Sentieriselvaggimagazine n. 19

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Il buio

oltre la sala Da Netflix alla rete come sta cambiando il consumo d'immagini?



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Lo spettatore consumato

CUORE SELVAGGIO 15 19 25 34 39 48

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EDITORIALE

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Netflix o della mutazione avvenuta del consumo di cinema Gente che guarda Netflix o la bulimia dello sguardo Contro il cinematografo. Metamorfosi di un mangiatore di film La scomparsa del buio Quando la sala diventa un'altra cosa L'era della discussione. Ragionando di festival nel nuovo millennio Incoscienza

VENEZIA 72 L'istituzione

RITORNO ALLA VITA 68 72 76 79

Magie oltre il 3D Wenders è a casa sua nel suo cinema L'abbraccio più bello di sempre

ULTIMI BAGLIORI

Un disastro di ragazza Dove eravamo rimasti

FACES

Pasolini. Il poeta profetico


n.19 4/2015

magazine

Il buio

oltre la sala Da Netflix alla rete come sta cambiando il consumo d'immagini?

Sentieri selvaggi magazine

n.19 - 4/2015 Bimestrale di cinema e tutto il resto... Direttore responsabile Federico Chiacchiari Direttore editoriale Aldo Spiniello Redazione Simone Emiliani, Carlo Valeri, Sergio Sozzo, Leonardo Lardieri, Pietro Masciullo Segretaria di redazione Elena Caterina Hanno collaborato a questo numero Giacomo Calzoni, Davide Di Giorgio, Francesco Maggi, Guglielmo Siniscalchi, Tonino De Pace Progetto Grafico Giorgio Ascenzi Redazione Via Carlo Botta 19, 00184 Roma. Tel. +39 06.96049768 Mail redazione e amministrazione redazione@sentieriselvaggi.info info@sentieriselvaggi.it Supplemento a www.sentieriselvaggi.it Registrazione del tribunale di Roma n.110/98 del 20/03/1998 (edizione cartacea) n.317/05 del 12/08/2005 (edizione on-line)

Lo spettatore consumato di aldo spiniello

In questo periodo va così. Faccio fatica a scrivere, ad affrontare questo spettro della pagina bianca. E lo schermo del computer sembra rimandarmi uno scintillio che fa male agli occhi, come nelle proiezioni delle origini. Faccio persino fatica a vedere i film, senza che la mia mente si distragga e altri pensieri si sovrappongano alle immagini, altri fantasmi entrino nelle storie. Fino a modificarle, a violentarle persino, a farle diventare qualcos’altro, quello che non avrebbero ma sognato di essere. Ne viene fuori qualcosa di assurdamente personale, un ibrido tra l’opera e le cose quotidiane, il cinema e il mondo, per cui i pensieri su cui sono concentrato, i sentimenti del momento, ciò che mi stringe, mi affanna o mi esalta trasformano la mia percezione ed espandono le mie sensazioni in direzioni che vanno ben oltre le intenzioni del film. L’anima, il cuore, la mente, quello che si vuole: tutto esercita una forza centrifuga sull’immagine. Ma a volte si verifica una magica coincidenza. Come con Inside/Out, uno dei pochi casi di "proiezione" totale degli ultimi mesi, per cui a un certo punto mi è sembrata chiara la questione, la mia questione: quel necessario velo di tristezza che si adagia sulle cose belle, per comporre la sostanza dei ricordi e garantirne la permanenza. In una parola, la malinconia... In altri casi la questione è più complessa e la visione è fatta di andate e ritorni. Ma, in ogni caso, di un film, di ogni cosa si trattiene quel che si vuole. E quel che si può. In questo numero del Magazine parliamo a lungo di Netflix e delle nuove modalità della fruizione, di dispositivi maneggevoli, di centralità dei consumatori nella scelta dei contenuti e dei tempi di visione, di adeguamento dei linguaggi alla velocità e alla frammentarietà del presente (e del futuro?). Tutti ragionamenti sacrosanti. Ma, a

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logora. Al punto da aver l’impressione di essere, il più delle volte, consumato... Per ogni film, per ogni dannata immagine, bisognerebbe forse raccontare una storia privata della visione. Tutte le questioni teoriche, politiche, le riflessioni sul mezzo, gli entusiasmi per le magnifiche sorti e progressive delle nuove piattaforme o i rimpianti per la sala perduta: tutto mi tocca e mi interessa, ma fino a un certo punto. Perché ho l'impressione che il discorso "economico" non cambi, che lo spettatore sia comunque il termine ultimo di una serie di strategie produttive e commerciali che tendono sempre più a individuarlo nei gusti e nei bisogni e, quindi, a "separarlo". Nel flusso d'immagini, la solitudine rischia di essere ancora più invincibile. Mentre la visione dovrebbe essere un'avventura che si apre al mondo, alla vita. Una dimensione in cui si fa i conti con la differenza e si rischia la sorpresa, la caduta, la frattura, la meraviglia. E il brivido folle del collegamento, del contatto.

volte, leggendo e rileggendo – probabilmente perché sono distratto e pratico la distrazione – mi sembra soltanto sfiorato il punto per me essenziale. Il fatto che, qualunque siano le modalità, i luoghi, i dispostivi, il guardare deve far sempre i conti con qualcosa di più inafferrabile, intimo e personale. Con il nostro grado di attenzione, la nostra buona o cattiva disposizione. Con i nostri dolori, quelli che si bloccano alla bocca dello stomaco, o con gli entusiasmi irrazionali, spontanei, travolgenti. E poi con chi guardiamo questi film, con chi ci accompagna, e con i suoi silenzi o le sue parole, con i suoi gesti. Mi ricordo di un’assurda proiezione di Sex and the City, anni fa. E di un altrettanto surreale, straordinario momento con Un disastro di ragazza, in cui il corto circuito tra il cinema e la realtà diventa quasi insostenibile. Quello che voglio dire, è che al di là delle modalità di consumo, è l’atto stesso del consumare il problema. Perché richiede uno sforzo fisico, un lavoro che, comunque, mi

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Il buio oltre la sala


CUORE SELVAGGIO

Netflix

o della mutazione avvenuta del consumo di cinema

di federico chiacchiari

Netflix è il paradigma della fine della centralità dello schermo cinematografico, dello schermo unico: il film si consuma su una molteplicità di schermi, in luoghi e contesti diversi (e modalità diverse). È lo spettatore, le sue rinnovate capacità di scelta dei modi, tempi e luoghi del consumo, al centro di questa nuova prospettiva. Il consumatore ha, forse, finalmente, preso il comando della fabbrica delle illusioni…

Tra gli elementi più interessanti della visione della Serie TV The Knick (di cui SSMagazine si è occupata nel n.15), spicca la rappresentazione dello “scarto”, culturale, economico, sociale, ma soprattutto di immaginario, che l’avvento delle nuove tecnologie provocava agli inizi del XX secolo. La metafora dell’ospedale “avanzato” come luogo di trasmissione del sapere tecnologico finalizzato alla salute delle persone, in una New York che cambiava pelle quotidianamente con l’arrivo di migliaia di immigrati europei e non, gioca sul terreno dell’immaginario collettivo di un’epoca: il mondo stava cambiando, rapidissimamente. I raggi X (e il cinema!) erano da poco stati inventati, e le prime automobili cominciavano a sfrecciare per le strade, magari rompendosi in continuazione e suscitando l’ironia dei guidatori delle “vecchie” e affidabili carrozze a cavallo (episodio della seconda serie). Da un lato le nuove generazioni, anche dei figli dei magnati ansiosi di differenziare gli investimenti, per esempio nel nuovo progetto di metropolitana cittadina (la tecnologia più avanzata per la mobilità collettiva, “primitivo” esempio di rete sociale diffusa ed egualitaria), dall’altro gli uomini del XIX secolo, che avevano costruito le loro fortune sulla “società del vapore”, sulla fabbrica non ancora automatizzata dal taylorismo. Stava nascendo, in quegli anni l’era della velocità, del capitalismo aggressivo e tecnologico che, dopo la Grande Guerra (tecnologia sperimentale per un massacro di massa epocale), avrebbe radicalmente mutato le società. La tecnologia cambiava i nostri corpi.

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CUORE SELVAGGIO In ogni era ci sono sempre gli innovatori e i conservatori. Un tempo chi si occupava di cultura, per apertura mentale, abitudine sociale, capacità cognitiva, apparteneva quasi sempre, comunque molto spesso, alla prima categoria. Ma questo conflitto tra vecchio e nuovo esiste da sempre, persino catalogato dai vecchi saggi nelle diatribe tra apocalittici e integrati. Ma i cambiamenti avanzano, inesorabili. E a volte resistere non è la forma migliore per combattere le trasformazioni che ci piacciono di meno. Come scrive Francesco Bruni, nel post che ha pubblicato su Facebook, all’indomani dell’arrivo della piattaforma Netflix, in Italia, stiamo diventando vecchi. È una considerazione amara, soprattutto perché fatta dal Presidente dell’Associazione 100 autori, tra le più attive in Italia per rilanciare il cinema italiano (e da un regista che nelle sue opere non ha mancato di lavorare sulle “differenze” generazionali con una certa acutezza). Già, ma perché stiamo diventando vecchi? Cosa è accaduto che non stiamo riuscendo a fermare? Ed ha senso porsi oggi nell’ottica resistenziale all’innovazione economica (e culturale) che i cambiamenti tecnologici stanno imponendo? Sembra sfuggirci, come accecati dalla nostra storia, dalle nostre passioni viscerali, l’epocale passaggio, appunto tecnologico, dalla scarsità del bene (cinema) all’abbondanza della sua disponibi-

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lità, quella così ben descritta non ieri, ma addirittura nel 2000 nel saggio di Jeremy Rifkin L’era dell’accesso, La rivoluzione della new economy, in cui con lucidità e forse facile premonizione prefigurava, esattamente cento anni dopo l’era di The Knick, questo passaggio da un'economia basata sul possesso fisico dei beni a un’altra che invece si basa sulla disponibilità e accessibilità in qualunque luogo o momento degli stessi. Tutto questo scenario è certamente favorito anche dalla smaterializzazione di molti beni in commercio, e da questo punto di vista il cinema va sempre più smaterializzandosi, e già ora facciamo fatica a “visualizzarlo” fisicamente, essendo nascosto (imprigionato?) dentro la scatola del DCP, o nei flussi della banda larga, togliendolo pertanto dalla mitologia magnifica della pellicola, la sua tattilità e consistenza che per oltre un secolo ha fatto appassionare registi e cinefili di tutto il mondo. Che succede, o meglio cosa è successo, al cinema? È accaduto che la riproducibilità di massa dell’opera d’arte ha favorito la “pirateria” (o più correttamente la “filosofia della condivisione”), attraverso un sistema più avanzato di distribuzione del bene. E mentre le industrie (e gli autori) si sono trincerati dietro ai convegni sulla pirateria e sulle tasse per l’equo compenso (facendoci pagare anche le copie che non facciamo o non possiamo fare…), altre realtà, sul modello ideato per rilanciare la morente industria musicale di iTunes prima e Spotify e altri dopo, hanno cominciato a proporre sul mercato un diverso modo di consumare il cinema e la televisione. Improvvisamente la logica delle “windows” (prima la sala, poi l’home video, poi le tv, ecc..) e del palinsesto (giorno e orario prefissato per la proiezione televisiva) per gli spettatori – deciso in un ufficio dai potenti delle televisioni – diventa il passato, da dimenticare in fretta.

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CUORE SELVAGGIO Fine della centralità dello schermo cinematografico, dello schermo unico, il film si consuma su una molteplicità di schermi, in luoghi e contesti diversi (e modalità diverse). È lo spettatore, le sue rinnovate capacità di scelta dei modi, tempi e luoghi del consumo, al centro di questa nuova prospettiva. Il consumatore ha, forse, finalmente, preso il comando della fabbrica delle illusioni… È un rovesciamento culturale clamoroso, per certi versi rivoluzionario. La fabbrica del cinema e della televisione non solo non muore, ma ha bisogno semmai sempre più di prodotti audiovisivi nuovi e possibilmente innovativi. E, incredibilmente, c’è spazio per tutti. Nella grande videoteca banca dati di Netflix troviamo sia il vecchio “blockbuster” che il cinema d’autore, la serie più avanzata e quella più nostalgica. Cosa guida Netflix (che, intendiamoci, è solo un paradigma di questa mutazione) nella sua proposta? Le scelte dello spettatore. Le scelte del consumatore. Che sono e saranno sempre più differenziate e personalizzate, e infatti la home page di Netflix non è uguale per tutti, ognuno ha la sua, personalizzata per i propri gusti e percorsi. Questa centralità dello spettatore, o meglio ancora delle pratiche del consumo, mette paura. Perché sconvolge le pratiche sociali e culturali su cui si è fondato un secolo di cinema e (un po’ meno) di televisione, che hanno visto nello spettatore la fine del ciclo produttivo e non, magicamente, l’inizio… E quindi oggi ci troviamo un’intera generazione di operatori culturali (e politici…) assolutamente incapace di cogliere le grandi potenzialità, culturali, economiche, narrative, che questa mutazione ormai avvenuta nei consumi culturali produce. Ed ecco che i Festival di Cinema, che sono (ri)nati negli anni ‘60 e ‘70 per rinnovare il cinema e rilanciare sguardi e punti di vista differenti, da punta avanzata del rinnovamento culturale che erano negli anni ‘80 e ‘90, sono oggi diventati – i migliori? – dei magnifici musei, luoghi di culto, quasi religioso, delle pratiche antiche del cinema del ‘900. Anche se poi non sanno resistere (meravigliosi anticorpi presenti anche nell’invecchiamento culturale di un bravo ed esperto direttore di Festival come Alberto Barbera) all’attrazione perversa che questo cambiamento induce (ed ecco a Venezia proiettare, quasi paradossalmente, Beasts of No Nation, di Cary Fukunaga, film prodotto da Netflix che lo fa uscire direttamente in rete – dove sta avendo un grandissimo successo (che non si misura più in biglietti, ma in abbonati che lo vedono) – e anche

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CUORE SELVAGGIO contemporaneamente in un circuito privilegiato di sale cinematografiche; ma anche il magnifico Sokurov di Francofonia, forse l’unico cineasta contemporaneo talmente conscio di questa “museificazione” del cinema, da farne il proprio fulcro vitale di elaborazione di un immaginario collettivo che proprio nella forma museo può trovare la sua “nuova” vita, il suo nuovo sguardo (ma volando in avanti, guardando indietro… ricordate l’Angelus Novus di Paul Klee, si?). Insomma i Festival (e le Feste?…) guardano al passato con nostalgia mentre nelle sale cinematografiche è un continuo rilanciare dei “grandi” film del passato, con operazioni/evento di recupero marketing che sconvolgono i parametri critici di un tempo (e i capolavori di oggi recuperati, non lo erano per i critici del tempo, né Ritorno al futuro, né Fantozzi, Amici miei o Ricomincio da tre…). E allora ci troviamo di fronte da un lato un movimento di resistenza culturale, che prova a far rivivere nei Festival l’esperienza “antica” della visione – unica, a centralità di schermo – del cinema. Mentre dall’altra parte si muove un mondo multischermi e multipiattaforme, che, come detto, sposta la centralità dello schermo e la riconverte

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nella centralità del corpo dello spettatore. Si, è vero: lo spettatore giovane di oggi è “multitasking” (multischermo), e spesso impaziente. Forse anche preso dalla “bulimia delle immagini”. Ma è uno spettatore che sta sperimentando in poco tempo sul proprio corpo pratiche della visione che le generazioni passate sperimentavano in decenni, se non in una vita intera. E arriviamo al punto che nel documentario di Toni D’Angelo, Filmstudio mon amour (magnifica storia di quello che abbiamo potuto vedere in 30 anni di cineclub e quindi storia alternativa del cinema italiano e non solo – ma contemporaneamente incredibile occasione, ennesima, mancata, di raccontare di quella generazione che faceva cinema “facendo vedere i film”, cercandoli trovandoli e proiettandoli nei luoghi più disparati – e solo un grave smarrimento culturale può aver indotto l’autore a non citare Enzo Ungari e Renato Nicolini, in un doc sulla generazione dei cineclub italiani…), ci ritroviamo con alcuni dei rappresentanti della “rivoluzione culturale” di un tempo, che oggi sono dei signori anziani che hanno la nostalgia del tempo che fu. Il buon Nanni Moretti con la sua nostalgia del cinema nella sala cinematografica, fino al santone Goffredo Fofi che attacca le nuove generazioni che non devono fare alcuna fatica per cercare e trovarsi i film da vedere, e pertanto sono indotti a una sorta di pigrizia culturale e dello sguardo. Come se ogni generazione non avesse la sua prospettiva di ricerca diversa (cambiano metodi e parametri, quanti sanno davvero trovare i film e altri sui torrent?), e se un tempo la ricerca era nella “scarsità” di beni, oggi la ricerca è più complessa nella incredibile “abbondanza” di film, serie tv, webseries e altro che è disponibile per le nuove generazioni. Oggi la visione dei film delle nuove generazioni passa attraverso altri canali, e


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le ricerche ci raccontano che il dispositivo più usato per la visione dei film è lo smartphone (ben il 79,4%!) Insomma, possibile che gli intellettuali nostrani siano sempre più arretrati dell’industria (americana)? Se i nostri Festival perdono la loro centralità innovativa, rinchiudendosi dentro pratiche della visione che stanno diventando museali, Netflix propone un Festival espanso, dove gli schermi sono dappertutto, e sperimenta la visione “virtuale”, dove ogni spettatore può avere la sua “sala cinematografica virtuale personalizzata”. E mentre Google lancia il suo progetto di rete con AMP (Accelerated Mobile Pages) che ci permetterà dappertutto di usufruire di pagine web velocissime, noi siamo qui a ragionare sul “tempo della scelta, il piccolo sforzo della ricerca, ma anche il tempo della metabolizzazione,

della riflessione, dell’affetto persino”. Oggi la scelta, la ricerca, la riflessione viaggiano attraverso forme di metabolizzazione molto diverse dal passato. Quanto agli affetti, forse possiamo tenerli, con la tecnologia, molto più vicini, anche quando sono, perché la vita è così, maledettamente lontani. E, a proposito di arte e nuove tecnologie, ecco cosa dice Quentin Tarantino, in una recente intervista…

Non abbiamo bisogno della tecnologia, per la poesia. Come se la penna non fosse, essa stessa, tecnologia.

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di elena caterina

Come sta cambiando il panorama della distribuzione e della fruizione, tra cinema in sala e on line, nuove piattaforme e linguaggi. In che contesto si inserisce Netflix? Un viaggio tra gli ultimi dati

È auspicio delle grandi società di telecomunicazioni cancellare la tradizionale divisione concettuale e fisica che separa i telespettatori dal pubblico delle sale cinematografiche, trasformando gli uni e gli altri – affiancati dal popolo che guarda film, serie tv e programmi in streaming

dietro lo schermo di un computer – in viewers. Gente che guarda, e non importa da dove e dietro quale schermo. I dati delle sale (Cinetel) parlano, per il 2014, di 91.465.599 biglietti venduti, con una diminuzione del 6 % rispetto al 2013, e anche gli incassi sono stati di cir-

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Gente che guarda


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ca il 7% in meno. I film di nuova uscita distribuiti in sala sono stati 470, a differenza del 2013 che ne ha visti 454. Un valore a cui quindi non è corrisposto un aumento di pubblico. Bisogna aggiungere che, oltre ai film convogliati in questi dati, esiste anche un altro tipo di distribuzione, si pensi a quella di Nexo Digital o Uci Cinemas, che porta nelle sale riproposizioni di classici restaurati (quest’anno, tra gli altri, Barry Lindon, Blade Runner, Gioventù bruciata, Le mani sulla città, Paris, Texas, Ritorno al futuro - Parte III, Viaggio a Tokyo) o altro genere di spettacoli (balletti, visite virtuali nei musei – che nella passata stagione di Nexo Digital hanno visto 180mila presenze –, opera, concerti vari e documentari fuori dal circuito della normale distribuzione). Ma cos’è che avrà spinto quel 6% in meno di persone a non andare al cinema? Accanto al dato sofferente delle sale,

bisogna considerare che negli ultimi anni (e soprattutto dal biennio 2010-2011, in ritardo rispetto agli altri paesi europei) sono fiorite sempre più piattaforme streaming e on demand, in un primo momento molto poco legali (si pensi all’ei fu eMule, al lavoro fatto da Megavideo che infine è stato chiuso, fino al sopravvissuto BitTorrent che attualmente in Europa copre il 18,6% del consumo di video) e via via sempre più pubblicizzate e ricercate dalle compagnie televisive e dagli stessi distributori, che nel frattempo hanno anche visto nascere le Smart Tv che uniscono internet alla televisione e che nel 2014 hanno raggiunto il 10% degli italiani, mentre la web tv è arrivata a un'utenza del 23,7% (+1,6% rispetto al 2013), la mobile tv all'11,6% (+4,8%), in un panorama in cui le tv satellitari coprono il 42,4% della popolazione (Rapporto Censis sulla comunicazione). È di questi giorni l’arrivo di Netflix in Ita-

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lia, piattaforma che dal 2008 spopola in molti paesi (e che ha abbattuto del 300% la quota di BitTorrent in USA) permettendo di vedere in streaming film e serie tv, spesso prodotte dalla compagnia stessa (Beasts of No Nations di Cary Fukunaga, visto al all’ultimo Festival di Venezia, House of Cards e il Marco Polo con Pierfrancesco Favino che così arriva in Italia). Il fondatore Reed Hastings ha dichiarato di voler entrare in una famiglia italiana su tre, come è avvenuto negli USA, anche se certo questa ambizione è molto complessa, considerato che il 71% della popolazione italiana è connessa ad internet ma il 50% delle famiglie non ha la banda larga e che anche in paesi come in Francia o Germania i dati oscillano dai 250 mila ai 650 mila, molto meno dei 4 milioni della Gran Bretagna (Il Sole 24 Ore). Se a questo si aggiunge che non ci sono talent show e calcio, l’auspicio di

Hastings sembra complicato. La tv via internet interessa così tanto che Amazon, Apple e Google nei prossimi anni investiranno svariati miliardi di dollari, soprattutto nella produzione di

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CUORE SELVAGGIO serie e nella ricerca. Anche Sky ha una piattaforma per lo streaming online dove è possibile vedere tutti i canali di Sky Cinema, lo stesso dicasi per Mediaset Premium la cui versione streaming è Infinity, che nel primo trimestre del 2015 ha avuto un bilancio pari a 136,5 milioni di euro, rispetto ai 142,8 milioni di euro del primo trimestre 2014, forse perché la concorrenza è in netto aumento. Per questo, i due colossi televisivi hanno raggiunto un accordo con Telecom di modo da creare la più ampia offerta televisiva senza parabola. Timvision, infatti, ha oltre 6.000 titoli tra film, serie tv e contenuti per ragazzi, ha registrato più di 11 milioni di fruizioni e 260.000 abbonati a fine 2014, un dato raddoppiato rispetto al 2013 (Repubblica). Tim ha anche raggiunto l’intesa con il neoarrivato Netflix. Ma a questo panorama di stampo televisivo si affiancano delle piattaforme web che fanno capo semplicemente a dei siti, i cui dati sono in crescente aumento positivo. Su MyMovieslive, fresco del nuovo accordo con Repubblica, si può accedere ad una sala virtuale di 10 mila posti che molto spesso ospita film in contempora-

nea dai maggiori festival italiani e non solo. In otto settimane di programmazione pre-estiva sono stati prenotati 60.953 posti e postati 9.773 commenti. OwnAir è una distribuzione online che, in virtù di un accordo con la Bim ha un grande catalogo (opere che sono passate dai festival di Cannes, Toronto, Berlino o Venezia), in esclusiva per l’online e in alcuni casi in contemporanea con l’uscita in sala. Tra gli altri, sempre più numerosi, c’è anche Mubi, che, oltre allo streaming, è anche un social network che permette di lasciare voti e commenti ai film e di creare liste di preferiti. I dati aziendali di maggio 2014 (7 milioni di utenti registrati) hanno rilevato un incremento di 500.000 nuovi utenti rispetto al dato precedente di febbraio 2014 (Cinergie). Sicuramente i dati conclusivi del 2015 mostreranno un ulteriore crescente aumento di questo genere di fruizione cinematografica, e di questo genere di siti e piattaforme, che inevitabilmente spingerà a ripensare al modello e al senso della sala cinematografica, che evidentemente vanno reinventati.

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o la bulimia dello sguardo di francesco maggi

Quale sarà la strategia di Netflix per il mercato italiano, dove non c’è un’azione strutturale a livello di operatori? La sfida sembra piuttosto improba. Ma forse la carta vincente della nuova piattaforma sta nella sua unicità

Prologo. Prima di iniziare la lettura consiglio una veloce verifica: collegatevi al sito tiii.me digitate il nome e il numero di stagioni delle ultime serie tv che avete visto, ad esempio quest’anno. Pochi secondi e scoprirete (non preoccupatevi mi raccomando) quanto tempo avete sottratto al sesso, alla buona tavola e ad una serata con gli amici (a meno che non facciate queste mentre guardate House of Cards, in questo caso siete degli eroi). Ma ci credo poco. Nel mio caso per le sole 6 stagioni di The Walking Dead ho passato davanti alla televisione più di due giorni. Moltiplichiamo per una dozzina di serie e avrete voglia di bere qualcosa di forte. Le serie tv creano dipendenza, è certificato.

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Netflix


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Dal 22 ottobre sbarca in Italia Netflix. Arriva in un panorama assai complesso e variegato, in Italia ci sono già tante realtà che offrono contenuti video (dai film alla serialità) a pagamento: Mediaset Infinity, Mubi, Skyonline, Timvision. Poi c’è chi permette il noleggio o l’acquisto di film o serie tv che si possono poi vedere sul PC o Mac: AnicaONDEmand, Chili, Google Play, ITunes, Infinity, MyMovieslive, Own Air, Premium Play, Sky on demand, Timvision, Wauki.tv, e XboxVideo. Poi ci sono anche i canali dedicati alle serie tv (in base al genere) disponibili nella programmazione delle piattaforme Mediaset e Sky che offrono prodotti in prima nazionale o mondiale. Un mosaico in cui il margine di manovra per un nuovo soggetto non è molto ampio. Ma quelli di Netflix sembrano avere le idee chiara. L’azienda americana nata nel 1997 per noleggiare dvd e videogiochi e poi passata dopo dieci anni allo streaming on demand con vari abbonamenti (senza le interruzioni pubblicitarie e con la doppia lingua come quelli che propone per l’Italia), oggi è una delle realtà più importanti in USA con 50 milioni di abbonati. Oltre ad essere diventata anche una società di produzioni (particolare non da poco che vedremo in seguito) con House of Cards, Orange Is the New Black, Lilyhammer. L’offerta di Netflix in Italia comprenderà serie originali, tra le quali alcune legate all’accordo con la Marvel (Daredevil), Sense8 (creata da Andy and Lana Wachowski), Grace and Frankie (dai produttori di Friends), Unbreakable Kimmy Schmidt (Tina Fey), e Narcos (firmato da José Padilha di Tropa de elite), documentari come Virunga e Mission Blue, prodotti a metà strada tra fiction e documentario come

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CUORE SELVAGGIO Chef’s Table, oltre al primo film "made in Netflix", Beasts of No Nation presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Per la ciliegina sulla torta del suo lancio italiano, Netflix ha puntato in alto annunciando la produzione della serie tv Suburra tratta dal film ora in sala di Stefano Sollima. Niente male per un network debuttante sul mercato italiano. Ma… Dicevamo che il mercato delle pay tv e dello streaming a pagamento nel nostro Paese è molto complesso. Una recente ricerca pubblicata su "BusinessInsider" dedicata al mercato televisivo americano evidenzia come nei primi tre mesi del 2015 gli statunitensi che hanno optato per la tv via cavo sono diminuiti rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Chi invece ha scelto la tv via streaming (che negli Usa significa Netflix, Amazon o Hulu) sono aumentati. Ma quello che sorprende dell’indagine è la nuova tendenza di chi acquista o affitta una casa, la prima richiesta è non più la tv via cavo ma un collegamento al web veloce. Ma si sa, l’America è anni avanti e internet è anni luce più veloce rispetto all’Italia. Secondo i dati Audiweb, a giugno 2015 risultano 41,1 milioni gli italiani che dichiarano di accedere a internet da qualsiasi luogo e strumento, l’85,5% della popolazione italiana tra gli 11 e i 74 anni. La diffusione dell’online in Italia continua

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a crescere in misura maggiore per la disponibilità di accesso tramite dispositivi mobili. Sono 30,6 milioni gli italiani (11-74 anni) che dichiarano di accedere a internet da smartphone (+19,5% in un anno) e 11,6 milioni da tablet (+27,4%). Entrando nel mondo dei contenuti (quello che ci interessa) ci vengono in aiuto i dati del report "Tv and Media 2015" di Ericsson: è evidente come in pochi anni nel mondo ci sia stato un salto enorme verso la fruizione delle serie tv e dei film on demand: 6 ore alla settimana nel 2015 rispetto alle 2,9 ore nel 2011; solo il 60% del pubblico giovane tra i 16-34 anni continua a vedere la tv tradizionale, il 53% dei contenuti multimediali viene guardato sullo smartphone, il laptop e il tablet. Interessante il fenomeno del binge viewing, ovvero la visione di più episodi di serie tv o video contemporaneamente, che secondo l’indagine è destinata a diventare il modo più diffuso di fruizione dei contenuti. Ultimo dato interessante è quello che afferma chi non ha mai avuto un abbonamento alla pay tv: per uno su due questa forma di visione è sia troppo limitativa che costosa e piena di pubblicità. Oggi è possibile portare il contenuto (serie tv o film) in ogni spazio fisico e virtuale, grazie prima al web e poi ai dispositivi multimediali, siamo di fronte al place shifting che è diventata un’abitudine settimanale per quasi il 36% degli italiani online. Si inizia a vedere l’episodio a casa, si prosegue sul treno o in metro e si finisce per concludere di nuovo a casa. Siamo un mercato potenzialmente enorme ma dove non c’è un’azione strutturale a livello di operatori. Così la sfida di Netflix sembra piuttosto improba. L’eco del suo arrivo sembra aver eccitato molto più la stampa che impaurito i potenziali concorrenti (rumors parlano già di probabili accordi con i colossi nostrani) non particolarmente Video

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infastiditi dallo sbarco del network ameCosa offre Netflix? ricano. Vedremo come andrà a finire. La carta vincente di Netflix è però la sua uniNetflix offrirà vari tipi di abbonamencità: essere diventato creatore, produtto: un piano base, con una sessione tore e distributore del proprio prodotto di streaming alla volta e una quacinematografico. L’esempio emblematilità di definizione standard a 7,99 co di questa unicità è, come accennavo euro al mese, una formula standard, qualche riga fa, Beasts of No Nation. Cacon due sessioni contemporanee e pofila di un nuovo sistema alternativo a poi l’alta definizione a 9,99 euro al quello delle grandi major hollywoodiane, mese e un piano Premium, che contanto che il film non dovrebbe uscire in sentirà quattro sessioni di streaming sala ma direttamente su Netflix. Questa alla volta e la visione in Ultra HD 4K è la strada che sta tracciando il network a 11,99. Ci sono diversi modi per e sembrano voler seguire anche altri, ad vedere Netflix: da Smart tv, tablet e esempio Google. Il numero di settemsmartphone, computer e da una sebre di Entertainement Weekly è dedicato rie di console per videogiochi e infiesclusivamente alle serie tv e alle nuove ne anche dall’Apple tv e da Google proposte autunnali: una raccolta di 115 Chromecast. Tim Vision e Vodafone titoli. Un mare di nuove storie, alcune dovrebbero essere i primi operatori saranno proposte anche da Netflix, che telefonici che includeranno nei loro segnano il passo rispetto ad una tendenpacchetti anche l'abbonamento a za ormai definita. Non si può escludere Netflix, mentre i neofiti dovrebbero dalla riflessione critica sul cinema o quelavere la possibilità di abbonarsi in la programmatica dei festival (per quealcune delle catene più conosciute di sto prima ho usato cinematografico acelettrodomestici. Scelta molto intellicostandolo alla serialità) il mondo delle gente per reclutare nuovi spettatori/ serie tv. Non è una scrittura "minore" né clienti. tantomeno un sotto-genere, lo dicono i numeri, la fruizione senza confini (anche quelle non propriamente legali) e la qualità di molte storie (True Detective, Fargo o The Knick non sono stati forse tra le cose migliori viste la scorsa stagione?). La serialità è il nuovo romanzo contemporaneo, lo sottolineano continuamente molti osservatori. Con anni di ritardo anche l’Italia, 1992 e Gomorra – La serie, ha dimostrato che si può esplorare il presente con una drammaturgia nuova e popolare. Lo spettatore 2.0 sembra essere molto più consapevole di questa fluidità tra contenuto e fruizione, uno scambio continuo tra dentro e fuori lo schermo. Sempre più ossessionato da una bulimia dello sguardo che certamente non lo risparmia da lunghe maratone notturne o dall’inseguire l’ultima premier. È possibile che ‘per colpa’ delle serie tv staremo sempre di più davanti un (piccolo) schermo digitale e meno dentro la (grande) sala cinematografica, non sarà più l’uscita in sala a rivelarci la prossima illuminazione. Ma forse questo sta già accadendo, anche ora mentre finisco di scrivere questo pezzo sull’iMac, con la tv accesa in sottofondo su una replica di Wallander e le notifiche twitter sull’iPad.



Metamorfosi di un mangiatore di film di guglielmo siniscalchi

Siamo sicuri che la forma cinematografica “sperimentata” in via esclusiva fino a qualche tempo fa sia la migliore possibile? Siamo certi che la “fine” del cinema in sala non sia una tappa cruciale vero un’ipotetica liberazione dell’occhio filmico?

In un meraviglioso e celebre saggio di molti anni fa – siamo nel 1978… – intitolato Confessioni di un mangiatore di film di provincia, Enzo Ungari esplora in chiave rigorosamente autobiografica l’esperienza della visione cinematografica mescolando, quasi fossimo in un goethiano Bildungsroman, sensazioni intime, squarci di pellicola, pulsioni fisiche, vertigini sensoriali, impressioni “private” e questioni “pubbliche”. Ma, al di là delle tante suggestioni offerte dalla geniale penna di Ungari, in queste pagine affiora con forza l’immagine di un cinema che si declina in un’esperienza radicata in spazi e tempi ben definiti: la sala con le sue tende scure ed il suo pubblico/massa, la durata continua della proiezione, il gioco di ombre e luce fra lo schermo e l’occhio dello spettatore. Coordinate “geografiche” che “squadrano” un’esperienza comunitaria sempre capace poi di “scorticare” la pelle del singolo, di costruire una “coscienza spettatoriale” sospesa fra desideri personali ed immaginario collettivo. Ma cosa è rimasto ancora di quest’esperienza catartica e “misteriosa”? Con la continua “smaterializzazione” delle immagini filmiche, possiamo ancora parlare di visioni cinematografiche? Oggi, che è possibile scaricare continuamente film dalla rete e che sono mutati anche tempi e spazi della fruizione televisiva, cosa intendiamo quando diciamo che vogliamo “guardare un film”? Si tratta di domande pienamente legittime che, probabilmente, allungano ombre sinistre sul futuro della settima

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Contro il cinematografo


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arte, almeno nelle forme cui siamo abituati a concepirla. Anche se poi un’altra domanda si affaccia, forse ancora più inquietante e meno consolatoria: Ma siamo poi così sicuri che la forma cinematografica “sperimentata” in via esclusiva fino a qualche tempo fa sia la migliore possibile? Sia bene inteso, qui non mi rivolgo alla qualità delle immagini, ma a tutte le condizioni che rendono possibile una visione, agli elementi costitutivi di ogni “esperienza” filmica (la sala, lo schermo, il pubblico, l’unità spazio-temporale della visione…). E allora: siamo certi che la “fine” del cinema in sala non sia una tappa cruciale vero un’ipotetica liberazione dell’occhio filmico? Per rispondere dobbiamo fare qualche passo indietro. Nel “monumentale” saggio Suspensions of Perception. Attention, Spectacle, and Modern Culture [1999], un attento teorico dell’archeologia e della genealogia delle arti visive come Jonathan Crary ricostruisce l’evoluzione delle “tecnologie” della visione a cavallo fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo. Investigando lungo il percorso che ha visto l’invenzione delle grandi esposizioni universali, la creazione dei primi spazi destinati alla visione pubblica di immagini come i “Kaiserpanorama” o il “Théâtre optique” di Reynaud, Crary mostra al lettore come l’evoluzione di tecniche, tecnologie e pratiche dello sguardo, modifichi i meccanismi percettivi dello spettatore, lo sguardo e l’attenzione rivolta alle parole ed alle cose, “costruendo” nuove identità individuali ed inattesi luoghi (ordini?) sociali. Se da un lato vediamo che le nuove forme percettive liberano l’occhio e la fantasia del soggetto, dall’altro non dobbiamo dimenticare che queste tecnologie dello sguardo finiranno presto per “normalizzare” e “standardizzare” l’attenzione, trasformandosi in potenti dispositivi istituzionali e disciplinari. A questo punto una domanda nasce spontanea: E se anche il cinema, così come lo abbiamo praticato, non fosse altro che uno strumento per “liberare” l’occhio “imprigionando” il corpo dello spettatore? Se anche l’”esperienza” cinematografica non fosse nient’altro che un “dispositivo” dove la forza delle immagini ha sempre lottato con le “cornici” sociali dello schermo e le “costrizioni” fisiche della sala? Non dobbiamo dimenticare che l’”andare al cinema” è anche una pratica sociale, che le sale sono luoghi e spazi “codificati”, che guardare un film è, anche e soprattutto, condividere un’esperienza sensoriale rigorosamente “disciplinata”: il cinema come “esperienza”, e non come oggetto d’indagine dei critici o degli studiosi, è un fatto complesso che chiede la presenza di precise architetture, di reticoli e pe-

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rimetri dell’occhio oltre la cornice dello schermo; è un meccanismo percettivo che norma(lizza) la postura dei corpi, allineando, “squadrando” e misurando le distanze dello sguardo; che, e Ungari lo dice molto bene, in alcuni casi è anche prezioso spazio sociale – dalle “vecchie” sale di provincia ai cineclub fino ai moderni multiplex e multisala… – dove si “incrociano” regole ed abitudini, stereotipi dell’occhio e modelli di comportamento. Ma la regola dei corpi costituisce anche l’ordine degli sguardi: la visione temporalmente scandita di sequenze perfettamente incastrate nello spazio della sala e nel tempo della visione dice di altri sche(r)mi, di altre norme, più o meno esplicite, di altri dispositivi ottici e sonori sempre pronti ad “addomesticare” le nostre percezioni, anche quelle più intime e pulsionali. Il tempo della sala, la cornice dello schermo, la comunità del pubblico, il ritmo della visione continua ma definita di ogni singolo film, costituiscono, nel bene e nel male, una macchina sensoriale che ha segnato indelebilmente la “coscienza spettatoriale”


CUORE SELVAGGIO del secolo scorso. Ecco perché la crisi di questo grande modello non deve suscitare alcun sentimento nostalgico, nessuna mesta malinconia, ma solo il desiderio di assecondare la metamorfosi dello sguardo, lasciando che anche il corpo dello spettatore si senta finalmente slegato da qualsivoglia vincolo o norma spaziale, mentre il tempo della visione si può finalmente dilatare oltre ogni limite. Con le nuove forme di servizi “on demand”, con la possibilità di scaricare qualsiasi contenuto visivo quasi illimitatamente, ma anche con la “compressione” temporale di intere serie tv che possono essere viste senza alcuna soluzione di continuità, l’impressione che si riceve è di essere immersi in un lungo flusso di “materia e memoria” dal sapore quasi bergsoniano dove non è più il film a rivivere nella coscienza oltre lo schermo, ma è la mente a divenire un lungo ed ininterrotto patchwork pulsionale di sequenze. La deleuziana affermazione “il cervello è lo schermo” oggi trova nuove declinazioni semantiche, inediti orizzonti da attraversare ed esplorare seguendo la rotta dell’evoluzione tecnologica. Certo, il rischio è che ogni tecnica riproduca il suo “ordine” – percettivo e sociale – e che dunque anche forme di liberazione – Crary docet… – si trasformino in gabbie repressive, ma per ora non resta che assaporare il gusto di questa visione “eterna”, “solipsistica” ma non individuale, lontana dall’ipocrita comunitarismo della sala ma sempre pronta ad inventare altre “forme di vita” strette dal solo piacere dell’occhio. Immagini come pulsioni e desideri così “puri” da essere intimamente “politici” che, forse, entusiasmerebbero, e non poco, anche il favoloso “mangiatore di film” di Enzo Ungari.

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di leonardo lardieri

Cosa avviene quando un film esce dal suo ambiente proprio, la sala oscura, ed entra in uno spazio che non è suo? Che spazio viene costruendo? E in che senso questo spazio è ancora cinematografico?

Cos’è, o meglio, cos’è stato lo schermo cinematografico? Uno schermo opaco o empatico? Una volta si diceva che l’analista avrebbe dovuto operare come uno “schermo opaco”, cioè mantenere una posizione di anonimato e neutralità così da permettere al paziente di sviluppare e proiettare liberamente il proprio transfert. Col tempo, invece, ci si è convinti di quanto fosse importante funzionare come uno schermo rispettoso ma tutt’altro che opaco, anzi capace di rispecchiare il paziente e di mettersi in relazione con la sua memoria e il suo mondo affettivo, transferale o meno. Allora, lo schermo cinematografico ieri non saprei, ma oggi è, in tutte le sue forme ed applicazioni, un nuovo modello di percezione: la “simulazione incarnata”. Come incorporati nello schermo. Si può oggi instaurare una relazione di tipo diretto e non linguistico con lo spazio, gli oggetti, le azioni, le emozioni e le sensazioni altrui, per il tramite dell’attivazione di rappresentazioni sensori-motorie e viscero-motorie nel cervello dell’osservatore. Questo stesso meccanismo è coinvolto in modo significativo anche nella generazione delle capacità immaginative umane. La simulazione incarnata è la nuova frontiera neuroscientifica, trattasi di un meccanismo basilare del sistema cervello-corpo per cui quando vediamo, sentiamo, condividiamo e comprendiamo l’espressione delle emozioni e delle sensazioni degli altri, tendiamo a riutilizzare gli stessi circuiti neurali su cui si basa la nostra esperienza agentiva, emozionale e sensoriale del mondo. Un processo di natura non metarappresentazionale, ancora più

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La scomparsa del buio


CUORE SELVAGGIO comprensibile se facciamo riferimento all’incorporeità come fonte primaria, anche se certo non unica, di sintonizzazione e comprensione degli altri. Le strutture nervose coinvolte nell’esecuzione attiva di azioni o nell’esperienza soggettiva di sensazioni ed emozioni sono le stesse che si attivano anche quando tali azioni, emozioni e sensazioni sono riconosciute negli altri e anche quando sono raffigurate in immagini. Lo spettatore oggi, più di ieri, deve ingaggiare un vero e proprio corpo a corpo, non solo metaforico, con la situazione narrata, facendo ricorso alle proprie memorie e ai propri consolidati modi di relazione con le cose e con gli altri, perché come nella vita reale non si sa come andrà a finire. Ho provato a guardare sul mio tablet alcune scene chiave della storia del cinema. La tensione totalmente pre-riflessiva della scena in cui Alicia, in Notorious, deve sottrarre le chiavi della cantina, e la macchina da presa accompagna il mio sguardo in un gioco di suspense, falsi indizi e conflitti cognitivi; la corporeità perturbante della presenza che, grazie all’ausilio della Steadicam, sembra incedere con passo lieve dietro al piccolo Danny, in Shining; il tocco, metaforico e visivo, della mano protesa nell’incipit di Persona, capace di attivare una risonanza tattile tale da distogliermi dal mio intimistico, in quanto esterno, ruolo di semplice spettatore… Antonin Artaud scriveva: “la pelle umana delle cose, il derma della realtà, ecco con che cosa gioca anzitutto il cinema”. Dove pelle sta per corpo, ovvero engagement motorio del nostro sistema cervello-corpo. È ora di tracciare una genealogia alternativa dello schermo, di non limitarsi più a concepirlo come una finestra o uno specchio nel buio. Gli schermi sono un’architettura mobile in cui gli spettatori sono impegnati e partecipano a costruire ambienti di intimità pubblica. Gli schermi sono formazioni spaziali

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relazionali. Ma cosa succede quando ciò che interviene è uno schermo cinematografico? Cosa avviene quando un film esce dal suo ambiente proprio, la sala oscura, ed entra in uno spazio che non è suo? Che spazio viene costruendo? E in che senso questo spazio è ancora cinematografico? Prima variabile: somiglianza del nuovo ambiente rispetto alla sala oscura. Ci si dovrebbe interrogare sul tipo di legami sociali che il cinema ha saputo creare; evidenziare alcuni aspetti, come la vicinanza di sconosciuti; i contrasti tra dimensione pubblica e privata o tra senso dell’intimità e della collettività; provare ad allineare questa socialità con i ritmi e le routine proprie della vita urbana; ridisegnare e rilanciare l’idea dell’essere insieme che il cinema ha cominciato a delineare. Seconda variabile: proporzioni degli ambienti. Dal kinetoscopio al cinématographe dei Lumiére, ancora oggi la storia si ripete. Lo spettatore, che aveva potuto dominare e manipolare il giocattolo ottico, controllando la velocità e il ritmo del loro movimento, diventa a sua volta dominato, travolto ed espropriato da un’immagine che sembrava essersi liberata dall’obbligo della dimensione. Poi, arriva anche il primo piano, e scatta il senso di minaccia e smarrimento… la “gulliverizzazione” è favorita dall’attuale varietà e diffusione della fruizione. Ci confrontiamo sempre più spesso con qualcosa o qualcuno che è estremamente più piccolo o estremamente più grande di noi. Ci battiamo ora con nani, ora con ciclopi. I piccoli schermi sono lo spa-


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zio del controllo, i grandi schermi sono lo spazio dello spettacolo, lo spazio della magnificenza. Il cinema-cinema sarebbe apparentemente su questo secondo lato: ma non dimentichiamo che esso ha anche sempre alimentato pulsioni mirate a tenere sotto controllo il mondo. La sortie des usines dei Lumière (1895) è insieme lo spettacolo di una fabbrica efficiente e l’occhiata di una camera di sorveglianza. Terza variabile: la risonanza che definisce lo spazio cinematografico. Il salotto di casa mia può diventare una piccola sala cinematografica, ma continua a restare anche uno spazio domestico. Di qui una sorta di eco "I nuovi spazi della visione non sono, né che continua a risuonare. L’irruzione del cinema a casa, porta a una sorta di estepossono essere più spazi dedicati. Essi si tizzazione della casa stessa. I dispositivi aprono al cinema, ma di volta in volta..." tecnologici sono esibiti, il risultato è una visione unitaria della “bella vita” che perpetua le immagini di classe esistenti pur continuando a definire la raffinata sensibilità di classe come la più desiderabile. È la forma a dominare sul contenuto. I nuovi spazi della visione non sono, né possono essere più spazi “dedicati”. Essi si aprono al cinema, ma di volta in volta, e mai proprio del tutto. Il cinema allarga il suo raggio d’azione, guadagna spazio, ma perde il suo ambiente. Diventa qualcosa in cui ci imbattiamo, qualcosa che ci troviamo a scoprire. In questo senso, dopo essere stato un’istituzione, esso si presenta sempre più, o torna ad essere, come alle sue origini, un’occorrenza. Il cinema ha luogo, accade. È dunque una realtà che incontriamo. Meglio ancora, una realtà che ci viene incontro. Il film ha smesso di essere semplicemente qualcosa da “visitare”. Il cinema preme (o striscia) su di noi per essere accolto, al punto da rischiare qualche volta di assumere un’identità fantasmatica. Lo spettatore non va più al cinema; semmai lo trova sul suo cammino. Una localizzazione di qualcosa che circola, e insieme un venir

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incontro di immagini che nonostante tutto cercano ancora un loro spettatore. Il luogo del cinema oggi è un punto d’incontro tra immagini e spettatori entrambi in transito. Ma se il cinema non ha più l’esclusiva di un modello, continua ancora a funzionare da emblema. In The Walk c’è un continuo tentativo di intercettare delle immagini, di cercare di capirle in rapporto alla situazione, e di definire a chi esse si rivolgono. Zemeckis ci mostra con grande efficacia in cosa consiste oggi il fatto di localizzare delle immagini in transito sul vuoto, per degli spettatori in transito ai piedi delle torri. Sono del resto essi stessi in transito, pronti a trasferirsi su schermi televisivi o del computer, a diventare videogiochi, e farsi immaginario sociale. Emblemi di cosa, oggi, significa vedere “da qualche parte”, o “in qualche luogo”. E in questo senso ritratti di cosa il cinema, in questo contesto, può ancora dire o può ancora insegnare. Fintanto che parliamo di cinema, dovremmo farlo al buio? Si può anche accendere la luce, il cinema rimane tra di noi, rilocandosi fuori dalla sala buia. Per un verso acquista una sottigliezza che gli permette di insinuarsi nelle pieghe del mondo sociale: diventa leggero, accessibile, polimorfo, disponibile, rimanendo tuttavia dentro la sua storia. Per un altro verso il cinema ridefinisce la propria identità: ci chiede di accettare le trasformazioni cui è andato incontro, e anzi di proiettarle all’indietro, sulla sua stessa storia. Insomma ci chiede di accettarlo nelle sue diversità, di accoglierlo nella sua leggerezza e costante reinvenzione. Il cinema è alla ricerca di se stesso: diventare quello che forse non è mai stato fino in fondo, ma che può essere. In piazza, al museo, in sala, sul display, a casa, una storiografia sensibile alle ombre della memoria, a quelle immagini dormienti che irrompono non richieste, come sentinelle spettrali dei nostri pensieri, dovrebbe prestare attenzione al nuovo cinema, punto di riferimento sempre più subliminale, silenzioso punto di con(tatto).


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la sala

Quando diventa un'altra cosa di carlo valeri

Che sta succedendo al pubblico di cinema? Cosa vuole vedere (o rivedere) oggi uno spettatore? E se a essere consegnato all’archivio e alla storia fosse l’atto stesso di andare al cinema?

Il caso Zemeckis Mentre a fine ottobre nelle sale di tutto il mondo usciva The Walk, l’ultimo straordinario film di Robert Zemeckis dedicato all’impresa del funambolo Philippe Petit, che nel 1974 attraversò le Torri Gemelle sospeso su un cavo senza protezione, per un paio di giorni quelle stesse sale celebravano i 30 anni di Ritorno al futuro,

forse l’unica opera di Zemeckis insieme a Chi ha incastrato Roger Rabbit capace di diventare un vero e proprio “classico” del nostro tempo. Ebbene mentre il primo film s’è rivelato un flop immeritato un po’ dappertutto, ma in particolar modo in Italia, il revival di Ritorno al futuro ha fatto registrare un tutto esaurito degno dei migliori tour dei Rolling Stones. Il dato è senza dubbio spiazzante e rac-

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racconta una storia inedita – su Petit c’era stato già il documentario Man on Wire di James Marsh ma non crediamo abbia condizionato particolarmente gli incassi di The Walk – viene snobbato dagli spettatori di oggi, attratti invece dal vedere in sala per la prima volta, ma anche seconda o terza, un classico degli anni ’80, un film che da anni può essere tranquillamente recuperato e visto in dvd, blu-ray o persino su Netflix. Di fatto è come se il pubblico avesse deciso con un pizzico di crudeltà di consegnare prematuramente il cinema di Zemeckis all’archivio, alla celebrazione storica, in barba a qualsiasi smarcamento modernista o autoriale del regista americano (incarnato da The Walk appunto). Che significa andare al cinema? Ma se a essere consegnato all’archivio e alla storia fosse anche l’atto stesso di

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conta bene una certa tendenza del cinema contemporaneo a puntare in modo particolare al passato, a una sorta di nostalgia vintage di cui trasversalmente ci siamo già occupati nel precedente numero del magazine (“Non si esce vivi dagli anni ‘80” scherzavamo, ma neanche troppo). Ci piacerebbe chiedere direttamente a Zemeckis cosa pensi di questa “politica” distributiva. Abbiamo la sensazione che non ne sarebbe così entusiasta. Di certo per il tipo di carriera e per la sua innata attenzione alla sperimentazione non facciamo fatica a credere che avrebbe probabilmente preferito un successo commerciale di The Walk rispetto all’esaltazione cinefila e anche un po’ nerd che ha accompagnato il revival di Ritorno al futuro (sul quale ci siamo peraltro soffermati ampiamente nel citato numero precedente). Il caso Zemeckis è interessante. Ci troviamo davanti al paradosso per cui un film modernissimo, girato in 3D e che


CUORE SELVAGGIO FACES andare al cinema? La frequentazione di una sala cinematografica un tempo aveva connotati popolari e sociali di stampo quasi ecumenico e collettivo, ma oggi sembra un gesto individualistico, esclusivo ed elitario. E questa sensazione pare sposarsi bene con un modello di programmazione che prevede sempre più operazioni di rielaborazione storiografica. A prescindere dall’ episodio di Zemeckis, è da diverso tempo ad esempio che gli anniversari dei film del passato si scoprono improvvisamente eventi mediatici e commerciali irrinunciabili al punto da trainare riedizioni che vengono distribuite su grande schermo con ampio consenso popolare. Che sta succedendo quindi al pubblico di cinema? Cosa vuole vedere (o rivedere) oggi uno spettatore? È cruciale capire

cosa spinge oggi una persona a pagare un biglietto e fruire di un’opera pensata e realizzata per una sala cinematografica e per un pubblico di 20 o 30 anni prima. Forse si tratta semplicemente di misurare l’emozione di quel determinato film per chi nell’anno di uscita non era ancora nato, oppure di rivivere nostalgicamente un’emozione riconnettendosi con la propria infanzia e adolescenza, con la “prima” volta in cui ci si è imbattuti nell'opera in questione. Una cosa è però certa: questo fenomeno è come se attribuisse alla visione in sala una funzione “eccezionale”, molto intima ma allo stesso tempo saltuaria, episodica, lontana dalle logiche di mercato standardizzate. La sala cinematografica di fronte a queste operazioni di ripescaggio – non solo Ritorno al futuro, anche Ghostbusters uscito lo scorso anno, C’era una volta in America e tra qualche mese arriverà il turno di Quei bravi ragazzi di Scorsese, che compirà 25 anni – assume una valenza quasi accademica, simile alla stanza di un museo in cui andare per ricomporre i pezzi di una storia del cinema che la cultura digitale contemporanea, impostata sulla sincronicità orizzontale di clic sempre più rapidi e numerosi, rende forse troppo

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poco intellegibile e romantica.

Anche in Italia iniziano così a proliferare restauri e riedizioni cinematografiche di classici del passato, che paiono soprattutto preoccupati di ricreare un contatto culturale e nazionale molto esplicito con gli spettatori di ieri e di oggi. I casi più recenti riguardano due icone del nostro immaginario come Paolo Villaggio e Massimo Troisi. Se i primi due capitoli di Fantozzi diretti da Luciano Salce hanno visto la loro uscita in sala a ottobre per una settimana a testa in 200 copie per tutto il Paese, il 23 e 24 novembre è toccato a Ricomincio da tre del compianto attore e regista napoletano, anch’esso in 200 copie. “Le sale non hanno battuto ciglio, né avuto alcun dubbio nel proiettare il nostro film” hanno detto Lello Arena e Fulvio Lucisano a proposito della riedizione del film di Troisi, curata dalla Cineteca Nazionale. Gli esercenti fanno i loro

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I nuovi cineclub

calcoli e molto probabilmente ci guadagnano più a proiettare Ricomincio da tre per due giorni, piuttosto che mantenere in cartellone un film americano alla terza settimana, o qualche commedia italiana fatta da attori che vengono dai cabaret. Il cambiamento però per quanto apparentemente innocuo è epocale. Il cinema sta facendo quello che negli anni '70 era il mestiere dei cineclub, esercitano cioè una funzione che non è più soltanto intrattenimento, ma assume contorni intellettuali, vicini all'operazione cinefila, didattica. È (già) un’altra cosa.



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L'era della discussione Ragionando di festival nel nuovo millennio

di pietro masciullo

Che senso ha ancora un festival di cinema in un tempo di costanti mutazioni dell'immagine e della fruizione? Se la forma cambia forse i festival dovrebbero avere il coraggio di sondare ancora di più gli “estremi” della stessa Partiamo dai freddi numeri, anzi, dai compleanni: Venezia 72, Cannes 68, Locarno 68, Berlino 65, tanto per citare i parenti più illustri. Ecco, ragionando sul senso dei “Festival di Cinema” nel nuovo millennio non si può non riflettere su questo mero dato anagrafico: proseguendo solo per qualche rigo la nostra metafora qui si sta discutendo di persone più che adulte, alle soglie della terza età, che fatalmente guardano il mondo al passato o che per lo meno hanno bisogno di una forte scossa memoriale per produrre segni di vita. Oggi. La formula Festival – inaugurata a Venezia nel 1932 all’interno del panorama più generale della Biennale d’Arte Contemporanea e denominata “Esposizione Internazionale d'Arte Cinematografica” – è intimamente legata al Novecento come secolo che fa esplodere su larga scala la rivoluzione spaziale ottocentesca. La grande esposizione universale del sapere in un arco temporale fisso, in un luogo fisico predefinito, organizzato per esercitare la propria flânerie nell’accentuazione progressiva del valore espositivo dell’Arte. Insomma è una formula legata al cinema come figlio più fulgido del secolo scorso, frutto di una formidabile espansione sociale raggiunta in pochissimi anni dall’Occidente all’Oriente: i Tempi Moderni di chapliniana memoria, tanto per avere un’immagine di riferimento. Il cinematografo, allora, con la sua velocissima strutturazione di canoni invade il mondo: dalla codifica dei generi al grande successo popolare di Hollywood, dall’avanguardismo più consapevole allo speri-

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CUORE SELVAGGIO mentalismo più istintivo, in uno spettro di “visioni” che spazia dal film godardiano che deve cambiare il mondo sino al film di serie B che deve strappare due risate in un Drive-in. I Festival, in tutto questo fermento, hanno trovato uno stabile equilibrio facendo da vetrina all’elite di un medium che pur rimanendo fieramente popolare voleva testardamente scalare le gerarchie culturali e affermarsi come Arte per eccellenza del ventesimo secolo. E non è certo un caso che la formula Festival prospererà nella vecchia Europa (il continente del cinema-come-arte) e faticherà molto negli Stati Uniti dell’industria e dello star system (il cinema-come-divertimento). Bene, fine di un necessario preambolo: qual è il senso di tutto questo nel 2015? Inevitabilmente ci si deve scontrare con gli orizzonti mediali, esperienziali, logistici e culturali di un nuovo millennio. Tutti discorsi improntati a un progressivo indebolimento dell’esperienza estetica della sala e a un’accentuazione dell’esperienza interattiva e liquida del fenomeno-cinema. Nel senso che i film oggi non si producono più avendo in mente solo la sala cinematografica, ma sono già “progetti audiovisivi complessi” pensati per lo sfruttamento su diverse piattaforme (Tv on demand, home video, streaming, forse tra non molto anche sui Social…). L’età media degli assidui frequentatori di sale cinematografiche europee è sempre più alta e le giovani generazioni si rifugiano fatalmente nei nuovi dispositivi di visione per la fruizione di fiction di ogni genere e provenienza. Pertanto: a chi parla esattamente un Festival oggi? Solo a nostalgici addetti ai lavori e a una nicchia di giovanissimi cinefili duri e puri? Adieu au langage, definitivamente? Andiamo avanti. Molti analisti, nell’ultimo decennio, si sono trovati d’accordo nell’as-

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sociare la solidità di un Festival alla presenza di un forte Mercato che lo sorreggesse e sotto-sotto ne giustificasse l’esistenza. Un concetto ben configurato dalle viscere del Palais des Festival di Cannes, che ospita un enorme spazio sotterraneo dove brulicano gli affari su migliaia di film sconosciuti ai più. Il Palais è una straordinaria metafora architettonica che crea un’invisibile e necessaria dialettica tra lo scintillio dell’Auditorium Lumière (culla del cinema-come-arte in piena Croisette) e quel “mondo sotterraneo” raggiungibile nel tempo di una brevissima rampa di scale (il cinema-come-mercato dove il tappeto rosso sembra lontanissimo trattando la distribuzione di migliaia di piccole, medie e grandi produzioni da far sopravvivere economicamente). Il prestigio attuale del Festival di Cannes, allora, è frutto del mirato e paziente lavoro decennale di Gilles Jacob – probabilmente il direttore artistico più influente degli ultimi 40 anni – che ha consolidato una tradizione nella strategica sovraesposizione mediatica e in un fortissimo dialogo con il Mercato del cinema. Aumentando esponenzialmente l’appetibilità di una “prima a Cannes” sia sul piano dell’etereo riconoscimento culturale sia su quello del tangibile interesse commerciale. Ma i tanti


CUORE SELVAGGIO quesiti contemporanei sulla rimediazione della formula Festival nel nuovo millennio, è chiaro, si sentiranno molto presto anche lassù. Discorso leggermente diverso si dovrebbe affrontare per la Berlinale o per il Festival di Torino: due esempi di Festival fieramente metropolitani (con le dovute differenze di budget, mercato e appeal mediatico) che trovano la loro linfa innanzitutto nella straordinaria partecipazione delle rispettive città. Cosa che li dispensa, almeno per ora, dal porsi troppi quesiti identitari sull’immediato futuro. Ed è in questo panorama così magmatico che la Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, proprio il Festival più antico del mondo e istitutore del brand culturale, si dimostra paradossalmente più in difficoltà. Limitata innanzitutto dalla sua logistica negli spazi del Lido (troppo difficile da raggiungere per il "grande" pubblico), dalla mancanza di un forte Mercato e dall’incapacità tutta italiana di colmare quel buco così metaforico apertosi come una voragine proprio vicino alla Sala Grande. Il Nuovo Palazzo del Cinema è un progetto ormai abortito da tempo. I film, in tutto questo, “persistono”. Ed è chirurgicamente esatto ciò che scriveva qualche mese fa Alberto Barbera presentando la sua ultima selezione veneziana: “Se la società e il mondo sono diventati liquidi, esplorare le tante terre emerse dopo la grande mutazione significa partire all’esplorazione dell’inedito, ma anche alla riscoperta dell’antico che si presenta sotto nuove vesti. Se è vero che un’intera generazione di cineasti – la punta dell'iceberg di una produzione di massa che per trenta, quarant’anni ha rappresentato il blocco di riferimento per critici, cinefili e spettatori attenti

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– sta venendo meno per raggiunti limiti di età, o blocchi creativi, o crescenti difficoltà di finanziamento, significa che siamo in un momento storico che sta ancora cercando le sue stelle polari per riuscire a orientarsi, mentre l’industria culturale non è già più là dove ancora pensiamo si trovi in base alla nostra limitata capacità di percezione e analisi”. I problemi sono effettivamente questi. C’è però da chiedersi se in un cinema così radicalmente mutato sia ancora possibile concepire la scoperta di “stelle polari” universali che abbiano la forza di parlare al mondo. Insomma scoprire i nuovi Messia – nuovi Fellini, nuovi Coppola, nuovi Tarantino, nuovi Godard o nuovi Kitano – è ancora il problema più urgente? E allora: partiamo dalle poche certez"Un Festival ha bisogno ontologicamente ze sperimentate sul campo. Un Festival di un tempo, di un'attenzione, di un inve(proprio come il cinema) ha bisogno onstimento economico ed emotivo che forse il tologicamente di un tempo, di un’attenzione, di un investimento economico ed nuovo millennio non contempla più" emotivo che forse il nuovo millennio non contempla più in quegli stessi termini (almeno nelle giovanissime generazioni, ragionando sui grossi numeri, quindi sul futuro). Le piattaforme on line come Netflix o l’incredibile successo di certa serialità televisiva via cavo (fruita per lo più in rete…) dimostrano in maniera cristallina come non sia affatto in crisi la domanda di film: sono solo profondamente cambiate le modalità produttive e le piattaforme mediali di riferimento nei consumi culturali. E allora i Festival, in quest’inizio secolo, si difendono dalla tempesta. Organizzano straordinarie e sempre più ricche retrospettive (tematiche o su singoli autori del passato), continui incontri tra registi e pubblico per ricordare il “mestiere del cinema” (nel bene e nel male, prerogativa della giovane e già paludata Festa romana cronicamente alla ricerca di un’identità che ne giustifichi l’esistenza), insomma in-consapevolmente accentuano il valore museale dell’evento nella comprensibile ansia di ricordare al pubblico quelle stelle polari che hanno illuminato 120 anni di storia. I Festival tendono a difendere un canone che è stato il loro DNA per quasi un secolo: grandi autori da celebrare o da scoprire, smoking alla prima e tappeti rossi con grandi star, media tradizionali come cassa di risonanza privilegiata, il tutto per dar conto di come l’Arte cinematografica possa dar forma al mondo. E per gente come il sottoscritto – innamorato da sempre del cinema e dei suoi movimenti, di Hollywood e dei Festival europei, afflitto anche da una leggera nostalgia per il Mito del grande schermo – va ancora benissimo così. Il problema è che un Festival contemporaneo non deve e non può rivolgersi solo a gente come me che non ha certo bisogno di essere persuasa delle sublimi “potenze” del medium cinema. Ecco che la comprensibilissima difesa di un canone produce fatalmente uno scarto (im)previsto: la sensazione tutta festivaliera di trovarci su Marte, come il sopravvissuto di Scott, fuori dal tempo e dallo spazio e in meravigliosa fuga dalla complessità mediale del presente. Una complessità che il cinema “istituzionale” sapeva intercettare e rilanciare infinitamente meglio nel secolo scorso (c’è bisogno di ricordare Truffaut


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e Godard che fondono le istanze del maggio francese con la platea di Cannes o gli Junger Deutscher che rinegoziano la stessa identità tedesca partendo dai cortometraggi di Oberhausen?). È un periodo di confusione, sì, è tutto successo in poco più di quindici anni. Forse è impossibile trovare soluzioni ora, in mezzo a una rivoluzione, come suggerisce il sempre lucidissimo Paul Schrader. La sola cosa da fare (quello che umilmente qui si sta cercando) è sforzarci di porre le giuste domande in attesa di risposte che solo l’immediato futuro potrà fornirci. Cosa ci comunicano, allora, i vincitori degli ultimi grandi Festival internazionali? Nuri Bilge Ceylan, Roy Anderson, e per certi aspetti il grande Jacques Audiard o il sopravvalutato Lorenzo Vigas, sono chiaramente Autori in accezione tradizionale che mal digeriscono questa con-fusione mediale e identitaria in cui il cinema è fatalmente risucchiato. Qual è la soluzione, allora, per evitare la progressiva musealizzazione? Aprire indiscriminatamente la platea di Cannes o Venezia a Serie Tv e Web Series, videoclip virali e mashup, fashionfilm e videogiochi, o magari ai migliori video caricati su YouTube? Non lo so, non credo, non è comunque questo il punto. Il punto è forse iniziare a capire quale ruolo possa ricoprire oggi l’oggetto estetico film prima ancora di dibattere sul futuro dei Festival che storicamente lo espongono. Il film che ha mutato pelle non solo nelle proprie immagini (frutto sempre più di sintesi digitale, perdendo il “corpo-pellicola” che lo ha mosso per 100 anni), ma anche come oggetto culturale (produzione, distribuzione, sfruttamento economico, sempre più in mano ad altri media come Tv e Web) e come campo di sperimentazione e resistenza (sono soprattutto i Paesi in via di sviluppo o dalle precarie condizioni politiche e sociali che propongono oggi una straordinaria sperimentazione linguistica). Biso-

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gna tornare a intercettare il cinema del e nel nuovo millennio, di testarlo sul campo sfuggendo la sterile salvaguardia di un canone che va invece ridiscusso dove c’è vita. Da dove iniziare? Aprire i Festival a spinte anche radicali forse sarebbe un primissimo passo per connettersi meglio al presente. Ridiscutere i prevedibili concorsi dei Festival più tradizionali tentando di renderli appetibili a produzioni come i nuovi Star Wars o 007 che creano una fortissima ed endemica fidelizzazione; aprirli ad avanguardiste serie Tv come The Knick o Sense8 che stanno raccontando il nostro tempo in maniera straordinaria; ospitare il film di 9 ore filippino di Lav Diaz o Kidlat Tahimik insieme all’animazione più illuminata; creare sezioni ad hoc per film girati sui device portatili e per i più bei video-saggi creati dagli studenti in rete, affiancandoli poi alle sperimentazioni liminali di registi iper-indipendenti come Carlo Schirinzi o Martin Boulocq; infine abbattere totalmente la vetusta dicotomia fiction/documentario per dare il giusto spazio alla straordinaria stagione di un “cinema-del-reale” che sta riconfigurando il mondo abbandonando ogni pretesa di oggettività documentaristica e accentuando di molto la ricerca estetica sui linguaggi e sulla dialettica dei supporti. Insomma se è la forma in costante mutamento forse i Festival dovrebbero avere il coraggio di sondare ancora di più gli “estremi” della stessa: dalla Hollywood più Hollywood, quella delle straordinarie e multimilionarie superfici riflettenti, alle periferie più periferie del non visto arrivando sino alle nuove forme di testualità in rete che paradossalmente si rifanno in maniera cristallina alle regole del cinema classico. Ma per far questo si dovrebbero ripensare radicalmente anche le composizioni delle varie giurie, per ora


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dominate dal cinema-come-istituzione che fatalmente farà resistenza a premiare o apprezzare le derive più contemporanee della forma filmica. Per concludere: credo che i Festival manterranno una loro forte identità solo se sapranno coraggiosamente ridiscuterla. E manterranno un ruolo attivo nel dibattito culturale del nuovo millennio solo se da un lato sapranno comprendere sempre più il Mercato (in tutti i sensi) e se dall’altro sapranno accentuare la natura di Laboratorio a cielo aperto per un cinema in divenire che "uscendo" dalla sala trova centralità nello spettatore. Magari conservando i tradizionali luoghi fisici (il Lido, la Croisette, ecc) e i tradizionali tempi (di “esposizione” del sapere) solo come culmine di un’esperienza festivaliera aperta tutto l’anno e consolidata in varie piattaforme mediali sempre connesse al Mondo. Del resto il cinema come l'abbiamo conosciuto nel Novecento forse è stato il meraviglioso primo vagito di un'immagine-in-movimento sempre più libera e mutevole. Ecco allora: solo non avendo resistenze o pregiudizi verso ogni forma di immagine “cinematografica” contemporanea si potrà opporre al meglio la primogenitura che il Cinema giustamente rivendica… e ben vengano rassegne e retrospettive di qualsiasi genere se si avrà il coraggio di immergersi in tal modo nel presente. Primi segnali in questa direzione si potrebbero intravedere nella vittoria di Taxi Teheran a Berlino, nel bel progetto Future Reloaded di Venezia 70, nella commistione radicale dei linguaggi nelle ultime Onde torinesi e tra i registi del presente locarnesi o nella liminale esperienza mulleriana tra gli Orizzonti veneziani e le prime due Cinemaxxi romane. I dubbi e le domande restano tante, la rimediazione sarà lunga e complessa, ma esiste ancora il terreno fertile per essere fiduciosi: non è ancora arrivata l’era dell’estinzione per la straordinaria stagione dei Festival di Cinema. Forse è solo arrivata, urgente e necessaria, l’era di una sana discussione.

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Incoscienza di sergio sozzo

Il subconscio del dormiveglia punk di Julien Temple è stato forse il primo precursore del puzzle folle di banner e player truffaldini che riempiono le pagine dei portali di streaming pirata: bisogna concentrarsi su un punto fermo, mentre le immagini sfuggono da tutte le parti alla stregua delle visioni parallele di Sense8 o delle avventure apolidi del Carlos di Assayas Apparirà chiaro allora come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa della quale non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente. Apparirà chiaro come non si tratti di tracciare un trattino tra passato e futuro, bensì di realizzare i pensieri del passato. Si mostrerà infine come l’umanità non incominci un lavoro nuovo, ma porti a compimento consapevolmente il suo vecchio lavoro – Karl Marx, Lettera a Ruge, settembre 1843

“Fondamentalmente ho fatto questo film stando sdraiato con la testa appoggiata al cuscino, in uno stato tra il sonno e la veglia, in una camera da letto con un soffitto molto alto che permetteva ai miei pensieri di librarsi liberamente facendo associazioni. Dopo lunghe conversazioni con Wilko, ripercorrevo quanto ci eravamo detti lasciando che le immagini che mi tornavano in mente interagissero tra di loro”, racconta Julien Temple spiegando come ha assemblato “molti brani di film classici che raccontano le sensazioni e le emozioni di persone che si trovano ad affrontare il pensiero della morte” per accompagnare gli ultimi mesi di vita del frontman dei Dr Feelgood, Wilco Johnson, a cui aveva già dedicato il meraviglioso Oil City Confidential. “Naturalmente”, sottolinea Temple, “si tratta di opere molto surreali, poetiche, fantasiose, frutto del lavoro di maestri dell’immaginario cinematografico”. The Ecstasy of Wilco Johnson, che il grande cantore del punk porta all’ultimo Torino Film Festival dove è stato invitato a fare il guest director, diventa così la traccia per la selezione di film che Temple presenta sotto la Mole, intitolata “Questioni di vita e di morte” (dentro ci stanno Powell e Pressburger, Jean Cocteau, Bergman, Parajanov, Tarkovsky…). Un’intuizione che sembra riprendere ed espandere in maniera esponenziale la celebre lettura di Pasolini sul pianosequenza. “La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi (e non più ormai modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti), e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro stabile, certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile.” Di questo narrare per “frammenti, lunghissimi o infinitesimali, di tanti piani-sequenza come possibili soggettive infinite”, come scrive Pasolini, Temple è stato campione e

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CUORE SELVAGGIO frequentatore instancabile in tutta la carriera. I suoi film sembrano sempre quel fulmineo montaggio di una vita, fatto al cospetto della morte: nello stesso istante finisce l’intero bagaglio di immagini di un’esistenza, i ricordi, i suoni, gli sprazzi di luce e i frames di sentimento, secondo un procedimento che Temple ricava dall’estetica no future di fine anni ’70 per applicarla allo spartito lanciato a supervelocità dell’intreccio delle sue note distorte – repertorio rubato, spezzoni di pellicole, video, programmi tv, archivio famigliare… la chiave ce la fornisce lo stesso regista quando descrive la situazione in cui è nato il suo nuovo lavoro: stando sdraiato con la testa appoggiata al cuscino, in uno stato tra il sonno e la veglia. Torna alla mente il pluricitato finale di Martin Eden di Jack London: “Ondeggiava languidamente, cullato da un fiotto di visioni dolcissime: colori delicatissimi, una radiosa luce lo avvolgevano, lo penetravano. Che cos'era? Sembrava un faro. Ma no: era nel suo cervello quell'abbagliante luce bianca. Essa luceva sempre più splendida. Seguì un lungo rombo: gli parve di scivolare lungo una china infinita, e in fondo in fondo, sprofondò nel buio. Ebbe quest'ultima sensazione: seppe di sprofondare nel buio. E nel momento stesso in cui lo seppe, cessò di saperlo.”

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Ecco, se è possibile considerare l’intero corpus realizzato da Julien Temple in carriera come la visione di un immaginario costantemente sul punto di morire, di sprofondare nel buio, resta da chiedersi di quale morte muoiano i suoi singoli film, se insomma affrontino ognuno di loro delle dipartite differenti, incastrati come sono in questo strano intermundia tra le dimensioni e le forme. Lo stato di passaggio è concetto-chiave per tutto quel movimento che i compagni di Temple come Rotten o Strummer portavano avanti come reinvenzione del consumo capitalista, dello sguardo colonialista sui prodotti di scarto del mercato culturale e popolare: a quale stadio della rivoluzione ci siamo fermati? Per dirla con Marx, quanta coscienza abbiamo preso del “sogno di una cosa”? Quando guardo un film online attraverso uno dei portali di streaming come cineblog01, cinesuggestions, filmpertutti e pirateria simile, devo compiere un importante atto di concentrazione per svincolarmi tra i banner su come guadagnare milioni di euro in un giorno, le mille finestre di donne svestite e ammiccanti, i finti player a pagamento. La finestrella della mia puntata in satrip con fansubs va individuata proprio lì sotto le decine di deviazioni ingannevoli che mi allontanano dal percorso diretto. Per contro, quello che promette Netflix è uno stato simile a quello di Julien Temple che si vede passare le immagini davanti agli occhi mentre è steso in dormiveglia con la testa sul cuscino: la disponibilità istantanea e “in contemporanea”, affastellata e all’unisono, del pacchetto di visioni del servizio online risponde alla concentrazione necessaria per bazzicare i siti pericolosi con una percezione di dispersione che prevede anche una fruizio-

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CUORE SELVAGGIO ne rilassata, facile, distratta. Il vero aspetto imprescindibile della punta teorica delle produzioni Netflix allo stato attuale, Sense8 dei Wachowski più J. Michael Straczynski, non è allora tanto che tutti e 12 gli episodi li trovi disponibili in blocco in rete (e dunque non esiste un palinsesto che programmi la progressione cronologica della serie in determinati appuntamenti fissi nel tempo), quanto il fatto che puoi letteralmente affrontare gli episodi in qualunque ordine e traiettoria narrativa possa venire fuori da un approccio puramente casuale, cabalistico. Tale è il grado zero e punto di non ritorno della narrazione televisiva di nuova generazione che attua questa sorta di zapping continuo a centrifuga supersonica tra arti marziali orientali, action hollywoodiano, musical di Bollywood, finti set e vere location sparse in otto punti diversi del pianeta, commedia romantica a incastri LGBT e frequenti parentesi hot gioiosamente esplicite e “affollate”. Otto personaggi che vivono in altrettanti angoli della Terra sono legati tra di loro (e all’omicidio misterioso di una donna, Daryl Hannah) da una sorta di telepatia che li trasporta per brevi istanti in una strana dimensione di ubiquità in cui condividono lo stesso spazio e le stesse azioni, per cui è possibile in quei frammenti tirarsi fuori dai guai a vicenda o magari addirittura innamorarsi

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ORNETTE CUORE SELVAGGIO COLEMAN senza essersi mai incontrati nella realtà… è chiaro che quest’esperimento di spalmare l’intuizione di Cloud Atlas sul racconto a puntate sia soprattutto una profezia lucidissima e avanguardista sulla fruizione geneticamente modificata dello storytelling popolare della contemporaneità, disordinato, affastellato, offerto istantaneamente a tutti e dunque ricomponibile a piacimento da ogni spettatore/utente davanti all’assoluta orizzontalità delle traiettorie. Teoria seriale delle stringhe, simile per certi versi alle eccentricità di Zack Snyder. Il rifiuto radicale dello sviluppo verticale da parte dei Wachowski ricade sui singoli archi narrativi dello script, che sembrano altrettanti archetipi di genere svuotati da qualunque urgenza in modo da diventare perfetti contenitori di riferimenti (vedi il pullmino Van Damn decorato sul cofano e sulle fiancate con graffiti degli occhi e del leggendario calcio volante di Jean-Claude…), in cui lasciar improvvisare gli strumenti solisti della fotografia del pluriOscar John Toll e delle regie affidate ai soliti complici Tom Tykwer, James McTeigue, Dan Glass (quest’ultimo “promosso” dal comparto degli effetti visivi di cui è solitamente responsabile per i progetti dei fratelli). Where do you send the poem? viene da chiedersi come fa William Parker nella sua ultima opera totale, For those who are, still (realizzata con un sassofonista danese, un griot senegalese, una cantante classica indiana e, come dicono le liner notes, “resa possibile dalla location centrale di registrazione a Parigi”…), e lo spettatore potrebbe provare la stessa sensazione del Carlos di Olivier Assayas, eroe punk in puro stile Julien Temple, apolide contro la sua volontà, rifiutato da tutti e in stallo nei cieli a bordo del suo aereo dirottato nella seconda puntata della miniserie di Canal+. Rubo la suggestione a una conversazione avvenuta con Carlo Valeri il 14 novembre scorso: l’urgenza della miniserie di Assayas ritorna oggi sia con tutto il suo peso geopolitico e militante, che come magnifica premonizione da parte del critico-cineasta nei confronti dei metodi di fruizione dello spettacolo e dello spettatore televisivi. Ormai ridotto da militante armato a mercenario al soldo del miglior offerente fuorilegge, politico o meno, Carlos inizia infatti nella sezione finale dell’opera a vagare a vuoto e sempre più affaticato per tutto il Mondo, cercando di racimolare incarichi e denaro. È

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l’incredibile e disperato zapping (un altro…) di un personaggio che non ha più alcuna reale motivazione ideologica, ma cerca soltanto un nuovo canale che possa catturare la sua attenzione. Come uno spettatore o un phubber da social network il cui senso morale sia stato ormai annullato dall’affastellarsi delle immagini mediatiche, che passa veloce il dito sui tasti del telecomando o sul display dello smartphone senza che il messaggio di quello che vede possa risvegliarlo dalla noia: alla stregua degli oggetti della casa della madre defunta di L’heure d’eté, svuotati da ogni valenza affettiva e messi freddamente all’asta, ogni appartenenza è irrimediabilmente perduta. La velocità delle immagini ha finito per fagocitare Carlos: una volta uscito dal flusso, il combattente stremato si ferma e non è più perduto, o disperso. E questa diventa la sua condanna – essere mappabile, riconoscere infine lo spazio che si occupa come quello definitivo: è lo slancio che guida la tracciabilità impazzita dei personaggi di Sense8, e il ritratto esploso di Wilco Johnson che Temple innalza attraverso immagini di altre morti, altre scomparse. Davanti allo scibile universale virtualmente raggiungibile attraverso una connessione domestica, la tentazione è quella di sentirsi in grado di travasare l’oceano con un secchiello dentro il pozzo scavato nella sabbia come nel famoso exemplum agostiniano – impresa equivalente quasi a racchiudere la storia del cinema in un computer. Maledizione dello streaming: nel momento stesso in cui lo seppe, cessò di saperlo. Come chiede al santo il bambino/angelo in spiaggia, Augustine, Augustine, quid quaeris? Putasne brevi immittere vasculo mare totum?



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Le luci e le ombre della 72ª edizione nel racconto dei nostri inviati

Il pieno e il vuoto Diversi frammenti, anche sorprendenti dal 72° Festival di Venezia. Innanzitutto la forza del cinema statunitense, presente al Lido come nelle sue annate migliori. Dal robusto e intenso Spotlight di uno dei cineasti che sembrano arrivare dai Seventies, Thomas McCarthy, un ci-

nema dentro la notizia, da un’inchiesta del Boston Globe sullo scandalo dei preti pedofili che a partire dal 2002 portò a un terremoto all’interno della Chiesa cattolica, al noir criminale di Black Mass di Scott Cooper (ancora dentro Boston), ascesa e caduta di un "nemico pubblico", con il make-up di Johnny Depp, gli occhi che trasformano il suo corpo fino a

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L'istituzione


VENEZIA 72 renderlo un nuovo Lucifero. Per arrivare alle vertigini sensoriali 3D di Everest di Baltasar Kormákur, cinema fisico in cui si sentono il freddo sul corpo, gli abissi delle profondità in cui la tragica grande scalata del 1996 smembra tutte le possibile tracce documentarie per spostarsi sulle zone di un blockbuster all’ultimo respiro, dalla parte però più di altri grandi sogni soggettivi che in quelle della ricostruzione dell’evento. Dal concorso poi c’è il viaggio nella Storia e nell’arte in uno dei migliori Sokurov di sempre, Francofonia, spogliato di ogni sospetto e residuo di intellettualismo, nella cornice dell’assedio dell’occupazione tedesca in Francia, dove però le immagini, e quindi l’arte, quindi ciò che resta del pensiero e della creazione oltre la vita, diventano il continuo testamento di un cinema in

cui il filmare diventa l’unico ponte attraverso i decenni della Storia. Poi ancora, clamorosamente ignorato dai premi ma ormai sembra essere quasi un marchio positivo, il potentissimo fantasy di Marco Bellocchio, Sangue del mio sangue. Voci dal profondo sotto uno sfondo che sembra continuamente nero e rosso. L’ombra e il sangue. Ancora un testamento della memoria nel presente. Un cinema senza tempo. Che potrebbe danzare tra Terence Fisher e Mario Bava fino ad arrivare a una sorta di fantascienza sepolcrale. La stessa, con le sue tracce di rosso che appaiono come dissolvenze, in Behemot di Zhao Liang, documentario sulle miniere della Cina e della Mongolia, forse ossessivo forse lirico fino alla rivelazione della città fantasma. Il pieno e il vuoto di quel cinema che i festival devono scoprire e lanciare. Che poi la giuria abbia ignorato anche questo è un altro discorso. (Simone Emiliani) Perdersi e ritrovarsi Il piacere di perdersi. È quello che di solito chiedo a un festival, la possibilità di intrecciare percorsi che non siano tanto

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veicolati dalle scelte dei selezionatori, ma che, all'interno del perimetro descritto dalle stesse, permetta di tracciare sentieri (selvaggi...) interessanti. La Mostra di Venezia 2015 ha un po' faticato a offrire questo, incanalando molto lo sguardo di chi assisteva alle proiezioni nei percorsi strutturati dalle sezioni e in scelte che a volte sembravano non permettersi quel detour nella trasfigurazione dal reale all'irreale. Con le dovute eccezioni: penso al trasporto degli amanti di Equals, capaci di illuminare un film altrimenti stretto fra le formule della fantascienza distopica e del filone young adult; o alla soave leggerezza di Lolo, sul desiderio d'amore di una Julie Delpy ultraquarantenne alle prese con un figlio che non vuole altra gente per casa... forse in tanto realismo è stato proprio il corpo a ritrovarsi, a descrivere possibili geografie del sentire il mondo in quanto reticolo di emozioni. Può avvenire in modo lieve, come in Montanha, o feroce e violento, come in Visaaranai (Interrogation), o ancora come unica traccia cui aggrapparsi mentre il mondo finge e complotta: si pensi

a Arianna o ancora A Copy of My Mind – film imperfetto e che, al pari di Equals, non convince la mente ma continua a scavarti nel cuore, forse anche per quel sincero amore di genere che sopravanza la propria ingenuità. Certo, poi, ci sono quei casi straordinari in cui l'esplosione emotiva finisce per contaminare l'immagine e l'immaginario e l'intera pellicola risuona di una forza panica non comune, come in 11 Minutes, Behemot o nel grandissimo Gaudino di Per amor vostro. L'equilibrio fra questo perdersi e ritrovarsi è forse stabilito più di tutti da Non essere cattivo di Caligari: il riappropriarsi di un immaginario da parte di un autore perduto diventa la naturale trasfigurazione di uno sguardo (da spettatore) che si lascia andare in un mondo che credeva di conoscere (dal versante cinematografico) e che invece lo lascia ancora a bocca aperta. (Davide Di Giorgio) Per non essere cattivi Sembra quasi che tutte le volte si debba assumere una presa di posizione netta,

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pro o contro la Mostra di Venezia. Come se i film non bastassero (più) a rappresentare quei dieci giorni al Lido: perché è colpa di Alberto Barbera, della selezione, della concorrenza più o meno schiacciante degli altri festival, dei commercianti, dei prezzi e degli affittuari del luogo. Colpa di tutto e di tutti, ma mai di noi stessi, sempre pronti a sparare a zero su una manifestazione cinematografica che rimane, indiscutibilmente, la più importante che abbiamo in Italia. Però, senza ignorare i problemi e alcune dinamiche della gestione Barbera, che continuano a ingranare sempre più faticosamente, quest’anno non è andata poi così male. E allora diciamolo a gran voce, sosteniamo la Mostra e il Cinema, almeno quando il merito effettivamente c’è. Sarà forse perché le aspettative erano basse, dopo un’edizione non esaltante come quella dell’anno scorso; ma resta il fatto che questa volta siamo tornati a casa con

l’animo più leggero, se non addirittura soddisfatto. Non sono mancate le delusioni, certo, così come alcune scelte di selezione che continuano a farci storcere il naso (per non parlare del palmarès, ma quello è tutto un altro discorso): soprattutto alcune sezioni collaterali, che in passato avevano contribuito non poco a salvare il bilancio complessivo, questa volta si sono rivelate scricchiolanti e poco incisive – con alcune notevolissime eccezioni. Eppure, ancora una volta, il buon

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cinema è salvo: il concorso ha registrato una medietà generale tendente verso l’alto, e fa piacere constatare come siano stati gli italiani, per una volta, a mettere d’accordo quasi tutti. Merito soprattutto degli straordinari Bellocchio e Gaudino, autentici pezzi da novanta della selezione, prevedibilmente ignorati dalla giuria ufficiale. E poi, fuori concorso, Non essere cattivo di Claudio Caligari, forse il film evento di tutta la mostra. Ora che il suo regista non c’è più, è stata una gara a chi ne parlava in termini più entusiastici, ma pazienza, in fin dei conti fa parte delle regole del gioco: al di là della tristezza per la natura postuma dell’opera, il film è certamente uno dei titoli che più hanno segnato la mente e il cuore durante le lunghe maratone veneziane. Un solo grande rammarico: che il maestoso Behemoth (Beixi Moshuo) di Zhao Liang non sia stato minimamente considerato tra i vincitori, a vantaggio invece di un cinema certamente più ammiccante (Kaufman, soprattutto), quando non addirittura cinico (il dubbio leone d’oro Desde Allà). Anche per questa volta, appuntamento all’anno prossimo. (Giaco-

mo Calzoni) Quattro passi tra le nuvole Se l'arrivo a Venezia ogni anno è pieno di incognite... (quanto costerà quest'anno mangiare? I caffè saranno aumentati?) è anche vero che il piacere della visione dovrebbe allentare i timori e spegnere le ansie di natura economica e in un'Italia che tutti dicono in ripresa, ci diciamo... ce la caveremo anche quest'anno, in fondo sono solo dieci giorni. Ma dieci giorni di cinema che riesce ancora a regalarci le belle visioni che ai nostri occhi prendono forme differenti, come accade con le nuvole e ognuno vede il cielo che più gli piace. Ma quest'anno la Mostra ha saputo regalarci qualche memorabile momento di cinema come, forse, non accadeva da anni, per la densità delle cose buone da vedere e delle sorprese. A cominciare dal vituperato cinema italiano e se per sentito dovere bisogna cominciare da chi non c'è più, non si può non ricordare Claudio Caligari con il suo Non essere cattivo, invocazione e de-

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siderio, per un amore autentico per gli emarginati. Un'opera commovente e sincera che merita di essere ricordata come una delle più vere della stagione e forse non soltanto di questa. Caligari ci ha regalato un piccolo prezioso film prima di uscire di scena con il suo carico di umanità. Ma anche Giuseppe Gaudino ci ha impressionato con il suo tentativo, riuscito, di coniugare, ancora una volta, dopo Giro di lune tra terra e mare, cultura alta e cultura bassa, dentro una Napoli pronta ad accoglierle entrambi in uno straordinario melange di cinema e sogno. Se si potesse scomporre diremmo di potere annoverare tra le belle esperienze anche Sangue del mio sangue di Marco Bellocchio. Il film funziona per metà e non è la prima quella da ricordare. Il suo sguardo sul presente ci pare più vero di quello sul passato, innaturale e vago, incerto e didascalico allo stesso tempo. Una delle pecche di L'attesa di Piero Messina è la voglia di primeggiare, di realizzare qual-

cosa di indimenticabile. Con un maggiore understatement il film ne avrebbe giovato, ma nel complesso una prova apprezzabile, con le riserve già dette. Il film che forse più resta nella memoria per caratura estetica, sintesi visionaria e luminosa apertura della narrazione è Behemoth del cinese Zhao Liang. Un cinema colto e concettuale che si diluisce dentro la capacità di guardare alla più estrema marginalità dell'umanità, Liang ricrea con la sua macchina da presa i luoghi, ricuce la terra e sconvolge ogni geografia, ci racconta di un passato mitico attraverso un presente immanente e apocalittico. Un cinema che non rigenera, ma sembra ridefinire i confini della fine del mondo. Uno sguardo al contempo lucido e terrificante sulle origini dell'apocalisse. Una visione altrettanto lucida, con qualche impercettibile caduta di toni, ci viene proposta da Aleksandr Sokurov. Il suo Francofonia interviene in un momento cruciale durante il quale più forte

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si sente la fragilità fisica e sensoriale delle arti, forse incapaci di arginare il senso di un mondo fuori controllo. Sokurov affida il suo apologo ad una nave in balia della tempesta, metafora perfino didascalica, ma efficace sulla quale costruire la speranza, con la memoria del passato. Poi c'è il cinema narrativo e qui bisogna lasciar fare agli iraniani quando sono in forma come Vahid Jalilvand in Wednesday, May 9. Il cinema iraniano ha un particolare talento per la narrazione che, come il cromatismo in musica, affastella le note e qui gli avvenimenti. Così anche Jalilvand riesce a restituire un ritratto credibile di un Iran sconosciuto e, soprattutto, lavorare sulla narrazione e i molteplici profili del racconto. Da ricordare il ritorno di Trapero che con El Clan non ha sfigurato nel concorso raccontando un Cile ombroso e privato. Gitai con la sua misurata incursione dentro la storia recente del suo Paese, con un film cronachistico eppure così vivo e pulsante, Cary Fukunaga con Beasts of No Nation, che si cimenta in una storia sporca pur attraverso un cinema spettacolare. Ci sembra che il fenomeno Fukunaga nasca proprio

dalla originale spettacolarità del risultato del suo lavoro. Scandalizzarsi oggi di questo è tardivo e se la storia raccontata si ritiene abbia necessità di un'altra forma narrativa ci si sbaglia due volte. Non è che raccontare le miserie di due poliziotti alla scoperta di un'intricata matassa fatta di sesso e demoniaco sia meno importante di una storia di un bambino

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che diventa uno spietato soldato. Siamo nella fiction e non nella non fiction. Gli equilibri cambiano e anche il grado della visione. Pur con un manierismo che può disturbare non ci sono sembrate banali le prove di Jerzy Skolimowski con 11 Minutes e di Dani de la Torre con El desconoscido. Il primo un perfetto meccanismo ad orologeria e il secondo un'apnea che dura 96 minuti. Due film ipnotici e spettacolari, acchiappapubblico quanto basta e questo crediamo sia il loro intento. Ma su tutti, il cinema di Orson Welles, non ci sarebbe memoria di Venezia 2015 senza Welles. Senza le immagini di Il mercante di Venezia e la perfezione scenica di Otello. Un cinema che vale per sempre e un autore che per sempre sarà ricordato. (Tonino De Pace) Ciò che (mi) resta di Venezia 72 Venezia 72 meritava il beneficio del dub-

bio dopo la personale delusione dell’edizione 2014? A conti fatti credo di sì. Certo qualche perplessità resta soprattutto sulla concezione odierna della formula Festival (quesito che cerco di porre in un altro articolo su questo numero del Magazine e a cui rimando) o sui discutibili premi finali assegnati dalla Giuria presieduta da Alfonso Cuarón. Voglio concentrarmi su altro, però, perché nonostante tutto quella del 2015 è stata una buona selezione. Ricordo nitidamente l’emozione all’uscita dalla sala dopo Francofonia, 11 Minutes e Rabin, the Last Day: tre magnifici film che riconfigurano con straordinaria efficacia la memoria condivisa in archeologia dell’immagine (Sokurov) e il nostro punto di vista frammentario sul presente

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(Skolimowski) o sul passato (Gitai). Le tre vette del Festival, sicuramente, affiancate dal purissimo sguardo etico di Frederick Wiseman che continua ad aprire miracolose finestre sul mondo e dal sorprendente Behemoth del cinese Zhao Liang che fonde fonti documentali e inserti finzionali in un destabilizzante oggetto filmico tutto contemporaneo. Poi ancora le belle sorprese italiane (Caligari e i De Serio su tutti), la conferma di Tom McCarthy come talento puro del giovane cinema americano e il dibattito necessario e serrato sui controversi film di Fukunaga ed Egoyan. Qualcosa, però, è anche mancato. Forse la sana scoperta. Le scommesse più grandi della selezione, i giovani cineasti promossi in concorso, hanno purtroppo

deluso le aspettative (tranne l’interessante Abluka di Alper): il sudafricano Oliver Hermanus (forse il più brutto film del concorso The Endless River), l’australiana Sue Brooks e lo stesso vincitore Lorenzo Vigas propongono sguardi sul mondo (e sul cinema) evidentemente schiacciati dal peso delle loro ambizioni e incapaci di competere anche lontanamente con i “vecchi” Gitai o Skolimowski. Ed è mancato anche un po’ di sano divertimento che contemplasse più spirito ludico “da mezzanotte”, più genere, più linguaggi a 360 gradi. Quel divertimento-del-cinema un po’ ingessato nel manifesto impegno di troppe opere dal chiaro canone autoriale. Ecco perché L’Hermine mi è subito apparso un raggio di sole, di eterea leggerezza, che ancora non si spegne nella memoria. Proprio come il Sangue del mio sangue di Marco Bellocchio, è vero, il regista più giovane della terra capace di sciogliere ogni input autobiografico o letterario in fertilissima tensione cinematografica declinata sempre al presente. I dieci minuti finali del suo film sono la “visione” più pura della mia bella esperienza a Venezia 72. (Pietro Masciullo)

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Ritorno alla vita


RITORNO ALLA VITA

Every Thing Will Be Fine di Wim Wenders

di simone emiliani

Tra passato e presente, tra Ray di Ombre bianche e Raimi di Il grande e potente Oz. Un cinema che si attacca al suo immaginario, ma che sta coraggiosamente cercando di non invecchiare.

Come una favola. Come se il 3D avesse spinto il cinema di Wenders verso altre forme/visioni: il modo di ri/vedere il documentario (lo strepitoso Pina), il legame col cinema statunitense come nel caso di quest’ultimo Ritorno alla vita. Più che un titolo, una frase ricorrente. Più che ripetuta, se ne sente l’eco in tutto il film. Quasi un piccolo pezzo di neve del paesaggio.

La stessa neve di un film/dichiarazione/ titolo: La vita è meravigliosa. Una sera d’inverno Tomas (James Franco), un romanziere, dopo una discussione con la sua fidanzata Sara (Rachel McAdams), inizia a guidare senza meta in una strada di campagna. Sta nevicando e improvvisamente compare davanti a lui una slitta con un bambino. I freni

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RITORNO ALLA VITA

Magie oltre il 3D


RITORNO ALLA VITA

cedono, l’auto slitta. È riuscito ad evitare l’incidente o no? Il bambino è salvo. Ma era da solo o no? Questo evento manderà progressivamente in frantumi la sua relazione. E lui stesso cadrà in una profonda depressione. La scrittura diventa l’unica arma per sfuggire alla sua condizione. James Franco, curiosamente presente nei film di Herzog e Wenders, i due cineasti tedeschi contemporanei più importanti, sembra guardare in macchina. È solo un’illusione. Il suo sguardo invece è catturato da una soggettiva, tranne nell’inquadratura finale. Sì, Ritorno alla vita è anche un racconto in prima persona. Lo scrittore non nell’atto dell sua creazione, ma nel gioco parallelo tra scrittura e vita. E potrebbe già trattarsi di un romanzo autobiografico. Sbanda sotto la tempesta Ritorno alla

vita. Rimbalza tra passato e presente. Il cinema di Wenders non può più (s)fuggire in uno spazio. La corsa si interrompe subito. La terra (prima) dell’abbondanza può apparire arida. L’ultimo Wenders è una sperimentazione frenata ma anche maestosa, che trova il suo punto di fuga nel tempo. Il film procede per progressive ellissi. Che possono apparire come stacchi temporali netti. Ma che possono essere anche il proungamento, la metamorfosi di una magia. Con gli adulti che restano uguali a se stessi anche col passare degli anni. Con i figli che crescono e arrivano al momento della resa dei conti. Ancora. Tra passato e presente. Tra le "ombre bianche" di Nicholas Ray mescolate con Il grande e potente Oz di Raimi, quasi riciclaggio della figura di Franco. Forse ci volevano i giganti di Tim Burton di Big Fish. Forse ci sono e crescono

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RITORNO ALLA VITA

progressivamente nell’immaginazione. Forse si vedono in quei colori innaturali della fotografia di Debie. Con quelle sensazioni di ipnosi già create per Gaspar Noé (Enter the Void) ed Harmony Korine (Spring Breakers) che qui trasformano la pop-tecno in una dolente ballata. Probabilmente Ritorno alla vita è una nuova dimensione del cinema di Wenders. Un road-movie che non può più attraversare il paesaggio e viaggia nel corso del tempo. Che ha dei momenti potentissimi, come l’incidente nel luna park. Che vuole abbattere lo spazio come nella telefonata tra Tomas e Kate, la mamma del bambino/i, interpretata da una dolente Charlotte Gainsbourg che qui sembra sempre più un’attrice venuta dal passato. Con i due personaggi che sono separati ma compaiono come fantasmi nella stessa inquadratura. Come magie. Dissolvenze di un’unione negata. Ma è anche un film su una condizione emotiva. Ed è quella, nei suoi difetti, che fa vibrare Ritorno alla vita. Da quei

vetri delle finestre, dove c’è la trappola di stare dentro e il desiderio di uscire fuori. Proprio come la contraddizione di quest’ultimo Wenders. Tra paura e desiderio, appunto. Che lascia i personaggi nella loro solitudine. Che non gli nega i suoi necessari abbracci. Quello di un cinema che ha ancora bisogno di stare attaccato al suo immaginario, ma che sta coraggiosamente cercando di non invecchiare. Questa non è più l’illusione 3D. ÈWenders stesso che resta diviso. Le schegge dei frammenti non tornano. Ma è anche qui la magia di un cinema che stavolta deve ricomporsi da capo. Pezzo dopo pezzo. Interpreti: James Franco, Charlotte Gainsbourg, Rachel McAdams, Marie-Josée Croze, Peter Stormare Distribuzione: Teodora Film Durata: 100’ Origine: Canada/Germania/Norvegia, 2015

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RITORNO ALLA VITA

Wenders è a casa sua nel suo cinema di pietro masciullo

Questo atto d’amore verso il Cinema concepito ancora come possibile dimensione per superare il dolore tornando alla vita, ci è apparso un film magnifico oltre ogni “distaccato” giudizio critico

“Il centro di gravità del film è facoltativo, il patetico è irregolare, l’accento non è sempre grave, la libertà sfiora il lassismo. Ancora una volta, lo spettatore alla ricerca di oggetti perfetti resterà deluso. Ben gli sta. Quello che è sempre stato prezioso per Fassbinder, è l’arte di farci esitare durante il film tra diversi sviluppi possibi-

li, tutti validi. In Veronika Voss, ci riesce benissimo. Si è parlato di manierismo di Fassbinder. C’è chi se n’è lamentato. Da tempo dava l’impressione di fare i film come se stesse sbrigando le faccende di casa: si è a casa propria, si conoscono tutti gli oggetti, si sa da dove vengono, non ci si serve di tutto nello stesso tem-

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Non so bene perché subito dopo la visione di Ritorno alla vita mi siano tornate vivide in mente queste parole, lette anni e anni fa e mai più dimenticate. Così si esprimeva il sommo Serge Daney su Veronika Voss e sul suo presunto manierismo, e credo non ci siano veramente parole più adatte per iniziare un discorso personale sull’ultimo film di Wim Wenders. È un film di fantasmi questo ritorno alla vita. Uno straordinario ossimoro-filmato venuto dal passato per tentare disperatamente un contatto con il presente. Un film-pensiero interamente concepito dalla libera soggettiva del suo protagonista-scrittore: siamo subito persi nel suo romanzo, trafitti dal suo trauma, bloccati nel suo foglio bianco, aggrappati a una macchina-da-presa ridiventata stylo

mentre inquadra e ritaglia, affonda nella nebbia e mette i punti al tempo, lascia fuori campo il dolore e fa una delicata pressione sui nostri occhi. Wenders concepisce ancora il montaggio come frattura del tempo interiore (l’incidente, la morte, il lutto, tutto in fuori campo) e poi come sutura nel tempo dell’immaginario (le vertigini hitchcockiane, la slitta-dellamemoria wellesiana), in un film giocato tutto nella lunghissima elaborazione di un dolore raggelato e anestetizzato che diventi pian piano Cinema negli umori costanti che pulsano sullo schermo. E

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po, l’indifferenza è solo apparente, gli automatismi nascondono molto amore. Fassbinder era a casa sua nel suo cinema”. Serge Daney, 1 Luglio 1982


RITORNO ALLA VITA allora via agli squarci visionari che dipingono l’inquadratura con i colori vividi di Nicholas Ray (tornati qui da dietro lo specchio, in un lampo nell’acqua da vero Nick’s Movie), sino alla multidimensionalità del Coppola anni ‘80 (sarebbe sorprendente rivedere adesso il loro film su Hammett, sempre uno scrittore protagonista lì!), per arrivare ai dilemmi edipici e archetipici dell’amato Elia Kazan. Un sogno lungo un giorno dunque (o lungo 12 anni, cosa cambia?), dove l’inquadratura diventi materia plasmabile dalla luce del “presente” e dalla rammemorazione di un “passato”, in un azzeramento dello spazio fisico che configuri la sublime superficialità di un sentimento tutto contingente. L’immagine. Wenders se ne frega delle mode e di tutti i discorsi sul post, e proprio come l’ultimo Belloccho è convinto ancora oggi che fare cinema sia condividere il sangue del mio sangue nell’immagine sul grande schermo. Inutile elencare i rimandi alla sua filmografia o alla sua biografia: dall’impossibilità della paternità ai dilemmi sull’arte come

sublimazione del dolore, ecc, ecc. Questo film potrebbe diventare allora lo stato delle cose non più del cinema (come ci si sforzava di fare nel 1982), ma di un modo di fare cinema evidentemente in difficoltà a trovare un suo pubblico, evidentemente e fieramente anacronistico. È vero, quindi. Quello di Wenders non riesce proprio più a essere un cinema nel corso del tempo, non ne ha più la forza propulsiva perché è clamorosamente fuori da questo tempo e può solo rifugiarsi in una casa tutta sua (direbbe Daney). Rifugiarsi nel tempo immaginario di un sognante ragazzino senza padre che ha bisogno solo di un caldo abbraccio per tornare alla vita (proprio come nel finale di Nick’s Movie, appunto…). E allora sembra incredibile l’assonanza ideale con gli ultimi film dell’amico/ nemico di sempre Francis Ford Coppola. Questo è un improvviso Twixt a ciel sereno targato Wim Wenders: anche qui uno scrittore che deve superare un lutto, anche qui un lentissimo ritorno alla vita segnato dal cinema-del-passato come

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seienne come il sottoscritto cresciuto divorando in VHS i film di Ray e Füller, Kazan e Ozu, Coppola e Scorsese, Fassbinder e Reitz, e che ha trovato una casa in quel ponte sospeso tra il romanticismo tipicamente europeo e l’on the road filmato da ogni amico americano… beh, questo atto d’amore totalizzante verso il Cinema concepito ancora come possibile e tangibile dimensione per superare il dolore tornando alla vita, è apparso un film magnifico oltre ogni “distaccato” giudizio critico. Perché qui “l’indifferenza è solo apparente, gli automatismi nascondono molto amore. Wenders è a casa sua nel suo cinema”.

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porta sul presente, anche qui una lancinante sincerità registica che sfarina il film in mille rivoli possibili o falsi movimenti come calde aritmie. Perché qui come lì è la vita dei due cineasti ormai settantenni a prendere il sopravvento sui loro stessi film. Due cineasti che non hanno più nulla da dimostrare tranne il fatto di riconoscere una casa in quel grande schermo capace di restituirci ancora oggi (in Ritorno alla vita come in Twixt) il più umanista dei 3D, entrato miracolosamente in contatto con le nostre emozioni più intime. Forse la terza dimensione come dovrebbe sempre essere. Conclusione, inevitabilmente, personale. Abbiamo deciso ieri sera – subito dopo aver visto il film nell’unico cinema di Roma che lo proiettava in 3D – di buttar giù questo breve speciale senza centro. Senza nessuna struttura preordinata, nato d’istinto, solo per omaggiare un film che ci ha colpito nel profondo. E allora certo, sì, c’è un dato meramente personale in tutto questo. Perché per un trenta-


RITORNO ALLA VITA

L'abbraccio più bello di sempre di carlo valeri

Ritorno alla vita lavora sui colori iperrealisti di un melodramma di Douglas Sirk o Nicholas Ray come fosse un velo con cui nascondere e allo stesso tempo far rinascere la verità delle emozioni C’è una sequenza straordinaria in Ritorno alla vita proprio a metà film. In un parco giochi Tomas è sulle giostre con la sua compagna e la figlia di lei quando ha una specie di allucinazione. La visione di un bambino che con una pistola giocattolo spara alla ragazzina. È una premonizione, un oscuro presagio di un incidente che di lì a pochi istanti si verificherà

ma senza conseguenze per i personaggi. In realtà quasi tutto il film sembra andare avanti come fosse un sogno lungo un giorno. Tomas è uno scrittore di successo che vive in un “suo” mondo. Non è sempre stato un grande scrittore. Per diventare un artista ha dovuto sopportare un trauma terribile: ha involontariamente investito un bambino, uccidendolo. È il

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RITORNO ALLA VITA

punto di partenza del suo sogno a occhi aperti. Da quel momento sforna romanzi straordinari ma per farlo si nega alle emozioni. O meglio le vive come se ogni cosa o persona fosse frutto di una visione personalizzata, necessariamente in 3D. Tutto allora per lui diventa estetizzante, concettuale, ma poco vivo.

"Un film lucidissimo, fragile e un po' malato. Dilata le sfumature psicologiche ed emotive in attesa di qualcosa" È tutto così questo bellissimo e per certi versi sorprendente ultimo film di Wenders: opaco, sfumato, apparentemente poco vivo. Ritorno alla vita lavora sui colori iperrealisti di un melodramma di Douglas Sirk o Nicholas Ray come fosse un velo con cui nascondere e allo stesso tempo far rinascere la verità delle emozioni. Davvero un film lucidissimo, fragile e un po’ malato. Dilata le sfumature psicologiche ed emotive in attesa di qualcosa. Wenders è sempre stato un maestro in questo; ovvero nel prendersi e farci prendere tutto il tempo che serve per entrare nel respiro e nella vita (del cinema). Qui

l’attesa sembra frastagliarsi negli istanti spezzati di un’infanzia difficile, appena sfiorata dalla macchina da presa (la vita di Christopher) o in quella più piena e narrata di Tomas, ma non meno complessa, alienata, incompiuta, in perenne attesa di qualcosa. Ecco che le donne e le relazioni amorose passano davanti ai suoi occhi impassibili. Per il protagonista possono diventare materia letteraria o anche cinematografica ma solo al prezzo di negarsi agli altri, alla comunicazione, e rimanere nel proprio mondo. In attesa di un finale, certo. Che di solito nei melodrammi è un bacio tra amanti e che invece qui è un semplice abbraccio tra un mancato padre e un mancato figlio. Allora, dopo, sarà tutto più facile. L’inquadratura, il 3D possono spegnersi per aprirci a un nuovo fuoricampo (o a un altro romanzo da scrivere). È solo al termine di questo immobile road movie spirituale che c’è il ritorno alla vita. Dovremmo ringraziare per sempre Wim Wenders per averci regalato questo film e questo momento finale. Uno degli abbracci più onesti e desiderati visti su uno schermo negli ultimi anni. A occhi aperti.

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CUORE SELVAGGIO

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ULTIMI BAGLIORI

Un disastro di ragazza

Il prezzo di una risata

di aldo spiniello

C’è sempre qualcosa di smarginato nei film di Apatow, qualcosa che va troppo in là il canone della commedia. E l’obiettivo è chiaro. Il trainwreck, la catastrofe. Un disastro di commedia

C’è sempre qualcosa di smarginato nei film di Apatow, qualcosa che va troppo in là il canone della commedia come ci è stato tramandato e insegnato. Una nota stonata che spinge i sensi e i significati verso un’altra direzione, una cattiveria gratuita che imbraccia la volgarità come fosse un’arma puntata contro l’istituzione del linguaggio, un’impennata drammatica che incontra la nostra commozione in un momento non previsto (come sempre), una scena che non c’entra nulla o che dura un attimo in più del giusto. Giusto? Già, il punto della questione torna sempre a quella vecchia questione morale. Giusto o sbagliato. Ma secondo questo criterio, come potremmo valutare i comportamenti, a dir poco contraddittori, di quel disastro di Amy (Schumer)? Sa-

rebbe facile, se puntassimo gli occhi sulla superficie degli atteggiamenti, su quegli abiti troppo corti, su quell’egoismo menefreghista che sembra predicare l’indifferenza come regola di vita. Ma, magari, il punto è prendere tutto da un’altra prospettiva. Provare a guardare dentro, più giù, oltre, dove tutto è nascosto. Oppure, semplicemente rinunciare a formulare il giudizio, a separare per forza le luci dalle ombre. Come se potessimo distinguerle. Del resto, a chi ci rivolgiamo noi? A chi cazzo capita. Come sempre… Perciò non c’è linea retta, un filo di comunicazione sicuro che vada da un punto A a un punto B. E, quindi, non esiste un’equazione matematica per cui due più due fa quattro e le apparenze diventano la Verità. Quella formula di chiusura, quella nor-

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si provi a riassorbirle o a escluderle, non c’è argine che tenga... La vita smargina il quadro. E la scrittura, qualsiasi essa sia, non tiene. Apatow lo sa. È il primo a spostare i termini della prospettiva, il punto di vista. Sembra attenersi ai canoni della struttura comica, con tutti i passaggi obbligati, i “luoghi comuni”. Ma poi la dilata all’infinito fino a smontarla, a farla uscire dalle griglie più rassicuranti della risata “a comando”, a farla deragliare nel caos dell’informe. Del resto una commedia di 125’ è chiaramente fuori misura, fuori cerchio e fuori quadrato, ben oltre qualsiasi sezione aurea. Il ritmo, a un certo punto, salta. La risata s’inceppa e il gioco scivola in altre direzioni. E si avverte un disagio in sala (se di sala ancora è dato parlare). Ecco, anche quando è qualcun altro a scrivere – come in questo caso Amy Schumer –, anche quando sembra muoversi oltre i confini della sua “famiglia”, Apatow mantiene la direzione. E l’obiettivo è chiaro. Il trainwreck, la catastrofe. Un disastro di commedia.

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ULTIMI BAGLIORI

ma che serve a dettare il percorso netto e a formare, quindi, i parametri, le idee, le azioni e i sentimenti. Se c’è una norma, se davvero è un’esigenza, è per rendere normale tutto ciò che sembra sfuggire alla comprensione, alla tranquilla gestione del quotidiano, l’ignoto. È una funzione sociale di sopravvivenza, prima ancora che di convivenza. E allora, tanto vale non parlare di nulla, assecondare il gusto “normale”, per vendere più copie. Ma il punto è che tutto sfugge, comunque. E le eccezioni non si contano. E per quanto


ULTIMI BAGLIORI Ed è un intento che sembra, a primo impatto, “politicamente” distruttivo. Mandare all’aria le regole, la volgarità come assalto armato e organizzato ai meccanismi dell’industria, l’affermazione di un’altra ipotesi produttiva rispetto ai dettami tranquillizzanti del sistema, il gioco sull’immaginario condiviso, sull’icona che viene distorta, trasformata di segno, fino a essere riassorbita in un altro universo, satirico forse, ma sicuramente più umano e personale. E quindi il film alla Sundance che è la parodia aperta di un modello, Lebron James e John Cena che diventano macchietta (ma che cuore…), la scena folle, senza alcun motivo drammaturgico apparente, con Matthew Broderick, Chris Evans e Co… Una sorta di strategia corsara che si fa metodo, stile e, quindi, poetica. Che sovverte “l’economia istituzionale” del racconto, le convenzioni e le funzioni. Per farsene beffe, proprio come fa Sandler (che in effetti condivide con Apatow un percorso) quando gioca sullo statuto del personaggio pubblico e se ne frega della “correttezza”. Ma questo spi-

rito beffardo e irriverente non ha, però, solo una motivazione di rottura, di insofferenza ribelle. Non è solo “distruttiva”. Nasconde, invece, tra le righe il disagio e la sofferenza di pensieri e sentimenti più intimi e inquieti. E la necessità di fare i conti con una mancanza e un desiderio ancora irrisolto. Per Sandler l’ossessione è la ricomposizione di una “famiglia”/cinema, in cui avere la libertà di vivere i propri affetti e i propri divertimenti. Per Apatow, che una famiglia salda l’ha costruita da subito, la questione è il tempo, lo spettro della fine, della dissoluzione, della morte, quella che già scuoteva dalle fondamenta il one man show sandleriano di Funny People. E che, qui, tinge di un dolore inaspettato la svagata libertà di affetti di Amy. Il lutto, qualsiasi esso sia, è una presenza costante. Non si può sfuggire, non si può nasconderlo tra le risate e le cazzate. Bisogna farne i conti. Fino ad accettare la necessità delle paure, di ulteriori perdite, di altre lacrime. E affrontarle, per rischiare nuovi affetti, nuovi amori. Anche a costo del ridicolo.

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Dove eravamo rimasti

di simone emiliani

Il cinema di Demme sa riprendere tutta l’energia della musica, trascinare dentro qualsiasi luogo come fosse un concerto

Non sembra essersi ancora “fordianamente” chiusa quella porta con la musica di Rachel sta per sposarsi, che subito se ne apre un’altra in Dove eravamo rimasti – titolo italiano di Ricki and the Flash – che mai come in questo caso, proprio guardando il cinema di Demme, sembra

essere profetico. Il cinema come flusso continuo, con il cineasta tra i pochi residui di sopravvivenza di un cinema che fa sempre più schifo e vederlo è solo una perdita di tempo. “Dove eravamo rimasti” sembra essere il motivo ricorrente da un film all’altro. Una sorta di linea dritta

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ULTIMI BAGLIORI

Il cinema non fa sempre più schifo


ULTIMI BAGLIORI dove la vita della rocker Ricki, tra i pub di provincia e il tentativo di rientrare in una famiglia diventata sempre più impermeabile, potrebbe essere anche un documentario. C’è la storia costruita dalla scrittura di Diablo Cody che Demme smonta pezzo dopo pezzo. E già l’inizio, con Ricki che si esibisce sulle note di American Girl, potrebbe essere una volontaria ripartenza da Il silenzio degli innocenti e il dominio di una storia non sua

che qui diventa subito tutta sua. Come a marchiare un territorio che non è più di competenza della Cody. Non c’è la testimonianza diretta di Ricki ma è come se lei guardasse in macchina. Proprio come Tom Hanks in Philadelphia mentre parla della sua malattia. È l’effetto ipnotico di un cinema che può doppiarsi, diventare parallelo, offrire più visioni, essere scandito come una partitura musicale anche nel ritmo di un melodramma che, seppure Demme lo voglia scansare, diventa invece maestoso, quasi minnelliano nell’uso di quei rossi e degli arancioni che prendono fuoco, negli scontri verbali della vita vera che però hanno dentro quel dolore alla Douglas Sirk. Fiamme che però sembrano provenire anche dai suoi film più intimi e nascosti, Beloved. E, come in quel caso, anche gli spazi sembrano essere abitati da qualche strano spirito. Il cinema di Demme sa riprendere tutta l’energia della musica, trascinare dentro qualsiasi luogo come se fosse un concerto. E l’euforia finale al matrimonio mentre Ricki si esibisce, è l’effetto che produce uno sguardo capace di trasformare una location in un palco musicale. Mentre altri e più celebrati cineasti sono fermi al

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bra avere lo straniamento di un film di Alain Resnais e l’imprevedibilità di Claude Sautet. Les choses de la vie.

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ULTIMI BAGLIORI

loro ultimo valzer. È la passionalità incontrollata di un film che straordinariamente deraglia, che non ha punti di riferimento e ha il miracolo di trasformare una star come Meryl Streep in un misto tra un’attrice non professionista e un’icona dei Seventies. Su di lei Demme riesce a produrre lo stesso straordinario effetto che i Dardenne ottengono da Marion Cotillard in Due giorni, una notte. Dagli anni Settanta, quasi un riciclaggio. Una donna tutta sola. Da Ellen Burstyn di Alice non abita più qui. Rispetto a Scorsese, per fortuna, proprio il cinema di Demme non abita più qui. Oggi è su un pianeta lontano. Non tutti riescono a vederlo, anche quelli che credono di vederlo. Bisogna raggiungerlo e viverci. Facendosi trascinare e subirlo, come gli occhi di uno strepitoso Kevin Kline, qui l’André Dussolier statunitense, che sem-



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Pasolini

Il poeta profetico di tonino de pace

A quaranta anni dalla morte, un profilo di un poeta capace di lucide analisi e sconcertanti profezie

Pier Paolo Pasolini oggi riposa a Casarsa della Delizia, il vecchio borgo grigio solcato dal Tagliamento. La tomba di Pasolini è accanto a quella della madre ed è stata disegnata dall'architetto Gino Valle. Il corpo del poeta è quindi ritornato al suo Friuli, dopo quella notte di quarant'anni fa, ancora largamente avvolta nel mistero. La vita di Pier Paolo Pasolini è stata variamente raccontata, interventi, volumi, biografie, analisi critiche e politiche della sua opera, non disgiunta dalla sua vicenda artistica poliedrica e multiforme, irriducibile ad una mera elencazione di opere scritte e cinematografiche, tanto frammentata è stata la sua produzione e tanto ricco l'atteggiarsi di questa instancabile speculazione. Ecco le ragioni per cui l'opera del poeta friulano sembra non possa essere dominata, perché febbrile e

poliedrica la sua produzione, “aveva una ferrea disciplina di lavoro. Sparpagliati sul suo tavolo si trovavano invariabilmente due o tre sceneggiature che portava avanti contemporaneamente, una traduzione, mettiamo dal greco, che doveva consegnare entro una certa data o a cui si applicava per mantenersi in esercizio, gli articoli che scriveva per i giornali e il romanzo a cui stava lavorando”. Le parole dell'amico Mauro Bolognini restituiscono il senso dell’inquietudine dello scrittore che si esprimeva nel lavoro incessante in cui manifestava il suo pensiero e quell'interventismo culturale che non avrebbe più trovato eguali in un'Italia che andava formando le sue strutture di pensiero collettivo. Erano gli anni in cui il nome dello scrittore e polemista si andava diffondendo, diventando una figura di intellettuale d'avanguardia, ma nello stesso momento

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difensore di valori antichi e tradizionali. Fu proprio questa apparente profonda contraddizione a segnare l'opera di Pier Paolo Pasolini e a segnare quel suo progressivo isolamento sia a destra, là dove i suoi valori non potevano essere condivisi, sia a sinistra, là dove rispetto a quei valori la prova sembrava quella del loro superamento, sia dalla Chiesa che non poteva condividere il profilo più liberamente ispirato dalla “sincerità e la necessità” della “rappresentazione dei corpi e del loro simbolo culminante, il sesso”. È proprio l'apparente contraddittorio atteggiarsi della poetica pasoliniana a dimostrare il senso della complessità che la sua opera ha avuto, ed è proprio questa varietà di tratti, segni e interrogativi che questa ci pone a rendere ancora attuali le sue riflessioni e contemporanee le sue conclusioni. Una specie di obbedienza ai cicli vichiani della storia. Oggi la lezione pasoliniana, nel mondo che muta incessantemente, diventa più vicina e indi-

spensabile di qualche decennio addietro. A quarant'anni dalla sua morte, ultimo enigma della sua vita, ci domandiamo ancora con quali strumenti il suo lavoro intellettuale si sia meglio espresso, rileggendo il suo corpus poetico o i suoi scritti corsari, le sue profetiche riflessioni o il suo cinema così straordinariamente e unicamente legato all'evolversi del suo pensiero (unico caso in cui la sovrapposizione tra idea e racconto al cinema, tra esiti di una progressiva analisi politica e racconto ideale attraverso il film, si trasforma immediatamente in storia per il cinema). Oggi – e nell'immediato passato – sappiamo quale sia stato il peso specifico della lezione pasoliniana e quanto questa sia mancata nella sua forma più essenziale, quella così controcorrente rispetto al pensiero dominante eppure così lineare e quasi primaria (infantile verrebbe da dire), tanto da scoprire la nudità del re e saperlo gridare ad alta voce, un grido nel deserto, come accade a Massi-

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Ma Pasolini fu in primo luogo un poeta, come ebbe a dire Alberto Moravia con le parole rotte dall'emozione quando celebrò il suo amico dopo i fatti di Ostia. Pasolini da attento osservatore, scrutatore e analista della situazione italiana, riconduceva ogni atto, ogni aspetto sociale, necessariamente al concetto politico. Quando si è perduta questa necessaria interpretazione dei comportamenti, le

mo Girotti nel finale di Teorema. Si accostò al cinema dopo la scrittura, sua naturale vocazione. Un inciso: quando nella conversazione del 31 ottobre 1975, a poche ore dalla morte, un giornalista francese che lo intervistava per una testata televisiva gli chiese cosa volesse che fosse scritto sulla sua carta d'identità, egli rispose: scrittore. Abel Ferrara nel suo film biografia rielabora quell'intervista, in copia conforme, ripetendo perfino l'inquadratura e il volto sofferto del poeta. L'opera poetica, narrativa e più in generale in prosa, ma anche critica e di riflessione politico-sociale, appare sicuramente come primaria e addirittura anche il suo cinema si inscrive dentro questa ampia categoria, per i suoi tratti essenziali e la sua difficile collocazione, all'interno di qualsiasi movimento, genere o scuola.

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nostre società hanno trasformato il loro modo di pensare. E oggi assistiamo ad un disgregamento progressivo del corpo sociale, liberato da ogni (falso) peso di ogni giustificazione morale del proprio comportamento. Pasolini difendeva una differente capacità di cogliere quella che oggi chiamiamo complessità. Il suo sguardo è stato sempre rivolto ad un differente modo di interpretare i fatti. E forse è proprio questo il grande insegnamento che ci ha lasciato, quello di guardare ai fatti e al loro manifestarsi all'interno della struttura sociale, attraverso uno sguardo e un sentimento che non solo non erano comuni, ma apparivano opposti a quelli della maggioranza e differenti da quelli di ogni minoranza. Oggi sappiamo però che in molto del mondo aveva visto giusto e il suo non era un pensiero minoritario, ma dettato dall'analisi profonda dentro uno sviluppo temporale che nessun'altro aveva saputo immaginare. In questo senso il suo pensiero diventa profetico e le sue parole anticipatrici anche degli eventi. Un esempio su tutti, leggere alcuni versi della sua poesia che porta proprio questo titolo (Profezia) per

comprendere cosa fosse per Pasolini lo sguardo gettato al futuro: Alì dagli Occhi Azzurri/uno dei tanti figli di figli,/ scenderà da Algeri, su navi/ a vela e a remi. Saranno/ con lui migliaia di uomini/ coi corpicini e gli occhi/ di poveri cani dei padri/ sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sé i bambini,/ e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua./ Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali./ Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,/ a milioni, vestiti di stracci,/ asiatici, e di camice americane. / Subito i Calabresi diranno,/ come malandrini a malandrini:/ "Ecco i vecchi fratelli,/ coi figli e il pane e formaggio!"/ Da Crotone o Palmi saliranno/ a Napoli, e da lì a Barcellona,/ a Salonicco e a Marsiglia,/ nelle Città della Malavita./ Anime e angeli, topi e pidocchi,/ col germe della Storia Antica,/ voleranno davanti alle willaye./ Essi sempre umili/ Essi sempre deboli/ essi sempre timidi/ essi sempre infimi/ essi sempre colpevoli/ essi sempre sudditi essi sempre piccoli... Si resta sbigottiti davanti a questi versi, non solo per la loro intensità, ma per la

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FACES loro straziante verità che oggi abbiamo sotto gli occhi. In questa straordinaria capacità di guardare al futuro, frutto di lucide analisi, la grandezza del poeta. Eppure quando aveva cominciato a guardare al cinema come mezzo espres-

sivo del suo pensiero si sentiva un ignorante, non sapeva nulla di obiettivi e focali e sul set si sentiva spaesato. Accattone è del 1961 e qui sorvoliamo sui processi che gli furono intentati da lì in poi e sulle aggressioni fisiche ricevute, a partire da quelle subite al cinema Barberini di Roma , dove gli spettatori furono assaliti da gruppi organizzati di neofascisti. Il suo rapporto con il cinema era iniziato con la collaborazione con l'amico Giorgio Bassani per la sceneggiatura di La donna del fiume, che sarebbe stato diretto da Mario Soldati. Seguirono altre scritture prima di passare dietro la macchina da presa. Erano anni molto difficili per Pasolini quei primi anni romani. Si era negli anni ‘50 e ancora le complicazioni della guerra si facevano sentire e soprattutto era difficile per lui trovare lavoro. Le sue prime esperienze letterarie sarebbero state raccolte successivamente in volumi che avrebbero riletto il passato delle sua esperienza di vita. È nel 1955 che viene

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pubblicato Ragazzi di vita, controverso libro in cui si esplicita, per la prima volta, il tema della prostituzione omosessuale. Il libro fu largamente ostracizzato ed escluso dalle selezioni dei premi letterari. La miopia culturale che Pasolini cominciava a subire si manifestava con tutta la sua insopportabile arroganza. Ma da quel momento il nome di Pasolini cominciò ad essere legato alla autenticità della vita che si ritrova nelle borgate e presso i più semplici, rispetto alla corruzione dei valori che si ritrova in quello che si definiva il mondo borghese del neocapitalismo consumista. Pasolini focalizzò la sua attenzione di osservatore acuto della realtà italiana proprio su questo tema, che era accompagnato all'altro legato alla liberazione sessuale come strumento di emancipazione. Di differente impianto, sebbene legato allo stessa ambientazione borgatara è il suo secondo film, con protagonista Anna

Magnani. Mamma Roma è forse la sublimazione del legame che Pasolini ha sempre avuto con sua madre che avrebbe colto nello svolgersi della tragedia, anni dopo in Edipo re. Ma anche questo film tocca i toni tragici nell'impossibile percorso di integrazione sociale, ma anche una velata accusa per un sottoproletariato diseredato che aspira a modelli piccolo borghesi estranei e lontani da ogni cultura di classe. Dopo questo film, tre esperienze che hanno in comune più che il desiderio di narrare storie, un intento che oggi appare, in un'ottica complessiva della sua produzione cinematografica, di sperimentazione e ricerca delle possibilità del mezzo al quale si era avvicinato con curiosità e passione. La ricotta, La rabbia, Comizi d'amore e Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo, diventano quattro elaborati conoscitivi. Il primo, forse il film più teorico insieme all'ultimo

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(Salò) e a quello mai girato (Porno-Teo kolossal), in cui la composizione rigorosa dell'immagine si accompagna alla forma grottesca dell'espressione narrativa. Un cinema che segna il definitivo distacco da ogni ipotesi di riconciliazione con la borghesia e tutto in quell'equilibrio tra principi antichi di una religiosità altrettanto arcaica e la tragedia di un sottoproletariato che si fa interprete puro dei sublimi Testi che raccontano la Passione. La rabbia, Comizi d'amore e Sopralluoghi in Palestina costituiscono tre lavori con i quali il regista mette a punto alcune sue idee sul mondo e sulla possibile rivoluzione, opere necessariamente di un comunista che però non piacque ai comunisti. Già

con La rabbia, esperimento non del tutto riuscito, si provò a conciliare lo spirito di un'Italia conservatrice e reazionaria con quella delle avanguardie politiche della sinistra. Senza entrare nel racconto della lunga vicenda produttiva e distributiva del fallimentare film, qui basti sottolineare che Pasolini si fece interprete, ancora una volta, di una mediazione tra i valori della tradizione e quelli della rivoluzione, scontentando i comunisti e proseguendo quel percorso di isolamento al quale era destinato. Film assolutamente contiguo a La rabbia è Comizi d'amore, esperimento e saggio, sotto forma di inchiesta sul precario e instabile pensiero degli italiani in fatto di morale e sessualità, un fritto misto all'italiana, lo avrebbe definito lo stesso autore, volto a svelare le contraddizioni profonde del Paese e l'impegno militante di Pasolini che ha sempre creduto in questa sua funzione. Sopralluoghi in Palestina prelude già al Vangelo secondo Matteo e oltre ad esserne antefatto e anteprima di una ricerca estetica che riguarda non solo i luoghi irripetibili della vita di Cristo – che ritroverà nel meridione d'Italia – quanto piuttosto un'estetica dei volti della miseria e dell'umiltà che già preludevano

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alla stagione centrale della ricerca del cinema di Pier Paolo Pasolini. Vangelo secondo Matteo (1964) consacra il suo cinema, divenendo in qualche modo la punta di diamante di una poetica esclusiva, ricercata e frutto di una profonda meditazione. Sicuramente questo è il sostrato sul quale un film come il Vangelo è nato, ma l'opera traduce in immagini qualcosa di differente. Dalle sue dichiarazioni apprendiamo che il senso di questa sua nuova opera risiedeva in una riflessione sulla morte in antitesi con gli insegnamenti cattolici. Premessa la sua idea di tragedia dell'uomo, unica grandezza che ci è concessa, il film riflette sul concetto di morte senza la promessa di una vita eterna: “...il cattolicesimo è la promessa che al di là di queste macerie c'è un altro mondo, e questo invece nei miei film non c'è assolutamente! C'è soltanto la morte non l'aldilà”. Il successivo Uccellacci e uccellini avrebbe segnato il passaggio del regista ad un cinema che lui chiamava della realtà. In altre parole, quel film del 1965 è l'addio all'immagine che replichi con immediatezza la realtà per fare diventare realtà

l'immagine stessa. Ne è prova la ricerca visiva che si fa evidente a scapito di ogni residua forma “letteraria”, che, invece, emergeva nelle sue opere precedenti. Il film, oltre a costituire un chiaro apologo ideologico, è anche un esperimento umoristico (ma non soltanto per la presenza di Totò, qui più che altro maschera e non essenza), ma rappresenta il sintomo del nuovo sentire di Pasolini che politicamente comincia a guardare ad un terzomondismo di matrice sartriana. Ideale prosecuzione è La terra vista dalla luna (1967), breve film che ricalcando le comiche del primo Chaplin diviene campo di semina di una ricerca linguistica precisa che comincia con il colore, e prosegue con la scrittura della sceneggiatura, che viene eliminata. E il tema resta quello dell'assurdità dell'esistenza in una condizione di solitudine. Di straordinaria e ulteriore contiguità è il cortometraggio successivo Che cosa sono le nuvole? (1968). Di nuovo con Totò. Il sogno delle marionette dirette dal loro demiurgo ci induce a riflettere, insieme al regista, sul rapporto vita-morte e di quanto lo spettacolo della vita prenda forma solo con la necessaria

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morte. Temi complessi propri della poetica pasoliniana e che egli avrebbe sviluppato, con alterne vicende, fino alla fine, divenendo anch'essa e qui il mistero, manifestazione primaria di un'idea più volte Video

resa esplicita. Febbrilmente impegnato con la sperimentazione cinematografica, Pasolini si sarebbe immediatamente dedicato alla sua versione di Edipo re, figura grandissima della tragedia greca che serve al regista come svelamento personale di una perseverante ossessione, avendo già utilizzato la madre nel ruolo della Madonna nel suo Vangelo. La figura di Edipo serve a Pasolini per attualizzarne i temi in chiave autobiografica e di questo vi è esplicito segno nel film nel suo inizio e nella sua conclusione. Ma il vero tema sotteso ad una chiara speculazione intellettuale è quello della colpevolezza dell'innocenza, argomento che sarebbe tornato in tutta la sua essenza nel successivo La sequenza del fiore di carta. I temi di Edipo re sono tanto numerosi quanto la complessità della messa in scena prova a svelare. Pasolini si affida ad un cinema che vuole escludere ogni dialettica, ritrovando solo nella progressione dell'immagine e nella sua nitida forma, ma anche di ciò che

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ne è strettamente correlato, lo svelamento di ogni emozione e il destino di Edipo, segnato fin dalla nascita che diventa “peccato originale” che si manifesta con il rifiuto della verità. L'idea pasoliniana di purezza arcaica del terzo mondo, in tutto simile all'autenticità popolare che egli ricerca nelle borgate romane, lo spinge fino in India. La sua ricerca è come sempre politica e la forma sotto la quale nasce assomiglia al precedente Sopralluoghi in Palestina e alla poetica di Comizi d'amore nella sua parte ambientata nel meridione d'Italia. Nasce così Appunti per un film sull'India. Pasolini ha necessità di verificare proprio le prospettive del suo pensiero e, allontanandosi dal documentario in senso classico, costruisce il film come un taccuino fatto di quel cinema di poesia di cui si

faceva promotore, in cui ha provato a raccontare il fallimento di ogni possibile omologazione di stampo colonizzatore occidentale, davanti ad un mondo, ancora una volta, arcaico che si difende con le armi della propria cultura. Il 1968 trova Pasolini al lavoro con Teorema, che nel proseguire in modo trasversale il discorso avviato con Edipo re e concluso con La sequenza del fiore di carta, carica di ulteriori significati politici, ma diremmo etici, il senso complessivo dell'operazione. Un film che è naturalmente e istintivamente da considerarsi come una provocazione, che crea e mostra le profonde fratture di un fallimento generale e il disgregarsi di ogni comunicazione all'interno della polverizzazione dell'istituto familiare. Pasolini utilizza il sentimento religioso come chiave di volta per entrare in una tradizione contadina ormai remota e farne fondamentale atto di accusa verso una borghesia che ormai non è più possibile salvare. Un teorema che Pasolini ha coltivato asciugando il suo cinema e inimicandosi destra (per l'uso perverso della sessualità), sinistra (per il frainteso misticismo e religiosità) e Chiesa, che dopo una prima infatuazio-

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ne non digerì il rapporto tra sessualità e religione. La contiguità tra Teorema e Porcile non è solo fondata sullo scenario del nulla su un'Etna desertificato in cui al grido di Girotti si sostituisce la disperazione di Clementi, ma dall'essere anche questo film un saggio teorico sul potere e sui suoi orrori, in cui due giovani protagonisti, nelle storie parallele, consapevolmente diversi in una società che legittima il proprio potere, vengono eliminati nel silenzio assoluto che sancisce la loro sconfitta. Un film che oggi ci appare una piena e sconcertante anticipazione di quello che avrebbe chiuso la sua vicenda artistica. L'Africa e i suoi sviluppi politici sono stati sempre al centro degli interessi di Pasolini. È del tutto normale che lo scrittore fosse affascinato da un luogo in cui le ancestrali passioni lo portavano ad immaginare il continente come il luogo in cui fosse possibile realizzare l'impossibile sua utopia. Appunti per un'Orestiade Africana è un film sulle origini e sulla possi-

bilità di contaminare il continente dominato da false democrazie con la tragedia di Eschilo in cui le forme istintive della civiltà tribale si scontrano con la nuova condizione sociale che prelude alla moderna razionalità. Il film è una tappa di quel poema sul Terzo mondo che poi non fu mai realizzato. Medea del 1971 prosegue la ricerca di Pasolini, che prova a gestire, attraverso le forme poetiche e consolidate della tragedia, il suo percorso in cui il mondo arcaico, diviso tra una metafisica religiosità, e quello moderno, fatto di necessario pragmatismo, si scontrano. Un cinema che riesce straordinariamente a tenere in equilibrio il mondo del mito e quello dell’estremo realismo, una “mescolanza un po' mostruosa di un racconto filosofico e di un intrigo d'amore” secondo le sue parole. Con una terna di film che rivolgono lo sguardo ad un medioevo felice Pasolini avrebbe realizzato quella che avrebbe chiamato la trilogia della vita: Il Deca-

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meron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle mille e una notte (1974). Pasolini sembra ora uscire da ogni orizzonte politico e, con la scrittura di queste storie che guardano ad un passato mitico, rivolgere uno sguardo pacificato alla contemporaneità attraverso il passato e la classicità letteraria più aulica. Ma a trilogia conclusa e archiviata e anzi quando si sarebbe affacciato alla conclusione di quello che sarebbe stato il suo film, il più che controverso Salò, egli avrebbe confermato, nella famosa lettera di abiura della Trilogia, che quei film nascevano dall'esigenza di dare “rappresentazione dei corpi e del loro simbolo culminante, il sesso”. La sessualità nel Pasolini della trilogia della vita non è levigata e perfetta, ma imperfetta come i corpi che la rappresentano e serviva al regista anche per sostenere la sua polemica contro l'omologazione della cultura televisiva e della scuola che avrebbe trovato idoneo sbocco nel finale di quel pamphlet che è Salò. In questo senso i film della trilogia “tradiscono” i testi da cui sono tratti e ne offrono una visione altra appartenente esclusivamente alla poetica pasoliniana. Anche lo sguardo rivolto apparentemente al passato si atteggia come un ulteriore strumento per registrare il disagio del presente, per sot-

tolinearne, infine, il nulla di una cultura – quella omologata e televisiva – contro la quale ha combattuto con strenua determinazione. Non sappiamo esattamente se l'adozione di Sana'a, la capitale dello Yemen, da parte dell'Unesco quale patrimonio dell'umanità, sia dovuto anche agli appelli di Pasolini, che sui quei luoghi girò una piccola parte del Decamerone e il breve documentario Le mura di San'a in cui celebrava le bellezze di una città sconosciuta all'Occidente. Dopo l'abiura della trilogia della vita, per cui ci vorrebbe uno spazio a parte, ma che costituisce un altro punto di rottura della poetica pasoliniana, vissuta con intensità nel breve periodo che dal giugno 1975 lo avrebbe portato fino alla sua morte, Pasolini, ispirandosi a De Sade, avrebbe scritto e realizzato Salò o le 120 giornate di Sodoma. Opera destinata a diventare postuma, controversa e malintesa, ma purtroppo posta nelle teche delle cose “inguardabili”. Ancora per colpevole responsabilità di un oscuro (ma poi neppure tanto) potere che si arroga il diritto di censurare la libertà artistica, colpendo ancora una volta la diversità che Pasolini ha da sempre incarnato e magnificamente rappresentato. Con questa ultima prova Pasolini si sarebbe affaccia-

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to a guardare dal ciglio di quello che ha definito l'universo orrendo portando a termine un film che ha la forma apocalittica di una cerimonia funebre. Quell'universo così orrendo è ciò che si manifesta attraverso le forme del potere consumistico minaccioso e violento, poiché distrugge le coscienze, pervade la sfera sessuale e modifica i valori, le tradizioni, abusando perfino dei corpi. Dal sesso come gioia al sesso come abiezione e complice degradazione, continuando a perpetrare quel genocidio delle culture secondo l'interpretazione marxista. Pasolini sembra avere chiuso un discorso, saldato il cerchio della sua parabola artistica dentro la storia del cinema, lui che in fondo era un regista, ma forse non un uomo di cinema, tanto quel mezzo gli serviva da strumento per manifestare il suo pensiero, piuttosto che per fare spet-

tacolo, distinguendosi in questo perfino da Godard, il regista forse più vicino alla sua complessiva poetica. Lo scandalo di Accattone è lo stesso di Salò, ancora oggi mal digerito e come quel film, anche quest'ultimo, racconta soprattutto l'eccezionale capacità della nuova borghesia di fagocitare ogni diversità, livellare ogni cultura attraverso un'incessante mercificazione del corpo spacciata per tolleranza. Oggi ci risiamo, i tempi sembrano non essere mutati. Poi venne la notte del 2 novembre 1975 durante la quale il poeta fu ucciso e tanto si è detto su quella morte, dal complotto alla sua prefigurazione nei segni delle opere di Pasolini. Noi non ne sappiamo più di tanto, siamo ancora orfani delle sue parole e dei suoi ragionamenti in quest'oggi così contraddittorio e così “stupendamente” moderno.

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Sacro buio Discreto e pronto, (il custode) dischiude le fauci delle tenebre sul sopraggiunto; e le dischiude pochino pochino, non saprei se per il timore che la luce esterna turbi e ferisca il sacro buio, o che l’oscurità raccolta nella sala, trovato quello spiraglio, dilaghi nell’antisala, impedisca un attento controllo dei biglietti, si riversi nella via e in breve sommerga tutta la città… (da “Iniziazioni alle delizie del cinema” di Antonello Gerbi)

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