Gli artefatti 2/2
Alfieri & Lacroix: 27 serie di caratteri tipografici Franco Grignani 1960
33a Esposizione Biennale Internazionale d’Arte Bob Noorda 1966
Oui a la Révolution Atelier Populaire 1968
The conversion of St. Paul Elliot Peter Earls 1993
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Alfieri & Lacroix: 27 serie di caratteri tipografici
Tipologia: Manifesto pubblicitario
Data: 1960
Progettista: Franco Grignani
Committente: Alfieri & Lacroix, Milano
Stampatore: Alfieri & Lacroix, Milano
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Nell’Italia post-bellica la progettazione grafica va delineandosi attraverso un intreccio di influenze estere — tra tutte, lo “stile svizzero” che si afferma negli anni Sessanta — e sperimentazioni peculiari, sospinte dagli innumerevoli studi e gruppi di designer e artisti creatisi.
Inoltre, terminata l’epoca d’oro olivettiana, altre aziende tenteranno di affermarsi come guide illuminate per una comunicazione impegnata e “d’avanguardia”.
Franco Grignani si inserisce bene nel contesto della scuola grafica italiana, lavorando nello Studio Boggeri e creando le note campagne pubblicitarie per la casa farmaceutica Dompé e la tipografia Alfieri & Lacroix.
I suoi studi e le sue inclinazioni — ancora una volta trasversali, a causa di una mancanza di un’istituzione che formasse propriamente il grafico com’era la Bauhaus per la Germania — lo portano a mettere a punto un linguaggio che fosse a metà tra scienza e arte, a creare un immaginario formal-espressivo in continua ricerca di significato.
Difatti, dice lo stesso Grignani: “Volevo che l’occhio altrui si educasse a vedere nel mondo intracerebrale degli impulsi la via sensibile adatta all’uomo moderno. Così l’arte entra nella vita come supporto ai problemi della cultura visiva, perché l’uomo non più imbottito di nozioni possa formulare giudizi, indicare scelte, godere di aspetti, avere più fantasia creativa, raddoppiando il valore della vita nell’esaltazione dell’immaginario”.
Tra le correnti artistiche di maggiore importanza per il grafico lombardo, è forte l’influenza del Secondo Futurismo: a Torino, dove studia architettura, ritrova nei quadri di Boccioni le “linee di forza” e i “dinamismi compenetrati” che declina nelle sue strategie pubblicitarie. Il movimento e l’esaltazione dei nuovi mezzi di produzione — come la fototipia o stampa a freddo — sono progettati con metodo e costanza in tutta la durata del suo lavoro. Il medium fotografico è inoltre integrato totalmente, simbolo dell’influsso del modernismo, soprattutto della fotografia di Moholy-Nagy.
Le istanze dell’astrattismo europeo e dell’arte programmata lo avvicinano invece a quelle “alterazioni ottico-mentali” che saranno tipiche del movimento dell’Optical Art degli anni successivi. Grignani sarà pioniere in una sperimentazione di un segno sintetico e minimale, basato su analisi matematiche intrise di teoria gestaltica — di cui forse il prodotto più celebre è il marchio Pura lana vergine, o Woolmark, per la International Wool Secretariat, disegnato nel 1964.
Nel 1952 inizia il suo trentennale sodalizio con lo stabilimento grafico Alfieri e Lacroix, tra le industrie italiane di grande tradizione — è stata fondata nel 1896 a Milano —, la quale nel secondo dopoguerra preme per distinguersi sul mercato
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Grignani (1986)
Sonnoli (2014)
puntando alla qualità della sua produzione. Grignani sperimenta con carte e soluzioni realizzative, utilizzando la tipografia in quadricromia, per sottolineare la qualità della stampa dell’azienda. Ne diventa l’art director, curando nel dettaglio la voce stessa dell’impresa, e creando un esempio di corporate branding. Quest’ultimo non segue strettamente le regole imposte dalle corporation americane: nega infatti la logica della presenza fissa e normalizzata del logotipo; nei manifesti infatti vive un continuo dinamismo tra le lettere “A” “&” “L” — e non solo —, le quali si colorano, sovrappongono, dilatano e restringono.
La tipografia è infatti un aspetto cardine nella progettazione di Grignani per Alfieri & Lacroix, dove le lettere sono allo stesso modo significante e significato. Negli stimati quindicimila esperimenti tra manifesti, brochure e pubblicità si sussegue un’oscillazione tipo-fotografica, nella quale il testo diviene immagine e l’immagine si fa testo attraverso illusioni ottiche, distorsioni e frammentazioni — che in parte anticipano le sperimentazioni degli anni della rivoluzione digitale. Gli allusivi testi, scritti dallo stesso Grignani che si re-inventa anche moderno copywriter, riecheggiano il modus operandi che predilige l’astrazione e la sostanza concettuale piuttosto che la realtà fenomenica, basandosi su un’interdipendenza tra occhio e mente, con motivi ripetuti ma mai ripetitivi.
Il manifesto del 1960 Alfieri & Lacroix: 27 serie di caratteri tipografici mostra le “scritture d’immagini” nel loro senso più stretto: i “fiori per il giardino tipografico”, ovvero colonne di lettere sans-serif in nero, crescono fino a toccare il nome della stamperia, in carattere graziato egiziano e in diversi colori, posta al centro della composizione. Una fotografia posterizzata di una donna interagisce con il resto dell’immagine, appoggiandosi agli “steli”.
Quest’artefatto è in realtà tra i più didascalici di Grignani, poiché utilizza la tipografia stessa per disegnare allusivamente oggetti fisici e tangibili — ben diversi sono i manifesti nei quali segni reiterati creano ritmi geometrici. Nonostante ciò, evidenzia la padronanza delle azioni che Grignani effettua: una sintesi evocativa, una ricerca cinetica che incorpora il messaggio che essa stessa veicola. Difatti, egli non aveva bisogno di promuovere il prodotto (la stampa, i tipi) o l’azienda in sé, ma la grande varietà di possibili applicazioni che essa aveva grazie alla sua qualità tecnica.
Per Grignani infatti la ricerca di nuovi segni significanti è essenziale per creare composizioni visive che non si perdano nell’immensa quantità di immagini dell’era moderna.
Quest’ultima, secondo Grignani, ha bisogno di stimoli in continuo mutamento, che rispondano della tensione dello spazio
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Polano, Vetta (2002)
Baroni, Vitta (2003)
nel quale l’artefatto è pensato e immerso e della sua interazione con il lettore: “La tipografia è una selezione di esempi [...] di tutto ciò che si può ottenere vedendo oltre lo sguardo, uno sforzo travagliato ma libero, inventivo, paradossale, inspiegabile, e molto razionale, uno spettacolo di idee che nutre l’immaginazione.”
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Grignani (1984)
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33a Esposizione Biennale Internazionale d’Arte
Tipologia: Manifesto per eventi
Data: 1966
Progettista: Bob Noorda
Committente: La Biennale di Venezia, Venzia
Stampatore: Poligrafico G. Colombi S.p.A., Milano
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Negli anni Sessanta, la “via italiana” al design è ormai affermata e riconosciuta, grazie alle sue peculiarità che la distinguono dallo swiss style imperante nel resto del continente, coadiuvato dalla Scuola di Ulm in Germania. A quel tempo, Milano è il centro economico e finanziario del Paese, dove mondo imprenditoriale e cultura del progetto trovano un punto comune e un dialogo costante. Il mercato, il quale è ancora spinto dall’era di crescita e sviluppo della ripresa, è ora ricco di aziende e corporation che cercano potere e controllo attraverso la comunicazione dei loro prodotti e la pubblicità persistente ormai in tutti i media. Difatti, il cosiddetto miracolo economico si esaurirà solo negli anni Settanta, e aprirà la strada a progettazioni visive che si sposteranno in contesti di pubblica utilità.
Al grande periodo di espansione di mercato si affianca una progettazione di diversi designer che incarna i modelli economici e li unisce ai valori dell’industria italiana, tra innovazione e tradizione.
Importante è l’esperienza di Bob Noorda, olandese di nascita e italiano d’adozione, il quale si trasferisce a Milano a metà anni Cinquanta, e che in breve tempo diventa un punto di riferimento per l’intera cultura visiva.
La sua forma mentis si differenzia rispetto ad alcuni suoi contemporanei italiani: ha studiato ad Amsterdam, la sua città natale, ed ha quindi influenze del funzionalismo olandese e del razionalismo Bauhaus. Le suddette influenze — unite, come detto, alle particolarità della mentalità milanese — contribuiscono a creare un progetto razionale e minimale, pre-esistente nel capoluogo meneghino già dagli anni Trenta, che allo stesso modo sia duttile, lontano dalla rigidezza del modernismo svizzero o dalla pubblicità sfrenata tipica statunitense. Noorda è principalmente ricordato per la creazione di identità visive e marchi delle principali imprese italiane: di rilievo è il rapporto con Pirelli, per la quale sarà art director; in aggiunta alla nota progettazione della segnaletica della metro di Milano (con Albini ed Helg), oltre che, tra i tanti, i lavori per Agip, Feltrinelli e la regione Lombardia (qui con Sambonet, Tovaglia, Munari). La sua amicizia con Massimo Vignelli e la collaborazione nell’agenzia Unimark International lo porteranno poi ad essere conosciuto anche oltreoceano.
Non è poi paradossale che sia stato un olandese a plasmare l’immagine dell’industria del Bel Paese; al contrario, questo particolare rapporto sottolinea ancora una volta quanto il progetto italiano in quegli anni fosse un crocevia di culture — visive e non —; e di come la grafica sia essa stessa inevitabilmente figlia di altra comunicazione e intrecci, mai univoca. Noorda infatti crede che l’identità visiva sia basata su
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Bulegato (2013) ibid.
una discussione comune su problemi e pregi dell’azienda in questione, la quale porta, inoltre, ad una maturazione interna della stessa.
Il suo approccio è metodico e sistematico, con il rigore alla base teorica della progettazione; la sua forza sta però nell’essere adattabile alle esigenze del cliente specifico, e per questo è capace di tradurre le necessità visive di ogni azienda incontrata.
È questa flessibilità che permette a Noorda di lavorare anche con una delle istituzioni d’arte maggiori del Paese: La Biennale di Venezia. La storia dell’Esposizione attraversa infatti tutto il Novecento, ed è tutt’ora tra i più importanti eventi culturali a livello globale. Nasce nel 1895, seguendo il gusto delle grandi fiere ed esposizioni che a fine secolo si tenevano nelle grandi città d’Europa, marcando e promovendo lo sviluppo industriale dell’intero continente. È quindi interessante percorrere la vita della Biennale attraverso la sua comunicazione visiva — che parte ovviamente dal manifesto, strumento chiave ai tempi della sua fondazione —, la quale spazia dall’epoca della réclame fino alla decostruzione digitale, per arrivare al contemporaneo.
Nel 1966 a Noorda è affidato il manifesto della 33ima Biennale d’Arte — che rimane l’esposizione principale; negli anni infatti se ne sviluppano altre riguardanti, ad esempio, cinema e architettura. Subentra quindi al collega Vignelli che se ne era occupato nel 1962 e 1964: le caratteristiche della composizione possono effettivamente dirsi rassomiglianti tra loro, con l’utilizzo di caratteri sans-serif e la quasi esclusività del bianco e nero (solo nel secondo manifesto di Vignelli è usato il tricolore). La composizione di Noorda è caratteristica del suo metodo progettuale, che incorpora regole e plasticità donde la lettera si comprime. Attraverso una breve ripetizione, opportuni tagli all’asta verticale, e il cambio di sfondo al negativo, la lettera “B” diventa il logo stesso dell’esposizione. L’affinità tra i glifi bastoni “B” e “3” crea una sorta di immagine autonoma. Di maniera concisa, Noorda unisce quindi immagine e linguaggio in un segno sintetico-espressivo che prova a distaccarsi dal classico modernismo svizzero di quegli anni — pur rimanendone influenzato.
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6.3, 6.4 6.5, 6.6 6.7, 6.8
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Oui a la Révolution
Tipologia: Manifesto politico
Tecnica: Serigrafia
Data: 1968
Progettista: Atelier Populaire
Committente: Autocommissionato, Atelier Populaire
Stampatore: Autoprodotto, Atelier Populaire
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Il contesto della progettazione visuale francese si differenzia molto rispetto alle altre nazioni europee, a causa di contesti socio-culturali diversi. Il “Paese dei Lumi” ha una grande storia sin a partire dal Settecento: è qui che si effettua una prima razionalizzazione tipografica grazie all’Imprimérie Royale e Fournier; e dove poi nel secolo successivo la prima fotografia e il cinema — con Daguerre e i fratelli Lumiére — prendono piede. Inoltre, la ville lumiére è simbolo stesso della modernità, che avanza grazie ad una rapida industrializzazione e la nascita dei grandi magazzini. Può essere considerata, tra gli altri pregi, la patria del manifesto, nella quale Chéret ha pieno dominio. Nel primo Novecento, innumerevoli correnti d’arte d’avanguardia la attraversano plasmando l’immaginario visivo, passando per Art Nouveau, Art Déco e Dadaismo.
Tra le due guerre le influenze del razionalismo toccheranno per lo più l’architettura — di enorme importanza è il lavoro di Le Corbusier, tra i padri del Movimento Moderno —, mentre la grafica non si avvicinerà di molto alle regole bauhausiane.
Così la Francia della Quarta e Quinta Repubblica si districa tra ricostruzione e adesione al capitalismo e nuovo imperialismo, e subbugli cultural-filosofici che esploderanno definitivamente nella rivoluzione del Maggio francese. Il movimento studentesco e operaio, contro la società del costume e il consumismo, dà un contributo peculiare al medium del manifesto.
Quest’ultimo è ormai in declino: dopo quasi un secolo di supremazia, è superato da cinema, radio e televisione. Relegato in alcuni ambiti ben delimitati, privilegia l’informazione culturale e sociale, e ritrova quindi forza nella spinta sessantottina.
Parigi è sia centro delle proteste sia degli atelier e delle scuole d’arte. L’École des Beaux-Arts è occupata e ribattezzata Atelier Populaire: sarà in prima linea nella stampa dei quasi cinquemila manifesti per tutta la durata della crisi. Successivamente, diverse città seguiranno l’esempio della capitale. Nell’arco di poche ore, si creano diversi laboratori litografici e serigrafici per poter creare in massa le affiches e comunicare i nuovi messaggi politici. Questi ultimi riflettono lo spirito di protesta della società dell’epoca: divengono mezzi propaganda, e allo stesso modo strumenti di espressione e libertà. Le frasi brevi e taglienti, spesso provocatrici, raccolgono diversi temi comuni, quali l’abolizione della “Francia del passato” e dell’autorità, la critica alla radiotelevisione al servizio del potere, e la lotta contro il modello capitalista. Oltre ad essere carichi di ideologia politica, i messaggi dei sessantottini aprono una grande riflessione sulla comunicazione di massa, la quale in quel momento storico è vista come monopolizzata e oligarchica, in mano allo Stato o a chi detiene denaro.
In questo contesto, la stampa manuale e autoprodotta dei protestanti rimarca una volontà ad una grafica “impegnata”,
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Baroni, Vitta (2003)
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che affronti temi sociali e popolari invece di essere sempre assoggettata al mercato e alla produzione.
Nell’Atelier, anche il progetto dei manifesti è collettivo: si creano bozze durante la giornata, e di sera le si appendono tutte in una stanza dove l’assemblea generale ne discute i contenuti. Gli artisti dell’accademia sono diventati “piccoli soldati al servizio della lotta operaia”, e i messaggi sono opera dell’immaginazione del popolo.
L’artefatto qui analizzato non ha infatti un progettista specifico, ma prende il nome di tutto il fronte di rivolta. Molti sono gli slogan ricorrenti utilizzati — La beauté est dans la rue è sicuramente tra i più storici, poiché affronta anche il tema del femminismo —, e alcuni di essi rimarcano sussulti sociali ben più lontani: questo è il caso di Oui à la révolution, con chiari riferimenti alla rivoluzione contro l’ancien régime.
La tecnica di stampa serigrafica ha qui determinato l’intera idea compositiva: generalmente si combinano immagini semplici, come silhouette di persone, e slogan che attirino l’attenzione di chi passeggia per la via. I segni qui presenti sono estremamente diretti, e il testo si fa immagine in una moltitudine di ovali rossi che scrivono la parola “Oui”. I colori piatti — ovviamente si è scelto il rosso come richiamo al socialismo — creano comunque dinamismo grazie alla disposizione più o meno casuale degli elementi, dove le lettere sono allargate, rimpicciolite, ruotate e distorte a seconda della necessità.
È interessante notare come la voce dei sessantottini riesca a sovvertire alcune regole grafiche dominanti anche nel resto d’Europa; ciò evidenzia come una progettazione “dal basso” che sia pienamente conscia del messaggio che vuole veicolare possa portare a risultati di valore visuale.
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7.3 7.4 Simon (2018)
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7.2
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The conversion of St. Paul
Tipologia: Manifesto
Tecnica: Litografia offset
Data: 1993
Progettista: Elliot Peter Earls
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Nel corso del Novecento, ogni nuova scoperta e invenzione tecnologica ha influenzato pesantemente il nostro modo di comunicare e, di conseguenza, anche la comunicazione visiva. Al di là di radio e televisione, niente rende il secolo breve degno di questa affermazione tanto quanto la rivoluzione digitale. L’avvento dei personal computer negli anni Ottanta destabilizza gli ordini creati fino a quel momento, e spodesta definitivamente lo swiss style dalla scena della grafica. Difatti, i valori modernisti di rigore e ordine avevano perso di senso, in una nuova era dominata da complessità e contaminazione: i grandi sistemi filosofici e ideologici fanno spazio ad una trasgressività diffusa e ad una rivalsa dell’espressività personale, dando luogo al cosiddetto “post-moderno”, che si sbarazza delle convenzioni svizzere ormai divenute vuoti stilemi. Ironicamente — o inevitabilmente —, è proprio dalla nazione elvetica che il post-moderno va delineandosi. Wolfgang Weingart, tedesco che studia e poi insegna a Basilea, è tra i primi della nuova generazione che sperimenta oltre gli esasperati sans-serif e adatta un approccio additivo all’immagine, un “more is more” che attraverso collage effettuati grazie alle nuove tecnologie vuole rinnovare la tipografia con nuovo dinamismo, esasperando la struttura visiva. La critica weingartiana è ben accolta dai suoi allievi ed esportata negli Stati Uniti, dove si evolve poi nella New Wave americana, della quale April Greiman è grande esponente. Con lei si assiste alla nascita di una “scuola californiana” della progettazione visuale, nella quale si uniscono la lezione post-modernista e la cultura visiva della West Coast, creando un linguaggio ibrido il quale abbraccia pienamente il personal computer come mezzo di produzione — in particolare, il Macintosh. La comunicazione emozionale di Greiman è di fondamentale importanza per comprendere gli avvenimenti d’oltreoceano: i rinnovati modelli culturali digitali — che rifiutano categoricamente la staticità e ricercano nuovi spazi visivi — si intrecciano alla fluidità della cultura americana che spesso sfuma i limiti tra arte e design.
Si può dire quindi, con gli anni Novanta alle porte, che il passaggio alle neografie è compiuto: la dematerializzazione dei supporti fisici — ovvero la trasposizione della stampa verso le forme “liquide” degli schermi — e la democratizzazione degli strumenti, ha conferito alla progettazione grafica flessibilità e multiformità fino a quel momento mai sperimentate. Difatti, se la fotocomposizione negli anni precedenti aveva in parte cambiato il metodo di arrangiamento degli elementi nella pagina, è solo con la composizione virtuale che tutte le certezze del piombo vengono infine meno.
Queste peculiarità trovano clima fecondo in particolare nell’Accademia di Cranbrook, Michigan. Si dice che essa sia
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Baroni, Vitta (2003)
stata definita da Vignelli “la più pericolosa scuola di design in America”: probabilmente nessun’altra frase può spiegare al meglio lo scardinamento dei valori modernisti, detta infatti da un designer tra i più famosi della corrente dell’International Style grafico.
In ciò che inizialmente può sembrare una residenza artistica, vi è una approfondita sperimentazione grafica, dove si interviene nel campo della struttura stessa del linguaggio, avendone scardinato i principi. La re-invenzione non è quindi solo estetica, bensì teorica: si giunge, infine, alla completa destrutturazione di pagina e lettera.
Se molti alla domanda “il graphic design deve essere espressione?” non trovano una risposta certa, nel contesto di Cranbrook uno studente in particolare, Elliot Peter Earls, sa di per certo che i suoi progetti sono espressione pura. L’esperienza di Earls è indubbiamente peculiare e rimane una personalità difficilmente classificabile data la sua continua iper-attività di decostruzione.
Convinto sostenitore di una poetica nella quale si debba lasciare che i segni “siano fedeli a se stessi”, Earls crea — o distrugge? — una tipografia instabile e “acrobatica”. Il suo design “disfunzionale” non cerca di veicolare un messaggio preciso; al contrario, coerentemente con la sua attitudine da performer, invita il lettore-visualizzatore a seguire il suo istinto, la sua beatitudine — “follow your bliss” — e rimanda così l’interpretazione a quest’ultimo.
Il manifesto The Conversion of St. Paul è parte dell’Apollo Program Poster Set, di cui l’omonima famiglia di font — qui utilizzata — è tutt’oggi venduta dalla fonderia Emigre. È infatti grazie alla suddetta rivista tipografica che Earls si avvicina al disegno di caratteri, nei quali si sente la necessità di sperimentare su colore, movimento e mutabilità. La contaminazione di diverse culture è palesata nei glifi rassomiglianti all’alfabeto cirillico e ai pittogrammi orientali; mentre la deformazione spesso non agisce sul ductus (il carattere Blue Eye Shadow è forse quello con una destrutturazione maggiore), bensì è spinta sulle terminazioni delle lettere, le quali presentano arrotondamenti, ingrossamenti, tagli. L’intera composizione è volutamente instabile: una palette cupa mostra un busto di un uomo irrequieto, il quale sembra muoversi; mentre la tipografia, nei colori nero e rosso e di grande varietà — si notano quattro caratteri diversi — si ritrova a corpi e angolazioni differenti.
Il manifesto è il prodotto delle nuove tecnologie, con le quali il trattamento della fotografia cerca dinamismo cinetico e i testi “si compenetrano in una formula in cui tutto si trasforma in immagine”.
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Fuller (2021)
Poynor (2002)
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L’influsso della scuola di Cranbrook e della cultura del progetto americana crea un immaginario distorto che trova agio anche nell’auto-espressione e nella non-chiarificazione dei messaggi. Il ciclone digitale guidato da Earls porta indubbiamente a riflessioni sulle regole imposte e al rapporto tra designer e medium progettuale, anche se, in questo specifico caso, può essere considerato più un rimando artistico — come si può constatare per l’esperienza di Neville Brody, negli stessi anni, nel Regno Unito — rispetto ad un artefatto comunicativo con lo scopo intrinseco di veicolare il proprio messaggio al di là della forma visiva.
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