e kumquat. Poi, per chi vuole addentare carne o pesce c’è sempre il vicino Belcanto…

O Frade

Un ristorante di tradizione, che nasce da una famiglia di cuochi e produttori di vino dell’Alentejo, e oggi rappresenta uno degli indirizzi più interessanti in città per “assaggiare” la memoria portoghese mescolata a intuizioni più moderne. Intorno al counter di un piccola sala, a stretto contatto con la cucina, o in un spazio esterno a pochi metri dal Mosteiro dos Jeronimos, nel quartiere di Belem, il giovane cuoco Diogo Carvalho si destreggia tra Stufati di piovra e fagioli, deliziose Tartare di carne, e Cannolicchi nello stile Bulhao Pato, ovvero con coriandolo, limone e aglio. O Frade unisce il piacere della convivialità della classica tasca portoghese con alcune peculiarità enologiche da sottolineare, come il vino in anfora della casa e gli ottimi sparkling firmati da Filipa Pato.

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Planto

In attesa di un nuovo ristorante, la cui apertura è prevista per questo autunno, il cuoco trasmontano Vitor Adao lo si può incontrare da Planto, estensione prevalentemente vegetale della cucina di Plano, il suo primo ristorante nel quartiere di Graca. Si tratta di un all-day dining (dalle 9 del mattino all’1 della notte) dove si passa agilmente dalla colazione al brunch, dalla merenda alla cena, mantenendo l’impronta naturale delle preparazioni, con piante, radici e verdure sempre in evidenza. Anche nella brillante proposta di cocktail dell’ottimo miscelatore ucraino Kostyantin Hutnyk tra classici e twist. Nel quartiere vivace di Cais do Sodrè, ecco quindi una cucina di identità, carattere e molto diretta dove non mancano neanche hamburger, derive asiatiche (vedi il pad thai), il pollo bio alla griglia, crocchette gli spinaci e bolinhos di baccalà. In un ambiente dai toni tropicali e ricco di piante.

Gli altri:

Taberna do Calhau, Marlene, Sàla, Fogo, Brilhante

DOVE DORMIRE

Lisbona negli ultimi anni ha praticamente decuplicato la sua offerta nell’ospitalità, a tutti i livelli, bed and breakfast e pensioni comprese. E non passa mese, ancora oggi, che non nasca un nuovo albergo, per un mercato sempre vivace e in grado di raccogliere le adesioni di una nutrita clientela internazionale, ritornata in massa in città nel post pandemia.

Tra i tanti, segnaliamo tre indirizzi che per diverse ragioni (qualità dei servizi e discrezione, tra gli altri) sanno distinguersi e lasciano sempre un buon ricordo all’ospite. Il Lumen Hotel è un nuovo 4 stelle un po’ decentrato, che mescola anima business ed eleganza e che ha i suoi punti di forza nella piscina panoramica del rooftop e nel Lisbon Light Show, uno spettacolo serale quotidiano che illustra le bellezza della città proiettate sui muri della corte interna, per un video mapping affascinante da gustare anche sulla terrazza del ristorante Clorofila, durante la cena.

L’hotel Valverde, invece, è nascosto lungo la centrale e trafficata Avenida da Liberdade, ma risulta essere un angolo di tranquillità a partire dal piacevole giardino esotico. Inoltre, cela nelle sue stanze, così come negli spazi comuni, oggetti di antiquariato e opere d’arte evidenziando il lusso della residenza moderna ma con un stile vintage, con in più la cucina ammiccante del nuovo cuoco Bruno Oliveira nel ristorante Sitio, arrivato da pochi mesi.

Chi invece vuole soggiornare in un vero e proprio appartamento può affidarsi a Look Living in rua da Boavista 69. Qui, negli spazi di un edificio storico non lontano dalla sta-

zione di Cais do Sodré ci si sente davvero a casa, ma con un servizio di concierge, un ristorante (Planto) che serve pasti e colazioni e il design piacevolissimo, in cui si mescolano dettagli di un’antica architettura cittadina opportunamente restaurati a comfort moderni.

Forse il modo migliore per entrare in sintonia con Lisbona, vivendola con un approccio meno turistico e cercando di coglierne l’essenza, tra le pieghe di un antico palazzo.

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LA COSTIERA AMALFITANA

ROAD TO PARADISE: MANUALE D’USO PER UNA FUGA DALLA REALTÀ DI 48H

Un Paradiso fatto di scale che risuonano come un vecchio pianoforte. Corrado Alvaro, scrittore, poeta e giornalista reggino descrisse così la Costiera Amalfitana, quel lembo di terra che va da Vietri sul mare a Positano, dal 1997 Patrimonio dell’Umanità. Quaranta chilometri non sono poi tanti, le curve certo li allungano - nella percezione - di qualche ora rispetto al soffio che sarebbero in autostrada, ma nessun pezzo di asfalto può spiegare quell’annullamento del senso del tempo e dello spazio che si prova in questi anfratti tra cielo e terra, asfalto e scogli, dove sembra di vivere oltre la realtà.

Quaranta chilometri, si diceva. Potrebbe bastare un giorno per visitare tutti i borghi della Costiera. Oppure non essere sufficiente nemmeno una settimana. Tra un limoncello e un Gin&Tonic vista mare, noi di Spirito Autoctono abbiamo deciso

di sfidare “la terra in cui si è in Paradiso ogni giorno della propria vita” (così recita un bassorilievo all’ingresso di Amalfi) e raccontarvela in piccole pillole di gusto. Suggerimenti spiritosi che vogliono essere dei trampolini per tuffarvi alla scoperta di una delle terre più belle d’Italia.

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di Giusy Dal Pos

Per noi il mondo inizia a Cetara, anche se oggettivamente non è né uno dei capi geografici né il capoluogo culturale della Costiera. È però la patria della colatura di alici e ospita un ristorante (Al Convento, vedi box) dove cibo e distillati vanno d’accordo da sempre. Se arrivate la mattina, quando la temperatura è ancora fresca, potete concedervi qualche ora alla scoperta delle bellezze del borgo. Non lasciatevi sfuggire il Museo Civico della Torre di Cetara e la Chiesa di San Pietro Apostolo: ristrutturata nel XVIII secolo, ha l’interno barocco e la cupola maiolicata (cifra stilistica di molte chiese del territorio): un capolavoro di stili che parla delle tante culture che si sono avvicendate sulla costa. La spiaggia è piccola ma godibilissima e più di un lido potrà offrirvi tanto lo spazio di un ombrellone quanto quello fugace di caffè. Meglio se freddo, in crema: qui si usa così.

Una volta usciti da Cetara, potete scegliere dove andare: da sinistra a destra, la strada vi offre mille opportunità. In queste speciali 48 ore targate Spirito Autoctono vi portiamo all’inizio del percorso: back to Vietri sul mare. Imprescindibile fermarsi a fare una foto sul belvedere che segna l’ingresso in città e l’inizio della Costiera propriamente detta: tra il mare e le maioliche della cupola della cattedrale cittadina, qui non si lesina in bellezza. È giunto poi il momento di entrare in città. Famosa in tutto il mondo per le magnifiche ceramiche, di Vietri non potete lasciarvi sfuggire le tantissime botteghe artigiane durante la vostra passeggiata: è piccolissima e, a differenza di Cetara, ha molte strade che corrono in modo più o meno pianeggiante: camminare sarà veramente piacevole. La nostra tappa golosa qui è il ristorante Osteria Mediterranea Sesta Stazione; la terrazza si affaccia sul delizioso centro storico e offre un angolo di relax. Potete scegliere se mangiare la pizza, qui prima c’era un antico forno, oppure assaggiare la cucina locale.

I primi piatti sono spettacolari, soprattutto la pasta fagioli e cozze e quella con la local colatura di alici. E l’abbinamento con un buon Gin&Tonic con molte referenze locali è garantito. Finito il pranzo non prendete il dolce, perché si riparte in direzione di Maiori. Insieme alla vicina Minori, ha le spiagge più ampie di tutta la Costiera. Il nostro pit stop in questo caso è Sal de Riso, maestro pasticcere di chiara fama che da qualche mese ha aperto anche il suo bistrot. La sua ricotta e pera - ricetta di cui è inventore - ha fatto la storia e non potete non provare l’originale, magari accompagnando il tutto con Liquore Paesaggi, sempre prodotto in casa de Riso, con una deliziosa predominanza di limone. Sarebbe adatto anche per un Limoncello Tonic. Concedetevi un tuffo d’un paio d’ore di relax prima di ripartire: qui c’è l’elogio della vita lenta. La prossima tappa è Amalfi, anzi l’Hotel Santa Caterina, un gioiello di bellezza architettonica, paesaggistica e gastronomica, dove ci si può fermare al mare, concedere degli attimi di riposo e anche attimi di grande gusto. La proposta ristorativa ha più possibilità, ma noi vi consigliamo Il Glicine, ristorante 1 Stella Michelin guidato da Giuseppe Stanzione. Lasciatevi guidare da lui, consigliare un solo piatto sarebbe riduttivo e, dopo cena, concedetevi

un distillato vista mare; la selezione di amari italiani e liquori locali è notevole ma il fiore all’occhiello è la selezione di Whisky.

Dopo il meritato riposo, il giorno successivo non può che iniziare con una visita alla meravigliosa Repubblica Marinara, Amalfi, che dei tempi di gloria mantiene ancora tutta la bellezza. Prendetevi il tempo di visitarla tutta (se dovete necessariamente scegliere, la Cattedrale va vista almeno una volta nella vita), ma mai prima di aver fatto colazione alla Pasticceria Pansa e ordinato uno dei dolci locali: Delizia al limone, Santarosa (sfogliatella riccia con crema e amarena) o un Bacio Amalfitano, con ripieno di crema di limoncello.

LA COLATURA

Profumo di mare, un’etichetta disegnata a mano e una bottiglietta vintage. Chiunque sia stato almeno una volta in vacanza in Costiera Amalfitana ricorderà qualcosa di simile, ma più professionale, esposta nelle botteghe locali: la Colatura di alici di Cetara Dop. Da queste parti vale più dell’oro ed è bella come una poesia. Storia antica quella della Colatura. Ma cosa rende poetico questo condimento che per tradizione si aggiunge agli spaghetti con vongole della cena della Vigilia? Il sapore - ovviamente - ma soprattutto la tecnica con la quale si ottiene. Le alici pescate in loco vengono, infatti, fatte maturare per almeno nove mesi in un contenitore in legno chiamato terzigno, sotto sale. Questo particolare processo - il terzigno ha in sé una pressa che permette di estrarre e raccogliere la colatura - è attestato già dal 1807, ma per più di un secolo la produzione era, destinata all’autoconsumo. Fu solo agli inizi degli anni ‘90 che tutto cambiò, quando la Pro Loco di Cetara organizzò (1993) un grande convegno. Era l’inizio di una rinascita che ci ha restituito un gioiello enogastronomico rarissimo e per questo molto prezioso.

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Per Pranzo fermatevi a La Caravella, una garanzia dal 1959, lasciatevi deliziare dalla cantina imponente - sia per vini che per distillati - e dai primi di mare, come il Risotto al limone di Amalfi con gamberi cotti e crudi, caviale di limone e bottarga di muggine, non potrete proprio pentirvene. Dopo pranzo non vi resta che dirigervi verso la penultima tappa del vostro viaggio: Positano. Perla tra le perle, una volta arrivati alla spiaggia, che è fine e centro del villaggio allo stesso tempo, guardate alle vostre spalle, su verso la montagna: lo spettacolo potrebbe essere commovente, ancor più se è tramontato il sole. Il viaggio, a Positano, oltre al panorama e al mare lo vale un gelato, quello della gelateria La Buca di Bacco: un’istituzione che ha saputo innovarsi e serve ancora uno dei migliori coni di tutta la Campania.

Ravello, la città del Festival, di grandi casate nobiliari, è lontana dal mare e solitamente alla fine del viaggio. Forte di un fascino altolocato ed elegante, non delude mai. Nel frattempo è giunta sera, prima di ripartire fermatevi per bere un Amalfitano al Bar Caruso del Belmond Hotel: bitter, limoncello, assenzio, Vermouth dolce e qualche altra piccola sorpresa. Per chi ama bere liscio, la carta dei distillati è da campioni del genere. Un buon Bourbon, un pianoforte in sottofondo e le lampare che man mano si accendono all’orizzonte. La realtà è a un passo di curva, ma non è ancora qui. Il paradiso è ancora tutto intorno a noi. Che meraviglia la Costiera Amalfitana.

PASQUALE TORRENTE

Il cicerone dei sapori della

Costiera Amalfitana

Un’antica terrazza a pochi passi dalla spiaggia di Cetara, camerieri che lavorano alacremente. Qui è dove tutto è iniziato, da Pasquale Torrente. L’uomo che sussurrava alle alici. A lui dobbiamo il fuoco della passione che ha fatto nascere Spirito Autoctono e abbiamo deciso di raccontarlo e omaggiarlo attraverso quattro ricette, che poi sono quattro storie per conoscerlo meglio.

CETARA

Cetara è un borgo della Campania in provincia di Salerno, nel suo centro storico vivono poco più di 900 abitanti. Piccolissimo, ma bello come una bomboniera affacciata a picco sul mare. A picco letteralmente, visto che la maggior parte dei parcheggi sono in alto sulla montagna e per scendere alla spiaggia è previsto un servizio navette un po’ naif, ma molto poetico. Secondo borgo più bello d’Italia per il Borgo dei Borghi 2023, è incastonato al centro della Costiera Amalfitana e da sempre la sua piccola economia si regge sulla pesca (a cui negli anni più recenti si è aggiunto il turismo). Il nome, Cetara, deriva da “cetarìa” ovvero il lemma dialettale che sta per tonnara. Tonni si, non solo alici da queste parti: il borgo era famoso già nel Medioevo per la prelibatezza dei suoi tonni, che tenevano in mare i pescatori anche per mesi interi durante la stagione della pesca.

LE RICETTE

Pane, burro & alici

Pasquale non ci rinuncia, ci abbiamo provato a convincerlo. Ma Hendrick’s gin per il maestro dell’accoglienza in Costiera è come un vezzo. “Ho una bottigliera a prova di Spirito Autoctono, ma il simpatico scozzese, nella versione classica, non può mancare”. E noi glielo passiamo, perché questo particolare abbinamento ha cambiato la nostra vita, dando il là a quello che oggi si chiama Spirito Autoctono. Pane tostato alla griglia, burro di centrifuga, Alici di cetara. Nel calice ballon a stelo lungo - per Torrente le temperature

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sono la base - 40 ml di Hendrick’s gin, due fette - circolari - di cetriolo, due gocce di Tabasco, ghiaccio all’orlo, Acqua Tonica neutra. Erbusco, 10 ottobre 2014, in Italia inizia il servizio a tutto pasto del Gin&Tonic. “Ma quale rivoluzione, se a tavola non hai un grande Champagne, meglio avere almeno un grande Gin&Tonic”.

Ziti alla genovese di tonno

Cipolla bianca, filetto di tonno, olio evo a cascata, due ore abbondanti di tempo, ziti interi da tagliare in quattro. In pochi ingredienti, il capo opera di Pasquale Torrente. Fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione, questo il genio, come geniale è stato sostituire la carne con il tonno. Una ricetta così avvolgente e strutturata, quanto delicata ha necessità di un compagno di viaggio liquido che abbia le stesse caratteristiche. Quindi Dry Martini, senza tentennamenti. Coppa ghiacciata, 60 ml di Aquamaris Dry Gin, 10 ml di Vermouth dry, scorzetta di limone e i suoi olii essenziali. Spalle larghe, grandiosa sapidità, firma agrumata elegante e per nulla invadente.

Spaghetti con colatura di alici di Cetara DOP

Semplici, veloci e appaganti come una notte stellata in riva al mare. Ma non si capisce perché - in realtà è un peccato sottrarre tempo al gusto per domandarselo - quelli de Al Convento sono i più buoni del creato. Sarà la riserva di colatura speciale, sarà la mano - è la mano! - sarà un ingrediente segreto, ma tant’è. Piatto intenso, sapido e

godurioso per tutti i sensi, persino per l’udito. Pensate a quando, avvolgendo lo spaghetto, vi schizzerete la camicia bianca - perchè ve la schizzerete -, a quale suono compiaciuto avranno le vostre imprecazioni. E il godimento starà anche lì. Ma tutto si risolverà in due sorsi di un altro must della casa: 40ml di Ginnarì, il gin con tutta l’esplosiva potenza dei limoni di Amalfi IGP, ghiaccio all’orlo del bicchiere, tonica mediterranea. Via con un’altra forchettata e un altro sorso, che il luogo - Al Convento - sia foriero di perdono per noi poveri peccatori.

Alici ripiene di provola

affumicata o Tapas di alici

Non importa quale dei due piatti sceglierete tra questi. In entrambi i casi vi troverete nudi e indifesi davanti alla voluttà gastronomica che proverete morso dopo morso. Ma soprattutto, nei giorni successivi, non riuscirete a distogliere il vostro pensiero, ai margini stretti del peccaminoso, da quelle Alici. L’autocompiacimento, per la scelta del drink ovviamente, inizierà quando tornerete al primo amore, G&T abbinato a Pane Burro & Alici, ma chiederete a Pasquale di sostituire l’Hendrick›s con Ginepraio Classico. Sempre 40ml, sempre due gocce di tabasco, sempre ghiaccio all’orlo. Ah si, anche l’acqua tonica, rigorosamente Schweppes.

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LA CAPRI DEI PERSONAGGI

«C’è una Capri che forse non esiste più, quella che accoglie il diverso e lo trasforma in personaggio. Chi viene a Capri, vuole sentirsi un personaggio». Giada Falanga, general manager dell’hotel Villa Marina di Capri e anacaprese Doc, di questo è convinta: trasformare il diverso in personaggio è una delle grandi magie di cui l’isola del golfo di Napoli è sempre stata capace, e non solo a partire dai tempi del Grand Tour.

L’incantesimo ebbe origine quando nel 27 a.C. l’imperatore Tiberio, schivo e riservato, si rifugiò qui. Ancora oggi resta uno dei personaggi chiave dell’isola, il cui passaggio è testimoniato dai resti di 12 ville romane. Come lui, nella storia molti altri hanno messo qui radici e costruito ville da sogno, trovando rifugio, ispirazione, e alimentando i racconti sussurrati tra gli abitanti dell’isola e la terraferma. Andarli a scoprire vale il viaggio. Forse non diventeremo dei personaggi storici, ma sicuramente troveremo spunti spiritosi per assaporare l’isola come se lo fossimo.

Capri, Pizzolungo e gin

Per allontanarsi dalle zone più dense di turisti bisogna fare un po’ di fatica. Lo dimostra la passeggiata del Pizzolungo, sentiero che dal centro storico si snoda tra belvedere rocciosi e vegetazione mediterranea, in una serie di saliscendi lungo la costa sudorientale. Buona parte dei turisti in ciabatte di gomma rinuncia. Impagabili gli scorci sui faraglioni o sulle ville private nascoste dalla vegetazione. Tra queste c’è Villa Malaparte, sdraiata su un promontorio a picco sul mare: è un attimo sentirsi catapultati in una scena de Il Disprezzo di Godard, con una giovane Brigitte Bardot in accappatoio sulla scalinata e il blu sullo sfondo. Si attraversa

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Come vivere pienamente sull’isola di Tiberio, attraverso tre itinerari con assaggio finale
di Eugenia Torelli

la grotta di Matermania e poi si sale, perdendo il conto dei gradini e la sensibilità alle ginocchia, fino ad avvertire un profumino invitante. Sulla terrazza con vista del ristorante Le Grottelle, Luigi Vuotto racconta aneddoti dei clienti più famosi, mentre dallo scaffale sporge la bottiglia in ceramica di Solaro Capri Gin, tributo alle maioliche dell’isola e ai profumi del golfo tra zagara, ginepro cilentano, limoni, mirto e caffè. Gin tonic quindi, con ravioli capresi e pollo al coccio. A detta di Luigi, il suo non ha pari.

Ville, storie, erbe e sale

Via Martermania è tra le strade più verdi di Capri. Ulivi, bougainville e piante di limone si alternano alla vista, scambiandosi di posto con gli scorci su orti, giardini privati e residenze che hanno ospitato scrittori, musicisti e poeti. Villa Cottrau negli anni ’70 fu trasformata nella residenza d’artista gestita dal gallerista Lucio Amelio, che qui portò Andy Wharol, Joseph Beuys e molti altri; Villa Cercola, invece, è stata per anni il buen retiro di Valentino, dopo che nella prima metà del secolo scorso aveva ospitato Beatrice Romaine Goddard, pittrice e grande amica di D’Annunzio. All’altra estremità della via, negli anni Trenta del ‘900, Marguerite Yourcenar scrisse Coup De Grace, durante un soggiorno sull’isola.

Sarebbero tante le storie da raccontare, ma a nessuno è venuta fame? Non lontano La Palette accoglie nella veranda affacciata sulla vallata e sul mare, dove gustare cucina isolana e scegliere tra i 400 vini in carta. Guarda caso al locale si accede costeggiando il fornito bancone e tra le etichette da non perdere c’è il Caprisius Amaro di Capri. Non un vezzo turistico, ma un autentico concentrato di profumi dell’isola tra agrumi, elicriso, aromi mediterranei e iodati, che al palato porta erbe e un’anima di sale marino. Sciccheria.

Anacapri, discesa, distensione e morbidezza

Per Anacapri è bello partire al mattino, salire in seggiovia fino alla cima del Monte Solaro e poi, una volta scesi,

perdersi nel quartiere Boffe ed entrare nella chiesa di San Michele Arcangelo. Il pavimento è un sipario in maiolica aperto sulla cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso, opera del maestro napoletano Leonardo Chiaiese. Percorrendo via Capodimonte si raggiunge Villa San Michele, storica abitazione del medico svedese Axel Munthe, che visse qui tra ‘800 e ‘900; sculture antiche animano stanze e giardini maestosi, affacciati a strapiombo su Capri e sul mare. Parte qui sotto la Scala Fenicia, unico collegamento tra Capri e Anacapri fino al 1874: oltre 900 gradini serpeggiano tra le piante sul fianco scosceso del monte, coprendo 300 metri di dislivello verso il porto di Marina Grande. La destinazione è Villa Marina, dove distendere mente, membra e palato. Un’accogliente e riservata dimora in perfetto stile isolano, con tocchi estrosi di design internazionale e un elegante giardino da cui contemplare il mare. Qui la piccola spa, aperta anche ai visitatori esterni, è un luogo intimo in cui ritemprarsi tra trattamenti benessere, sauna e bagno turco. Al ristorante Ziqù, sotto una tipica pergola caprese, gli ingredienti dell’isola incontrano la mano dello chef friulano Manuele Cataruzza in preparazioni dai gusti semplici e appaganti. Dopo cena, si possono scegliere gli assaggi dall’anima internazionale del bar dell’hotel oppure cedere a una coccola liquida, la crema di limoncello fatta in casa. Astenersi assaggiatori austeri, qui si parla di dolcezza, sinuosità e aroma di limoni come appena colti. Da godere con vista mare e sotto le stelle.

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UN GIARDINO MEDITERRANEO

Possiamo avere tutti i mezzi di comunicazione del mondo, ma niente, assolutamente niente, sostituisce lo sguardo dell’essere umano

(Paulo Coelho)

Ma che bella cosa sono le citazioni. Certamente il più delle volte distorte, abusate, quasi sempre affibbiate a inconsapevoli personaggi del passato o del presente, che si ritrovano saggi filosofi, in un attimo, a loro insaputa.

In questo caso specifico però, la frase scelta, anzi, la citazione, ha proprio un senso compiuto, calza a pennello. E poco ci importa che appartenga allo scrittore e poeta brasiliano - si, è sua - o a Spiderman. Quello che conta è il messaggio tra le righe, ovvero nessun mezzo di comunicazione può essere più intenso e fertile dello sguardo umano, quello che ti fa vivere tutte le sfumature emozionali di ciò che il mero messaggio, per quanto clamoroso, non può trasferire.

Questo è quello che deve aver pensato la proprietà di Gin Mare ( Brown-Forman), quando ha deciso di investire non nel messaggio pubblicitario fine a se stesso, ma nello sguardo e nelle emozioni, da restituire

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di Francesco Bruno Fadda

sotto forma di luoghi in cui vivere un’esperienza immersiva circondati dai profumi, dai colori e dai sapori della macchia mediterranea.

“Siamo riusciti a distillare e imbottigliare il mediterraneo, per poi esportarlo nel mondo”, questo da tempo il claim di Gin Mare, quello che probabilmente è il gin premium più diffuso e apprezzato tra gli appassionati del distillato di ginepro. Sicuramente il più democratico: piace ai giovani come ai diversamente giovani, indistintamente.

Nato in Spagna, in un antico villaggio di pescatori vicino a Barcellona, all’interno di una cappella del 18° secolo, il gin del mediterraneo è ancora prodotto con le tecniche artigianali delle prime produzioni. Certo il piccolo alambicco all’interno della cappella, che ha dato vita alle prime bottiglie, oggi ha un nuovo ruolo, quello di guardiano addetto all’accoglienza dei tanti visitatori della distilleria, ma per il resto tutto continua immutato. Decisamente più ampia la produzione, ma costante resta la macerazione a freddo delle botaniche, oliva Arbequina, rosmarino, timo e basilico. Come non è stata mutata la perizia con la quale viene distillata separatamente ognuna, al fine di mantenere le caratteristiche peculiari, gustative e olfattive perfettamente intatte.

Gin Mare evoca il Mediterraneo, ne vuole raccontare la natura, l’intensità, perché convinto, come lo siamo tutti, che il Mare Nostrum è più di un luogo, è un atteggiamento, un modo di vivere si può aggiungere senza troppi panegirici. E se la potenza interpretativa c’è, ormai, conclamata e certa, al nostro non resta che calcare le assi di una quinta studiata appositamente per esaltare e celebrare quotidianamente la sua mediterraneità. E non solo, ma anche difenderla e proteggerla.

A Capri nasce Giardino Mediterraneo, uno spazio accogliente, un’oasi di pace, nei pressi della celebre Piazzetta dell’isola azzurra. Un’operazione di recupero e piantumazione che ha portato a nuovo splendore un antico limoneto, che si configura ora come una terrazza verde affacciata sul mare, a sottolineare lo sguardo attento di Gin Mare verso l’ambiente e il suo impegno nella valorizzazione delle bellezze naturali del Bel Paese.

Qui, travolti e ispirati dal belvedere, tutti gli elementi parlano la lingua della cura del particolare, della qualità e del rispetto della natura, dei suoi colori e del suo modo di esprimersi. Giardino Mediterraneo deve il suo nome all’omonimo progetto di tutela ambientale firmato dal brand che, dal 2021 è attivo nella riqualificazione e valorizzazione di quest’area verde nel cuore dell’Isola di Capri. Un’iniziativa di sostenibilità che quest’anno ha visto un’ulteriore evoluzione approdando in altri luoghi rappresentativi del Mediterraneo, tra cui Porto Ercole, perla di rara bellezza sul promontorio toscano dell’Argentario.

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A raccontare il progetto, le sue caratteristiche e anche qualche anticipazione, è Cristina Dotti, Marketing Manager del gruppo Brown- Forman, azienda da poco diventata proprietaria della distilleria spagnola.

Giardino Mediterraneo è un luogo, ma prima ancora un progetto. Come nasce?

«È un progetto che nasce dall’attenzione di Gin Mare per l’ambiente e le sue risorse. Trattandosi di un distillato che ha origine dalla macerazione, infusione e miscelazione di botaniche accuratamente selezionate, che riflettono le caratteristiche distintive del Mediterraneo, la connessione con la natura è in qualche modo un principio già insito nel suo DNA. Un asset importante che ci impegniamo a concretizzare attraverso l’ideazione di progetti coerenti dedicati alla salvaguardia e valorizzazione dell’ambiente e dei suoi spazi verdi».

Cosa lega il brand a Capri? Perché l’avete scelta come punto di partenza?

“Gin Mare racchiude nella sua bottiglia il sapore del Mediterraneo e Capri è senza dubbio tra le destinazioni più iconiche del Mare Nostrum. Non un semplice luogo, ma un vero e proprio stile di vita, sinonimo di relazioni genuine, di location uniche e della capacità di godere di momenti memorabili. L’abbiamo scelta non per l’allure, il lusso o l’esclusività che l’immaginario collettivo le fa corrispondere ma per il suo caratteristico tratto mediterraneo, la lentezza che ne distingue lo stile di vita, l’atmosfera accogliente e il calore del sole. La scelta di Capri quale palcoscenico privilegiato è quindi un omaggio alla cultura e alla bellezza di questa autentica destinazione italiana, che abbiamo voluto celebrare con il lavoro di recupero e riqualificazione dell’antico limoneto che si affaccia sulla Piazzetta di Capri”.

Uno dei nuovi punti attenzionati è Porto Ercole, quali i prossimi? Come li scegliete?

“Abbiamo scelto Porto Ercole, nello splendido contesto del Monte Argentario, perché è un altro luogo capace di farsi portavoce dell’attitudine Mediterranea che il brand propone quale “stile di vita”. Questo è il principio che guida la scelta di nuove località a cui dedicare il nostro progetto di sostenibilità ambientale. A Porto Ercole, il Giardino Mediterraneo prende forma nell’Orto Botanico Corsini che ha riservato all’interno del proprio Parco di Acclimatazione, lo Spazio Eventi in cui accogliere una selezione di specie botaniche mediterranee. Molte le piante e le aromatiche che popoleranno questo spazio, teatro di attività culturali e di intrattenimento per tutta l’estate 2023”.

Se doveste scegliere tre parole per descrivere questo progetto quali sarebbero?

“Mediterraneità in primis, il principio guida che abbracciamo in ogni azione, progetto, evento. Sostenibilità poi, perché parliamo di un impegno concreto per la riqualificazione e valorizzazione di angoli verdi. Last but not least ospitalità,

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perché è in questi luoghi recuperati che vogliamo si sprigioni il senso con cui intendiamo questo valore: far sentire a proprio agio l’ospite, creando per lui momenti di autentica disconnessione dalla vita frenetica e riconnessione con la natura”.

Quanto è importante il ruolo di brand privati come Gin Mare nella tutela del patrimonio naturale?

“È sempre più fondamentale, la sostenibilità non è solo l’affare di enti pubblici, istituzioni e associazioni. Tutti siamo chiamati a fare la propria parte. Per noi di Gin Mare, prodotto che nasce dalle botaniche della terra, la tutela del patrimonio naturale è quasi una vocazione. A Capri, non volevamo sottrarre qualcosa dall’Isola quanto “dare”, contribuire a mantenere il valore e la preziosità, in ottica di sostenibilità. Vogliamo portare un valore aggiunto nelle destinazioni a cui ci approcciamo, per far sì che le loro risorse non siano solo preservate per le generazioni future, ma possano

continuare ad affascinare e conquistare i turisti di tutto il mondo”.

Altri progetti per il futuro del brand?

“La sostenibilità non ha a che fare solo con la terra, ma anche con il mare a cui dobbiamo la nostra essenza. È con questa visione che abbiamo avviato parallelamente un progetto di salvaguardia delle acque partito a Capri nel 2021 e ora esteso anche ad altri lidi iconici italiani (Pantelleria, Camogli e Porto Ercole). Il progetto, Mare Mio by Gin Mare, consiste in un’azione concreta di pulizia e raccolta rifiuti dalle acque con il supporto di marinai del luogo e in collaborazione con MareVivo, associazione ambientalista impegnata nella tutela dei mari. Non ci fermiamo all’estate. Continueremo a promuovere il mood Mediterraneo di Gin Mare durante tutto l’anno, con molti eventi e attività previsti per la stagione autunnale e quella invernale. Stay tuned!”.

In ultimo, sa che in tanti, anche tra gli addetti ai lavori, associano il brand Gin Mare alla Sardegna?

“Mi è giunta voce… chissà che non sia la prossima tappa del nostro viaggio mediterraneo sulla rotta della sostenibilità”.

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ANNA MASCHIO

“SONO SEMPRE LA STESSA, DA QUANDO MI

ALZO A QUANDO VADO A LETTO. CONCILIARE

LE VARIE ANIME NON È UNA FATICA IMMANE, LO AMMETTO, È UNA QUESTIONE CHE AFFE-

RISCE PIÙ ALLA SFERA ORGANIZZATIVA PIÙ PRATICA. DEVO DIRE PERÒ CHE RIESCO A

FARLO PERCHÉ HO AL MIO FIANCO UN UOMO

FANTASTICO, LA SUDDIVISIONE DELLE FAC-

CENDE IN CASA NON SONO MAI STATE SOLO

MIE E TUTTE LE VOLTE CHE HO AVUTO BISO-

GNO DI UNA MANO LUI C’È SEMPRE STATO.

SUPERARE LA VISIONE STATICA DEI RUOLI È

LA CHIAVE PER RISOLVERE TUTTO”.

In queste poche righe c’è tutta Anna Maschio. La sua forza, il suo sorriso, l’amore. Tra di loro l’essenza di una donna che tratta la pragmatica come fosse un utensile, duttile e malleabile, per assaporare il gusto completo e appagante di una vita rigorosa quanto romantica. Conversare con l’altra metà del cielo di Bonaventura Maschio, distilleria incastonata tra le verdi colline del Prosecco, è come scivolare amabilmente in una dimensione parallela, dove grazie a una rara capacità comunicativa, la padrona di casa riesce a farti immedesimare nel suo mondo. Anna è una donna allo stesso tempo di grande profondità e di grande lievità: compagna di viaggio ideale per affrontare con franchezza qualsiasi argomento.

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IL PRODUTTORE

Maturità classica, laurea in lettere antiche con tesi in storia delle religioni e archeologia rurale. Tutto riposto nel cassettone dei progetti futuri per seguire gli alambicchi di famiglia? Certamente no, anzi. La vita di Anna doveva proprio andare in quella direzione, tra studio, sperimentazione e indagine. Soprattutto indagine. Considerato che quella bambina che scorrazzava tra alambicchi e cisterne con la sua bicicletta, da grande voleva fare l’investigatore privato sulle orme - impronte digitali per stare in tema - della mitica Miss Marple.

Ma la vita, si sà, è un eterno, continuo “Sliding Doors”. Sempre condita da elementi assolutamente imprevedibili. Che possono cambiare la vita di una persona in modo altrettanto imprevedibile.

Anna e il fratello Andrea sono la quinta generazione di un’azienda che ha sempre avuto come caratteristica peculiare quella di non innovare in un senso fine a sé stesso. Ma di farlo per non fossilizzarsi su i traguardi già raggiunti. E questo è anche il contrassegno che ha dato il là al grande cambiamento, nella seconda metà degli anni 80, con la nascita del distillato d’uva Prime Uve. L’azienda sino ad allora produceva principalmente grappa. Ecco lo “Sliding Doors” della Maschio.

“Mentre io ancora studiavo, in azienda hanno cominciato a distillare l’uva, non più le vinacce, il colpo di fulmine è stato qui. Lo sprone più grande è stato la grande sfida di trovare uno stile distillatorio adatto all’uva, il cui profumo ha cambiato il mio destino”

Per Anna, il cioccolatino pescato dalla famosa scatola di Forrest Gump, ha un nome: Prime Uve. “Mio padre non aveva mai preso bene la mia scelta di sposare la via dell’archeologia, quindi quando sono tornata in azienda fulminata sulla via di Damasco ha fatto un po’ finta di farmela pesare, ma in realtà era estremamente orgoglioso e contento. Poi è andato tutto splendidamente bene, a loro serviva qualcuno che parlasse inglese, che seguisse tutta una serie di contatti e ho iniziato così. Tutto è partito in maniera molto bizzarra”.

Ma tutti i sacrifici, il tempo speso tra i libri di storia, l’archeologia. Insomma il primo sogno?

“Gli studi in lettere antiche sono stati l’enorme, gigantesca, colossale fortuna della mia vita. Nel mio lavoro, ma in tutto in generale. Il modo in cui ti insegnano a usare la testa, a interrogarsi sul perché delle cose, a cercare di decifrare il mondo. Tutt’ora, nonostante io lavori oramai qui da mille anni, il mio approccio esterno, con una formazione diversa dalla media dei colleghi o dei dipendenti dell’azienda, è di grande utilità per loro”.

La Bonaventura Maschio ancora oggi, nonostante l’enorme crescita degli ultimi cinquant’anni, è ancora fieramente un’impresa familiare, non solo nella proprietà ma anche nella gestione e in questo contesto, la figura di Anna Maschio è quella fondamentale del Jolly, proprio come nella migliore delle tradizioni familiari. Nessun ruolo predefinito, quello che c’è da fare si fa. Dalla gestione dell’estero, all’accoglienza in azienda, passando per le attenzioni alla comunicazione. Senza dimenticare la condirezione generale dell’azienda con

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Andrea. In sintesi, c’è tanto da fare, ogni giorno, dal dì alla notte.

“Chiunque faccia impresa, a tutti livelli e in tutti i settori, in Italia fa un lavoro che ti coinvolge moltissimo, come numero di ore lavorative, senso di responsabilità, tentativi di ricerca di nuove strade e nuove idee. È un tipo di vita che prevede anche l’essere pronti non solo a fare dei sacrifici, ma ad avere una notevole dose di organizzazione. Nulla è impossibile, ma bisogna imparare a gestire il proprio tempo; dobbiamo essere dei bravissimi giocatori di Tetris, se non vogliamo rinunciare a nulla”.

Nuove strade, nuove idee e senso di responsabilità. Sembra facile, almeno sulla carta lo è. Ma poi ci si deve scontrare con la quotidianità di un settore produttivo, in crescita sull’onda di un ritrovata passione per i distillati, ma sempre più demonizzato. L’alcool fa male? Si. Risposta secca e senza titubanza. Esattamente quanto la poca conoscenza della materia.

“Noi produttori dovremmo, fare rete e mandare fuori messaggi univoci. Bisogna pensare di promuovere un consumo consapevole, come dicono quelli bravi, e di promuovere la cultura del distillato e così scoraggiare il bere alcolico (e superalcolico) come forma di intrattenimento eccessiva, incoraggiandolo invece come via di ricerca di un gusto particolare. Come con il cibo. Dobbiamo spiegare fuori dalle nostre aziende quanto i distillati, come il vino, fanno parte della cultura. Del nostro Paese come di altri. La distillazione è un’arte millenaria, nata con l’uomo, è un pec-

cato ghettizzarla così. Nella mia vita la distilleria è stata centrale quanto la cultura e quanto il cibo e il vino. Quattro punti che hanno sempre avuto un peso grandissimo, sono figlia di una mamma che ha sempre cucinato tanto in casa, il cibo e la cultura dell’ingrediente di qualità, della naturalità, della stagionalità hanno sempre fatto parte della nostra vita. Così come la cultura del vino di qualità. Quindi Anna distillatrice è inscindibile da queste componenti, sono tutte tematiche e approcci che nella mia vita hanno sempre avuto una parte molto importante e gestisco l’azienda, insieme ad Andrea, partendo da questo punto di vista. Oggi sono assolutamente dell’idea che la crescita della cultura della distillazione debba andare a braccetto con quella della cultura gastronomica e che si debba non solo prendere spunto da quelle e da altre realtà. Facciamo tutti parte di uno stesso insieme, ma basta pensare alla differenza, numerica, tra i visitatori di distillerie e quelli di aziende vinicole, per capire quanta strada ancora c’è da fare. Ma non si può più aspettare se vogliamo recuperare quel gap, ne ha bisogno il settore, come le aziende e come il territorio. Perché bisogna dirlo che i benefici di un’azienda ben promossa ricadono sul territorio e viceversa”

Pochi secondi, breve interruzione, per riprendere il fiatol’argomento è tosto, ma lei di più -. Nel frattempo, mentre il sigaro dello scrivente segnala timidamente la poca attenzione, l’incalzante profluvio di notizie circa il grande exploit della cucina latina, certificato dai The World’s 50 Best Restaurant 2023, aumenta incalzante. Per molti addetti ai lavori, la debacle italiana - perché di debacle di tratta - è dovuta al diverso approccio degli altri Paesi alla comunicazione del loro territorio. Lo spunto cade a faggiuolo come si dice, quale occasione più ghiotta per chiedere alla compagna di viaggio un commento.

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“L’Italia è un Paese in cui il supporto al proprio territorio e agli ingredienti che fa nascere interessa a molti, ma non a tutti. Ci sono sicuramente anche in Italia dei ristoratori che hanno un approccio così forte alla promozione del nostro Paese come accade per esempio nella penisola scandinava, ma in percentuale nettamente minore”.

Diretta, precisa, di sostanza. Tutto torna con quel l’equilibrio perfetto tra le varie sfaccettature della donna che si definisce: curiosa, innamorata - del marito, del lavoro, della vita aggiungiamo, leggendo tra le righe - entusiasta. Ma se dovesse pescare un’altro cioccolatino, quale sarebbe? Se volesse cambiare orizzonte, quale sarebbe.

“Ogni tanto ci penso, anche se so che la mia opzione può far ridere. Io so che il mio piano B avrebbe in qualche modo a che fare con gli animali. Sono troppo grande per poter diventare un veterinario, ma potrei aiutare cuccioli in difficoltà. Fin da quando sono nata ho amato qualsiasi tipologia di animale, ho una passione per tutte le creaturine viventi. Io e mio marito viviamo con due cani e loro insegnano tantissimo. In particolar modo mi ha insegnato e mi insegna tanto la convivenza con la nostra prima adottata, Latache, il nostro labrador: mi ha insegnato cosa vuol dire l’amore, la più completa accettazione di quello che a volte può anche non piacerci. Cosa che come umani non siamo ben disposti ad accogliere. Vivendo con lei ho imparato che amare vuol dire comprendere tutto, perché lei è così. Siamo stati così felici della nostra esperienza di vita con lei negli ultimi 10 anni (ora è una labrador che corre un po’ di meno), che a un certo punto abbiamo deciso di buttarci di nuovo nella mischia. È arrivata così, lo scorso anno, Olivia che ha rivoluzionato tutte e tre le nostre vite, Latache compresa che si è improvvisata insegnante di vita nei confronti di questa piccoletta.”

Anna, Ti guardi attorno e vedi qualcosa su cui c’è ancora da lavorare?

“Mi sento completa e sono soddisfatta. Ma non sto mai ferma, quindi so che arriverà ancora altro nel mio futuro che mi farà sentire ulteriormente realizzata. La mia vita, come quella di tutti, è in completa evoluzione e io ho sempre le braccia aperte per accogliere quello che arriva”.

Posso farti ancora una domanda?

“Vai, tanto so che se ti dovessi dire no, la faresti lo stesso” Ci dovessimo incontrare tra dieci anni, cosa speri di raccontarmi?

“Ce ne sono talmente tante di cose. Mi piacerebbe poter dire che nel nostro Paese si è trovato il modo di supportare la cultura e rendere le persone consapevoli. Mi piacerebbe convenire con te che finalmente l’Italia si distingue per civiltà e rispetto dei diritti. Fra 10 anni magari ci incontriamo e guardandoci attorno vediamo che finalmente il nostro Paese ci rende fieri di essere italiani”.

“La vita è un brivido che vola via, è tutto un equilibrio sopra la follia”. Non sempre, alle volte è solo questione di equilibrio.

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IL PRODOTTO

GLENROTHES WHISKY MAKER’S CUT

Speyside. Nord-Est della Scozia e, ancor più precisamente, una delle cinque regioni produttrici del Whisky. Qui, in una landa romantica attraversata, appunto, dal fiume Speyside, nascono gli Scotch più morbidi ed equilibrati in assoluto. I più eleganti, nonostante possano variare tra di loro come stile, sono caratterizzati da una presenza di torba nettamente minore. Che il corpo di ciò che abbiamo nel bicchiere sia poi vegetale, speziato, più secco o più morbido, dipende dalle scelte specifiche del singolo Master Distiller.

In questo caso, siamo di fronte a un prodotto decisamente speciale, che porta con sé una storia notevole. Il Glenrothes Whisky Maker’s Cut è stato fortemente voluto e disegnato secondo un profilo ben preciso. Invecchiato esclusivamente in botti ex Sherry, appartiene alla gamma Soleo (dal processo di essiccazione al sole delle uve da cui poi nasce lo Sherry) è imbottigliato in full proof: scelte tecniche del Whisky Maker di Glenrothes che regalano in bottiglia prima e nel bicchiere poi uno Scotch elegante e di grande carattere, con il cuore aromatico che danza attorno a vaniglia, arancia e noce moscata. Un trio decisamente intrigante. Il cuore del racconto aromatico di questo Maker’s Cut è sicuramente la parte agrumata, che lo identifica come un prodotto adatto sia alla degustazione liscia che per il servizio on the rocks;

sarebbe perfetto in questo caso un bicchiere ballon molto capiente, in cui aggiungere un po’ di ghiaccio in modo da permettere l’evoluzione degli aromi. In mixology andrebbe, se si vuole, utilizzato con grandissima parsimonia e attenzione negli abbinamenti, in modo da non mortificare il bouquet.

La Glenrothes Distillery, che l’ha voluto e creato, produce ottimi Scotch dal 1879. Cosa non rara visto che nello Speyside, data la conformazione geografica che non agevola gli spostamenti, molte distillerie sono sopravvissute anche a lunghi periodi di proibizionismo. Nonostante produca alcuni dei migliori Single Malt dell’intera regione, solo il 2% delle sue release appartiene a questa categoria, mentre la restante quota è parte dei blended dei proprietari della distilleria: Famouse Grouse e Cutty Sark. Quale che sia l’etichetta, ogni Whisky è prodotto utilizzando l’acqua sorgiva di fonti di proprietà interne alla tenuta e la maggior parte - soprattutto i Single Malt come il Maker’s Cut - invecchia in botti ex sherry provenienti per la maggior parte da Jerez, in Spagna.

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di Giusy Dal Pos

IN VETRINA

ALTAMURA VODKA

Un pezzo del cuore pugliese e una distilleria dall’altra parte dell’Europa, quasi al confine con il fronte di Guerra, in un pezzo di quella parte del continente Euroasiatico che tanto è legato al grano. Altamura Vodka, delle Altamura Distilleries, viene infatti distillato in Polonia ma il suo cuore è il grano pugliese da varietà antiche. Quello stesso grano che ha permesso all’agricoltura odierna del tacco d’Italia di risollevarsi e diventare un faro nella riscoperta di cultivar dimenticate e preziose per il futuro. Una materia prima che segna la differenza di questa vodka e la rende una pioniera nella crescita della nuova vodka in stile italiano.

Una volta distillata, viene filtrata con carbone attivo, processo che la rende pura e liscia come seta, preservando la dolcezza e tutte le tipicità del grano impiegato. Il risultato è, infatti, un distillato molto elegante al palato ma al tempo stesso porta anche sentori di dolcezza ed il terroir tipico che la semola di grano di Altamura trasmette.

Un progetto a cui i proprietari di Altamura Distilleries tengono molto. “Volevamo che il distillato avesse il carattere del grano, quindi l’abbiamo distillata solo tre volte, anziché sei o addirittura più volte, come accade spesso in questi anni”, ha affermato Steven Acuña, Chief Operating Officer di Altamura Distilleries. “Il risultato è una vodka con un pizzico di dolcezza del grano e una sensazione in bocca un po’ succosa.”

“Siamo entusiasti di aver ricevuto questa medaglia d’argento dai SIP Awards. È bello sapere che anche i consumatori negli Stati Uniti apprezzano un sapore di vodka più espressivo”, ha continuato Acuña.

CRU EXCLUSIVE CAVIAR SET

Una scatola nera e all’interno un gioiello dalla forma rotonda. No, non una perla, ma quasi in questo caso. Il set regalo di Cru Caviar ricorda infatti, per la scatola scura ed elegante, quelle dei gioielli ma racchiude all’interno un’esperienza, da condividere in due o da regalare, per celebrare magari un’occasione importante con gli amici ma anche per ritagliare per se stessi un istante prezioso che invita al raccoglimento. All’interno troverete un cucchiaino di madreperla per degustare al meglio questo vero e proprio oro naturale, in accompagnamento a una scatola di una delle varie tipologie di caviale venduto dall’azienda. Perché di caviale non ce n’è uno solo, a dispetto di quanto la media solitamente creda. Ed è per questo che nel momento in cui vi troverete, online, a finalizzare l’acquisto, potrete scegliere. Dal delicatissimo Beluga all’Amur Kaluga Gold, dal gusto morbido e il color ocra decisamente notevole, passando per l’Asetra, dal retrogusto di nocciola, per finire con il raffinatissimo Imperial, con uova di storione siberiano, armonico, leggermente sapido, decisamente elegante.

Tutto per la volontà di Cru Caviar di rendere fruibile e comprensibile questo prodotto che è tutta la storia dell’azienda. Quest’ultima lavora infatti nel settore - prima come distributore poi come allevatore e produttore - da circa 30 anni e oggi è non solo il più grande produttore in Italia di caviale Beluga, ma anche uno dei più importanti produttori a livello internazionale. Un’eccellenza nell’eccellenza.

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IN VETRINA

AMARO MZERO U’MAURU GIN

Pensate di essere seduti in riva al mare, ascoltando le onde che si infrangono sugli scogli e diffondono nell’aria quel vapore di schizzi che profuma di acqua salata e agita aromi tutto intorno, le erbe tra le rocce e sulla scogliera, giardini e orti in riva al mare, alberi di agrumi. Ora traducete tutto questo in un sorso caldo e suadente. Sinestesie? Forse, ma il bello di MZero è che riesce a darti l’impressione di bere un momento, quello tra le labbra che restano salate dopo il tuffo e l’attimo in cui ti siedi avvolto nell’asciugamano a guardare l’azzurro. Acqua di mare, appunto, cedro calabrese e mirto, che dona salinità e un tocco di ruvidezza. Ecco gli ingredienti principali. Basterebbe, ma dietro a MZero c’è anche la volontà di limitare plastica, rifiuti ed emissioni, per tutelare proprio quel mare di cui racconta.

Il mercato del pesce di Catania è un andirivieni di voci, canottiere, guizzi lucidi e argentati, che pescatori e commercianti afferrano con mani nodose, tagliando, pesando, incartando, vociando di nuovo. Una volta tra i banchi della “Piscaria” si trovava spesso u’mauru, alga rossa e filamentosa, consumata un po’ come un’insalata con un filo d’olio e qualche goccia di succo di limone. Minacciata dall’inquinamento, oggi la si raccoglie solo dove il mare è molto pulito e per raccontarla è nato U’Mauru Gin, che condensa assieme al ginepro tutte le sensazioni di questa preziosa alga. Tonica secca, una fettina di limone e un pizzico di sale, è il consiglio per un drink che abbraccia i frutti di mare. E parte del ricavato dalla vendita del gin viene devoluto a istituzioni che monitorano e proteggono il mare.

CAFFÈ GOPPION

Quella di Goppion è una storia di famiglia che attraversa due secoli e che inizia nelle botteghe venete, viaggia fino all’Etiopia, supera le guerre e approda in una Treviso distrutta dalle bombe e con tutto da ricostruire. Nel ’48 l’occasione di aprire una caffetteria e da lì tutto riparte, l’attività cresce, si vola anche verso Caracas e si uniscono continenti in una tazzina. Oggi la G rossa di Goppion chiama subito alla mente gli aromi intensi del caffè appena macinato, un’esperienza accogliente e familiare. Miscele 100% arabica, selezioni da paesi diversi, blend dal gusto più morbido, intenso o speziato. Sono tanti i modi per viaggiare con un sorso, sia a casa che nelle tante caffetterie tra Veneto, Friuli Venezia Giulia e anche Vienna. E se servono consigli sul distillato da abbinare, siamo qua.

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RABITT IL BITTER DEL ‘CONIGLIO’

Bitter. Una parola simpatica, che suona benissimo, che però non tutti sanno necessariamente a cosa corrisponde. Andando per gradi possiamo dire che bitter, in inglese, è l’equivalente di amaro. Ma non del nostro liquore amaro, in quanto il bitter più propriamente detto ha caratteristiche molto diverse. A partire dal colore rosso acceso, che nelle etichette più industriale nasce dal poco poetico utilizzo del Carminio di Cocciniglia, un microscopico animaletto che si trova sul fico d’india.

Dopo anni di predominio di prodotti estremamente industriali, da alcuni anni i Bitter sono al centro di una continua ricerca verso la qualità e l’innovazione, che con il tempo ha dato vita in tutta la nostra penisola a una serie di prodotti autoctoni di assoluta eccellenza. Amatissimi all’estero, i particolar modo nel Regno Unito, e sempre più conosciuti anche in Italia, le etichette sono diverse tra di loro e disegnano un panorama decisamente divertente. Protagonista di questa nouvelle vague è il Rabitt Bitter di Roby Marton, una ricetta tutta al naturale che ci restituisce, in ogni particolare, rispetto e amore per la terra.

Per descriverlo bisogna in primis localizzare l’azienda. Dire

Roby Marton è puntare il proprio navigatore sulla campagna trevigiana, casa del radicchio rosso, un ortaggio invernale che sin dal XVI secolo segna profondamente questo territorio. E che in qualche modo racconta il carattere di chi lo produce, originale e testardo. Sin dalle prime brinate di novembre le lunghe foglie rosso scuro vengono coltivate in azienda per diventare – quando non finiscono a tavola – l’ingrediente principale di questo bitter realizzato senza l’aggiunta di coloranti, conservanti e allergeni. Non solo un prodotto naturale nell’accezione più classica delt termine, ma anche certificato Vegan, in quanto dal vetro, all’etichetta e alla colla, tutto privo anche di qualsiasi componente anche solo lontanamente afferente al mondo animale.

Il Radicchio rosso viene lavorato per infusione, successivamente poi l’aggiunta di altre botaniche locali e oli essenziali con una minima presenza di zucchero completano la ricetta, rendendolo equilibrato e rotondo al palato. Un bitter perfetto per la miscelazione ma anche tra i pochi che si lasciano bere con piacevolezza anche in versione assoluta. Basta aggiungere un cubetto di ghiaccio, in particolar modo nella stagione più calda. Che siate amanti o meno del Bitter questo è un prodotto da avere in bottigliera.

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GREEN
di Paolo Campana

LA RICETTA DELLA FELICITÀ CONVENTO DI S.GIOVANNI

Un sapiente mix di erbe e spezie infuso nel brandy invecchiato 35 anni e rifinito con un passaggio in botte. Un Amaro Riserva morbido e speziato che sa delle piccole cose che rendono felici.

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