Naufraghi e naufragi - Anteprima

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«Le più belle storie iniziano sempre con un naufragio», diceva un famoso scrittore. E in questo libro di naufraghi e naufragi ce ne sono moltissimi, tra onde altissime, ghiacci perenni, sabbie infuocate... Storie epiche e drammatiche che raccontano l’amore per l’avventura, l’incredibile coraggio, la resistenza e la forza di volontà di uomini posti di fronte alla potenza della Natura.

«Mentre andavo alla deriva ho continuato a lottare non perché fossi un eroe, ma perché era la cosa più facile da fare, molto più facile che morire».

Naufraghi e naufragi

Anna Vivarelli
€ 14
disegni di Amedeo Macaluso
disegni di Amedeo Macaluso
Anna Vivarelli

Endurance: naufragio in Antartide

Per organizzare un lavoro congiunto di tipo scientifico e geografico, datemi Scott; per un viaggio d’inverno, Wilson; per una capatina al Polo e nient’altro, Amundsen; ma se mi trovo in un dannato buco e voglio uscirne, datemi Shackleton tutte le volte.

Apsley Cherry-Garrard, Il peggior viaggio del mondo

Nell’Oceano Atlantico, lontana da tutto, c’è un’isola rocciosa che si chiama Georgia del Sud: il clima è crudele, il paesaggio è bello da togliere il fiato. L’isola ospita una chiesa bianchissima e un minuscolo cimitero, sessantaquattro tombe in tutto: vi sono sepolti pescatori che fino a un secolo fa trascorrevano qui i mesi della caccia alla balena, qualche ufficiale di una vecchia base navale e, in mezzo a loro, uno dei più celebri esploratori di tutti i tempi: Ernest Shackleton, morto sull’isola nel 1922. Quelli erano tempi avventurosi.

I primi decenni del Novecento furono un’epoca di grandiose spedizioni alla conquista del polo Nord e del polo Sud, con esiti a volte felici, altre volte drammatici.

L’umanità desiderava conoscere i confini del nostro pianeta, e molte nazioni impegnarono uomini, risorse e tecnologia in questa epica competizione.

Gli eroi dei ghiacci hanno i nomi di Robert Falcon Scott, Roald Amundsen, Umberto Nobile, Ernest Shackleton: uomini duri, animati da un febbrile desiderio di avventura che li vide a volte compagni, più spesso avversari.

Il polo Sud fu raggiunto per la prima volta da Roald Amundsen, il leggendario norvegese che toccò il punto estremo dell’Antartide il 14 dicembre 1911. Per sole cinque settimane, batté il britannico

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Robert Scott in una sfida dal finale tragico: Scott e compagni, una volta arrivati al polo Sud, ebbero l’amara sorpresa di trovarvi la bandiera lasciata da Amundsen piantata in uno slittino. Nella lunga marcia di ritorno al campo base morirono assiderati.

Dunque, poiché l’estremo punto meridionale del mondo era già stato toccato, che cosa si prefiggeva nel 1914

Ernest Shackleton con la spedizione Endurance?

Un obiettivo altrettanto ambizioso: attraversare via terra l’Antartide, da mare a mare. In pratica, una follia.

Se l’impresa dell’Endurance e del suo protagonista fosse frutto dell’immaginazione di uno scrittore, il racconto ci coinvolgerebbe totalmente, ma forse alla fine diremmo: c’è poca verosimiglianza, troppa avventura, e lui, Shackleton, è una figura poco credibile, quasi sovrumana.

Ma è tutto vero.

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Irlandese, secondo dei dieci figli di un medico che avrebbe desiderato per Ernest lo stesso destino, il giovane Shackleton si imbarca, sedicenne, su una nave mercantile britannica.

Inizia a lavorare come mozzo, fa carriera e diventa nostromo, poi comandante: insomma, la gavetta completa.

Viaggia instancabilmente per il mondo, e intanto legge romanzi e saggi, che insieme alle competenze nella navigazione, sono gli ingredienti necessari per la creazione del perfetto esploratore.

Nel 1900 Shackleton abbandona le rotte commerciali e inizia a partecipare alle spedizioni della Royal Geographical Society.

L’anno dopo si imbarca sulla nave Discovery,

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sotto il comando di Robert Falcon Scott, diretta verso l’Antartide.

In quell’occasione Scott, Edward Wilson e lo stesso Shackleton avanzano nell’entroterra per circa quattrocento chilometri con slitte trascinate a mano.

Nel 1907, Shackleton è a bordo della Nimrod per un’altra spedizione antartica britannica. Ma stavolta è lui a dirigere l’impresa: utilizzando slitte trainate da piccoli e robusti cavallini siberiani, i manchurian pony, Shackleton si spinge fino al punto di latitudine di 88° 23’ sud e, tornato in patria, è festeggiato da eroe.

Il continente antartico è ormai per lui una vera e propria passione, un mistero che lo attrae irresistibilmente.

Appassionarsi all’Antartide non è da tutti. L’Antartide è uno dei luoghi più inospitali della Terra: più esteso dell’Europa, interamente coperto dai ghiacci e pieno di montagne e barriere alte chilometri. Tecnicamente è un deserto, glaciale ma secco. In altre parole, fa quasi sempre troppo freddo per nevicare.

Nella zona più mite, anche se questo aggettivo può suonare incongruo, la temperatura va da - 25°C a - 40°C, mentre nella parte centrale la media annua è inferiore a - 50°C, e nei mesi più freddi (maggio, giugno, luglio) si aggira sui - 63°C.

Tutto l’anno soffiano correnti gelide e impetuose, le più violente del nostro pianeta, che provocano uno spostamento continuo di enormi masse di ghiaccio.

Il continente antartico è abitato soltanto in alcune zone da pinguini, orche, foche, otarie, calamari giganti, minuscoli crostacei, e da un uccello candido, il petrello delle nevi.

C’è anche un moscerino, che per sopravvivere ha sviluppato l’invidiabile capacità di restarsene congelato fino a due interi anni, per poi ricominciare a svolazzare in mezzo a quei venti terribili.

Per questo, quando Shackleton organizzò la sua terza spedizione, gli occorrevano uomini temprati a ogni fatica, in grado di affrontare rischi certi in cambio di un’incerta gloria. Gente dotata, insomma, di un’eccezionale passione per l’avventura.

Le navi sarebbero state due: l’Endurance, capitanata dallo stesso Shackleton, e l’Aurora, al comando di Aeneas Mackintosh, un’altra figura leggendaria e tragica della storia delle esplorazioni.

Mentre l’Endurance avrebbe raggiunto il mare di Weddell per poi iniziare la lunghissima traversata del continente antartico, l’Aurora si sarebbe diretta verso il mare di Ross, sul lato opposto, e i suoi uomini si sarebbero addentrati

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piazzando rifornimenti di cibo e carburante in attesa di Shackleton.

L’equipaggio dell’Endurance fu reclutato tramite un annuncio sul “Times”: «Cercasi uomini per una spedizione pericolosa. Bassa paga, freddo pungente, lunghi mesi nella più completa oscurità, pericolo costante, nessuna garanzia di ritorno. Onori e riconoscimenti in caso di successo».

In verità il testo dell’annuncio è un falso, inventato negli anni Cinquanta da uno dei biografi di Shackleton, ma corrisponde comunque alla realtà dei fatti: il viaggio si prospettava irto di enormi difficoltà e inimmaginabili sacrifici. Nessuno dei partecipanti si sarebbe arricchito, e non poteva neppure essere sicuro di tornare, ma avrebbe scritto il suo nome nelle pagine della storia delle esplorazioni.

Tra quanti si presentarono, ne furono selezionati ventisei. Erano marinai, ufficiali, fuochisti, meccanici, carpentieri, ma anche biologi, meteorologi, ingegneri, geologi, chirurghi, e un fotografo e cineoperatore, Frank Hurley, che in seguito diventerà un grande reporter di guerra.

C’erano anche sessantanove cani da slitta e un gatto, curiosamente chiamato Mrs. Chippy anche se era maschio.

Poco dopo la partenza, si scoprì a bordo un clandestino, un marinaio gallese che era stato

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scartato alla selezione perché aveva solo diciannove anni. Fu nominato cambusiere.

Per quei ventotto uomini si trattava di arrivare alla fine del mondo, percorrere duemilanovecento chilometri su una distesa inesplorata di ghiaccio battuta dal vento e disseminata di crepacci, superare barriere apparentemente insormontabili e, soprattutto, affrontare pericoli ignoti in condizioni climatiche feroci.

Lasciarono il porto inglese di Plymouth nell’agosto del 1914, diretti a Buenos Aires. E poi l’isola della Georgia del Sud a dicembre.

Le cose andarono male fin da subito: il 19 gennaio 1915, a meno di cento miglia dal continente antartico, l’Endurance restò intrappolata nel ghiaccio. Il gelido mare di Weddell si chiuse quasi istantaneamente intorno alla carena e la nave si bloccò.

Ci sono straordinari filmati e fotografie dell’Endurance circondata da un infinito orizzonte di ghiaccio.

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Quello di Weddell è il mare più limpido del mondo. Dove il ghiaccio non lo ricopre, dove non è sovrastato da immani blocchi alti come montagne, lo sguardo può spingersi per quasi ottanta metri di profondità: un mare trasparente di acqua distillata.

Ma all’epoca di Shackleton non lo si sapeva, e comunque questa informazione non avrebbe cambiato la sua storia.

Per mesi e mesi il pack trascinò alla deriva l’Endurance con il suo equipaggio, stritolandola a poco a poco, finché il legno cedette e la nave si frantumò.

Nel frattempo, però, i ventotto naufraghi avevano scaricato tre scialuppe, il gatto, i cani e le slitte, le provviste, il materiale scientifico, i diari di bordo, le lastre fotografiche e i filmati girati, e si erano accampati sulla banchisa polare.

Era la fine di ottobre del 1915.

È difficile immaginare che cosa significhi vivere per mesi a temperature intorno ai - 45°C su instabili lastroni di ghiaccio galleggianti, a migliaia di chilometri dal più vicino luogo abitato, costretti a razionare il cibo, sopportando l’insopportabile.

Per via del vento, il ghiaccio si muoveva formando enormi ammassi, e scricchiolava con assordanti boati (Shackleton li descriverà come «ruggiti di onde profonde e lontane, come se un gigante stesse tossendo sotto i nostri piedi») per poi spalancarsi improvvisamente, e occorreva spostarsi velocemente trascinando con sé le slitte, le derrate, il carburante, le tre barche e tutto ciò che era stato recuperato dall’Endurance, cani e gatto compresi.

La carne di foca divenne il piatto forte dei loro pasti, il grasso di foca l’unico combustibile.

Per fortuna non correvano il rischio di infettarsi con virus e batteri, perché in quei luoghi non ce ne sono. Ma il bianco del pack, assoluto e purissimo, a lungo andare acceca.

Nonostante tutto ciò, i naufraghi non persero il buonumore e trovarono il modo di organizzare anche qualche partita di calcio, che l’instancabile Hurley fotografò.

All’inizio di aprile la banchisa cominciò a incrinarsi in più punti: restare ancora era troppo rischioso, navigare però sembrava possibile.

Shackleton e compagni abbandonarono sul pack ogni cosa (abiti, libri, provviste, slitte e, terribile ma inevitabile, anche i cani) e salirono a bordo delle tre scialuppe.

Dopo sei giorni di navigazione infernale raggiunsero Elephant Island, nell’arcipelago delle Shetland Australi. Un approdo sulla terraferma dopo quasi cinquecento giorni, ma soltanto un brevissimo sospiro di sollievo.

L’isola dell’Elefante è un inospitale scoglio di falesie e ghiaccio lungo poco meno di cinquanta

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chilometri e largo meno di trenta, dal clima spaventoso e lontanissimo dalle rotte commerciali. Per i pinguini, le sue coste rocciose, ricche di anfratti, sono un ottimo luogo di riproduzione. Sulle spiagge si trovano foche ed elefanti marini. I ventotto uomini dell’equipaggio dell’Endurance non sarebbero morti di fame, ma non avevano alcuna possibilità di essere recuperati da una nave: da quel mare non passava nessuno, e nessuno al mondo sapeva di loro.

A questo punto della storia Ernest Shackleton compì un’impresa che ammantò la sua figura di leggenda: con una scialuppa, la James Caird, due marinai, un ufficiale, il carpentiere della spedizione e un esploratore neozelandese, decise di raggiungere la Georgia del Sud, a più di milletrecento chilometri di distanza.

Era il possedimento britannico da cui l’Endurance era partita un anno e mezzo prima. Il primo a mettere piede sull’isola era stato James Cook nel 1775. Se ne era andato subito dopo perché non c’era nulla di interessante: aveva segnato l’isola sulle carte nautiche, l’aveva rivendicata in nome della corona britannica e l’aveva battezzata così in onore del re Giorgio III.

Shackleton sapeva che a nord-est dell’isola si trovava una stazione baleniera, dove avrebbe potuto chiedere soccorso. Ma sapeva anche che il lunghissimo tratto di mare che li attendeva era uno dei più pericolosi al mondo: la James Caird misurava sei metri di lunghezza, e le onde che avrebbero incontrato sarebbero state anche tre volte più alte. Shackleton e i suoi avrebbero infatti navigato in compagnia dei Furious Fifties, “i Cinquanta urlanti”, venti impetuosi che si incontrano all’incirca sul 50° parallelo meridionale e che, muovendo masse d’acqua straordinarie, formano un’incessante tempesta il cui fragore somiglia a un grido potentissimo.

Shackleton, consapevole dei rischi, non caricò a bordo troppe provviste: probabilmente lui e i compagni non sarebbero sopravvissuti alla traversata. Portò con sé un sestante

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e un cronometro per controllare la rotta, ma si trattava comunque di centrare uno scoglio in mezzo all’oceano. Iniziava l’inverno antartico: era il 24 aprile 1916.

Nel suo resoconto, intitolato semplicemente Sud, Shackleton descriverà quella traversata in termini apocalittici: onde alte come imponenti edifici e raffiche di vento violentissime resero il viaggio della James Caird una delle imprese marittime più audaci e, visto il risultato, più fortunate di sempre. Perché arrivare all’isola non bastava: occorreva attraccare. Una burrasca che durò ore e ore costrinse Shackleton e i suoi ad attendere di fronte alla costa rocciosa per evitare di sfracellarsi sugli scogli.

Una volta sbarcati, poi, era necessario attraversare l’isola a piedi: la base baleniera era esattamente dalla parte opposta del loro approdo, e l’idea di circumnavigare l’isola era stata scartata subito. Avevano di fronte a sé decine di chilometri di un territorio inesplorato di montagne coperte di ghiaccio, non possedevano alcuna attrezzatura e, naturalmente, neppure una cartina del luogo: nessuno prima di loro aveva attraversato a piedi la Georgia del Sud.

Sarebbe stata una scalata estremamente impegnativa anche per alpinisti esperti, e loro erano marinai.

I tre uomini fisicamente più deboli rimasero accanto alla scialuppa, Shackleton e due compagni si misero in cammino: avevano soltanto un’ascia e un po’ di corda, e per ascendere senza scivolare piantarono qualche chiodo nelle suole degli stivali.

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