Università Iuav di Venezia
Corso di Laurea Magistrale
in Design del prodotto e della comunicazione visiva a.a. 2020/2021
Serena De Mola
Composizione tipografica
in FF Scala Sans (1989, Martin Majoor) e FF Scala (1991, Martin Majoor)
disegnati con il primo modello Apple Macintosh
Il titolo in copertina è riprodotto in Oakland (1985, Zuzana Licko)
disegnato in bitmap
Sommario Drift and float — April Greiman 4 Rub out the word — Neville Brody 8 Into the digital realm — Emigre 12 Is anybody out there reading? — Octavo 16 Linear progession — Octavo 20
Drift and float
Poynoir Rick, April Greiman: it’s not what you think it is, 1994, in Design without boundaries. Visual communication in transition, London: BoothClibborn editions, 1998, pp. 41-44
4 progettisti
analogico e digitale
tra
I risvolti del post-modernismo sono strettamente intrecciati ai nuovi mezzi tecnologici della rivoluzione digitale. L’esempio peculiare di April Greiman negli Stati Uniti ci mostra come questo rapporto possa essere indirizzato verso una comunicazione introspettiva e personale. L’emozione della New Wave americana pone domande sul peso dei media informatici nella progettazione e sul rapporto tra design e arte. Il dialogo tra il designer e lo strumento da egli utilizzato è alla base dell’approccio additivo di Greiman, la quale attraverso un immaginario ibrido porta ad una riflessione di fondo su quanto il progettista debba modellare e adattare il messaggio dell’artefatto da lui creato, e se e come debba accettare le casualità date dal software.
La West Coast americana degli anni Settanta ed Ottanta rappresenta uno stile di vita lussuoso e spinto ai limiti, immerso tra deserti soleggiati e città notturne iper-colorate. Le aziende tecnologiche della Silicon Valley in piena espansione e la cultura di massa ormai già fortemente affermatasi portano una grande attenzione verso la cosiddetta “originalità” di “stile” e contenuti. Per noi europei, il contesto d’oltreoceano è sempre sembrato molto lontano rispetto al vecchio continente: in realtà analizzarlo nel dettaglio ci mostra come le influenze — in questo caso, grafiche — si creino e si ripetano rimbalzandosi l’un l’altra, anche tra “nuovo” e “vecchio” mondo.
La carriera di April Greiman è infatti un’interessante intersezione tra questi due suddetti mondi. Americana di nascita e di indole, studia però a Basilea ad inizio anni Settanta, durante la piena affermazione e monopolio del modernismo svizzero. È qui che il tipografo e suo professore Wolfgang Weingart, l’enfant terrible degli elvetici, influenza fortemente Greiman, spingendola verso una grafica di espressione personale e l’utilizzo delle nuove tecnologie. Con il suo stabilirsi in California, la Greiman si manifesta come esponente della neonata New Wave americana creando un approccio ibrido, fortemente influenzato dalla sua realtà circostante e sensibile ad essa. Infatti, dove Weingart utilizzava la fotocomposizione, Greiman utilizza invece il Macintosh, invenzione simbolo della valle: è qui, in parte, che giace la sua vera rivoluzione. Il primo artefatto interamente progettato grazie al computer Apple è stato infatti della designer americana. Nel 1986, il Walker Art Center commissiona a Greiman l’intero numero 133 della rivista Design Quarterly. L’innovazione parte già dal formato: i trentaduesimi del magazine sono convertiti in un enorme poster. Una volta aperto, esso mostra l’autoespressione della Greiman — ben diversa dall’autocelebrazione — attraverso uno “spazio visivo ibrido”, declinato in un suo autoritratto, nella quale lei è nuda ed a dimensioni naturali. Esso incorpora le tecniche di collage, un fervente simbolismo (il suo “doppio spirituale”) ed una sorta di aspetto mistico. Il processo di progettazione è totalmente additivo (altra influenza Weingartiana): Greiman aggiunge più elementi fino ad arrivare ad un equilibrio da lei scelto, nel quale
april greiman 5
Nella pagina accanto, April Greiman, Does it makes sense?, 1986. Poster per il Walker Art Center. Fonte: [madeinspace.com]
le tecnologie utilizzate assumono un ruolo molto importante. Il titolo dell’artefatto, Does it makes sense?, riassume la sua metodologia in una domanda diretta e rivolta al lettore-spettatore: lo scopo è suscitare emozione piuttosto che dare un messaggio preciso, e lasciare al lettore il compito di capirlo e interpretarlo — o anche solo intuirlo. La soggettività di contenuto e forma rimanda inevitabilmente ad un rapporto con l’arte, costantemente presente nel corso della sua carriera; la quale rappresenta, tra le altre relazioni, un connubio tra immaginazione e sintesi.
La cosiddetta New Wave quindi, si muove tra “ricognizioni inconsce” e “comunicazione emozionale”. Per Greiman la forma non è creata a partire dal contenuto, ma “informa” lo stesso; e qui le analogie con ciò che poi Neville Brody effettuerà qualche anno dopo in Inghilterra possono già essere intraviste. C’è da sottolineare, inoltre, come il complesso dialogo instauratosi tra forma e contenuto sia dato dalla grande intuizione di Greiman sull’utilizzo delle nuove tecnologie. Per la designer il futuro sarebbe stato plasmato da mezzi digitali capaci di riunificare più strumenti sotto un’unica macchina (e trent’anni dopo abbiamo potuto darle ragione). Negli anni Novanta infatti, l’approccio di Greiman all’immagine “statica” era visto come di grande avanguardia perché intravedeva già le potenzialità del computer, rendendo la citata immagine “dinamica”. Il dialogo tra la macchina e l’uomo — o la donna, in questo caso — porta ad un ampliamento di prospettive: Greiman crea una tridimensionalità, quasi a voler suggerire nuove dimensioni nello spazio della pagina (non a caso il suo studio a Los Angels è denominato “Made in Space”). La profondità auto-costruita fa fluttuare le immagini e i ritagli, i quali allo stesso tempo sono saldamente ancorati tra loro e allo sfondo, dimostrando una eccezionale gerarchia e maestria di composizione. Il caos apparente è in realtà una de-contestualizzazione e de-costruzione visuale che porta con sé i valori e i mezzi di una cultura pop prettamente americana (e molto meno svizzera). Nei suoi progetti quindi lo scopo primario non è dare un particolare significato razionale; piuttosto si concentra sul processo utilizzato per ottenere l’artefatto e sui mezzi tecnici utilizzati.
La Greiman considera il computer solo come un ulteriore strumento — “just another pencil” — ma più potente: non lo ha mitizzato, ha accettato le sue enormi potenzialità ma si lascia comunque guidare dal suo personale messaggio emotivo piuttosto che dalle capacità della macchina. L’errore e i bug sono benvenuti ed accettati come parte del processo, ma non escludono una riflessione di fondo su quest’ultimo. Agli inizi della rivoluzione digitale, il rapporto di Greiman con il computer era differente rispetto alla nostra odierna e perenne relazione con
6 progettisti tra analogico e digitale
April Greiman, Information/Texture, 1985, Poster promozionale per Simpson paper company. Fonte: [internationalposter.com]
gli schermi; e pone una riflessione generale su quanto essi siano usati dal progettista con un metodo consapevole com’era quello di Greiman o se siano le automazioni a guidare il progetto — e non solo bug dati da tecnologie in versione beta.
Oggi, infatti, l’affidamento ai mezzi digitali pre-impostati (che è totale nei casi dei “non addetti ai lavori” che si cimentano in “creazioni grafiche”) ha portato alla volgarizzazione e conseguente abbassamento di qualità media degli artefatti; risvolti che Greiman non poteva di certo immaginare. L’automazione di alcuni processi ha ribaltato la concezione della designer americana su come l’utlizzo del Macintosh fosse non solo una svolta tecnica, ma concettuale e di approccio. A causa degli standard, dei template e delle impostazioni di default dei software, non solo il lavoro grafico è svalutato oltre che volgarizzato, ma ha perso l’approccio illuminato e di apporto di significato. Si può dire che il computer sia diventato una ulteriore gabbia che sostituisce quella dello swiss style e abbia creato nuovi vincoli tecnologici. Un pensiero metafisico e simbolico come quello di Greiman forse può riuscire a farci intravedere ancora le potenzialità dei computer senza che l’artefatto e il nostro stesso processo ne sia sovrastato.
Bibliografia e sitografia specifica
• Lorusso Silvio, Il graphic design tra automazione e relativismo, 01/2017, in http:/www.che-fare.com/design-graphic-elite-cognitariato/(05/2021)
• Polano Sergio, Vitta Pierpaolo, Abecedario. La grafica del novecento, Electa, Milano, 2002
• Yedgar Ariella, Interview with April Greiman, 08/2010, in http://www. tm-research-archive.ch/interviews/april-greiman/ (05/2021)
april greiman 7
April Greiman, Wet Cover, 1979. From [internationalposter.com]
Rub out the word
Poynoir Rick, I.D., 1994, in Design without boundaries. Visual communication in transition, London: Booth-Clibborn editions, 1998, pp. 105-111
tra analogico e digitale
8 progettisti
Verso la fine degli anni Ottanta, Neville Brody è stato considerato una delle figure più influenti nel panorama del graphic design inglese e internazionale, soprattutto grazie al suo lavoro per i fashion magazine The Face e Arena. I suoi riconoscimenti e il consenso verso il suo metodo iniziano però a diminuire dopo la pubblicazione della monografia The Graphic Language of Neville Brody, e un articolo sul The Guardian sul “set up” del graphic design a lui contemporaneo, entrambi del 1988 e largamente disprezzati dalla critica. Il libro è considerato come sua sorta di testamento ideologico — nonostante Brody fosse molto giovane quando è stato redatto —, e sarà anche questa sua caratteristica a creare scalpore. La peculiare carriera di Brody, infatti, ci fa riflettere su diversi temi complessi, e per alcuni versi ancora attuali, della progettazione visiva. Il suo approccio a ciò che egli definisce “linguaggio”, dal quale omette consciamente la parola “visivo”, apre questioni sulla definizione stessa del design della comunicazione e sui problemi che il progettista deve risolvere per veicolare un messaggio.
L’Inghilterra degli anni di Brody non aveva solo una sfaccettatura tradizionalista com’era quella di Morison e Warde, e il designer inglese è stato sensibile nel cogliere le nuove influenze della sua epoca. Il post-modernismo si declinava nella cosiddetta corrente New Wave, differenziandosi in ogni Paese raccogliendo nuove istanze a seconda delle sottoculture lì presenti. L’attitudine punk di Brody si sposa perfettamente con l’omonimo movimento britannico, popolarissimo negli anni Settanta ed Ottanta. Egli è considerato quanto prima un “ribelle” della sua categoria e tende fin da subito a porre questo caos, dato dalle sue personali influenze e metodologie, negli artefatti da lui creati. La sua carriera può essere infatti vista come piena di contraddizioni. Si definisce egli stesso designer, quando spesso i suoi detrattori lo hanno accusato di essere invece uno “stylist”, ovvero di giustapporre il suo personale “stile” — che da lui potrebbe essere definito piuttosto un linguaggio — sul contenuto. Gli esempi qui citati delle riviste The Face (1981-1986) e Arena (1987-1990) sono stati infatti criticati aspramente per non creare effettivi messaggi o significati ma solo layout “poco leggibili”. Si può pensare di avere la conferma a questa affermazione considerando l’articolo scritto assieme a Wozencroft (collega che condivide con lui la sua visione) per il The Guardian. Esso sarebbe potuto essere un’opportunità di opporsi agli stilismi e trend della progettazione grafica di quegli anni, ed invece è diventato uno stilismo a sua volta: le grosse frecce poste tra le strette colonne di testo in Helvetica rimandano esattamente alle decorazioni e scelte tanto condannate. Che fosse ironia? Negli anni seguenti, la scelta di utilizzare l’Helvetica nel magazine Arena (pur sempre operando determinate scelte che rimaneggiassero in qualche modo la tipografia) può essere vista come “espiazione e abnegazione”, quasi fosse un atto volto a dimostrarsi altro rispetto alle critiche.
neville brody 9
Nella pagina accanto, Neville Brody, Poster in A1 del carattere State, 1991. Fonte: [http:// www.christianjohnstone.com/]
È quindi con il suo magazine Fuse, pubblicato per la prima volta nel 1991, che Brody prova ad esprimere al meglio il suo concetto di comunicazione. Esso si presenta come una pubblicazione sperimentale sulla tipografia, nel quale ogni numero affronta un tema specifico — religione, (dis)informazione, e virtual reality sono alcuni tra i 18 scelti — ed è accompagnato da ben quattro caratteri di nuovo disegno. La peculiarità è che questi ultimi erano dati al lettore in un floppy disk, quindi in forma digitale. Le nuove font erano inoltre una libera interpretazione del tema scelto: si creava quindi un esempio di “type concettuale” che incorporava anche i cambiamenti tecnico-tecnologici. Nei saggi, Brody e Wozencroft “scrissero con una retorica appassionata, come se si vedessero in lotta contro l’establishment tipografico repressivo, creando font che rifiutavano la funzionalità come ragione per progettare caratteri.”¹ I tipi digitali di Brody, infatti, spesso possono risultare al limite della leggibilità, e seguono il suo ideale di dividere “la forma della parola da ciò che la parola dice”, di cancellarla.
Il designer britannico giustifica la sua propensione all’astrattismo come naturale conseguenza dell’avvento tecnologico. Ci dice infatti che per lui la potenzialità della tecnologia del desktop publishing nelle mani di un non-designer possa liberare poi il designer stesso dalla necessità di rappresentazione, nello stesso modo nel quale la fotografia ha liberato l’artista ad inizio Novecento. L’analogia con l’arte è forte e potente, e sottolinea l’esistenza, per Brody, di una precedente necessità di rappresentazione: ciò sembra alludere ad una ipotetica commissione di progetto ormai non più necessaria nei tempi moderni. Le definizioni di designer e non-designer — qui, tra l’altro, ben distinti — si sovrappongono assieme a quella dell’artista. Egli vede, già negli anni Novanta, il tempo del progetto ormai al suo termine, dando per scontato come esso fosse sempre stato diretto su di un unico percorso e verso una fine ultima. Questa fine, per Brody, grazie all’avvento tecnologico, non è più una comunicazione pensata per uno scopo ben preciso, bensì una creata per essere fine a sé stessa.
Nel suo approccio il computer è infatti considerato come un potente strumento per esplorare la mente da punti di vista profondi e nuovi, una sorta di magia che dovrebbe permettergli di uscire dalla “trappola delle parole”. Si nota infatti come Brody abbia una visione personale anche sul significato stesso del termine linguaggio visivo, e come interpreti a suo modo la sua messa in scena di quest’ultimo. Si possono notare qui delle similitudini all’approccio della New Wave americana di April Greiman, la quale interpreta la costruzione di un messaggio secondo il suo personale metodo. Si può quindi riflettere su come l’espansione dell’accessibilità dei mezzi tecnologici, nel caso specifico di Brody per quanto concerne la tipografia, abbia portato ad una rottura con le regole.
10 progettisti tra analogico e digitale
¹ Biľak Peter, Conceptual Type?
Brody e Wozencroft, articolo per il The Guardian, 1988. Fonte: [https://blog.typogabor.com/]
I suoi continui rimandi al mondo dell’arte, dall’esempio della fotocamera per l’artista, agli “stadi” della disciplina del design come fossero essi stessi correnti artistiche ed, infine, ad una comunicazione totalmente libera — da contesto, o committente o destinatario —, sottolineano come per Brody l’arte e il design possano essere non solo parti dello stesso linguaggio, ma un unico stesso linguaggio. D’altro canto la citazione finale dell’intervista, “I enjoy creating modes of communication, but I don’t enjoy communicating” riassume brevemente il suo modus operandi e approccio, volto più ad una ricerca ed esplorazione di linguaggi che non sono sempre accessibili a tutti — come alle volte risulta quello dell’arte, carico di allusioni e libero da scopi precisi che sono solo a discrezione del creatore — piuttosto che ad una comunicazione per un determinato scopo. Il personale intreccio tra design e arte creato da Brody, ci porta però a dover distinguere gli obiettivi di una progettazione grafica che non sia solo a sé stante. Il suo apporto sperimentale alla tipografia è indubbiamente peculiare, ma è il medesimo approccio a scoprire anche i propri limiti: se il ruolo del designer può essere inteso come mediatore tra contenuto e destinatario, possiamo constatare come il suddetto rapporto nel design di Brody sia inevitabilmente annullato. Il computer, con le sue potenzialità di astrazione e di amplificazione, è un grande medium volto ad espandere la comunicazione e a renderla libera da determinati stilismi; ma una progettazione che si possa definire tale deve, in ogni caso, tenere bene a mente il suo scopo intrinseco, che è quello di veicolare un messaggio al di là della sua forma visiva.
Bibliografia e sitografia specifica
• Biľak Peter, Conceptual Type?, 02/2011, in https://www.typotheque. com/articles/conceptual_type (05/2021)
• Hamamoto Christian, Fuse 1-20, 12/2012, in https://typographica.org/ typography-books/fuse-1-20/ (05/2021)
• Poynoir Rick, Reputations: Neville Brody, in Eye no. 6 vol. 2, 1992, disponibile online in http://www.eyemagazine.com/feature/article/reputations-neville-brody (05/2021)
neville brody 11
Il Floppy Disk del primo numero di Fuse. Fonte: [http://www.christianjohnstone.com]
Into the digital realm
Poynoir Rick, AIGA Journal of Graphic Design, vol.12 no.1, 1994, in Design without boundaries. Visual communication in transition, London: Booth-Clibborn editions, 1998, pp. 211-213
12 progettisti tra analogico e digitale
Nella pagina accanto,Emigre n.15, Do you read Me?, 1990. Intervista a Zuzana Licko sulla leggibilità dei caratteri. Qui è usato il Citizen, disegnato da Licko nel 1986. Fonte [letterformarchive.org]
L’articolo analizza principalmente il tema della critica sul design, considerando il caso specifico di Emigre: Graphic Design into the Digital Realm, pubblicazione del 1993 che raccoglie l’eredità, sino a quel momento, della rivista Emigre (U.S.A., 1984 - 2005), la quale è stata uno dei più significativi fenomeni della progettazione grafica americana. Ci si chiede infatti, come una rivista di tale peculiarità come quella di VanderLans e Licko possa poi autocelebrarsi in modo convenzionale e statico nella sua monografia. È in realtà un paradosso che spesso si verifica nel mondo della critica sul design, poiché quest’ultima non sempre permette alla progetto grafico di essere una vera area di riflessione culturale ma si limita ad una “ambivalenza ed esitazione” data dall’esaltazione dell’opera stessa. Emigre infatti è stata invece un punto fermo nello scardinamento delle strette regole del modernismo, attuato grazie alle nuove possibilità date dagli albori del desktop publishing con l’Apple Macintosh: la rivista è ancora oggi ritenuta importante nella riflessione sul design, mentre la sua monografia è rimasta ai margini. Il contesto della progettazione grafica americana presenta peculiarità che riflettono le differenze storico-sociali rispetto al panorama europeo. L’emigrazione dal vecchio continente a causa del secondo conflitto mondiale porta negli Stati Uniti del dopoguerra gli ideali modernisti, i quali poi muteranno e assumeranno diverse forme, unite alla cultura imprenditoriale e capitalista. Si creerà quindi una sorta di “modernismo americano”, il quale pervaderà anche gli artefatti quotidiani e l’advertising. Sarà poi l’industria statunitense ha creare i presupposti per una rivoluzione digitale alla portata di tutti: l’eterna rivalità tra Apple e Microsoft segna ancora, nell’opinione comune, quell’era di competizione sfrenata. È la prima tra queste due aziende, anche grazie ad una interessante campagna pubblicitaria, che si affermerà come madre del desktop publishing oltre che come un vero e proprio strumento di liberazione creativa. Il Macintosh 128k è rilasciato sul mercato nel 1984, e cambierà la radicalmente la produzione editoriale: chiunque avesse avuto la possibilità di acquistare questo strumento, avrebbe potuto pensare, progettare e stampare un’intera rivista nel proprio personale “ufficio casalingo”.
Questa nuova sfida è raccolta da Rudy VanderLans e Zuzana Licko, emigrati europei come gli ideali modernisti, i quali saranno tra i primi a utilizzare il Macintosh per le loro elaborazioni grafiche. La loro rivista Emigre è nata nel suo stesso anno di rilascio, il 1984, e solo qualche anno dopo sarà interamente progettata attraverso il personal computer. La rivista si distingue fin da subito e diventa uno dei fenomeni più interessanti del graphic design americano. Nasce come una sorta di autoproduzione indipendente — quasi un rimando alle “Zines” odierne —, infatti era distribuita personalmente dai fondatori. Si propone come una raccolta di critiche, temi e riflessioni sulla progettazione grafica, diventando anche una raccolta più ampia di idee attraverso i contributi
emigre 13
di persone esterne. Questi stessi contributi non erano editati, bensì rimanevano tali e quali a come erano stati inviati, conferendo una grande varietà e dinamicità alla rivista. Alle volte però il suddetto approccio non riusciva a produrre un elaborato coeso; ed era proprio questo ad alimentare le critiche verso Emigre.
Questa grande varietà non era però del tutto lasciata al caso: i fondatori avevano ben a mente i principi di progettazione. Ciò smentisce i loro detrattori, i quali consideravano Emigre solo come un disordine visivo, senza rendersi conto dei dogmi scardinati dalla rivista e gli spunti da essa lanciati. In particolare, il numero 15 intitolato “Do you read me?”, del 1990, ci mostra i caratteri disegnati da Licko, i quali sono progettati con uno scopo ben preciso: quello dell’utilizzo del computer. La fonderia della rivista infatti, ad inizio anni Novanta vanta già diverse font, tutte con la peculiarità di essere disegnate al PC. Si può affermare che i giovani progettisti grafici, come in quegli anni lo era Licko, avevano una grande fame di conoscenza verso i nuovi mezzi a disposizione e volevano utilizzarli al meglio per distaccarsi dai canoni che il modernismo e il minimalismo aveva loro imposto (un esempio eclatante è quello di Massimo Vignelli, attivo proprio in America e molto critico di Emigre). Licko infatti creerà prima font bitmap (a mappe di punti, a bassa risoluzione e non scalabili) per poi ri-disegnarle con ductus e outline. Le caratteristiche di ogni glifo, come ad esempio i pochi punti di ancoraggio per rendere la font più leggera nella memoria interna del computer, dimostrano una grandissima attenzione verso il medium e lo scopo del progetto. Inoltre, l’affermazione della stessa Licko riguardante la leggibilità — sostiene che la leggibilità non sia dovuta ad una qualità intrinseca del carattere, bensì piuttosto ad un’abitudine del lettore a leggere e vedere determinate forme — va contro molte delle “credenze” del suo tempo e mostra un’acuta riflessione. L’atteggiamento della rivista sarà di grande importanza per il panorama della grafica, poiché porta riflessioni diverse sia sull’utilizzo degli strumenti del progettista, con particolare con una grande attenzione ai mezzi digitali, sia sull’espressione stessa che questi mezzi possono creare: Emigre non teme di distinguersi con le sue scelte audaci, al contrario le persegue con più forza poiché non sono dettate da una vaga ricerca di espressione, bensì da un metodo progettuale con solide basi teoriche che mira ad essere pragmatico.
Per la progettazione della monografia Emigre: Graphic Design into the Digital Realm, invece, VanderLans e Licko non sembrano seguire questa metodologia progettuale e, infatti, essa si rivela tutto il contrario di quello che la rivista è stata: convenzionale e di autocelebrazione. È stata pubblicata nel 1993, quindi molto tempo prima che il ciclo di vita della rivista stessa si esaurisse — il numero 69, The End è apparso nel 2005 e continua, seppur con diversi cambiamenti, a sostenere un alto livello
14 progettisti tra analogico e digitale
Emigre n.15, Do you read Me?, 1990. Il carattere qui usato è il Keedy, disegnato da Jeffrey Keedy. Fonte [letterformarchive.org]
Bibliografia e sitografia specifica
di dibattito teorico sulla progettazione grafica —, e si rivela un volume “auto-represso”. Ironicamente VanderLans afferma che se avesse saputo che l’editore avrebbe accettato tutto senza a sua volte editare, come egli stesso usava procedere, “il libro sarebbe apparso molto diverso”. Questa battuta è però sintomo, secondo l’articolo, di un generale appiattimento e restrizione nella scrittura e progettazione dei volumi di critica sul design. La monografia si presenta statica e senza una “visione interpretativa” che si avvicinasse a ciò che il linguaggio di Emigre voleva esprimere, ed è forse un esempio di quello che la rivista aveva, ed ha poi continuato, a mettere in discussione. Contiene testi a pacchetto e immagini ben ancorate ad una griglia, senza porre alcune enfasi sul contenuto.
L’introduzione alla monografia, di Jeffrey Keedy, ha come titolo “Graphic Designers Probably Won’t Read This...But,” ed interpreta infatti una tendenza ad una visione superficiale della critica. Ponendoci il dubbio su chi davvero legga il saggio o la rivista stessa (e qui ci si può ricollegare al fenomeno di Octavo, con la frase “Most people who buy Octavo do not read it”), ci si chiede quindi se le monografie autobiografiche dei designer non siano solo opere a sé stanti piuttosto che di critica o analisi del lavoro svolto.
• Keedy Jeffrey, Graphic designers probably won’t read this... but,, 1993, disponibile online in https://www.emigre.com/Essays/Emigre/Graphicdesignersprobablywontreadthisbut
• PrintMag, The Legibility Wars of the ‘80s and ‘90s, 2016-12-05, in https://www.printmag.com/post/legibility-wars-translation-typography
emigre 15
Doppia pagina della monografia di Emigre. Fonte [https://store.bookandsons.com/?pid=94739876]
Is anybody out there reading?
Poynoir Rick, Eye, no.9 vol. 3, 1993, in Design without boundaries. Visual communication in transition, London: Booth-Clibborn editions, 1998, pp. 215-216
16 progettisti
analogico
digitale
tra
e
²Thrift Julia, 8vo: type and structure
Nella seconda metà degli anni Ottanta la rivoluzione digitale inizia a muovere i primi passi. Gli editori della rivista Octavo sono i tre giovani designer Simon Johnston, Mark Holt e Hamish Muir, i quali nel 1985 fondano il gruppo 8vo, e un anno dopo pubblicano il primo numero di quella che si era prefissata di essere una riflessione sulla tipografia. La loro sperimentazione segue i loro personali ideali modernisti, con l’obiettivo di portarli alla luce nel contesto inglese. L’Inghilterra infatti, rispetto al continente, nel periodo tra le due guerre aveva pesantemente rifiutato le istanze tedesche del cosiddetto “modernismo eroico” e vi aveva preferito il tradizionalismo; negli anni Ottanta invece, lo “stile svizzero” aveva fatto breccia nei giovani progettisti. La prima citata rivoluzione digitale porta con sé nuove tecniche e linguaggi, ma anche nuove incognite. Ed è proprio questo contesto che plasma i contenuti stessi della rivista, che sono influenzati dalla “struttura” del modernismo e l’opposta “destrutturazione” digitale. Nella breve vita di Octavo però, gli obiettivi prefigurati dal contenuto non sempre sono stati raggiunti.
Per comprendere appieno i principi della rivista Octavo, è opportuno inquadrare le vicende storiche che hanno portato i suoi progettisti a definirsi portatori di nuovi ideali tipografici: come detto, il contesto grafico inglese ha infatti avuto una storia diversificata rispetto a ciò che è successo nel continente. Il tradizionalismo di Stanley Morison, consulente tipografico della Monotype Corporation — per molte decadi, dal 1923 al 1967; ha quindi avuto la possibilità di plasmare la società sulle sue teorie —, trattiene l’Inghilterra dai tumulti della Neue Typographie e si oppone ai caratteri bastoni come alle composizioni diagonali o dinamiche. La tipografia doveva essere necessariamente invisibile, quel calice di cristallo¹ che non deve frapporsi tra contenuto e lettore. Solo con le influenze dello spopolante International style svizzero, a partire dagli anni Cinquanta, le acque d’oltremanica iniziano a smuoversi. È qui che entrano in gioco i progettisti di Octavo, i quali riescono a portare una “corrente di Modernismo in un oceano di capricci inglesi”².
Nella pagina accanto, Doppia pagina di Octavo numero 7. Sono qui dichiarati i dubbi su chi davvero legga Octavo: la frase “Most people who buy Octavo do not read it”, è presente nel saggio “Type and Image” scritto da Bridget Wilkins. Fonte: [http://hamishmuir.com]
La suddetta corrente modernista si esprime nei numeri della rivista: i primi tre, in particolare, sono definiti i “numeri bianchi” e sembrano confluire in un’unica “trilogia”. Qui la griglia è ben presente ma non ostentata, ed una giusta combinazione di testo e immagine rende al meglio le riflessioni poste, le quali spaziano dall’uso del computer (il Macintosh di Greiman, nel primo numero) al significato della disposizione del testo (la composizione semantica di Themerson, nel secondo numero), fino ai simboli e icone da utilizzare nel packaging (terzo numero). Con il passare del tempo però, si inizia a notare come la forma sovrasti il contenuto; si ha un esempio nel quinto numero sul minuscolo, dove la griglia è ruotata di 45° gradi in tutto l’editoriale; e ancora nel settimo, “sintesi”, nel quale un complicato sistema di griglie rende la lettura lenta e sconnessa. La differenza tra i primi e gli ultimi
octavo 17
¹Ci si riferisce al testo Il calice di cristallo di Beatrice Warde, pubblicato nel 1955.
numeri della rivista ci mostra come i suoi progettisti abbiano complicato la struttura dell’impaginato senza però aggiungere del valore al contenuto e, anzi, svuotandolo. Nonostante queste contraddizioni, Octavo riesce a smuovere la cultura inglese verso alcuni temi delicati che affronta, cercando di sollevare il dibattito tipografico oltre l’invisibile tanto usato dagli inglesi; si può dire che quindi abbiano spinto sia la tecnologia che le loro strutture autoimposte al limite, per evitare di rendere scontato il loro lavoro. Infatti, un ulteriore punto cardine di Octavo è l’utilizzo dei nuovi metodi tecnologici di stampa: non sono stati tra i primi — come per Emigre — ad addentrarsi nel desktop publishing, ma sono comunque passati da un lavoro manuale ad uno fotocomposto (la cosiddetta stampa “a freddo”). Si può constatare quindi come si pongano esattamente nell’era di transizione.
Il tema sollevato dal saggio può inizialmente sembrare superficiale, ma porta con sé una riflessione più ampia sul mondo della progettazione. La presunta e generica tendenza a non leggere davvero le riviste e di limitarsi a “guardarle” ci fa riflettere su quanto un cosiddetto “stile” — qui usato in senso lato — possa superare i contenuti stessi che esprime. Nello specifico caso analizzato infatti, lo stile di Octavo ha esacerbato il contenuto, per poi inglobarlo del tutto e perdere l’obiettivo iniziale che la rivista stessa si era posta di raggiungere: quello di sensibilizzare i propri lettori verso il tema della tipografia di qualità, nella stampa e nella produzione di artefatti grafici. Invece “l’ultimo atto” della rivista è una completa trasformazione del medium, dallo stampato al digitale — si tratta infatti di un CD-ROM —, che non ha creato alcun legame tra le due epoche nelle quali essa si districava, bensì ha effettuato un ulteriore strappo, quasi a sottolineare un’unione non riuscita. L’ironia di una osannata morte della stampa — mai in realtà avvenuta — sta nell’uso stesso del CD piuttosto che della rivista. Infatti, mentre oggi possiamo ancora guardare — e leggere — i numeri di Octavo, l’ultimo di essi in sola versione digitale non è più disponibile data l’obsolescenza del programma utilizzato, non più eseguibile sui computer moderni³. Ciò porta a pensare a quanto la tecnologia possa sembrare illimitata nei mezzi che si diversificano dalla stampa tradizionale, come, in questo caso, l’utilizzo di istruzioni vocali piuttosto che scritte, ma che in realtà imponga vincoli, alle volte invisibili, che possono limitare la fruizione dell’artefatto nel suo complesso.
La bassa attenzione verso il destinatario degli ultimi 3 stampati, visibile nelle scelte grafiche effettuate, sottolinea l’importanza della domanda posta dal titolo del saggio, ovvero “Is anybody reading?”: i lettori della rivista forse non si sono accorti che, nel corso degli anni di pubblicazione, la rivista stessa è diventata ciò che sosteneva di combattere. Abbiamo quindi un esempio nel quale un’applicazione
18 progettisti tra analogico e digitale
³Hamish Muir, http://hamishmuir.com/8vo/ work-octavo-92-8
Octavo numero 8. Confezione e fermo immagine del CD-ROM. Fonte: [http://hamishmuir.com]
Bibliografia e sitografia specifica
smoderata di uno stile, modificato nel tempo con l’uso di nuove tecniche, abbia portato alla ridefinizione del contenuto e significato. La progettazione prettamente digitale dell’ultimo numero, per inseguire l’aggiornamento tecnologico, non ha tenuto conto dei limiti dello stesso. Al giorno d’oggi, nel quale gli strumenti del digitale si sono moltiplicati rispetto agli anni di pubblicazione di Octavo, un progettista grafico dovrebbe quindi chiedersi quanto del suo artefatto — sia esso una rivista editoriale o un’identità visiva — sia dettato da una scelta data dal contenuto e quanto dal software stesso. Quest(i)’ultimo(i) ha sicuramente influenzato pesantemente l’intero approccio alla progettazione dei giovani nati in una rivoluzione digitale già conclamata. Il processo di softwarizzazione si è ormai attuato — ed è irreversibile —, e sta cambiando non solo il graphic design ma anche l’identità del progettista. È sempre stato lo strumento a definire il metodo e l’artefatto finale (basti pensare alle diverse tipologie di penne usate in calligrafia, o agli scalpelli che delineavano le epigrafi), ma ora che questo mostra potenzialità potenzialmente illimitate, paradossalmente i progettisti tendono ad usarlo sempre allo stesso modo semi-passivo. C’è quindi il bisogno di ricalibrare i metodi utilizzati, con un uso pensato e conscio del software, e non ricadere nuovamente nei CD-ROM obsoleti.
• Hamish Muir, http://hamishmuir.com/8vo/work (05/2021)
• Sbarbati Simone, Il designer è ormai un’estensione del software?, FrizziFrizzi, 01/2021, in https://www.frizzifrizzi.it/2021/01/19/designer-come-estensione-del-software-tesi-alessandro-de-vecchi/ (05/2021)
• Thrift Julia, 8vo: type and structure, in Eye no. 37 vol. 10, 2000, disponibile online: http://www.eyemagazine.com/feature/article/ 8vo-type-and-structure (05/2021)
• Watson David, Octavo International Journal of Typography, 2013, in http://www.typetoken.net/icon/octavo-international-journal-of-typography/ (05/2021)
octavo 19
Octavo numero 8. Confezione del numero con poster. Fonte: [http://hamishmuir.com]
Linear progession
Poynoir Rick, Blueprint, 1993, in Design without boundaries. Visual communication in transition, London: Booth-Clibborn editions, 1998, pp. 251-254
20 progettisti
analogico
digitale
tra
e
¹Il riferimento è al poema The Age of Anxiety di W. H. Auden, pubblicato nel 1947. Esso prospetta un'umanità senza più identità, persa a causa dei veloci e insistenti cambiamenti del mondo post-bellico. Qui il titolo è stato adattato alla contemporaneità con l'aggiunta del termine "digital".
L’articolo dapprima con parole profetiche delinea una morte della carta, già preannunciata da anni a partire dall’uso della televisione. Ad inizio anni Novanta è considerata imminente, a causa della rivoluzione digitale appena iniziata, la quale porterà all’uso di nuovi media per l’informazione. L’esempio del magazine Octavo, il quale come suo ultimo numero, nel ‘92, utilizza un CD-ROM piuttosto che il supporto cartaceo, mostra — inizialmente — il radicale cambiamento dei supporti e le osannate potenzialità del digitale. Queste ultime, però, secondo l’autore, non sempre sono bene utilizzate e spesso sacrificano l’efficienza del messaggio in nome di una sperimentazione multimediale non ancora calibrata. Si passa quindi da un’ironica decantazione dei nuovi media ad una critica aspra, che porta una riflessione di fondo sull’intera società dell’informazione e sul metodo di veicolazione della stessa.
Le epoche di transizione sono spesso segnate da diverse incognite. Gli anni Ottanta e inizio Novanta del XX secolo possono infatti esser considerati quell’inizio dell’era dell’informazione che si è poi evoluta nell’odierna Age of (digital) Anxiety¹. Le nuove tecnologie di quegli anni hanno iniziato a cambiare radicalmente il modo di veicolare e quindi pensare la parola scritta; difatti molti parlano del principale cambiamento dopo Gutenberg. Storicamente, a partire da fine XIX secolo, sono state tante le “minacce” mosse contro la carta come medium di informazione: dal telegrafo alla televisione, passando per radio e telefono. Niente però è riuscito a sopprimere l’inchiostro.
L’esempio della rivista Octavo ritorna evidente, poiché con il suo ultimo numero digitale essa si prefigurava tra i pionieri nell’utilizzo di nuovi media per l’aggiunta di informazioni. Non era l’unica rivista a includere floppy-disc o CD-ROM nel suo materiale per trasformarsi in un “magazine interattivo” (si pensi alla rivista Fuse di Brody), ma è tra quelle che si è spinta oltre, con la creazione di un intero numero esclusivamente digitale (si ricordi che quest’ultimo non presentava alcun supporto cartaceo al di fuori di un poster in formato A1). L’obiettivo della rivista, in ogni caso, non era certo quello di sopprimere i mezzi cartacei; ciononostante offre una buona panoramica sui mutamenti del suo tempo.
Nella pagina accanto, vignetta di Villemard, nella serie Visions de l’an 2000 (1899-1910), include una serie di visioni futuristiche. In questa, la morte della carta è annunciata attraverso il medium dell’audio. Si noti come il libro rimanga fonte primaria di informazione.
L’articolo infatti analizza questo “manifesto elettronico”, che risulta sostanzialmente provocatorio; usando il mouse si può infatti interagire attivamente con il testo, spaziando tra le tematiche in un ordine deciso direttamente dall’utente. La tipografia può essere quindi “inseguita” dal lettore-visualizzatore, il quale crea percorsi trasversali, circolari, addirittura al contrario: sopprime quella linearità che il medium stampato ha sempre imposto. Ci si chiede però se questo metodo sia effettivamente efficiente. La critica non è verso la non-linearità del testo, la quale è invece una conclamata virtù e “scelta naturale di tutti”, bensì si muove verso la frammentazione eccessiva data, in questo caso, dal CD-ROM di Octavo. Secondo l’articolo, la scomposizione di un argomento in
octavo 21
un ordine non ben definito non porta ad una comprensione maggiore del contenuto ma, al contrario, secondo l’autore, lo rende incoerente eliminandone i collegamenti logici. Non si parla quindi di un messaggio progettato per essere ibrido, come poteva essere quello di April Greiman, bensì di uno scomposto in modo ancora rudimentale con i mezzi digitali accessibili in quel momento storico; il quale non stimola abbastanza l’attenzione del lettore ma accompagna la pigrizia di quello che si lascia guidare passivamente e non si prende carico di ricomporre il messaggio.
La combinazione tra un’informazione ipertestuale sconnessa ed una ristretta accessibilità della stessa presente ad inizio anni Novanta (i Macintosh e in generale i computer non erano inizialmente alla portata di tutti), porta l’autore a sostenere che l’informazione multimediale risulti l’equivalente di una chiusura d’élite piuttosto che di un’informazione libera dalle tirannie della linea stampata.
Parlare di informazione digitale e non lineare negli anni 2020 è ovviamente ben diverso rispetto a trent’anni fa, quando il CD-ROM di Octavo è stato pubblicato. Oggi i mezzi digitali si sono raffinati ed evoluti, e il sogno citato da Whitby nel quale ci sono “schermi in ogni stanza” si è pressoché avverato. Ciononostante, la carta è rimasta un grande mezzo di informazione: il suo utilizzo si è evoluto e adattato — nei limiti che queste parole riescono a suggerire — di pari passo con la digitalizzazione. Bisogna però differenziare i due campi, conferendo ad ognuno i propri pregi. Ci sono, infatti, aspetti peculiari del mezzo cartaceo che lo rendono ancora vivo e vibrante nell’era digitale; la sua stabilità e manipolabilità, nonché la capacità di incamerare diversi tipi di contenuto in maniera istantanea, sono sicuramente tra i più importanti. Tuttavia, la struttura materiale della carta è proprio ciò che non le permette di utilizzare quell’astrazione spaziale che ha davvero rivoluzionato l’informazione: l’ipertesto. Esso è l’elemento cardine qui analizzato dall’autore rispetto al numero di Octavo, nonostante non venga definito con questo termine (la scomposizione del contenuto in diversi blocchetti è poi ricollegata proprio attraverso i link ipertestuali). Con la sua comparsa negli anni Ottanta, l’obsolescenza della stampa sembrava davvero imminente, a causa delle sue potenzialità di espandere infinitamente l’informazione in percorsi multipli e intersecati tra loro. Ciononostante, più di trent’anni dopo, possiamo constatare come l’ipertesto sia ormai radicato nella nostra cultura di visualizzazione e informazione (dai link presenti in ogni pagina web a quelli condivisi tra i singoli su altre piattaforme di messaggistica), e come abbia rivoluzionato specifici campi dell’editoria — basti pensare alle enciclopedie — senza però sovrastare del tutto la carta stampata².
22 progettisti tra analogico e digitale
²Ludovico Alessandro, Post-digital print. The mutation of Publishing since 1894
Octavo numero 8. Fermo immagine del CD-ROM. Fonte: [http://hamishmuir.com]
Bibliografia e sitografia specifica
Non si può quindi trasformare la carta in qualcosa che non potrà mai essere, come l’ipertesto; ma sicuramente i due mezzi — come stanno già facendo, in alcuni casi — dovranno collaborare piuttosto che opporsi in una sorta di guerra ideologica. La composizione sinsemica³ della pagina, del testo e dell’immagine, ad esempio, offre una buona soluzione ad una lettura erratica e consultiva caratteristica dell’ipertesto digitale. Questo approccio ripensa la scrittura in senso più ampio della sola riga di testo sula pagina bianca, evidenziandone il suo spazio sinottico e spingendo verso una disposizione degli elementi che sia funzionale e allo stesso tempo evocativa. Un possibile ripensamento sull’utilizzo del testo e della pagina stesso può quindi creare un’intersezione tra i media che potrà — dovrà? — essere una possibile strada da intraprendere nel futuro.
• Ludovico Alessandro, Post-digital print. The mutation of Publishing since 1894, Onomatopee 77: Cabinet Project, Bleekstraat 2012, cap. 1 pp. 15-29
• Luciano Perondi, Sinsemie. Scritture nello spazio, Stampa Alternativa & Graffiti, Nuovi Equilibri, Viterbo 2012.
octavo 23
³Luciano Perondi, Sinsemie. Scritture nello spazio