SentieriselvaggiMagazine N.25

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SOMMARIO EDITORIALE Lettere

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FURORE Dal classico al Futuro Logan, Wick e Kong. Tra rabbia e memoria Vivo, morto o X L'urlo La rabbia non basta. Conversazione con Raul Peck Abbatti il futuro

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LOVE Don't believe in modern love Ritratti: Gli ultimi romantici I sentimenti al tempo di Love Quando la commedia diventa troppo...seria

FACES/FACE OFF 79 84

R. LaGravenese. Nothing trash is about romance Le Lame. Dolore e sentimento

INTERVISTE 90

Film Commission: Verso L'Europa. Conversazione con Stefania Ippoliti

RUBRICHE 88 Radio Raheem #2 102 Shadows


Lettere di carlo valeri

Sentieri selvaggi magazine

n.25 - 2/2017 Direttore responsabile Federico Chiacchiari Direzione editoriale Aldo Spiniello e Carlo Valeri Redazione Simone Emiliani, Sergio Sozzo, Leonardo Lardieri, Pietro Masciullo Segretaria di redazione Elena Caterina Hanno collaborato Francesca Bea, Emanuele Di Porto, Pasquale Pirisi, Martina Ponziani Progetto Grafico Giorgio Ascenzi Foto Cover: i due protagonisti di Logan - The Wolverine di James Mangold Redazione Via Carlo Botta 19, 00184 Roma. Tel. +39 06.96049768 Mail redazione e amministrazione redazione@sentieriselvaggi.info info@sentieriselvaggi.it Supplemento a www.sentieriselvaggi.it Registrazione del tribunale di Roma n.110/98 del 20/03/1998 (edizione cartacea) n.317/05 del 12/08/2005 (edizione on-line)

Stavolta siamo partiti dal titolo di un film, per poi chiudere il cerchio arrivando a pensarne un secondo. Come se i ricordi di questa nostra memoria sempre più fragile e digitalizzata finissero con l’essere, dopo tutto e semplicemente, dei titoli. Né immagini, né suoni. Ma parole, lettere. Furore. F-U-R-O-R-E. Amare con rabbia. A-M-AR-E. Un film di John Ford e uno di James Foley, cineasti che, neanche a farlo apposta, hanno le stesse iniziali. Ecco. Per quanto ancora esisteranno prima le lettere e poi le immagini? Probabilmente siamo già oltre, anche se Logan sembra quasi risolverci il problema, chiudendo l’elegia crepuscolare di Wolverine su una lettera che è una (grande) immagine: X. L’incognita del supereroe diventa allora la variabile che serve a ognuno di noi per ritrovare la strada e vivere/scrivere le vite di domani. Forse è sempre e solo una questione di sintesi. Una capacità questa sì - che hanno quasi eslusivamente le immagini… o le poesie. Dove finisce l’amore inizia la rabbia? Quante volte questi due termini, apparentemente inconciliabili sono stati accomunati per raccontare generazioni, movimenti studenteschi, poetiche autoriali. Eppure a molti di noi non era mai capitato di accumulare e registrare tanta forza (rabbiosa) tutta insieme. Dentro e fuori gli schermi. Questa consapevolezza da un lato ci inquieta, dall’altro ci rasserena persino. Soprattutto se pensiamo alla possibilità di interpretare questa rabbia come l’unico imprescindibile esorcismo per tornare all’amore. Forse un domani... Nel caos dei tempi che stiamo vivendo - privi di amore? Chissà! - proviamo a rintracciare dei segni che ci portino verso un sentiero riconoscibile, caldo, in direzione di un abbraccio che sappia placare la nostra paura. “La paura è il demone più sinistro del nostro tempo”

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ammoniva non a caso Zygmunt Bauman, riferendosi soprattutto al mondo occidentale. Forse inconsciamente in questo nuovo numero del magazine partiamo proprio da qui. Dalle nostre paure bianche che troppo spesso si costruiscono sulla rabbia dell’altro. Ne parla ampiamente Aldo Spiniello prendendo a iniziale riferimento James Baldwin e il documentario a lui dedicato diretto da Raoul Peck. I’m not your Negro è la pietra angolare e la coscienza morale di queste pagine che riflettono su alcuni necessari scatti d’ira, sull’esigenza di cambiare il mondo e la vita attraverso la politica delle idee, delle immagini e delle… azioni. Per questo l’altro “nostro” film non poteva che essere appunto lo straordinario Logan, nel suo magma fisico e spirituale, intriso di sangue e dolore. Probabilmente con Mad Max Fury Road il blockbuster più complesso (e rivoluzionario) di questo secondo decennio del XXI secolo. Sintesi (appunto!) perfetta - aggettivo in verità un po’ ingeneroso e fin troppo euclideo in rapporto alla densità romantica

dell’opera, umana troppo umana, di James Mangold - di una transizione, molto contemporanea, tra i ricordi del passato (il classico?) e i turbamenti del futuro. Questo è un numero abbastanza folle da vedere del sentimento anche in quelle lame sporche di sangue con cui Wolverine e Laura uccidono selvaggiamente i loro nemici, e da mettere sulla stessa prospettiva etica il Marvel Movie e il documentario, fino a parlare - ancora una volta, sì - della commedia sentimentale, genere forse in crisi o forse soltanto in via di (ri)definizione, perché magari oggi si trova meglio a raccontare l’amore, L-OV-E, attraverso nuovi formati e dirompenti individualismi al femminile. Del resto noi siamo questi qui. E dobbiamo continuare a (r)esistere. “Non addolcirti in quella dolce notte. La vecchiaia dovrebbe bruciare e infuriare alla fine del giorno. Arrabbiati; contro la luce che muore." Dylan Thomas

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Furore


CUORE SELVAGGIO

LOGAN di James Mangold

Dal classico al futuro di simone emiliani

Strepitoso terzo spin-off della saga con un condensato di tutto il cinema del regista. Che guarda verso il futuro, ma gira come se fosse ancora negli anni '90

Sembrava giunta al capolinea la saga su Wolverine, il mutante degli X-Men. Dopo il primo spin-off, l’ha ripresa in mano James Mangold, l’ha rivoltata e se ne è appropriato in pieno come hanno fatto Tim Burton con Batman – Il ritorno e Sam Raimi con Spiderman 2. Dopo lo strepitoso Wolverine – L’immortale anche Logan diventa un passaggio fondamentale dei film tratti dai fumetti Marvel (in questo caso, Vecchio Logan di Mark Millar e Steve McNiven) ed è un

elettrizzante condensato del cinema di James Mangold: le ombre noir di Cop Land, l’azione senza respiro di Innocenti bugie, le tracce sentimentali di Kate & Leopold con il recupero del corpo sempre più mutante di Hugh Jackman. In più un ritorno nei territori western con Logan/ Wolverine ferito e portato nella casa dei ragazzini mutanti su uno sfondo classico che replica l’omaggio a Il cavaliere della valle solitaria di George Stevens visto in Tv e l’omaggio a Johnny Cash nei titoli

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po-metallo del film forse più cronenberghiano dell’opera di Mangold. Innanzitutto quello di Logan è un cinema che riduce gli effetti speciali al minimo, che riporta nostalgicamente ed efficamente indietro nel tempo i Marvel movies. Poi riporta a un mondo continuamente alterato, come il malore/allucinazione di Logan quando avverte il pericolo, dove la stessa immagine diventa tremolante,

di coda con il brano The Man Comes Around come necessario residuo di Walk the Line. Prima dell’analisi, l’istintivo entusiasmo. Logan è un film pazzesco. Ambientato in un futuro prossimo, vede il ritorno di Logan/Wolverine che si è separato dagli altri X-Men e col tempo si è visto ridotto il potere di autoguarigione. Si guadagna da vivere come autista e si prende cura del malato Professor X in un luogo nascosto al confine col Messico. Un giorno però una donna gli chiede di accompagnare una ragazzina, Laura, fino al confine canadese. E anche lei possiede dei poteri straordinari. Un inizio potentissimo, esemplare, alla Michael Mann. Con il protagonista che fronteggia da solo tre criminali e mette già in atto quel continuo attrito cor-


CUORE SELVAGGIO come una materializzazione visiva di ciò che sta producendo la sua mente rispetto a ciò che sta accadendo realmente. Un cinema senza più maschere, che si abbandona a quei tramonti che potrebbero arrivare ancora dal film di Stevens o da un film di guerra della Hollywood classica. O ancora da Michael Mann o John Milius. Ma che vira anche verso quella fantascienza allucinata con i cavalli in mezzo alla strada o che altera i punti di vista soggettivi, con gli occhiali Laura che potrebbero essere anche un rimando che arriva da Essi vivono di John Carpenter. L’origine è esibita: il fumetto degli X-Men. Come se l’adattamento/visione si trasformasse in una sorta di work in progress sotto i nostri occhi. Fuori la logica statuaria del cinema di Bryan Singer, del pallido confronto di Gavin Hood. Solo Matthew Vaughn gli tiene testa. Ma la forza di un film è quando un cineasta si appropria della saga (tra i produttori c’è anche Stan Lee) mantenendone l’anima e poi cercando sempre nuove strade. E il rapporto tra Logan e Laura ha dentro qualcosa che stravolge: il rifiuto iniziale, i primi sguardi complici, i contatti tentati e poi negati. Con un’intensità che richiama quella tra l’evaso Butch/Kevin Costner e il bambino

preso in ostaggio in Un mondo perfetto di Clint Eastwood. Due momenti liberano la testa: il protagonista che mette la moneta al cavallo a dondolo dove vuole andare la ragazzina e Laura che fa riposare l’uomo e guida la macchina. Con Ron Howard, James Mangold è oggi uno dei pochi registi di genere puri rimasti nel cinema statunitense. Che guarda verso il futuro, ma gira come se fosse ancora negli anni ’90.

Titolo originale: Id. Regia: James Mangold Interpreti: Hugh Jackman, Patrick Stewart, Dafne Keen, Boyd Holbrook, Stephen Merchant, Elizabeth Rodriguez, Richard E. Grant Distribuzione: 20th Century Fox Durata: 135' Origine: USA, 2017

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Logan, Wick e Kong FURORE

Tra rabbia e memoria

di pietro masciullo

Il cinema mainstream americano (si) racconta ancora con semplicità disarmante, ammettendo che qualcosa sta cambiando, che una guerra per la sopravvivenza è in atto, che bisogna combatterla mutando nel profondo ma cercando di restare sempre se stessi

“Questo è un film molto famoso Laura, è di quasi 100 anni fa. La prima volta che ho visto questo film ero nella mia città, al cinema. Avevo la tua età”. Professor X a Laura Kinney, in Logan

Marzo 2017. Appunti sparsi, presi di fretta, uscendo e rientrando da quell’avamposto sempre più di confine che sta diventando la sala cinematografica, accerchiata com’è da una miriade di fluide piattaforme mediali che tentano di risucchiarne costantemente statuti e spettatori. Un incoerente e personale montaggio di immagini, allora, assume la forma di un pensiero: il cinema mainstream americano (si) racconta ancora con semplicità disarmante, ammettendo senza fronzoli che qualcosa sta cambiando, che una guerra per la sopravvivenza è in atto, che bisogna combatterla mutando nel profondo ma cercando di restare sempre se stessi. Ecco che personaggi diversi, lontanissimi nello spazio e nel tempo, sembrano parlare la stessa lingua immaginaria: ho visto a distanza di pochi giorni Logan, John Wick – Capitolo 2 e Kong: Skull Island. Tre film straordinariamente connessi con il nostro presente e tre personaggi che rivendicano un rabbioso passato da rimettere in circolo. Ecco: mi sembra questa la chiave di lettura più interessante. Logan, Wick e Kong sono tre antieroi che trasudano una vorticosa umanità dalle loro ferite passate, confrontandosi rispettivamente con i nuovi x men clonati in vitro, con una potentissima malavita globalizzata perennemente interconnessa e con i terribili “strisciateschi” in CGI

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CUORE SELVAGGIO che risucchiano il mondo nel nero dell’oblio. E non è certo un caso che baleni la memoria-del-cinema in loro soccorso: in Logan il Professor X si ferma in un motel nel deserto per guardare in Tv Shane di George Stevens, interfacciando la crescita del piccolo cowboy Joey a quella della piccola clone Laura che lo guarda affabulata; oppure le nitide immagini di Sherlock Jr. proiettate su un palazzo all’inizio di John Wick – Capitolo 2, con Buster Keaton che passa il testimone a Keanu Reeves lanciato in piena corsa verso un’altra performance di pura azione; o ancora le atmosfere lisergiche di Apocalypse Now che erompono nell’isola del Teschio dove un gigantesco Kong-digitale si muove tra il classico anni ’30 di Cooper e Schoedsack e il definitivo Viet Movie anni ’70. Lavorando sulle superfici (certo, è questo il punto), ma facendo appello a una memoria immaginaria che bilanci le icone infografiche dei famelici strisciateschi (molto simili, tra l’altro, ai vuoti Hollow di Tim Burton che minacciano la memoria dei bambini speciali in Miss Peregrine). Insomma il cinema americano di questo 2017 è pieno di eroi incazzati e feriti, proprio perché hanno una memoria da difendere in un mondo che sembra averla persa. Amori, dolori e sentimenti non possono essere “compresi” nelle matrix binarie che informano i nuovi mostri e i nuovi nemici da videogame: Kong deve guardare negli occhi sia la rabbia stolta del colonnello Samuel L. Jackson sia la dolcezza nascosta della fotografa Brie Larson, per scoprire l’umanità di entrambi oltre la guerra; Wick deve combattere nei continental di mezzo mondo (da New York a Roma) per vendicare il proprio cane, la propria casa e il ricordo della propria moglie messo in pericolo dall’immaginario videoludico che lo travolge; la piccola Laura Kinney, per utilizzare al meglio i suoi incredibili poteri, deve (ri)conoscere un padre nel morente Logan che la adotta dolcemente con un singolo sguardo. E allora il soccorso dei film di Francis

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Ford Coppola, Buster Keaton e George Stevens non è sterile nostalgia vintage, ma diventa parte integrante di un contemporaneo training fisico e psichico che questi personaggi compiono. Guardando al futuro (delle immagini), ma provando a tenersi stretto un passato (delle stesse). Perché la galoppante innovazione tecnologica – il “nostro” mondo sempre più metaforizzato nei blockbuster di questi anni – ha bisogno di un investimento emotivo che crei rinnovati spazi di alterità e nuovi osservatori critici da cui guardare (del resto questa non è una riflessione estendibile a ogni discorso sociale, culturale, politico e mediale che informa il nostro presente sempre più anedalla tecnica?). "Il cinema americano di questo 2017 è pieno stetizzato È il Logan di James Mangold, pertandi eroi incazzati e feriti, proprio perché han- to, a realizzare il meraviglioso scarto tra no una memoria da difendere in un mondo la rabbia cieca dello stunt/John Wick e quella arcaica dello scimmione Kong, che sembra averla persa" proprio perché sa ritrovare speranza nel nuovo corpo X di Laura Kinney. “È questo che si prova (ad essere padri)” dice Logan alle soglie della morte, riconoscendo una figlia oltre la clonazione e sopravvivendo nella sua/nostra memoria. La piccola Laura bio-programmata può ora viaggiare e diventare la protagonista di nuovi mondi digitali, di nuovi orizzonti social(i), proprio perché risoggettivata come una persona che sceglie autonomamente di essere diversa “da come è stata fatta”. Laura sa ora di essere la nipote di Shane e la figlia di Logan, ma sa anche di essere inevitabilmente differente da loro perché prodotta da questo tempo. Ecco, allora, l’ultimo appunto sparso che ho preso uscendo dalla sala cinematografica: il caro, vecchio e moribondo grande-schermo può ancora avere un ruolo maledettamente importante per i giovani, smart e smemorati minidisplay che ci circondano.



Vivo, morto o X di sergio sozzo

Il grande film di Mangold porta con sé le suggestioni più potenti che la Berlinale ha lasciato a sedimentare, e sopra a ogni altra cosa un senso disperato e rigenerante della rabbia, della thymós

Che tipo di universo è quello in cui abitiamo, se gloriandosi di essere una società della scelta lascia come unica alternativa disponibile a un consenso democratico imposto la più cieca impulsività? Il triste fatto che un’opposizione al sistema non riesca a presentarsi come alternativa realistica, o perlomeno ad articolare un progetto utopico sensato, ma solo a prendere la forma di un’insensata esplosione, è un grave atto d’accusa contro la nostra situazione. A che cosa serve la nostra sbandierata libertà di scelta, se l’unica scelta è fra il seguire le regole e la violenza? Slavoj Žižek

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La thymotica di Logan


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Foto grande: Colo Foto piccola: James Baldwin

Vivo È vero, come scrive Simone Emiliani, che l’apparizione di Logan in coda al programma della Berlinale è stata come un lampo fuori posto, il sabotatore inaspettato che manda all’aria la grigia seriosità del rimuginare festivaliero berlinese: e però al contempo lo straordinario film di Mangold sembra portare con sé, complice la collocazione nelle ultime giornate della manifestazione, le suggestioni più potenti che Berlino ha lasciato a sedimentare, e sopra a ogni altra cosa un senso disperato e rigenerante della rabbia. Dio solo sa se non abbiamo bisogno di corpi e sguardi in grado di veicolare la rabbia dei nostri tempi per lasciarla libera like a rolling stone, come sugli end credits del giovane Karl Marx di Raoul Peck, autore-folgorazione dell’anno con la sua rieducazione allo scardinamento dell’immagine istituzionale che, per forza di cose, non può che partire da quello che non (I am NOT your negro). Tra gli spasmi adolescenziali del film più irresistibilmente noise del Concorso, Colo di Teresa Villaverde, e la resistenza genuinamente punk al senso imposto delle politiche migratorie internazionali operata dal capolavoro di Kaurismäki, il Wolverine scarta-

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vetrato di Logan si carica addosso tutto il furore delle categorie – sociali e (dis) umane – a cui il potere non garantisce oggi il diritto alla “thymós”, termine con cui i greci intendevano la volontà, il desiderio, la brama, e l’ira, come ci ricorda un pensatore fondamentale in quest’ottica come Peter Sloterdijk. Ben oltre al livello di engagement antiTrump subito evidente nella parabola dei piccoli clandestini multietnici da portare in salvo al di là del muro di confine con il Messico (!), il film primordiale, secco e impetuoso di Mangold rivela un’anima rabbiosa e istintivamente animalesca proprio nel suo scagliarsi, senza nascondersi dietro gli orpelli dell’evanescenza da cinecomic, contro la fabbrica del controllo e della sorveglianza totale, della tracciabilità di Stato, dell’indicizzazione catastale. Morto Logan è un’opera pazzescamente vicina all’urlo di dolore e incazzatura insostenibile di un romanzo radicale come L’addio di Antonio Moresco, pubblicato pochi mesi fa: anche l’immenso Moresco tentava lì l’esperimento di ridurre il genere alle proprie traiettorie denudate con un gesto di riappropriazione di un’urgenza narrativa da riaffermare, per infilarci dentro infatti i destini intollerabilmente violenti dei suoi personaggi, non a caso ancora bambini-cavia e un detective-traghettatore a metà tra due dimensioni, dalla fisicità vistosamente alterata, dalla mostruosità esibita. Logan, che è un ulteriore addio, e il romanzo di Moresco spartiscono l’individuazione del nemico nel dispositivo panottico, nell’entità superiore innalzata dalla linfa luminosa delle infinite connessioni perpetue che inglobano e ingabbiano tutti gli angoli del pianeta, fino a farti scontrare con il doppio di te stesso che ti stava aspettando nascosto tra le dimensioni, clonato tra le pagine. È chiaro, una delle intuizioni più forti di Mangold sta nell’introduzione del fumetto degli X-Men come elemento narrativo concepibile nell’universo di riferimenti del suo Wolverine, ma è emblematico che l’indicazione per la via di fuga sia nascosta proprio tra le vignette di una storia inventata sui mutanti, fatta tra l’altro realizzare appositamente da Joe Quesada e Dan Panosian. La salvezza non è più una breccia nel muro, ma è dipinta invalicabile sul muro stesso (e l’economia formale di Mangold è tale da “risolvere” un flashback sull’amore di Wolverine proprio sfruttando nuovamente un paio di vignette dell’albo a fumetti che

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CUORE SELVAGGIO Logan sfoglia, e che ne raccontano la tragica fine). Come si scappa allora dalla connettività forzata, dallo sfruttamento del tempo condiviso che diventa antenna ancorata come escrescenza indissolubile del nostro doppio? Proprio recuperando il bisogno e la centralità della propria estraneità, del definirsi e stagliarsi in quanto corpo estraneo (siamo tutti Calibano nascosti al buio per non diventare “consumatori della nostra stessa vita”, per usare una formula cara a Jeremy Rifkin), come un albo a fumetti dentro una storia di supereroi, o il detective morto nel mondo dei vivi de L’addio. X Sul diritto a rimanere estranei, dunque anonimi, si basa la resistenza in grado di disinnescare le pratiche coercitive del contemporaneo, il potere esplosivo di una X che sostituisca una croce sopra ad una lapide, il disinnesco del mito ottuso dell’inclusione su cui Mangold batte ferocemente: mito perpetuato, per dire, anche dai recenti Oscar 2017 (quell’i’m included nel discorso di ringraziamento di Casey Affleck, ad esempio, si è mostrato già come la menzogna abissale quanto cristallina che è, sorta di rovesciamento della parabola del personaggio di Casey in Manchester by the Sea, dov’è una figura mai davvero riconciliata, legata per l’appunto ad una estraneità importante, e capace di sfogare la propria rabbia solo per brevi assalti autopunitivi). Tutto questo ci ricorda come, per dirla ancora con Žižek, il movimento dall’esteriorità di un’azione al suo “significato interno”, la narrazione per mezzo della quale l’a-

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In basso: un dipinto di Bansky del Walled Off Hotel

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gente la interpreta e la giustifica, avviene in direzione di un mascheramento ingannevole. L’esperienza delle nostre vite dal di dentro, le storie che ci raccontiamo per dar conto di quel che noi stessi facciamo, sono fondamentalmente bugie. Al contrario, la verità è fuori, nelle nostre azioni, in quel che facciamo. Dove incanalare allora i “punti di raccolta dell’ira” di cui parla Sloterdijk in questa “prospettiva del mondo” in cui le barricate sembrano ergersi in una zona di mezzo tra le mura solide di pietra e i confini interiori all’incrocio tra volontà e immaginario? Sono pronto a scommettere che tutti i ragazzini salvati da Hugh Jackman vivano adesso nel Walled Off Hotel che "Dove incanalare allora i ‘punti di raccolta Banksy ha appena fatto costruire di fronte al muro di Betlemme. dell’ira’ di cui parla Sloterdijk?" Corpo estraneo per eccellenza, speculare al simbolo dell’occupazione israeliana, l’hotel è fatto di camere “vista muro” decorate da opere dello street artist e di artisti palestinesi. Un ennesimo limbo sospeso tra la vita (interna) e la morte (esterna – o viceversa?) su cui costruire un edificio di fuga puramente apparente e “creativa”, una provocazione da gift shop: “il mio commercialista sostiene che le persone avranno paura di venire qui, a causa della location militarizzata e rischiosa”, dice Banksy (via Artribune), “i muri vanno molto di moda in questo momento, ma io me ne sono occupato molto prima che Trump li rendesse cool”. Chissà se in una delle stanze a tema che l’albergo propone agli eventuali turisti c’è uno schermo che trasmette Il cavaliere della valle solitaria…


CUORE SELVAGGIO

L'urlo

di leonardo lardieri

Il senso profondo, la fonte e l’ispirazione di tutto il cinema, è che la vita non finisce per sempre. L’essere umano contempla la dimensione duplice del temporale e dell’eterno

“Fili di luce… l’urlo, il grande urlo frantumò l’eco, le parole scesero giù come macigni, tutto si fermò, il pazzo andò oltre, il vigliacco si chiuse, il suicida sorrise, solo lo scemo s’illuminò”. Carmine Donnola, bidello di 64 anni, con scolpito sul volto il paesaggio western lucano, è l’autore dei versi, pur avendo ripetuto due volte la terza media. 25 anni di dipendenza dall’alcol, ma la poesia ha sopraffatto la dipendenza, anzi avrà saccheggiato, raschiato ben bene il barile, o meglio la botte. Lascia i suoi versi sparsi nel mondo, contro cui ha cozzato, sotto le tegole dei tetti, sui tavoli del bar e il 28 aprile al Bif&st Bari International Film Festival, lo si vedrà sul grande schermo in anteprima nel docu-film biografico, Urli e Risvegli, girato dal trentunenne Nicola Ragone, con la partecipazione del cantautore Eugenio Bennato. Caro Carmine, non preoccuparti, le cellule nei nostri corpi si rigenerano approssimativamente ogni sette anni, vedi Roger Federer, con il “triplete” di inizio stagione in tasca a 35 anni. Quindi non siamo fisicamente gli stessi che eravamo qualche anno prima. La nostra condizione dell’essere è in costante flusso chimico, biologico, fisiologico, quindi non siamo neppure le stesse persone che eravamo quando abbiamo cominciato a leggere questa frase. Ditelo a Logan, che sente qualcosa logorargli nel corpo ormai esausto. Proprio

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Logan, l’ira di Dio. L’ira che andrebbe incamerata e incanalata di questi tempi. Non è qualcosa di cui ci dobbiamo preoccupare. La vita stessa è una performance, con andate e ritorni, cambi di scena, cambi d’abito, cambiamenti di pensiero, occasioni black-out e anche un sipario finale. Ditelo a Kevin e alle sue 23/24 personalità in Split. L’essere umano contempla la dimensione duplice del temporale e dell’eterno. Il senso profondo, la fonte e l’ispirazione di tutto il cinema, è che la vita non finisce per sempre. Padre Rodrigues di Silence è la croce decussata, del “panta rei”, come quella sul terreno western che copre il corpo di Logan. Ci si sorprende e ci si commuove ogni volta che arriva il momento di spegnere la macchina da presa. Ad Austerlitz, Sergei Loznitsa avrebbe voluto farlo, ma è come se lo avesse fatto, con l’immagine che sfuma nel nero e praticamente diventa muta, in un silenzio sordo, ottuso, sentendo gradualmente il corpo della macchina e della memoria che si raffredda. Ma le immagini catturate, deportate, alcune volte, rimangano per sempre. Il suo occhio fisso, senza palpebre, ha scrutato instancabile l’andirivieni di un’eterna giornata, in un immenso immutabile presente, senza una memoria vivificante, gli eventi baluginano sul suo sensore, indugiando come immagini residue. Austerlitz di Loznitsa dovrebbe essere


CUORE SELVAGGIO

Carmine Donnola

elevato a oggetto di culto, da venerare e contraccambiare, per il portato esistenziale. Sarebbe auspicabile che di opere così “antiquate” venissero conservati perlomeno i tubi da ripresa, nella speranza che un giorno qualche tecnologia futura riesca ad estrarre dalla loro superficie l’impalpabile sedimento d’esperienza di vita, l’urlo paralizzante. È difficile immaginare come lo spirito umano potrebbe funzionare senza la convinzione che nel mondo vi sia qualcosa di irriducibilmente reale; ed è impossibile immaginare come la coscienza potrebbe manifestarsi senza conferire un significato agli impulsi e alle esperienze dell’uomo. La coscienza di un mondo reale e dotato di significato è probabilmente legata intimamente alla scoperta del sacro. Sarà così anche per Padre Ferreira e Logan. Kevin invece solleva lo specchio della sua vita fino al suo volto, scuote con un colpo il riflesso, il mondo come al solito. Tutto al proprio posto. È un attimo, lo schermo si riempie di neve. Il ronzio ci scuote dal torpore; spunta una mano che lenta rovista in cerca di un’arma, o semplicemente dell’interruttore. Un clic, silenzio e la neve sullo schermo improvvisamente collassa in un fugace puntino luminoso che scompare poco a poco, mentre lo schermo di vetro crepita flemmatico, dissipando la propria carica statica, e i circuiti interni iniziano a disperdere il loro calore nella notte gelida. “Quello che non ha mai detto Carlo Levi lo ha detto Leopoldo Scrofolo, un omino con la bisaccia che ama. La bottiglia e il trinciato dietro i cinti da Carlo Levi dipinti ha cozzato troppo contro il mondo. Quello che non ha mai detto Carlo Levi è scritto nei volti della gente… che stanca di emigrare continua a far battaglie. È scritto nei volti di tutti quegli operai che lavorano per diventare poveri, è scritto sulle mura nelle pietre calpestate. Da quelli che ci hanno usati solo per sfruttarci ed umiliarci, è scritto nello sguardo freddo di chi si alza alle quattro ogni mattina, per andare a lavorare, è scritto su ogni uomo che non ce la fa più ad andare avanti. È scritto sul volto di quei giovani che continuano a chiedersi che sarà di me domani. Quello che non ha mai detto Carlo Levi lo dice dal mare Leopoldo Scrofolo che è annegato solo e per quattro soldi”. (Carmine Donnola)

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CUORE SELVAGGIO

La RABBIA non basta Conversazione con Raoul Peck a cura di sergio sozzo, aldo spiniello, pasquale pirisi

“Una volta compreso il paradigma di ciò che James Baldwin vuole dire in Remember this house, è stato facile riuscire ad applicare questa formula esplicativa ad ogni singolo film della Hollywood classica”. Uno degli aspetti più destabilizzanti di I Am Not Your Negro è proprio la maniera con cui Raoul Peck fa a pezzi la propaganda di un american dream fatto di soli bianchi, sui cui si fondano gran parte dei miti alle origini del cinema statunitense. Abbiamo incontrato il regista a Milano, dov’era ospite per il Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina, manifestazione che negli anni ha costantemente mostrato le opere di Peck al pubblico italiano. Come hai portato avanti questa decostruzione chirurgica dell’immagi-

nario classico hollywoodiano? Davvero, potrei prendere un titolo qualsiasi del cinema americano e in due ore riuscire a individuare la clip perfetta che illustri il ragionamento di Baldwin. La parte difficile è stata trovare il frammento migliore di ogni film, quello che non solo manifestasse meglio la logica di Baldwin ma anche quello che meglio si legasse alle altre idee contenute nel documentario, perché avevo bisogno anche di un legame con gli altri concetti. Più che altro è stato complesso scoprire quanti strati di significato avesse ogni immagine emozionalmente, esteticamente, rispetto al contesto del film: non si tratta di un “campionamento” del repertorio, perché il campionamento è spesso un processo di puro accumulo, mentre la mia idea è di tornare al concetto contrario, alla

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complessità, per mostrare come le cose sono interconnesse. Campionare significa prendere degli spezzoni da fonti diverse e sperare che il risultato funzioni. Il mio approccio, e quello di Baldwin, è più incentrato sul rivelare come cose diverse si intersechino, che si tratti di storia, di politica, di razzismo, di violenza, di potere: si tratta di una decostruzione iniziale e della complessità di costruire un punto di vista generale, attraverso una serie di motivazioni e di regole che diamo a noi stessi. Non volevo che la percezione finale fosse frammentata, ma che avesse una struttura precisa. Da questo punto di vista I Am Not Your Negro è anche una lezione su come si possa ancora costruire un testo documentaristico in grado di indirizzare concetti complessi con un linguaggio capace di parlare alle nuove generazioni, abituate a ragionare al cinema per stimoli continui e narrazioni espanse. In questo la scrittura

di Baldwin sembra il veicolo ideale… Sì, ma allo stesso tempo devi trovare il ritmo giusto, perché la pratica di Baldwin riguarda proprio questo: rallentare il tempo. Se continuiamo con questa accelerazione delle forme, significa che anche il nostro cervello sarà sempre costretto ad accelerare, e non è di certo il modo migliore per farlo lavorare. Nel film c’è un senso condensabile in “assicurati di osservare davvero quello che vedi”, e a tal proposito ho cercato di lavorare su più livelli. Vedrete che in molte delle immagini del film il soggetto guarda in camera. Si tratta di guardarsi a vicenda, allo stesso modo in cui Baldwin dice: “Non eravate voi a guardarci a vista, eravamo noi a dovervi riconoscere”. Volevo che imparassimo di nuovo a guardarci. Dovevo assolutamente prendere in considerazione il modo in cui i giovani d’oggi si comportano, ma al tempo stesso allontanarmi dalla loro propensione a ragionare facendo un sacco di “tagli”: perché quando fai un taglio di montaggio, stai tagliando an-

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che l’idea, quindi è impossibile far continuare il pensiero. Nel film vedrete che quando c’è un’idea, il flusso di immagini non viene tagliato, e non ci sono troppi tagli all’interno di tutto il documentario.

"La rapidità di comunicazione cui siamo abituati nei video, nelle serie Tv è anche un modo per indebolirci: sei proprio come un robot, puoi essere soltanto un consumatore" I tagli riguardano la musica, i suoni ma non le parole. La mia esperienza con le immagini, la musica e le parole ha a che fare con la maniera in cui utilizzarle e come tagliarle. La rapidità di comunicazione cui siamo abituati nei video, nelle serie Tv è anche un modo per indebolirci: sei proprio come un robot, puoi essere soltanto un consumatore. È quello che la società capitalista esige da te, il consumatore perfetto. Stanno arrivando ovunque, anche nella zona più recondita

del nostro cervello dove ancora conserviamo un po’ di coerenza e tranquillità. Perfino l’autoriflessione! Vogliono anche quella, quindi ci bombardano con pseudo-notizie, notizie false, tutta una serie di oggetti che non usiamo neppure, come gli smartphone dei quali utilizziamo forse il 10% delle potenzialità. Se passassi due ore ad imparare come funziona il mio iPhone, avrei perso due ore da dedicare a me stesso, alla mia mente, ad un libro. È una guerra che non puoi vincere, devi esserne sempre consapevole e trovare risposta. Nel film che ho fatto e nel suo contenuto ho trovato qualche risposta. Baldwin parla spesso della rabbia, della rabbia come motore per il popolo nero contrapposta alla paura come sentimento dei bianchi. Si può trasferire la rabbia all’interno di una pratica costruttiva? L’arte può farsi carico della rabbia e trasformarla in una sorta di coscienza attiva?

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FURORE

Certamente, sono convinto che questo già avvenga. James analizza qual è la situazione, ma ti dice anche come trattarla. Quando dice: “non ero membro di questa organizzazione per questo motivo, non facevo parte di questa chiesa perché…” ci sottopone i problemi dell’associazionismo politico, non ci dice di non formare organizzazioni. È il contrario della didattica. O ancora il modo in cui le organizzazioni, che siano di destra o di sinistra, o la Chiesa diventano strutture di potere con l’esigenza di essere avversate per poter cambiare. Lui ci sta dicendo cosa bisogna fare, il prezzo da pagare, anche a costo della vita, perché le cose cambino. La rabbia non è abbastanza. Quella di Baldwin è anche una lezione su come organizzarci e sul modo in cui abbiamo storicamente interagito con quel tipo di organizzazioni. È quello che ho cercato di fare anche con The Young Karl Marx. Mostrare la necessità di organizzarsi, di imparare e studiare. Marx passò molto tempo in biblioteca; nel mio film lo vedi scrivere, leggere, quindi non è solo una questione di rabbia e lotta per le strade. Si tratta del modo in cui pensi,

in cui analizzi e l’uso che fai dei risultati di quell’analisi. Dunque sia Marx che Baldwin ci offrono uno spunto di azione. E vedi anche a sinistra che la rivoluzione è degenerata in qualcosa di mostruoso. Questo è parte del problema perché ci dice che dobbiamo stare sempre allerta,

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CUORE SELVAGGIO

nello stesso modo in cui nelle nostre democrazie abbiamo cominciato a dormire e a dimenticare di rinnovarne il senso ogni giorno. Votare non è abbastanza, anche questo è diventato consumo: consumiamo la politica, consumiamo la democrazia. È per questo che ti ritrovi Trump, Berlusconi. C’è una spiegazione a tutto ciò ed è la ragione per cui provo a fare film, non ho iniziato perché volevo lavorare con gli attori famosi o andare a Cannes, ma ha a che fare con la politica. Sono arrivato dalla politica ai film, non il contrario. Si tratta sempre di come usare la major. Non sottostando al suo volere, ma facendo film reali, farli arrivare

dove vanno le persone, platee reali per un cinema reale, non solo per i militanti, per me stesso o le persone a me care. Riguarda il mio impegno nei confronti di un pubblico più ampio senza bisogno di scendere a compromessi. Non sono mai sceso a compromessi sul contenuto. Abbiamo visto The Young Karl Marx a Berlino, e la tua operazione ci ha fatto pensare molto a Rossellini, ai suoi film per la Tv su Socrate, Pascal… l’idea che possa esistere una via vintage alla lotta politica sullo schermo… Beh, Rossellini iniziò a scrivere un film su Marx, ma riuscì a mettere in piedi solo un trattamento senza completarlo. L’ho letto, è stato pubblicato. Venni a Roma per parlare con la sua ultima moglie perché volevamo ottenerne i diritti, ma era troppo complicato per cui abbiamo deciso di scrivere una sceneggiatura originale. In ogni caso mi interessava molto quell’approccio, anche se Rossellini era molto didattico, nella sua teoria di “televisione

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per le masse”. Io credo che le masse siano più sottili, più intelligenti. Possiamo offrire loro buoni prodotti artistici, buoni film senza dover essere semplicistici. La mia idea per questo biopic è sempre stata quella di raffigurare un giovane: ciò che vedo sono dei ragazzi che decisero di cambiare il mondo come voglio fare io oggi. Si tratta di quest’energia, di questo pensiero, di geni incredibili quali erano, il lavoro che hanno fatto. Vorrei che fosse d'ispirazione per i giovani, perché loro si trovano nel mezzo, in quella fase in cui cercano risposte. Sperano che la vita sia molto più di questa piccola bolla in cui si trovano. Baldwin e Marx sono buoni esempi di lottatori, persone che hanno rischiato la propria vita, molti dei loro sostenitori sono stati uccisi. Oggi tutto è intrattenimento e puoi fare la rivoluzione con Twitter. Questa è l’idea, ma non lo facciamo, non possiamo farlo davvero. Si tratta di ritornare alla realtà. È quello che ho fatto anche con The Young Karl Marx: ritornare alla realtà. Viviamo in una società capitalistica che non è mutata negli ultimi cento anni. Questo è quello che siamo ed è così che funziona.

E funziona alla stessa maniera, per cui c’è bisogno di saperlo, di analizzarlo e la persona che l’ha analizzata meglio è stata Karl Marx, nessun altro. Sono aspetti basilari e se non li conosci non puoi combattere, non puoi sapere dove stai andando. Lo stesso vale per Baldwin. Qual è l’uso del cinema? Dell’immagine, della creazione dell’immagine? Cosa significa essere bianchi? È solo una metafora per indicare il potere? Devi conoscere tutte queste regole di base ed è perciò che mi ci sono voluti dieci anni per realizzare entrambi i film, perché per me queste erano le tematiche da mettere sul piatto e tutto il resto non era così importante. È quello che ho bisogno di salvare assicurandomi che le prossime generazioni vi abbiano accesso.

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Abbatti il futuro

di aldo spiniello

All'estremo opposto della rabbia c'è la paura, la radice del "potere bianco", secondo Baldwin. Che senso ha questa paura oggi? E come si fa a superarla? Per tornare alla rivolta di un “furore dolce”...

A un certo punto di Remember This House, il manoscritto incompleto ripreso e sviscerato da Raoul Peck in I Am Not Your Negro, James Baldwin dice che alla base dell’atteggiamento e della violenza dei neri c’è la rabbia, mentre il comportamento dei bianchi è dettato dalla paura. Non ricordo esattamente la frase per “quotarla” (e, peraltro, non ve n’è traccia nelle innumerevoli riflessioni che girano in rete sul film di Peck – che l’abbia sognata?), ma il concetto è questo. Baldwin instaura tra la rabbia e la paura, due impulsi all’apparenza del tutto opposti, un nesso profondo, cogliendoli alle estremità dei nostri rapporti con la realtà e le strutture (di potere) che

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FURORE The Other Side of Hope

la ordinano e la reggono. Che poi la paura riguardi sempre, per immaginario diffuso, ciò che sta nel buio, l’oscurità, che sia per antonomasia rivolta all’Uomo Nero, quello delle filastrocche, der schwarze Mann, the Boogeyman – l’uomo delle torbiere, con la faccia come il carbon – la dice lunga… Del resto anche Khaled, il clandestino dello straordinario The Other Side of Hope viene fuori dal carbone. È un negro siriano… Dunque, se è vero che, come dice Baldwin, “white is a metaphor for power”, se l’immagine del bianco è immagine stessa del potere e se la radice del suo atteggiamento poggia sulla paura, allora ritroviamo l’intima connessione tra potere e paura, ancor meglio paranoia di cui parlava Canetti: “…il paranoico è il preciso ritratto del potente. La differenza tra loro riguarda soltanto la loro posizione nel mondo esterno. Nella loro struttura interna essi sono esattamente la stessa cosa”. Il potere si richiude in se stesso, rende il proprio nucleo inscalfibile e innalza intorno a esso mura di contenimento e difesa, pareti inviolabili, per ricacciare quelle mille mute, animali e celesti, che tentano l’assalto al cielo, come il Dio che disperde gli uomini della Torre di Babele. Mute non definite e non identificate, che si perdono nell’indistinzione del nero, mentre l’oracolare visione del paranoico vede spuntare gli occhi dappertutto e ovunque individua la minaccia. La paura è sempre stata la questione fondamentale per Shyamalan. A cominciare dallo scambio di battute tra il nonno e il nipote atterrito dalla palla, nell’incipit del suo secondo film, Ad occhi aperti. Sul buio, ovviamente, ancor prima che le immagini possano iniziare a mostrarsi in un fascio di luce: “Hai paura? Tanta. E perché?”. Il cinema di Shyamalan è sempre un tentativo di rispondere a questa domanda. Perché ho paura? E come faccio a superare la paura? Tutti abbiamo la tentazione di ricacciare il male e la morte oltre i confini di casa, this house, e ancor più in là. Del resto, i cadaveri si occultano sempre. Si coprono, si rinchiudono in una bara, sotto terra. Al

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In basso: The Village e Split (foto grande) Pagine successiva: Split

massimo si bruciano. Perché non sia mai visibile la dissoluzione. Mentre il village resta al riparo dalla sofferenza. Ecco il privato che si fa politico, quelle mura perimetrali che oggi piacciono così tanto: qui, da questa parte si possono mandare avanti le regole del gioco, della nostra finzione, mentre di là, il caos. Eppure non c’è fuoricampo abbastanza lontano in cui emarginare il dolore, come racconta E venne il giorno. La morte corre col vento, non si vede, ma è sempre in campo, attraversa tutti gli spazi e ogni inquadratura possibile, ogni gabbia che proviamo ad innalzare sezionando e incarcerando il reale nei limiti di un’immagine. Bisogna stare a occhi aperti, dice Shyamalan. O, comunque, leggere il mondo con gli occhi della mente e dell’amore, per spingersi oltre le inutili zone di sicurezza, con le loro restrizioni, i checkpoint, le guardie armate e i carri blindati. Con Split, ora, si arriva al grado ulteriore, a questo compattarsi della paura in un’autodifesa a oltranza, che prima costruisce il corpo invincibile, la Bestia, e poi attacca all’esterno, divorando a dismisura. Come la rabbia, ancor più della rabbia forse, la paura squarcia il mondo nel momento in cui si fa furia cieca. Quando non può più ritrarsi in fuga, la paura è panico e distruzione. Al di là delle diagnosi che poco ci riguardano, Kevin Wendell Crumb non è poi così diverso dal presidente Schreber. Dal suo bunkerricovero, fonda sulla sua

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FURORE percezione mistica del dolore, sulla sua stessa paranoia, la propria onnipotenza. “Anche l’aggressione contro gli organi interni verrà considerata nei particolari: dopo la loro completa distruzione, dopo lunghi dolori, quegli organi si ripresentano rinnovati, invulnerabili”. Un’onnipotenza che è un’impennata dalla chiusura, una torsione vertiginosa del nucleo verso l’alto. Kevin (o Dennis o Patricia o chi per loro) esilia tutte le altre personalità per dar corpo e forma alla Bestia. Mette a tacere e annulla l’altro da sé, innanzitutto dentro di sé. La possibilità di una resistenza, di un moto di coscienza, di un dubbio, di un diverso modo di vedere le cose. L’unità non può che fondarsi sull’esclusione della differenza. In fondo, la Bestia risparmia Casey perché la riconosce uguale a sé, in qualche modo la assorbe (che anche Casey non diventi Bestia, faccia tutt’uno con essa? In fondo Shyamalan alla fine ci lascia con questo dubbio…) Chi fermerà la Bestia? Forse Bruce Willis, sul piano dell’azione? O occorrerebbe prima togliere respiro alla paura, snidarla dal suo nascondiglio? A Deleuze e Guattari bastava scrivere che “il presidente Schreber ha i raggi del cielo nel culo”, per smontarne in qualche modo la macchina, con la sola forza del pensiero e dell’espressione. Da lì poi partiva la fatica della schizoanalisi. Ma era una guerra condotta con l’intelligenza e la ragione... È interessante che la dottoressa Fletcher (curiosa assonanza tra l’altro col professor Flechsig, sommo nemico del presidente Schreber…) si soffermi a guardare proprio Le grandi bagnanti di Cézanne – sì, torniamo ancora lì... Sicuramente quel quadro è uno dei più importanti tra quelli conservati al Museum of Art di Filadelfia. Ma soprattutto si tratta di un’altra declinazione dell’idea cézanniana di una prospettiva multipla, di punti di vista che si giustappongono e si compongono, alterando per forza di cose l’illusione naturalistica dello sguardo e l’unità dei corpi e degi oggetti. Ancor più, ne Le grandi bagnanti, le figure sembrano avvitarsi e deformarsi sotto la pressione

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Le grandi bagnanti, di Paul Cézanne

congiunta della struttura spaziale e delle prospettive: “mandria di trichechi mostruosi di null’altro preoccupati che di ostentare, di aprire alla percezione le loro carni adipose. I contorni sono abbastanza marcati, ma, anche qui, non riescono a chiudere perfettamente; il quadro è emorragico, nel senso che terra e carne e fusti legnosi e vegetazione e aria si innestano gli uni negli altri, con scambi incrociati di esalazioni materico-cromatiche” (Barilli). All’alba del contemporaneo, Cézanne prova a tirar fuori la struttura geometrica del mondo, ma al tempo stesso non può che prendere atto dell’incapacità dell’immagine di chiudere e trattenere. E quindi di tracciare i confini, di armare le mura, escludere il dentro dalla minaccia sempre incombente del fuori. Che l’immagine dipinta abbia una tentazione eccentrica, che istuisca il suo senso solo rispetto a ciò che è fuori da essa, innanzittutto il nostro sguardo, lo si sa da tempo. Con Cézanne, però, la dialettica tra il dentro e il fuori genera definitivamente il caos: l’interno si sfalda, si corrompe, va in emorragia. Per Cézanne, se la Bestia tentasse di costituirsi compattando in sé tutte le paranoie, forze e linee di tensione, in un attimo metterebbe già in moto la sua dissoluzione. Per Cézanne la Bestia già è sconfitta. In fondo, l’aspetto più lucido e radicale del pensiero di Baldwin sta nell' essere, prima ancora che un discorso sui neri, un’analisi sulla metafora del potere bianco. Radicale nel senso letterale del termine, proprio perché cerca di tirar fuori ed estirpare la

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Foto piccola: Le jeune Karl Marx Sotto: I Am Not Your Negro

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radice di questo potere. Una struttura che si compatta e si coagula intorno allo spettro del negro, praticando l’esclusione di qualsiasi elemento apparentemente “alieno” che potrebbe intaccare lo stato delle cose, quell’ordinata e pacifica e meravigliosa società occidentale così come si è costruita nel corso del tempo. Ma non c’è alieno, in verità. C’è solo il bisogno di istituirlo, per dare un solido terreno alle fondamenta della struttura. Quindi per Baldwin occorre andare al fondo delle modalità con cui il sistema di potere ha costruito e veicolato questo artificio, questa falsa rappresentazione, a cominciare dai modelli educativi e da tutto l’apparato di immagini messi in campo per veicolare i messaggi chiave, funzionali alla difesa dei privilegi e delle posizioni di preminenza. Ed è un problema che riguarda anche, se non soprattutto, l’uomo bianco, la sua assuefazione, la sua acquiescenza passiva e muta. Insomma, chi è davvero lo schiavo? Chi è davvero il terminale passivo di tutto questo discorso rivolto alla conservazione e alla perpetuazione? La frase epocale di Baldwin, pronunciata durante un’intervista televisiva, di cui Peck dà puntuale testimonianza, a cominciare dal titolo stesso del suo film, conserva intatta la sua potenza: “I’m not a nigger. I’m a man, but if you think I’m a nigger, it means you need it... If I’m not a nigger here and you invented him —


CUORE SELVAGGIO you, the white people, invented him — then you’ve got to find out why”. Ecco, seguendo questa linea, diventa chiaro perché la questione razziale sia per Peck soprattutto una questione di classe. E perché, allora, I Am Not Your Negro si accoppi naturalmente a Le jeune Karl Marx. Si parla di strutture economiche e politiche, di concentrazioni di potere, si parla delle effettive possibilità di autoderminazione e delle infinite strategie alienanti della produzione e del consumo. Peck dice che il senso profondo di I Am Not Your Negro è riassumibile nella frase “assicurati di osservare davvero quello che vedi”. Prima ancora della forza dirompente della negazione, di quella rabbia che alimenta il no della rivolta, occorre questa capacità di osservare, di leggere tra le maglie delle immagini e oltre esse. Rimettere in moto tutto il loro potere eccentrico, ma al tempo stesso far detonare tutta la carica interna, quella tensione al caos, quella ferita emorragica alla Cézanne. E così smontare dal profondo la pretesa istituzione di un senso unico, predeterminato, funzionale. Peck, dunque, attraversa il cinema, quello “classico”, quello che fa Storia, per scavare dentro le modalità di rappresentazione e di racconto, per evidenziare il contenuto diretto delle immagini e svelarne quello filtrato, ma ancor più per farne venir fuori il rimosso, ciò che sta tra parentesi o che sfugge verso il lato, dai bordi. Perché anche l’immagine più centrata e controllata, contiene questa carica eccessiva che produce increspature della superficie e infinite smarginature, e si protende in altre direzioni, più o meno prevedibili, decifrabili, interpretabili. Non c’è bisogno di forzare la mano alle forme. Perché ogni immagine tende già le forme Per questa strada, forse, si può spiegare meglio anche un altro paradosso, l’aspetto quasi “vintage” dei discorsi antagonisti di oggi, come è emerso anche dalla selezione, politicissima, dell’ultima Berlinale. Marx, Baldwin, il Daniel Cohn Bendit di No intenso agora di João Moreira Salles, tutto quel cinema brasiliano che recupera il discorso

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A sinistra: No intenso agora Sotto: Joseph Beuys

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anticolonialista ripartendo dalla ricostruzione storica e il film in costume. E, per altro verso, il ritorno al genio di Joseph Beuys con il documentario di Andres Veiel. Come se in questo tempo non fosse rintracciabile una figura davvero alternativa, una voce critica capace di entrare nei gangli del sistema, di interpretarli e scuoterli. Qualcuno ci prova, come Fernando de Aranoa che parla di Podemos in Política, manual de instrucciones, ma la vischiosità dell’attualità rischia di far dimenticare l’analisi e di farci ripiombare nella pura propaganda, nella manualistica “ortodossa”: si indicano altre strade e si dettano nuove regole, ma pur sempre di regole si tratta. Da tutto ciò nasce una serie di questioni, sul piano delle forme d’espressione, i linguaggi, l’arte… Cos’è l’avanguardia? Del resto, anche i film di Peck appaiono perfettamente normali, soprattutto quell’irresistibile Karl Marx che sembra


CUORE SELVAGGIO Joseph Beuys in How to explain pictures to a dead hare stare a metà tra una comSotto: Il progetto 7000 Oaks media d'amici e il Rossellini televisivo. Mentre il documentario, per dirla alla Comolli, ha di per sé la tensione a sperimentare, in quanto confronto con zone di realtà non ancora addomesticate. Forse, l'ira non ha più raccolte e sbocchi, perché finalmente si è arrivati alla paura generalizzata. E quindi alla concentrazione vertiginosa intorno al nucleo, al tutto compatto, indistinto. Il caos, le voci antagoniste sono riassorbite nella pura superficie della rappresentazione spettacolare, della virtualità diffusa, della socialità condivisa a colpi di like. “Non si possono fare rivoluzioni su twitter”, dice Peck. Per lui occorre ritornare al piano della realtà (non del realismo) e dell’analisi. Soprattutto bisogna rallentare, tornare a ragionare. Il che vuol dire opporre un altro tempo alla velocità della comunicazione attuale, ristabilire un flusso di pensiero con le cose, sulle cose. Più che dell’accelerazione futurista, dell'elogio della perfezione meccanica, c’è bisogno di ripensare l’organizzazione del tempo e dello spazio, ridiscutere i modi della produzione e della comunicazione,

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la necessità del prodotto in sé, distorcendolo, spiazzandolo, ridonandogli un’altra funzione che abbia davvero un’urgenza e un senso (che l'archivio sia il ready made dada?). Abbattere il futuro. Del resto se davvero Beuys è “il grande vendicatore della natura sulla cultura dell’uomo, intesa come momento aggressivo e soffocante” è perché mette in gioco il corpo, la parola, la predicazione, l’insegnamento, la concretezza della prassi, spingendo la sua avanguardia verso i limiti di una sapienza e di un’espressione mitiche, sciamaniche, senza tempo. Rinuncia all’opera, al prodotto, all’arte in vendita, per tornare agli alberi, alle 7000 querce, riconoscendo in quel progetto, una foresta piantata dagli uomini, la più segreta linea di contatto tra noi e lo spirito del mondo. Il segreto del bosco, dice Ermanno Olmi. Ancora oggi, in Vedete, sono uno di voi. Un bosco non certo vecchio. Semmai antico, carico di misteri e risposte segrete. Il luogo del silenzio e del raccoglimento, del pensiero e dell’intuizione. Il luogo in cui può finalmente riposare anche la rabbia di Logan “Wolverine”. Olmi, con la sua voce gentile, doppia e ridoppia il cardinale Martini. Superandolo in corsa, quindi. E rivendica anch’egli la vendetta della natura, la necessità di rallentare il ritmo contratto di questa cultura della tecnica e della funzione, per riconoscere la dignità dei gesti e del lavoro, di tutti gli eventi del minuto, per tornare a incontrare e salutare le persone, gli individui, quelli che vivono ogni giorno, prima e dopo qualsiasi formazione. Contro la paura delle chiese, della politiche, delle industrie, contro la nostra stessa paura, Olmi parla ancora di coraggio, dell’aver cuore, aprirsi al rischio e all’imprevedibilità del contatto. Tra sé, gli altri e il mondo. Con un furore dolce che scuote l’anima e che ridetta la “misura“ della rivolta. Potrebbe sembrare idealistico. Ma la concretezza dell'umano non è un'astrazione. È un fatto.



Don't believe in

Modern Love Nella lista delle venti commedie romantiche più ricche degli ultimi trentacinque anni ci sono solo quattro film dell’ultimo decennio. È la crisi irreversibile di uno dei generi più classici di Hollywood? Cosa sta cambiando dal punto di vista produttivo, economico e creativo?

L’incasso complessivo del 2016 è stato di undici miliardi e mezzo di dollari ed è stato salutato come il più ricco della storia del cinema americano. Tuttavia, nemmeno una simile bottom line ha evitato la presenza di numerosi flop e uno sguardo sulle prime cento posizioni della classifica mette in luce almeno una tendenza negativa. Infatti, per trovare una commedia romantica bisogna scendere fino al cinquantacinquesimo posto e farsi bastare i sessanta milioni di dollari di My Big Fat Greek Wedding 2 (Il mio grosso grasso matrimonio greco 2). Il titolo di genere immediatamente successivo è al settantunesimo posto e questa volta è necessario accontentarsi dei quarantasei milioni di How to Be Single (Single ma non troppo). La ricerca non va molto meglio se si estende il campo a tutto il romance: la caduta arriva al cinquantottesimo posto e ai cinquantasei milioni di Me Before You (Io prima di te). L’elenco delle uscite del 2016 offre una serie di confronti a distanza emblematici della crisi che questo tipo di film sta affrontando negli ultimi anni. Ad esempio, Bridget Jones’s Baby è stato il novantanovesimo risultato dell’anno con un bottino di poco più di venti milioni. Bridget Jones: The Edge of Reason (Che pasticcio, Bridget Jones!) aveva preso il settantaquattresimo posto nel 2004 e Bridget Jones’s Diary (Il diario di Bridget Jones) aveva guadagnato il trentunesimo posto nel 2001. L’eroina nata sui romanzi di Helen Fielding è tipicamente inglese e il suo destino è stato simile a quello di altri adattamenti di Richard Curtis. I suoi film sono sempre stati più popolari sul mercato internazionale che su quello americano. Comunque, la sua avventura materna non è stata un fenomeno di costume come era capitato in passato e si è difesa soltanto in patria. L’analisi commerciale dei tormenti sentimentali di Renée Zellweger potrebbe essere fuorviante ma il tracollo di My Big Fat Greek Wedding 2 non concede molte attenuanti. Il primo capitolo della saga multiculturale scritta ed interpretata da Nia Vardalos aveva portato a

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LOVE

di emanuele di porto


CUORE SELVAGGIO casa il corrispettivo attuale di duecentoquaranta milioni ed era stato il quinto film più ricco del 2002. Il declino del suo sequel è stato troppo rovinoso per essere giustificato sbrigativamente con i quattordici anni di oblio che hanno avvolto i personaggi di My Big Fat Greek Wedding. I numeri potrebbero esMother's Day sere uno strumento troppo e sopra: Il mio grosso grasso matrimonio greco 2 freddo per spiegare il progressivo deterioramento della commedia romantica. Eppure, i trentadue milioni di un film postumo come Mother’s Day sono un altro segnale inequivocabile di un irreversibile crepuscolo generazionale. La morte fisica di Garry Marshall si è consumata anche sul terreno del suo appeal verso gli spettatori e non si vede all’orizzonte il riscatto dei suoi epigoni. La sequenza iniziale di Friends with Benefits (Amici di letto) mostra Mila Kunis mentre aspetta il suo buddy lover davanti ad un cinema che sta per proiettare Pretty Woman. Il suo personaggio viene mollato prima di entrare in sala perché è emotivamente danneggiato dall’illusione del vero amore cinematografico. In Easy A (Easy Girl) c’è Emma Stone che confessa la frustrazione di avere sempre sognato un’adolescenza come quella dei film di John Hughes. Il cineasta più influente degli eighties viene citato di nuovo in He’s Just Not That Into You (La verità è che non gli piaci abbastanza) e questa volta è Ginnifer Goodwin a riempire la solitaria attesa del principe azzurro con la visione ossessiva di Some Kind of Wonderful (Un meraviglioso

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In basso: Il lato positivo Nella pagina seguente: Sex and the City

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LOVE

batticuore). La routine da seduttore di Ryan Gosling in Crazy, Stupid, Love si basa sul fatto che nessuna donna resiste al fatto che sa replicare la salda presa virile di Patrick Swayze in Dirty Dancing. La vita privata e professionale di Anne Hathaway è in rovina ma in The Intern (Lo stagista inaspettato) c’è Robert De Niro che prova a raddrizzarla con l’aiuto di Debbie Reynolds che canta You Were Meant to Me in Singin’ in the Rain. La disillusa Kate Winslet di The Holiday (L'amore non va in vacanza) ritrova la fiducia nelle relazioni ideali attraverso la sua fortuita frequentazione con lo sceneggiatore Eli Walach. Il suo anziano vicino di casa in pensione le spiega i trucchi e le aderenze con la realtà di un perfetto copione romantico dell’età dell’oro hollywoodiana. Lo stato d’animo dominante di tutte queste citazioni è la nostalgia non solo per il cinema classico ma anche per un ordine perduto delle gerarchie sentimentali. La stretta interdipendenza tra i cambiamenti nei legami e nelle abitudini sociali e quelli nei modelli narrativi dei film rende difficile capire chi ha dato vita a cosa. La carrellata che testimonia la sopraggiunta referenzialità non può che esaurirsi con un caso limite come quello di Larry Crowne (L'amore all'improvviso). La sceneggiatura scritta da Tom Hanks insieme a Nia Vardalos permette finalmente alla star di fare coppia con Julia Roberts. I due old timers della commedia romantica colgono l’occasione di celebrare la loro mancata rassegnazione ai tempi e ai temi che ormai hanno contaminato il genere. La volontà di marcare questa estraneità è tale che la loro attempata love-story non si fa problemi a pagare il suo orgoglio con l’indifferenza del pubblico. La tiepida accoglienza da parte degli spettatori è un altro tratto in comune di questo repertorio di titoli. Nessuna produzione all’interno di questo campione ha


CUORE SELVAGGIO mai superato la quota più facile dei cento milioni. Quindi, nella lista delle venti commedie romantiche più ricche degli ultimi trentacinque anni ci sono solo quattro film che sono usciti nell’ultimo decennio. Il numero è ancora più esiguo se si dimezza la forbice temporale e sulla distanza di un lustro si troverebbe soltanto Silver Linings Playbook (Il lato positivo). Le cose peggiorano ulteriormente se l’elenco viene osservato sotto la lente necessaria di un aggiornamento al passo dell’inflazione. In questo scenario, il gruppo perderebbe degli altri componenti e resisterebbero soltanto The Proposal (Ricatto d'amore) con centonovanta milioni e Knocked Up (Molto incinta) con centottantasette milioni. La classifica adeguata al costo del biglietto è dominata dai trecentosessantacinque milioni di Pretty Woman e Julia Roberts ne è la mattatrice con quattro interpretazioni, di cui due in "Il lavoro di ridefinizione della sensibilità coppia con Richard Gere. La stima reale degli incassi è anche un elemento prezio- femminile portato avanti da Sex and the City so per stabilire il picco commerciale del- ha contribuito a cambiare i ruoli tradizionali la commedia romantica. Infatti, la metà tra uomo e donna... il prezzo che la comdei titoli risale allo spazio ristretto di un media romantica ha dovuto pagare è stato quinquennio che va dal 1997 di As Good As It Gets (Qualcosa è cambiato) e di My molto alto " Best Friend’s Wedding (Il matrimonio del mio migliore amico) al 2002 di My Fat Greek Wedding e di Sweet Home Alabama (Tutta colpa dell'amore). In quella fase, un film di successo come You’ve Got Mail (C'è posta per te) poteva arrivare all’equivalente di duecento milioni mentre adesso quasi nessuno arriva a settanta milioni. Dove è finito questo bacino d’utenza che ormai raramente riesce ad essere intercettato? Sex and the City occupa il ventunesimo posto della graduatoria ma il suo valore simbolico sopravanza quello delle sue cifre. La versione per il grande schermo dei diari di costume di Carrie Bradshaw è arrivata dopo un glorioso cammino televisivo che è iniziato nel 1998 ed è finito nel 2004. La corrispondenza della sua permanenza nel

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Foto piccola: Tutta colpa dell'amore In basso: È complicato

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palinsesto della HBO con il momento più popolare del genere potrebbe essere una semplice coincidenza ma forse non è così casuale. Il lavoro di ridefinizione della sensibilità femminile portato avanti da Darren Starr ha contribuito a cambiare i ruoli tradizionali tra uomo e donna. La conseguenza più immediata sul pubblico è stata quella di rendere meno credibile la tipica idea dell’uomo da redimere e da salvare. Alla fine, l’eroina conquista il cuore dell’incorreggibile Mr. Big ma il prezzo che la commedia romantica ha dovuto pagare è stato molto alto. Il rovesciamento delle parti e lo sdoganamento di certi argomenti hanno smontato i suoi capisaldi narrativi senza dare in cambio delle alternative altrettanto affidabili. La carriera di specialisti come Andy Tennant ne è stata completamente travolta fino a passare dai trionfi di Hitch e Sweet Home Alabama alle deludenti accoglienze di Fool’s Gold (Tutti pazzi per l'oro) e di Bounty Hunter (Il cacciatore di ex). L’unica a mantenere ancora una certa stabilità di rendimento è Nancy Myers ma anche per lei i fasti di What Women Want e di


CUORE SELVAGGIO Sopra: Molto incinta e Come farsi lasciare in 10 giorni

Something’s Gotta Give (Tutto può succedere) sono un ricordo lontano. Soprattutto, il plot principale dei suoi ultimi film è legato a dei personaggi che sono stati superati dalle nuove regole delle relazioni ma non riescono a nascondere i loro imbarazzi. La trama di It’s Complicated (È complicato) si appoggia su Meryl Streep, Steve Martin e Alec Baldwin e concepisce ancora le infedeltà e i rapporti promiscui di un triangolo come il motore di una serie di equivoci. Le tre vecchie glorie assistono ai progressi dell’emancipazione senza saperli maneggiare e li rifiutano con un ritorno alle vecchie maniere. Una conferma ulteriore di come la deflagrazione delle convenzioni desta curiosità ma ancora sfugge ad un’assimilazione efficace. L’indizio più eclatante di questa difficoltà nel mettere a fuoco i mutamenti nella personalità e nelle aspirazioni femminili è la totale estinzione delle america’s sweethearts. Il mercato sta ancora aspettando le eredi di Julia Roberts e di Meg Ryan e tutte le candidate a raccoglierne il testimone non hanno mai dato dei risultati convincenti. Jennifer Aniston e Cameron Diaz hanno saputo conservare la scena perché sono riu-

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LOVE Insieme per forza

scite a modularsi su una nuova versione disincantata e aggressiva del loro ruolo. La consapevolezza è stata acquisita con gli anni ma la maturità le ha progressivamente tagliate fuori dalla ricerca del primo amore. Katherine Heigl era uscita da Grey’s Anatomy con ottime credenziali ma il credito che aveva accumulato con 27 Dresses (27 volte in bianco) e con Knocked Up si è esaurito davanti al suo rifiuto di portare la croce della brava ragazza. La stessa sorte è toccata a Kate Hudson dopo How to Lose a Guy in 10 Days (Come farsi lasciare in 10 giorni) e a Reese Witherspoon dopo Sweet Home Alabama. Inoltre, alcune star come Anne Hathaway hanno deciso di fuggire prima di restare intrappolate nella parte d’esordio di Pretty Princess. Il problema del ricambio sembra non tanto una mancanza di talento quanto l’assenza di un profilo standard al quale attenersi. La penuria di riferimenti per l’immedesimazione ha colpito duramente anche sul piano maschile. In questo caso, sono stati Tom Hanks e Richard Gere a non aver trovato nessuno all’altezza del loro retaggio. La gamma degli aspiranti è tanto eterogenea che è persino difficile individuare la fisionomia e l’età di un eventuale rampollo. I papabili si succedono per varietà e caratteristiche come gli innumerevoli amanti della mangiauomini Samantha Jones. Il grande favorito Patrick Dempsey era partito molto bene con Sweet Home Alabama ma poi ha preferito il letargo dorato di dieci anni alla ABC e le tresche del Seattle Grace Hospital. Ryan Reynolds si era comportato benissimo con Sandra Bullock in The Proposal ma poi è passato rapidamente ad altro senza avere rimpianti. Una prova ulteriore che lo stardom non ha un grande desiderio di risolvere la questione della successione. Adam Sandler e le sue brillanti collaborazioni con Drew Barrymore in 50 First Dates (50 volte il primo bacio) e in Blended (Insieme per forza) sono sempre state involontariamente sentimentali. La stella di Zac Efron è caduta con il rovinoso tentativo di That Awkward Moment (Quel momento imbarazzante) e non è mai decollata nel romance dopo le delusioni di Charlie St. Cloud (Segui il tuo cuore) e di The Lucky One (Ho cercato il tuo nome).

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In basso: Dear John

L’editoria young adult ha offerto un salvagente al dramma romantico e per un certo periodo Channing Tatum aveva guidato la riscossa del valentine’s movie. Dear John e The Vow (La memoria del cuore) erano stati degli indiscutibili successi commerciali ma anche questa risorsa ha smarrito rapidamente le sue potenzialità. L’attore ha abbandonato il percorso quando era "Lo scenario appare privo di sbocchi a breve ancora molto richiesto ma anche le sue termine ma la regola hollywoodiana vuole partner non hanno voluto seguire la strada della continuità. Amanda Seyfried e che niente muoia mai del tutto" Rachel McAdams hanno funzionato egregiamente ma non hanno mai dimostrato una vocazione tale da diventare delle specialiste. Una coppia come Shailene Woodley e Ansel Elgort in The Fault in Our Stars (Colpa delle stelle) è convincente ma non è rimasta scolpita nella memoria come il migliore assortimento possibile. Gli adattamenti dei romanzi rosa non mancano ma la ricorrenza degli innamorati ha smesso di offrire il suo titolo di punta e ha spostato i suoi interessi su Fifty Shades of Grey e i suoi capitoli successivi. La strategia ha pagato e Jamie Dornan e Dakota Johnson non hanno mai avuto problemi a superare un incasso da cento milioni. Tuttavia, il fatto che la storia d’amore tradizionale sia stata sostituita da un suo derivato sadomaso la dice lunga sull’urgenza di mettere a fuoco le nuove priorità del genere. Lo scenario appare privo di sbocchi a breve termine ma la regola hollywoodiana vuole che niente muoia mai del tutto. In attesa di tempi migliori, alcuni stereotipi trovano ospitalità in altre ambientazioni e spesso trasferiscono i loro codici in altri

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LOVE contesti. Oppure, le nuove risorse creative restano confinate in esperimenti di nicchia come Frances Ha e aspettano soltanto che qualcuno le noti e trovi un modo di renderle accattivanti per il grande pubblico. La salvezza della commedia romantica sembra essere ancora una volta nelle mani salvifiche di Judd Apatow e il suo frenetico lavoro di Frances Ha organizzatore sta trovanSopra: Le amiche della sposa do una nuova sfida dopo aver cresciuto i grown-ups di SuXbad e averli lasciati a camminare con le loro gambe. Il suo nuovo interesse si è orientato sul mumblecore e le sue nuove produzioni al femminile devono molto al lavoro di scrittura e di interpretazione di Greta Gerwig. Il suo approccio diaristico è quello di una ragazza ingenua nella grande città che ha una situazione precaria in ogni aspetto della sua vita. Le sue doti di improvvisazione hanno dato vita ad una scuola non ufficiale nel circuito indipendente di New York. Le sue sceneggiature dirette da Noah Baumbach sono uno degli elementi di novità più promettenti che il regista di Knocked Up sta provando ad imparare. I centosettanta milioni di Bridesmaids (Le amiche della sposa) sono l’indizio che la sua rielaborazione dei canoni femminili è in corso d’opera e la speranza è che il cineasta si dimostri ancora una volta un deus ex machina. La versione demenziale di Sex and the City è anche quella che racconta in modo più pertinente gli effetti che la serie

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In basso: Un disastro di ragazza

ha avuto sui comportamenti reali. Kristen Wiig aspetta di diventare la favorita di un playboy di provincia e nel frattempo perde un lavoro dopo l’altro. Il matrimonio della sua migliore amica viene affrontato con un sentimento di invidia e di repulsione verso la monogamia. Julia Roberts sopravviveva all’incubo della prostituzione con il sogno della favola mentre adesso la relazione duratura viene evitata in ogni modo. Il principe azzurro che è toccato alla protagonista non è Richard Gere e la sua tentazione immediata è quella di rifiutarlo in attesa che ne arrivi uno più appetibile. Judd Apatow non ha mai fatto mistero di considerare la vita di coppia un dolce disastro necessario e in Trainwreck (Un disastro di ragazza) definisce ancora di più il campo d’azione. Amy Schumer cerca ogni scusa possibile per scappare dal vero amore e anche lei fa l’esatto contrario di quello che facevano le sue antenate per assicurarsi un finale da vissero felici e contenti. La ragazza è perennemente riluttante all’idea di legarsi per sempre e deve essere convinta da uomini che non sono mai irresistibili. La sensazione è che il format ancora non si sia stabilizzato e che le sue situazioni siano ancora troppi incoerenti per essere considerate tipiche. Soprattutto, bisogna capire se l’idea della donna reticente e sconclusionata può funzionare con il pubblico. Trainwreck ha portato a casa centodieci milioni di dollari sulla scena domestica ma è andato molto male all’estero come spesso capita ai titoli del regista. La comicità di Amy Schumer è legata alla sua fama di stand-up comedian difficilmente traducibile fuori dai confini americani. Forse, la possibile evoluzione del genere dovrà essere ripetuta con un volto e con un nome più riconoscibili. Le interessanti contaminazioni con il mumblecore dovranno essere addomesticate in modo più uniforme per distillarle di ogni eccesso autoriale. Eppure, la commedia romantica continua a dare segnali sotto le sue ceneri.

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RITRATTI

Gli ultimi romantici

a cura di simone emiliani

In ordine rigorosamente alfabetico, una carrellata tra gli autori della commedia romantica degli ultimi due decenni. Per una guida parziale del genere

Judd Apatow

Un cineasta unico nel modo in cui affronta il genere. Se lo affronta. Ed è questo il magnifico dubbio. Che rimette in gioco la sua factory di attori, la sua famiglia (la moglie Leslie Mann e le figlie Iris e Maude), in un confine sempre labilissimo tra commedia e dramma, tra la comicità sfrenata che arriva dall’assurdità della quotidianità e le derive sentimentali di un cinema che si mette totalmente in gioco, da 40 anni vergine (2005) a Molto incinta (2007), da Funny People (2009) al suo capolavoro Questi sono i 40 (2012). E successivamente, costruendo sul corpo della comica Amy Schumer in Un disastro di ragazza (2015) un altro doppio (il nome dell’attrice corrisponde a quello della protagonista), un’altra variazione dove è sempre labilissimo il confine tra finzione e vita vera.

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Peter Chelsom

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A volte è questione di luci. Che arrivano da un altro tempo, un altro pianeta e portano in un’altra dimensione. Quasi residui del musical contaminato con la commedia sentimentale anni ’80. Serendipity – Quando l’amore è magia (2001) è uno degli esempi più puri di inizio decennio: Kate Beckinsale e John Cusack, il destino, New York, la pista di pattinaggio, la neve. E negli stessi fasci magici è racchiuso anche il successivo, potentissimo, Shall We Dance? (2004), film di attese e improvvise rivelazioni, fiammeggiante nelle lezioni di ballo tra Jennifer Lopez e Richard Gere.

Cameron Crowe La commedia sentimentale è stato uno dei cavalli di battaglia dei suoi esordi, da Non per soldi... ma per amore (1985) a Singles – L’amore è un gioco (1992). Dal 2000 ne restano frammenti nei viaggi iniziatici di Quasi famosi (2000) e soprattutto in quello che è il suo film più incontrollato e vissuto, Elizabethtown (2005).

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Howard Deutch Legato agli anni ’80, i riflessi di Bella in rosa (1986) arrivano direttamente in uno dei residui di quel decennio, La ragazza del mio migliore amico (2008), “triangolo amoroso” con Kate Hudson, Dane Cook e Jason Biggs scorretto ed emozionale dove Boston diventa il palcoscenico mutante delle temperature sentimentali dei suoi protagonisti.

David Dobkin Con 2 single a nozze (2005) sembra essere presente il modello dei Farrelly: cinismo e scorrettezza nella prima parte e lato più intimista nel finale. Con Owen Wilson e Vince Vaughn che si autoinvitano ai matrimoni. E gioca sempre su uno schema simile anche Cambio vita (2011) con Ryan Reynolds e Jason Bateman che improvvisamente si risvegliano uno nel corpo dell’altro.

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Peter e Bobby Farrelly La componente scorretta, cinica, si è spesso incrociata con quella sentimentale. Il ritorno con Scemo & + scemo 2 (2014) a quel tipo di comicità esplosiva del film del 1995, è quasi un ennesimo tentativo di sopravvivenza di un cinema di cui sono stati gli artefici. E il loro secolo è iniziato proprio mentre il genere era in piena forma con Io, me & Irene (2000) con una delle più belle dichiarazioni di matrimonio, “Vuoi sposarmi troia?”, con i cortocircuiti tra ritmo impazzito e improvvisi slanci melò presenti anche in Amore a prima svista (2001) e Fratelli per la pelle (2003). Con questi ultimi ancora più presenti in L’amore in gioco (2005) e Lo spaccacuori (2007). Tra gli artefici di una certa rivoluzione nella struttura del genere, restano impermeabili al tempo anche nel filmare la continua opposizione tra una dolente umanità in contrasto con un corpo e delle situazioni slapstick, come dimostrano anche Libera uscita (2011) e I tre mamittoni (2012).

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Paul Feig

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Il suo unico titolo nel genere è Le amiche della sposa (2011), commedia matrimoniale che ha con sé anche quella sottile crudeltà del cinema di Apatow e dove si sente la mano della protagonista, sceneggiatrice e co-produttrice Kristen Wiig che, cinque anni dopo, con Melissa McCarthy diventerà una ghostbuster.

Will Gluck Lancia Emma Stone in Easy Girl (2010), commedia al femminile mascherata da teenager-movie. Ma è con Amici di letto (2011) che regala una convincente declinazione del genere con Justin Timberlake e Mila Kunis che sono una coppia di amici che iniziano una relazione fatta di solo sesso e non vogliono essere coinvolti dal punto di vista sentimentale.

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John Hamburg

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Si è fatto le ossa come sceneggiatore con Jay Roach e Ben Stiller. Ed è proprio l’attore statunitense, assieme a Jennifer Aniston, il protagonista del suo primo film da regista, ...e alla fine arriva Polly (2004), dove la satira di costume e la farsa lasciano progressivamente spazio a traiettorie sentimentali prevedibili ma funzionali. Guarda un po’ a Stiller regista, un po’ ad Apatow, come dimostra il successivo I Love You, Man (2009) che prende due attori della sua factory, Paul Rudd e Jason Segel.

P.J. Hogan Ha segnato una delle tappe fondamentali del genere alla fine del secolo scorso con Il matrimonio del mio migliore amico (1997), oggi film impossibile da ri/fare e perciò lontanissimo. Dopo il 2000 ne lascia solo dei frammenti contaminandoli con il demenziale in uno dei suoi titoli più rappresentativi come Insieme per caso (2002) e con il fiabesco nel successivo Peter Pan (2003).

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Roger Kumble Dopo i due Cruel Intentions, diretti tra il 1999 e il 2000, realizza la prima commedia sentimentale con La cosa più dolce… (2002) viaggio alla ricerca dell’anima gemella con Cameron Diaz, seguito da Just Friends – Solo amici (2005) con Ryan Reynolds che, da adolescente sfigato, diventa uomo di successo. Di questo gruppo, è tra i cineasti meno interessanti.

Ken Kwapis Quello che si può definire un “artigiano del genere”. Dagli anni 2000 i suoi film più significativi sono Licenza di matrimonio (2007) con Robin Williams prete che costringe una coppia che si vuole sposare a un duro corso prematrimoniale e il corale La verità è che non gli piaci abbastanza (2009), film di fraintendimenti amorosi ambientato a Baltimora con un ricco cast.

Mark Lawrence Quattro film diretti, tutti con Hugh Grant protagonisti. E tre sono commedie sentimentali, dall’esordio di Two Weeks Notice – Due settimane per innamorarsi (2002) a quello che è il suo miglior film, Scrivimi una canzone (2005) fino all’ultimo Professore per amore (2014). Tutte le diverse temperature del genere attorno alle mutazioni/rinascite del corpo dell’attore, che sembra vivere più vite con partner diverse: Sandra Bullock, Drew Barrymore e Marisa Tomei. Parole e musica. Come le sottili variazioni di script che potrebbero ogni volta cambiare ad ogni visione.

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Shawn Levy

Robert Luketic Folgorante il suo esordio nel genere, a 28 anni con La rivincita delle bionde (2002) con uno sguardo a Judy Hollyday di George Cukor e un altro verso Melanie Griffith di Una donna in carriera (1988) di Mike Nichols. Dopo il successo al box office del film, si gioca tutto con Appuntamento da sogno! (2004), film di sogni e di attese, uno degli esiti più imprevedibili nel genere. Non è stato capito e allora torna all’impianto tradizionale con la “guerra tra (stessi) sessi” tra una superlativa Jane Fonda e Jennifer Lopez in Quel mostro di suocera (2005).

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Come molti dei cineasti a inizio decennio, affronta direttamente la “commedia matrimoniale” con Oggi sposi…niente sesso (2003) dove uno speaker radiofonico (Ashton Kutcher) e una rampolla di una ricca famiglia (Brittany Murphy) si sposano nonostante la famiglia di lei sia contraria. E ne mantiene delle tracce, sia pur più lievi, nel concitato Notte folle a Manhattan (2012) dove un’ordinaria coppia vive una situazione rocambolesca a causa di uno scambio di persona.


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James Mangold

Garry Marshall

Il grande cineasta statunitense, ora sugli schermi con Logan, ha attraversato direttamente il genere con Kate & Leopold (2001), commedia con echi fantastici lubitschiani sospesa tra passato e presente con Hugh Jackman prima della mutazione in Logan. E poi ne ha lasciato residui anche in Innocenti bugie (2010), con quelle schermaglie sentimentali Hollywood anni ’30 tra Tom Cruise e Cameron Diaz, già esplosivi nel corso del tempo anche in True Lies (1994) di James Cameron.

Uno dei maggiori artefici della commedia sentimentale statunitense degli ultimi 35 anni, recentemente scomparso lo scorso lo scorso 19 luglio a 82 anni. Pretty Woman (1990) rappresenta il ponte ideale tra il classicismo del passato e la modernità. Ma anche dopo il 2000 riaggiorna la fiaba moderna con echi di Cukor e Donen (Pretty Princess del 2001) e Principe azzurro cercasi (2004), realizza dei fiammeggianti detour corali come Appuntamento con l’amore (2010) e Capodanno a New York (2011) tra Los Angeles e New York, tra San Valentino e la vigilia di capodanno. Ha lanciato molte attrici tra cui Julia Roberts e Anne Hathaway. E l’ultimo Mother’s Day (2016) è il suo testamento ideale. Con la struggente nostalgia di un cinema che (forse) non vedremo più.

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Nancy Meyers Con Rob Reiner, forse il cinema più malato di classicità. Ed è forse la cineasta che, meno di altri, vuole arrendersi alla polverizzazione del genere. Gira i suoi film come se si trovasse nella Hollywood del periodo d’oro o negli anni ’80. Con tutte le mutazioni dei sentimenti, inaugurati da What Women Wants – Quello che le donne vogliono (2000) con i poteri paranormali di Mel Gibson che riesce a sentire i pensieri delle donne. Poi con Tutto può succedere (2003), L’amore non va in vacanza (2007) – evidente richiamo al vecchio cinema statunitense – È complicato (2010) e l’ultimo, folgorante, Lo stagista inaspettato (2015). Tutto in un cinema che mette in gioco le molteplici possibilità dell’esistenza, che riattiva improvvisamente vite normali e che mostrano nuove possibilità.

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Donald Petrie Come Howard Deutch anche lui arriva dagli anni ’80. E, tra i titoli realizzati dopo il 2000, quello che si inquadra di più nel genere è Come farsi lasciare in 10 giorni (2003) con Matthew McConaughey e Kate Hudson nei panni di una promettente giornalista e un avvenente pubblicitario, tra guerra tra sessi e schermaglie amorose della Hollywood del passato riaggiornate con i tempi.


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Ivan Reitman Nell’arco della sua carriera, aveva reso omaggio alla commedia sentimentale classica con l’ottimo Dave – Presidente per un giorno (1993). Il suo penultimo film è quello che non ti aspetti, Amici, amanti e… (2011), “uno di quei rari film ‘definitivi’ sull’amore” come lo aveva definito Aldo Spiniello nella sua recensione. Dove già ci sono i fantasmi di un genere che sembra essere sparito. Natalie Portman che piange, mangia e canta sulle note di Keep Bleeding Love mentre sta guidando mette ancora oggi i brividi.

Rob Reiner Harry ti presento Sally (1989) e Il Presidente – Una storia d’amore (1995) avevano già dimostrato come conoscesse a memoria la formula del genere. L’ha rimesso in discussione con uno dei suoi risultati più alti, Storia di noi due (1999) facendo piangere anche Bruce Willis. Nel nuovo millennio è il tempo il motivo conduttore delle sue commedie sentimentali; quello che serve allo scrittore per finire il suo romanzo in Alex & Emma (2003), quello per riscoprire la memoria in Vizi di famiglia (2005), quello che resta da vivere e provare così quei brividi mai vissuti in Non è mai troppo tardi (2007) e quello per rimettere in gioco un’educazione sentimentale in Mai così vicini (2014).

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Peter Segal

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Spesso legato ad Adam Sandler, realizza nel 2004 una delle commedie sentimentali del decennio, 50 volte il primo bacio, dove l’attore statunitense fa coppia con Drew Barrymore in un cinema dove il tempo si ferma, riparte e poi si arresta di nuovo. Dove ogni seduzione, le piccole conquiste vengono ogni volta cancellate. L’esempio di un cinema di cui oggi, 13 anni dopo, si sente maggiormente la mancanza.

Adam Shankman Esordisce nel 2001 affrontando subito la “commedia romantica” con Prima o poi mi sposo con Matthew McConaughey e Jennifer Lopez. Raggiunge il suo apice due anni più tardi con Un ciclone in casa, cinema-danzante dalla solidissima sceneggiatura e costruito sul contrasto tra Steve Martin e Queen Latifah. Quando la classicità coincide sempre con la modernità.

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Brad Silberling Il tempo perduto. La morte nelle zone fantastiche. In drammi sull’elaborazione del lutto potentissimi come Moonlight Mile (2003) che però dentro hanno anche residui di commedia, soprattutto negli spaesamenti tra Jake Gyllenhaal e Dustin Hoffman. Derive quasi magiche, che arrivano da Casper (1995) e soprattutto lo strepitoso City of Angels (1998). E che però si sono manifestate in uno dei gioielli della commedia sentimentale del primo decennio anni 2000, 10 cose di noi (2006). Morgan Freeman e Paz Vega, attore hollywoodiano e cassiera di un supermercato, lost in the city. Con movimenti impazziti da schizzato balletto e quell’infantile sorpresa di Il mago di Oz. Un cinema che fa rinascere nuovamente. Anche se è solo un sogno lungo un giorno.

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Nicholas Stoller

Andy Tennant Già attivo dagli anni ’90 (Mela e tequila, 1996; Cinderella – La leggenda di un amore, 1998), è stato forse uno dei cineasti che ha mostrato dal 2000 le maggiori variazioni del genere nella vita di coppia, dalla stilista di successo (Reese Witherspoon) che torna nel proprio paese per cercare di divorziare dal marito campagnolo per sposare così lo scapolo più ambito di New York in Tutta colpa dell’amore (2002) a Will Smith “dottor rimorchio” che aiuta gli uomini a conquistare le donne nel suo film migliore, Hitch – Lui sì che capisce le donne (2005), dalla coppia divorziata (Kate Hudson e Matthew McConaughey) che è costretta a collaborare alla ricerca di un tesoro nella commistione tra “commedia sentimentale e film d’avventura” in Tutti pazzi per l’oro (2008), fino al cacciatore di taglie (Gerard Butler) sulle tracce dell’ex-moglie, giornalista sfuggita alla libertà vigilata (Jennifer Aniston) per lavorare a un articolo in Il cacciatore di ex (2010).

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Figlioccio di Apatow, ha fatto già le prove con il genere con Non mi scaricare (2008) e In viaggio con una rock star (2010) prima di esplodere con il bellissimo The Five Years Engagement (2012), una storia d’amore alla ricerca della felicità perduta dove Jason Segel ed Emily Blunt sono così veri che mettono in dubbio anche il fatto che stiano recitando.


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Mark Waters Affronta il genere direttamente già con Top model per caso (2001) dove Monica Potter è una restauratrice tradita che ricomincia da zero andando a vivere con delle modelle squinternate. Ma è con Quel pazzo venerdì (2003) e soprattutto con Mean Girls (2004) – entrambi interpretati da Lindsay Lohan – che recupera gli echi “rosa” del teen-movie degli anni ’80, attraversando trasversalmente anche la strada di John Hughes. Con Se solo fosse vero (2005), con Mark Ruffalo e Reese Witherspoon, incrocia anche le forme mélo. Il suo miglior film però è La rivolta delle ex (2009), rilettura moderna di Canto di Natale di Charles Dickens.

Marc Webb Il futuro regista dei due The Amazing Spider-Man ha esordito con la commedia sentimentale (500) giorni insieme con Zooey Deschanel e Joseph Gordon-Levitt. Forse un pre La La Land nel ritmo frammentato e le traiettore musical. Ma soprattutto un doloroso film terminale sulla temporaneità dell’amore. Non si è più ripetuto.

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Paul Weitz Già About a Boy – Un ragazzo (2002), uno dei più riusciti adattamenti di Nick Hornby per il cinema, faceva coincidere diverse forme di solitudine che hanno bisogno di incontrarsi per ritrovare l’equilibrio perfetto. Ma è forse il cineasta più politico nel genere, con gli incroci sentimentali che scorrevano parallelamente al feroce ritratto del mondo del lavoro in In Good Company (2004) o degli show televisivi con il Presidente USA in cerca di consensi in American Dreamz (2006). Ma entra anche nelle mutazioni fantastiche con un adolescente che acquista nuovi poteri in Aiuto vampiro (2009), punta al puro slapstick dentro un caotico ed elettrizzante romanticismo in Vi presento i nostri (2011). E ravviva di nuovo la solitudine con un altro inaspettato incontro, un altro scontro generazionale in Grandma (2015).

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Garry Winick Scomparso prematuramente nel 2011 a 49 anni, ha affrontato la commedia sentimentale in modo astratto, attraverso le figure di un quindicenne colto che prende un’infatuazione per una donna adulta in Tadpole – Un giovane seduttore a New York (2002), una tredicenne che si risveglia nella trentenne Jennifer Garner in carriera nel “viaggio nel tempo” di 30 anni in un secondo (2003) dove la componente romantica s’interseca con quella fantastica, e due amiche in guerra (Kate Hudson e Anne Hathaway) nel “matrimoniale” Bride Wars – La mia migliore nemica (2009).

Edward Zwick Il suo “vento di passioni” coinvolge Jake Gyllenhall e Anne Hathaway in Amore & altri rimedi (2011), dove il genere è attraversato dal regista in maniera totalmente dichiarata pur nella continua sospensione tra commedia e dramma. Con i film di Will Gluck e Ivan Reitman, tre diverse forme delle intermittenze sentimentali realizzate nel 2011.

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I sentimenti al tempo di

Love

Forse la descrizione più complessa e contemporanea delle ambiguità sociali e culturali che compongono le relazioni amorose dei nostri giorni proviene dalle doppia stagione della serie Tv ideata da Judd Apatow e targata Netflix Quando Love sbarca su Netflix con i suoi primi 10 episodi si presenta come la classica serie su un rapporto di coppia. Ci sono due personaggi, Gus e Mickey, entrambi strambi a modo a loro, che si incontrano per caso e sembrano iniziare una frequentazione che si coronerà con il compimento di una storia d’amore tra alti e bassi. Si attende il momento che si raggiunga l’obiettivo, ma qualcosa pare essere rallentato. E il traguardo non si vede mai. Questo perché Love è in realtà la serie definitiva della messa in scena della vera e propria decostruzione dell’immaginario sentimentale. È come se il produttore Judd Apatow si trascinasse dietro dal suo cinema l’intero limbo della quotidianità per frenare e annientare qualsiasi stereotipo della serialità roman-

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LOVE

di martina ponziani


CUORE SELVAGGIO tica, e ci riuscisse. Conosciamo infatti Gus e Mickey come se fossero protagonisti di un reality show e lo spettatore si trasforma improvvisamente in un guardone curioso di come andrà a finire. E sebbene la narrazione sia equamente divisa tra il punto di vista maschile e quello femminile, è indubbiamente uno il personaggio più forte: quello di Mickey. Si presenta come una dipendente da alcool, droga e rapporti non salutari, quello che fa realmente è schierarsi dal lato opposto rispetto a tutte le controparti femminili della serialità in cerca della stabilità di coppia. Un prototipo di protagonista che da poco è stato sdoganato dall’immaginario comune, in parte per merito dello stesso Apatow. Mickey sembra infatti essere nata da una costola del personaggio di Amy Schumer in Un disastro di ragazza (2015) e al tempo stesso inserirsi nel progetto televisivo che il regista ha iniziato nel 2012 con la produzione di Girls. In quel caso aveva creato una sorta di Sex and the City del 2000 ma senza shopping, feste glamour e soprattutto senza uomini. In realtà questi ci sono, ma vanno a occupare i ruoli degli indecisi, sociopatici, piagnoni, in balia delle decisioni della partner che è del tutto orgogliosa della propria indipendenza a cui si sottende un non tanto velato egoismo.

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Non è certo un caso che nella puntata 4x07 di Girls il personaggio di Mimi-Rose sia interpretato dalla stessa Gillian Jacobos che vestirà i panni poi della protagonista di Love, subito pronta a dimostrarsi tanto dipendente da sostanze stupefacenti quanto lo è da se stessa. Queste caratteristiche in teoria sarebbero un ostacolo se si vuole costruire una relazione sana e lo diventa ancora di più se la si vuole raccontare all’interno di una comedy con delle regole televisive ben delineate che solitamente si basano sulla tripartizione incontro/innamoramento/lieto fine. Questi schemi vengono inevitabilmente messi in discussione, in parte frantumati da un personaggio che di fatto spezza l’idillio dietro al concetto di amore che dà il titolo alla serie stessa. Un intento chiaro già dal primo monologo dove Mickey, sotto antidepressivi, si sfoga dicendo che ha sperato, aspettato, desiderato l’amore ma questo le ha solo rovinato la vita. La ragazza paragona la sua


CUORE SELVAGGIO esistenza a quella che convenzionalmente dovrebbe essere la quotidianità di una trentenne e capisce di essere disperatamente indietro. Ma il modello a cui la protagonista fa riferimento è veramente la realtà? Viene scelto un modo quasi morboso con cui rispondere a questa domanda ed è quello di sottolineare continuamente la presenza degli smartphone, dei messaggi abbreviati, degli screenshot, dei social che creano uno strano gioco di manipolazione delle aspettative e di distaccamento dal vero. Attraverso il telefono Mickey può comunicare con freddezza con il resto del mondo, monitorare un appuntamento che lei stessa aveva organizzato, crearsi una propria "Love è la serie definitiva della messa in immagine in cui credere fermamente. scena della vera e propria decostruzione La stessa storia tra Gus e Mickey nasce proprio dalla risposta che la ragazza ha dell’immaginario sentimentale" trovato nelle convinzioni che ha assorbito passivamente dall’esterno: deve trovare un bravo ragazzo per essere felice come tutti gli altri. Il perfetto nice guy, su cui Apatow ha costruito una intera filmografia, viene individuato nell’apparentemente nerd Gus, prototipo socialmente accettato del tipo sfigato ma dolce. Quando questi però si rivela l’ennesimo ragazzo che non richiama dopo il primo appuntamento, tutte le aspettative degli spettatori (e di Mickey) crollano. Del resto Apatow ci aveva avvisato dal primo episodio: le storie alla Pretty Woman sono una balla, meglio lanciarle dal finestrino dell’auto. La prima stagione di Love è effettivamente un continuo sbarazzarsi degli stereotipi di cui rimane vittima non solo Mickey, ma anche gli spettatori di rom-com in attesa della redenzione della ribelle che abbraccia l’amore. Quello che invece si trova alla fine della prima stagione è un semplice inno a riscoprire la solitudine, che è l’attitudine effettivamente persa dalla generazione Facebook. E sono proprio questi gli spettatori a cui l’intera scrittura di Mickey fa riferimento, strizzando l’occhio a tutto il cinema mumblecore degli ultimi anni ma radicandosi fortemente nell’attualità della società della condivisione virtuale. Infatti la sindrome dell’incapacità di impegnarsi

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in una relazione stabile di Mickey è solo una delle malattie affettive che rallentano il reinserimento nel cinema di genere. La seconda stagione sembra esser stata costruita appositamente per dimostrare come tutti i rapporti uomo/donna siano in realtà molto più complicati di quello che la serialità ci aveva voluto mostrare in precedenza. C’è chi non sa dire mai di no, chi ha paura del partner, chi non ha raggiunto ancora la maturità, chi si finge un esperto, per arrivare alla fine all’implorazione dell’unico che sembra essere veramente pronto a impegnarsi in una relazione, che esasperato esclama: “Non avremmo più possibilità di sopravvivere senza sentimenti?”. La risposta è ovviamente no perchè siamo esseri creati sotto forma di animali sociali. “Esistiamo per coesistere”, questa è la sentenza definitiva a cui i personaggi di Love sembrano non voler cedere. Se infatti c’è qualcuno che ha trovato un punto di equilibrio nella vita a due, allora deve essere distrutto. Questo è almeno quello che succede attraverso Mickey e che è del tutto esplicitato nella puntata 2x02 in cui una cena tra coppie si trasforma in un perverso tentativo di massacro. La normalità a trent’anni non è più quella familiare, ed anche gli spettatori se ne devono fare una ragione. Il gioco della narrazione seriale non consiste più dunque nel seguire i passi di una relazione, ma prolungare il più possibile il momento della resa, inevitabile, ai sentimenti. Una partita già persa che però è la controprova del nuovo interesse nei confronti dell’individualità del personaggio piuttosto che dell’inserimento forzato all’interno del circolo dell’interpersonalità. Questo può essere visto come un upgrade della serialità oppure un passo indietro nei confronti della magica finzione del cinema. Ma il rituale di distruzione dei nuovi anni 2000 continua a essere molto divertente.


CUORE SELVAGGIO

Quando la commedia diventa troppo... seria di carlo valeri

Musical, film di denuncia, produzioni indipendenti e storie di fantascienza: sotto la classificazione di commedia Hollywood negli ultimi anni sta mettendo dentro un po’ di tutto, lasciando le briciole e la serialità alle “vere” storie d’amore

Per molti critici americani e per una parte del pubblico la love story di questa annata hollywoodiana è stata quella tra Mia e Sebastian, i protagonisti di La La Land. Questa considerazione ha un che di paradossale dal momento che il film di Damien Chazelle è un omaggio al musical della Hollywood classica, che celebra sì i colori e le note dei sentimenti arrivando però a negare l’happy ending ai suoi personaggi. Entrambi concentrati sulle loro carriere, il musicista e l’attrice realizzano i loro sogni, ma barattano il loro appagamento professionale rinunciando alla relazione amorosa. A legarli un’ultima volta, nell’epilogo del film, sarà il pensiero di un “come sarebbe andata se…” con tanto di strizzatina d’occhio che ha fatto imbestialire gli

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LOVE autentici sentimentali. A suo modo La La Land è un film cinico che racconta in modo inaspettatamente (o involontariamente?) lucido la crisi dei sentimenti nel cinema (e nella società) contemporanea. A essere onesti un film che parla di amore quest’anno ha vinto l’Oscar bruciando sul filo di lana proprio La La Land, ma sfidiamo chiunque a considerare il coming of age afroamericano Moonlight come una love story classica, sul filo della tradizione di Susanna per intenderci o di un James L. Brooks. E non c’entra tanto il fatto che l’opera diretta da Barry Jenkins racconti l’omosessualità, quanto il come questi sentimenti – dilanianti e introiettati dal protagonista – trovino sullo schermo una forma autoria"Il mondo dei premi è forse la cartina di le, palesemente drammatica nello spirito tornasole più utile per certificare l’impasse e nell’estetica. Moonlight è un film che con cui la commedia – specie sentimentale, si prende sul serio, che parla di emargima non solo – trova sempre più difficoltà a nazione, di ghetto, di tossicodipendenza e, infine, di discriminazione gay. Non ha essere ammessa nel cinema di serie A" nulla della commedia insomma. Ma, forzando non poco nelle definizioni e continuando con i paradossi, è l’unica storia d’amore ad aver vinto l’Academy Award negli ultimi cinque anni. Da questo punto di vista il mondo dei premi è forse la cartina di tornasole più utile per certificare l’impasse con cui la commedia – specie sentimentale, ma non solo – trova sempre più difficoltà a essere ammessa nel cinema di serie A. Quest’anno tra gli otto titoli candidati agli Academy non ce n’era nemmeno uno che potesse essere ricondotto a questo genere, eccezion fatta per La La Land, che è un musical. Lo scorso anno i titoli in competizione erano sempre otto e vinse Il caso Spotlight, un film sul giornalismo e sullo scandalo della pedofilia nella Chiesa cattolica di Boston, mentre l’anno precedente a trionfare fu Birdman di Alejandro G. Iñárritu, un’opera tutta ambientata in un teatro su un attore in crisi d’identità che cerca di mettere in scena un’opera di Carver.

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CUORE SELVAGGIO

L’establishment di Hollywood appare insomma sempre più intellettualizzato e impegnato, nei gusti e nei criteri selettivi. Il termine di paragone più utile ci viene prendendo a riferimento i Golden Globe, i premi che ogni gennaio vengono assegnati a Los Angeles dalla stampa estera e che sono una specie di anticamera degli Oscar. Come sappiamo la loro particolarità è quella di celebrare non soltanto le star del grande schermo, ma anche le migliori serie televisive della stagione. I Globe sono riconoscimenti che regalano un quadro più appagante dell’industria culturale e audiovisiva e durante una serata di premiazione possiamo veder salire sul palco indifferentemente Isabelle Huppert, Casey Affleck, i produttori di The Crown o gli attori di The Night Manager. Una delle particolarità dei Globe è anche quella, storica, di dividere i riconoscimenti cinematografici in due diverse categorie: film drammatico da una parte, commedia o musical dall’altra. Questa distinzione che un tempo sembrava molto chiara agli occhi di addetti ai lavori, giornalisti e spettatori, oggi sembra terribilmente sfumata tanto da mettere in crisi la necessità di questa doppia categoria. Se si legge, ad esempio, la lista dei film candidati nel 2014 abbiamo davanti cinque titoli che certamente hanno al loro interno elementi comici, ma che definire commedie può risultare quantomeno azzardato. Quell’anno a trionfare fu American Hustle di David O. Russell, una miscela tra poliziesco vintage, cronaca – il film è ispirato a fatti realmente accaduti – e gangster movie, che grazie a un ritmo veloce e a battute divertenti piacque un po’ a tutti. Ebbe la meglio all’interno di un lotto che annoverava The Wolf of Wall Street (una parabola scorsesiana su sesso, cocaina e finanza dalla durata di tre ore), il melò hitech-concettuale Her (forse a conti fatti la “commedia” più commedia

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LOVE di tutte, anche se priva del lieto fine), l’indipendente in bianco e nero Nebraska e A proposito di Davis dei fratelli Coen (due film esplicitamente autoriali, presentati in concorso al Festival di Cannes). La pietra dello scandalo è però stata soprattutto l’edizione del 2016, quando arrivò a vincere il globe come miglior commedia lo sci-fi The Martian. La bizzarra collocazione del film di Ridley Scott in quella categoria – con tanto di vittoria dello stesso Matt Damon come miglior protagonista in un ruolo comico – suscitò la reazione polemica di Judd Apatow – uno dei pochi sopravvissuti della commedia made in USA – che in quell’annata era in competizione con Trainwreck. Qualche giorno dopo sul palco dei Critics Choice Award, il regista di 40 anni vergine e Molto incinta apostrofò ironicamente Matt Damon, reo di aver partecipato a una competizione che non gli spettava. “(Noi comici, ndr.) abbiamo un solo premio, Matt. È tutto quello che ci resta. Mi sento come un nerd nel cortile della scuola a cui rubi i soldi del latte”. Che Apatow sia una sorta di ultimo highlander ce lo dimostra il modo con cui la sua produzione si sta interessando sempre più intensamente al mercato seriale. Oltre alla realizzazione di Girls per la HBO, nell’arco di un anno su Netflix sono già uscite due stagioni di Love, riflessione dolce amara sui rapporti sentimentali davvero in stile Apatow. Della serie: se la montagna (il cinema) non va da Maometto (la commedia) è Maometto che va alla… TV.

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Richard LaGravenese

di francesca bea

Non c’è nulla di speciale o unico nei personaggi di LaGravenese, solo un arcipelago di figure pienamente reali nella loro ordinarietà. Il suo cinema, fatto di sentimenti e corpi in contatto, ha la forza del vissuto

Casablanca, È nata una stella, La vita è meravigliosa e, soprattutto, Bette Davis. Le storie che hanno fatto sognare e battere il cuore di Richard LaGravenese non smettono di far capolino nei film, la videoteca de La leggenda del re pescatore, C’eravamo tanto odiati, L’amore ha due facce, P.S. I Love You, immaginati da quel ragazzino di Brooklyn di origini italiane, cresciuto da voci di donne, due sorelle

maggiori, la madre che l’ha iniziato al cinema, e quattro zie, voci che continueranno a tornare in una scrittura capace di cogliere profondamente il mormorio dei luoghi più intimi e nascosti dell’universo femminile. Le schegge in bianco e nero dei film che hanno insegnato a LaGravenese ad amare il cinema costellano la sua filmografia come frammenti di una mappa segreta, che disegna la necessità

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FACES

Nothing trash is about romance


FACES

La leggenda del Re Pescatore

di ripartire proprio sulla densità dei corpi e dalla magia sentimentale dei meccanismi narrativi della Hollywood degli anni d’oro, per liberare sullo schermo la sostanza privata dell’anima. Si tratta, a ben guardare, dello stesso compromesso tra classico e attuale, tra norma e rischio, abbracciato dalle geometrie appassionate delle magnifiche ballate di Garry Marshall che, come LaGravenese, in tutte le sue storie ha continuato ad infischiarsene di ogni intellettualizzazione per lasciar, invece, deflagrare la giostra impazzita e travolgente delle passioni, e, a volersi spostare oltreoceano, si tratta lo stesso compromesso inseguito dalla fede incrollabile in un cinema d’altri tempi, tutto fondato sui sentimenti, professata da quel grande conoscitore dei meccanismi della commedia romantica classica che è Richard Curtis. E allo stesso modo di Curtis, anche Richard LaGravenese, prima di esser regista, è innanzitutto uno scrittore che sa bene, come gli hanno insegnato i vari Wilder, Wyler o Mankiewicz, che per raccontare una storia c’è bisogno di «personaggi forti e complessi, di energia e di un solido punto di vista». L’incontro di LaGravenese con il mestie-

re del cinema ha lo stesso sapore fantastico delle storie raccontate dalla giovane protagonista de La piccola principessa per riuscire ad amplificare le bellezze della vita e salvarsi dalla crudeltà delle sue torsioni. La sua prima sceneggiatura originale, dopo diverse giravolte, arriva nelle mani di Terry Gilliam, che s’innamora del progetto e decide di girare La Leggenda del Re Pescatore. Il risultato, oltre ad una nomination all’Oscar che spianerà la strada del LaGravenese sceneggiatore e poi regista, è un trattato sul cinema che, proprio come l’immaginazione, deve esser lirico, meraviglioso e irragionevole, tutto poggiato sul potere magico di una storia capace di perdersi fino in fondo nell’autenticità dei drammi dei suoi protagonisti. La confusione della vita, non importa quanto sia difettosa o folle, il bisogno di abbandonarsi alle storie per ritrovare in esse le attese e i desideri, i fallimenti e le cadute che costellano ogni esistenza, senza usare alcun vetro opaco che schermi il bagliore dei loro riflessi per non far male agli occhi, è la materia che, fin dall’inizio, interessa a Richard LaGravenese. Già a partire dalla sua terza sceneggia-

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Al lato: poster di A Decade Under the Influence In basso: C'eravamo tanto odiati

FACES

tura, C’eravamo tanto odiati, commedia cupamente romantica, atipica per la Disney, diretta dall’amico Ted Demme, in coppia con il quale traccerà poi, in A Decade Under the Influence, un poderoso ritratto di quell’epoca, gli anni ’70, che ha cambiato per sempre il volto del cinema, LaGravenese pesca a piene mani dal terreno che conosce meglio, il suo vissuto, pratica sulla quale continuerà a costruire ogni suo racconto, e, attraverso una scrittura che si pone caparbiamente l’obiettivo di restituire il cinema ai corpi, alla magia dei volti e dei gesti, sprigiona un’immagine elastica e mobile, dove la vita non viene ridotta ad una formula, ma rimane un terreno mobile, incerto e confuso, continuamente dissociato e ricomposto sotto la spinta delle relazioni e dei sentimenti. Non solo C’eravamo tanto odiati, in tutte le storie di Richard LaGravenese, si diviene per contatto, i corpi si mutano reciprocamente all’impercettibile pressione del loro sfiorarsi, ne sanno qualcosa il Danny DeVito e la Holly Hunter di Living Out Loud, prima regia di LaGravenese, o Barbra Streisand

e Jeff Bridges in L’amore ha due facce, personaggi che, nel loro girotondo, ci dicono che le storie non sono soltanto ciò che raccontano, ma anche e soprattutto quello che riescono a liberare. Il cinema, quello magnificamente pulsante e vivo de I ponti di Madison County o de L’uomo che sussurrava ai cavalli, film che si specchiano l’uno nell’altro nel movimento

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FACES

I ponti di Madison County Al lato: L'amore ha due facce e Living Out Loud

tracciato dai due corpi femminili di Meryl Streep e Kristin Scott Thomas, entrambi combattuti fino allo stremo tra il tentativo di inibire le loro passioni e il desiderio

di abbandonarsi ad esse, è uno specchio magico, che ci rimanda indietro il riflesso delle nostre esistenze, fatte di quelle mille deviazioni possibili, a volte solo abbozzate, spesso mancate, che non smettono di abitare nei nostri ricordi e nei nostri sogni. Non sempre il cinema di Richard LaGravenese è un cinema riuscito. A volte è sovraccarico, la pesantezza dello sguardo di Francis Lawrence che non lascia respirare la scrittura di Come l’acqua per gli elefanti, a volte l’immagine non si sprigiona, la staticità dell’impianto del The Last Five Years, con la regia di LaGravenese che non riesce a scrollarsi di dosso il peso dell’omonimo musical di Broadway, o rimane intrappolata, come nel caso di Freedom Writers, film chiuso nella volontà di farsi portatore di un impegno politico e sociale. Ma anche quando la geometria non convince, si tratta comunque di una geometria appassionata, che in Dietro i candelabri riesce persino a far perdere la

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Foto piccola: Dietro i candelabri Foto grande: P.S. I Love You

in esso gli esseri che lo abitano e anche quando lambisce, in Beautiful Creatures, l’universo del fantasy, non si abbandona alla facilità dell’effetto speciale che svuota i contenuti affettivi rifugiandosi nelle categorie assai meno problematiche del neutro, piuttosto libera l’immagine da ogni zavorra per dirci, magari tra i post scriptum di P.S. I Love You, che il cinema, proprio come l’amore, è quel sogno libero che, nel momento in cui crediamo di poterlo afferrare ritornando a visitare i suoi luoghi, ci mostra, invece, la sua capacità di continuare, per sempre, a sorprenderci.

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FACES

ragione a quel cantore della razionalità che è Steven Soderberg, che continua a commuovere, perché in ogni dialogo, in ogni volto si nasconde sempre un pulsare, una vibrazione che trasforma l’immagine in materia viva e toccante, così maledettamente vicina da farci attraversare ogni volta la superficie dello specchio. Non c’è nulla di speciale o unico nei personaggi di Richard LaGravenese, solo un arcipelago di figure pienamente reali nella loro ordinarietà, che, proprio come noi, si ritrovano a camminare sotto la fitta pioggia di crisi relazionali e fratture generazionali, in equilibrio precario tra le insicurezze e i battiti del loro cuore. Il cinema non è altro che il luogo dove raccontare i piccoli e grandi incontri della vita, fatti di crisi e di vicinanze, di un presente che si mescola ai brandelli del passato, come in quel gesto magnifico che è Beloved, senza bisogno di spiegazioni o commenti. A LaGravenese non interessa nominare il mondo, ma solo scoprire


FACE OFF

Le lame

Dolore e sentimento di carlo valeri

L'arma bianca. Nei film è quasi sempre una promessa di morte. È uno strumento di violenza. Ma che può far emergere le ferite interne, persino l'amore

Lama. La parte principale di un utensile destinato a tagliare e avente quindi un bordo, o tutti e due, molto affilato. La denominazione si applica in particolare alla parte tagliente di un’arma bianca, di un coltello, di una forbice ecc. Nelle armi bianche, la lama ebbe forme e dimensioni diverse a seconda dei popoli che la impiegarono: quelle tedesche, per es., erano molto più pesanti e larghe

di quelle italiane e francesi. Le lame più rinomate in passato erano fabbricate a Damasco, Toledo, Brescia, Solingen e nel Giappone. La lama taglia, ferisce, uccide. Ma è astratta. È una porzione/oggetto di altri oggetti. È “la parte principale di un utensile destinato a tagliare” dice il dizionario e quindi si identifica soprattutto nel suo

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FACE OFF

La tigre e il dragone

utilizzo e negli effetti di questo utilizzo. La lama può essere quella di un coltello (Psycho), di un paio di forbici (Edward mani di forbice) o di una motosega (Non aprite quella porta). Nei film quasi sempre è una promessa di dolore e di morte. Il dettaglio di una lama sta a indicare che qualcuno sta per essere ucciso, o nei casi più truculenti (e autoironici) che qualche arto sta per essere mozzato. Ecco così che i generi cinematografici di riferimento rimangono quasi sempre gli stessi: c’è il thriller ovviamente, l’horror, e poi i vari action movie, i peplum, i wuxia dell’amato oriente (Ashes of Time, La tigre e il dragone, La foresta dei pugnali volanti). In quest’ultimo caso il brivido delle lame che sfiorano le carni, tagliano drappi o ciocche di capelli al vento e spezzano spade si può anche trasformare in attrazione erotica, nel complesso e coreo-

grafico rituale di un corteggiamento. La tigre e il dragone è una vera e propria parabola sulla libertà dei sentimenti mascherata da wuxia pian. I lunghi duelli dei tre protagonisti sono esternazioni pirotecniche delle loro voci interiori. I riflessi delle lame tagliano l’aria, esprimono la velocità dei movimenti cinetici del cinema made in Hong Kong, e diventano il controcampo sonoro dei conflitti sottesi. Quando si incontrano, le lame delle spade emettono un suono magico e stridente allo stesso tempo. Tin, tin, tin. È un rumore che incanta, detta i tempi della danza. Ha la regolarità delle lancette di un orologio, ma riproduce anche il piacere adrenalinico del pericolo (e l’innamoramento è sempre - anche - un pericolo). Nel film di Ang Lee i combattimenti scandiscono il rispetto della norma, del gesto e del difficile equilibrio tra cuore e rabbia, tracciando la battaglia interiore tra soddisfazione amorosa e rinuncia che ogni personaggio compie al suo interno. Il dolore e l’amore sono quasi la stessa cosa e accade così che la parabola si chiude con il sacrificio del grande guerriero e maestro Li Mu Bai, la cui morte spingerà l’amica Shu Len a dichiarare il proprio amore e la giovane Jen a concludere il suo addestramento abbracciando la “verità” del desiderio.

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FACE OFF

A destra: Psycho Sotto: Edward mani di forbice

C’è molto di sentimentale anche nelle lame che spuntano dalle mani di Wolverine nell’ultimo capitolo Logan. Il personaggio è l’X Men più shakespeariano del compartimento Marvel. Il suo è un superpotere animalesco, ferino. Senza proprietà intellettuale e senza alcuna possibilità di non uccidere. Il genio di Wolverine è quello di un killer. Gli arti servono solo per colpire il prossimo (i nemici ovviamente, ma a volte non solo quelli) e diventano presto una sorta di condanna all’esilio. Il personaggio interpretato da Hugh Jackman è pericoloso per la comunità e lo vediamo sempre abbandonato ai margini non solo della società ma anche di ogni forma di idealismo. Eppure mantiene un romanticismo da outsider che lo rende il più sentimentale dei supereroi cinematografici del XXI secolo. James Mangold è riuscito a plasmare in un unico corpo/volto la decadenza freak del cinema del miglior Tim Burton (Wolverine ha molto in comune con Edward mani di

forbice) con l’intensità spirituale (e letteraria) di un James Gray. Del resto proprio come il cinema di quest’ultimo, Logan è un film sulla famiglia. Laura ha il gene di Logan e le stesse lame che spuntano dalle nocche delle mani. È una bambina/ mostro che colpisce per uccidere e anche per questo viene subito riconosciuta come “figlia” dal proprio padre. Le lame qui non sono solo le armi di un supereroe ma anche il tratto distintivo di un legame biologico indissolubile e tragico. “Non vivere come ti hanno fatta!” dice infatti Logan a Laura prima di morire, in un ultimo straziante e paterno gesto d’amore. Ancora una volta la vera sfida non è tanto sopravvivere, quanto dominare la natura, vincere la rabbia.

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CUORE SELVAGGIO


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Trentacapelli di sergio sozzo

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RADIO RAHEEM #2

Per fortuna sua e di chi ne ha sradicati già 176 sui 211 che per secoli hanno vegliato sulle nostre terre, lu Uccio Trentacapelli non ha fatto in tempo ad assistere alla disgraziata azione violenta con cui gli agenti della transadriatric pipeline stanno estirpando in questi giorni quegli stessi mastodontici ulivi a cui Uccio e i suoi compagni si abbracciavano forte durante la gloriosa occupazione delle terre dell’Arneo, negli anni ’50, quando i contadini si ribellarono ai latifondisti prendendo possesso delle campagne fino a quando le guardie non li cacciarono a forza di lacrimogeni e manganelli. La riforma agraria s’era dimenticata della Puglia, ma l’azione del movimento dei contadini, un centinaio dei quali finirono anche a processo, funzionò da deciso promemoria: per rappresaglia, le forze di polizia distrussero le biciclette con cui i braccianti si recavano nei campi tutte le mattine. Questo è come funziona il potere, lo sanno bene i Trentacapelli i cui nonni erano nelle fila della resistenza dei briganti, e lo stanno imparando le moltitudini di salentini che si stanno opponendo con tutte le forze all’inizio dei lavori del gasdotto Tap, che di ulivi ha intenzione di buttarne giù diecimila, costruendo un condotto che parte dall’Arzebaijan per passare sotto kilometri di spiagge e terra rossa sezionata dai muretti a secco (chissà come mai, proprio le stesse porzioni di uliveti messe a repentaglio un annetto fa dalla fantomatica xylella che doveva causarne l’abbattimento


perché Küchen ha perennemente ben chiara davanti a sé l’urgenza eversiva dell’esperimento, e le composizioni – tutte di suo pugno – rimangono saldamente ancorate alla dedica per gli scomparsi dietro il sole, gli oppositori prelevati dalle forze di polizia nelle zone di guerra (Medio Oriente, Egitto, Palestina) e fatti sparire in luoghi di detenzione sconosciuti a chiunque, compresi amici e parenti che ne perdono definitivamente le tracce. Küchen porta così avanti il suo assalto sonico che è prima di tutto un manifesto per una barricata artistica insormontabile, una sassaiola di impulsi sovversivi inesorabile tra gli spartiti. Che cosa sono degli alberi di fronte all’avanzata inarrestabile del progresso, potrebbe obiettare qualcuno, giù a Melendugno. Ma la cosa bella di un ulivo secolare, come della musica che attraversa tutto Disappeared Behind the Sun, è che puoi anche ballarci intorno, quel tipo di danza che è difficile fermare: “I wrote the music for dancing and listening”, diceva Charles Mingus, che odiava quando ai suoi concerti nessuno si metteva a ballare (a volte arrivava a lanciare biglietti da 5 dollari sotto al palco per costringere il pubblico ad alzarsi), “They killed jazz when they took dance out of it…”. In piedi! RADIO RAHEEM Passeggiate profane con lo stereo in spalla per i suoni che si sentono là fuori, con l'Amore in una mano e l'Odio nell'altra: music is not the sound you hear, music is the people themselves. Segui RADIO RAHEEM su Instagram: instagram.com/ss_raheem

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intensivo…). I NoTap ricordano il volto dei loro avi in ogni ruga di quei tronchi intarsiati dallo scirocco, in ogni istante della loro lotta contro la repressione calata dall’alto, come quell’aereo entrato nelle leggende popolari, che sorvolava le battaglie per la terra durante le mitologiche giornate dell’Arneo. È probabile che Martin Küchen ignori le istanze della movimentazione di San Foca (o magari no, conoscendo un po’ il tipo), ma è sicuro che se fosse, in qualche modo ,riuscito a conoscere Uccio si sarebbero piaciuti: Küchen, sassofonista svedese, è il leader di un chiassoso ensemble, gli Angles 9, che ha da poco dato alle stampe un nuovo disco straordinario per una delle etichette-chiave nella ricerca dell’utopia di un’avanguardia radicale, antagonista ma con il beat giusto, la portoghese Clean Feed di Pedro Costa. L’album si chiama Disappeared Behind the Sun, e dentro c’è quel tipo di caos orchestrale che gira intorno a temi gioiosi e accattivanti, un po’ afro un po’ Chicago un po’ folk nordico popolare, che è sempre più abituale ritrovare in progetti di questo tipo, quantomeno da quando Mats Gustafsson ha fatto tornare in auge i collettivi allargati sulla scena: le note di copertina tirano in ballo inevitabilmente la Liberation Music Orchestra di Charlie Haden, ma è difficile non vederci dietro l’influenza più contemporanea delle scorribande affollatissime di Ken Vandermark o Peter Brötzmann, complice la presenza tra gli Angles di campioni condivisi con formazioni simili come Johan Berthling, Andreas Werliin, Magnus Broo. Se il risultato è una bomba che aggiorna un approccio decisamente hard bop a questi tempi di elettricità wi fi è soprattutto


INTERVISTE

Film Commission

Verso l'Europa Conversazione con Stefania Ippoliti a cura di simone emiliani

Un'intervista esclusiva alla Presidente di Italia Film Commission e Responsabile Mediateca e Area Cinema di Fondazione Sistema Toscana

SentieriSelvaggi ha intervistato in esclusiva Stefania Ippoliti, recentemente riconfermata Presidente di Italian Film Commissions e Responsabile Mediateca e Area Cinema di Fondazione Sistema Toscana. Nel corso di questo lungo incontro, abbiamo parlato delle attività svolte dalle Film Commission negli ultimi dieci anni sia nell’ambito della produzione e realizzazione dei film, sia nei festival e nell’attività di formazione. Cogliendo limiti e potenzialità ma soprattutto soffermandosi sugli scenari futuri dopo la nuova Legge Cinema. Sei entrata alla Toscana Film Commission nel 2006 e ne sei diventata Direttore nel 2007. Che bilancio si può fare di questi dieci anni e quale è stato l’apporto che le Film Commission hanno portato, a livello produttivo, ai film italiani?

Credo che la crescita delle Film Commission sia stata esponenziale. Abbiamo iniziato in un modo un po’ eroico cercando di imparare questo mestiere, perché siamo venuti dai settori più diversi. C’era chi veniva dalla pubblica amministrazione, chi da lavori di organizzazione culturale come nel mio caso. Abbiamo osservato questo ambiente, abbiamo viaggiato cominciando a frequentare i festival. Mi ricordo la prima volta che siamo andate a Cannes con Raffaella Conti, responsabile della Toscana Film Commission, sembravamo Hansel e Gretel. Venivamo da tutto un altro mondo: lei è laureata in letteratura russa, io ho fatto giurisprudenza. Quello però che mi piace sottolineare, rispetto a questi tempi pioneristici è che abbiamo imparato questo mestiere in grande rapidità e la professionalità adesso è alta. Le differenze fra una Film Commission e un’altra (che possono esserci

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INTERVISTE

per molte ragioni, per motivi di fondi, per decisioni politiche) sono sempre minori. E quindi si può contare, come Paese Italia, su un’accoglienza con standard alti. L’apporto delle FC quindi è importante. È quello che può dare un’accoglienza professionale, che ti mette in contatto con usi e costumi locali perché, soprattutto per chi viene da altri paesi, non è per nulla banale capire come ci si comporta. In più hai qualcuno che ti garantisce collaborazioni con imprese locali serie e con risorse tecniche di valore sul territorio. È importante che le FC abbiano dei database collegati con i curriculum perché non ci siano né vantaggi immeritati né scorrettezze o sorprese. Un produttore o un direttore organizzativo possono così valutare

in base all’esperienza. Poi i colleghi delle Film Commission possono dire: “lavora bene” o “lavora meno bene”. Ma il fatto che ci sia trasparenza anche nelle modalità di scelta è una bella cosa. Inoltre, va sottolineata la capacità di rendere accessibili location complicate e di dimezzare i tempi per ottenere le autorizzazioni. Avere un “uomo all’Avana” per le produzioni è un aiuto impagabile. Parto da questo aspetto del nostro lavoro perché secondo me quello che a volte si sbaglia è pensare alle Film Commission come a degli erogatori sussidiari (e a volte neanche) di risorse. Trovo che questa sia una stortura, un’accezione sbagliata del nostro lavoro. E noi vorremmo superarla. Perché è importantissima la competizione fra territori, ma secondo noi si dovrebbe giocare tra l’aderenza e la rispondenza della storia, della parte autoriale, di quello che pensa il regista, il suo direttore della fotografia e il suo scenografo. È giusta anche una competizione tra territori. C’è chi è più rapido nelle autorizzazioni, chi ha maggiore facilità nell’organizzazione della logistica. Ciò che mi dispiace è che a volte si cerca di girare in un posto invece che in un altro solo perché si ottengono maggiori fondi locali che, nelle produzioni italiane, hanno un rilievo molto alto. Le produzioni di taglia media sono quelle che hanno maggiore esigenza, per chiudere il loro budget (e in certi casi anche per aprire) delle risorse degli enti locali. E secondo te possono esserci delle variazioni, anche già nella trama dei film, proprio per questi motivi? Ci sono state e ci sono. In certi casi sono irrilevanti e magari ti fanno sorridere se


INTERVISTE

fai parte del mestiere e quel progetto lo conosci. Poi vedi che “magicamente” un film ha un’ambientazione differente. Questi, per me, sono peccati veniali per certi versi, ma storture per altri. In un mondo ideale mi piacerebbe che ci fosse una situazione più omogenea dal punto di vista dell’accesso alle risorse locali. Che sono importanti. Quindi, prima di tutto mi piacerebbe che si dicesse: “Le Film Commis-

"La Film Commission diventa il tuo migliore amico ma non un socio del progetto imprenditoriale. Questo è del resto un compito della produzione" sion, per mestiere, si occupano di accoglienza, facilitazioni, guida, selezione”. Quindi la Film Commission diventa il tuo migliore amico ma non un socio del progetto imprenditoriale. Questo è del resto un compito della produzione. Se poi ci sono risorse locali, tanto meglio. L’ideale sarebbe, per tutte le regioni italiane, un sistema secondo cui “tu spendi tot” e io ti restituisco una parte percentuale. Un sistema automatico che in qualche modo abbatta i costi sostenuti localmente e che renda più semplice spiegare a chiunque che cosa trova in Italia oltre alla grande ricchezza del nostro Paese. Con tante regioni. Quindi, tante proposte. Di tipo finanziario, economico, accesso al credito diversificato. Se si trovassero un paio di temi che rendessero più armoniosa l’offerta, ne guadagnerebbe tutto il sistema. E le scelte si farebbero su altri elementi. Poi mi piacerebbe molto che si dessero risorse alle opere prime, magari anche seconde, ai documentari e, in certi casi, alla distribuzione. Mentre, invece, chi è

oltre il secondo film dovrebbe poter accedere a risorse e finanze del mercato. E, ce lo siamo detti anche con gli altri colleghi in molte occasioni, vorremmo che ci fosse anche un sistema di garanzia messo a disposizione dagli enti locali, che hanno già un sistema per rendere possibile un finanziamento che costi poco (perché ci sono delle garanzie reali che rendono meno rischioso per le banche dare accesso al credito). Questo renderebbe tutto meno caotico. Vorrei quindi che fosse un po' rivisto il sistema attuale. Ma in questi dieci anni le Film Commission hanno affinato il loro pensiero anche rispetto a ciò che dovrebbe essere il loro mestiere, perché hanno avuto tante esperienze e tanti confronti. Anche a livello europeo. Non cito i paesi extraeuropei perché hanno dei sistemi di finanziamento, di fare impresa, di tassazione, così diversi dai nostri che dei parallelismi potrebbero risultare avventurosi. ​ In sala escono ogni anno oltre 400 film e, in alcuni momenti dell’anno, anche 15 a settimana. Ad alcuni titoli italiani viene fatta fare la cosiddetta “uscita tecnica”. Molte di queste opere prime e seconde e i documentari, pur essendo qualitativamente validi, non riescono ad avere (a differenza, per esempio, della Francia) un’adeguata visibilità? Se ricordo bene, in Francia vengono prodotti meno film che da noi. E questo è un dato su cui dovremmo riflettere... Ci sono circa 40 esordi ogni anno... Che è un numero strabiliante. O abbiamo un vivaio con una creatività assolutamente fuori scala rispetto al resto del mondo,

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INTERVISTE France Odeon al cinema La Compagnia foto di Michela Goretti

oppure abbiamo sbagliato qualche cosa. Anche perché il pubblico per tutta questa offerta non c’è. Bisognerebbe allargare il bacino d’utenza. Quello che si sta cercando di fare – e che la nuova legge sul Cinema invita a fare e anche l’Europa – è la creazione di nuovo pubblico. Credo sia necessario avere una base più larga per fare in modo che queste opere, spesso finanziate con soldi pubblici, possano incontrare il pubblico. Altrimenti faccio fatica a capire perché produciamo tutti questi film. Nella nuova legge Cinema c’è una categoria di film definiti “difficili”.

Ho capito, vogliamo forse mettere un limite ai film “difficili” da finanziare con i denari pubblici? Perché occorre anche più coordinamento. Il ruolo che la Legge Cinema assicura alle Film Commissions faciliterà anche la possibilità di ragionamenti condivisi. Bisognerà anche capire insieme (risorse dello Stato, risorse degli enti locali) quali limiti possano esserci per queste opere difficili. Quanto questo mercato può assorbire le opere prime? Pensiamolo. Su questo dobbiamo riflettere. 400 film sono un numero enorme. Tra l’altro si chiude lo spazio anche a ottimi film europei e statunitensi, che vengono premiati anche ai festival, che però non trovano spazio in sala. E questo è un gran peccato. Permettimi poi di indossare un attimo la giubba di esercente. Negli anni abbiamo fatto delle esperienze che ci sono piaciute mol-

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tissimo. Prima abbiamo preso in affitto una magnifica e storica monosala monumentale che c’è qui a Firenze (l’Odeon in Piazza Strozzi). Un po’ ne abbiamo fatto la sede dei nostri festival e abbiamo sperimentato, poi, la gestione della programmazione. E ora siamo arrivati a casa con una sala tutta nostra. Abbiamo scelto anche una strada nuova che è quella di sperimentare programmazione come un cinema qualsiasi, ma per i documentari. Difficile. Siamo però fiduciosi. Percorrere delle nuove strade è un compito che, se viene svolto dalle istituzioni, è, secondo me, meritevole. Ho l’ambizione di pensare che questo nuovo percorso potrebbe essere di esempio anche per gli esercenti che invece sono molto concentrati, giustamente, a far quadrare i conti. Questa strada tenta di andare alla conquista di un pubblico diverso, accompagnato da introduzioni, approfondimenti. Non voglio dire di tornare al dibattito vecchia maniera, però vogliamo curare la nostra offerta. Per convincere le persone ad abbandonare il proprio salotto, il proprio comodo televisore, il computer, bisogna dar loro un valido motivo e fare in modo che la loro serata passata fuori abbia un senso. Innanzitutto si sta con gli altri. Il pubblico più giovane è meno attratto da questa fascinazione sociale del cinema rispetto, per esempio, alla mia generazione. Dovremmo quindi: 1) limitare le uscite delle opere prime e consentire la distribuzione di quelle che abbiano davvero dei segni di novità, 2) creare una multiprogrammazione. Questo è un lavoro impegnativo. Per i costi. E cambiare più titoli al giorno è dura, Per la cabina di proiezione, per la promozione. Ti parlo di un problema con cui noi ci scon-

triamo tutti i giorni: i tamburini. I giornali ci odiano per il fatto che abbiamo quattro film al giorno. Perché non hanno lo spazio. E perché è facile che sbaglino l’orario. E quando avviene ci fanno

"1) limitare le uscite delle opere prime e consentire la distribuzione di quelle che abbiano davvero dei segni di novità, 2) creare una multiprogrammazione" un danno. Soprattutto quando abbiamo quattro titoli diversi ogni giorno. Dovremmo riflettere e chiederci: come proponiamo i contenuti al pubblico? Io vorrei – e molti miei colleghi sono d’accordo – che le Film Commission svolgessero un lavoro che ha a che fare con tutto il percorso: ideazione, produzione, realizzazione e distribuzione. A partire dall’educazione nelle scuole, dove organizzare il lavoro con gli insegnanti. E smettere di creare frustrazione e di sprecare soldi (perché poi molti investimenti non hanno un ritorno di nessun tipo). Perché la frustrazione può derivare anche dal fatto che un film è stato visto solo da dieci persone. E questo è un fallimento. Allora o si producono meno film oppure solo alcuni film escono al cinema. Forse alcuni titoli che possono avere caratteristiche interessanti ma non sufficienti per una circuitazione in sala potrebbero andare direttamente su un portale. Potrebbe esserci un test diverso dalle modalità standard. Che è il metodo usato dalla musica, per esempio. La musica è più avanti da questo punto di vista. I musicisti hanno capito che i concerti sono diventati il modo per far

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INTERVISTE Ron Howard e Tom Hanks a Firenze per Inferno

arrivare la propria opera al pubblico e non le vendite degli album. Nel momento in cui le Film Commission decidono di appoggiare un progetto, da dove iniziate a seguirlo? Quali devono essere i requisiti e fino a dove accompagnate il film? Dipende. Talvolta le Film Commission hanno dei fondi anche per lo sviluppo e prima ancora hanno delle azioni formative per i professionisti o aspiranti tali. Quindi in certi casi si parte proprio dal germe dell’idea. Per questo si fanno dei laboratori, con cui si cerca di aiutare un regista emergente a mettere a punto il proprio linguaggio, a capire come scrivere la storia. Talvolta vediamo crescere dei talenti. Spesso si comincia con un cortometraggio. Anche le famose serie web, che sono una sorta di ubriacatura, hanno sostituito quello che facevano prima i corti, che erano una palestra di creatività, di linguaggi e inclinazioni autoriali. Non crediamo che le serie web siano destinate a diventare un prodotto autonomo o un modello economico funzionante tale da

essere finanziate. Però pensiamo che abbiano dato modo di sperimentare e di far emergere dei talenti. I casi variano però molto da una situazione all’altra. A volte riceviamo un autore che ha una storia e che magari ci dice: “Ho l’interesse di un giovane produttore ”. E quindi ci troviamo a che fare con i primi passi di quelli che si riveleranno veri maestri. Oppure riceviamo enormi produzioni che vengono da paesi extraeuropei o inglesi con i quali impariamo a seguire una macchina d’impresa gigantesca. E che servono anche a far crescere le professionalità locali. Se un professionista toscano ha, per esempio, a che fare per un mese con un filmone hollywoodiano, impara tante cose nuove e utili rispetto al proprio modo di lavorare. A proposito di produzioni hollywoodiane, a Firenze avete recentemente ospitato Inferno di Ron Howard. E poi ricordo il secondo capitolo di Twilight – New Moon, a Montepulciano, Miracolo a Sant’Anna di Spike Lee e anche uno 007, Quantum of Solace. Qual è

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In basso Miracolo a Sant'Anna

l’aneddoto più divertente riguardo questi film? Una delle cose che mi hanno maggiormente colpito è stato un Thanksgiving sulle montagne della Lucchesia con la troupe del film di Spike Lee. Sembrava di essere improvvisamente, che so, nel Minnesota. Perché c’era il tacchino, le patate dolci e tutti questi ragazzi neri che festeggiavano. Mi ricordo anche le facce della gente di lì, perché siamo dalle parti di Sant’Anna e di altri paesini antichi e tradizionali. Ed è stato molto divertente. Abbiamo anche delle foto formidabili. Poi, il secondo capitolo della serie Twilight, con il vampiro romantico, girato tra Montepulciano e Volterra, dove sul set erano accorsi moltissimi giovani fans. La ricostruzione dei luoghi ha poi un tale successo da indurre dei fenomeni, seppur talvolta temporanei, come quello del ”cineturismo“, di cui si favoleggia, portando alcune persone a pensare che sia tutto vero. La Toscana è spesso set di spot pubblicitari, che a volte neanche ci interpellano. La pubblicità è veloce, ricca, arriva, gira e sparisce. Una volta fu ricostruito il Mulino Bianco, vici-

no a San Galgano, quella meravigliosa abbazia senza il tetto. Forse uno dei posti più emozionanti ed evocativi che abbiamo in Italia, sicuramente in Toscana. Però è visitato poco. Cos’è invece che è stato visitato tantissimo? Il set del Mulino Bianco, che è lì vicino, a Chiusdino. E la gente, nel fine settimana, andava in processione a vedere questa finzione assoluta. Di aneddoti ce ne sarebbero tanti. Poi le produzioni non sono tutte simpatiche e accoglienti allo stesso modo. Sono però sempre un’occasione per imparare tantissimo. Nelle nostre città e cittadine e addirittura nelle nostre montagne, abbiamo visto ambientare i film più disperati, coreografie di Bollywood realizzate alle Terme di Montecatini o in cima alle montagne della Val d’Aosta. La caratteristica formidabile dell’Italia è che può offrire una varietà paesaggistica impensabile, che forse non esiste in altri paesi del mondo. In più, in una dimensione contenuta. Quante richieste avete dall’estero ogni anno?

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Vorrei soffermarmi ora sul rapporto tra le Film Commission e i Festival. Come sono cambiati nel corso degli ultimi 10 anni? In Toscana abbiamo delle modalità di finanziamento dei festival. Per partecipare al nostro bando la condizione necessaria

è che devono presentare un certo numero di anteprime, avere una giuria, assegnare dei premi. Possono avere anche una sezione retrospettiva o una rassegna con un autore ospite. Poi sul territorio ci sono una serie di iniziative che si definiscono festival ma in realtà non lo sono. Sono animazione culturale, rassegne, approfondimenti. Eventi utilissimi secondo noi. Però non sono festival. Alle Film Commission i festival servono molto. Perché sono occasioni che ci permettono di entrare in contatto con autori e produttori. Soprattutto quelli che propongono cinematografie straniere. In Toscana, per esempio, abbiamo il festival di cinema indiano, quello coreano e il Middle East che ci danno una panoramica del Medio e dell’Estremo Oriente. Grazie a queste occasioni abbiamo avviato dei rapporti che poi si sono trasformati in occasioni di lavoro. Con autori coreani, indiani, palestinesi, israeliani o del Nord Africa, che sono preziosissimi anche dal punto di vista della distribuzione. Perché gli autori vengono qui, magari apprezzano l’interesse e il calore del pubblico. Anche le nostre città. E sono poi più disponibili ad accettare degli inviti o prendere in considerazione delle richieste di distribuzione del loro film. Riteniamo quindi che i festival siano importanti da un punto di vista culturale, ma anche dell’animazione e del coinvolgimento del pubblico. In parte continuano, secondo noi, ancora oggi a svolgere la loro funzione, come circuito complementare. E a volte esclusivo... Tra l’altro in Toscana voi avete raggruppato i festival che si svolgevano in diversi periodi dell’anno nella “50

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Veramente tante, ogni giorno. Poi alcune non hanno alcun seguito, altre arrivano solo fino a certe fasi di sviluppo e altre ancora arrivano fino in fondo. Ci sono naturalmente delle regioni che ne hanno di più. Penso al Lazio con Roma, che è il cuore della nostra industria cinematografica ed è gettonatissima. E noi qui dalla provincia ne siamo un po’ invidiosi, in senso buono. Però non c’è regione che non riceva richieste dall’estero. Con l’Europa vorremmo sviluppare dei rapporti meno intermittenti. Se pensassimo al mercato europeo davvero come un mercato unico, si potrebbe ragionare non sui target dei singoli paesi ma sui 500 milioni di abitanti complessivi, tutti potenziali spettatori. Dovremmo quindi lavorare molto sulle coproduzioni perché poi, a cast di attori provenienti da paesi diversi. I colleghi che si trovano sui confini (e cito Friuli Venezia-Giulia, il Trentino, l’Alto Adige, per certi versi la Valle d’Aosta) riescono a sviluppare dei rapporti proficui con i paesi confinanti. Il Friuli con tutta l’Europa dell’Est. Mentre i colleghi dell’Alto Adige e del Trentino lavorano molto con l’Europa centrale. O i piemontesi con i francesi. Penso che sia davvero indispensabile lavorare sul pubblico europeo. Proprio per evitare penurie del tipo ”quanti film ci consentiamo?”. Se stessimo dietro al box-office, non lo so. Forse 100?


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Cinema La Compagnia foto di Chiara Pezzano

giorni di cinema”. Sì, è stato un esperimento fiorentino che secondo noi ha dato ottimi frutti. Si è pensato di fare così perché ci siamo resi conto che c’erano tanti festival, di ottima qualità, che si tenevano tutti nella seconda parte dell’anno. E non a caso. Perché in quel periodo si sa se hai ottenuto o no dei contributi pubblici. E questo serve agli organizzatori per capire su quali risorse possono contare. In ambito europeo è diverso. Poi i festival italiani sostenuti dall’Europa si contano sulle dita di una mano. Allora abbiamo pensato: questi festival sono tutti preziosissimi ma un pochino deboli. O perché ancora in crescita, o perché entrati in una fase di décalage rispetto all’interesse del pubblico o alle energie a disposizione. A volte ci siamo trovati ad affrontare un passaggio di testimone tra generazioni diverse di organizzatori. Questi sono sempre

momenti delicati. Quindi le nuove leve avevano bisogno di un po’ di tempo per trovare la loro voce. E noi abbiamo pensato di aiutarli così. È stato uno stratagemma di marketing. Per noi ha funzionato. C’è stata un’unità di luogo che ha consentito di razionalizzare i costi, l’organizzazione, la comunicazione e la promozione. Ci sono stati dei grandi risultati per tutti. Per i festival più piccoli e per quelli con una lunga storia alle spalle. E l’iniziativa ci ha aiutato ad affrontare con successo molto anni, pur non avendo una casa nostra perché eravamo ospiti di altri. La Regione ha investito sulla nostra Fondazione in modo da dare ai festival, oltre che un contributo economico, anche alcuni servizi come l’organizzazione, la sede, l’aiuto del nostro personale. Ora ci stiamo interrogando perché, dopo 10 anni (compiuti quest’anno con l’edizione 2016), il contenitore “50 giorni”, ci ha riportato a casa a La Compagnia (il

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"Se si devono aprire le porte alle novità, si devono chiudere alle esperienze che non ha più senso mantenere in vita" un prestigioso e vecchio marchio che ha vissuto molte difficoltà come quelle della città che lo ospitava (Viareggio). E poi segnalo anche una serie di piccole situazioni (per dimensioni, per risorse) piene però di vivacità. E molte sono concentrate in Valdarno. Trovo che sia un po’ la valle del cinema. Perlomeno la valle dei festival e della conoscenza, dell’amore del cinema di qualità. Lì ci sono molte realtà che propongono piccoli e preziosi festival. E noi li vogliamo tener d’occhio.

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Pensiamo anche di strutturare un bando per poter dare dei contributi a questa tipologia di festival, ai quali non si possono proporre gli stessi parametri che richiedi per eventi come, ad esempio, il Festival dei Popoli che ha alle spalle 57 edizioni, che è conosciuto in ogni angolo della Terra e riceve migliaia di film. Crediamo che i “vivai” siano importanti. Le risorse non sono così abbondanti da poter intercettare facilmente nuove energie, però cerchiamo di creare una situazione più adatta, più parametrata sulle iniziative nuove di qualità. Inoltre non abbiamo nemmeno paura di abbandonare alcuni festival che avevano una storia antica ma che hanno smarrito la via di casa. In certi casi si ritrova perché si ragiona insieme su cosa va e non va. E in altri casi è invece smarrita per sempre. Questo non è un paese dove si prende atto con facilità che una cosa che esisteva da tempo è ormai definitivamente sfumata. Personalmente invece ritengo che questa cosa vada fatta. Se si devono aprire le porte alle novità, si devono chiudere alle esperienze che non ha più senso mantenere in vita. In giro per l’Italia, trovo interessanti le realtà di Trieste e realtà consolidate come il Torino Film Festival. Poi ce ne sono molti altri. Del resto l’Italia è il paese dei festival. Per vocazione, io sono più incline ad apprezzare – per cultura, per età – i festival dove si sperimenta. Un festival che adoro, per affinità , è quello di Venezia: per dove è, per come è, io lo amo moltissimo. Ho un pochino più di perplessità per una serie di festival che vengono fatti nell’area napoletana, tutti così hollywoodiani. Non so che giudizio dare. Magari sono molto divertenti. E forse servono a promuovere

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cinema a Firenze in via Cavour), la Casa del Cinema della Toscana e la Casa dei Festival. E non escludiamo di poter mettere in pensione la “50 giorni”. Perché crediamo che abbia svolto il suo compito. Da ora in poi potrebbe essere ragionevole pensare che a La Compagnia ci sono i grandi festival di Firenze e puntare a comunicare questo messaggio. Nel resto della Toscana e in Italia, quali sono le realtà più vive? Sto parlando anche dei festival nati recentemente. In Toscana una delle realtà più interessanti è quella del Lucca Film Festival. Che è cresciuto tanto ed è organizzato da persone giovani, brillanti, curiosi e innovativi. E poi la città di Lucca ci ha creduto. Per far decollare un festival servono creatività, idee, intuizione, perseveranza ma anche la ricettività degli interlocutori locali. E queste sono le condizioni ottimali. A Lucca viene c'è Europa Cinema,


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il territorio. La mia idea di festival però è diversa. Non bisogna annoiarsi ma neanche essere tutti “luccichi e lustrini”. Ora vorrei soffermarmi sul rapporto delle Film Commission con l’'attività di formazione. Credo che sarà una delle nostre attività portanti per i prossimi anni. Un po’ perché nella Legge della Buona Scuola è previsto il fatto che ci sia un insegnamento sul cinema. D’altro canto, nella nuova Legge Cinema si dice che la collaborazione sul piano della formazione è importante: questo è un tema europeo che l’Italia ha recepito. Le Film Commission, che sono presenti in tutte le regioni d’Italia, sono state invitate dal Ministero dell’Istruzione a diventare partner nelle azioni di divulgazione della cultura cinematografica che verranno messe a punto. Lo scopo è di far crescere il pubblico al quale ci affanniamo a far vedere film. Tutte le Film Commission italiane si stanno attrezzando per rispondere in maniera professionale a questa nuova esigenza. La storia

del cinema inizierà ad entrare nelle scuole. E lo farà da ora. Perché è stato firmato un protocollo d’intesa tra il MIUR e il MiBACT proprio in questo senso. Non è ancora una materia curriculare, ma è avviata ad esserlo. E poi non è necessario che gli insegnanti siano, ad oggi, riposizionati per insegnare cinema. Speriamo invece che tanti laureati in Storia del Cinema possano svolgere dei corsi nelle scuole. E farlo magari anche in collaborazione con le Film Commission finché non si è trovata una situazione strutturale solida. Si può secondo noi iniziare partendo dalla “porta di servizio”. Dal punto di vista dell’entità dei costi e non della qualità. Per esempio, in Toscana abbiamo da molti anni un progetto, un’attività ormai strutturata, che si chiama “Lanterne magiche”. Abbiamo un gruppo di tutor – laureati in Storia del Cinema e che non fanno solo questo mestiere perché non sarebbe sufficiente – che fanno formazione agli insegnanti. Viene poi svolto il monitoraggio sull’attività; si preparano le schede e il materiale didattico.

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Questo permette di coinvolgere migliaia di studenti ogni anno.

Prossimi obiettivi? Stiamo collaborando con la Direzione Generale Cinema del MiBACT per i decreti attuativi che poi sono la parte effettiva, significativa, applicativa della nuova Legge Cinema. Perché ci interessa molto sapere come verranno definiti, a livello nazionale, i compiti delle Film Commission, che, seppur, sono di genesi regionale e alimentate dalle risorse delle Regioni, devono essere più omogenee su tutto il territorio. Per difendersi per esempio, da eventualità come il cambio di un’amministrazione. Siccome questo è un lavoro – come ci siamo più volte detti in questo incontro – che va a sedimentare competenze, professionalità, capacità, se subisce improvvisamente un arresto, il trauma è molto forte. È capitato che una regione che aveva un’attività florida con la Film Commission, per via di alcune decisioni amministrative, improvvisamente si è trovata senza. Riteniamo che esistere dentro la Legge Cinema e nei decreti attuativi possa proteggere da alcune valutazioni superficiali rispetto all’utilità di questo mestiere. Il nostro obiettivo è: siamo emersi? Abbiamo avuto la nostra epifania? Bene, vorremmo anche rendere solida e ben definita la nostra presenza. Cercando di rendere più omogenei i nostri standard, mostrare quello che si può trovare in ogni regione. Come servizi ma anche come opportunità, di contributi o accesso alle finanze. Ci piace diventare più europei Per formare finalmente gli “Stati Uniti d’Europa”.

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Che attenzione ha la stampa verso le vostre attività? E può avere ancora un ruolo per appassionare un pubblico più giovane? Abbiamo delle difficoltà a suscitare interesse nei giornali con la nostra attività di Film Commission. Se abbiamo, per esempio, un nuovo fondo o dobbiamo parlare di Lanterne Magiche, la nostra attività nelle scuole, abbiamo una scarsa attenzione. Ciò che interessa è: “Hai un set? Posso andarci? Intervisto Tom Hanks? Posso avere delle foto? Un po’ di gossip?”. La faccenda sta così. Poi parliamo di stampa o di giornalismo? Perché c’è anche tanto giornalismo buono e meno buono che adopera altri mezzi come i social. Non troviamo che sia più così significativa la recensione di un grande critico perché si va su internet a vedere cosa si dice del film. È un metodo simile a quello che si usa per i ristoranti. Personalmente preferisco che ci sia una vera recensione. I giornali li leggo per questo, per approfondire e non se ho bisogno di vedere le ultime notizie. Se devo sapere se c’è stata una scossa di terremoto, vado in rete. Perché leggo la stampa? Perché voglio gli approfondimenti. Politici, economici e culturali. Mi piace leggere una recensione. Decido solo in base a questa? No. Ma ormai forse sono anni che non si fa più questo. Credo che bisognerebbe prendersi le responsabilità dei giudizi che si danno. Poi tu capisci se certi critici sono più vicini a te come gusti. Grandissimo effetto ha il passaparola. Ora che abbiamo la nostra sala, abbiamo deciso di andare a un ritmo lento.

Non ci importa nulla dell’anteprima. Ci piace dare ai titoli il tempo di essere visti. Che tu possa dire ai tuoi amici: “Ho visto un film. Vai a vederlo”.


SHADOWS

Giorni immobili C’è poco da fare. Arrivano giornate in cui semplicemente non ce la fai. E non sai se dipende dalla cena del giorno prima dalla salute dalla testa dal Paese dai soldi da internet dalla città dal segno zodiacale o dal meteo. Non ce la fai e basta. Very simple. Di solito in quelle giornate lì va a finire che nemmeno ti metti a scrivere una riga. Ma va bene. Misurare il respiro guadagnare tempo fare ginnastica nell’immobilità. Il mondo cambia davvero se stiamo fermi?

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Te lo faccio vedere chi sono io!

C’è Split tra Austerlitz e Silence, così Logan si fa ancora più nero, nero che diventa luce abbagliante di un giorno buio, l’intensa luce che sollecita l’oscurità dell’occhio chiuso; il nero dell’annullamento del Sé... la croce del sacrificio si converte in croce decussata , in (con)divisione, circolazione di sangue, sguardo, gesto non più distinguibile dall’essere nostro, da cui in un attimo di grazia prorompono e si levano le immagini dei tempi Sono un uomo asociale, ma sono un uomo che... Io non ti compro un sottomarino, ti compro un transatlantico! Basta che tu non scappi! Stai attenta che se scappi col transatlantico ti affogo nel... nell'Oceano Pacifico! (Piero Ciampi)

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