Sentieriselvaggi21st n.2

Page 1

2 . n

pr -a r ma 2019

21st A

w Vie t of n i o P nt ere diff

a h

u a

b €

s u

0 2

9 1 La

ma

i gn

f

ica

i

s llu

ie

12,00

ria

e rif

Pe e

ev

St gh

M

i .N

ino

n

Ta

G

lan

re

to

Lib

a er

No

tu

ra

sfe

ck

Bla

n

so

k ac

rJ

e

u niq

mi

Do

n

ma

r Co

-

e et

P

a am

zi

z he

bs

Jo

y

h tS

v Mo

i

ma

e Cin

e n o

M

s

ai

ch ar


SHOP ONLINE Visita il negozio virtuale di Sentieri selvaggi e scopri tutte le nostre pubblicazioni

Sentieriselvaggi21st

e-book

line Magazine on

gadgets

LIBRI

ili numeri storici e imperdib di sentieri selvaggi


Life at the Bauhaus (Bela Lugosi is dead?) di f

ede

Sono volti di ragazze e ragazzi quelli che emergono dalla foto di copertina. È il 1927, siamo a Dessau. Da due anni il Bauhaus si è trasferito lì da Weimar. La Grande Guerra sembra un po’ più lontana, e per Anni Albers, Gunta Stölz (le due in primo piano), Bruno Streiff, Shlomoh Ben-David, Gerda Marx e Max Bill (in piedi), sembra emergere una sorta di gioia, come facessero tutti parte di un gioco collettivo forse unico e irripetibile. In questo numero scegliamo i 100 anni del Bauhaus, come traccia della nostra ricerca, del nostro “sguardo critico”. Nelle prossime pagine immagini, testi e link visuali, vi condurranno dentro quello che è stato un magnifico esperimento culturale (ma anche politico, sociale) e vi racconteranno di come questo contenitore molteplice (dall’artigianato al razionalismo architettonico, passando per misticismo e lotte politiche) sia una sorta di crocevia/punto d’intersezione dell’immaginario del ̕900. Ma c’è un aspetto, particolare, che colpisce: la gioventù dei fondatori e dei maestri (Walter Gropius aveva 36 anni nel 1919, Johannes Itten 31, László Moholy-Nagy 30 nel 1925 quando entrò al Bauhaus). Un gruppo di “ragazzi di fine secolo” prese le redini della Formazione sulle Arti e Mestieri e diede vita a una piccola comunità, autonoma e creativa, che sperimentò stili di vita e stili culturali innovativi, che neppure gli anni del nazismo riuscirono a fermare. “Nuovi stili nella moda e nuove forme di stare insieme, moderni elementi concreti del corpo, teorie e tecniche esoteriche come Mazdaznan, esperimenti di amore libero e le feste della Bauhaus come sismografi per lo spirito del tempo e la sua gioia nella sperimentazione” raccontano Jeannine Fiedler e Peter Feierabend che tra i primi hanno studiato a fondo la storia sociale della scuola, analizzando, tra gli altri argomenti, i ruoli della musica, delle feste, dell’amore, del genere e del misticismo del Bauhaus. Ecco, quello che ci piace osservare da qui, a partire da questa foto, è l’incredibile esperimento sociale/emozionale del Bauhaus, oltre le teorie, le forme, le linee e tutte le piccole/grandi innovazioni dal design alle tessiture, agli oggetti e all’architettura. Qui vediamo dei ragazzi del 1927 che sorridono affacciandosi ai balconi. Gunta Stölz ha qui 30 anni ed è già insegnante di tecnica nella tessitura, ne aveva 22 quando arrivò da studentessa al Bauhaus. Anni Albers ha 28 anni e poi divenne una delle maggiori artiste tessili e grafiche. Max Bill aveva appena 19 anni, ed è divenuto poi un poliedrico architetto, designer, pittore, scultore e grafico. Sono volti e corpi giovani quelli che attraversano questa immagine e che segnano il percorso umano, artistico e professionale del Bauhaus. E non è un caso che l’Istituto si distinse, in quegli anni, per la grandi “Feste pubbliche”. “Oskar Schlemmer ha riconosciuto che il gioco è stata la forza che ha reso possibile la creatività, proprio attraverso attività non intenzionali. Progettò le grandi feste pubbliche e le usò anche come una sorta di palcoscenico sperimentale per il laboratorio teatrale che dirigeva. A Dessau le feste diventarono eventi culturali. La danza non era più eseguita per la fisarmonica, ma per i suoni jazz della Bauhaus Band, che presto divenne famosa anche al di fuori del college”. La danza, dunque, era una parte significativa della scena sociale al punto che Anni Albers raccontò che si sentiva una specie di outsider al Bauhaus, proprio perché non sapeva ballare. Ma mentre le danze coinvolgevano soprattutto gli studenti, le feste includevano l’intera comunità del Bauhaus. Le feste, il gioco, la musica, le danze, gli amori (furono ben 71 i matrimoni “interni” al Bauhaus), le lotte per le donne per affermarsi e conquistare il loro spazio (dal 60% dei primi anni a Weimar a meno del 30% degli anni seguenti). Insomma un insieme di storie, teoriche, relazioni, qualcosa di difficile rappresentazione (forse ci si avvicina la serie Babylon Berlin, almeno nella visualizzazione di balli e spettacoli), che hanno prodotto alcune delle idee più straordinarie e innovative per tutte le arti visive, architettura in primis. Ma che curiosamente ha avuto successo “in diretta” con la produzione della linea di carta da parati, basato sui disegni semplici creati nel laboratorio di pittura murale. Straordinario e finto paradosso per una Scuola che ambiva alla “costruzione” che il suo unico vero successo furono le carte da parati. Perché il Bauhaus ha avuto anche l’ossessione per “il piccolo”, il dettaglio. Che ne ha fatto un riferimento per il Design moderno. Ma restano quei volti, quegli sguardi di giovani, in mezzo alle due tragedie del secolo scorso. Un attimo della Storia in cui i giovani potevano ribellarsi agli orrori degli adulti, per riprendere possesso delle proprie vite e delle loro felicità. Una vera, dolce e irresistibile, magnifica illusione. PS: Bauhaus è nato il 1 aprile del 1919. Sentieri selvaggi il 1 aprile del 1988. Gli scherzi d’aprile continuano…

03

rico

chia

cchi

ari


Aperture

Altre narrazioni

Cover story

Tempi

Out from the Past

52 Archivio Storie del Cinema

16

03

Previsione e narrazione in

Bauhaus 2019

Editoriale Life at the Bauhaus

Roger Corman

L’artista è un artigiano

Il Mistero del Falco(ne)

esaltato

Maltese

La grande idea

06

Cronologia Bauhaus

40

58

IlluminAzioni

La linea, l’orpello,

Graphic Novel

Muhammad Alì

la “piega”

Nosferatu

Vintage Back to the Future

Agnès Varda

La loggia dei muratori

Rifigurare gli archivi del

30

They Shall Not Grow Old

Love, Death & Robots

10

di Peter Jackson

Bauhaus influence

The Italian Job

62

Personaggi e Maestri

Shock in My Town Esondazioni del Periferia Movie

Novecento - Sul progetto

Biografie

Artisti, Artigiani o Operai?

M. Night Shyamalan

Le marionette di Oskar

Il fallimento ti purifica,

Schlemmer

Cover

il successo ti confonde

Sentieri Selvaggi Redazione: Via Carlo Botta 19, 00184, Roma Telefono: 06.96049768 Email: redazione@sentieriselvaggi.info Website: www.sentieriselvaggi.it Info: info@sentieriselvaggi.it

Cos’è il Bauhaus oggi? Cosa resta di quella esperienza? Le idee di quegli anni sembrano ispirare un mondo che diviene rapidamente sempre più orizzontale perché globale. E forse il cuore vero, ancora vivo, del Bauhaus sta, in fondo, nella sua marginalità. Sentieri selvaggi si occupa di Formazione da 20 anni...non potevamo rimanere indifferenti al centenario della più originale e innovativa Scuola di Architettura, Arti e Design di sempre.

Bimestrale di cinema e...tutto il resto: cultura, tecnologie e narrazioni del 21° secolo Numero 2 marzo - aprile 2019 Registrazione: tribunale di Roma n.258 del 6 dicembre 2018 Pubblicazione a stampa: ISSN 1826-8013 Stampato presso: Futura Grafica 70 s.r.l. Via Anicio Paolino 21, 00178 Roma Aprile 2019

04


Spazi

Long Form Stories

Tempi

Open Space

No - Future

Rubriche

76 Site Map Riattraversamenti testuali Board Game Legacy per scrittori: Apex Legends

66

78

106

Traiettorie (extra)urbane

I-Cinema

La strategia del locale

L’occhio, la camera e l’iPhone

88

Il paesaggio vivente: il cinema di Dominique Marchais

82

Storie

Tracce digitali

96

#Sensibilia

Conversazioni

#(In)Versi

72

È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo Mark Fisher

#A colpo d'occhio #La règle du jeu

New Black Cinema

Il fallimento che fu un successo -

(Neo)Realismo

Il Corpo Espanso

NeXT dopo Next: alle origini dell’iPhone

#OM #Language Design #Sesto senso

Comici disegnati guerrieri Conversazione con Tanino Liberatore

Il lavoro è passione 1995: il futuro secondo Steve Jobs

Credits Autori del numero:

Redazione: Alice Catucci, Leonardo Lardieri, Pietro Masciullo, Demetrio Salvi, Sergio Sozzo

Yvonne Bindi, Giacomo Calzoni, Luca Caserta, Massimo Causo, Emanuele Di Porto, Paolo D’Onofrio, Daniele Dottorini, Mark Fisher, Walter Gropius, Nicolò Lewanski, Mario Mancini, Dominique Marchais, Martina Ponziani, Federica Russo, Shadow, Laura Sinceri, Guglielmo Siniscalchi, Mark Stephens

Hanno collaborato:

Francesca Pasculli, Francesco Grossi

Art Director:

Promozione:

Andrea De Bartolis (project manager)

Editore e Direttore responsabile:

Federico Chiacchiari

Supervisione editoriale:

Simone Emiliani

Direzione editoriale:

Aldo Spiniello e Carlo Valeri

Brunella De Cola

Per le immagini l'Editore dichiara la propria disponibilità ad adempiere agli obblighi di legge verso gli eventuali aventi diritto che non è stato possibile raggiungere.

05






THE ITALIAN JOB

SHOCK IN MY TOWN

di s

erg

Esondazioni del Periferia Movie

Alessandro Borghi in Suburra di S. Sollima

10

io s

ozz

o


Il successo imperituro della serialità nostrana di quartiere, con le nuove stagioni di Suburra e Gomorra, rilancia la fortuna delle narrazioni di periferia nella produzione italiana, dai titoli mainstream alle filmografie alternative, dai festival ai videoclip, fino agli eroi social di questa generazione coatta. Trappole e liberazioni di un canone suburbano

Nelle mie orbite si scontrano tribù di suburbani

S

otto la giacca mimetica si intravede il volto di Federico Aldrovandi e il motto “Federico è Ovunque” lanciato da Acad, l’Associazione Contro gli Abusi in Divisa. Chef Rubio, volto antagonista della TV culinaria nostrana, si collega alla trasmissione in onda su La7, L’aria che tira. È in diretta davanti al carcere di Rebibbia, dove ha appena discusso di un progetto di reintegrazione dei detenuti nel mondo del lavoro. Da studio lo tirano in ballo per un commento sui celebri tweet a tema cibo e snack del Ministro dell’Interno italiano, al che Rubio scuote la testa e ribatte che “ci sono cose più importanti di cui parlare che di un coglione…”. Invitato alla moderazione, sottolinea: “sono stato fin troppo magnanimo”. Ecco, difficile trovare una scheggia d’immaginario che racconti in maniera migliore quanto gli stilemi del periferia movie abbiano forgiato in maniera indelebile la narrazione che ci circonda ben al di fuori dagli schermi. Lo scontro a distanza tra il personaggio coatto e stradaiolo dal cipiglio duro e incazzato contro il rappresentante politico del sistema replica una tensione primaria insita quantomeno nella struttura di Suburra, sia il film di Sollima del 2015 che le due stagioni della sua filiazione seriale, programmate su Netflix. La battaglia di conquista dei terreni di Ostia attraversa le istanze del presente tra Mafia Capitale, emergenza migranti e alba dei nuovi populismi, costruendo di tassello in tassello l’epica di Aureliano Adami, tragico anti-eroe che tiene insieme nella propria furiosa isteria i modelli del cinema da banlieue/favelas come Kassovitz o Meirelles con la tradizione capitolina del poliziottesco trucido. Così, Alessandro Borghi sembra voler riscrivere di volta in volta sul suo corpo la storia della Roma più periferica, da Caligari a Fortunata a Stefano Cucchi, fino alla grande intuizione di Matteo Rovere di far interpretare proprio a Borghi il primo romano, Remo. Una costellazione non troppo lontana alla fine dall’armamentario guerrilla dell’ex-rugbista di Frascati, ora cuoco itinerante, Gabriele Rubini detto Rubio (occhio ad esempio al vertiginoso film-TV di Natale del 2016 Unto e Bisunto – La vera storia di Chef Rubio). La veemenza dei numerosi j’accuse del personaggio, tra cui quel coglione lanciato in pieno palinsesto pomeridiano, ricorda l’exploit di Elio Germano al momento della cerimonia di premiazione della Palma vinta a Cannes 2010 per l’interpretazione in La nostra vita di Daniele Luchetti, forse il vero titolo precursore di questa stagione di storie sul ciglio del Raccordo Anulare. “Volevo dedicare questo premio all’Italia e agli italiani

che fanno di tutto per rendere l’Italia un paese migliore nonostante lo loro classe dirigente”, aveva tuonato allora Germano dal palcoscenico della Croisette, innescando un piccolo scandalo a casa. Passa quasi un decennio e Claudio Giovannesi, ritirando l’Orso d’argento alla Berlinale 2019 per la sceneggiatura de La Paranza dei Bambini (condiviso con Maurizio Braucci e Roberto Saviano), dedica il premio “al nostro Paese nella speranza che l’arte, la cultura e la formazione tornino a essere una priorità per l’Italia”. Per Saviano, come racconta dalla cerimonia di Potsdamer Platz, “scrivere questo film ha significato fare un atto di resistenza, perché raccontare la verità nel nostro Paese oggi è diventata una cosa molto complessa”. La verità: ma siamo ancora sicuri che questo canone abbia davvero il Reale come punto di partenza? La forza irrazionale in grado di smarcare La paranza dei bambini dal determinismo a effetto tipico delle storie di Saviano sta invece proprio nella riflessione formale messa in campo da Giovannesi sul meccanismo della replica che sembra tenere saldamente incastrati i suoi personaggi ragazzini. Già le lettere d’amore tra i detenuti del braccio maschile e femminile del carcere minorile di Fiore inseguivano modelli letterari d’appendice percepiti come obbligati per gli scambi epistolari affettivi. Stavolta, le azioni malavitose di questi scugnizzi del Rione Sanità appaiono di nuovo mosse da un copione mandato a memoria, da mitologie tramandate non tanto più dalla strada quanto dalla produzione cinetelevisiva dell’ultimo decennio. In questa maniera, La paranza dei bambini certifica l’avvenuto e abissale rovesciamento (già stigmatizzato dalla Scampia Disco Dance che apriva Ammore e Malavita dei Manetti, se non addirittura dagli Effetti di Gomorra dei The Jackal) tra lo sguardo sociale “di denuncia” e il proprio svuotamento in formule reiterabili al di fuori di ogni controllo e dimensione critici. L’ossessione dei ragazzi per l’autorappresentazione in comportamenti e pose da gangster è certificata da selfie di gruppo con i “ferri” in grembo e da un’esplicita attrazione fisica e impulsiva per il rispettivo fascino macho (il film gioca apertamente con la tensione omoerotica che si respira tra i corpi di questi preadolescenti metrosexual attenti agli specchi e alle cerette, tanto da far arrivare il protagonista al travestimento femminile per il suo primo omicidio). Fino a sfociare nel dialogo che Giovannesi imbastisce da subito proprio con le stazioni iconografiche irrinunciabili dell’apologo savianesco, tra le gomorre di Garrone e quelle seriali (nella cui squadra di autori compare infatti

11






COVER STORY

L'artista è un artigiano esaltato Manifesto e programma del Bauhaus statale di Weimar, aprile 1919 Lo scopo finale di tutte le arti è la costruzione. L’ornamento dell’edificio era, un tempo, il compito più nobile delle arti visive, componenti inseparabili della grande architettura. Oggi le arti vivono nell’isolamento, da cui possono essere salvate solo grazie allo sforzo consapevole e cooperativo di tutti gli artigiani. Architetti, pittori, scultori devono di nuovo imparare a riconoscere e a comprendere la forma complessa di un edificio, nella sua totalità e nelle sue singole parti. Solo così il loro lavoro sarà di nuovo permeato da quello spirito architettonico che si è perduto “nell’arte da Salon”. Le vecchie scuole d’arte non sono state capaci di creare quest’unità: e come avrebbero potuto, visto che l’arte non può essere insegnata. Esse devono nuovamente confrontarsi con l’attività laboratoriale. Questo mondo di modellisti e di decoratori, impegnati semplicemente a disegnare e a dipingere, deve tornare a essere un mondo di costruttori. Se il giovane, che avverte di nuovo il bisogno della creazione artistica, comincia il suo percorso imparando un mestiere, come in passato, “l’artista” improduttivo non sarà più condannato a praticare un’arte incompleta, le sue capacità saranno preservate dall’attività artigianale, con cui sarà in grado di raggiungere l’eccellenza. Architetti, pittori, scultori: dobbiamo tornare tutti all’artigianato. L’arte non è una “professione”. Non c’è differenza essenziale tra l’artista e l’artigiano. L’artista è un artigiano esaltato. Per grazia del cielo, il suo lavoro può diventare arte in rari momenti di ispirazione, che trascendono il controllo della volontà. Ma la competenza in un mestiere è essenziale per ogni artista. È lì la prima fonte dell’immaginazione creativa. Formiamo dunque una nuova gilda di artigiani, senza quella distinzione classista che innalza un’arrogante barriera tra artigiano e artista. Lottiamo insieme, concepiamo e creiamo la nuova costruzione del futuro, che unirà in una sola forma architettura, scultura e pittura e che si innalzerà, un giorno, verso il cielo dalle mani di milioni di lavoratori, come il simbolo cristallino di una nuova fede.

Walter Gropius


La grande idea

ello

pini ldo s

di a Quando si parla di Bauhaus in che mondo siamo? In quello reale, della pratica concreta, dell’artigianato che incontra l’industria e dell’arte che si inserisce nelle dinamiche della produzione? O in quello ideale delle forme che si fanno norma, nell’utopia dei conflitti risolti e delle tensioni in equilibrio?

Standard e civiltà

Q

uando Gropius pubblica La Nuova Architettura e il Bauhaus, nel 1935 a Londra, la festa è già finita. Ma per il fondatore c’è ancora un’urgenza di chiarezza e di definizione, in nome dell’idea. “La standardizzazione non è un ostacolo allo sviluppo della civiltà, bensì una delle sue condizioni preliminari. Un modello standard può essere definito come quell’esemplare pratico e semplificato di un qualsiasi oggetto di uso comune riassumente in sé, come in una fusione, il meglio delle sue forme precedenti, purificate dal contenuto personale dei loro designer e da ogni altra caratteristica non essenziale. Tale standard impersonale viene chiamata ‘norma’, parola che deriva dalla squadra del falegname”. Se davvero il Bauhaus era una scuola in cui si ambivano “a realizzare standard di eccellenza, non a creare effimere novità”, allora, a rigor di logica, ne consegue che l’obiettivo era di individuare “norme” e realizzarle, cioè inverarle nella realtà produttiva concreta. Nonostante poco più in là Gropius, in qualche modo, ridimensioni il tiro: “Il Bauhaus non si proponeva di diffondere alcuno ‘stile’, o sistema, o dogma, o formula, o moda, ma semplicemente di esercitare un’influenza rivitalizzante sul design”. Sì, nessun dogma forse, ma comunque

Pagina precedente: xilografia di L. Feininger che accompagnava il manifesto del Bauhaus A lato e sopra: edificio sede del Bauhaus di Dessau

17






“Il mio insegnamento non si fissa alcuno scopo esterno ben determinato, è lo stesso individuo, cioè un essere che si può costruire e sviluppare, che mi si propone come l’oggetto dei miei sforzi. Per un professore cosciente delle sue responsabilità, lo sviluppo dei sensi l’accrescimento delle possibilità intellettuali e delle esperienze spirituali, la difesa e il completo sviluppo degli organi e delle funzioni del corpo, sono metodi e strumenti di educazione…” Johannes Itten

Manifesto del Bauhaus nella reinterpretazione di Luca Caserta

22


cronologia bauhaus Su idea di Walter Gropius e dopo una lunga discussione con i ministri del granduca di Sachsen-Weimar-Eisenach, viene fondato lo Staatliches Bauhaus di Weimar, dalla fusione della Scuola di arti e mestieri e dell’Accademia di belle arti. Gropius è il primo direttore della scuola.

Vengono chiamati al Bauhaus nuovi maestri: Oskar Schlemmer, per il laboratorio di scultura e di pittura murale, Paul Klee, per i corsi di pittura (e in seguito per i laboratori di legatoria e di pittura su vetro), Georg Muche, come maestro della forma per il laboratorio di tessitura. Viene chiamato al Bauhaus Laszló Moholy-Nagy come maestro della forma per il laboratorio dei metalli. Oskar Schlemmer diventa il maestro della forma del laboratorio di teatro e imprimerà una svolta fondamentale al corso.

Alle elezioni in Turingia si afferma la destra del Deutsche Volkspartei, avversa al Bauhaus.

Iniziano i lavori del sobborgo Dessau-Törten, progettato da Gropius, un lotto a schiera di case unifamiliari, a due piani, con giardino. Vengono impegnati nel progetto docenti e allievi della scuola e, prima dell’inizio dei lavori, viene definito un piano per l’organizzazione a catena del cantiere.

Gropius realizza a Dessau l’Ufficio del lavoro (completato nel 1928) e disegna il Teatro Totale per il regista Erwin Piscator, progetto mai realizzato. Finalmente dopo anni di corsi irregolari, lezioni private e gruppi di lavoro, viene aperta la sezione architettura del Bauhaus, affidata all’architetto svizzero Hannes Meyer.

I malumori interni alla scuola e la diffusione tra gli studenti di idee comuniste creano allarme tra gli amministratori di Dessau. Il sindaco Fritz Hesse è costretto a chiedere le dimissioni di Hannes Meyer. Come nuovo direttore, su suggerimento di Gropius, viene nominato Ludwig Mies van der Rohe, architetto già di gran fama. L’11 aprile, la polizia e le SA occupano e perquisiscono la sede di Berlino e ne dispongono la chiusura. Nonostante gli estremi tentativi di Mies van der Rohe e degli studenti, il Bauhaus è definitivamente sciolto il 19 luglio.

Viene diffuso il Manifesto e programma del Bauhaus statale di Weimar, scritto da Gropius e accompagnato da una xilografia di Lyonel Feininger, La cattedrale del socialismo. Si strutturano i primi corsi della scuola, per ogni percorso un maestro della forma è affiancato da un maestro artigiano. Tra i primi insegnanti, Johannes Itten, Lyonel Feininger, Gerhard Marcks.

1919 1920

1922

Viene chiamato al Bauhaus Vasilij Kandinskij, per affiancare Klee nei corsi base di pittura e per occuparsi del laboratorio di pittura murale al posto di Schlemmer. Theo van Doesburg, fondatore e teorico del movimento De Stijl, tiene alcune lezioni, destinate a creare grande scompiglio nella scuola e a condizionarne gli sviluppi futuri.

In estate si tiene a Weimar l’Esposizione del Bauhaus, durante la quale viene presentata la casa-prototipo “Am Horn”, progettata da Georg Muche. Per l’occasione Gropius definisce la nuova linea da seguire: “Arte e tecnica: una nuova unità”. La prima vittima di questa nuova linea è Johannes Itten, che abbandona la scuola. Il corso preliminare viene affidato a Laszló Moholy-Nagy e al pittore Josef Albers.

1923

1924

1925

Il 21 marzo viene dichiarato sciolto il Bauhaus di Weimar. La scuola viene trasferita a Dessau, su invito del borgomastro Fritz Hesse. Gropius progetta la nuova sede, completata nel 1926 e destinata a diventare uno degli emblemi fondamentali di tutta la produzione Bauhaus. Vengono riorganizzati i corsi. Il laboratorio di falegnameria viene affidato a Marcel Breuer, quello di scultura a Joost Schmidt, il laboratorio di grafica e pubblicità a Herbert Bayer, mentre al laboratorio di tessitura viene chiamata Gunta Stöltz.

1928

Walter Gropius si dimette dalla direzione del Bauhaus. Gli succede Hannes Meyer che imprime una svolta alla scuola, indirizzandola verso un’impostazione marxista, sociale e tecnico-industriale, sostanzialmente indifferente a questioni estetiche e formali. I corsi vengono riorganizzati in quattro sezioni principali: edilizia, pubblicità, produzione in legno e metallo, tessuti. Vengono nominati altri docenti: Hans Wittwer, Ludwig Hilberseimer, che si occupa in particolare di urbanistica e di edilizia ad alta densità abitativa, Mart Stam.

1932

I nazisti in ascesa intensificano gli attacchi al Bauhaus, accusandolo di propaganda e attività bolscevica. Il sindaco Fritz Hesse si trova costretto a mettere ai voti la chiusura della scuola. A settembre il Bauhaus cessa definitivamente le attività a Dessau. Mies van der Rohe trasferisce i corsi a Berlino. La scuola diviene a tutti gli effetti un istituto privato, che si sostiene con le rette degli studenti, la vendita dei brevetti e dei prodotti dei laboratori.

1926 1927

1930

1933

23










Nel Bauhaus, è evidente, non erano previsti particolari laboratori legati alla musica sebbene ci fosse una centralità della danza nelle opere di Schlemmer... Eppure un imprinting pare esserci stato, anzitutto nel famoso gruppo omonimo, che non solo riprende il nome Bauhaus (quello del gruppo di Bela Lugosi's Dead) ma fa del logo di Schlemmer anche la copertina di un disco. Meno iconografici sono i Kraftwerk, pionieri della musica elettronica e industrial, che hanno menzionato tra le loro influenze la filosofia Bauhaus, come sintesi perfetta di tecnologia e arte. Le loro interessanti sperimentazioni sono quanto più vicino alle sonorità del Balletto Triadico.

Unici nel loro genere gli Einstürzende Neubauten (testualmente Nuovi Edifici Che Crollano), famosa band berlinese, annoverati tra i maggiori e più originali innovatori del genere rock sperimentale. Hanno composto, in occasione del centenario del Bauhaus, tutte le sonorità della "Das Totale Tanz Theatre". Un esperimento interattivo che riprende le danze del Balletto Triadico e l'idea del Teatro Totale di Gropius unendole in uno spazio virtuale. Le arti analogiche e digitali entrano in una simbiosi unica: danza, scenografia, costume e musica si combinano con elementi interattivi creando un'esperienza immersiva unica, che consente ai visitatori di sperimentare il rapporto tra uomo e macchina.

u a

b

Gli edifici progettati da Mies van der Rohe sono più volte protagonisti del cinema americano. Il Seagram Building a New York appare infatti in moltissimi film, da Celebrity di Woody Allen a Colazione da Tiffany. Protagonista anche in S.O.S. Fantasmi e in American Psycho, in cui compaiono anche le sue famose poltrone Barcelona. È divertente notare inoltre che il non lontano MetLife Building, precedentemente Pan Am Building (che nel 1963 deteneva il record di edificio più alto al mondo) progettato da Gropius, sia famoso nel cinema per essersi trasformato virtualmente nell'Avengers Tower e appare in tutti i film sui noti supereroi.

32


s u

a h

Quando i nazisti conquistarono la Germania, molti dei maestri del Bauhaus trovarono rifugio negli Stati Uniti. Nel 1937, László Moholy-Nagy si trasferì a Chicago e diede vita al Nuovo Buahaus. In concomitanza con il centenario del Bauhaus uscirà un film che ripercorre la sua vita, tra filmati d'archivio e interviste originali, prodotto dalla Opendox.

La creatività di Josef e Anni Albers si esprimeva in molteplici direzioni, dalla pittura alla grafica, dal design all'arte tessile. Le influenze che hanno esercitato sull'arte, l'architettura, il design, sono enormi e si possono rintracciare in maniera evidente. In tal senso, anche l'industria svedese Ikea è totalmente debitrice della logica Bauhaus: design semplice, colorato, modulare, a prezzi modici per tutti... Chi non si ritrova un tavolino Lack in casa, oggi?

Memorabile è anche l'esperienza di Josef e Anni Albers in Messico, alla quale il Peggy Guggenheim di Venezia ha di recente dedicato una mostra. I colori sgargianti delle loro opere sono stati senz'altro captati da un altro grande architetto del Novecento: Luis Barragán, il cui lavoro è caratterizzato da tinte intense e muri lisci di cemento. E i magnifici colori dei quadrati di Albers non sono poi stati abilmente catturati dalla retina di Wes Anderson e riportati per noi sullo schermo?

33








ph Gra a n U

aolo di P l e v o E ic N NP zion Ed i

io nofr O ' D

i

a n E R T

i n o i rraz

ini e ma g m i di le alitĂ rlare d a o p m o e o far ssim vers gliam rci in di l ma o a v o nd ra o un azio utta dent e sol r o sp d f h t s a c s , e to le u ni In q paro na fo azio i r u r d o a o n o e tip mer segn quel spri n di e u , , . e o r a nt rare evoc dipi ss u r o u n s o e poss

AL

40


di Paolo D'onofrio

BD Edizioni

(ri)Tornare sul classico, esplorarlo nuovamente come se fosse la prima volta ma attraverso uno strumento completamente differente: come fare? L’opera prima del fumettista Paolo D’Onofrio si pone il compito – arduo e folle – di approcciarsi al Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau (molto più di un classico qualsiasi, quindi) reinterpretandolo attraverso la minuziosa riproposizione delle sue inquadrature principali, eliminando totalmente i canonici balloon e utilizzando unicamente le didascalie alla stessa stregua dei cartelli nel cinema muto. Un’operazione insolita e affascinante, che riesce ad andare oltre il facile effetto “storyboard” e capace di interrogarsi continuamente sul significato di adattamento. Non una novelization a fumetti né tantomeno una copia carbone dell’originale; piuttosto, una sorta di estensione – cartacea e filigranata – del capolavoro di Murnau, del quale naturalmente si presuppone la conoscenza, per cercare di superare la distinzione tra i differenti media cinema/fumetto e trasformare il gesto della lettura in un’attività perfettamente complementare alla visione. Funzionale allora la scelta specifica del materiale filmico di partenza, che a quasi cento anni di distanza dalla realizzazione sembra prestarsi perfettamente a un’operazione del genere: consapevole del fatto che le immagini di Murnau sono ormai ben sedimentate nell’immaginario collettivo, D’Onofrio riesce a carpirne lo spirito attraverso un tratto semplice ed essenziale, catapultando il lettore in una dimensione fantastica ma angosciante, nella quale il soprannaturale è (ancora) lo specchio riflesso di inquietudini sotterranee e latenti. Una chiusura del cerchio ideale nei confronti di quella che è stata a tutti gli effetti la prima trasposizione cinematografica (seppur non autorizzata, come noto) di Dracula di Bram Stoker, vera e propria opera di superamento dell’espressionismo tedesco (grazie soprattutto all’utilizzo di location reali, dalla Germania alla Slovacchia, in controtendenza rispetto alle scenografie geometriche e sproporzionate) e titolo fondamentale per la rappresentazione dell’Orrore del reale in seguito alla disfatta tedesca nella Prima Guerra Mondiale, con i fantasmi del Nazionalsocialismo già pronti a fare capolino. Il volume pubblicato da Nicola Pesce Editore (un elegante cartonato a tiratura limitata) comprende anche un ricco apparato introduttivo all’opera, analizzando il film di Murnau in relazione al romanzo di Stoker e al contesto sociale e politico della Repubblica di Weimar, senza dimenticare una breve ma efficace carrellata sulle influenze del personaggio del Conte Orlok/Dracula nella cinematografia successiva, dalla miniserie TV Le notti di Salem (1979) di Tobe Hooper, tratto dal romanzo di Stephen King, fino al recente e irresistibile What We Do in the Shadows (2014) di Taika Waititi. (Giacomo Calzoni)

41












OI V I H MA C E AR N I C el d E I R STO

ma l cine ti, ne u n e t on a si e di c re qu . uzion pa ssa d i o a r tenti” p m ò or ià esis ro la u g e p v i , v n i a O ag ditori e im m nell’e arole p o? “ come a razie ed ostrat ment utto g oem a t t t r t a e e t r d n p i (so o già n u t i. hivio è stat i conte i l’A rc d g Tutto o g t o i a i più nfin no, m te ma itore i n n e e t m n e Forse o nc plic riosi e) è u hi c u o sem t c e , i o r l p i a l b r a al pe ntrov , solo ione riali i nibili o p Mate s sposiz i i d D . a i i t ess blica nno m ripub , sa ra ” s aggi. r e h ri selv e i t “searc n e di S ttore del le

Locandina de I maghi del terrore (The Raven) di R. Corman

52


Previsione e narrazione in Roger Corman Per omaggiare la breve e intensa avventura critica de Il Falcone Maltese riproponiamo un saggio di Enrico Ghezzi – apparso sul numero 7 della rivista, nel settembre del 1975 – dedicato al cinema selvaggio di Roger Corman che trasforma le “nude strutture” delle sue narrazioni in “cinema del profondo” di pure percezioni

ezzi

gh nrico

di e

ip

ra d

a cu

The idiot greens the meadows with his eyes… L’idiota rende verdi i prati con i suoi occhi… Allen Tate

N

el cinema di Roger Corman non c’è “prima” e non c’è “dopo”, c’è solo l’attimo. Precisamente in quanto “l’attimo” non esiste nei suoi film (non esiste cioè il “bel momento”, la “notazione acuta” cui ne seguirà un’altra), ma i suoi film sono “attimi... senza tregua”. Il film di Corman in linea di massima scoraggia lo spettatore dall’abbozzare, di sequenza in sequenza, una previsione. Tutto insieme, esso chiede di essere considerato un unico fatto che si esaurisce in una fiammata. Anche il meccanismo elementare della “suspense” viene o eliminato o dilatato per tutto il testo-film e quindi vanificato (il gioco del “suspense” è infatti la stimolazione nello spettatore, mediante segni più o meno mediati, di previsioni o ipotesi sull’immagine che “verrà dopo”, ovvero su ciò che accadrà dopo: cfr. per questo, veramente, Hitchcock). Dato il modo del tutto frammentario e casuale in cui solo è possibile disporre dell’opera sterminata, recente o passata, di Corman, assumerò qui a paradigma del suo “fare cinema” più evoluto e moderno il film Perversi ad occhi chiusi, rimandando poi ad altri oggetti. Intanto la forza, la violenza, la secchezza, il filmare “straight” (o “pointblank”) di Corman, sono in realtà vere e proprie “impressioni di lettura” indotte nello spettatore dall’impossibilità di formulare “previsioni” durante il corso del film. A livello di analisi del racconto le cose si complicano un po’. Da Wild An-

53

lo

sciul

ma ietro










BIOGRAFIE

M. Night Shyamalan to

ele

di e

nu ma

or di p

Il fallimento ti purifica, il successo ti confonde La carriera del cineasta indoamericano è una parabola ambiziosa e inafferrabile, fatta di successi, cadute vertiginose e riscatti imprevedibili


“I suoi film valgono intorno ai cento milioni e probabilmente non andranno mai più oltre questa soglia. È una delusione per chi pensava che il suo stile avrebbe influenzato tutto il cinema americano. Invece, è una grazia per chi aveva visto il suo nome cancellato da tutte le agende che contano”

C

ercava di promuovere ovunque la copia lavoro di The Visit (2015) ma si scontrava con un diffuso scetticismo. Ormai, l’epoca in cui l’industria del cinema litigava per qualsiasi cosa portasse il suo nome era lontana. M. Night Shyamalan aveva dilapidato due budget consecutivi da centocinquanta milioni di dollari e la possibilità di recuperare la fiducia perduta era remota. Il colossale tonfo di L’ultimo dominatore dell’aria (The Last Airbender, 2010) aveva fatto franare un ipotetico franchise tratto dalla serie animata della Nickelodeon. Quello di After Earth (2013) aveva addirittura minato la credibilità di un implacabile mattatore del botteghino come Will Smith. Il suo nuovo progetto era stato autofinanziato con un’ipoteca sulle sue proprietà immobiliari per un costo complessivo di cinque milioni di dollari. La sua carriera era tornata indietro di ventitré anni, ai tempi in cui Praying with Anger (1992) era stato presentato al Toronto Film Festival. Shyamalan lo aveva realizzato in India, provvedendo a ogni mansione. Ne era stato il regista, lo sceneggiatore, il produttore e l’attore protagonista. I suoi genitori avevano sostenuto le spese e la storia autobiografica del suo legame con la cultura di origine si era fatta notare tra i talent scout hollywoodiani. La sua parabola aveva tutti i contorni del grande classico americano from rags to riches e sembrava appena cominciata. Il sesto senso (The Sixth Sense, 1999) portò a casa duecentonovanta milioni di dollari e in patria fu il secondo incasso dell’anno. La cifra gli ha assicurato una permanenza tra i cento film più ricchi di tutti i tempi che resiste ancora oggi. Il thriller drammatico con Bruce Willis era commovente, pieno di tensione e aveva un finale che lasciava a bocca aperta. I suoi dialoghi divennero dei tormentoni e dopo vent’anni sono ancora degli abusati meme sui social network. La Disney si affrettò a dare carta bianca a una gallina dalle uova d’oro che non aveva ancora compiuto trent’anni. Eppure, il grande credito del regista indomaericano era stato comunque corrotto da macchie indelebili che tenevano tutti a debita distanza. Le proiezioni per i distributori di The Visit non ebbero riscontri e una bocciatura così sonora avrebbe affossato i tentativi di riscatto di chiunque. Tuttavia, la resilienza dell’autore davanti ai fallimenti era famigerata almeno quanto quella di gettare al vento delle somme faraoniche. La copertina di Newsweek del 5 agosto del 2002 riassume perfettamente il livello delle aspettative che Hollywood aveva riposto in M. Night Shyamalan. Il suo titolo non aveva dubbi e pronosticava un radioso futuro: The Next Spielberg. L’assenza di un punto interrogativo certificava che il settimanale americano dava la successione tra i due non come un’ipotesi ma come un dato di fatto. La profezia non si è nemmeno lontanamente avverata, ma il lungo profilo di Jeff Giles aveva almeno individuato le due polarità del carattere di M. Night Shyamalan. Il reporter lo aveva accompagnato nei luoghi della sua formazione a Philadelphia e lo aveva seguito nelle fasi della post-produzione di Signs (2002). Alla fine, l’articolo lo definiva sensibile, attaccato alla famiglia, ingenuamente sincero e con un’ambizione che sconfinava nell’arroganza.

La tiepida accoglienza che gli spettatori avevano riservato a Unbreakable (2001) non aveva intaccato le certezze di M. Night Shyamalan. Il regista era sicuro di conoscere tutti i trucchi per sedurre il pubblico e li sfoggiava con compiaciuta disinvoltura. Il ragazzo prodigio viveva la sua ascesa con il distacco di chi si era addestrato da sempre per il suo destino manifesto. Un training iniziato sin dall’infanzia, fatto di decine di film girati con una Super 8. Gli applausi entusiasti dei suoi familiari dovevano averlo illuso che il salotto di casa fosse per estensione la platea mondiale dei moviegoers. La sua abitudine a fare dei cameo è emblematica di questo eccesso di confidenza. Il regista si è sempre considerato un attore sottovalutato che ha rinunciato a malincuore alla recitazione. Il protagonismo non basta a nascondere e a giustificare un’intenzione ancora più eccessiva. Perché non appropriarsi anche di uno dei vezzi più riconoscibili di Alfred Hitchcock e ispirare un paragone con il maestro del brivido? Signs passò quattro settimane in testa al box-office, sfondò il muro dei duecento milioni di dollari e fu il sesto incasso americano dell’anno. Era sempre più difficile non assecondare le manie di grandezza del regista e non condividere le sue convinzioni. Non è complicato fissare il momento dopo il quale la carriera di M. Night Shyamalan è caduta a picco. Il rovinoso flop di Lady in the Water (2006) va ben oltre i suoi numeri e mette in luce tutti i difetti e le contraddizioni della sua personalità. Il disastro era stato annunciato dalla frenata commerciale di The Village (2003) e da un’ampia incrinatura nel rapporto con la critica. Il marchio di fabbrica del twist ending era diventato indigesto e veniva percepito come una forzatura che sfidava la logica della trama. Il regista reagì male alle obiezioni della stampa e le cifre complessive del film si attestarono al di sotto delle aspettative. Così, la Disney decise di bloccare il copione di Lady in the Water e di subordinare l’investimento a dei robusti rimaneggiamenti. Il suo nome su un film era arrivato a valere anche cinque milioni di dollari di cachet. Tuttavia, il primo intoppo era stato sufficiente per vedersi rigettare una sceneggiatura. Il cineasta accusò pubblicamente lo studio di ostacolare la sua individualità artistica e decise di affidarsi ai rivali della Warner. Il peccato di hybris non venne perdonato dal pubblico e le recensioni non esitarono a infierire su ogni ingenuità di Lady in the Water. Il film è centrale anche nel percorso di M. Night Shyamalan come autore ed è singolare che sia uno dei più amati dai suoi ammiratori. La sua strana ambivalenza dipende dall’equivoco che sta dietro alla prima parte della sua esperienza hollywoodiana. The Sixth Sense aveva condannato il regista a dover soddisfare l’attesa del finale a sorpresa anche quando la natura del film non lo richiedeva.

63










(neo) REALISMO

di m

ark

fish

er

È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo

I figli degli uomini di A. Cuarόn


I figli degli uomini di Alfonso Cuarón è un’opera che riflette in maniera puntuale le temperie del tardo capitalismo. La catastrofe non è dietro l’angolo, né è già avvenuta: piuttosto, viene attraversata. Pubblichiamo l’incipit di Realismo Capitalista (Ed. Produzioni Nero), uno dei testi più importanti per capire la società contemporanea

I

n una delle scene chiave de I figli degli uomini, il film di Alfonso Cuarόn del 2006, il protagonista Theo (interpretato da Clive Owen) fa visita a un amico alla centrale elettrica di Battersea, ormai un incrocio tra un ufficio governativo e una collezione d’arte privata. Tesori come il David di Michelangelo, Guernica di Picasso o il maiale gonfiabile dei Pink Floyd, sono conservati in un edificio che è a sua volta uno stabile storico ristrutturato. Sarà il nostro unico sguardo sulla vita delle élite, rintanate lì dentro per proteggersi dagli effetti di una catastrofe che ha provocato la sterilità di massa: da generazioni, non nascono figli. Theo domanda all’amico che senso ha mettersi a collezionare tante opere d’arte, visto che nessuno potrà più vederle: il pretesto non possono essere le nuove generazioni, per il semplice motivo che non ce ne saranno. La risposta è nichilista ed edonista assieme: “Molto semplice: non ci penso…”. A rendere interessante una distopia come I figli degli uomini è il fatto che riflette in maniera puntuale la temperie del tardo capitalismo. Quello che ci troviamo di fronte non è il classico scenario totalitario di titoli distopici come V per Vendetta, il film di James McTeigue del 2005: d’accordo, nel romanzo di P.D. James da cui è tratta la pellicola di Cuarόn la democrazia è sospesa e il paese è retto da un autoproclamato Governatore; ma la sceneggiatura del film, tutto questo lo lascia saggiamente sullo sfondo. Per quel che ne sappiamo, le misure autoritarie che intuiamo dalla trama possono essere state attuate all’interno di una cornice ancora democratica, almeno nominalmente. La cosiddetta guerra al terrore ci ha già preparato a simili sviluppi; la normalizzazione della crisi ha prodotto una situazione nella quale la fine delle misure d’emergenza è diventata un’eventualità semplicemente impensabile: quand’è che la guerra potrà davvero dirsi conclusa? Guardando I figli degli uomini ho inevitabilmente pensato alla frase di volta in volta attribuita a Fredric Jameson o Slavoj Žižek, quella secondo la quale è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. È uno slogan che racchiude alla perfezione quello che intendo per “realismo capitalista”: la sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne un’alternativa coerente. Un tempo, i film e i romanzi distopici erano esercizi di immaginazione in cui i disastri agivano come pretesto narrativo per l’emersione di modi di vivere nuovi e differenti. Con I figli degli uomini questo non avviene: il mondo che prefigura sem-

bra un’estrapolazione o un’esacerbazione del nostro, più che una realtà alternativa vera e propria. In quel mondo come nel nostro, ultra-autoritarismo e Capitale non sono in alcun modo incompatibili: i campi d’internamento e le caffetterie in franchise coesistono in tutta tranquillità. Ne I figli degli uomini lo spazio pubblico è abbandonato, popolato da null’altro che immondizia e animali in libertà (una scena particolarmente suggestiva è ambientata in una scuola ormai a pezzi dentro la quale troviamo una renna che corre). I neoliberali, ovvero i realisti capitalisti per eccellenza, hanno più volte celebrato la distruzione dello spazio pubblico: ma contrariamente alle loro aspirazioni ufficiali, ne I figli degli uomini non assistiamo a nessun arretramento dello Stato, quanto semmai un ritorno dello Stato alle sue originarie funzioni di stampo militare e poliziesco. (A proposito: se ho parlato di aspirazioni “ufficiali” è perché l’ideologia neoliberale, nonostante ami da sempre scagliarsi contro lo Stato, è proprio sullo Stato che ha surrettiziamente contato. Il fenomeno è stato particolarmente evidente durante la crisi del 2008, quando – come da indicazione degli ideologi neoliberali – gli Stati si sono precipitati in soccorso del sistema bancario).

73






i- CINEMA

so

u o ca

L'occhio, la camera e l'iPhone

ssim

a di m

Dall'iPhone 4 di Park Chan-wook che nel 2011 gira il corto Night Fishing alle attuali clamorose derive del cinema di Steven Soderbergh, passando per le sortite promozionali ma autentiche di Michel Gondry e Jia Zhang-ke. Un percorso per cominciare a ragionare, dopo quasi un decennio, sul cinema girato con gli smartphone, quasi un definitivo sogno di una nouvelle vague liberata...

78


P

otremmo definirla una storia dell’occhio. O forse dell’orecchio e della bocca, chissà... Ad ogni modo, quella dell’iPhone che si mette a fare cinema è una storia a suo modo strana. Perché se la vedi dalla sua prospettiva – dell’iPhone, intendo, ovvero dell’item tecnologico – ha inconfutabilmente a che fare col suo destino transmediale, col suo tenere in palmo di mano storie, possibilità, funzionalità differenti, che vanno dal dire al guardare, dallo scrivere al leggere, dall’ascoltare al giocare, dal cercare al conservare. Ma se la stessa storia la vedi dalla prospettiva del cinema, allora tutto diventa armonicamente contraddittorio, perché prolunga l’asse del formidabile parallelepipedo, nato per unire la bocca e l’orecchio, nella triangolazione con l’occhio, che guarda lo schermo e scatta foto e riprende immagini. Sembra quasi un ripercorrere al contrario la genealogia del cinema, che parte dall’occhio e solo più tardi trova l’orecchio e la bocca, i suoni e le voci: l’iPhone perde l’imprinting vocale, che gli viene dal suo essere sostanzialmente l’evoluzione di un telefono, e trova la giovinezza di uno sguardo che libera il cinema, lo alleggerisce, consegnandolo a quell’ebbrezza che è il sogno sognato da ogni nouvelle vague al suo risveglio. Questa che stiamo raccontando è una storia dell’occhio, quindi. Nel senso che quello che segna prima di tutto il rapporto tra l’iPhone e il cinema è proprio la distanza dell’occhio dalla camera, dall’oggetto tecnologico che fissa le immagini e che produce concretamente il cinema. Sì, insomma, qui si celebra – o magari si lamenta... – la liberazione dal contatto quasi fisiologico col bulbo oculare. O forse il suo involontario esilio, il suo prendere le distanze dall’immagine che sta fissando. Pensateci: c’è stato un tempo in cui l’occhio doveva stare attaccato

al mirino della cinepresa, l’immagine dipendeva dal gioco di focali che si instaurava tra le lenti e che il reflex riproduceva in miniatura, nel rapporto segreto, intimo, con la pupilla di chi riprendeva. C’era un qualcosa di misterico in questo, forse di platonico: gioco di ombre da camera obscura miniaturizzata, una relazione esclusiva tra sguardo, spazio e figure, che il regista sul set poteva solo riprodurre nel gesto che opponeva pollice e indice delle due mani, a cercare nello spazio reale la magia di un’inquadratura che in realtà era solo lì, nel segreto della macchina da presa, tra lenti, otturatore, pellicola, mirino e sguardo... Ecco, l’iPhone che filma è un po’ come quel gesto, la versione hi-tech di quel pollice e indice delle due mani che cercano l’inquadratura nella scena, il prolungamento fisico di una visione appartenuta originariamente a quell’unico occhio che rimaneva aperto a guardare nel mirino, mentre l’altro era chiuso, palpebre strizzate (o benda nera calata, se eri John Ford...) per impedire alla realtà di interferire. L’iPhone, invece, nonostante gli svariati supporti poi sopraggiunti, appartiene indiscutibilmente alle mani, al pollice e all’indice opposti sull’estensione delle braccia, cercando l’immagine nello spazio, tentando le angolazioni, guardando in terza persona. Un gioco corporeo che cerca la maneggevolezza delle cineprese Bolex 16mm o l’agilità delle Arriflex a spalla, che respiravano con l’operatore prima che arrivassero i vari camera stabilizer a fluidificare i movimenti di macchina. In un certo senso, con l’iPhone si prospetta la configurazione finale dell’istinto dello sguardo a liberarsi nello spazio, a entrare come fosse corpo nella realtà della scena che osserva: più in là c’è solo la VR e poi, ovviamente, lo SQUID di Strange Days...

Claire Foy in Unsane di S. Soderbergh

79






TRACCE DIGITALI La Apple di “Jobs 2”, una NeXT con una differente denominazione

L

a storia del NeXT è stata raccontata più volte e da ultimo, molto in dettaglio, da Walter Isaacson, il biografo di Steve Jobs. È sufficiente sapere che nel 1996 la tecnologia di NeXT e tutti i suoi dipendenti furono assorbiti dalla Apple a seguito del rientro di Jobs nella società che aveva co-fondato nel 1976. Da lì è iniziata la lunga marcia verso la Apple di oggi: un’azione della Apple nel 1995 valeva 1,95 dollari, a settembre 2018 vale 200 dollari. Un investimento di 1000 dollari fatto nel 1995, considerando anche i frazionamenti azionari avvenuti nel frattempo, varrebbe oggi 650 mila dollari. Coloro che con Jobs approdarono da NeXT alla Apple avevano percorso un

lungo e doloroso cammino simile ai greci nell’Anabasi. Ma questo si sa. Una cosa, però, si conosce di meno. La tecnologia del NeXT e soprattutto il suo sistema operativo, NeXTSTEP, ha nutrito incessantemente la tecnologia della Apple per oltre 20 anni e gli uomini e le donne provenienti da NeXT sono stati collocati nei posti di maggiore responsabilità della società della mela. Tanto che a un certo punto non si faceva mistero dell’esistenza di una sorta di “mafia NeXT” o “casta NeXT”, tanto importante era l’influenza e la retribuzione delle persone che venivano da quell’esperienza, i nextonian. (...)

Da NeXT STEP a Mac OS X a iOS

C

he tra NeXTSTEP e iOS ci sia un rapporto di diretta filiazione, mediato da Mac OS X, è qualcosa che va oltre ogni ragionevole dubbio. Un consistente numero di classi che costituiscono l’architettura del sistema di sviluppo di iOS (denominato Cocoa e poi Swift) hanno il prefisso “NS” che sta per NeXTSTEP. Prima ancora di iOS, NeXTSTEP era diventato MacOSX, che nel 2000 fu rilasciato come sistema operativo della nuova generazione di Mac. Proviene direttamente da NeXT il tool grafico, parte di XCode – l’ambiente di sviluppo di iOS –, per costruire l’interfaccia utente delle applicazioni per i dispositivi iOS e per unire i vari elementi che la compongono. Non ha neppure mutato il suo nome, si chiama Interface Builder e

produce un fìle.nib (abbreviazione di NeXT Interface Builder). Anche la X inclusa nel nome del nuovo sistema operativo dei Mac è un indizio mica da poco: sta per NeXT o, forse con maggiore probabilità, sta per Unix, che oltre a costituire il nucleo di NeXTSTEP è anche il nucleo di Mac OS X. L’origine di questa “X” comunque non la conosciamo, ma tra tutto questo c’è una strettissima parentela. Che Jobs volesse preservare e sviluppare l’eredità dei suoi 10 anni di duro lavoro e di travaglio in NeXT è fuori discussione. Durante quella esperienza, libero da ogni costrizione esterna e con i capitali messi da Ross Perot e da Canon, aveva dato attuazione alla sua visione di rendere il computer il più smart degli elettrodomestici. Dall’ebook Gli anni di NeXT. Tributo a Steve Jobs (ed. goWare) a cura di Mario Mancini

Il computer NEXT di S. Jobs

84


“Il lavoro è passione” 1995: Il futuro secondo Steve Jobs Nel 1995, sei mesi prima la vendita di NeXT alla Apple e il ritorno alla direzione dell’azienda, Steve Jobs rilasciò un’intervista a Robert X. Crigely, pseudonimo del giornalista tecnologico Mark Stephens. Il materiale integrale, registrato su una videocassetta, diventò un documentario realizzato nel 2011 da Paul Sens e lo stesso Crigely e intitolato The Lost Interview. Ecco un estratto dell’intervista in cui Jobs parla di NeXT, Internet e delle giovani generazioni

Parlami di NeXT, cosa ti ha motivato a crearla e quali sono gli obiettivi che ti sei posto quando l’hai fatto? Oh, è complicato... Fondamentalmente volevamo continuare a fare quello che stavamo facendo ad Apple, continuare a innovare. Ci sembrava che non sarebbe successo e abbiamo commesso un errore, ovvero cercare di seguire la stessa formula che usavamo ad Apple, cioè produrre l’intero apparecchio. Il mercato stava cambiando, il settore stava cambiando, le sue dimensioni stavano cambiando e alla fine sapevamo che saremmo stati l’ultima azienda che ce l’avrebbe fatta o la prima che non ce l’avrebbe fatta. Eravamo all’avanguardia e pensavamo che saremmo stati gli ultimi a farcela, ma ci sbagliavamo, siamo stati i primi che non ce l’avevano fatta. Penso che si possa dire che abbiamo messo fine alle società che hanno provato veramente a farlo. E di sicuro abbiamo commesso la nostra buona dose di errori, ma alla fine penso che avremmo dovuto prenderci un po’ più di tempo per renderci conto che il mondo stava cambiando e saremmo dovuti andare avanti per diventare una società di software fin dall’inizio. Fin dall’inizio? La macchina è stata giudicata molto positivamente quando è uscita. L’apparecchio era il miglior computer del mondo. Credici o no, oggi lo stanno vendendo nel mercato dell’usato, in alcuni casi a un prezzo più alto di quello a cui lo vendevamo noi originariamente. Sono addirittura difficili da trovare, anche oggi, negli ultimi due anni e mezzo non ne abbiamo neanche prodotti.

Steve Jobs












LONG FORM stories

Omaggio di Tanino Liberatore a Hulk della Marvel Comics


di ali ce

Conversazione con Tanino Liberatore

cat ucc i

Comici disegnatori guerrieri Tra la fine degli Anni ‘70 e gli Anni ‘80 abbiamo avuto una generazione di illlustratori sovversivi che hanno cambiato il mondo del fumetto in Italia. La generazione dei Pazienza, Tamburini, Scozzari e di Tanino Liberatore. Il creatore di Ranxerox ci racconta la storia di quella rivoluzione

C

hiamo Tanino Liberatore un giovedì mattina e mentre gli squilli del telefono si dirigono verso Parigi, dove il fumettista vive, penso alla persona con cui sto per parlare: nato a Quadri nel 1953, Liberatore frequenta il liceo artistico di Pescara, lo stesso in cui studia un certo Andrea Pazienza, di tre anni più piccolo. Si trasferisce a Roma per studiare architettura ed entra a far parte del gruppo di fumettisti più pazzi della storia, diventando presto il disegnatore di Ranxerox, strambo personaggio ideato da Stefano Tamburini e protagonista di Ranx (re) incarnazioni, un nuovo album di illustrazioni edito da COMICON, per festeggiare i quarant’anni della sua nascita. Ranx è un robot nato dai pezzi di una fotocopiatrice e insieme alla giovanissima amante Lubna vive giorni spericolati in una Roma cyberpunk come non si era mai vista prima. Una città folle e criminale divisa in livelli violentissimi, dove droga e prostituzione sono all’ordine del giorno. Un luogo carpenteriano di schizzi d’inchiostro. Ma in questa Roma qualcosa ci affascina e mentre ci perdiamo nelle rocambolesche avventure di Ranx, il paesaggio che ci si staglia davanti in fondo non ci turba: una capitale inedita sostanzialmente libera, priva di regole che ne ingabbino la secolare potenza... Ci presentiamo e nelle risposte alle mie domande Liberatore include da subito i suoi compagni. Mentre mi parla usa spesso il “noi” riferendosi a Tamburini, Pazienza, Scozzari, giovani artisti che insieme a lui combattevano con l’inchiostro accanto al Movimento del ’77, conquistando superfici su carta e reinventandole, creando riviste innovative in cui ridisegnare gli spazi, sfondare i riquadri classici e i percorsi prestabiliti. Dinamiche da sempre dominanti venivano ribaltate e ricollocate secondo nuovi parametri, e così anche le città d’Italia mutavano e ospitavano nuovi scenari, lì nei palazzi occupati e giù sulle strade ormai di tutti. Momenti da registrare e riversare su carta, con tratti ingordi di spazi.

La rivoluzione scoppiava spontaneamente simile a un rigurgito insopprimibile. Un’esigenza che da tempo ribolliva sotterranea era ora pronta a esplicitarsi, andava solo sollecitata come quel brufolo pieno di pus, quello che il ragazzo di un disegno di Pazienza non riesce a non stuzzicare. La lotta si consumava anche tramite fumetto, nobile arte in cui l’unione di disegno e parole si trasforma in una modalità narrativa unica ed esplosiva. Ogni argomento era permesso, soprattutto quelli vietati, e le immagini create dai coraggiosi ragazzi rimbombavano nelle giovani menti. L’idea impalpabile di libertà s’imprimeva su carta come un timbro sulla cera bollente, conquistava un corpo con l’aiuto di matite inarrestabili. “Abbiamo avuto la fortuna di vivere un momento storico strano e incredibile, in cui tutto era permesso e tutto era vietato” mi racconta Tanino. “Un periodo fertilissimo dal punto di vista creativo. Non ci siamo mai messi al tavolino a dire ‘facciamo della politica’. Il risultato sarebbe stato orribile... abbiamo semplicemente fatto quello che ci piaceva fare, creando in base a quello che vivevamo tutti i giorni. Roma all’epoca era tosta, negli anni del ’77/’78 c’erano morti tutti i giorni. Poi sono arrivate le Brigate Rosse, c’era il coprifuoco per le strade. Era un periodo duro ma ci sono stati tanti di quei momenti fantastici che sono davvero contento di averlo vissuto”. I giovani disegnatori erano spudorati creatori di immagini, accarezzavano la poesia delle forme e al contempo celebravano la sensualità del putrido e del fatiscente. Qualcuno, negli anni a venire, ha definito il loro stile “grottesco”, ma il termine non è del tutto esatto, non se si limita ogni sfumatura creativa a questo concetto in fondo troppo stretto. Toccati da un Dio dionisiaco erano dotati dello spirito dei bambini; forgiati da una strana forza egotica ma collettiva, un’invincibile determinazione e una vertiginosa assenza di senso del pericolo. Qualcosa nell’aria li rendeva indistruttibili, armati di fogli e idiozia raccontavano il Paese.

97










e h c i Rubr ngu

nso, li

espa l corpo

iacer aggi, p

i

i, sens

sensi o dei birint la l e ta, u ne res ro a q i. el che , dent u o t q r irt ual e io megl til i e v zio ap ”, t a a O p t s . , o e o hiuso n uman spans tolo c e t to è u o s a ù p e c i r u p o io c Q n “g mpre tato il e ad u iali se diven i, com ensor s s n che è e ie s r tto , , e ai o traie inema cor po dentr fare c mo al l a . i i u s s ic n s e e s flett i cla on p che ri Ma n ra?), e sens critt u cinqu cor po i n a u o t o ome s nali, c m io e a z i n n i n limita i ma g onve ma g non c (o l’im sto im suoni a gine Piutto n m o c m i la at t v, ome mesco t u ra c i form e it che si d r c i s l a la nsori atichi ne. d r i se che pr la visio mean i e n i ni del ol io s ic v lu s o? le il che o sens hi nel settim ri, anneg n u o o che edatto o e, di r n sest u m r o i anno f m a g ner se, le enso? Abbia onsen ccomp è un s a n a i i o c s s , e o o lvaggi rtigin E la p ieri se sto ve i Sent o que d t t i u ic t am In li. nuovi rigina chi e orsi o c r e di vec p ni e più. flessio o…in per ri n sens u i d icerca A lla r

Ovvero

i

TeamLab Borderless Mori building Digital Art Museum


# A colpo d'occhio

di Daniele Dottorini

Il corpo mutante o Il fascino del fuoco

U

sciti dalla visione di Alita – L’angelo della battaglia, si ha la chiara impressione che il film (come ogni film) abbia diversi punti focali, diversi elementi che ne catturano il senso, a volte anche apparentemente periferici rispetto all’immagine dominante. Messi da parte i riferimenti al manga di Kushiro, alla nuova science fiction hollywoodiana o ai mille riferimenti presenti nel film, ciò che rimane è ciò che continua a turbare lo sguardo: il corpo di Rosa Salazar o, meglio, il corpo di Alita nel film. Ciò che noi vediamo è infatti il risultato di un lavoro di fusione di tecniche diverse, dalla fusion camera (già utilizzata da Cameron in Avatar) alla CGI: tecnologie di mutazione dell’immagine che si traducono in una mutazione dei corpi al cinema. Alita è infatti lì davanti a noi, con gli occhi enormi, un viso da adolescente e un corpo sottile, snodato, mobilissimo e intercambiabile. Il corpo mutato o mutante: si tratta di una fascinazione antica, le cui origini si perdono nel tempo. Una fascinazione che non a caso trova nel cinema mutante degli ultimi anni una nuova incarnazione. Un cinema mutante perché ibridato profondamente con il principio stesso dell’animazione, la creazione di personaggi artificiali a partire però da corpi reali. La storia dell’animazione non è nuova a queste imprese: basti pensare alla Biancaneve di Disney, le cui movenze furono in parte ricalcate sui movimenti di una attrice reale tramite la tecnica del Rotoscopio (e le cui fattezze furono ricavate dalle tracce di altri personaggi, da Betty Boop a Ginger Rogers). O ancora si può pensare ai tanti personaggi interpretati da Lon Chaney, l’uomo dalle mille facce, fino ad arrivare al suo tecnologico erede, Andy Serkis, capace di scindersi e ricomporsi, di esistere come pura voce o come traccia per

i movimenti dei personaggi zoomorfi da lui ricreati (da Gollum a Cesare, da King Kong a Snoke o Baloo). È una storia che attraversa tutto il ventesimo secolo e si affaccia nel nuovo millennio, ripercorrendone i cambiamenti. Se Chaney, con la sua abilità nel travestimento è l’erede del teatro Ottocentesco, della maschera del Settecento, del fascino del Grand Guignol, Serkis – che può essere appunto, puro gesto, voce, traccia invisibile di un corpo – ne è l’estrema propaggine, il suo sviluppo nell’ultima parte del secolo dominata dal cinema. La storia dei corpi tecnologicamente creati si intreccia dunque con l’animazione contemporanea, ma la sua origine, ripetiamolo, è antica. È ciò che sta alla base del fascino del corpo mutante o mutato: ne parlava Ejzenštejn ne La natura non indifferente: ciò che ci cattura l’occhio nel guardare un corpo proteiforme è lo stesso fenomeno che ci spinge a rimanere con gli occhi incollati di fronte al fuoco, di fronte cioè ad una forma che muta senza fine, di fronte al puro movimento. Nei corpi mutanti degli attori digitali c’è la memoria del fuoco che si attiva ogni volta, che ci spinge a guardare con rinnovata meraviglia quel movimento senza sosta. Ma c’è qualcosa in più che agita l’immaginario: ritorniamo con la mente ad Alita, al corpo (non più o non ancora) di Rosa Salazar, che in realtà diventa sempre altro e si trasforma in molti corpi. La creazione del Cyborg ricalca la logica della creazione del mostro nel romanzo di Mary Shelley. Alita non è solo il corpo puramente ibrido del cinema contemporaneo, è anche la storia della sua creazione, che ancora una volta ha una origine lontana. La creatura di Frankenstein è infatti l’origine stessa della potenza creativa del cinema. Ne parlava Kulešov questa volta, o almeno lo mostrava con tutta evidenza ai suoi

107

studenti: prendete l’inquadratura del busto di una donna, poi quella del volto di un’altra e infine quella delle gambe di una terza: ecco a voi il miracolo del montaggio – creare un corpo che non esiste, creare un corpo fatto di parti di altri corpi. Alla fascinazione del movimento si aggiunge la meraviglia della creazione, del “portare a nuova vita”, ecco. È qui che la memoria allora corre inesorabile verso il personaggio del Governatore Tarkin in Rogue One – A Star Wars Story. Chi stiamo vedendo sullo schermo? Guy Henry (che interpreta il personaggio sul set) o Peter Cushing (prima incarnazione del personaggio, nonché spesso interprete del dottor Frankenstein o di Van Helsing nei film della Hammer diretti da Terence Fisher o Freddie Francis) le cui fattezze noi vediamo sullo schermo? Il fascino del fuoco e della creazione portano allora con loro una serie di nuovi interrogativi, spingono ancora in avanti la storia dei corpi mutanti, così come quella dei discorsi chiamati a raccontarli o a darne conto.

Alita - L'angelo della battaglia di R. Rodriguez


# La règle du jeu

di Demetrio Salvi

Imparare a leggere

U

n bravo produttore esecutivo italiano, Giannandrea Pecorelli, ha scritto un prezioso manualetto sul come si realizza un film e ha, giustamente, affermato che un regista non è tenuto a saper scrivere una sceneggiatura e che, invece, deve saperla leggere benissimo… Ovviamente, tale affermazione, a maggior ragione o in modo più evidente, andrebbe applicata ai produttori esecutivi appunto perché qui, in Italia, le cose spesso non quadrano: a leggere i resoconti e le entrate dei film nazionali viene fuori un’immagine di produzioni miopi o dislessiche, altrimenti non si spiega. Un film deve funzionare. Ma cosa significhi questa parola (funzionare) sembra difficile da stabilire anche perché la sensazione – oddio, anche questa “esterna” – è che ogni produttore sia tenacemente attaccato a una sua visione del cinema, visione che non baratterebbe con nessun’altra. E questa strategia non paga mai, neanche nei tempi brevi. Alcuni parametri sono facilmente enunciabili: ci sono generi che, effettivamente, funzionano meglio di altri. E ci sono registi che hanno nomi più spendibili, che attraggono un pubblico fidelizzato e riconoscibile. Poi c’è l’area delle storie “forti”, quelle che si portano dentro un elemento che attrae l’immaginario del pubblico e che, in genere, sono intimamente legate alla realtà voyeuristica che appartiene, più di qualunque altra, al cinema. C’è un quarto punto che, mi sembra abbia, qui da noi, pochissimo appeal, nessun vero sostenitore: le storie profonde, veramente sentite, sfacciatamente sincere. Qui siamo proprio carenti anche perché ci portiamo un’annosa confusione, una tara atavica che ci fa confonde-

re questo tipo di cinema con il cinema d’autore – una vera disgrazia proprio per questa confusione involontariamente generata. Il cinema d’autore s’è mangiato questo concetto, lo ha fatto proprio, ha generato un automatismo per niente scontato, assolutamente falso. Per fare film sinceri bisogna essere educati a quelle che sono le strategie anomale dei sentimenti e alla disponibilità di mettere in gioco la parte più oscura del proprio essere – cosa, questa, che gli autori sono raramente disposti a fare. Esce fuori, così, un tipo di cinema cerebrale, volgarmente intriso di un autobiografismo che è più facile assimilare a un curriculum professionale piuttosto che a una lacerazione intima. I nostri cineasti borghesi continuano a farci questi scherzi e a proporci le loro analisi del reale, continuano a pontificare, scambiando il cinema per un pulpito. Sfortunatamente, evidentemente, anche i nostri produttori reggono questo gioco, lo condividono, non riescono ad arginarlo, a spingerlo verso altri lidi, più attraenti, più affascinanti. Come se non bastasse, anche quelli che dovrebbero essere territori più scontati, più gestibili, più facili da prevedere, rimangono zone vuote, di inspiegabile interpretazione. Come si fa a sbagliare non a scrivere ma a leggere una commedia? E un horror? (Ma qui non faccio riferimento alle normali re-

108

altà imprevedibili del mercato, qui faccio riferimento proprio a buchi di sceneggiatura, a errori madornali, a sbagli “ortografici” che riducono le professionalità messe in gioco a presenze che, nel mondo del cinema, impoveriscono il ruolo che reggono). D’altra parte, il nostro mercato è così “interno” che anche i nomi messi in gioco, quelli che dovrebbero godere di una popolarità in grado di rendere vendibile il prodotto, finiscono con l’essere derive risibili: Checco Zalone resta l’unico fenomeno che, in tale meccanismo, ha un minimo di credibilità – ma, e questo l’abbiamo già ripetuto, è un meccanismo del tutto interno, incapace di generare aperture verso un esterno, verso un mercato internazionale che dovremmo – ovviamente – prendere in considerazione. Eppure queste meccaniche sono così diffuse e ben visibili che basta farsi un giro tra le proposte infinite che genera la serialità per definire alcuni parametri utili al buon funzionamento della macchina cinema. Questo per dire che alla domanda: ma dove sbaglia il cinema italiano? Perché i nostri prodotti non riescono a soddisfare le richieste del pubblico? Perché non riusciamo a realizzare prodotti interessanti per il mercato internazionale? La risposta è così ovvia, così palese, così banalmente ripetuta, che proprio resta un mistero come si possa continuare a realizzare tanto misero materiale.


di Sergio Sozzo

#

Couch Potato

I

l grado delle nostre ossessioni si rivela al mattino, e nell’ultimo mese ogni mio risveglio è stato accompagnato da un brano random di I Also Want to Die in New Orleans, il nuovo album di Sun Kil Moon, da marzo disponibile digitalmente e dal 12 aprile anche in forma fisica, via Caldo Verde Records. La nuova manciata di catatonici monologhi free form di Mark Kozelek ha sostituito l’abitudine a fare colazione con qualche minuto ogni mattina di Springsteen on Broadway su Netflix, il one man show del Boss al Walter Kerr Theatre di New York in cui il suo greatest hits in forma acustica si alterna a struggenti racconti di pura epica autobiografica brucesca (nottate on the road, mitologia dei pub di provincia affollati di tute blu, innamoramenti estivi e addii strazianti). È vero, Springsteen on Broadway è probabilmente una delle 3-4 visioni che credo possano definire l’esperienza-Netflix a questo punto (le altre, buttate lì: Patriot Act di Hasan Minhaj, High Flying Bird di Soderbergh, FYRE - La più grande festa mai avvenuta), ma non sono decisamente uno springsteeniano, e neanche un fan del

cantautorato-con-chitarra di Kozelek e soci. E allora da dove spuntano fuori tutte queste emozioni al contatto con queste dimensioni spicciole, con questi slanci di umanità raccolta? I Also Want to Die in New Orleans è un disco francamente sconcertante per il mio orecchio elettrificato, ci sono cascato dentro perché, insieme all’abituale complice Jim White alla batteria, Sun Kil Moon stavolta ha in organico anche Donny McCaslin, il sassofonista che ha contribuito pesantemente al sound del Bowie di Blackstar: l’incontro tra McCaslin e Kozelek per il brano The Opener era la cosa migliore dell’album di Donny del 2018, l’abbastanza insopportabile Blow. L’idea di Kozelek è di tenere McCaslin a replicare incessantemente lo stesso giro di note sul fondo delle sue interminabili confessioni in trance, come appunto in uno Springsteen del periodo The Wild, the Innocent & the E Street Shuffle o in un Lou Reed di fine ’70 tipo Take No Prisoners o – soprattutto – The Bells: Lou è apertamente citato tra gli altri nel mio pezzo preferito del lotto, che è anche l’unico in cui McCaslin ha un attimo di risveglio con

Copertina del disco I Also Want to Die in New Orleans

109

M un paio di squilli in quello che quasi potrebbe essere definito un ritornello, I’m Not Laughing at You, racconto del litigio tra Mark e un ragazzo inglese che propugna la superiorità della musica britannica sulla tradizione statunitense. È chiaro che Sun Kil Moon guarda alle intuizioni proprio di quelle esperienze seventies che recuperavano le sessioni spompate di fiati dei complessini da bar di periferia, l’r’n’b annacquato di sottofondo delle orchestrine locali, per coglierne l’endemica, latente disperazione. Un fascino letterario e desolato che nei momenti migliori riporta a certi sermoni fluviali di Bob Dylan, più Highlands che Brownsville Girl, per dire. In giro è abbastanza facile imbattersi in prese in giro dell’esistenzialismo autoreferenziale di un couch potato come Kozelek, e delle sue pagine di diario minimo fragilmente tradotte in accenni di musica (“sono davvero eccitato di ascoltare che spesa ha fatto Mark oggi al supermercato”, scrive un anonimo commentatore di Rateyourmusic…), per quanto Day in America tenti un discorso sulle sparatorie nelle scuole USA, prima di avvitarsi su quanto fosse geniale Bill Evans. Ma c’è quella irresistibile Bay of Kotor di chiusura, dedicata ai gatti che affollano la cittadina del Montenegro, con Mark che ripete There’s nothing I hate more than the sound of hungry animals crying. Su youtube c’è un video di Sun Kil Moon che esegue il brano proprio durante una performance a Kotor: l’audio è coperto dal vociare dei presenti, nessuno sembra ascoltare o cogliere che la canzone è per loro. Un gatto simile a quello sulla copertina di I Also Want to Die in New Orleans si affaccia sul nostro terrazzo ogni volta che metto su il pezzo in queste mattine, però. Faccio sempre un po’ di caffè in più per lui e per te, Mark.


# Language

DESIGN

Usare o no un prestito?

L

e parole del mondo dei computer, di Internet, dei social network, della tecnologia e della comunicazione di massa giungono da oltreoceano. Lì c’è la Silicon Valley, da lì provengono strumenti, metodi, oggetti, dati, professioni della tecnologia. La lingua franca delle pubblicazioni scientifiche internazionali della comunicazione e del business è l’inglese. Il risultato, in Italia, è che il lessico dei professionisti di questi settori è una bella mescolanza. Le nuove parole straniere sono utilissime per fissare nuovi concetti in modo rapido ed economico, ma rimangono efficaci fintanto che siamo sicuri che siano comprensibili a tutti i nostri interlocutori. Io stessa ho ricevuto email di lavoro che ho faticato a interpretare per i termini inglesi usati senza necessità. Un esempio per tutti: Per questa prima edizione dell’evento X offriremo ai relatori un easy pack di facilities che agevolino la partecipazione al progetto. Cioè la copertura dei costi per raggiungere la sede e vitto e alloggio per i giorni di permanenza nella struttura che mi ospitava. Qui l’uso dell’inglese assume l’aspetto dell’antilingua, che evita al mittente di parlare di soldi e conferisce all’argomento una presunta raffinatezza che non ha. Facciamo bene a chiederci se è giusto usare o no un prestito. Spesso, più che l’adesione a una regola, deve spingerci la ricerca di comprensibilità, senza mettere da parte l’eleganza. Chiediamoci se è gratuito, se lo stiamo usando solo per pavoneggiarci o per evitare di chiamare le cose con il loro nome. Assodata l’appropriatezza del termine straniero, e anche l’esistenza di un corrispettivo italiano, penso che la scelta possa ricadere sul prestito quando: • Siamo sicuri che sarà capito tanto bene quanto il corrispettivo italiano,

ma è più immediato e comodo, come baby-sitter o file invece di bambinaia e documento elettronico. • Ritaglia una specifica porzione della realtà, non individuata altrettanto bene da una parola italiana. Ad esempio spam o dog-sitter al posto di messaggio indesiderato e persona che si prende cura dei cani. • Si integra bene nella frase, nel menù, nella segnaletica, nel contesto in cui lo inseriamo. Ad esempio l’uso di Toilette, Toilet o WC nella segnaletica di edifici pubblici. Dobbiamo essere sicuri che i nostri interlocutori ci capiranno. Questa resta la prima regola, cui seguono la ricerca della bellezza e del prestigio. Da evitare, perché molto rischioso sia per la comprensione sia per l’eleganza, è l’uso del termine straniero in alternanza a quello italiano per aggirare le ripetizioni. Un ottimo esempio è questo, che Daniele Fortis in Scrivere per il web prende dal sito di Alitalia: Il web check-in può essere effettuato dal giorno prima della partenza. L’accettazione online è possibile sia con bagaglio a mano che con bagaglio da imbarcare. Il web check-in e l’accettazione online sono la stessa cosa, ma per l’utente potrebbe non essere chiaro, soprattutto se è la prima volta che compie quei passi. Perché complicargli la vita? Se chiamiamo la stessa cosa in modi differenti lo costringiamo a pensare, controllare, accertarsi. Evitiamoglielo. La soluzione non sta per forza nel trovare sinonimi più adatti, spesso è meglio riformulare interamente la frase. Nel nostro caso, possiamo anche togliere qualche parola e ottenere una formula migliore dell’originale: Il web check-in può essere effettuato dal giorno prima della partenza, sia con bagaglio a mano che con bagaglio da imbarcare.

110

di Yvonne Bindi Quando abbiamo dubbi sull’uso dei prestiti andiamo a vedere cosa ne pensano due istituzioni autorevolissime: l’Accademia della Crusca o l’Enciclopedia Treccani, che attraverso i loro siti web forniscono molte indicazioni anche sull’uso delle parole straniere. L’esperta di comunicazione Annamaria Testa, sul suo blog Nuovo e Utile, teorie e pratiche della creatività ha stilato una lista di 300 parole italiane che potremmo usare al posto di altrettante parole inglesi. Ve ne riporto un assaggio:

Alert: allarme All inclusive: tutto compreso Appeal: attrazione Audit: controllo, revisione Asset: beni, risorse Award: premio Deadline: scadenza Endorsement: appoggio, approvazione Engagement: coinvolgimento Guideline: linee guida Happy ending: lieto fine Mission: missione Speaker: relatore Speech: discorso Team: squadra Weekend: fine settimana Welfare: stato sociale Wellness: benessere

In ogni modo non dobbiamo dimenticare che la lingua è ciò che ne fanno i parlanti. Quando decidiamo di non usare un termine, ne limitiamo la diffusione. Usandolo, lo diffondiamo e ne sosteniamo la lotta per la sopravvivenza.


True Detective, il noir del 21°secolo Due ebook di Sentieri selvaggi sulla straordinaria Serie Tv True Detective. Viaggi al termine della notte A cura di Luca Marchetti Cos’è True Detective? Cinema? Televisione? Letteratura? Attraverso schede, saggi, profili e curiosità analizziamo e raccontiamo la serie tv più importante e innovativa degli ultimi anni. Questo ebook è il risultato di un viaggio, un autentico percorso critico che dentro la redazione di Sentieri Selvaggi abbiamo intrapreso non appena ci siamo resi conto che l’opera che stavamo vedendo oltrepassava i limiti della semplice serialità. True Detective. Vivere e morire a Los Angeles A cura di Giacomo Calzoni Chi ha ucciso Ben Caspere? Cosa si agita nel nero di Vinci? Per scoprirlo è necessario immergere l’anima in un mondo fatto di poliziotti, criminali, politici corrotti, prostitute e killer psicopatici. Benvenuti nel luna park di Nic Pizzolatto che fonde colpi di scena, letteratura hard boiled, cinema noir e gangster movie. Dopo il successo di Viaggi al termine della notte, arriva il nuovo ebook dedicato alla seconda stagione di True Detective con saggi, immagini, profili, interpretazioni critiche, materiale multimediale e tutto quello che c’è da sapere sulle otto puntate della serie tv prodotta dalla HBO.






Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.