Sentieriselvaggimagazine N.21

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L'immaginario "Black", oltre gli Oscar



SOMMARIO

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EDITORIALE

La plaza cultural

CUORE SELVAGGIO POTERE BIANCO, CUORE NERO 17 24 29 44 65 70

Black Mamba Chris Rock - OscarsSoWhite? The Black Supremacy. E il paradosso delle statuette in White Oltre lo Zio Tom Boyz n the Hollywood. 10 icone del cinema black (postermoderno) Nero a metà Il pistolero nero I, Racist

BERLINALE 66

Cos'è la verità? Incontro con Gianfranco Rosi


n.21 2/2016

magazine

L'immaginario "Black", oltre gli Oscar

Sentieri selvaggi

La plaza cultural

magazine

di sergio sozzo

n.21 - febbraio/marzo 2016 Bimestrale di cinema e tutto il resto... Direttore responsabile Federico Chiacchiari Direttore editoriale Aldo Spiniello Redazione Simone Emiliani, Carlo Valeri, Sergio Sozzo, Leonardo Lardieri, Pietro Masciullo Segretaria di redazione Elena Caterina Hanno collaborato a questo numero Lorenzo Bottini, Giovanna Canta, Emanuele Di Porto, Guglielmo Siniscalchi, con contributi di Nicola Gaeta, John Metta Progetto Grafico Giorgio Ascenzi Redazione Via Carlo Botta 19, 00184 Roma. Tel. +39 06.96049768 Mail redazione e amministrazione redazione@sentieriselvaggi.info info@sentieriselvaggi.it Supplemento a www.sentieriselvaggi.it Registrazione del tribunale di Roma n.110/98 del 20/03/1998 (edizione cartacea) n.317/05 del 12/08/2005 (edizione on-line)

Se sembra che Miles stia perdendo la sua capacità di sentimento, è solo perché ha previsto quello che presto sarebbe cominciato a succedere a tutti noi. Vi siete mai sentiti emotivamente compressi? È da qui che nasce On the Corner, e quasi tutta la musica seguente di Miles. Prendete il cuore più esuberante del mondo e sottoponetelo a una forza sconosciuta con una pressione quasi inimmaginabile, comprimetelo e schiacciatelo inesorabilmente fino a ridurlo a una minuscola palla piccola e fredda di odio color nero antracite. Poi guardatela mentre comincia a girare nel vuoto, sputando ogni tanto qualche ago di luce. Ecco cosa ci sento in questa musica, oltre all’impressione di essere costantemente circondati da entità aliene, insetti e rettili, che vi sciamano tutto intorno lì all’angolo. Che cosa c’è di così speciale nel quartiere, nella repubblica di Brooklyn, New York? Chiede Spike Lee a Bernie Sanders, il “socialista democratico” candidato alla Presidenza USA, nato da genitori immigrati polacchi e cresciuto a Brooklyn, durante la chiacchierata tra i due realizzata per Hollywood Reporter. “Da qui sono venuti fuori grandi atleti, grandi intellettuali, grandi intrattenitori, artisti…”. Sanders risponde: “Ha sicuramente a che vedere con una vibrante comunità di persone che in molti casi non avevano i soldi necessari per vivere a Manhattan, alcuni immigrati, altri nati qui. Che hanno lottato e i cui genitori volevano da loro che realizzassero qualcosa. L’istruzione era veramente importante, come anche le persone che si stringono insieme. Buone menti che si incrociano”. Ho

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passato un paio di settimane a Bedford Stuyvesant, meglio nota come Bed Stuy do or die, la zona di Brooklyn dove Spike ha ambientato Fa’ la cosa giusta, e ho visto tutte le fasi della realizzazione del grande murale “Bernie Sanders for President” che recita “End Ma$$ Incarceration” e che ora sovrasta la fermata metro di Myrtle Avenue. Le due giovanissime sorelle attiviste afroamericane che hanno ospitato la mia compagna e me in un appartamento proprio dietro l’angolo di Stuyvesant Avenue ribattezzato “Do the right thing Way”, una domenica appena tornate da una funzione religiosa ad Harlem ci hanno raccontato che i turisti presenti in chiesa per assistere ad una folkloristica “messa gospel” superavano di gran lunga il numero degli sparuti avventori della comunità locale. Le ragazze erano particolarmente frastornate dall’evento, che mi sembra un’altra metafora di quello che secondo il trombettista Nicholas Payton è successo nei decenni alla black american music (ne parliamo

col critico jazz Nicola Gaeta all’interno di questo Magazine). Ecco, nelle pagine che seguono lo sforzo comune e condiviso è stato quello di evitare, in tutti i modi che conosciamo, di dare l’impressione del turista incuriosito che entra in una cappella sulla 125esima assetato di coriste vaporose che si sbracciano all’unisono in tuniche verdi così caratteristiche. Non è facile, soprattutto perché il rischio di venire sgamati è praticamente inevitabile: la mia bella ed io eravamo gli unici bianchi della strada, i ragazzi in seduta plenaria e perenne sul pianerottolo del palazzo salutavano Laura come hey, whitey. Eppure, accorrere a sentire Nicholas Payton e i suoi Nouveau Standards a (Le) Poisson Rouge, il locale super-cool che ha preso il posto del leggendario Village Gate al Greenwich, ho visto soprattutto whitey in completo appena usciti dai loro uffici di Manhattan: Payton sembrava esserne pienamente cosciente, e dopo un sorprendente attacco in assetto Sonic

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Trance, il suo esperimento elettrico in stile Bitches Brew di una decina d’anni fa, ha subito ripiegato sul rassicurante repertorio post-bop senza scossoni che è il suo reale marchio di fabbrica, fino a mettersi a cantare una versione sogghignante di When I Fall in Love in chiusura. Una parte di me coglieva il divertimento, l’altra sospetta ancora la canzonatura: no segregation, only provocation, intona il coro più trascinante di Yardbird, allestimento lirico sulla figura di Charlie Parker (perfettamente sull’asse Selma – Race) in cartellone allo storico Apollo Theatre, temerario esperimento di fusione tra melodramma operistico (con tanto di classicissimo lamento della madre al cospetto del feretro del figlio) e orchestrazioni di jazz sinfonico in odore mingusiano. La “provocation” è alla base di questa arte, sia essa la strategia sui social di Spike Lee o la posizione spacconesca di Payton quando dice che “il ritmo sincopato nero, il DNA africano tribale sta diventando un’arte perduta… un tempo era chiaro chi fosse nella tradizione nera e chi non lo era, il codice ritmico legato alla musica rendeva evidente quale artista fosse connesso al lignaggio” (quel lignaggio che oggi fa un giro strano che tiene insieme quan-

tomeno D’Angelo, Kamasi Washington, Kendrick Lamar, Anderson .Paak, e Esperanza Spalding: vorrei parlare a lungo di Emily’s D+Evolution, magari la prossima volta…). Da molti punti di vista sembra davvero di essere tornati all’improvviso a quegli anni in cui gli ascoltatori costerna-

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ti si stringevano nelle spalle tentando di capire On the Corner e per quale motivo Miles Davis avesse preso a fare musica che suonava come trovarsi “al centro di Detroit, sulla Quattordicesima Strada di New York, o in qualsiasi area urbana davvero trafficata e affollata”, secondo la descrizione di Lester Bangs. Ecco, il gesto d’amore folle e meraviglioso che fa Don Cheadle con il suo Miles Ahead (tra le altre cose, anche una sorta di versione rovesciata e newyorkese di Collateral, che era un altro film ossessionato da Miles) si concretizza in una perfetta trasfigurazione filmata del suono che la musica di

Davis assunse all’epoca del comeback sulle scene alla vigilia degli anni ’80, giravolta hi-tech che teneva insieme vertiginosamente riferimenti e conseguenze di tutto quanto il trombettista avesse registrato fino ad allora, dagli inizi hard bop fino alle scorribande elettriche (e infatti la colonna sonora si prende la licenza di inserire brani provenienti anche dalla produzione davisiana successiva al periodo in cui si svolge l’avventura del film). Il risultato che saltava fuori era, con matematica lucidità, irresistibilmente pop. Insomma, se vi state ancora chiedendo “ma alla fine di che diavolo parla questo numero di Sentieri Selvaggi Magazine?”, la risposta è: dell’attacco pazzesco di Back Seat Betty, su The Man with the Horn del 1981. E del community garden all’incrocio tra Avenue C e la 9th, la cosa più vicina ad essere un’incarnazione delle nostre pagine migliori (e anche di quelle peggiori…) che mi sia mai capitato di vedere.

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CUORE SELVAGGIO

Black Mamba

di aldo spiniello

Il cinema afroamericano (e non solo) tra ribellioni aperte e desideri d'integrazione, identità comunitaria e individualismo insofferente. La libertà di una visione personale e la schiavitù dell'industria

“Niggaz with Attitudes”, risponde, strafottente, Eazy-E al manager Jerry Heller, che gli chiede il significato dell’acronimo N.W.A., magari immaginando qualcosa di più rabbioso o volgare. No, la realtà è un’altra. I cattivi ragazzi di Compton rivendicano con orgoglio la loro appartenenza razziale e affermano il loro carisma, come se la semplice dichiarazione portasse in dote, di per sé, una qualità non scontata. Marcano le differenze. Sono “negri”, evidentemente, quindi ancora fuori dalla grazia del dio dei bianchi. Ma hanno attitudes e questo vale a distinguerli dai “fratelli” senza vocazione, aspirazione, talento e coscienza. Se da un lato c’è il senso di appartenenza alla minoranza, dall’altro c’è uno scarto qualitativo che li “individua” e li proietta oltre. È un movimento schizofrenico: fuori e dentro il gruppo. C’è il marchio sulla pelle, della pelle, e d’altro canto un’insofferenza insostenibile per il fango della periferia. Già il

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BLACK MOVIES titolo, Straight Outta Compton, è tutto un desiderio rabbioso di liberazione, di affrancarsi dalla merda della violenza e delle miserie quotidiane. I niggaz with attitudes, in fondo, ragionano per sé, sono degli individualisti disperati e affamati. Ben lontani dalla coscienza tetragona di Jason “Furious” Style, il Lawrence Fishburne di Boyz n the Hood, che ha ancora la forza di parlare alla gente per costruire una comune consapevolezza di razza (e di classe). Altri tempi, altre generazioni. Del resto tra i sobborghi di Gary F. Gray e quella di Singleton sono passati vent’anni (nonostante i due film siano ambientati entrambi a cavallo tra gli ’80 e i ’90). E se già nel ’91 era evidente uno scarto, almeno tra le generazioni, ora la frattura attraversa tutto, come una falda geologica sempre pronta ad aprirsi in voragine. Non sembra più possibile uno spazio comunitario, un’identità che si fondi sul valore della parola, quella di Lincoln, ormai ridotta a favola o utopia, a una lettera “morta” e “falsa“ come in The Hateful Height (eppure quanto ancora si perde tempo con le parole in Tarantino?). È un mondo carico di odio. E non è un caso che gli N.W.A. si abbandonino a una guerra fratricida e a una spirale autodistruttiva, che non è poi molto diversa da una guerra di gang, da una Chi-raq senza via di scampo. Tutti contro tutti. Anche se c’è un sussulto “fraterno” finale, che non serve a rimarginare le ferite. Ecco, la parabola di Eazy-E e compagni sembra raccontare tutta l’inestricabile contraddizione in cui si dibatte la “minoranza”, qualunque essa sia. Da un lato ci

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CUORE SELVAGGIO

sono le affermazioni identitarie, per cui ogni aspirazione di evoluzione e affrancamento è necessariamente comunitaria, dall’altro c’è la messa in crisi di queste aspirazioni in un contesto conflittuale in cui l’ascesa sociale risponde a logiche rigidamente individualistiche. Se c’è il sogno di una definitiva liberazione dalla schiavitù, questa sembra potersi realizzare solo nell’ostentazione smodata del successo personale. E tutto si traduce nella duplice linea del linguaggio black, sospeso tra l'intento didattico della predicazione e la scorrettezza antistituzionale. Alla radice di entrambi c'è la necessità della lotta. Perché, forse, l’unico momento in cui la comunità si ricompatta è quello della rabbia, della violenza. Nel momento in cui si riconosce, a torto o a ragione il nemico comune. Fuck Tha Police, che è solo la versione gangsta del Fight the Power dei Public Enemy che infiammava Fa’ la cosa giusta. Contro il potere. Seppur il potere ti assorbe, a modo suo. #OscarsSoWhite. La protesta è collettiva. Ma la sopravvivenza è del singolo. E chissà che la cosa più giusta non l’abbia fatta proprio Chris Rock quando, in apertura della cerimonia degli Academy Awards ha detto, scherzando ma non troppo, “come mai sono solo disoccupati a suggerirvi di lasciare qualcosa? Nessuno con un lavoro ve lo direbbe mai. E allora sì, ho pensato di lasciare. Ci ho pensato a lungo. Ma mi sono reso conto che gli Oscar ci sarebbero stati comunque. Non è che cancellano gli Oscar perché io mi ritiro, no?”. Come a dire che in questo sistema sociale, alla fin fine conta solo portare a casa la pelle, di qualunque colore essa sia. Con buona pace dei fratelli. È la tragedia di un meccanismo, che produce masse di sfruttati, innesca dinamiche di lotta di classe, ma predica la religione suprema dell’individuo, mandando in cor-

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BLACK MOVIES to circuito le ipotesi comunitarie. Ripenso ai Dardenne di Due giorni, una notte, al Cantet di Risorse umane o alle mani negre, per dirla con l’amico Leonardo, di Audiard e Richet, visioni periferiche che distorcono l’ordine centrato dell’istituzione... Ma che c’entra tutto questo? Il sospetto che sia, innanzitutto, una questione “economica”. E lo racconta bene il Miles Ahead di Don Cheadle, altro film ossessionato dalle attitudes, come insegnava Miles Davis: “Anybody can play. The note is only 20 percent. The attitude of the motherfucker who plays it is 80 percent”. Cheadle sembra sempre alla ricerca della propria attitude, di quella visione personale che permetta di superare gli stretti confini del biopic. Lavorando sulle coordinate narrative, con l’innesto dei flashback, le scene “vere” su un impianto puramente finzionale, sul tessuto superficiale delle immagini, sul cortocircuito tra il vissuto e il percepito, tra l’ordine razionale della messinscena e la cieca, illogica devozione amorosa. When you’re creating your own shit, man, even the sky ain’t the limit. Il punto è che, nella partitura di Cheadle,

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CUORE SELVAGGIO

sembra non venir mai fuori la questione razziale, se non nel breve frammento che rievoca l’arresto dinanzi al Birdland Club nel 1959. Emerge altrove, tra le righe di un “discorso economico” che sembra il vero cuore del film. La lotta incessante che Miles ingaggia con i produttori, gli agenti, in difesa della propria ispirazione, ricerca, della propria crisi persino. Miles affila le unghie e indossa i guantoni, come fosse Jack Johnson, predica la violenza, ma solo come autodifesa, secondo un’ottica black panther. La libertà dell’artista, essenzialmente “individuale”, si scontra con la questione “sociale” dell’accesso ai mezzi di produzione. Ed è questo il problema centrale. Quello che costringe Cheadle a lavorare per anni al suo progetto, ricorrendo anche al crowdfunding. Quello che attanaglia i musicisti “fenomenali” che devono confrontarsi con la morsa di produttori bianchi ebrei (come ci racconta Nicola Gaeta nella sua incursione nella Black American Music). Quello che porta Spike Lee a difendere con i denti la sua 40 Acres and a Mule, anche a costo, magari, di strumentalizzare le polemiche in chiave autopromozionale. È il problema che spinge alcuni a cercare la via dell’indipendenza, di fonti esterne, come Nat Parker che, per The Birth of a Nation, si fa aiutare dai Michael Finley e Tony Parker dei San Antonio Spurs. Oppure muove altri al corpo a corpo con l’industria, come Fuqua che accetta, con mimetismo geniale, la sfida del blockbuster, per poi fare esplodere tutto il potenziale politico della sua visione in conflitti ben più complessi e sfumati del bianco e

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BLACK MOVIES nero. E tra la rabbia e disperazione del Billy Hope di Southpaw e le insofferenze, le paure e i sogni di gloria di Adonis Creed, quanti anni luce passano? Più o meno gli stessi che stanno tra l’abisso e la cima della montagna. Il punto non sono gli Oscar, certo. Come se la faccenda delle nomination, dei premi possa essere qualcosa in più di una semplice ratificazione dello status quo. E il punto non è neanche la pretesa di avere pari opportunità da un’industria i cui i dettami sono sempre una schiavitù (ben oltre i 12 anni). Il punto semmai è trovare una strada che vada oltre quell’industria, che ne lavori i fianchi, fino a metterne in crisi i modelli. Quello di Soderbergh, Jack Amiel e Michael Begler non è certo uno sguardo afroamericano, ma quando nel finale della seconda stagione di The Knick ribaltano la storia e lasciano intravedere un'origine black della psicanalisi, hanno un'intuizione straordinaria. Raccontano in un colpo solo un complesso edipico, un'ansia di integrazione nell'istituzione e l'orgoglio di un diritto di primogenitura (di che colore era il primo uomo?). “Non c'è un altro nero in città che abbia avuto la tua stessa opportunità, eppure non ti basta? Da cosa nasce questa rabbia che ti pervade?“, chiede il padre di Algernon Edwards nell'ultima puntata della seconda stagione di The Knick. “Sono arrabbiato per te. Sei l'uomo più intelligente che abbia mai conosciuto. Avresti potuto essere qualcuno. Qualcuno di importante... Certo che sono arrabbiato, perché ti hanno obbligato a tenere sempre gli occhi rivolti verso il basso“. Ed è ancora una volta una problema di riscatto sociale che può passare solo attraverso un successo personale, come il segno di un'uguaglianza possibile. Ma il padre ribatte: “Figliolo, tu non hai la più pallida idea di quello che ho visto“. Magari è qui, in quest'altra visione la chiave di volta decisiva. La possibilità di vedere e raccontare altrimenti, secondo una nuova attitude.

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Chris Rock

Il discorso di apertura della cerimonia degli 88esimi Academy Awards. Traduzione di Giovanna Canta

Dai, ho contato almeno quindici persone di colore in quella clip. Eccomi qui agli Academy Awards, conosciuti anche come “i premi scelti dai bianchi”. Vi rendete conto che se tra le categorie in nomination ci fosse stata anche quella dei conduttori, non avrei avuto nemmeno questo lavoro, vero? E adesso stareste guardando Neil Patrick Harris. Ma questa è l’edizione degli Oscar più incredibile e fuori di testa da condurre, considerando tutte le polemiche in corso. No, non c’è nessun attore di colore in nomination e allora mi

hanno detto: “Chris, dovresti boicottare. Chris, dovresti dimetterti. Dovresti dimetterti”. Come mai sono solo disoccupati a suggerirvi di lasciare qualcosa? Nessuno con un lavoro ve lo direbbe mai. E allora sì, ho pensato di lasciare. Ci ho pensato a lungo. Ma mi sono reso conto che gli Oscar ci sarebbero stati comunque. Non è che cancellano gli Oscar perché io mi ritiro, no? E l’ultima cosa che mi ci vuole è di perdere un altro lavoro in favore di Kevin Hart, ok? Proprio non mi ci vuole. Kev – eccolo là – fa film di continuo. Uno

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BLACK MOVIES

OscarsSoWhite?


CUORE SELVAGGIO al mese. Nemmeno i porno star ne fanno così tanti. A questo punto la questione è: “Perché protestiamo?” E la grande domanda: “Perché a questi Oscar”? “Perché a questi Oscar”, capite? Sono gli 88esimi premi dell’Academy. Ciò vuol dire che tutta la questione della mancanza di attori di colore in nomination è già avvenuta almeno altre 71 volte. Ci siamo? Dovete rendervi conto che è successo negli anni ’50, negli anni ’60 – negli anni ’60, in uno di quegli anni in cui Sidney non fece nessun film. Sono certo che non ci sono stati attori neri in nomination in alcuni di quegli anni. Sarà successo magari nel ’62 e nel ’63 e la gente di colore non ha protestato. Perché? Perché avevamo cose più importanti per cui protestare a quel tempo, sapete? Avevamo cose vere per cui protestare; cioè, eravamo troppo impegnati a essere stuprati e linciati, per pensare a chi aveva vinto il premio come migliore direttore della fotografia. Quando vostra nonna pende da un albero è un po’ difficile pensare al miglior docu-

mentario corto straniero. Ma quest’anno che cosa è successo? Che cosa? La gente si è arrabbiata. Spike si è arrabbiato e così anche Jada e Will si sono arrabbiati. Tutti si sono arrabbiati, capite? Jada si è arrabbiata? Jada ha detto che non veniva, in segno di protesta. E io ho pensato: “Ma non è in TV?”. Jada che boicotta gli Oscar. Jada che boicotta gli Oscar è un po’ come se io boicottassi le mutande di Rihanna: non sono stato invitato. Oh, no, non rifiuterei mai un invito del genere. Ma lo capisco, non ce l’ho con te. Capisco che sei arrabbiata. Jada è arrabbiata perché Will, il suo uomo, non è entrato in nomination per Zona d’ombra. Okay, okay. Diciamo la verità. Va bene. Ti sei arrabbiata – non è giusto che Will sia stato così bravo e non abbia ricevuto nessuna nomination. Sì, hai ragione. Così come non è giusto che Will sia stato pagato 20 milioni di dollari per Wild Wild West, no? Il fatto è che, quest’anno, agli Oscar, le cose saranno un tantino diverse. Quest’anno,

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tutti al mondo vorrebbero una risposta è: “Hollywood è razzista?”. Questa è… Bisogna approcciare questa domanda nel modo giusto. Bruciare i crocifissi è razzista? No. È razzista dire: “Portami qui un po’ di limonata?”. No, no e poi no. Si tratta di un tipo diverso di razzismo. Ora, ricordo che una sera ero a una serata di raccolta fondi per il presidente Obama. Molti di voi erano lì. C’eravamo io e tutta Hollywood, in pratica. C’eravamo tutti noi lì. E quattro persone nere in totale: io, vediamo un po’… Quincy Jones, Russell Simmons, Questlove. Insomma, i soliti sospetti. E tutti gli attori di colore disoccu-

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nella sezione “In Memoriam” ci saranno solo le persone di colore a cui la polizia ha sparato mentre andavano al cinema. Sì, insomma, l’ho detto. Va bene? Ehi, se volete gente di colore in nomination tutti gli anni quello che serve sono categorie di colore. Ecco quello che serve. Categorie di colore. Del resto esistono già le categorie uomo e donna. Pensateci: non c’è nessun vero motivo per avere una categoria maschile e una femminile come miglior attore. Andiamo. Non c’è alcun motivo. Non è mica atletica leggera. Non c’è bisogno di avere due categorie distinte. Cioè, Robert De Niro non ha mai detto: “Sarà meglio che rallenti questa interpretazione, così Meryl Streep può raggiungermi.” No, certo che no. Se volete gente di colore ogni anno agli Oscar basterebbe avere categorie di colore, come per esempio, “Miglior amico di colore”. Già. “E la vincitrice per il 18esimo anno di fila è Wanda Sykes. Questo è il 18esimo Oscar nero di Wanda”. Ma ecco qual è la vera domanda. La vera domanda a cui


CUORE SELVAGGIO pati. Inutile dire che Kev Hart non c’era, no? Insomma, a un certo punto arriva il momento della foto con il Presidente e, come sapete, mentre sistemano il tutto, si riesce ad avere un momento con lui. Allora gli faccio: “Signor Presidente, ha visto tutti questi scrittori, producer e attori? Non assumono gente di colore e sono i bianchi più gentili della terra! Sono liberali! Cheese!”. Proprio così. Hollywood è razzista? Certo che è razzista. E non si tratta di quel razzismo a cui ci siamo abituati. Hollywood è razzista come una sorellanza. “Ci piaci Rhonda, ma non sei una Kappa”. Ecco come funziona Hollywood. Ma le cose stanno cambiando. Stanno cambiando. Abbiamo avuto un Rocky di colore quest’anno. Alcuni lo chiamano “Creed”. Io lo chiamo “Rocky di colore”. E quello che ho appena detto ha un peso enorme. Cioè, perché Rocky appartiene a un mondo in cui gli atleti bianchi sono bravi tanto quanto quelli di colore. Rocky è un film di fantascienza. Alcune delle cose che accadono in Star

Wars sono più credibili di quelle che si vedono in Rocky, no?

"Hollywood è razzista? Certo che è razzista... è razzista come una sorellanza" Ma ehi, siamo qui per onorare gli attori. E i film. Ci sono un sacco di snob. Uno dei più grandi snob di cui nessuno parla: il mio attore preferito al mondo è Paul Giamatti. Paul Giamatti è, secondo me, l’attore migliore del mondo. Pensate a quello che ha fatto Paul Giamatti negli ultimi due anni. L’anno scorso era in 12 anni schiavo e odiava la gente di colore. Quest’anno lo ritroviamo in Straight Outta Compton e ama la gente di colore. L’anno scorso faceva il tifo per Lupita. Quest’anno piange al funerale di Eazy-E. Questa sì che è versatilità. Mica parliamo di Ben Affleck. Quello che cerco di dire è che insomma, la questione non è se boicottare o meno. Quello che vogliamo è un’opportunità. Vogliamo che gli attori neri abbiano le stesse pos-

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mondo. Jamie Foxx è stato così bravo in Ray che sono andati in ospedale e hanno staccato la spina al vero Ray Charles. Si sono detti: "Non ce ne servono due di questi!”. Naa. Ma la razza non è tutto. Un’altra cosa importante di questa serata è – non so chi è stato a dirmelo – il fatto che non si può più chiedere a una donna che cosa indossa. C’è questa storia del: “Chiedile qualcosa in più. Devi chiederle qualcosa in più”. Agli uomini chiedono di più, no? Non tutto è sessimo, non tutto è razzismo. Fanno più domande agli uomini perché gli uomini si vestono tutti nello stesso modo, no? Ogni uomo laggiù sta indossando esattamente la stessa cosa. Se George Clooney si presentasse con uno smoking verde lime e un cigno che gli viene fuori dal sedere, qualcuno gli chiederebbe: “Che cosa indossi George?”... Ehi, benvenuti agli 88esimi Oscar dell’Academy. Sì, grazie. Volevate varietà? E l’avete avuta! Date il benvenuto a Emily Blunt e a qualcuno di più bianco, Charlize Theron.

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sibilità di quelli bianchi. Tutto qui. Non solo per una volta. Leo ottiene una gran parte tutti gli anni e tutti quanti voi ricevete delle grandi parti continuamente. E gli attori neri? Prendete Jamie Foxx. Jamie Foxx è uno degli attori più bravi al




CUORE SELVAGGIO

The Black Supremacy

e il paradosso delle statuette in White

di gugliemo siniscalchi

La mancata assegnazione delle statuette a protagonisti della cultura afro-americana suona un po' come un paradosso: l'esclusione ha il sapore di un ultimo grido disperato di Hollywood prima di cedere completamente allo strapotere dei protagonisti “black” di altre forme visive

Dubbi non ve ne sono: le recenti premiazioni delle statuette più ambite dallo star system cinematografico hanno assestato un duro colpo alla “black culture” hollywoodiana, premiando un parterre di artisti rigorosamente in white. Una scelta che in altri tempi probabilmente non avrebbe destato scandalo, ma che oggi, invece, suona un po’ come una vera e propria discriminazione verso una buona parte di protagonisti del mondo di celluloide che rappresentano anche il riscatto, politico e sociale, di una larga parte di America. Difficile dire se la scelta sia stata “premeditata” o solo casuale, certo è che il suo valore simbolico non è passato inosservato.

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Anche se poi, a ben guardare, la polemica appare più complessa toccando in maniera sensibile il ruolo politico e socialmente normativo delle star, l’influenza che il grande schermo esercita sull’immaginario collettivo, la possibilità che il cinema costituisca ancora un’arma di riscatto sociale per chi si immedesima in storie, eroi ed eroine rappresentate nei propri film preferiti. Tutte questioni che invitano a riflettere su quel che resta del fascino e della forza ammaliatrice della settima arte, sulla sua capacità di essere ancora strumento potente per costruire ed affermare “oggetti e tipi sociali” come i nuovi stereotipi del corpo femminile e maschile, inedite riconfigurazioni della percezione di atti ed istituzioni sociali (il matrimonio, la famiglia, lo stato…), nuove possibilità di immaginare la nostra società globale e multi-etnica. In quest’ottica sicuramente il cinema si è rivelato un mezzo decisivo per modificare ed “emancipare” il ruolo sociale dei neri d’America, contribuendo non poco alla formazione di quella grande “black culture” che ha regalato capolavori in ogni ambito artistico (dalla musica alle immagini, dall’arte astratta ai graffiti urbani...). Finché il cinema è stata la grande possibilità di liberazione del nostro sguardo, il “nero” filmico ha segnato uno scarto ulteriore – basti pensare alla blaxploitation degli anni ‘70… –, un margine infinito di decodificazione di corpi, stili ed immagini. Ma oggi è ancora così? Oppure il declino della settima arte ha finito per affermare un’inaspettata black supremacy nell’universo delle immagini in movimento? Se prima il colore nero era simbolo di marginalità, di arte periferica, di continua “decodificazione” e “smontaggio” dei codici comunicativi “bianchi”, oggi cosa è rimasto del


CUORE SELVAGGIO potere “eversivo” di questi segni visivi? Rispondere a queste domande significa riflettere per un momento sul rapporto fra piccolo e grande schermo, sulla “serialità” dei prodotti destinati alla televisione (anzi, sarebbe meglio dire agli schermi di tablet, smart tv, smartphone e pc) e la singolarità della visione cinematografica. Perché è proprio nello scarto fra visione filmica e consumo “televisivo” che si gioca oggi la complessa dinamica fra corpi “bianchi” e “neri”. In realtà, la conquista televisiva della “black culture” è questione antica e risale almeno agli anni ‘70 e ‘80: chi non ricorda telefilm come The Jeffersons, o Diff’rent Strokes (in italiano Il mio amico Arnold), o ancora le celebri avventure familiari di The Cosby Show (I Robinson)? Tutte serie televisive di grande successo che sembrano ri-codificare e adattare per il gusto del grande pubblico americano prima, ma anche europeo dopo, corpi e figure introdotti dal cinema afro degli anni precedenti. Con alcune interessanti variazioni ed evoluzioni: mentre nelle prime serie degli anni ‘70 la rappresentazione dei “neri” offre modelli sociali in

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cerca di “riscatto”, con quadretti familiari di imprenditori che ambiscono ad un’alta società borghese cui evidentemente non appartengono – anzi, potremmo dire che molta della verve comica dei Jeffersons nasce proprio da questa ambizione... – o con bambini neri adottati da bianchi miliardari – è il caso di Arnold ovviamente… –, già I Robinson mostrano una famiglia afro-americana perfettamente integrata nell’alta società di Brooklyn costruendo una nuova immagine politica e sociale del black body. Lontano dagli sperimentalismi del grande schermo o dell’autorialità di alcuni straordinari registi cinematografici (Spike Lee è solo la punta dell’iceberg…), la cultura visiva afro si preoccupa, attraverso la serialità e la ripetizione del mezzo televisivo, di proporre nuovi stereotipi sociali dove il “nero” è l’altra faccia della medaglia di una società multietnica comunque dominata da cliché “bianchi”. Almeno fino al successo mondiale delle opere “seriali” scritte o prodotte da Shonda Rhimes: perché è qui, in maniera più evidente di altre situazioni, che cambiano le “regole del gioco”. I corpi afro di figure femminile come Olivia Pope – la


CUORE SELVAGGIO protagonista di Scandal – o dell’avvocatessa bisessuale Annalise Keating in How to Get Away with Murder (Le regole del delitto perfetto) sono “corpi del Potere”, figure che occupano spazi istituzionali frequentati cinematograficamente in prevalenza da bianchi (i tribunali, le università, la “stanza ovale”, i briefing di agenzie di spionaggio più o meno “deviate”…) modificando radicalmente codici, stili e forme dello sguardo. Basterebbe pensare al tema della rappresentazione di una giustizia sempre relativa alle pulsioni del corpo e non ai rigidi dettami dell’Idea, alla parcellizzazione spaziotemporale del ritmo del racconto, alla continua “oscillazione” passionale e sessuale dei protagonisti, per rendersi conto che la “scrittura” afro della Rhimes punta inevitabilmente a ridefinire l’immaginario collettivo delle società occidentali rovesciando, o semplicemente “urtando”, i classici cliché “bianchi”. Non si lavora più sulle periferie dell’occhio, lungo i bordi dell’inquadratura cinematografica: qui il campo visivo finisce inevitabilmente per dilatarsi occupando i territori e le regioni di un pubblico di “massa”, di un consenso che vorrebbe essere il più ampio possibile. Perché se Hollywood “colonizza” ancora con quel che resta delle sue star, gli altri “piccoli” e multiformi schermi “scolpiscono” il nostro quotidiano, sono parte del nostro mondo, accompagnano costantemente le nostre percezioni ed “impressioni” dell’altro. È un lavorio costante, un brusio visivo che oggi, in molti casi, risuona di note afro, di sincopate melodie rigorosamente in “nero”. Ecco perché la mancata assegnazione delle statuette a protagonisti della cultura afro-americana suona un po’ come un paradosso: l’esclusione – volontaria o del tutto casuale cambia poco… – ha il sapore di un ultimo grido disperato di Hollywood prima di cedere completamente allo strapotere dei protagonisti – spesso in “black” - di altre forme visive. Il paradosso è tutto qui: l’assenza lungi dall’essere segno di debolezza finisce per rivelare tutta la “supremazia” – “fisica”, stilistica, normativa – dei nuovi corpi, e non solo, del “black power”.

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Oltre lo Zio Tom di emanuele di porto

Il padrone prendeva Tom e lo vestiva bene, lo nutriva bene e gli dava persino un po’ d’istruzione: un po’. Gli regalava un cappotto lungo e un cappello a cilindro e così tutti gli altri schiavi lo guardavano con invidia. Poi si serviva di lui per controllare gli altri. La stessa strategia di cui si serviva in quei tempi, lo stesso uomo bianco l’adopera oggi: prende un negro, un cosiddetto negro, e lo rende famoso, gli suona la grancassa, gli fa tutta la pubblicità possibile fino a farlo diventare celebre, fino a farne un portavoce e un leader dei negri. (Malcolm X - Detroit 10/11/1963) Malcolm X declamò il Message to Grassroots a pochi mesi di distanza dalla storica marcia di Washington in cui Martin Luther King annunciò al mondo che aveva fatto

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Forse la sfida del cinema afroamericano, oggi più che mai, è quella di esprimere un punto di vista "non delegato", capace di smarcarsi definitivamente dalle esigenze e dalle strategie di un'industria "bianca". Ma quale sarà la risposta di Hollywood e dello show business?


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un sogno. Il discorso dell’esponente della Nation of Islam nasceva come una risposta diretta a quello ben più celebrato del pastore battista. Le note più alte della sua virulenza investivano soprattutto il favore sempre più diffuso che il leader aveva presso i bianchi. Lo sforzo della sua retorica era indirizzato a formulare nei suoi confronti l’accusa di essere un house negro. Un film come Django Unchained di Quentin Tarantino ha offerto una splendida rappresentazione di un’etichetta tanto infamante nel servile personaggio di Samuel L. Jackson. L’infido maggiordomo dello schiavista Leonardo DiCaprio rende l’idea molto meglio del riferimento allo Zio Tom che Malcolm X citava con frequenza. Il concetto trasmesso attraverso l’esempio del romanzo di Harriet Beecher Stowe era quello di un’insana relazione tra l’oppresso e l’oppressore. La subordinazione arrivava ad un punto tale che chi la subiva la percepiva come il suo stato naturale e boicottava qualsiasi alternativa ad essa. Il richiamo alle avventure sudiste del cacciatore di taglie Jamie Foxx è utile anche per definire la reale dimensione delle recenti polemiche innescate da Spike Lee. L’autoproclamato padre putativo di tutti i registi afroamericani si scagliò immediatamente contro quella ricostruzione dell’epoca dello schiavismo. Un suo messaggio su Twitter fece da cassa di risonanza alla sua indignazione per come l’olocausto della sua gente era stato banalizzato e ridicolizzato in uno spaghetti-western. Lo stesso autore dell’anatema sosteneva che non aveva ancora visto il film e che non lo avrebbe mai fatto per rispetto al suo passato e alle sue vittime. Il tono preventivo era più o meno lo stesso con cui aveva attaccato Clint Eastwood per aver dimenticato di mettere dei marines neri nel suo dittico bellico composto da Flags of Our Fathers e Letters from Iwo Jima. Il fatto che quella questione fosse nata in occasione della presentazione di Miracle at St. Anna non è puramente casuale. Spike Lee fa spesso appello a dei dettagli pretestuosi per innescare la miccia del dibattito. Il pale rider ha ignorato la provo-

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BLACK MOVIES cazione e ha invitato il suo interlocutore a chiudere il becco. Sfortunatamente, non tutti nel suo ambiente hanno le sue virtù diplomatiche. Spike Lee alza il polverone del razzismo sempre pro domo sua in una specie di freestyle battle personale. Purtroppo, ottiene l’effetto di non far nascere mai una vera riflessione su quello che è stato ed è il cinema afroamericano. I suoi film hanno perso la loro forza attrattiva proprio quando la vita nel ghetto ha smesso di essere l’unica condizione dei neri. Il regista non può più contare sull’attualità di un contesto sociale come quello di Mo’ Better Blues o di Jungle Fever. La fuga verso i ‘burbs ha messo la sordina ad un cinema che aveva fatto della marginalizzazione il suo spazio vitale. Spike Lee non vede altro ruolo per i neri all’interno della società americana. Ovviamente, non si chiede nemmeno se il suo medium abbia contribuito o meno al loro affrancamento. Le sue sfide dialettiche non si interrogano mai sulla questione principale. L’evasione dalla gabbia dei blocks si è compiuta in autonomia o si è consumata sulla base di una logica bianca? Le sue rivendicazioni insistono soltanto sulla rievocazione di una situazione pregressa e superata. La sua resurrezione è necessaria per nominarsi di nuovo come leader dell’emancipazione. La sua prospettiva su Django Unchained sarebbe stata diversa se soltanto fosse partita da una coscienza cinematografica, invece che da un approccio esclusivamente politico. Quentin Tarantino non ha vissuto sulla sua pelle la discriminazione razziale ma la sua conoscenza enciclopedica dei film americani gli ha permesso di capire l’evoluzione dei black-movies molto meglio di quanto abbiano fatto i suoi migliori alfieri.

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Le citazioni di David Wark Griffith che percorrono Django Unchained toccano il loro apice nella cavalcata del Ku Klux Klan. Una riproposizione grottescamente epica di quella di The Birth of a Nation del 1915. Il primo kolossal di tutti i tempi stabiliva chiaramente quali fossero i confini entro i quali i neri potevano muoversi sullo schermo. Gli schiavi che raccoglievano il cotone nei campi della famiglia Cameron vivevano in pace fino a quando l’abolizionismo e la sconfitta dei sudisti non hanno mutato un ordine manifesto delle cose. La falsa libertà della ricostruzione scatenava la prepotenza e l’indole brutale del negro selvaggio. Il diritto di voto era un’arma in più per una minoranza etnica che non si faceva più scrupoli a stuprare e a depredare i villaggi dei bianchi. Il tipico last minute rescue griffithiano sostituiva i reggimenti dei rangers con la cavalleria incappucciata che ristabiliva un parziale status quo. La prospettiva razzista di The Birth of a Nation venne immediatamente messa in luce e condannata dagli intellettuali liberal, ma il tentativo di esorcizzarla non fece altro che confermarla. I film di risposta mostravano delle famiglie nere che erano innocue proprio perché vivevano nella natura dei campi e cantavano i gospel. L’Oscar come migliore attrice non protagonista ad Hattie McDaniel in Gone with the Wind di Victor Fleming fu il nuovo trionfo di uno luogo comune. La statuetta ribadì quale doveva essere lo spazio in cui un nero poteva essere accettato e addirittura premiato. Queste premesse impongono di chiedersi se Sidney Poitier sia stato davvero la prima star afroamericana. La risposta è meno automatica di quello che i numerosi riconoscimenti della sua carriera potrebbero far sembrare. La sua presenza nella lista dell’American Film Institute dei più grandi attori di tutti i tempi potrebbe trarre in inganno. Il problema dei personaggi tipici di Sidney Poitier trova un esempio emblematico nel modo in cui si presentava a Katherine Hepburn e a Spencer Tracy in Guess Who’s Coming to Diner di Stanley Kramer. La composizione ideale della famiglia tollerante viene convinta a benedire l’unione tra la loro figlia e il giovane medico nero soltanto perché il ragazzo si mimetizza come un perfetto bianco. Il vagabondo che aiuta le cinque suore a costruire una cappella nel bel mezzo del deserto dell’Arizona gli aveva fatto guadagnare un Oscar e The Lillies of the Field di Ralph Nelson aveva scoperto le sue potenzialità come bravo ragazzo. L’interpretazione più nota di Sidney Poitier è quella di In the Heat of the Night di Norman Jewison.

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Il film venne premiato dall’Academy nel corso di una cerimonia che si tenne poche settimane dopo l’assassinio di Martin Luther King. Il suo ispettore di polizia parlava e pensava anche in questo caso come un prodotto dei college borghesi. La sua buona educazione doveva sconfiggere il pregiudizio dello sceriffo di una cittadina del Mississippi. Inizialmente, il protagonista veniva arrestato ed incriminato perché aveva addirittura del denaro in tasca. Il diritto di disporre del proprio onesto guadagno era di pertinenza esclusiva dei cittadini rispettabili. È difficile capire se i contorni dei personaggi incarnati Sidney Poitier fossero un’ambizione della sua comunità o rispondessero ai desideri della società dominante. Le buone intenzioni di integrazione non bastano ad allontanare il dubbio "E se Sidney Poitier fosse stato soltanto la che queste condizioni fossero pur sempre calate dall’alto. E se Sidney Poitier fos- versione moderna di un house negro mandase stato soltanto la versione moderna di ta a distogliere i suoi simili dalla rivoluzione un house negro mandata a distogliere i annunciata da Malcolm X?" suoi simili dalla rivoluzione annunciata da Malcolm X? La musica è stato uno dei primi ambiti artistici in cui i neri hanno iniziato a ritagliarsi uno spazio autonomo. Il blues venne assimilato dallo stardom del rock ma le esperienze di etichette come la Motown diedero vita ad un campo della discografia inaccessibile ai bianchi a partire dall’elemento fondamentale della proprietà. Barry Gordy Jr. lasciava i suoi artisti liberi di sperimentare un nuovo sound perché era un fratello e aveva fiducia nel loro talento. Tuttavia, il settore in cui gli afroamericani stravolsero completamente le convenzioni fu quello dello sport. Jackie Robinson fu il primo giocatore di baseball ad imporsi nella MLB, ma le sue prodezze con i Brook-


CUORE SELVAGGIO lyn Dodgers furono un’altra dimostrazione del "negro che restava al suo posto". L’egemonia diffusa nella boxe era vissuta come un retaggio della schiavitù. I pugili si massacravano tra di loro per sfuggire alla povertà e per il divertimento dei bianchi. Il basket fu il campo in cui i neri riscrissero per sempre le regole e i tempi delle partite su misura del loro fisico. Le lotte per i diritti civili furono cadenzate da un decennio in cui la NBA venne monopolizzata dagli scontri sotto canestro tra Bill Russell dei Celtics e Wilt Chamberlain dei Sixers. Il primo faceva collezione di anelli di MVP ed era un attivista molto vicino alle Black Panthers. Il secondo si consolava dalle sconfitte facendosi vedere per i locali in compagnia di donne di ogni colore. La presenza scenica e le battute sul ring di Muhammad Alì fecero capire al mondo del cinema che lo sport era un terreno in cui si potevano trovare degli attori interessanti e già popolari. Woody Stroode fu uno dei primi giocatori afroamericani della NFL e sfiorò il Golden Globe per la sua toccante battaglia sull’arena contro Kirk Douglas in Spartacus di Stanley Kubrick. Il numero dei touchdown messi a segno da Jim Brown gli valsero non soltanto alcuni record durati più di trenta anni, ma anche un posto in The Dirty Dozen di Robert Aldrich. Il campione da hall of fame dei

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Cleveland Browns recitò anche la parte di un cacciatore di taglie nel meno acclamato 1000 Rifles di Tom Gries. Il suo personaggio fraternizzava con l’indiano rinnegato Burt Reynolds e i due mettevano a segno un fortunato attacco contro l’esercito. Il suo antieroe non solo riceveva giustizia contro il sistema, ma aveva anche un rapporto consenziente con Raquel Welch. L’idolo nero del football conquistava e toccava la donna più desiderata del paese senza avere bisogno di stuprarla. Il fatto era molto più eclatante dei premi scintillanti che erano finiti nelle mani delicate dell’accettabile e gentile Sidney Poitier. Il perfido Gus di The Birth of a Nation era un concentrato di forza fisica e di incontinenza carnale. Le caratteristiche più evidenti e più temute del "negro" vennero rapidamente rovesciate e divennero i tratti caratteristici dell’eroe afroamericano. Melvin Van Peebles ne fondò inconsapevolmente le basi con un film autoprodotto che ebbe un duplice effetto sul panorama hollywoodiano. Il protagonista di Sweet Sweetback’s Baadasssss Song era letteralmente il figlio di una prostituta e sfuggiva continuamente alla polizia grazie ai suoi muscoli e ai favori di donne soggiogate dalle sue prestazioni sessuali. Il film era ambientato nei più sordidi sobborghi di Los Angeles e fu il primo a ricevere l’approvazione del Black Panther Party. L’endorsement di una delle organizzazioni più sorvegliate dall’FBI non fu influente quanto il rapporto ridicolo tra


CUORE SELVAGGIO i costi di produzione e gli incassi che si dimostrarono fortuitamente eccezionali. L’industria non soltanto si era ritrovata tra le mani un nuovo pubblico, ma aveva anche a disposizione una nuova formula per compiacerlo. La blaxploitation fu il primo genere che si confrontò con le velleità e le frustrazioni dei neri in modo diretto e aderente al contesto in cui vivevano. Gli studios si affacciarono alla questione in modo speculativo, ma il successo della loro proposta dimostrò che fino a quel momento il vero gusto di quella comunità non era stato nemmeno sfiorato. La proliferazione di icone come Richard Roundtree e di Ron O’Neal impose anche l’ideale di uno specifico sex-symbol. La frase di lancio di Shaft di Gordon Parks prometteva che il detective era più caldo di James Bond e più fico di Bullitt. Il black power abbandonava i modelli bianchi e imponeva la sua superiorità sui canoni che gli erano stati imposti. L’emancipazione avveniva anche sul fronte femminile e Pam Grier divenne la stella assoluta sia di Foxy Brown che di Coffy, diretti entrambi da Jack Hill. Le sue doti in combattimento si affiancavano a quelle di una seduzione funzionale in cui il suo corpo si mostrava senza vergogna come una forma irraggiungibile per le bianche. Hollywood iniziò a costruire uno stardom settario su degli standard di comportamento che sarebbero stati inaccettabili fino a qualche anno prima. In Shaft, il possente Richard Roundtree era un private eye che si barcamenava tra le bande

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di Harlem e la mafia di Little Italy facendosi continuamente beffe della polizia. In Super Fly di Gordon Parks Jr., l’elegante Ron O’Neal era un pusher e un pappone che provava a fare il colpo della vita per liberarsi dal giogo dei suoi boss neri e dei loro fornitori bianchi. Lo scenario della microcriminalità cittadina non veniva nobilitato, ma le sceneggiature si arrendevano al fatto che quella fosse l’unica realtà in cui gli afroamericani potevano identificarsi. Il protagonista di questi film è spesso un solitario che viene tradito sia dalla mancanza di coscienza collettiva dei suoi fratelli che dall’avidità dei bianchi. In Coffy, l’irresistibile Pam Grier organizzava la sua vendetta verso chi aveva mandato sua sorella sulla via della tossicodipendenza e della prostituzione. La donna scopriva che il racket era protetto dal referente politico dei filantropici programmi di integrazione del suo quartiere. L’opzione nichilista della giustizia privata era l’unica alternativa ad una strada già segnata verso le rapine o la droga. Oppure, verso il luogo comune dell’house negro che entra nella polizia " La sommossa che sconvolse Los Angeles per e si piega agli ordini dell’oppressore. La cinque giorni nella primavera del 1992 rese dicotomia che aveva messo a nudo la disillusione di Malcolm X sulla convivenza chiaro all’opinione pubblica che gli afroame- pacifica ritorna continuamente. Il forte riricani non volevano più restare nella zona torno commerciale della blaxploitation è durato meno di un decennio, ma il temfranca del ghetto" po è sufficiente per dare una risposta sul razzismo hollywoodiano. I produttori si comportano come tutte le imprese commerciali e si tengono lontani da quello che potrebbe allontanare i clienti dal mercato. Gli studios sono stati conservatori fino a quando essere troppo radicali allontanava gli spettatori. Le loro scelte hanno virato su storie meno convenzionali quando le famiglie hanno abbandonato le sale e l’unica audience rimasta era quella della controcultura. La loro necessità di compiacere il pubblico si abbina sempre alla condizione preliminare di una normalizzazione sociale. I consumatori turbolenti sono anche imprevedibili e Hollywood ha sempre tentato di livellare le loro attese stemperando le tensioni. La questione era diventata più che mai impellente all’epoca delle rivolte che seguirono il pestaggio di Rodney King. La sommossa che sconvolse Los Angeles per cinque giorni nella primavera del 1992 rese chiaro all’opinione pubblica che gli afroamericani non volevano più restare nella zona franca del ghetto. I cinquanta morti che rimasero sul campo avevano dimostrato che erano pronti a tutto pur di riuscire nel loro intento. Allo stesso tempo, le loro richieste non si limitavano ad accettare quel ruolo subalterno che era sempre stato l’unica opzione d’ingresso nella società. Lo specchio di questa nuova esigenza fu l’esordio di Will Smith nella popolarissima serie-tv The Fresh Prince of Bel-Air. Il format andò avanti per sei anni dal 1990 al 1996 e aprì la strada della celebrità al suo protagonista con delle premesse completamente diverse. La sua provenienza dal contesto della musica rap non era casuale e legava la sua ascesa ad un genere musicale di esclusiva competenza nera. Una permeabilità tra i due ambiti che si era manifestata anche nella partecipazione di Ice Cube a Boyz


CUORE SELVAGGIO n the Hood di John Singleton. Il protagonista assoluto dello show era un teppista di Philadelphia che veniva mandato dalla madre nel ricco quartiere californiano per sfuggire alle cattive compagnie. La villa di suo zio era il classico esempio della famiglia nera agiata che cerca di inserirsi nella respingente upper-class bianca. Il contrasto tra il suo abbigliamento da rapper e quello da ivy league del cugino è fondamentale per capire come gli afroamericani iniziavano ad ostentare la loro diversità invece che nasconderla. Carlton è sostanzialmente un idiota proprio per il modo in cui scimmiotta vanamente il modo di fare degli WASP. Invece, l’indole spontanea di Will gli permette di dominare un contesto sottomesso all’etichetta e al galateo dei bianchi. Le sue bravate e il suo slang erano sconvenienti per il desiderio di ascesa sociale della sua famiglia. Eppure, erano gli unici atteggiamenti in cui un nero si sentiva veramente a suo agio e alla fine risultavano sempre vincenti. Will Smith doveva essere il nuovo idolo del pubblico e la parte del top gun di Independece Day di Roland Emmerich gli spalancò le porte del successo. Yeah! Yeah! I’m out that Brooklyn, now I’m down in Tribeca Right next to DeNiro, but I’ll be hood forever I’m the new Sinatra, and since I made it here I can make it anywhere, yeah! (Jay-Z – Empire State of Mind) Il contemporaneo fenomeno musicale degli NWA esprimeva un concetto chiaro sin dal titolo del loro album più celebrato. Straight Outta Compton urlava il desiderio di fuga dal ghetto e dalle violenze della polizia, ma elencava soprattutto le proprie

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condizioni per la tregua. La storia della band è diventata un film di F. Gary Grey che significativamente ha lo stesso titolo di quella incisione. La madre di Dr. Dre vorrebbe che il figlio facesse un lavoro solido e rispettabile invece di mettere i dischi. Il successo del gruppo viene strumentalizzato da un manager bianco che sfrutta la loro ignoranza in fatto di contabilità. I fratelli offrono protezione ma trattengono il loro talento sull’orlo della criminalità e vivono di eccessi alle spalle dei loro soldi. Il film offre anche la chiave con cui i niggers with attitudes hanno scardinato questo circolo vizioso che apparentemente non dava vie di uscita. I componenti della crew si lasciano ma ognuno di loro fonda un’etichetta in proprio e inizia a produrre una hit dopo l’altra. I profitti dell’industria dei bianchi gli consentono di ritagliarsi la loro autonomia e di aumentare il loro potere fino a dettare le loro leggi. Gli incassi da capogiro di Will Smith gli hanno permesso di finanziarsi molti film che altrimenti non avrebbero trovato degli investitori. La stessa operazione è stata fatta spesso da un’altra nera a modo suo come Oprah Winfrey. Il multimilionario Jay-Z ha i posti migliori al Garden di New York e la sua presenza con Beyoncé fa parte dello spettacolo molto più delle pallide prestazioni dei Knicks. Le sue apparizioni hanno eclissato quelle altrettanto costanti e pittoresche di Spike Lee anche perché sono quelle di un amico di Barack Obama che non ha rinunciato alle sue pose da gangsta. La lista potrebbe essere arricchita da Denzel Washington o da Snoop Dogg, ma la portata di questi nomi basta e avanza per capire il valore di mercato attuale del-


CUORE SELVAGGIO la cultura afroamericana. Un buon film di Tyler Perry o di Malcolm D. Lee vale tranquillamente un bottino sui sessanta milioni di dollari. Le loro storie familiari e sentimentali sono precluse ad un pubblico estraneo ma possono contare su una fanbase che suggerisce persino un distinzione razziale nella percezione del romance. L’operazione di emancipazione è più ambiziosa e riguarda una rete che le celebrità della comunità hanno costruito per riscrivere la loro storia. I loro cachet e la garanzia di una star contribuiscono ad una brillante forma di rielaborazione del loro passato comune. Una rivisitazione che parte dalla schiavitù di 12 Years a Slave di Steve McQueen e riguarda anche i tormenti di Martin Luther King in Selma di Ava DuVernay. Una libertà nelle scelte che non si è guadagnata soltanto l’attenzione della critica e dei giurati delle numerose premiazioni hollywoodiane. Questi film si impegnano a gettare uno sguardo inedito sulle loro vicende. Infatti, l’epopea degli afroamericani è sempre stata raccontata dal punto di vista della sensibilità bianca. Un filtro che non ha risparmiato nemmeno i romanzi delle più grandi firme della letteratura nera.

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The Color Purple di Alice Walker è stato portato sullo schermo da Steven Spielberg e Beloved di Toni Morrison è stato adattato da Jonathan Demme. Il mondo del loro cinema sente il bisogno di fare a meno anche di questa benevolenza importante ma ormai non più necessaria. The Butler di Lee Daniels riassume perfettamente il doppio atteggiamento con cui i neri si sono accostati alla società. Forest Whitaker è il maggiordomo che ha lavorato per decenni nella Casa Bianca e ha assi"Dopotutto Hollywood è soltanto una questito alla storia. David Oyelowo è il figlio che ci entra da politico dopo aver lottato stione di affari e i soldi non hanno mai per la dignità della sua gente. I due non colore" si parlavano da anni perché non condividevano il ruolo a cui uno di loro doveva rassegnarsi pur di vivere. Era sufficiente lavorare duro per i bianchi oppure era doveroso rischiare tutto per avere di più? Il regista aveva messo in chiaro con Precious che i neri sarebbero usciti dal ghetto solo se si fossero liberati dal loro fatalistico complesso di inferiorità. La sfida della protagonista contro la sua obesità poteva essere vinta solo se avesse smesso di piangersi addosso per i suoi svantaggi di partenza. La nuova generazione di questo cinema ha sottoscritto un accettabile compromesso con i bianchi per far sentire la propria voce. La loro posizione non è perfettamente riconciliata e a volte ancora non è ben disposta verso il perdono. Eppure, è un punto di vista che fino a qualche tempo fa poteva esistere solo attraverso la complicità di una delega. Dopotutto, Hollywood è soltanto una questione di affari e i soldi non hanno mai colore. Le grandi star afroamericane lo hanno capito prima di Spike Lee e lo hanno lasciato a combattere nella sua isola deserta.




CUORE SELVAGGIO

Boyz n the Hollywood 10 icone black nel cinema post(moderno)

a cura di pietro masciullo

Le istanze, le rabbie, i desideri e le rivendicazioni della cultura afroamericana hanno spesso incontrato/scontrato Hollywood nella sua codificatissima strutturazione di un immaginario condiviso. Molto spesso, pertanto, queste istanze si sono condensate nello statuto iconico di cineasti o attori che ne hanno saputo interpretare le piÚ profonde motivazioni sfruttando o terremotando le regole del cinema. Ecco: questi sono solo brevissimi appunti, senza nessuna ambizione esaustiva, su dieci persone/personaggi che hanno straordinariamente segnato il cinema americano dagli anni ’70 a oggi.

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Melvin Van Peebles

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Il padre della Blaxploitation, l’attore/ regista/produttore che nel 1971 dedica il suo film-manifesto Sweet Sweetback's Baad Asssss Song «a tutti i fratelli e le sorelle che ne hanno abbastanza dell'uomo bianco». Un cazzotto in faccia a Hollywood che sovverte lo stereotipo dell’eroe integrazionista (come molti personaggi di Sidney Poitier) facendo interpretare il film “alla comunità nera” (questo si legge sui titoli di coda) e rivendicando uno spazio indipendente nel cinema. Insieme a Spike Lee il più politico e influente regista afroamericano della storia.


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Richard Roundtree L’icona numero uno della Blaxploitation anni ’70 nei panni del detective Shaft. Poliziotto tosto e mai subalterno che sfida i bianchi sul loro terreno rovesciando gli stereotipi cinematografici (quelli dell’uomo di colore servizievole poliziotto o spietato gangster) e diventando il personaggio-mito per un’intera generazione di attori afroamericani. Forse proprio per la sua non brillante carriera successiva la figura di Roundtree rimane inscindibile da quella di Shaft.

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Pam Grier BLACK MOVIES

Coffy, Foxy Brown, Sheba, insomma l’icona femminile della Blaxploitation (insieme alla meteora Tamara Dobson di Cleopatra Jones). Una femminilità aggressiva e ammaliante che si ribella al potere maschile divenendo soggetto e oggetto di sguardo nello stesso tempo, con personaggi capaci di inseguire una violenta giustizia privata salvaguardando però una bellezza folgorante in ogni inquadratura. Carisma che resiste intatto nel 1997 con l’interpretazione della vita: Jackie Brown di Quentin Tarantino, dove Pam Grier riesce ancora a sopravvivere mettendo a frutto il suo fascino e barcamenandosi tra gli istinti più violenti di Los Angeles.

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STAR WARS

Spike Lee Il più famoso, discusso e amato regista afroamericano della storia, capace di concepire il suo cinema-mondo in Fa’ la cosa giusta: politica e scontro culturale, idealismo e determinismo radicale, rabbia e riflessione sociologica, provocazione e grande senso dello spettacolo… insomma una babele di istanze contrapposte convivono in una strada di Harlem, in estate, in un solo giorno. Strada che diventa cinema in ogni angolo (di inquadratura). Il suo stile barocco e il suo uso dinamitardo della musica vengono messi a servizio di una regia intrisa d’amore per il cinema europeo alla Godard e per l’indie di sponda newyorkese degli amici e sodali Jim Jarmusch e Abel Ferrara. Una carriera altalenante, mai conciliata, un bus in viaggio che non si ferma ancora. Fight the Power!

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Denzel Washington

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Semplicemente uno degli attori più influenti e celebrati degli ultimi vent’anni. Capace miracolosamente di reggere sulle spalle l’eredità da prima-star di colore a Hollywood (il “nuovo Sidney Poitier” in film come Glory, Grido di libertà o Il rapporto Pelican) sposandola però con uno statuto iconico che assorbe e rimette intelligentemente in circolo le istanze immaginarie dei ribelli anni ‘70. Washington diviene così l’attore feticcio dei più influenti registi afroamericani come Spike Lee, Carl Franklin e Antoine Fuqua (in Malcom X, He Got Game, Il Diavolo in Blu, Training Day, ecc). Con Philadelphia di Demme e Flight di Zemeckis dimostra di essere uno dei più coraggiosi e talentuosi interpreti della sua generazione.


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Samuel L. Jackson L’attore tarantiniano per eccellenza che più di tutti ha saputo fondere le radici artistiche intimamente blues della cultura afroamericana con una recitazione cinematografica raffinatissima e funzionale. Ossia di sposare qualsiasi copione o sceneggiatura (dall’action movie alla commedia, dal film d’autore al blockbuster…insomma un Pulp Fiction in carne e ossa) a una dizione che letteralmente canta in soul music risemantizzando ogni battuta. Non a caso è il dj/narratore in Fa’ la cosa giusta. Una carriera incredibilmente prolifica culminata nel sommo Marquis Warren di The Hateful Eight (fantasma abissale e contraddittorio dell’America post linconiana).

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Angela Bassett Stupenda incarnazione immaginaria di Betty Shabazz (Betty X, moglie di Malcolm), interpretata per ben due volte: nel film biografico di Spike Lee accanto a Denzel Washington e poi in Panther di Mario Van Peebles (figlio di Melvin e suo erede cinematografico). Musa del cinema black anni ’80 e ‘90, in una manciata di film diventa la nuova Pam Grier con personaggi più lacerati e complessi. Indimenticabile raggio di luce tra le ombre lunghe della storia in Strange Days di Kathryn Bigelow.

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Wesley Snipes Il corpo performante che sabota ogni meccanismo codificato, un Demolition Man di impressionante presenza scenica. All’inizio degli anni ’90 diventa l’erede di Roudtree nel film di Mario Van Peebles New Jack City. Poi la sua carriera decolla negli action movie di Hollywood rivaleggiando con Eddie Murphy in popolarità, sino a scontrarsi con il declino e il carcere proprio come nel magnifico ruolo interpretato in Undisputed di Walter Hill. Un attore imprescindibile per capire gli anni ’90 e le istanze afroamericane del post exploitation.

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Woopie Goldberg Dai folgoranti esordi a Broadway sino al successo de Il colore Viola di Spielberg, la sua versatilità di interprete è stata presto assorbita dallo spettacolo ufficiale in ogni sua forma (teatro, musica, cinema, televisione), in ogni sua celebrazione (i tantissimi premi vinti: Emmy, Tony, Academy Award) e in ogni sua regola (è stata più volte la presentatrice della notte degli Oscar). Certamente lontana dalle violente strade cinematografiche di Spike Lee o John Singleton, eppure sempre impegnata politicamente fuori dallo schermo.

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Ice Cube e John Singleton CUORE SELVAGGIO

Ossia Boyz n the Hood. Dal gangsta rap degli N.W.A. sino al cinema del giovanissimo Singleton, i ventenni dei primi anni ’90 hanno (ri)conosciuto la rabbia e la voglia di rivalsa della comunità afroamericana nella faccia incazzata e nel rap incendiario di Ice Cube. Il film del 1991 segna il punto di contatto inevitabile tra cinema e musica, in un periodo di fortissimi cambiamenti culturali e mediali. Straight Outta Compton di F. Gary Gray riapre nel 2015 il discorso su quel periodo in un bellissimo affresco metropolitano che “storicizza” quei fatti consegnandoli al “mito”, utilizzando paradossalmente le regole immaginarie del cinema classico. L’affascinante incontro/scontro di Hollywood con la cultura dei neri d’America, insomma, è un discorso ancora tutto in divenire.

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FACES


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Nero a metà

Il nero non è rappresentato nei premi, nei riconoscimenti, non è ancora concretamente entrato nella stanza dei bottoni. Potrebbe averlo già fatto, nell’ombra, attraverso corpi estranei, invisibili...

A noi moderni il primo esempio di limite spaziale e politico che viene in mente sono le frontiere tra gli Stati, che ne definiscono i contorni territoriali e l’identità. Esistono, però, molti altri limiti da prendere in esame: la soglia di casa, che separa lo spazio privato da quello pubblico; il pomerium (con il quale Romolo, scavando il solco sacro, vuole delimitare l’area della futura Roma); i termini, che fissano i confini della proprietà; la superficie delle chiese, delle sinagoghe, delle moschee, che contrappone lo spazio sacro a quello profano; gli edifici dei conventi, delle caserme, delle scuole e degli ospedali, situati, oltre che nello spazio geometrico quantitativo e omogeneo, anche in uno spazio qualitativo disomogeneo, dove valgono regole, pratiche e scansioni del tempo diverse da quelle del mondo esterno (si pensi solo alla perdita del nome di battesimo di frati e suore, agli orari notturni di preghiera, alla sveglia dei soldati); le costituzioni, che definiscono il perimetro dei principi atti a regolare la vita

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di leonardo lardieri


CUORE SELVAGGIO associata di uno Stato. Ma la soglia di casa non è più un invalicabile confine tra due universi separati. Che gli uomini, poi, non possano più accettare i limiti, che non possano sostare a lungo nel presente, perché marchiati a fuoco dalla “mala contentezza” e “famelici anche della fame futura”, lo mostrano, quali campioni della modernità, sia Machiavelli e sia Hobbes. In termini positivi, quest’ultimo considera, del resto, la felicità stessa come una corsa continua, un non fermarsi e un non contentarsi mai, “un progredire che incontra un minimo d’impedimenti al conseguimento di fini sempre più avanzati”. Il limite diventa, quindi, immancabilmente provvisorio, si sposta con i soggetti al pari dell’orizzonte, chiude per aprire, è fatto per essere sormontato. Anche il nero a metà Spike Lee avrebbe sottoscritto che da qualche anno a questa parte: “Hollywood è come le Montagne Rocciose, più vai in alto più tutto diventa bianco”. Non è chiaro quanto sia profondamente ispirata questa presa di posizione da parte di alcuni esponenti del cinema di colore o se in fondo trattasi di una semplice, quanto limitata, contestazione del momento che potrebbe non provocare ulteriori strascichi polemici e conflittuali di lunga durata. Resta il fatto però che il nero non è rappresentato nei premi, nei riconoscimenti, non è ancora concretamente entrato nella stanza dei bottoni.

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Potrebbe averlo già fatto, nell’ombra, attraverso corpi estranei, invisibili. Penso al “Pelè bianco” Crujff , simbolo del calcio totale, penso al quattro medaglie d’oro Jesse Owens (al cinema), altro atleta totale, penso magari anche ad alcuni registi dalla mano negra… su tutti, Jacques Audiard, tra i più devastanti autori di oggi, l’Antoine Fuqua bianco. La “mano negra” al cinema si riconosce soprattutto quando sa ricoprire eccessi di immagini e parole, le troppe e fragorose luci, il troppo e sconfinato “campo” e l’inquadratura si riduce, quasi si chiude. Il feticismo prende forma, come in un film muto che ci arriva dopo generazioni di immagini inter-positive e inter-negative, dopo generazioni di studi sociologici e pedagogici, dopo rumoroso cinema carcerario, che ci ha lasciato in gabbia, senza provare l’ebbrezza finale di un futuro “accasato” e alle spalle il presente, ancor mai passato del profeta, colui che mostra ciò che non vorremmo vedere e sapere. Il cinema dalla mano negra si sporca con il polar francese, moralmente è animato nello svelare il reale, privo di orpelli nevrotici e si è scorporato anche di un’esagerata attenzione geometrica e meccanica al racconto. A malapena notiamo, che esso caldeggia un alto grado di osservazione visiva; che


CUORE SELVAGGIO mantiene una compostezza sentimentale e sa indietreggiare di fronte all’immagine superflua; che giudica il bene e il male con neutralità; che cerca la verità, anche a costo di disgustarci, tra cicatrici e ferite; e che le impronte dell’autore su tutto ciò sono rintracciabili ma non visibili. Il cinema dalla mano negra però si differenzia dalla vita registrata in questo: che la vita ripresa è piena di dettagli in modo amorfo, e raramente ci guida verso di essi, mentre il cinema ci insegna a notare: a notare, per esempio, un mondo strafatto di codici a (s)barre da valicare per sopravvivere. Se è possibile narrare la storia di un film come lo sviluppo dello stile indiretto libero, è possibile narrarla anche come l’ascesa del dettaglio, del gesto, del sospiro, del linguaggio sofferto. In ogni cosa c’è un lato inesplorato, perché siamo abituati a servirci degli occhi solo con il ricordo di ciò che è stato pensato prima di noi su quello che ora guardiamo. La minima cosa contiene un punto d’ignoto. Sembrano vivere ininterrottamente in ogni sequenza, creazione e salvezza insieme. Alla seconda corrispondono i profeti, alla prima gli angeli, forse l’amore. La salvezza sovrasta la creazione e la mano negra profetizza così la nobiltà del male. La redenzione nel suo cinema precede la creazione, come nell’ultima scena de Il Profeta (Gran Premio al Festival di Cannes e candidato all'Oscar come miglior film straniero): uscito di prigione, al fianco Malik ha una donna e un bambino, dietro l’esercito del male blindato. La priorità della salvezza su quella della creazione è lo scacco decisivo forse nel fare oggi grande cinema, quello che ti svela come in una trasparenza o apparenza. La salvezza è l’esigenza di riparazione che precede noi tutti i giorni, la comparsa di un torto. “Quando Dio creò gli angeli, essi alzarono la testa verso il cielo e chiesero: ‘Signore con chi sei?’ Egli rispose: ‘Sono con colui che è vittima di un’ingiustizia, fino a che non verrà ristabilito il suo diritto’”. A salvare il mondo quindi non sarà il potere angelico o demoniaco, ma quello, più umile e corporeo,

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che lotta ogni istante con i suoi fantasmi di carne e ossa. Il profeta è quindi custode di salvezza, ma appartiene, forse per sempre, alla sua creazione. Ma in fondo, le mani negre non hanno mai stravolto il panorama capovolto del mondo: hanno perseguito sempre letizie negate, felicità smentite, miraggi (o allucinazioni) che fin da subito si confermano come tali. Cinema dall'estetica ribaltata, restia agli stereotipi della forbitezza, ma pur sempre creato per adagiarsi sul flusso melodico delle immagini e restituirne il profilo: come in una sorta di declamazione, che lascia al gioco armonico del montaggio il compito di far intuire la melodia dalla morale malefica. Con Il Profeta, in più, la storia si fa tesa ed aspra, sembra inseguire, senza troppo crederci, un arduo sogno di serenità e proprio in ciò realizza il miracolo di una sghemba efficacia. Tra


CUORE SELVAGGIO scarti e virate improvvise, la mano negra rigenera il cinema, il simbolismo del racconto si fa trasparente, dopo l'agro impasto di razze e religioni. Impasto che diviene rapsodia di facce in prestito concesse ai teatranti, servi dei nuovi padroni, per preservarne il viso dai tiramenti della passione, dalla sferza della rabbia, dalla tenerezza devastante che il cinema impone ai suoi schiavi (di 12 anni e più…) di verità. Quando nel 1947 lo scrittore afroamericano Ralph Ellison scrisse il suo ormai classico romanzo Invisible Man, sulla discriminazione razziale e l’alienazione nell’America moderna, il libro di H.G. Wells gli offriva una metafora così calzante che ne riprese quasi alla lettera il titolo. Considerato ormai un’indagine fondamentale sull’esclusione sociale, il libro di Ellison descrive il viaggio di un giovane nero da una posizione promettente in un college apparentemente progressista di uno Stato del Sud fino a diventare un rivoluzionario emarginato a New York. Le buone intenzioni del protagonista senza nome vengono gradualmente deformate dall’ipocrisia e dai pregiudizi di quelli che incontra, fino a coagularsi in una misantropia frenetica e a tratti violenta. Strada facendo l’uomo scopre di essere, a tutti gli effetti, invisibile nella società. Quando all’inizio del romanzo lo incontriamo nel suo stato “invisibile”, sta quasi per uccidere un passante dopo averlo urtato di notte ed essere stato apostrofato in modo offensivo, presumibilmente razzista. “Mi resi conto – capisce mentre è sul punto di accoltellarlo – che l’uomo, in realtà, non mi aveva visto; che quello, per lui, non era altro che un incubo di sonnambulo!... Povero sciocco, povero cieco, pensai con sincera compassione, aggredito da un uomo invisibile!”. Il protagonista di Ellison diventa invisibile non solo perché appartiene a una minoranza oppressa, ma perché si rifiuta di attenersi a ciò che si aspettano da questo gruppo sia la potente maggioranza, sia gli stessi membri della minoranza. Come il narratore di Dostoevskij nelle Memorie dal sottosuolo (Ellison riconosce il debito verso la “montagna russa”), delira da un mondo nascosto, un nascondiglio che gli

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garantisce un’inutile onnipotenza. “Sono un uomo invisibile e quanto è successo mi ha cacciato in un buco, – dichiara – o mi ha mostrato il buco in cui ero, se volete”. Il narratore di Ellison non è un individuo mite messo in disparte o calpestato dai più forti, bensì un uomo che va in giro sempre sull’orlo dello spargimento di sangue. Non appartiene a nessuna tribù, neppure quella degli oppressi; è esterno a tutto. Di fatto è un discendente del giocoliere che fa "Quando uno è invisibile i problemi come il magie, del prestigiatore che raggira, del ladro astuto e del ciarlatano (l’antitesi del bene e il male, l’onestà e la disonestà, gli profeta). Ed è questo che la cultura ameappaiono di forma così mutevole che egli ricana ha costretto a diventare gli afroaconfonde l’uno con l’altro" mericani a metà del Novecento. Anche il “crudele” viaggio di Michael Jackson verso un’esistenza “non pigmentata” di fronte a milioni, o anzi miliardi, di occhi non può che rientrare tra i neri a metà. L’uomo invisibile di Ellison spiega che la condizione dell’invisibilità, e quindi della non pienezza materiale, offusca i confini morali: “Quando uno è invisibile i problemi come il bene e il male, l’onestà e la disonestà, gli appaiono di forma così mutevole che egli confonde l’uno con l’altro, a seconda di chi, al momento si trovi a guardare attraverso lui”. È qui che Ellison coglie il filo della favola o della fiaba che sfuggì alla più grezza caratterizzazione wellsiana: l’uomo invisibile (o a metà), vive liminalmente. Si scompare o ci si confonde se (ci) si rende impossibile, l’esistenza.


FACES


di sergio sozzo

Abbiamo cercato di capire insieme a Nicola Gaeta, esperto di Black American Music, se alcuni processi in atto nella comunità musicale afroamericana possono spiegarci meglio che cosa passi per la testa a Hollywood sulle minoranze

Uno degli aspetti più stranianti dello strepitoso Straight Outta Compton di F. Gary Gray è che il film in parecchi istanti sembra una sorta di remake (mi piace il termine che ho letto da qualche parte, legacyquel, intendendo i titoli come Creed o Star Wars VII) di Boyz n the Hood, come se l’idea che possa esistere un Ice Cube personaggio di una serie di avventure gangsta al cinema sia totalmente indifferente al fatto che ad interpretarlo sia o meno effettivamente il rapper. Nel cult di Singleton Ice Cube traslava la propria autobiografia in una finzione iperrealista da personaggio imma-

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Il pistolero nero


CUORE SELVAGGIO ginario, stavolta è al contrario l’impianto biopic sulla “figura storica” Ice Cube che puntella con chiarezza nomi, fatti e luoghi, ad assumere i toni iperbolici della leggenda. Un testacoda piuttosto interessante che avvicina l’opera responsabile di fatto più di qualunque altra di aver scatenato l’ondata #Oscarssowhite all’intuizione più decisiva dell’edificante Race, in cui Stephen Hopkins sembra cogliere quell’istante preciso in cui una vicenda singola di rivalsa sociale spicca il salto per farsi metafora comunitaria, sogno universale di liberazione. Pensavo al Jesse Owens supereroistico di Race (davvero assimilabile al Black Panther di Civil War) ascoltando The Abyssinian Mass, imponente e gonfissima partitura gospel (big band e coro di 70 voci!) di Wynton Marsalis eseguita con l’orchestra del Lincoln Center di New York per i 200 anni della chiesa battista abissina di Harlem: chissà se questa celebrazione dichiaratamente museale, sotto teca, dell’intera tradizione sacra afroamericana abbia accolto o meno i favori di Spike Lee e delle sue sparate sulla menzogna preservata da Hollywood sulla frontiera dell’integrazione. E mi è ritornato in mente il ritratto di Marsalis, sorta di guardiano vivente

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del monumento del jazz, “il modello del gigante della musica che finisce sui cartelloni pubblicitari con il completo Brooks Brothers”, che avevo letto l’estate scorsa tra le pagine dell’esaltante BAM, il jazz oggi a New York di Nicola Gaeta. Firma irrequieta della storica rivista “Musica Jazz”, Gaeta riportava in stile gonzo il suo mese di pellegrinaggio newyorkese di club in club alla ricerca della definizione giusta dell’anima ribollente di uno stile che travalica il concetto di genere musicale per farsi filosofia di vita. Piano piano, viene fuori un passaparola downtown che unisce giovani tradizionalisti agli avanguardisti cacofonici, e che parla di rifiutare la denominazione “jazz”, considerata un retaggio razzista. L’idea è copyright blindatissimo del trombettista Nicholas Payton, che propone di ribattezzare il genere “BAM”, black american


CUORE SELVAGGIO music. Che ci siano delle assonanze tra questa levata di scudi e la reazione risoluta delle minoranze glissate a Hollywood dalle messinscene istituzionali? Insieme al direttore Spiniello abbiamo fatto una telefonata a Nicola Gaeta per capirci qualcosa di più. “Dall’inizio del decennio, più o meno dal 2010 quindi, anno terribile della crisi finanziaria, gli Stati Uniti hanno visto una evidente recrudescenza degli istinti razzisti in parallelo con l’inaspri"Il razzismo è tutt’altro che una questione mento delle loro condizioni economiche”, risolta in un ambiente dove i campioni afro- spiega Gaeta. “Il razzismo è tutt’altro che una questione risolta in un ambiente dove americani devono avere a che fare con un i campioni afroamericani devono avere a business interamente gestito da bianchi" che fare con un business interamente gestito da bianchi. Sono bianchi i discografici, gli impresari dei tour, i gestori dei locali. L’ipotesi BAM arriva con la sua aura di coolness a rassicurare il musicista spaesato da questi interlocutori”. Ecco, la questione produttiva appare subito centrale, come Brad Pitt dietro alla macchina realizzativa di 12 anni schiavo: siamo sicuri che un titolo simile sia diretto ad una platea di neri, o soddisfi maggiormente l’establishment bianco e la sua voglia di riconoscere il valore storico della lotta per i diritti come elemento del passato, disinnescato nella sua urgenza dalla propria stessa storicizzazione? “BAM è contro l’establishment, e infatti i guru storici delle scuole di musica come Ron Carter o Carl Allen ci ridono su, se ne tengono lontani”, spiega Gaeta. “Il pubblico comunque riempie i club senza interessarsi troppo di queste diatribe tra musica colta e musica per le masse, l’importante è che vengano portati avanti e mantenuti alcuni principi fondamentali.” Come la gratitudine, mi viene da pensare. La gratitudine è uno degli elementi-chiave per capire il rapporto tra tradizione, rinnovamento e affermazione identitaria in un ambiente come quello jazzistico americano: in nessuna altra arte

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popolare è così facile trovare opere dedicate alla statura artistica o all’importanza storica di “colleghi” e mentori. “I giovani fenomeni afroamericani faticano a vendere dischi e a sviluppare un linguaggio personale”, commenta Gaeta. “Sono tutti dei solisti bravissimi e diventa difficile riconoscere il suono di un sassofonista, per dire, da quello di un altro che suona alla stessa maniera. E invece questa è un’arte in cui a fare la differenza è proprio la capacità di saper rendere la propria voce riconoscibile.” Forse è allora questo il fulcro di questa “social music”, come la chiamava Miles Davis rifiutando anch’egli, decenni prima di Payton, l’appellativo di “jazz”: trovare il modo di far valere la propria via personale al racconto di una nazione. Hollywood sembra avere deciso che, per un po’, la sua via al rinnovamento deve passare da personaggi afroamericani che si liberano da qualche sorta di schiavitù, come Adonis Creed o il Finn di Guerre Stellari. E questo continuerà a far imbufalire gli autori di black american movies come Spike Lee, ma anche quelli che leggendo La Torre Nera di Stephen King hanno sempre immaginato il cowboy del futuro protagonista di questa saga western-medieval-postapocalittica come il giovane Eastwood che King indicava esplicitamente nelle sue pagine, e ora hanno saputo che gli Studios finalmente sono riusciti a mettere su il progetto di adattamento per il grande schermo, ma hanno deciso di far diventare Il pistolero un afroamericano con il volto di Idris Elba, ovvero l’altro casus belli di #Oscarsowhite per via della sua esclusione dalle cinquine nonostante la performance in Beasts of No Nation. Chissà cosa penserà al riguardo il vecchio patito di jazz e convinto repubblicano Clint…


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I, Racist Riproponiamo un testo dello scrittore e blogger John Metta, apparso sulla rivista Those People, "A New Black Magazine", il 6 luglio 2015. È la trascrizione di un discorso tenuto alla Bethel Congregational United Church of Christ pochi giorni prima. Traduzione di Lorenzo Bottini

Quello che segue è il testo di un sermone che ho letto in un incontro congregazionalista per un pubblico bianco alla Bethel Congregational United Church of Christ, domenica 28 giugno. Questo sermone è iniziato con la lettura della parabola del Buon Samaritano e di una citazione di Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie. Ringrazio Chaédria LaBouvier il cui Why We Left mi ha convinto a parlare di razzismo, Robin DiAngelo, il cui White Fragility mi ha aiutato a comprendere il tema, e a Reni Eddo-Lodge che disse "Perché non parlo più con i bianchi di razza” molto prima che io avessi il coraggio di cominciare a farlo. Due settimane fa, stavo riflettendo sui temi da affrontare in questo sermone. Ho detto al pastore Kelly Ryan che avevo grandi dubbi a parlare dell’argomento, nonostante ci pensi ogni singolo giorno. Poi un terrorista ha massacrato nove innocenti nella chiesa dove sono solito andare, nella città che mi piace pensare sia ancora la mia casa. A quel punto, ho capito che tutti i miei dubbi non dovevano impedirmi di parlare di razza. Vedete, io non parlo di razza con i bianchi Per spiegarvelo meglio, vi racconterò una storia. Avevo su per giù 15 anni quando udii una conversazione tra mia zia, che è bianca e vive nello stato di New York, e mia sorella, che è nera e vive in North Carolina. Questa conversazione può essere distillata in una singola frase che disse mia sorella Nera “La sola differenza tra le persone del Nord e quelle del Sud, è che laggiù alme-

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BLACK MOVIES no sono onesti riguardo il loro esser razzisti”. C’era molto di più, ovviamente, in quella conversazione ma credo che sia possibile ridurla a questa unica frase, perché per mia zia fu così. Un decennio dopo, questa frase è ancora ciò di cui continua a parlare. È divenuto l’aspetto più importante della relazione tra mia zia e la mia famiglia nera. Lei è ancora ferita dall’idea che la gente di New York, tra cui lei stessa, una donna del Nord, liberal, una brava persona con familiari neri, sia razzista. Vi racconto questo per spiegare per quale mottivo evito di parlare di razza con le persone bianche. Anche, o dovrei dire, soprattutto, con la mia famiglia. Io amo mia zia. È anzi la mia zia preferita, e credetemi, ho molte zie incredibili tra cui poter scegliere. Ma i fatti questa volta erano nettamente in favore di mia sorella. Lo stato di New York è uno dei più segregati della nazione. Buffalo, dove vive mia zia, ha uno dei dieci sistemi scolastici più segreganti della nazione. L’ineguaglianza razziale nell’area in cui vive è così accentuata, che è stata oggetto di svariati controlli da parte della Civil Rights Action Network e del NAACP. Questi comunque sono fatti che mia zia non ha dovuto conoscere. Non ha dovu-

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to vivere l’oppressione e la segregazione razziale fin dentro la propria abitazione. Essendo una persona bianca con possibilità di miglioramento sociale, ha continuato a scalare la piramide sociale. Si è trasferita dall’area in cui sono cresciuto, per andare a vivere in una zona con scuole migliori. Non ha dovuto sperimentare il razzismo e perciò per lei non esiste. Né la si può accusare di essere razzista per il mero fatto di aver lasciato un vicinato che si stava facendo sempre più Nero, per vivere in un sobborgo bianco. Non ha bisogno di pensare che "scuole migliori" significhi semplicemente "scuole più bianche". Non parlo più di razza con persone Bianche perché ho visto che troppo spesso queste discussioni non vanno da nessuna parte. Quando ero più giovane, pensavo che il motivo fosse che tutti bianchi erano razzisti. Ora ho capito che la questione è ben più sfumata. Per comprenderla, dovete prima capire che le persone di colore pensano come persone di colore. Noi non assistiamo all’uccisione di un bambino nero in un altro Stato come se fosse un fatto che non ci riguarda, perché sappiamo che quello potrebbe essere nostro figlio, un nostro parente o persino noi stessi. L’assassinio di Walter Scott in North Charleston risuona ancora nel profondo di me, perché Walter Scott è stato descritto dai media come uno sbandato e un criminale – ma quando sono andato a controllare la vita di quest’uomo, non mi è sembrata molto diversa da quella di mio padre.

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BLACK MOVIES Il razzismo ci colpisce direttamente perché il fatto che stia accadendo in un diverso luogo geografico o ad un’altra persona di colore è solo una coincidenza, un accidente. Potrebbe tranquillamente accadere a noi – proprio qui, proprio ora. “Le persone di colore ragionano in termini di “noi” perché vivono in una società in cui le strutture sociali e politiche si relazionano a noi come persone di colore” I bianchi invece non pensano in termini di “noi”. I bianchi hanno il privilegio di poter interagire con le strutture sociali e politiche come individui. Tu sei “tu”, io sono “uno di loro”. I bianchi, spesso, non s'interfacciano all’oppressione razziale neanche nella loro comunità, quindi ciò che non li colpisce su scala locale ha poche possibilità di farlo su scala nazionale. Non hanno alcun bisogno, spesso neanche alcun desiderio, a pensare in termini di gruppo. Sono supportati dal sistema e in gran parte sono disinteressati ad esso. L’unica cosa che li colpisce sono gli attacchi riferiti alla loro persona. Per mia zia, il commento “le persone del Nord sono razziste” è un attacco diretto nei suoi confronti in quanto razzista. È incapace di fare differenze tra la sua partecipazione dentro un sistema razzista (la mobilità sociale che l’ha portata a spostarsi in quartieri bianchi) e l’accusa precisa che lei, individualmente, sia razzista. Senza essere capaci di fare questa differenziazione, le persone bianche in generale decidono di difendere il loro non essere razzisti, dicendo che il razzismo non esiste. Ma è solo perché non sono capaci di vederlo. Il risultato è un incessante botta e risposta dove la persona di colore dice “il razzismo esiste ancora, è reale”, e la persona bianca risponde “ti sbagli, io non sono affatto

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ORNETTE CUORE SELVAGGIO COLEMAN razzista, non lo vedo neanche il razzmo”. L’immediata risposta di mia zia non è “tutto questo è sbagliato, dovrei fare di più”. No, la sua risposta è un autodifesa “non è colpa mia, non ho fatto nulla, sei tu che ti sbagli”. Il razzismo non è la schiavitù. Come ha detto il presidente Obama, non è evitare di usare la parola Negro. Il razzismo non sono le fontanelle riservate ai bianchi o i posti riservati sugli autobus. Martin Luther King non ha sconfitto il razzismo. Il razzismo è ancora presente quando i poliziotti colpiscono a morte un innocente. È un dodicenne ucciso perché giocava con una pistola giocattolo in un paese in cui è legale usare armi da fuoco. Ma il razzismo è perfino più sottile di così. Ha ancora più sfumature. È il fatto che “bianco” sia sinonimo di “normale” e ogni altra cosa sia diversa. Razzismo è la nostra tolleranza verso il cast tutto bianco del Signore degli Anelli perché è “storicamente accurato”, nonostante si tratti di un mondo interamente inventato. Anche quando ci inventiamo le cose, vogliamo che siano bianche. E il razzismo è far in modo che tutti accettino che siano bianche. Benedict Cumberbatch in Star Trek interpreta Khan, che viene dall’India. Esiste qualcuno più bianco di Benedict Cumberbatch? Cosa? Avevano bisogno di un cast “meno connotato etnicamente” perché avevano già un'Uhura nera? Questo è razzismo, e una volta che lo riconosci lo vedrai ovunque, sempre. I ragazzi neri lo imparano quando il loro genitori gli fanno “il discorso”. Quando verso i cinque anni devono spiegargli che il padre del loro miglior amico non è malato o di cattivo umore, ma solamente non vuole che il proprio figlio giochi con lui. I bambini neri crescono vivendo in Matrix. Non ci è data la possibilità di scegliere tra

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la pillola rossa e quella blu. La maggior parte delle persone bianche, come mia zia, non ha mai dovuto scegliere. Il sistema è stato costruito dai bianchi, quindi loro non hanno mai dovuto scegliere di viverci. Ma non possiamo evidenziare ciò. Vivere ogni giorno dentro un razzismo istituzionalizzato e dover discuterne l’esistenza è faticoso, triste e frustrante. Eppure se esprimessimo delle emozioni mentre ne discutiamo, ci direbbero che siamo pieni d'ira. Infatti un elemento chiave di ogni discorso razziale in America è la rabbia dei neri, e i discorsi sul razzismo vengono interrotti appena questo genere di persone prende la parola. I Neri Arrabbiati invalidano qualsiasi argomento perché sono “solamente molto sensibili” o “troppo emotivi” o giocano la carta del razzismo. O ancor peggio, siamo accusati di essere noi razzisti a nostra volta (esiste qualche persona intelligente in grado di credere che un'etnia sistematicamente oppressa abbia le capacità di opprimere quelli al potere?) C’è dell’ironia in tutto ciò, quella che "L'intera discussione sulla razza in America ogni Nero Arrabbiato ben conosce e che nessun bianco aperto al dialogo ruota intorno alla necessità di non ferire i mai ammetterebbe: l’intera discussiosentimenti dei bianchi" ne sulla razza in America ruota attorno alla necessità di non ferire i sentimenti dei bianchi. Chiedete ad ogni persona di colore e vi risponderà allo stesso modo. La realtà è che centinaia di innocenti stuprati, sparati, imprigionati e sistematicamente violati nei loro diritti sono meno importanti rispetto all’allusione che una singola persona bianca sia complice di un sistema razzista. Questo è il paese nel quale viviamo. Milioni di vite di persone nere sono valutate meno dei sentimenti di una singola persona bianca. I bianchi e i neri non hanno una discussione sul razzismo. I neri, pensando come un gruppo, dicono di vivere in un sistema razzista mentre i bianchi, rifiutandosi di descriversi come razzisti e rifugiandosi dietro le loro qualità individuali, rifiutano l’esistenza del razzismo. Ma appellarsi ad un personale antirazzismo è perdere di vista la questione. Malgrado il massacro di Charleston faccia credere che le persone muoiano non perché gli individui sono razzisti, ma perché i singoli individui supportano un sistema razzista per proteggere le proprie opinioni antirazziste. Le persone muoiono perché supportiamo un sistema razzista che giustifica i bianchi che uccidono i neri. Lo vediamo nel fatto che un killer musulmano diventa terrore islamico, nel fatto che un ladro messicano dimostra la necessità della messa in sicurezza dei confini; nel fatto che un uomo di colore, innocente, disarmato, colpito alle spalle da un poliziotto, è per i media un pericoloso criminale. Nello stesso modo un razzista bianco in uno stato che issa ancora la bandiera confederata è visto come “problematico” e “inquietante”. Nello stesso modo per cui le persone “non possono capire perché faccia certe cose”.


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Un bianco che fuma erba è un hippie mentre se lo fa un nero è un criminale. Per questo in prigione ci sono quasi venti persone di colore per ogni bianco. C’è un titolo di The Independent che riassume il tutto molto bene: “Sparatoria di Charleston. Gli assassini neri e musulmani sono 'terroristi' e 'delinquenti'. Perché tutti gli shooters bianchi sono 'mentalmente disturbati'?" Lo rileggo. Gli assassini neri e musulmani sono "terroristi" e "delinquenti". Perché tutti gli shooters bianchi sono "mentalmente disturbati"? Avete capito? È meravigliosamente sottile. È un articolo che riguarda nello specifico la disparità di trattamento delle persone di colore nella nostra nazione e, anche in questo titolo, i bianchi sono criminali mentre i neri e i mussulmani sono assassini. Anche quando parliamo di razzismo, usiamo un linguaggio razzista che fa sembrare i neri pericolosi e i bianchi meno terribili di quanto siano. Lasciamo sedimentare il tutto e poi chiediamoci perché i neri sono cosi arrabbiati quando parlano di razza. La realtà è che in America i bianchi sono fondamentalmente buoni, e quindi quando uno di loro commette un crimine è il segno che lui, come individuo, è un malvagio. Le loro azioni individuali non sono indicative di alcuna costruzione sociale. Anche se in America c’è un sempre più ampio numero di gruppi organizzati che professano la violenza, composti prevalentemente da bianchi, e che quasi tutti i serial killer sono bianchi non si può oscurare la verità cardinale della bontà dei bianchi. Noi amiamo i serial killer bianchi, creiamo le serie Tv sulle loro storie. I bianchi sono buoni come gruppo e, se a volte agiscono brutalmente, lo fanno come individui. Le persone di colore, specialmente i neri (ma potremmo inserire anche i messicani in questo gruppo) sono invece viste fondamentalmente come cattive. Ce ne potrebbe

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essere uno buono – e lo facciamo subito notare ai nostri amici, mostrandolo come se fosse il nostro Oscar come “Miglior Non-Razzista in un Personaggio Bianco” – ma quando ne troviamo uno cattivo, è la prova certa che tutti gli altri sono così. Tutti questi pensieri, attese e trattamenti sottolineano come il nostro sistema sociale metta i bianchi dalla parte del giusto e del normale, lasciando i Neri nelle posizioni dell’altro e del male. Questo è razzismo, e voi bianchi, ognuno di voi, ne siete complici perché ne siete i diretti beneficiari. Per questo non amo la storia del Buon Samaritano. A tutti piace pensare di essere colui che aiuta il prossimo oppresso e bastonato. Ma è troppo comodo. Se potessi riscrivere quella parabola, lo farei dalla prospettiva dell’America Nera. Cosa accadrebbe se quella persona non fosse oppressa e bastonata, se non fosse così ovvia la sua condizione? Cosa accadrebbe se invece fosse solo ostacolata ogni giorno a raggiungere quegli standard che rendono la vita migliore? Sareste così veloci ad aiutarla o, come la maggior parte dei bianchi, vi rifugereste nel silenzio e lascereste le cose come sono? Il razzismo è così radicato nel nostro "Aiutiamoci a costruire un mondo in cui il paese non perché le destre radicali ne fanno una bandiera identitaria, ma perBuon Samaritano non debba mai essere costretto ad aiutare qualcuno a terra sangui- ché resiste nel silenzio e nei cuori infranti dell’America liberale. nante. Per quanto mi riguarda io non rimar- Questo lo vorrei urlare ma non posso, rò più in silenzio " perché ho passato la mia vita non parlando di razza con i bianchi. È un mio grande errore visto che il razzismo esiste ancora perché io, come uomo di colore, non vi costringo a guardarlo negli occhi. Il razzismo esiste perché io, e non voi, resto in silenzio. Ma sono incastrato in un circolo vizioso, in quanto appena comincio a parlare di razzismo, divento immediatamente il Nero Arrabbiato, e la conversazione si blocca. Il coro di voci nere che parla di razzismo non muove una singola persona bianca a pensarci – ma se John Stewart parla di Charleston, ecco che i bianchi iniziano a discuterne. Questo è il mondo in cui viviamo. I neri non lo possono cambiare finché i bianchi rimangono sordi alle nostre parole. I bianchi sono in una posizione di forza a causa del razzismo. La questione è: saranno così coraggiosi da usare quel potere per alzarsi e parlare contro il sistema che gli concede quella forza? Vi sto chiedendo di aiutarmi. Guardate. Parlate. Non lasciate che il mondo vi scivoli via. Non osservate tutto in silenzio. Aiutiamoci a costruire un mondo in cui il Buon Samaritano non debba essere costretto ad aiutare qualcuno a terra sanguinante. Per quanto mi riguarda io non rimarrò più in silenzio. Cercherò di parlare con parole dolci e tenere ma sarà dura. Perché è sempre più dura per me pensare di dover proteggere i sentimenti dei bianchi, mentre loro non hanno il minimo interesse nella perdita di così tante vite nere.




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Cos'è la verità? Conversazione con Gianfranco Rosi a cura di aldo spiniello e sergio sozzo

Ormai è un fatto. Grazie a un Leone d'Oro e un Orso d'Oro vinti con due film consecutivi, Gianfranco Rosi è il portabandiera internazionale del cinema italiano. Ben più dei "maestri" acclamati negli ultimi anni dalla nostra critica, i Sorrentino, i Garrone e Co. Con buona pace dei fanatici di uno stile urlato e autocompiaciuto o di una forma cinematografica algida e studiata a tavolino. E con questo non si vuol certo dire che nei film di Rosi la forma non conti. Anzi, in Fuocoammare diventa evidente ciò che già

si intuiva in Sacro G.R.A., quel desiderio di rimodellare l'immagine sulla materia incontrollata, incandescente del reale, di conciliare il controllo estetico e narrativo di questa materia con i suoi necessari residui di imprevedibilità. Documentario, finzione... è più che mai una questione oziosa. Il cinema di Rosi mostra come il reale non sia un dato, qualcosa che si acquisisce semplicemente con il dispositivo. Ma è una sfida, qualcosa da ricercare con "occhio non pigro" e da reinserire in linee di senso che sono nascoste tra i mi-

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Come già in Sacro G.R.A., anche qui, la forma documentaria, raccontare il reale, sembra un pretesto per arrivare ad altro. Vengono in mente suggestioni di fantascienza, con quelle riprese subacquee quasi herzoghiane, oppure pensando al ragazzino, Samuele, si materializza una specie di racconto di formazione, dagli accenti fantastici… lui bendato che sembra

quasi il figlio del Corsaro Nero… Sì, ma si tratta di una benda di plastica… … certo, ma sembra sempre che dal reale venga fuori la finzione. È quello che mi affascina di questo tipo di cinema. Si parte da una non idea, perché io non ho mai un’idea precisa di quello che voglio raccontare. Quindi c’è prima l’incontro con un luogo. Poi in questo luogo si incontrano delle persone. E c’è un innamoramento con alcuni personaggi. Poi inizi a pensare che questi personaggi possano diventare compagni di un viaggio, che intraprendi senza sapere in quale direzione porterà. Quindi è un adattarsi alla realtà. Quando sei libero e non hai un’idea costruita, la realtà ti si impone in maniera meravigliosa. Diventa sempre una sorpresa stupenda. Pensa alla benda di Samuele, che è un po’ la metafora del film. L’occhio pigro… Siamo noi l’occhio pigro. Ci chiediamo “oggi cosa giriamo?” e Samuele dice “costruiamo una fionda”. E allora tra i due ragazzi viene

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lioni di segni che si offrono ai nostri occhi. Certo, in questo modo di procedere si affaccia la questione "morale" del limite tra la fedeltà al mondo e la delibarata manipolazione delle cose. Ma nelle storie di Rosi, al di là delle questioni teoriche, c'è sempre una disponibilità sincera per gli uomini (o i bambini) e le loro storie. Abbiamo incontrato il regista in due occasioni, per parlare di Fuocoammare e, in generale, della sua visione. A Berlino, all'indomani della presentazione ufficiale in concorso del film. E, qualche giorno dopo, a Roma.


BERLINALE 66 fuori un dialogo che diventa un discorso sulla passione. È meraviglioso. Nulla è mai scritto, eppure s’impone con una tale forza. E quindi tutto sta nel creare un rapporto con chi è davanti alla cinepresa, questo rapporto di fiducia, di gioco, dove alla fine vengono fuori cose meravigliose che nessuno scrittore può scrivere. Penso al dialogo tra il medico e la paziente durante l’ecografia. Oppure il dialogo tra il medico e Samuele. Io sfido qualsiasi scrittore a creare un dialogo del genere, a creare quella forza tra due persone che non si erano mai conosciute prima. È questo il mio obiettivo, quello che mi fa andare avanti. Trovare per caso queste cose sorprendenti che, poi diventano cardini fondamentali del racconto narrativo. E, allora, a partire da questa disposizione, a che punto arrivi tu con la “costruzione”, con l’organizzazione consapevole del racconto? Già in fase di ripresa fai delle scelte particolari, quando individui il tuo personaggio e decidi di seguire delle situazioni. La verità cos’è? È il racconto intimo di queste persone. La verità nel documentario

è raccontare il mondo interiore. Viene fuori quanto tu ti riesci ad avvicinare a quel mondo. E non si tratta di un’intervista, ma di un’espressione di un momento di vita molto forte. Sono quelle cose che succedono nella vita delle persone e che tu decidi di filmare, perché pensi che possano diventare un momento della tua narrazione, anche se non sai dove ti porterà tutto questo. È solo un enorme atto di fiducia. E in questo senso, quel “nel ruolo di loro stessi” dei titoli di coda, è rivelatore… Certo, perché i personaggi mettono in scena se stessi

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E non si corre il rischio, che di fronte alla macchina da presa, potrebbero anche barare? Bè, questo non mi preoccupa, in quanto il barare farebbe sempre parte della loro personalità. È come se uno psicanalista si preoccupasse se il suo paziente dice la verità o la bugia. Tu devi interpretare anche attraverso la bugia la verità del paziente. O le sue sofferenze. Il dottore è un po’ il personaggio che fa da filtro tra le due comunità, gli immigrati e gli isolani… Sì, fa da filtro, ma anche da guida, è quello che ci dà la possibilità e la forza poi di incontrare la tragedia nel film… Sembra, comunque, che al di là di quel personaggio, ci sia un isolamento doppio, si parli di due realtà che non hanno contatti. Ma certo, è così. Difatti la mia più grande sorpresa è stata arrivare a Lampedusa e vedere che non c’è nessun contatto tra i due mondi. Sembra che l’isola sia invasa, che sia una specie di suk in cui tutto

si mescola. Non è assolutamente così. Specialmente adesso che gli sbarchi non avvengono direttamente sull’isola, che la frontiera si è spostata nel mare aperto e i barconi sono intercettati al largo. Ecco, questa dimensione dell’isolamento dei lampedusani, mi sembra venir fuori in maniera forte nel rapporto tra Samuele e il pescatore, lo zio, che gli racconta delle sue esperienze in mare. Bè, sì, ed è lì che viene fuori anche quella dimensione da racconto di formazione di cui parlavi… Sì, ed è incredibile come Samuele sembri sempre sottoporsi a delle prove, in uno sforzo estenuante. Certo, il remare, lo stare sul pontile senza sentirsi male, l’inglese a scuola. E alla fine la sua ansia è la nostra ansia. Questo è molto bello. Fino al finale… …in cui rifiuta di uccidere l’uccello, quasi come De Niro ne Il cacciatore di Cimino. Sì lui fino a quel momento andava a cac-

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cia di uccelli. Ora parla con gli uccelli. E ci porta attraverso il buio, attraverso la foresta. Ci conduce per mano. Lui non ha paura. E probabilmente anche noi abbiamo meno paura rispetto all’inizio, di quel mondo che si racconta. E invece cosa ci dici dell’intervento di Bigazzi alla color correction? È fondamentale. Io, pur curando il sonoro e la fotografia, ho sempre bisogno di supporti. Luca è un maestro e mi dà una grande sicurezza. E tutto ciò rientra nella dimensione cinematografica del racconto, che è fondamentale, il modo in cui si restituisce il reale. La verità… Io

non credo che una camera sporca, “pigra”, abbia maggior valore documentario. È un falso mito. Secondo me è il contrario. È il rigore cinematografico che svela la realtà in maniera ancora più forte. E questo l’ho imparato da Mizoguchi, da Ozu. E in questo senso, nel tuo film ci sono dei raccordi sempre nascosti, la signora che ascolta la musica, la telefonata alla radio… È nel montaggio il luogo in cui subentra davvero la finzione… E poi c’è quel momento fantastico, con i ragazzini sulla scogliera e il pescatore che attraversa l’inquadratura. Ed ecco che la macchina cambia soggetto. Cambia il protagonista del film. È il momento della vertigine tra la casualità della vita e la costruzione della messinscena. Sì, quello è l’unico momento davvero messo in scena, costruito. Anche se si

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tratta di una messinscena improvvisata al momento, non scritta. Altro momento incredibile è quello del gospel rap. Com’è venuto fuori e cosa vuol dire la fortuna di ritrovarsi improvvisamente di fronte a del materiale così forte? È venuto fuori dall’incontro con questo gruppo di nigeriani. C’è stato prima un soccorso, un trasbordo nel gommone della Guardia Costiera. E quello è stato il primo contatto, si vede anche nel film, ci sono dei primi piani, è lo stesso gruppo di persone che poi ho ritrovato nel centro dell’accoglienza. Stabilire un vero contatto è molto difficile nel caso del centro di accoglienza: lì le persone stanno tre, quattro giorni, poi vengono mandate via, fuori da Lampedusa. Mentre questo gruppo di nigeriani ha avuto tempo di raccontarmi il suo viaggio. Poi sono stato invitato per la sera, a entrare nella loro camerata e a prendere parte a questo incontro di “preghiera”, come lo chiamano loro. E lì ho semplicemente acceso la cinepresa e si è manifestato questo momento incredibile. Che credo valga più

di mille interviste. Là c’è davvero di tutto, l’odissea del viaggio, la morte, la paura, la Storia, la politica, c’è l’ISIS, la Libia, la Nigeria, il deserto africano. Ecco, si è trattato anche di un punto d’arrivo all’interno del film, perché mi sono subito reso conto che non avrei potuto raccontare un momento altrettanto forte. Il film attraversa diversi set. Il centro d’accoglienza, la barca, la casa della signora Maria, l’ambulatorio medico… ed è come se ogni volta tu cercassi la forma giusta per raccontare quello spazio. Quindi c’è il pedinamento, c’è l’intervista al medico, c’è la piccola messinscena… Sono sempre delle soluzioni molto immediate, perché non ho mai gran tempo per pensare a come girare. È sempre la realtà che t’impone di scegliere un metodo. Con il medico, ad esempio, c’era un rapporto più diretto, di testimonianza più documentaristica, diciamo così. Con Samuele e i ragazzi, c’era più il racconto di un mondo e quindi qualcosa di più “cinematografico”. Sebbene anche lì non ci fosse nulla di scritto, predeterminato,

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era tutto improvvisato. Ma c’era comunque una forma narrativa diversa. Ogni storia s’impone e devi essere in grado di leggerla e raccontarla nella maniera che ti sembra più corretta. Le riprese subacquee come sono nate invece? Sono nate dall’incontro con Franco, il

"Ogni storia s'impone e devi essere in grado di leggerla e raccontarla nella maniera che ti sembra più corretta" pescatore di ricci. E lui mi raccontava di questo mondo sommerso, fantastico. Si tratta di un uomo molto silenzioso e sarebbe stato difficile raccontarlo fuori dall’acqua, l’acqua è il suo elemento. Io scherzando lo chiamavo l’uomo pesce. Non sono, come al solito, in grado di razionalizzare l’importanza di quel momento nel film. Ma ho sempre pensato fosse fondamentale raccontare l’isola “da sotto”, come se fosse galleggiante sull’ac-

qua, raccontare questo mondo ovattato dove in fondo, nonostante le aspettative, non succede assolutamente nulla. E allora quel momento diventa una specie di pausa nel film, con i rumori dell’acqua, il lavoro meticoloso sul suono fatto da Stefano Grosso… Mentre che ci dici del set della radio? Bè, si tratta tutti di luoghi reali, comunque. Anche lì, si è trattato di un incontro casuale. Quando sono arrivato a Lampedusa era il 31 dicembre, e ho incontrato a un festa Pippo che cantava e suonava. E mi sono innamorato del suo sguardo, della sua meravigliosa serenità. Poi sono andato a filmarlo in radio, sul luogo di lavoro. E lì veniva fuori un’umanità incredibile. Ed è in radio che sono venuto in contatto con zia Maria, questa signora che interveniva sempre in trasmissione per chiedere dediche. E così sono andata a trovarla a casa. Insomma tutte cose casuali, che si sono imposte come una necessità nel racconto del film.

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Bianco a metà “Si è impadronita di me poco alla volta, come quello strano morbo da cui sono affetti certi negri che si vedono scolorare lentamente da neri ad albini, come se un raggio crudele e invisibile dissolvesse il loro pigmento. Tiri avanti per anni sapendo che c’è qualcosa che non va, e poi scopri all’improvviso di essere trasparente come l’aria. Dapprima ti dici che è tutto un lurido scherzo, o che ciò è dovuto alla situazione politica. Ma nell’intimo vieni a sospettare di esser tu stesso il colpevole, e te ne stai nudo e tremante dinanzi ai milioni di occhi che ti guardano attraverso senza vederti”. (da L'uomo invisibile, H.G. Wells, 1897)

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