Annuario 2013

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POSTE ITALIANE S.P.A. - TARIFFA RIDOTTA EDITORIALE TASSA PAGATA - AUTORIZZAZIONE N. DCB/ACBNE/35/05/TN DEL 02/03/05

C.A.I. S.A.T.

SEZIONE RIVA DEL GARDA

A N N U A R I O

2013




In copertina: si trasportano in alto scale e infissi in ferro per la costruzione della Ferrata dell’Amicizia Fotocomposizione e stampa: Grafica 5 - Arco (TN) - Maggio 2013

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Annuario 2013


CAI-SAT - SEZIONE DI RIVA Porta San Marco

ANNO 2013 CONSIGLIO DIRETTIVO Presidente Vice Presidenti

Giorgio Galas Arturo Giovanelli Rosanna Giacomolli

Consiglieri

Carlo Zanoni Adriano Boccagni Sergio Amistadi Stefano Benini Nicola Campisi Claudio Fedrizzi Marco Matteotti Gilberto Mora Silvano Moro Rudy Simonetti Maurizio Torboli Luisa Vidi

Revisori dei Conti

Claudio Martinelli Nello Santorum Celestino Tamburini

STAZIONE C.N.S.A.S. Capo Stazione Vice capostazione Chiamate di soccorso

Gianluca Tognoni Danilo Morandi 118 0464 550550

SITO INTERNET

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Annuario 2013

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CAI-SAT - SEZIONE DI RIVA Porta San Marco

REDAZIONE ANNUARIO

Annuario 2013

Responsabile

Valentina Leonardi

Sponsor

Arturo Giovanelli, Marco Matteotti

Rubriche e articolisti

Flavio Moro

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Il saluto del Presidente Gentili socie, cari soci e lettori tutti, come ben sapete dal 13 marzo scorso sono diventato Presidente di questa meravigliosa sezione guidata prima di me da Arturo Giovanelli, al quale vanno i miei più sentiti ringraziamenti per tutto quello che mi ha insegnato con la sua esperienza di lunga militanza, sempre attivo e propositivo, a volte esuberante. Nei quattro anni trascorsi nel Direttivo ho conosciuto delle persone che mi hanno mostrato la sezione nella sua anima, con l’entusiasmo di tutti i volontari che portano avanti nei Gruppi la miriade di attività a capo della Sezione. A tutti loro va il mio ringraziamento e la speranza di continuare in questo lavoro di squadra che dovrà sostenere la nostra sezione, specialmente ora in questo momento di difficoltà della società in cui viviamo. Lavorare assieme per dare la possibilità a tutti i Soci di esprimersi al meglio nelle attività proposte e formare ed informare i nostri giovani di quanto è bella la realtà e l’ambiente che ci circonda. Il cammino intrapreso alcuni anni fa non è terminato, però è giusto prendersi un momento di sosta per riprendere fiato, come normalmente avviene in montagna, e che ci permette di godere appieno del nostro percorso. Il nostro cammino può, anzi deve continuare con lo stesso passo e determinazione che ci hanno permesso di raggiungere significativi traguardi, rivolgendo uno sguardo ad un passato importante che deve essere ricordato con orgoglio e giustificata soddisfazione, ma con la certezza che il presente sia il “segnavia” per un futuro ancora ricco di fatti, di idee e di storia. Voglio ora esprimere un sincero grazie a tutti i collaboratori ed ai Redattori di questo annuario, a tutte le persone che con il loro apporto economico ci permettono di far pervenire a voi tutti questo stampato. Excelsior!

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Il presidente Giorgio Galas

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ARTICOLI DA PUBBLICARE NELL’ANNUARIO SAT RIVA DEL GARDA

Modalità per la pubblicazione dei vostri articoli Il testo Deve essere fornito alla redazione tassativamente su supporto informatico e insieme all’allegato cartaceo. Il file con il testo NON deve contenere fotografie! Le fotografie Devono essere in un numero minimo di tre, e possono essere consegnate in diapositiva, stampate su carta o meglio ancora in digitale. Se in digitale, dovranno essere salvate in buona risoluzione per consentire la stampa (formato JPG o TIF). La scheda Inserire una scheda dati per accompagnare il vostro articolo scrivendo: nominativo, telefono, titolo dell’articolo, didascalie e foto. La consegna Consegnare il materiale sopraelencato alla sede SAT di Riva del Garda a porta San Marco, di persona o inviandolo per posta all’indirizzo: Redazione Annuario SAT Sede SAT di Riva del Garda Porta San Marco 38066 Riva del Garda (TN) o via posta elettronica all’indirizzo: annuariosat@hotmail.it NB: Gli articoli devono pervenire assolutamente completi del materiale richiesto qui sopra.

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Prefazione Anche quest’anno ho il piacere di presentare una nuova edizione dell’Annuario S.A.T. della nostra prolifica sezione di Riva del Garda, che grazie al costante lavoro e impegno dei soci, sin dagli albori fino ad oggi, ha visto svilupparsi molteplici attività in seno ad essa, in un crescendo di idee anche innovative, ma sempre con la centralità della montagna come scopo primario. È un progetto comune che guida la nostra sezione e la fa fiorire a dispetto delle diversità di ognuno, che non sono state un ostacolo alla crescita, nella continuità di progetti oramai ben collaudati e positivi nei risultati. A mio avviso i tanti volontari che mettono a disposizione tempo e competenze per la realizzazione delle molteplici attività della sezione, con la costanza che le caratterizza, sono degni di lode, in quanto agiscono in ambito del bene comune per un coinvolgimento sociale, che avvicina ogni fascia di età. È grazie a una gestione “sana” che la nostra sezione può vantare una crescita numerica di soci, di amici simpatizzanti che collaborano nella realizzazione delle attività, di buoni e consolidati rapporti con le istituzioni che determinano un riconoscimento anche dal punto di vista economico. Ma addentrandoci nelle pagine di questa edizione, devo dire che quest’anno il denominatore comune fra i nostri autori, è uno sguardo ai ricordi del passato e forse gioca a favore questo lungo periodo, troppo lungo, che stiamo vivendo di incertezze e brutte notizie. Nei ricordi ritroviamo i momenti importanti che hanno significato un traguardo, un emozione a cui fare ritorno con la memoria per ritrovare nuovo vigore, panorami in cui il nostro sguardo ha vagato estasiato ma

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che rimangono ben radicati nel nostro intimo, e, quando la condivisione di un esperienza si trasforma in rispetto, amicizia e amore direi che ci si può ritenere in pace. Anche quest’anno la nostra pubblicazione è ricca di escursioni e scalate in montagna, di attraversate da una parte all’altra del globo, di neve e ghiaccio, di sfide personali e di momenti in compagnia, di storia del nostro territorio e di poesie, ma lascio a voi il piacere di scoprire ogni racconto, ogni foto e qualsivoglia riflessione che una lettura procura. Concludo rinnovando a tutto il direttivo ed i soci un sincero ringraziamento per la fiducia affidatami nella gestione della pubblicazione dell’Annuario, mi complimento con gli autori degli articoli, poesie e foto, che danno vita a queste pagine con le loro esperienze ed emozioni, che condividono con tutti noi. A Flavio un ringraziamento “speciale” per il supporto di gran parte del lavoro e dei contatti fra soci e autori, nei mesi di raccolta degli articoli, e, non da ultimi, ringrazio i molti sponsor che contribuiscono alla realizzazione di questo nostro annuario che concretizza il lavoro svolto da tutti! Excelsior! Il responsabile dell’Annuario Valentina Leonardi

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Indice Attività della sezione L’Annuario dei ragazzi .................................................................................................................. a cura di Giorgio e Roberto ................................. Le gite del 2013 ................................................................................................................................................................................................................................ Assemblea generale ordinaria ................................................................................................. di Arturo Giovanelli ............................................... Dieci anni di “In montagna con le famiglie” .......................................................... di Marco Matteotti .................................................. Sopraimille, dieci anni portati bene ................................................................................ di Unodisopraimille ................................................ Biblioteca SAT Riva del Garda ............................................................................................ di Stefano Reversi ...................................................... L’Alpinismo Giovanile ................................................................................................................. di Gilberto Mora ...................................................... Sentiero delle rogge da Lana a Castel Tirolo ........................................................... di Nicola Prandi ....................................................... Gruppo Rocciatori e d’Alta Montagna ......................................................................... di MoRe ......................................................................... La stagione 2012-2013 del Gruppo Sciatori Riva ............................................. di Alberto Zampiccoli ............................................ Manutenzione sentieri 2012 .................................................................................................. di Claudio Fedrizzi ................................................. Ricordando Sandro ......................................................................................................................... di Marco Matteotti .................................................. Sat & Bike ............................................................................................................................................... di Sergio Amistadi .................................................... I V.I.P. fra storia e cronaca ........................................................................................................ di Erre ............................................................................. La Ferrata del Centenario ......................................................................................................... di Paolo Liserre ..........................................................

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Rubriche Monviso .................................................................................................................................................... di Ruggero, Carlo e Lucia .................................... 91 Cinquant’anni: una vita nella SAT di Riva .............................................................. di Mauro Caceffo ...................................................... 95 Ai fornelli! ............................................................................................................................................... di Stefania Fenner ................................................. 101 Mauro Tomasi, l’alpinista della quotidianità .......................................................... di Paolo Liserre ....................................................... 105 Alcune riflessioni attorno al caminetto sul rifugio Don Zio .................... di Arrigo Pisoni ...................................................... 107 La caccia “all’oro” della Rocchetta .................................................................................... di Stefano Reversi ................................................... 113 Sui monti Scarpazi .......................................................................................................................... di Silvio Santoni “Bacon” ................................. 119 C.A.I. Day. Sulle strade della memoria ........................................................................ di Claudio Martinelli ......................................... 125 Lago di Loppio ................................................................................................................................... di Fabio Dal Rì, Paolo Ferrari ...................... 127 Racconti Il cammino dell’aquila ................................................................................................................. di Ingrid Gasperi ................................................... 131 A ottant’anni sul Campanile .................................................................................................. di Renato Camilotti ............................................. 139 Uno spigolo del Crozzon di Brenta bagnato con striptease finale ....... di Paolo Ferrari - V.I.P. ...................................... 141 Monte Rosa e Capanna Margherita ................................................................................ di Paolo e Ruggero ................................................. 145 Da 80 a 30 km il passo è... breve ....................................................................................... di Andrea Hainzl .................................................. 147 Sul sentiero degli dei ..................................................................................................................... di Alberto Maganzini ......................................... 149 La svolta .................................................................................................................................................... di Alberto Maria Betta ....................................... 151 Annuario 2013

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Montagna e ambiente Moschettoni per le soste, prove in laboratorio ...................................................... di Emanuele Pellizzari ....................................... 153 Nel regno dell’alta quota nel Vallese ............................................................................... di Luigi Vettorato ................................................... 157 Alla corte del Re di Castello ................................................................................................... di Sandro .................................................................... 163 No ghe stago pù drio .................................................................................................................... di Mirco ...................................................................... 164 Il laghetto vanitoso ......................................................................................................................... di Stefano Cominotti ........................................... 165 Valanga 8-9 marzo 2012 ............................................................................................................ di Dario Antolini .................................................. 167 Storia d’amor ........................................................................................................................................ di Alberto Maria Betta ....................................... 171 Come stanno i ghiacciai trentini ........................................................................................ Comitato Glaciologico Trentino .................... 173 Fermare le emozioni Raccolta di scatti emozionanti ......................................................................................................................................................................................... 177 Cultura !!Resistere, Resistere, Resistere!! ........................................................................................... di Erienne .................................................................. 183 Storia Pardùn ........................................................................................................................................................ di Grazia Binelli .................................................... 185 Pregasina e le sue antiche usanze paesane .................................................................. di Bernardino Toniatti ....................................... 189 El zoc ........................................................................................................................................................... di Stefano Cominotti ........................................... 191 La storia della lavorazione del ferro in valle di Ledro ...................................... di Donato Riccadonna ........................................ 193 Ma và fa ‘n giro ................................................................................................................................... di Mirco ...................................................................... 198 L’isola di Sant’Andrea ................................................................................................................... di Ferdinando Martinelli ................................. 199 Dal mondo Farewell Annapurna Circuit ................................................................................................... di Carlo Zanoni ..................................................... 203 Il mercato di Nele ............................................................................................................................ di Mario Corradini .............................................. 213 La Bosnia è la mia casa ................................................................................................................ di Stefania Comai ................................................. 219 Cile - Argentina ................................................................................................................................. di Danilo Angeli .................................................... 223 Ringraziamenti ............................................................................................................................................................................................................................... 240

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

L’Annuario dei ragazzi a cura di Giorgio e Roberto

Dai 63 alunni delle terze classi di Varone, in gita sulle pendici della Rocchetta, un Ciao agli amici della S.A.T.

LA S.A.T. INCONTRA LA SCUOLA Prosegue nel corso del corrente anno scolastico lo stretto rapporto collaborativo coll’ambiente cittadino della scuola e con quello dei vicini comuni di Nago-Torbole e Tenno. Inteso a favorire la conoscenza dell’ambiente naturale in genere e, in particolare di quello alpino, attraverso incontri nelle classi con nostri esperti, ed escursioni sui nostri monti, dove quanto appreso sui banchi della scuola viene tradotto in pratica esperienza. Ad esperti ed accompagnatori, tutti volontari, va il ringraziamento e l’apprezzamento della Sezione. Purtroppo l’inclemenza del tempo ha costretto spesso ad un rinvio delle escursioni verso la fine dell’anno scolastico, per cui, dati anche i tempi programmati per la stampa, questo tema non è molto rappresentato nei disegni degli alunni. Per altro l’adesione all’iniziativa dell’ Annuario dei Ragazzi è sempre molto partecipata: in essi sono la risposta e l’interesse più evidenti a quanto proposto. E pure molto partecipata è l’adesione del corpo insegnanti, per cui può affermare che non ci sia classe con cui la nostra Sezione non abbia contatti. Sono semi che hanno trovato un terreno estremamente favorevole e che certamente daranno buoni frutti nel rapporto futuro dei ragazzi con la montagna. Gli organizzatori. Annuario 2013

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

Scuola Materna Rione Degasperi-Riva • El merlo l’à pèrs el bèco...

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

Classe 1ª Scuola primaria - Nago: Andiamo in montagna!

La montagna è di tutti e si deve rispettare.

Mi piace arrampicarmi in montagna. Annuario 2013

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

Mi piace andare in montagna e riposarmi nel rifugio.

È bello andare in montagna a fare le foto.

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

Classe 2ª B - Scuola primaria G.F. Fedrigoni - Varone: Gli animali della montagna

Il bosco è bellissimo. È pieno di animali.

Con la S.A.T. ho imparato ad amare la natura. A me piacciono gli animali ma più di tutti l’orso. Annuario 2013

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ATTIVITĂ€ DELLA SEZIONE

Io amo la natura. Da grande vorrei fare la Guardia Forestale.

Con quel video ho imparato tante cose nuove. Cara S.A.T. vieni ancora presto!

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

I cervi in estate mangiano fiori, erbe, e pascolano felici.

Ciao Guardie Forestali. Mi è piaciuto molto il vostro video ho imparato molte cose sull’orso. Annuario 2013

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

Classe 2ª Scuola primaria O. Lucchi - Tenno: Incontro con l’acqua

Scavò, scavò, e scavò per tanto tempo. Fece una galleria nella montagna, saltò dalla rupe e scese fino al lago di Garda (da una fiaba sull’origine della cascata di Varone)

Da una lezione sul ciclo dell’acqua.

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

Classi 3ª A-B-C Scuola primaria N. Pernici - Riva: Sul Brione

Il monte Brione è basso ma molto bello.

Con la S.A.T. ho imparato i tipi di funghi, fossili, fiori. Annuario 2013

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ATTIVITĂ€ DELLA SEZIONE

Ci hanno insegnato a non strappare i fiori e a stare in silenzio per ascoltare i rumori della natura.

Siamo saliti sul monte Brione. Al ritorno Giorgio ci ha raccontato del pungitopo.

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

Siamo andati sul monte Brione guidati dagli esperti della S.A.T. Abbiamo osservato le piante: la quercia, l’olivo. Di lassù si vedeva un bellissimo panorama.

Giorgio ha detto che non si raccolgono i funghi. Annuario 2013

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ATTIVITĂ€ DELLA SEZIONE

Sono andata sul monte Brione con gli esperti della S.A.T. Abbiamo osservato il lago che era bellissimo da lassĂš.

Sul Brione abbiamo trovato i fossili.

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

Classe 4ª Scuola primaria O. Lucchi - Tenno: Le catene alimentari

Catene alimentari nel lago.

Catene alimentari nel bosco con stagno. Annuario 2013

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

Classe 4ª B - Scuola primaria G.F. Fedrigoni - Varone: Meteo

È venuta la signora Marta di meteo Trentino e ci ha spiegato il nome delle nuvole, la loro forma e il colore...

Con la S.A.T. ho imparato che una volta i contadini usavano proverbi per dire che tempo faceva, perché stavano fuori per molto tempo e osservavano il clima.

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ATTIVITĂ€ DELLA SEZIONE

La signora ci ha raccontato cose molto interessanti. Ora so come funzionano le previsioni meteorologiche.

I cirri si trovano nella parte piĂš alta del cielo. I cirrocumuli sono sotto i cirri. Poi ci sono gli strati e poi i cumuli.

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

Classe 4ª B - Scuola primaria N. Pernici - Riva: Vita nel fiume e nel lago

Ci ha parlato del plankton, delle alghe, del luccio, della trota, delle anguille e di altri pesci.

Ecco il pesce persico, il luccio e la trota. Ci ha spiegato la vescica natatoria che è come un gonfiabile che si gonfia e si sgonfia per salire e scendere.

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

La trota vive nel lago e nei fiumi. Il luccio è carnivoro.

Ho scoperto dove nascono le anguille e quanta strada fanno per arrivare al lago di Garda.

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

Classe 4ª A - Scuola primaria A. Zadra - Rione Degasperi - Riva: Alla sede dei Vigili del fuoco e del soccorso Alpino

Ho imparato quando c’è un incendio di chiamare il 115.

Questa è una vecchia macchina dei Vigili del fuoco per spegnere gli incendi.

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ATTIVITĂ€ DELLA SEZIONE

In montagna porta un fischietto. Se ti perdi puoi chiamare aiuto.

Ho trovato un ferito chiamo soccorso. Annuario 2013

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ATTIVITĂ€ DELLA SEZIONE

Classe 4ÂŞ B - Scuola primaria A. Zadra - Rione Degasperi - Riva Geologia: come nascono le montagne

Ho imparato che ci sono tanti tipi di rocce e di montagne.

Il Sig. Bruno ci ha fatto vedere delle rocce che ha trovato in montagna.

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

L’eruzione vulcanica crea le montagne e gli atolli.

Le meteoriti cadono dal cielo. Ci ha mostrato un pezzo di meteorite. Annuario 2013

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

Classe 4ª B - Scuola primaria A. Zadra - Rione Degasperi - Riva Geografia: i monti del Trentino

Ci ha fatto vedere sulla lavagna multimediale le nostre montagne, i fiori, gli animali, le cascate e le cime innevate.

La cosa che mi è piaciuta di più è stata il raponzolo di roccia, perché non si vede tutti i giorni un fiore che cresce sulla roccia.

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

Le gite del 2013 GITE SOCIALI 10 feb 10 mar 03 mar 13-14 apr 21 apr 25-28 apr 26 mag 23 giu 6-7 lug 21 lug 3-4 ago 10 ago 18 ago 01 set 08 set 14-15 set

Gita con ciaspole e scialpinismo Gita con ciaspole e scialpinismo CAI Day Gita turistica ed escursionistica sulle Alpi Apuane e Cinque Terre Limone - Monte Bestone - Voltino di Tremosine Gita turistica in Umbria e Marche Traversata: Monte di Cavalo - Monte Pastello - Dolcè Traversata: Folgaria - Cornetto - Rif. Casarota - Sindech Uscita componenti G.R.A.M. Traversata Fanes - Pederù Cima Tosa A Santa Barbara sotto le stelle Vetta d’Italia Gita alpinistico-lacustre Val Fiscalina - Monte Paterno - Tre Cime di Lavaredo - Misurina Sul ponte tibetano più lungo del mondo

GITE VIP (VECCHIETTI IN PENSIONE) 27 gen Val Casies - Aschtalm 17 feb Quattro passi in attesa di polenta e mortadella 10 mar Rifugio Gardeccia - Catinaccio 07 apr Passo Bordala, Somator, Valle San Felice 25 apr Malga Craun - Monte di Mezzocorona 12 mag Tremalzo - Malga Cita “Ovi duri e radic” 24/25 mag Torino - Reggia di Venaria - Museo della montagna turistica 09 giu Meltina - Stoanerne Manndlen - Avelengo 23 giu S. Candido - Monte Elmo - Rifugio Sillianer 04 lug Passo Pordoi “Viel dal Pan “ - Lago Fedaia 14 lug Parcines - Alta Via di Merano - Naturno 25 lug Passo Broccon - Cima Coppolo 08 ago Gruppo Civetta - Rifugio Tissi 22 ago Sciliar - Rifugio Bolzano 29/30/31 ago Il Cervino da Zermatt 08 set Rifugio Pio XI - Palla Bianca 22 set Lavazè - Pietralba 06 ott Altopiano del Renon, nuovo sentiero Pyramix 20 ott Festa dell’uva - Merano 10 nov Pranzo di chiusura 14/15 dic Mercatini di Natale a Rottenburg ALPINISMO GIOVANILE 27 gen Ciaspolada 24 feb Ciaspolada con Arco 03 mar Cai Day Annuario 2013

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

17 mar 21 apr 19 mag 09 giu 23 giu 07 lug 26-28 lug 18 ago 23-24-25 ago Data da definire 15 set 15 ott 10 nov 07 dic

Ciaspolada in Tremalzo Arrampicata in Lomasona Escursione luogo da definire Raduno a Bressanone con Arco Ciclabile a Resia Ferrata Santner Trekking Bernina Stelvio Prato allo Stelvio Carè Alto Trekking Regionale Uscita con le Canoe Laghi di Valbona Ferrata le Tacole Castel Beseno Serata Conclusiva

IN MONTAGNA CON LE FAMIGLIE 03 mar Cai Day / Porto S. Nicolò - Tempesta 24 mar S. Massenza - Roggia di Calavino 07 apr Acropark - Parco Miralago Riva 25 apr Altopiano del Renon 19 mag Monte Casale - Rifugio Don Zio 02 giu Prai di Nago - Rifugio Campei 23 giu Rifugio Sette Selle - Lago di Erdemolo 07 lug Canyon Bletterbach 27-28 lug Monte Peller (Dolomiti di Brenta) 15 ago Rifugio Chiesa all’Altissimo - Notturna 25 ago S. Pellegrino - Rif. Selle - Val S. Nicolò 01-03 set Trekking 3 Giorni in Lagorai 22 set Vigolana - Rifugio Casarota 06 ott Tremalzo - Caset - Malga Giù 27 ott Sopramonte - Malga Brigolina GITE PROGETTO “SOPRAIMILLE” 12 gen Sci di fondo al Passo Coe (Alpe di Folgaria) 9 feb Ciaspolada al Rifugio Potzmauer (Grumes, Valle di Cembra) 9 mar Sentiero attrezzato Giovanelli (al Burrone di Mezzocorona) 6 apr Sentiero 472 “Defension Mauer” (Biacesa, Valle di Ledro) 11 mag Sentiero 601 alla Malga Zures (Monte Altissimo) 1 giu Cime del Monte Bondone 29-30 giu Escursione al Rifugio Genova (Val di Funes) GITE PROGETTO “SAT & BIKE” 1 mag Pisoni Grill Bike Pergolese 26 mag Family Bike Ceramonte (Altopiano di Pinè) 23 giu Tour di Costalta 20/21 lug Due giorni nel Parco di Fanes 11 ago Ciclabile in Val Rendena 1 o 8 set Traversata Bike Val d’Ultimo / Val di Rabbi 6 ott Jurassic Bike a “Bolga”, Monti Lessini

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

Assemblea generale ordinaria 9 marzo 2013 - Relazione del Presidente della Sezione SAT di Riva di Arturo Giovanelli Signore e Signori, soci e simpatizzanti della S.A.T.,buonasera a Voi tutti, voglio ringraziarvi della vostra presenza all’assemblea ordinaria. E’ già trascorso un anno dal mandato da Presidente di cui mi sono fatto carico, è stata un’alternativa per la mia esperienza come d’accordo un anno fa. La nostra sezione mantiene con soddisfazione i compiti che le vengono assegnati. E’ stato un anno buono, del resto con un direttivo come questo non è stato difficile lavorare. Riguardo al tesseramento, abbiamo mantenuto e aumentato, anche se di poco, i nostri soci, avevo paura di non riuscirci vista la crisi in corso. Oggi siamo a quota 1.587 soci. Tra questi il dato che risulta più eclatante è il numero dei giovani: ben 309, che ci fa essere primi in Trentino. Al Rifugio S. Pietro è stato assegnato il premio Family. Questo Rifugio, dopo tanti anni di richieste e chiacchiere, finalmente può iniziare la stagione con l’energia elettrica anche se l’allacciamento è stato ritardato causa la neve. Per il Rifugio Nino Pernici, è stato presentato il preventivo di ristrutturazione per la sostituzione di alcune finestre, isolamento delle camere e impianto di riscaldamento e siamo in attesa di una risposta positiva per quanto riguarda un eventuale contributo provinciale. Questa Assemblea coincide con la mia ultima settimana da Presidente: da mercoledì 13 marzo 2013 il direttivo deciderà Annuario 2013

chi sarà il nuovo Presidente. Il più papabile è l’attuale vice Presidente Giorgio Galas, che in questo anno ha avuto modo di inserirsi e aumentare la sua esperienza. Sono molto contento di aver contribuito e messo a disposizione la mia esperienza acquisita in tanti anni di direzione. Sono intervenuti durante l’assemblea, per i resoconti delle attività della sezione, i seguenti responsabili: Marco Matteotti per quanto riguarda le attività “in montagna con le famiglie” ha tracciato un breve resoconto dei primi dieci anni di impetuosa crescita del progetto sopracitato ricordando come oggi vi sia però la necessità di ricambio, per mantenere il contatto generazionale tra i volontari e le famiglie partecipanti al progetto. Gilberto Mora per l’alpinismo giovanile ha portato un resoconto delle attività svolte e dell’interesse dei ragazzi nelle esperienze proposte. Silvano Moro e Claudio Fedrizzi hanno fatto il punto sullo stato dei sentieri e relativa manutenzione mentre Marco Tamiozzo ha ricordato lo sforzo continuo dei 60 volontari addetti, per tenere efficiente Capanna S. Barbara e sempre a disposizione dei soci satini. Sergio Amistadi e Andrea Hainzl per S.A.T.& Bike, hanno esposto le uscite fatte e in programma per la nuova stagione. Poi è intervenuto Rudy Simonetti responsabile sede e attrezzature con una breve relazione dello stato d’uso delle stesse. A 41


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seguire è intervenuto Adriano Boccagni responsabile segreteria sezione e organizzazione gite V.I.P.con una breve relazione delle uscite fatte, successivamente è intervenuto in delega, Carlo Zanoni per il G.R.A.M. e per la biblioteca, ha esposto una breve relazione sulle attività svolte e gli incontri in sede del G.R.A.M., per migliorare la sicurezza in ambiente alpino, la vicepresidente Rosanna Giacomolli ha illustrato il lavoro del gruppo Sopraimille, che si dedica a portare in montagna gli utenti del Centro di Salute Mentale di Arco. Il responsabile delle gite sociali, Maurizio Torboli ha illustrato il programma gite del 2013. Roberto Angiolini e Giorgio Galas

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hanno illustrato il grande lavoro che il progetto “La S.A.T. incontra la scuola” porta avanti da anni nelle scuole di Riva, Tenno, Nago-Torbole. Marco Carloni del Gruppo Sciatori Riva grazie ad una stagione generosa ha esposto le attività svolte con un positivo riscontro in termini di presenze. Sono intervenuti il Dott. Nello Santorum come revisore dei conti della sezione con un preciso resoconto economico della nostra sezione, e Flavio Moro responsabile articolisti per l’annuario, è intervenuto ringraziando gli articolisti, i soci e tutti quanti partecipano alla realizzazione di questa pubblicazione. Excelsior!

Annuario 2013


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Dieci anni di “In montagna con le famiglie” di Marco Matteotti - Responsabile SAT in Distretto Family Alto Garda

Quando Valentina e Flavio mi hanno gentilmente chiesto di scrivere un articolo per l’Annuario, concernente il Progetto “in montagna con le famiglie”, nonostante la paura di risultare ripetitivo nel trattare ancora di questa attività, ho accettato, soprattutto spinto dalla curiosità di vedere cosa la memoria mi riproponeva di sottolineare dopo aver chiuso con il 2012 il primo decennio di questa esperienza, completamente nuova in S.A.T. La prima gita è stata effettuata infatti il 6 aprile del 2003 con una mitica scarpinata da

Tenno a Calvola e poi su, fino al nostro Rifugio di S.Pietro. Ricordo i dubbi e le ansie legate alla capacità dei nostri bimbetti di affrontare le erte, memori degli innumerevoli moniti giunti da tutte le parti che “ i boci, ancòi, no i gà pù voja de caminar”: e invece... magari con qualche primo sprone per accendere la loro fantasia nel muoversi in un mondo completamente diverso dal solito asfalto, tutti quanti si sono spinti allegramente su per la salita. Il poter poi giocare liberamente sui prati e sotto i grandi abeti dotati di pigne da

Alpe di Siusi Annuario 2013

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Cima Camoscio e lago Neves

tirare a volontà, hanno creato quell’entusiasmo che ha portato a raddoppiare il numero dei partecipanti nella seconda gita del 25 aprile, a Campione. Certamente non mi nascondo una grande nostalgia a ripensare a quei bimbi, compreso il mio Federico, che avevano in media cinque - sei anni e che ora sono dei barbuti giovanotti o delle vezzose signorine e comprendo bene la commozione di qualche mamma quando, ancora nel 2009, ha visto le foto dei propri bimbi sul primo libro “Emozioni in cammino”, riportante 50 delle nostre gite. Ed ora è già uscito il secondo! Così la fortuna ha baciato gli audaci... e anno dopo anno il progetto è continuato a crescere, con l’aiuto prezioso di Alessandra, Gil, Paio e Claudio, attirando sempre nuove famiglie, fino a creare per qualche tempo anche dei 44

problemi di soprannumero, ma soprattutto dando la possibilità alla Sezione di avere nuovi volontari nelle figure di papà e mamme, che hanno trovato la possibilità di spendersi in una delle tante attività che la S.A.T. di Riva del Garda aveva nel frattempo avviato. Importantissima, quella partita con la nascita nel 2006 dell’Alpinismo giovanile, perfetto contenitore per i nostri ragazzi che stavano crescendo. Un progetto di cui alcune Sezioni della S.A.T. hanno cominciato ad interessarsi alcuni anni fa, ed ora si incominciano a vederne i risultati: leggendo l’andamento del tesseramento si possono individuare le Sezioni che hanno iniziato a correre, supportate dalle gambe dei loro Soci giovani e giovanissimi. Certo quando il cuore si apre alle emozioni, queste sgorgano poi a fiotti e arrivano anche Annuario 2013


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quelle dolorose: pensi a certe gite, guardi qualche scatto ed eccoli lì, Sandro, Flavio e Fabio, tre papà, tre amici carissimi che crudeli malattie ci hanno strappato, costringendoli ad inoltrarsi su un sentiero tanto lontano dai nostri monti. E su altre foto trovi Diego, allora bambino in gambissima ed oggi troppo spesso costretto sulla sedia a rotelle. Penso di interpretare il pensiero di tutti noi che vi abbiamo camminato insieme, inviando un bacio a loro e alle loro famiglie. I ricordi riprendono a correre ed ecco spuntare le tante serate passate in rifugio, con i bambini letteralmente elettrizzati dal vivere un’esperienza così diversa come ambientazione e soprattutto felici di poter stare insieme a coetanei, magari appena conosciuti. Due flash prepotenti: 1) tavolata serale al Rifugio Pernici con mamma che domanda al figlio di 8 anni come mai, solo qui mangia, e volentieri, lo spezzatino. Risposta to-

nante, davanti a tutti: ma qui è buono, non come il tuo, a casa... ed è stata una risata che è venuto giù il Rifugio. 2) Gruppo di pischelli, maschi e femmine di 6-7 anni, che preso il possesso delle camere, pregano i genitori di accomodarsi per la notte in altre stanze perché... vogliono starsene insieme e in pace (testuale). Ma anche le serate all’Hotel Liberty, all’Astoria, al Luise, legate alla Mostra fotografica Excelsior e agli auguri di Natale, non sono state male; vi ricordate quanti ospiti? Il Mago Theobroma, Luciano Maci, Walter Muto, Lucio Gardin, il mitico Sten, Pippi Calzelunghe, Luciano Ciechi, Clown Molletta. E legate a queste serate sono anche le premiazioni, con l’assegnazione di tre riconoscimenti “Marchio Family in Trentino” alla Sezione: nel 2007 proprio per il progetto “in montagna con le Famiglie”, nel 2009 per la politica tariffaria a favore delle famiglie numerose e poi nel 2012, per il Rifugio S. Pietro.

Fuciade Annuario 2013

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Laghi di San Giuliano

Ma i ricordi belli sono soprattutto quelli dati dalla freschezza dei bambini, dalla loro capacità di stupirsi, di coprire di polvere magica gli alberi, le foglie, di saper vedere in un sasso l’effige di chissà quale creatura, di commuoversi per un cavallino o per un cucciolo di marmotta, e ti viene in mente quella volta, quando hai sentito una manina piccola piccola entrare lentamente, dolcemente nella tua, ti sei voltato e hai visto uno scricciolo peruviano, appena adottato, che ti sussurra con un po’ di fiatone che... nel suo cielo vola il condor! E ti chiede: “ma è vero che è bello andare in montagna?” Ed oggi siamo nuovamente all’anno zero: tutta una generazione di piccoli satini ha imparato a saper apprezzare la montagna, a conoscere la S.A.T., ma è ora di avviare per sentieri nuovi bambini, nuove famiglie. Molto è cambiato 46

rispetto ad undici anni fa, soprattutto nella comunicazione: oltre al classico volantino con l’esposizione della gita abbiamo a disposizione anche gli avvisi sulla stampa locale, la bacheca, il sito www.satrivadelgarda.it, una mail list per inviare l’informazione direttamente a casa di chi si è registrato, Facebook. Ma come sempre, sarà il rapporto umano, il passa parola, l’arma vincente per far conoscere le nostre gite. In quest’ultimo periodo si sono avvicinati al Progetto ben quattro papà, operatori volontari del Soccorso Alpino e spero proprio di partire con loro per realizzare un nuovo ciclo, approfittando anche delle loro conoscenze del territorio, delle tecniche e soprattutto della loro carica umana dimostrata dall’essere impegnati in una attività così delicata e preziosa per tutti noi che andiamo in montagna. Annuario 2013


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Sopraimille, dieci anni portati bene di Unodisopraimille Non sempre fa piacere festeggiare gli anniversari, perché è possibile che un anniversario rappresenti il segno del tempo che passa, di ciò che non tornerà, di quello che era possibile fare e che invece non siamo riusciti a fare. Ma festeggiare il decimo anniversario di SOPRAIMILLE è occasione di gioia e soddisfazione! Già, tra pochi mesi festeggeremo i dieci anni che si va in montagna assieme, a partire da quel 15 novembre del 2003 in cui un gruppetto

di persone si ritrovarono al Rifugio San Pietro dando il via a questa avventura; e forse ben pochi avrebbero scommesso su quanto accaduto in seguito, sui risultati via via ottenuti. Ed allora se gli anniversari sono occasione di bilanci, facciamoli assieme. Dal 2003 ad oggi quasi novanta gite, su ogni tipo di terreno, dallo sci alla falesia, dalla grotta alle ferrate, dalle ciaspole alle più varie escursioni, fino

Cima Nera Annuario 2013

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Marmolada

a quelle in quota; gite che sono state realizzate in collaborazione con il Centro di Salute Mentale di Arco e con la partecipazione, a tutt’oggi, di una quarantina di persone che afferiscono a questo Centro. Innanzi tutto loro, che sono l’anima del progetto, ma anche i soci della sezione, il “Trota” e i volontari, tutte quelle persone che assieme hanno reso possibile questa avventura. Ci siamo conosciuti e misurati tra di noi e man mano che il tempo progrediva le amicizie si sono consolidate; un gruppo con una sua unitarietà e riconoscibilità (ormai siamo “quellidisopraimilTanti anni fa il C.A.I. aveva edito un manifesto (e mi ha fatto piacere ritrovarlo quest’estate, vecchio e sbiadito, in un rifugio sul Monte Rosa): una foto con il monito ”La montagna è severa!”. È vero, in montagna dobbiamo fare attenzione; ma oggi quel manifesto dovrebbe forse essere aggiornato, perché noi di SOPRAIMILLE sappiamo anche che “La montagna ci aiuta!”.

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le”!), ma anche un gruppo con gente che entra ed esce, che ci accompagna per un pezzo di strada per poi salutarci e prendere altri sentieri, o che continua da anni a frequentarsi consolidando l’amicizia. Perché di sentieri certo ne abbiamo percorsi molti in questi anni, e non solo camminandoci sopra! I più facili, quelli che vengono subito alla mente, sono i sentieri comuni ed affrontati assieme, quelli delle foto e dei ricordi evocati nelle serate passate a ridere e chiacchierare; ma ci sono anche i tanti “sentieri di dentro”, quelli fatti di emozioni suscitate e di cambiamenti attivati in ognuno di noi (e Sopraimille è nato per questo!). Ma se questa è la vera essenza, la reale forza di questo gruppo, non dobbiamo neanche dimenticare che attorno ad esso (attorno si fa per dire, come si fa a non starci “dentro”!?) si è mossa una gran quantità di altre cose. E di questo dobbiamo rendere merito alla Sezione e a tutti coloro, amministrazione comunale in primis, che ci hanno creduto e, quindi, sostenuto. Vogliamo scorrere il nostro diario? È una successione di eventi di tutto rispetto. Annuario 2013


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Abbiamo iniziato, un po’ timidamente, nel 2004 al Rifugio Pernici con il primo seminario nazionale “SOPRAIMILLE ... discutiamo di montagnaterapia in psichiatria”. È vero, eravamo un po’ temerari, e ci affacciavamo su un mondo sconosciuto ed a noi sino ad allora estraneo, ma abbiamo avuto ragione e mettendoci a disposizione degli altri con questa proposta siamo stati utili, permettendo a tanti altri gruppi di conoscersi; non avevamo certo la pretesa di inventare o creare... ma ci siamo ritrovati ad essere tra i promotori di quella che ora viene riconosciuta come montagnaterapia. E da lì il via! Nel 2005 con il corso di formazione “SOPRAIMILLE” montagnaterapia e psichiatria”; e come organizzatori nel 2006 del Convegno Nazionale al Centro di Formazione per la Montagna “Bruno Crepaz” del C.A.I., al Passo del Pordoi, un convegno che ha rappresentato il primo, vero riconoscimento di questa nuova metodologia che si stava affacciando a livello nazionale. E nel 2007, tornati al nostro Pernici, un altro corso di formazione sul tema “SOPRAIMILLE, montagna e psichiatria”. Per culminare (è proprio il caso di dire) nel 2008 con il Congresso rivano “SENTIERI DI SALUTE - Forum dei Saperi della Montagna che Aiuta”; un’occasione unica e forse irripetibile, che per tre giorni ha visto 250 tra operatori sanitari, soci C.A.I. e alpinisti (venuti da tutta Italia ma anche da Spagna, Francia, Belgio e Svizzera) confrontarsi e discutere, dando il via alla tradizione dei congressi biennali che, sulla scia ormai tracciata, sono stati riproposti due anni dopo a Bergamo e l’anno scorso a Rieti. Attività congressuali o di formazione che non abbiamo interrotto, ma che abbiamo attivato e che abbiamo deciso di lasciare ad altri, come è giusto che accada per in ogni nuova cosa che nasce, che ha necessità di svilupparsi sotto altre formule. Abbiamo comunque continuato, ad esempio, con i tanti convegni a cui abbiamo partecipato portando le nostre idee, proposte e testimonianze, o i numerosi articoli scritti per la stampa della S.A.T. e del C.A.I., così come Annuario 2013

Quando penso a tutto quanto accaduto in questi dieci anni non posso fare a meno di pensare a quello che Andrea un giorno ha detto: «Sono attività pericolose, ho paura; è il senso della montagna, se non puoi più scendere devi per forza salire, e allora vai su! ...e sperare negli altri, che la vaga ben, che no me vegna “na stornisia”!» Continuo a pensare che Andrea ha capito tutto.

quelli pubblicati su quotidiani e settimanali di grande tiratura. Una sorta di salto, dal rimanere chiusi in un ambito localistico e ristretto alla necessità di far conoscere attraverso esperienza, discussione e testimonianza tutto quello che stava accadendo. Gente incontrata, persone conosciute, idee ed emozioni condivise. Ma intanto si camminava, Sopraimille seguiva il suo sentiero. Anzi, ne adottava uno! Perché la S.A.T. ha deciso un anno fa di far adottare al nostro progetto un sentiero, sulle nostre montagne. Dal 2012 il sentiero n°480 che dalla località Fontanelle-Volta di Nò porta al Rifugio S. Pietro è “dedicato” al gruppo di Sopraimille, che ne curerà la periodica manutenzione. Il sentiero è un poco più basso come quota, ma noi ci sentiamo... Sopraimille!

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Punti vendita: RIVA DEL GARDA - Rione 2 giugno - Piazzale Mimosa, 8/10 Tel. 0464.520768 - Fax 0464.520851 - Viale Giovanni Prati, 21 Tel. 0464.554537 - Fax 0464.522065 - Viale Rovereto, 39 Tel. 0464.552407 - Fax 0464.552510 ARCO - Via Bruno Galas, 33 Tel. 0464.516701 - Fax 0464.518434 - Via Stazione, 3 - BOLOGNANO Tel. 0464.512861 - Fax 0464.513598 - Via Negrelli, 22 - VIGNE Tel. 0464.512982 - Fax 0464.510885 Sede: Piazzale Mimosa, 8/10 38066 RIVA DEL GARDA (TN) Tel. +39 0464 520768 Fax +39 0464.520851 consumatori@altogarda.coop.it

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Biblioteca SAT Riva del Garda di Stefano Reversi La biblioteca della sezione S.A.T. di Riva del Garda è a disposizione di tutti i soci della sezione con la classica modalità del prestito libro per la durata di un mese. Vari sono gli argomenti presenti, i più “folti” e per tanti i più interessanti sono la sezione narrativa e le guide. Nella narrativa sono presenti importanti collane sempre aggiornate, ci riferiamo ai Licheni editore CDA Vivalda, i Rampicanti editore Versante Sud e Campo Quattro editore Priuli & Verlucca, oltre a molti altri volumi. Le guide comprendono titoli riguardanti i vari modi di “godere” della montagna; escursionismo, trekking, vie ferrate, alpinismo, mountain bike, ciaspole, sci alpinismo, cascate di ghiaccio, vie d’arrampicata su roccia, freeride. Sempre più numerosa è la presenza della sezione DVD, grazie anche alla donazione da parte del socio Renato Martinelli della collana completa di film “Storie di uomini leggendari che hanno toccato il cielo, IL GRANDE ALPINISMO”. L’orario d’apertura è dalle 14,00 alle 17,00 tutti i venerdì pomeriggio, mentre la sera (sempre

di venerdì) dalle 20,30 alle 22,00 con cadenza quindicinale (un venerdì SI, un venerdì NO). Le date dell’apertura serale sono riportate sul sito della sezione www.satrivadelgarda.it. Ricordiamo che tutti i soci della sezione di Riva hanno diritto a uno sconto presso la libreria Cazzaniga di Arco, ottenibile tramite una tessera disponibile nei punti di distribuzione dei bollini. Un grazie a tutti i collaboratori che dedicano parte del loro tempo libero al progetto biblioteca. Senso di gratitudine anche a tutti quelli che donano libri alla sezione. Di seguito proponiamo un passaggio tratto da due libri. Il primo estrapolato da LE MANI SULLA ROCCIA di Andrea Oggioni collana Licheni. Il secondo da I GUIZZI DI UN PESCIOLINO... ROSSO di Renato Ballardini ed. il Margine. Buona lettura a tutti e un invito a vedere la biblioteca!

Le mani sulla roccia di Andrea Oggioni

più di noi: chiediamo delle informazioni sulla parete, e veniamo a sapere che è alta 450 metri e che è poco lontana dal rifugio Agostini. Raggiungiamo la Vallesinella dove lasciamo le nostre moto. Qui, il custode del piccolo “chalet”, altra vecchia conoscenza, ci saluta stringendoci la mano con questa frase: “Prendete tempo presto, quest’anno!”. Lo salutiamo e proseguiamo subito per il rifugio Brentei nostra prima tappa. Anche qui Bruno Detassis ci pone la stessa domanda: “Siete già arrivati! Andate per la Cima d’Ambiez?”. “ Si”. Quest’anno non abbiamo proprio perso tempo: infatti non sono ancora aperti ufficialmente i rifugi che noi siamo già qui, per affrontare la cosiddetta parete dell’anno. Anche Detassis

Durante il viaggio ci fermiamo a Pinzolo. Di solito quando veniamo da queste parti ci fermiamo sempre a trovare Clemente Maffei, sopranominato “Guerret”, guida del Brenta e della Val di Genova, nostro caro amico. Maffei, appena ci vede, dice: “Siete venuti per il diedro?”. “Si” rispondiamo. “Siamo venuti per la Cima d’Ambiez”. “L’avevo in programma anch’io e ho atteso troppo: ora ci siete voi, pensavo che sareste arrivati da un momento all’altro ed ora eccovi qua. Vi faccio i miei migliori auguri, ma andateci in fretta perché, a giorni, arriveranno altri alpinisti”. A quanto sembra Maffei ne sa Annuario 2013

“Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza” (cosi parlò Zarathustra) di Friedrich Nietzsche.

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dice che ci attendeva; e questo, ormai, non ci sorprende più. Bruno dice che sono cinque le cordate che cercano di scalare la parete Est della Cima d’Ambiez: chissà da chi l’ha saputo. Oppure è soltanto una previsione fatta dalle guide della zona. Al rifugio Brentei si unisce a noi una ragazza di nome Marisa. È una nostra amica, cugina del rocciatore Giancarlo Canali e ha fatto anche delle ascensioni con noi: ma, questa volta, Marisa non farà parte della corda-

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ta, rimarrà in rifugio: verrà sotto la parete per vedere come andranno le cose e poi, dice lei, ci porterà fortuna. All’indomani lasciamo il Brentei per iniziare la marcia di avvicinamento: saliamo alla Bocchetta di Brenta e ci fermiamo al rifugio Pedrotti dove facciamo colazione. Giulio Della Giacoma ci accoglie calorosamente, dicendoci le stesse cose che ci ha detto Bruno, anzi, ci mette subito una pulce all’orecchio confidandoci che forse ci sono già altri alpinisti alla base della parete. Speriamo che non sia vero; ma se ciò fosse, anch’essi hanno il diritto di fare quello che vogliamo fare noi: sarebbe ingiusto prendersela. Siamo venuti in Brenta per arrampicare e arrampicheremo; la Valle d’Ambiez, leggendo la guida, offre molte ascensioni, perciò non dobbiamo disarmarci. Siamo sempre decisi a recarci alla Cima d’Ambiez e così, dopo un lauto pasto, proseguiamo per il rifugio Silvio Agostini. A mezz’ora dal rifugio, osserviamo che le imposte sono chiuse. Forse la capanna non sarà ancora aperta e sarebbe un vero pasticcio, tanto più che comincia a cadere una fitta pioggia. Arriviamo completamente inzuppati. È davvero Annuario 2013


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chiuso. Troviamo però aperto il locale invernale: una specie di cantina, molto umida. Bisogna rimediare in qualche modo. Mi arrampico su un piccolo terrazzo del rifugio e noto che le finestre sono senza inferiate. Non mi è difficile aprire un imposta; rotto anche il vetro, la finestra è completamente spalancata: quindi entro e vado ad aprire la porta. Presto tutti e tre siamo al riparo. Ci sembra di essere diventati i padroni e subito ci diamo da fare per scaldare l’ambiente. Nel frattempo Marisa cerca, come può, di sistemare alla meglio, con coperte di lana molto umide, tre cuccette per passare una notte decente. Piove sempre, ma, in questo momento, non ci badiamo. Una cosa è certa, che non siamo stati preceduti: infatti siamo soli nella zona e questo ce lo dimostra il rifugio trovato chiuso e la totale mancanza di tracce sulla neve dei dintorni. Quando ci svegliamo, il mattino dopo, la pioggia cade ancora senza interruzione. Esco dal rifugio per dare un occhiata nell’intorno: è un luogo nuovo per me e tutto mi incuriosisce; guardo anche la parete, è davvero verticale, ma la fessura-diedro non si vede. Per vederla occorre salire un piccolo nevaio, ma piove troppo. Durante il pomeriggio esco nuovamente dal rifugio per vedere come vanno le cose. Piove sempre e grosse nuvole passano veloci da Est a Ovest senza tregua. Guardo a valle e noto che lungo la mulattiera stanno salendo due persone e un cane. Non sono alpinisti; a giudicare da quello che si vede, uno dei due è un uomo molto carico e costui potrebbe essere si alpinista o guida o portatore, ma l’altra persona è senza sacco e da come cammina sembra una ragazza. Forse sarà il custode. Avviso Josve e Marisa: comincia a cadere una fitta pioggia. Escono anch’essi dal rifugio per accertarsi. È proprio il custode... Naturalmente, in quel momento, avremmo voluto essere tutti quanti sulla parete Est della Cima d’Ambiez. Cosa dobbiamo fare? Cosa dobbiamo dirgli? È naturale che dobbiamo spiegargli tutto, anzi, Josve dice che gli pagheremo i danni arreAnnuario 2013

cati al rifugio. Per il momento l’unica soluzione è di accoglierlo nel più bello dei modi. La cucina è molto calda ed accogliente e prepariamo anche due tazze di buon te. Quando il custode e la figlia entrano nel loro rifugio, non hanno che da sedersi in cucina per asciugarsi e bersi la tazza di te. Mentre beve, lo mettiamo al corrente di tutto quello che abbiamo combinato. Il custode ci sorride. Dice che non dobbiamo preoccuparci; anzi, chiede se siamo soli. Anche lui sospettava di trovare più gente. Poi dice: “dal fondo valle, quando notai il rifugio, ho detto a mia figlia: ecco che la corsa alla Cima d’Ambiez è cominciata; ma chi saranno i primi arrivati? E i primi siete stati proprio voi che abitate più lontano degli altri”. Piove per parecchio tempo, anzi, pioverà per tre lunghe giornate; ma in rifugio trovo il modo per non annoiarmi. Al contrario di Josve, che passa lunghe ore rintanato nella sua cuccetta, io mi metto a spalare neve, a spaccare legna, ad aiutare la figlia del custode, Mariella, ad ordinare il rifugio per l’apertura ufficiale. Lavoro molto volentieri, forse perché mi sento in debito verso il custode o perché, quando sono in movimento, le ore d’attesa passano più in fretta. Chiudiamo poi la nostra giornata, a sera, con una partita a scopa. È l’unico giuoco che so fare, io in coppia con Mariella, contro l’imbattibile coppia Josve Marisa. Dopo tre giorni di attesa, ecco il sole. Mi carico sulle spalle un pesante binocolo con relativo cavalletto e, con Josve, scarpino fino alla base della parete. La studiamo nei suoi particolari, scrutiamo bene la fessura: sarà una gatta da pelare, ma vale la pena. Pisoni ci ha detto il vero: è una bella parete con una bella linea. Domani attaccheremo. Alla sera mentre stiamo portando a termine una complicata partita a scopa; questa volta in coppia con Josve contro Marisa e Mariella, con un bacio per posta, ecco entrare in rifugio i rocciatori trentini Armando Aste e Angelo Miorandi. Questi “guastafeste” vengono a dirci, nel più candido dei modi, 53


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che sono diretti alla Cima d’Ambiez. Rimango imbarazzato: non so se continuare a giocare a scopa o fare qualcosa d’altro. Certo questa visita non doveva essere una sorpresa per noi: è giusto che, col sopraggiungere del bel tempo siano arrivati altri rocciatori. Josve mi guarda come per chiedermi cosa dobbiamo fare. Ma, proprio allora, Aste si rivolge a me chiedendomi se accettiamo di effettuare la scalata assieme. Rimango un po’ incerto: naturalmente avrei voluto essere solo con Josve. E poi sono tre giorni che aspetto il tempo bello. Mi sembra di essere defraudato di qualcosa, ma, riflettendo un poco, accetto l’offerta di collaborazione. In quattro aumentano le possibilità di riuscita, e certo faticherò meno. Stringiamo subito amicizia con la cordata trentina e trascorriamo la sera in una lunga chiacchierata. Alle cinque del mattino lasciamo il rifugio. Saliamo il piccolo ghiacciaio e raggiungiamo la base della parete. C’è un tetto giallo, all’inizio. Aste vorrebbe superarlo direttamente, mentre secondo il mio punto di vista, lo si dovrebbe evitare con una arrampicata lungo una fessura che porta a destra sopra il tetto, per poi effettuare una traversata a sinistra e raggiungere il colatoio che si trova proprio all’uscita della sporgenza. Questo colatoio però scarica abbondante acqua: e qui altre discussioni sulla provenienza e la maniera di evitare questa acqua. Forse c’è una macchia di neve sulla cengia che taglia la parete a metà, o forse è il diedro che sta scaricando i residui dell’abbondante pioggia delle giornate precedenti. Per assicurarci, decido di raggiungere, con Aste, la cengia centrale. Così mentre Aiazzi e Miorandi ci attendono alla base, noi, con una corda e qualche chiodo, raggiungiamo la vedretta d’Ambiez e da qui, con una facile arrampicata, ci portiamo sulla cengia. Da principio questa è percorribile, poi, nelle vicinanze del diedro, diventa assai complicata: ci leghiamo e usiamo anche qualche chiodo. Ad un certo punto mi faccio calare in basso da Aste per quaranta metri, cioè fino a dove arriva 54

la corda, quindi mi slego e continuo a traversare verso il centro della parete per rocce molto sane di media difficoltà. Poco dopo raggiungo la terrazza al centro del diedro, e qui ho modo di notare che l’acqua che cade lungo il colatoio esce da una fessura. Osservo in diversi punti anche la fascia centrale della parete: si presenta molto gialla con una lunga serie di complicati strapiombi. Raggiungo nuovamente Aste e lo informo di tutto; scendiamo velocemente alla Vedretta e quindi all’attacco. Ormai sono le nove, ma, secondo i nostri calcoli, c’è abbastanza tempo per raggiungere la terrazza dove contiamo di bivaccare, perciò ci leghiamo, divisi in due cordate, per affrontare la parete. Io sono legato con Josve, Aste con Miorandi. Sono io che attacco per primo, seguendo appunto la fessura di destra per evitare il tetto. Al termine, ci riuniamo tutti e quattro su un piccolo terrazzo. Qui inizio la delicata traversata a sinistra, usando chiodi piccolissimi. In due ore, con una delicata manovra di corde, ho superato soltanto una decina di metri. Il tempo, che al mattino era bello, è diventato ora molto incerto e minaccia temporale. Dopo i famosi dieci metri, la traversata diventa più facile: qui, su una piccola incrinatura chiodata a perfezione, faccio arrivare Josve. A mia volta continuo ad attraversare; entro nel colatoio proprio sotto la cascata e subito mi sento mancare il fiato. Esco dall’altra parte tutto inzuppato, ma qui, come se le nuvole aspettassero questo momento, mi scaricano addosso una fitta pioggia frammista a grandine. Cerco un posto riparato, ma la mancanza di un qualsiasi punto di sosta mi costringe a ritornare da Josve. Mi avventuro nuovamente sotto la cascata e raggiungo l’amico. Mi attende con il sacco da bivacco disteso sulla testa e perciò ho modo di ripararmi un poco. Aste e Miorandi sono al riparo, su un terrazzino all’inizio della traversata, coperto da un leggero strapiombo. Ma non è il caso di invidiarli perché anche loro, cessato il temporale dovranno passare sotto la Annuario 2013


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cascata. È solo questione di tempo; più tardi si troveranno nelle medesime mie condizioni. Il temporale è breve e violento. C’è uno strano odore di zolfo. Se dovesse arrivare qualche fulmine, coi ferri legati in vita e con la lunga serie di chiodini che si trovano sul percorso fra noi e il terrazzo di Aste sarebbe un guaio serio. Potremmo essere bruciati tutti e quattro. Quando il temporale se ne va, la parete è tutta bagnata. Rimarrà nuvoloso fino alla sera; poi, per ironia della sorte, potremo ammirare il cielo completamente stellato e le montagne illuminate dalla luna. Per una terza volta mi avventuro sotto la cascata e mi fermo dall’altra parte per aspettare Josve. Grido ad Aste che andrò avanti per raggiungere la terrazza all’altezza della cengia. Così, dopo qualche ora, io e il mio compagno siamo al punto esplorato da me al mattino. La terrazza è grande e molto comoda, ma è bagnata: pazienza, lo siamo anche noi. L’unica cosa da fare è di levare tutti gli indumenti e strizzarli per fare uscire l’acqua; poi, per non rimanere nudi tutta la notte, li rimettiamo. Una strana operazione questa, e su un salto di duecentocinquanta metri fa un certo effetto. Più tardi, Aste e Miorandi dovranno ripetere la stessa operazione. Facciamo bollire del te, lo beviamo e ci infiliamo nei nostri sacchi da bivacco. La notte è lunga. Nessuno dorme, e cerchiamo di distrarci discorrendo del più e del meno. Aste, uno degli uomini più religiosamente seri che abbia incontrato, prega, ma tutti e quattro abbiamo gli occhi incollati all’orizzonte, come per affrettare l’uscita del sole. Si vede, prima, la linea che divide le montagne dal cielo illuminata da un tenue chiarore. Sono solo le due e siamo assaliti da forti brividi. Il tempo non passa mai. Alle cinque, finalmente, ecco il sole. Leviamo tutti i panni di dosso e, tirata sulla cengia la corda, li stendiamo ad asciugare. Avrei voluto avere una macchina fotografica a colori: sulla corda di nailon, che in quel momento fungeva da corda da bucato, ci sono ad asciugare i maglioni rossi, azzurri, gialli, calze Annuario 2013

di tutte le tinte, pantaloni e perfino mutande e magliette. Noi, seminudi, sdraiati sulla terrazza, aspettiamo sino alle 8.30, l’ora in cui Aste dice che i panni stesi si sono asciugati. Alle nove partiamo. Ora, sulla fascia gialla, passa in testa la cordata dei trentini. Aste e Miorandi proseguono superando strapiombi con largo uso di chiodi; io, a mia volta, li raggiungo seguito subito da Josve, tutto preso nello schiodare. Troviamo però anche il tempo per goderci qualche piccolo svago. È quando arriviamo ad una larga fessura e dentro c’è un nido. Già da tempo noto un insolito gracchiare e svolazzare di due grosse cornacchie, ma mai avrei pensato che nella fessura ci fossero i piccoli. Vorrei prenderne uno, ma, invece, mi prendo solo una buona beccata. Mi passa la voglia di catturarli, ma quando arriva Josve lo invito a farlo. Anche lui viene accolto a colpi di becco. Abbandoniamo i cornacchietti al loro destino e proseguiamo per raggiungere i nostri amici trentini. Su un terrazzo, alla base di una fascia di rocce nere ci riuniamo. È arrivato il pomeriggio ed è arrivata anche una fitta nebbia. Ci consultiamo: la fascia di rocce nere deve essere quella striscia orizzontale molto scura che si vedeva dalla base: perciò la vetta, a nostro parere è vicina. E così è; al termine della fascia di rocce nere, inizia una facile crestina che ci porta in breve tempo sulla cima. Siamo tutti felici, e lo si vede dai nostri visi sorridenti. Divoriamo tutti i viveri rimastici. Quando abbiamo riordinato tutto, frughiamo sotto la neve finché troviamo il libro della vetta: è molto umido; l’astuccio di ferro non è stato sufficiente a preservarlo dall’umidità. Dal settembre dell’anno precedente, siamo i primi a calcare questa cima, e noi siamo arrivati per una nuova via: una via diretta di estreme difficoltà, senza dubbio la più difficile di questa montagna. Scriviamo sul libro la relazione tecnica chiamando la via da noi tracciata “ Via della Concordia” per sottolineare l’unione delle nostre due cordate. 55


ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

I guizzi di un pesciolino... rosso di Renato Ballardini La montagna In un ambiente come questo, fatto di armonia naturale e umana, era inevitabile appassionarsi al lago e alla montagna. Soprattutto alla montagna: il Brenta e le Dolomiti di Fassa, i ghiacciai, l’Adamello, la Presanella, il Carè Alto, la Marmolada, l’Ortles e il Gran Zebrù. La montagna mi ha portato in dote molte solide amicizie. L’amicizia con Mario Albertini, maestro, consigliere comunale socialista, taciturno ma curioso, che in montagna dava il meglio di sé, scomparso troppo presto; con Paolo Tonelli, sindacalista combattivo, consigliere regionale, ora prestigioso dirigente del movimento cooperativo, gran camminatore, che della montagna nutre un culto quasi mistico; con Benito Vivaldi, intraprendente assicuratore, ciarliero e attaccabottoni, informato su tutto e su tutti, che abbiamo ribattezzato Antonio, anche se vuol far credere che quel prenome gli fu affibbiato da suo padre in memoria di Benito Juarez, il rivoluzionario messicano; con Pietro Chiaro, un alto magistrato napoletano fanatico maratoneta e innamorato dei nostri monti, che quando giungemmo la prima volta sulla cupola innevata della cima Tosa vi 56

improvvisò una irrefrenabile tarantella (a proposito di magistrati napoletani, trova posto anche, nel mio carnet, Ruggero Polito, che conobbi la prima volta come cancelliere del tribunale, del quale è diventato il presidente, esempio ammirevole di ciò che può la tenacia guidata da un sano intelletto. Anche i trentini, d’altra parte, non sono da meno, se penso a Marco Pradi, uomo colto ed estroverso come i trentini non sono, che è giunto a presiedere la Corte di appello di Trento). Alla montagna accostai in giovane età anche i miei figli, commettendo qualche imprudenza, il cui ricordo ancora oggi mi rimorde. Una volta portai Laura, poco più che bambina, a scalare il “camin” della Tosa, senza corda e senza nessuna misura di sicurezza. Superato lo sforzo, a pochi minuti dalla cima, si sentì esausta e non voleva più proseguire. Bastò uno zuccherino, che trovai nella tasca, e Laura felicemente compì l’impresa. In un’altra occasione, Franco, ancora adolescente, in prossimità di Cima Brenta, attraversò in precario equilibrio una sella arcuata e coperta di neve ghiacciata, con ai bordi due precipizi vertiginosi, sotto gli occhi inorriditi di me, che lo aspettavo dall’altra parte. Anche in questo caso senza corda. Andò bene in entrambi i casi, ma ancor oggi non so perdonarmi quella mia temeraria incoscienza. Annuario 2013


ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

L’Alpinismo Giovanile di Gilberto Mora Anche l’anno 2012 è passato e come ogni anno ci siamo divertiti davvero molto. L’ Alpinismo Giovanile di Riva del Garda continua a crescere: non solo per gli anni ma anche per numero di nuovi ragazzi che si aggregano al nostro gruppo. L’A.G. è nato nel 2007 quindi questo è il suo sesto anno. Gli anni passano, ma lo scopo di far conoscere ai ragazzi la montagna e le meraviglie che possiede permane. Come ogni anno le gite sono state organizzate seguendo un tema che ha accompagnato i ragazzi nelle varie escursioni, il tema dell’anno 2012 è stato “Alla ricerca e alla scoperta delle antiche vie di comunicazione della montagna”. I ragazzi sono stati impegnati in dodici escursioni con la media di venticinque partecipanti per gita. Sono state effettuate due gite sulla neve, la prima gita è stata una ciaspolata in Val di Funes nel mese di gennaio mentre la seconda, a marzo, il gruppo ha percorso il sentiero che collega il lago di Carezza alla località di Obereggen. Ad aprile si è andati all’impianto di arrampicata di Bolzano.

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Il 5 e 6 maggio ha preso luogo presso Arco il Giocalp. Nel mese di giugno sono state effettuate due gite rispettivamente il 3 (Traversata Riva-Limone) e il 24 (biciclettata da Dobbiaco fino a Lienz). Durante il periodo estivo sono state fatte altre tre escursioni: il trekking nelle Maddalene nei giorni 14 e 15 luglio, la gita in notturna sullo Stivo dell’11 agosto e l’ultima è stata il Trekking regionale sul Monviso dal 23 al 26 agosto, questa gita ha visto coinvolti cinque ragazzi. A settembre c’è stato il consueto raduno regionale, quest’anno svoltosi a Storo. Verso la fine del mese i giovani hanno affrontato la ferrata di Cima S.A.T. per il quarantesimo anniversario della ferrata, e in ottobre hanno visitato Castel Tirolo, raggiunto attraverso il sentiero delle rogge di Lana. Il tema di quest’anno è “Castelli e fortezze”. Come ogni anno si può richiedere o consultare l’annuario redatto dai ragazzi presso la nostra sezione.

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

Sentiero delle rogge da Lana a Castel Tirolo 21 ottobre di Nicola Prandi E finalmente anch’io vado in gita con la S.A.T. GIOVANILE! Quest’ anno è la seconda volta e devo dire che mi piace molto, anche se bisogna alzarsi presto la domenica. Alle 7 siamo partiti con il pullman e siamo arrivati fino al paese di Lana. Abbiamo preso un sentiero all’inizio un po’ in salita. C’era un bel panorama, c’erano sculture in legno e anche cartelli con le spiegazioni ed esperimenti del posto e c’erano le rogge. Gilberto il nostro capo gita ci ha spiegato che sono canali per l’irrigazione dei campi e siccome qualcuno rubava l’acqua c’era un sistema d’allarme: una campanella suonava sempre, se si fermava voleva dire che mancava l’acqua. In un prato ci siamo seduti a mangiare il pranzo al sacco. Il pomeriggio siamo arrivati a CASTEL TIROLO, dove abbiamo visto diverse specie di animali. Ho visto un gufo, una civetta, un piccione, un’aquila reale e un avvoltoio. Gli davano da mangiare e poi li

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facevano volare. Ci hanno spiegato che erano uccelli ammalati che hanno curato e addestrato. Avevano le ali grandi e color marrone, le piume soffici come un cuscino e si alzavano nel cielo azzurro come aquiloni. Il bello era che tornavano sempre indietro. Abbiamo camminato tanto, ho fatto tante foto e alla fine ero anche stanco ma è stato bellissimo... anche se c’era mio fratello grande.

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

Gruppo Rocciatori e d’Alta Montagna di MoRe Una nuova motivazione sta crescendo nel gruppo. Si potrebbe definirla fase ma anche era (ci auguriamo “evolutiva”), cioè muoversi sempre di più verso la sicurezza in montagna, condividendola. Sicuramente la nascita della commissione gite, come nuova entità della sezione, è un importante opportunità per aumentare la consapevolezza della sicurezza per tutte le gite sezionali. In questo senso noi come gruppo cerchiamo di dare il nostro contributo, aumentando in primo luogo il nostro livello di preparazione, grazie anche alla disponibilità collaborativa dei nostri amici Guide Alpine, e un continuo scambio contributivo di informazioni e esperienze tra i componenti del G.R.A.M. Accompagnando i soci in montagna, questa è diventata una necessità. In molti trovano un rifugio nella nostra (seppur modesta) esperienza alpina, e per noi è senz’altro un motivo

Annuario 2013

d’orgoglio. Certamente le uscite sono importanti, ma trasmettere attraverso l’informazione un modo più sicuro per affrontare la montagna, rende il nostro impegno eccelso. La grande disponibilità di ognuno di noi, nel consigliare itinerari mettendo a disposizione il proprio tempo, le cartine, ed uso di materiali, recuperabili nella nostra sede, fa dei soci GRAM una dispensa fondamentale. Spesso non abbiamo raggiunto la vetta prevista, anche questo onore ci è stato riservato. Sicuramente se questa cima o quella vetta non è stata raggiunta, il motivo era sempre e solamente legato alla sicurezza della gita in questione. Si sa, quanto amaro lascia in bocca una rinuncia, ma sappiamo cosa vuol dire una salita a tutti i costi! Il nostro desiderio è quello che ognuno possa

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Giovedì 5 GENNAIO 2012 ore 21.00

DIMOSTRAZIONE PRATICA COME AVVICINARE I BAMBINI ALL’ARRAMPICATA

Sabato 7 GENNAIO 2012

Sabato 24 MARZO 2012 ore 14.00

LEZIONE TEORICA presso la sede SAT di Porta San Marco a Riva del Garda

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USCITA SUL CAMPO (prova pratica)

RITROVO: parcheggio del Bar Parete Zebrata, Loc. Gaggiolo - DRO

Relatori: Guida Alpina Gino Malfer Guida Alpina Paolo Calzà “Trota” e Gabriele Bertoldi

Relatori: Guida Alpina Gino Malfer e Guida Alpina Paolo Calzà “Trota” PARTECIPAZIONE LIBERA (GRATUITA) IsCRIZIONE OBBLIGATORIA: info@arcomountainguide.com - info@satrivadelgarda.it

PARTECIPAZIONE LIBERA (GRATUITA) è gradita l’iscrizione: info@arcomountainguide.com info@satrivadelgarda.it

portare a casa una bella esperienza, legata ad una bella giornata passata insieme, e perché no, magari coronata da una fantastica salita fino alla tanto agognata cima. L’impegno del gruppo durante tutto l’anno che si allena e si informa per fare in modo che tutto prosegua liscio, tutto questo ci diverte, ma ci fa stare lontano anche dagli impegni con le nostre famiglie, ecco perche se parlo di “eccelso” credo di non esagerare. Le uscite dell’anno trascorso, sono state concretizzate dal ritrovo del dopolavoro, trovando il tempo per l’appunto dopo il lavoro, ogni giovedì da giugno a settembre in falesia, dalle 17.30 alle 20.30 circa, confrontandoci sulle difficoltà delle svariate falesie presenti nella nostra zona. Ora voglio elencare gli impegni che il gruppo ha svolto, un grazie va al nostro capogruppo Stefano Reversi che cura questo calendario assieme al nostro segretario Carlo Zanoni, auspicando che tutto prosegua. I giorni 21 e 22 luglio con capo gita Rudy Simo62

netti uscita nel gruppo del monte Rosa a Punta Gnifetti. Il 15 agosto con il gruppo dell’alpinismo giovanile abbiamo voluto dare spazio ad un (concatenamento) pensato da tempo, da Luca Giuliani del Canoa Club Riva anche questa volta assieme a Rudy, sono riusciti a realizzare questa uscita, partendo dai sabbioni per l’appunto in canoa, per raggiungere Corno di Bò, dove si è svolta l’arrampicata sulle placche. Abbiamo partecipato il giorno 08 agosto alla notte sport outdoor, allestendo giochi di equilibrio ed una teleferica che attraversava il canale della Rocca. Per i 40 anni della Ferrata dell’Amicizia è stata organizzata una due giorni, che prevedeva un appuntamento in sede con i realizzatori e tutti coloro che in qualche modo hanno contribuito alla creazione della stessa, per poi ritrovarci come appuntamento domenicale a S. Barbara, per ripercorrere la ferrata, assieme al gruppo dell’alpinismo giovanile e a chiunque volesse approfittarne. Annuario 2013


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ALTA QUOTA EMOZIONARSI SCENDENDO NELLE PROFONDITà DELLA NATURA Relatore: Silvano Bertamini

Giovedì 12 APRILE 2012 - ore 20.30

presso la sede SAT di Porta San Marco a Riva del Garda

l’uomo in altitudine: fisiologia, tecniche e adattamento + CONOSCENZA + SICURE ZZA

Relatori:

SANDRO CARPINETA

Commissione Centrale Medica del C.A.I.

PAOLO CALZà “TROTA” Guida Alpina

Venerdì 11 MAGGIO 2012 - ore 21.00

presso la sede SAT di Porta San Marco a Riva del Garda INGRESSO LIBERO GCA Assicurazioni s.r.l. Agenti Procuratori: Mauro Chizzola - Franco Antonini

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38066 RIVA DEL GARDA - via Monte Oro, 5/b Tel. 0464 552137 – 554414 Fax 0464 554913 e-mail: riva.del.garda@allianzras.it

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40° anniversario della via ferrata “DELL’AMICIZIA” alla Cima SAT Venerdì 21 SETTEMBRE 2012- ore 21.00 serata con i volontari che l’hanno ideata e realizzata

presso la sede SAT di Porta San Marco a Riva del Garda

Domenica 23 SETTEMBRE 2012 CAPANNA S. BARBARA - RIVA DEL GARDA

Ripercorrere la via ferrata “DELL’AMICIZIA” a Cima SAT ore 8.00 RITROVO presso Capanna S. Barbara ore 14.30 BRINDISI E TORTA PER TUTTI

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

La stagione 2012-2013 del Gruppo Sciatori Riva di Alberto Zampiccoli Come ogni fine stagione eccoci al momento del bilancio della nostra attività per l’inverno 2012-2013. La prima cosa da dire è che, fortunatamente, a differenza dello scorso inverno, la neve non si è fatta desiderare. Come di consueto la stagione si è aperta con la ginnastica presciistica tenutasi nei mesi di ottobre, novembre e dicembre. Quest’anno iniziata con la sostituzione del mitico professor Alfeo Benini, che ringraziamo calorosamente e che ci ha accompagnato tutti questi anni con una lunga e fruttuosa collaborazione. New entri il maestro di sci e prossimo a diplomarsi ISEF Matteo Ferraglia, che si è rivelato un giovane e ottimo sostituto apprezzato dagli oltre

Annuario 2013

50 partecipanti al corso. Novità di quest’anno, la possibilità, per chi voleva, di proseguire la ginnastica in palestra di mantenimento nei mesi di gennaio, febbraio e marzo. Hanno voluto approfittare di questa opportunità con soddisfazione 35 volonterosi soci che, sotto la guida attenta della professoressa Paola Parolari hanno continuato a sudare. Per il terzo anno consecutivo 15, tra ragazzi e ragazze dai 6 ai 12 anni, si sono cimentati nella cosiddetta pre agonistica. Quest’attività, che si è svolta da dicembre a marzo, è stata pensata per quei ragazzi che hanno una discreta padronanza dello sci e qualche corso “normale “ alle spalle. Sotto la guida costante di due maestri hanno potuto provare nuove esperienze come il Telemark,

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

il tracciato da slalom con pali o la sciata libera. Questo corso ha avuto un buon successo tra i ragazzi e i genitori, sia per la formula sia per i costi che, come nel nostro stile, abbiamo cercato di contenere al massimo. Per quel che riguarda i corsi, durante le vacanze di Natale si è svolto il tradizionale corso di sci alpino alla Polsa di Brentonico. Le sette uscite di 2 ore ciascuna hanno visto la partecipazione di 35, tra ragazzi e ragazze. Il secondo, altrettanto usuale corso si è tenuto, sempre in Polsa, durante i sabati di gennaio e febbraio. I partecipanti sono stati 45, impegnati per 8 sabati e per un totale di 16 ore di lezione. Molto numerose le adesioni, al punto che la lista degli iscritti era già al completo ancora prima della fine dell’anno. Purtroppo anche quest’anno le iscrizioni al corso di fondo sono state veramente poche. Solo 5 ragazzi. Grazie all’idea di una collaborazione con lo Sci club Ledrense siamo però riusciti, quasi in extremis, ad organizzare il corso, sia pure ridotto a 6 uscite di 2 ore ciascuna, sulla pista della Val di Concei. Un grazie di cuore al presidente dello Sci club Ledrense, Carlo Giacometti, ai Maestri e agli amici della Val di Ledro per l’accoglienza e la disponibilità dimostrate nei nostri confronti. Terminato il capitolo corsi passiamo alle altre attività che ci hanno visti impegnati nella stagione che volge al termine. Il 13 febbraio, per conto del comune di Riva del Garda, abbiamo organizzato la fase comunale dei Giochi della gioventù. I ragazzi erano 35, accompagnati dai loro professori, hanno gareg-

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giato sulle nevi della Polsa. Purtroppo, anche quest’anno l’adesione è stata accolta solamente dalla Scuola Media Scipio Sighele. Anche quest’anno abbiamo partecipato alla ormai consueta e collaudata gimcana, organizzata dallo Sci club Guastalla in località Bellamonte, riservata a bambini iscritti allo sci club, c’eravamo anche noi con 12 ragazzi e relativi genitori a questa divertente manifestazione. È diventata ormai una apprezzata consuetudine la gita a Carezza, organizzata per il 17 marzo, assieme al Gruppo sciatori S.A.T. Mori, e in quell’occasione si è svolta la nostra gara sociale. Buona la risposta di soci e simpatizzanti, sfamati anche quest’anno, dagli amici Moriani che ci hanno deliziato con carne salada, würstel e patatine. Doveroso un ringraziamento per i contributi ricevuti dal comune di Riva del Garda, dalla Provincia, dalla Cassa Rurale Alto Garda e dai nostri generosi sponsor. Oltre ciò, un’oculata gestione delle risorse ci ha permesso di ridurre i prezzi dei corsi di discesa del 20% e del corso di fondo del 40% rispetto al costo effettivo. Da segnalare anche la realizzazione della nuova tuta da sci da discesa, anche questa proposta e offerta ai nostri ragazzi soci ad un prezzo molto vantaggioso. Per finire, un accenno alle agevolazioni che da qualche anno riserviamo alle famiglie che iscrivono 2 figli ai vari corsi. Il secondo figlio gode, infatti, di un prezzo scontato. Riduzioni del 5% anche per i soci della S.A.T. rivana. Con questo è tutto. Buona estate a tutti e appuntamento alla prossima stagione.

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

Manutenzione sentieri 2012 di Claudio Fedrizzi L’anno appena trascorso, come del resto gli anni precedenti, per il gruppo volontari della Manutenzione Sentieri, coordinati dal responsabile Silvano Moro, è stato un anno di intensa attività. Ciò è dovuto sia al notevole numero di sentieri, ben 35, sia alla lunghezza complessiva degli stessi, metri 125.310.

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C’è da dire che ogni anno si trova qualche sentiero nuovo da prendere in carico, lo scorso anno, 2011, è stata la volta del sentiero n. 480 (Volta di Nò - Rifugio S. Pietro) che, come si ricorderà, è stato adottato dal Gruppo “SOPRAIMILLE”, l’anno 2012 sono state portate a termine manutenzione e segnaletica del sentiero n. 472 deno-

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

minato “DEFENSIONMAUER” che, partendo da Biacesa si incontra con il sentiero n. 405 che sale dalla Ponale e porta a Cima Capi. Riguardo al recupero di questo sentiero si comunica che è stato segnalato e voluto dal compianto socio Alessandro Lutteri, il quale lo aveva proposto nel 2011 e con lui si erano iniziati i lavori di manutenzione, ultimati poi nel maggio del 2012. A seguito poi della scomparsa del Nostro, il Consiglio Direttivo ha chiesto ed ottenuto dalla S.A.T. Centrale di intitolare il sentiero “DEFENSIONMAUER” al socio Alessandro Lutteri. Comunichiamo a tal proposito che il 5 maggio 2013 avverrà la cerimonia di inaugurazione e dedica con la posa delle targhe, già forniteci dalla Sede Centrale ed intitolate al nostro socio. Naturalmente tutti i soci sono invitati. Con riferimento al caro socio di cui sopra, ci preme ricordare che nell’ambito dell’escursione di data 05 agosto 2012 con circa 50 soci è stata dedicata la gita alla ferrata del Catinaccio D’Antermoia mt. 3004 e, come si vede in foto, è stato scritto un messaggio nel libro di vetta in ricordo del nostro Sandro. Di seguito elenchiamo gli interventi di manutenzione dei vari sentieri che si sono succeduti nel corso del 2012. Iniziamo col dire che nei mesi di novembre e dicembre 2011 è stata verificata la possibilità di una variante del sentiero Al Bal con l’ing. Biasi della Sede Centrale, nonché il recupero della Scala Santa e sistemazione del tratto che porta a Bocca da Lè. Inoltre in quel periodo sono state sistemate le condotte forzate dell’acqua alla capanna S. Barbara. Nel mese di marzo è stata fatta la manutenzione del sentiero del Segron che da Nago porta a malga Zures attraversando numerose trincee e zone di guerra molto interessanti, il nuovo sentiero del monte Baldo che da malga Zures attraverso il Doss del Mosca, Bait dela Selva, Porta de l’Ors, passando per le casette della guerra (villa del capitano), loc. Guardiola, cimitero di guerra, loc. Acqua d’Oro porta ancora a malga Zures. 70

Sempre in quel periodo si è studiato un percorso che dal cimitero di guerra porta al Doss Alt con ritorno alla malga Zures, che è ancora in fase di ultimazione. Nel mese di aprile-maggio è stata ultimata la manutenzione del sentiero “DEFENSIONMAUER”, dei Crazidei, della Bocca Saval e la sostituzione del cordino in acciaio sotto il rif. S.Pietro. Il 27 maggio, Giornata dei Sentieri, con la partecipazione di 20 soci volontari sono stati sostituiti ed installati nuovi scalini e travi di sostegno in legno di larice sul tratto del sentiero n. 404 sopra il Bastione e, finalmente è stato ricoperto il tratto di tubo dell’antincendio di colore azzurro sotto la paramassi rimasto scoperto per anche troppo tempo... In giugno è stata ricolorata la bandiera di Cima Capi con la sostituzione dei cordini-tiranti della bandiera stessa e conseguente manutenzione del sentiero Foletti. In luglio è stata effettuata una piccola variante sul sentiero che va al rifugio Nino Pernici in località Doss dei Fiori e la manutenzione di un tratto di sentiero di malga Palaer. Nel mese di agosto, sul tratto di sentiero n. 404 dopo la scala ferrata della chiesetta di S. Barbara è stato messo in sicurezza un tratto di sentiero franato in un punto particolarmente pericoloso ed installato pure un cordino in acciaio, sramatura del sentiero della Memoria, sostituzione parapetti ed assito del ponticello sotto la capanna S. Barbara. Tra settembre, ottobre e novembre è stata fatta manutenzione e rifatta segnaletica orizzontale e verticale sul sentiero n. 480, Calvola, località Vandrino, Croce S. Pietro strada per Treni e sul sentiero delle Laste fino a S. Giovanni sentiero n. 471. Naturalmente per la stagione in corso alcune manutenzioni sono già state fatte, tipo la segnaletica orizzontale e verticale del sentiero del Segron e la segnaletica del tratto iniziale del sentiero n. 601 che da Torbole sale a Nago attraverso S. Lucia. Annuario 2013


ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

Ricordando Sandro di Marco Matteotti Caro Sandro, in punta di piedi, te ne sei andato: alla fine, troppo presto per tutti noi. Ci eravamo abituati, ci sembravi capace di uscire sempre dalla tua malattia con tutti i mille malanni che Ti aveva inflitto, con cicatrici nel corpo e nell’animo che portavi silente, trofei di prove superate dalla Tua forza d’animo, che quasi ci nascondevi con pudore. Forse questa forza proveniva da quando, nato a Riva del Garda il 12 marzo 1940, figlio di famiglia numerosa, da giovanissimo eri emigrato in Svizzera dove per tanti anni hai lavorato come tornitore in fabbrica. Lì hai conosciuto e sposato la Tua Marina dalla quale hai avuto due figli, Barbara e Carlo. Poi, finalmente nel 1971 siete ritornati a Riva del Garda e sei andato a lavorare presso la Grundig di Rovereto, fino alla meritata pensione. E così sei sempre rimasto in mezzo a noi, sempre pronto ad un consiglio, interessato all’andamento della città: insieme alle idee, sapevi dare il Tuo apporto generoso di impegno, costanza, forza, lavoro; la Tua vita è sempre stata caratterizzata dalla disponibilità e solidarietà verso il prossimo, sempre pronto e disponibile ad entrare nelle Associazioni, come il Comitato “C72” di Rione Degasperi, organizzando feste patronali, Notte

di Fiaba, feste natalizie ed mille altre feste. Ma soprattutto sei stato in S.A.T., con la nostra Sezione, affiancando nel gruppo di manutenzione sentieri il responsabile di quel tempo, il mitico Rino Zanotti, fino addirittura a succedergli nel 1994, dopo aver imparato tutti i segreti degli angoli, anche i più nascosti, dei nostri monti e aver capito cosa serve per tenere entusiasta un buon gruppo di volontari dediti al pic e baìl: fino al 2008, fin quando sei stato il referente sentieri, ogni uscita con Te era un piacere perché eri sempre di buon umore e tenevi allegra tutta la compagnia nonostante si dovesse... faticare. Quella dei sentieri era proprio una passione: anche quando facevi escursioni, da solo o in compagnia della Tua Marina, andando per funghi o per radic, eri sempre attento ed attrezzato con forbici o pennello e non mancavi a volte di individuare nuovi possibili itinerari che poi proponevi in Porta S. Marco, per la eventuale realizzazione. Ultimi in ordine di tempo sono stati il sentiero n° 480, inaugurato il 21.04.2012, che è stato poi adottato dal gruppo “Sopraimille” che da loc. Fontanelle, curva Volta di Nò, arriva al rifugio S. Pietro ed il sentiero n° 472 denominato “Defensionmauer” che da Biacesa si congiunge con il sentiero n° 405 che sale dalla Ponale per andare a cima Capi, mettendo in evidenza vari tratti di trincee della guerra. Ed è proprio quest’ultimo sentiero, che Tu hai voluto fortemente, che la S.A.T. di Riva del Garda ha voluto dedicarTi, ad imperitura memoria. Se la Tua presenza è indimenticabile nel gruppo dei satini di S. Barbara, sempre pronto ad accoglierci sulla porta della Capanna sociale col Tuo franco sorriso, è il Tuo andar per monti, insieme alla tua Marina, con vernici e pennello, per dare

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

una rinfrescata ai segnavia, a rimanere una delle immagini che mi sono più care di questi anni passati in S.A.T. Per questo Tuo impegno eri diventato ben conosciuto, noto e ammirato, anche tra i bambini delle nostre scuole: Ti avevamo presentato come un novello spirito del bosco, giocoso, bonario ma attento e premuroso che nessuno si perdesse: e allora... si narrava di come, Sandro il satino, riuscisse magicamente ad andare per mille sentieri lasciando, come pollicino, quei bei segni bianchi e rossi che facevano ritrovare a tutti la via di casa! Non erano sempre rose e viole: spesso questo senso del dovere verso il Tuo territorio, verso le Tue montagne, portava ad affrontare dure fatiche, anche pericoli, dove il sudore, l’esperienza,

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l’entusiasmo e la prudenza erano gli ingredienti per portare Te e tutta la squadra dei volontari a intraprendere vere e proprie imprese: un esempio anche per chi, nell’odierna società, non ricorda o preferisce non sapere, qual’è il valore del vero volontariato. Quando si ricorda un amico, davanti agli occhi è tutto un rincorrersi di flash, di montagne, di scherzi, di avventure, di decisioni prese insieme, di partite a carte: a me è rimasta impressa la Tua immagine felice, quando nel 2003, a Campione, alla partenza della seconda gita di “In montagne con le famiglie”, mi guardavi, ridevi, e felice mi raccontavi di un sogno realizzato, dicendomi... “ma guarda quanta zent, e quanti puteloti, tuti insieme!” Con queste righe sono, siamo, a ricordare ancora una volta un caro amico, un uomo buono che lascia nel nostro cuore un grande vuoto. Per la S.A.T., per le nostre montagne, per i nostri sentieri, su, sulla Rocchetta, non è facile accettare la Tua scomparsa. Un ulteriore anello si è aggiunto a quella lunga fila di Soci della cui opera e presenza tanto sentiamo la mancanza: ma è nel ricordo del loro esempio, in quel lascito così vivido e virtuoso, che affondano le radici del nostro impegno, del nostro volontariato, del nostro essere satini. Lasciateci pensarLo tra le braccia del “Signore delle cime”, intento a percorrere i sentieri dell’eternità: sono certo che quando in montagna vedrò nel cielo qualche bandierina particolare, penserò a Lui, che con la mano mi indica il sentiero. Ancora un sincero grazie, Ciao, Sandro. Annuario 2013


ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

Sat & Bike relazione attività 2012 di Sergio Amistadi Anche quest’anno come sezione “Sat&Bike” abbiamo allestito un calendario strutturato su otto uscite, otto bellissime gite che ci hanno portato a scoprire o riscoprire angoli suggestivi della nostra regione e a “sconfinare” anche oltre la nostra provincia, sino a Mantova e dintorni. Purtroppo, ma questo è un inconveniente che può capitare quando si organizzano eventi di questo tipo, un paio di escursioni sono state soppresse a causa delle pessime condizioni atmosferiche. Abbiamo cominciato la nostra stagione riproponendo un classico apprezzato tantissimo da tutte le famiglie, piccoli compresi ovviamente: una pedalata in compagnia con i bambini e i loro genitori seguendo la nostra bellissima ciclabile, che da Riva ci ha portato ad Arco, Dro, alla centrale di Fies per arrivare finalmente a Pergolese,

Annuario 2013

dove ci ha ospitato con la consueta cordialità nella sua affermata azienda vinicola, il nostro amico Marco Pisoni che ha proposto una fantastica grigliata per tutti i partecipanti. Grande partecipazione ha avuto anche la gita sull’altopiano della Paganella con la presenza di una trentina di biker. Un percorso bellissimo che dopo aver costeggiato il suggestivo lago di Molveno, con vista spettacolare sulla catena delle Dolomiti di Brenta, ci ha portato sulla cima della Paganella dalla quale il panorama si apriva sulla Valle dell’Adige e verso il nostro amato Lago di Garda. Le altre uscite sono state: il giro dei prati Imperiali in Val dei Mocheni, e in Val di Ledro alla malga Giumella. Altre bellissime gite vi aspettano nel 2013 consultabili sul libretto

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

gite o sul sito della sezione satrivadelgarda.it. Con il progetto “Sat&Bike” siamo partiti sei anni fa e anno dopo anno l’apprezzamento da parte dei partecipanti, sia in termini numerici che di soddisfazione per le proposte messe in cantiere, è cresciuto in maniera costante. Oggi, e ne siamo ampiamente soddisfatti, possiamo contare su una media di partecipanti di 20/25

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biker a gita. Nel libretto-gite della S.A.T. di Riva chi è interessato a provare questa esperienza o a sperimentare nuove uscite in altri posti bellissimi, può prendere visione delle proposte per il 2013. Vi aspettiamo sempre numerosi ed entusiasti per stare in compagnia e pedalare in scorci bellissimi della nostra terra. Excelsior!

Annuario 2013


ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

I V.I.P. fra storia e cronaca

RIVA del GARdA

di Erre Dopo quasi un ventennio di presidenza della sezione di Riva, Cesarino aveva trascorso un periodo di relativa inattività organizzativa. Però evidentemente il richiamo al tempo trascorso, fatto di conduzione di innumerevoli escursioni, era stato irresistibile. Era così ripartito verso le cime con un gruppo non numeroso di amici. Questo si era progressivamente ed in modo rapido ingrossato: dalle auto private si era passati al pullman di capienza limitata e poi a quelli da 60 posti. Cesarino aveva sulle spalle il completo carico organizzativo, il che gli faceva perdere le notti fra progetti e incubi. Le gite non presentavano mai eccessive difficoltà alpinistiche; in tal modo, mentre nei primi tempi erano frequentate da tutte le generazioni presenti nella sezione, tranne, naturalmente i bambini del gruppo “In montagna con le famiglie”, un po’ alla volta

Annuario 2013

avevano creato quasi automaticamente una selezione, GRuppo dove gli anziani erano venuti in breve a rappresentare il grosso, se non la totalità dei partecipanti. Si stava rientrando da una di quelle gite, sette anni fa, non ricordo esattamente la data... La gente dormicchiava nelle poltrone del pullman. Però c’era qualcuno, che, forse disturbato dai dolorini ad un ginocchio che ogni tanto si facevano sentire, teneva ben sveglia la testa. Rimuginava sulle nostre gite e all’improvviso dalla sua fervida mente scaturì una proposta, di derivazione anglo-sassone, che, fatta ad alta voce, risvegliò di colpo la gente assopita: “Perchè non dare un nome al nostro gruppo? E perché non chiamarlo V.I.P.?”- Very important persons?-

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

Non sembrava un po’ eccessivo? A meno che qualcuno dei gitanti non si sentisse veramente importante! Ma no, non era questo il significato! Si trattava molto più modestamente di denominarsi VECCHIETTI. IN. PENSIONE, tali quali erano la massima parte dei presenti. La proposta fu subito approvata all’unanimità. L’autore della splendida trovata si chiamava Sergio Francesconi, scrivo “chiamava” perché purtroppo non c’è più: sono trascorsi quasi due anni dal giorno in cui, salendo una domenica, solitario, verso la capanna di Santa Barbara, il suo cuore improvvisamente si fermò. Con lui è scomparso un amico ed una persona splendida, sempre disponibile a dare una mano nelle varie attività della sezione, sempre allegro e diffusore di allegria con le sue battute. Forse ci ha lasciato con sulle labbra il suo sorriso aperto... Il numero delle escursioni continuava ad aumentare, a generale richiesta dei gitanti, e con le escursioni, aumentava anche il numero di chi vi prendeva parte... Cesarino non ce la faceva proprio più. Così durante una delle ultime escursioni dell’anno, la sua voce attraverso il microfono del mezzo, annunciò la propria decisione di cessare l’organizzazione. La gente si guardò un po’ costernata: ”Non è possibile! Ora, quando tutto funziona veramente al massimo, tutto dovrebbe andare a fichi secchi?” Amarezza e delusione! Ma il malessere durò poco. Erano presenti due o tre persone che avrebbero in qualche modo potuto forse sopperire all’improvvisa decisione. Breve scambio di opinioni e subito si arrivò alla disponibilità. I V.I.P. avrebbero proseguito la loro strada. In tre avrebbero forse compensato la grave mancanza di Cesarino, il quale, a sua volta rincuorato dalla loro disponibilità, tornò in breve sulle sue decisioni. E così i membri dell’organizzazione passarono in rapida successione da uno a tre e da tre a quattro. La loro collaborazione avrebbe permesso di salire qualunque monte (sempre con un massimo di 6/700 metri di dislivello e con percorsi ben praticabili!) E così fu... 76

La famiglia - tale sembra l’appellativo appropriato- continuò ad allargarsi. Agli amici di Arco si aggiunse la folta schiera del gruppo del Bleggio, “gli Extracomunitari”, sempre presente all’appuntamento a Sarche. Lungo la strada raccogliemmo aderenti da Dro, Nago, Rovereto, Trento. Il Gruppo cominciò ad essere citato come esempio anche a livello provinciale. E a guardare la causa del successo, sembra opportuno richiamare la parola del capoverso: con la conoscenza si è creata una grande amicizia fra tutti e da qui una vera famiglia. Intanto, ai quattro di cui sopra, Adriano, Cesarino, Gianni e Roberto si erano aggiunti Gian Carlo e Rino. Molto significativo l’apporto degli ultimi due, il primo con la profonda conoscenza e le spiegazioni sulla flora alpina; il secondo con l’apporto della “Nikon”, che raccoglie durante i percorsi, paesaggi e soggetti particolarmente significativi. Il tutto viene presentato in una serata in occasione della diffusione del programma delle nuove gite. A Rino inoltre occorre riconoscere un entusiasmo travolgente, degno di un neofita, anche se ormai neofita non lo è più... (Probabilmente, se gli si presentasse l’opportunità, organizzerebbe tre escursioni alla settimana!). Citavo la flora, come particolare oggetto dell’attenzione del gruppo durante le escursioni, ma non solo di quella si cerca di approfondire la conoscenza, ma anche della geologia dei nostri monti, attraverso l’apporto appassionato dell’amico Bruno. Poi, le visite a castelli, musei e alle splendide chiesette romaniche nel Trentino o gotiche nell’Alto Adige, vestigia del nostro passato, che emergono, solitarie, dai prati. E ancora, gli insediamenti alpestri, con la loro caratteristica architettura, conoscenza cosciente, insomma non solo di sentieri, ma anche di quanto di bello ed interessante offre il complesso ambiente alpino. È un ampliamento della visione del territorio, una scoperta, che va oltre la semplice ammirazione della bellezza delle valli e dei panorami delle nostre cime, che arricchisce la mente degli escursionisti... Le gite organizzate da Adriano e Gianni Annuario 2013


ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

mettono invece in luce le tendenze alpinistiche dei due, con puntate ben oltre i “2000”, su percorsi abbastanza lunghi, al fine di non scordare i bei tempi di gioventù. Nel corrente 2012 sono state programmate e svolte ben ventiquattro gite, a coprire tutta l’annata, con scadenze pressoché quindicinali, a partire da quelle sulla neve, fino alle castagnate autunnali. Fuori programma, a dicembre, una gita a Milano, ad una mostra dell’Artigianato. Fra le tante, meritano particolare citazione le escursioni di più giorni, su organizzazione di Cesarino, fuori dai percorsi tradizionali nei nostri territori, svolte quest’anno e nei precedenti, per andare a curiosare in luoghi fra i più belli d’Italia, o alla base dei grandi massicci delle Alpi. Su queste gite un sacco di cose si potrebbe raccontare: dagli exploit di canto corale dell’inno “ufficiale” alle frequenti annaffiate di pioggia, al sostegno per chi appariva in difficoltà, ai momenAnnuario 2013

ti nei rifugi, alla voglia di non mollare da parte di chi, per l’età davvero avanzata, aveva il fiato lungo, alle burle, alle degustazioni della grappa offerta dall’amico, alle intense chiacchierate durante le trasferte in pullman... Piccole cose, che tuttavia hanno contribuito non poco a rafforzare la coesione del gruppo. Ed ora, un doveroso ed affettuoso ricordo va agli amici che, assieme a Sergio si sono purtroppo fermati lungo il, per loro aspro, sentiero della vita, a Rita e a Ruggero, scomparso quest’ultimo recentissimamente, proprio mentre stavo assemblando queste notizie. Per ognuno di loro penso alla preghiera di chiusura del celebre canto di De Marzi:“...lascialo andare sulle Tue montagne.”...! Questi, in breve, sono i V.I.P., gruppo Seniores “in gambissima” della Sezione S.A.T. di Riva del Garda. Excelsior! 77


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La Ferrata del Centenario QUARANT’ANNI DI FATICA E PASSIONE di Paolo Liserre Quando si fondono passione, fatica, sudore e amicizia - il tutto condito da un pizzico di incoscienza - possono nascere i miracoli. Compreso quello di realizzare un sentiero ferrato che da Santa Barbara sale dritto per dritto («se l’è ‘n po’ stort dipendeva dai bicieri» ammette oggi Giorgio Bombardelli) sino a Cima S.A.T., 1.276 metri sul livello del mare, insinuandosi tra cenge, bosco e pareti strapiombanti che formano la Rocchetta. Tre blocchi di scale, oltre 300 pioli in ferro che salgono verso il cielo, un terrazzino che interrompe il primo vero salto di 45 metri e poi ancora su, il secondo salto di 51 metri e l’ultima scala che ti porta sulla vetta.

È la ferrata «Via dell’Amicizia», o «Ferrata del Centenario» perché quando venne inaugurata (l’8 ottobre del 1972, agli «anta» quasi ci siamo) erano il centenario della S.A.T. e quei soldini che arrivavano da Trento facevano comodo e sarebbero serviti per sistemare il rifugio «Nino Pernici». Ma prima di tutto quel sentiero attrezzato era frutto della comune passione di un manipolo di uomini e ragazzi, innamorati della montagna, amici nella vita e nelle scalate. E per questo oggi è conosciuta nel mondo come «Via dell’Amicizia». La ricorrenza dei quarant’anni è un evento speciale e per questo la S.A.T. di Riva, su tutti i volontari del Gram (Gruppo Rocciatori e d’Alta

In rosso, il tracciato della ferrata Annuario 2013

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A destra, con la maglia nera, Massimo Antonini presenta la sua torta

Stefano Reversi e Tello Ferrari al taglio della torta Annuario 2013

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

Alto Garda

34 martedì 25 settembre 2012

l'Adige

LA STORIA

La ferrata speciale Il sentiero attrezzato che sale a Cima Sat compie 40 anni Ecco com’è nato e chi sono i protagonisti che hanno voluto fortemente uno dei percorsi di montagna più suggestivi del Garda Trentino PAOLO LISERRE p.liserre@ladige.it Quando si fondono passione, fatica, sudore e amicizia - il tutto condito da un pizzico di incoscienza - possono nascere i miracoli. Compreso quello di realizzare un sentiero ferrato che da Santa Barbara sale dritto per dritto («se l’è ‘n pò stort dipendeva dai bicieri» ammette oggi Giorgio Bombardelli) sino a Cima Sat, 1.276 metri sul livello del mare, insinuandosi tra cen-

Un’Amicizia indistruttibile ge, bosco e pareti strapiombanti che formano la Rocchetta. Tre blocchi di scale, oltre 300 pioli in ferro che salgono verso il cielo, un terrazzino che interrompe il primo vero salto di 45 metri e poi ancora su, il secondo salto di 51 metri e l’ultima scala che ti porta sulla vetta. È la ferrata «Via dell’Amicizia», o «Ferrata del Centenario» perché quando venne inaugurata (l’8 ottobre del 1972, agli «anta» quasi ci siamo) erano il centenario della Sat e quei soldini che arrivavano da Trento facevano comodo e sarebbero serviti per sistemare il rifugio «Nino Pernici». Ma prima di tutto quel sentiero attrezzato era frutto della comune passione di un manipolo di uomini e ragazzi, innamorati della montagna, amici nella vita e nelle scalate. E per questo oggi è conosciuta nel mondo come «Via dell’Amicizia». La ricorrenza dei quarant’anni è un evento speciale e per questo la Sat di Riva, su tutti i volontari del Gram (Gruppo Rocciatori e d’Alta Montagna) e i ragazzi dell’Alpinismo Giovanile, ha voluto celebrare il compleanno nel migliore dei modi. Come mai prima d’ora. Prima di tutto con un «grazie». Grazie a Renzo Tonelli, Mario Foletti, Tello Ferrari, Renzo Squarzoni, Sergio Giuliani e Giorgio Bombardelli. Ma anche Gigi Piccioni, Lino Brunelli, Mauro Caceffo, Gino Bugoloni (già capostazione del Soccorso Alpino) e Nino Miorelli, il presidente della Sat di allora. «Grazie» a tutti coloro che hanno realizzato il «loro» sogno che è il sogno di decine di migliaia di amanti della montagna. Un «grazie» espresso nel corso di una serata in sede Sat, stracolma di persone, e proseguito domenica con l’ascesa alla cima. Tutti insieme. Alcuni protagonisti di allora (Adriano Pellegrini, Italo Seia e Tello Ferrari) e circa 25 ragazzi dell’Alpinismo Giovanile che ha organizzato l’uscita, accompagnati in sicurezza dai volon-

Gram e ragazzi dell’Alpinismo Giovanile della Sat di Riva hanno reso omaggio a Renzo Tonelli, Mario Foletti e a tutti quelli che hanno trasformato un sogno in realtà

tari del Gram e dagli uomini del Soccorso Alpino di Riva. Lassù, prima a cima Sat e poi giù a Capanna S. Barbara, per un ideale «passaggio di consegne», per sancire un legame indissolubile e trasmettere ai giovani quell’entusiasmo e quella passione che quarant’anni or resero possibile questo miracolo. E la festa è riuscita alla perfezione, compresa la splendida e gustosa torta a forma di Rocchetta preparata per l’occasione da Massimo Antonini. Solo due nei: il sole che non ha fatto capolino nemmeno quando i satini sono arrivati in vetta, e la mancan-

za nella serata di venerdì di qualsiasi amministratore locale per rendere omaggio a coloro che, a proprie spese in termini di tempo, fatica e soldi, hanno scritto una pagina di storia della città. Che ancora oggi attira decine di migliaia di escursionisti da tutto il mondo. Il primo grazie e il primo abbraccio ideale venuto dalla platea che ha partecipato alla serata celebrativa è stato per chi non c’è più. A cominciare da Renzo Tonelli, colui senza il quale tutto questo non sarebbe stato possibile. «All’inizio io ero contrario alle ferrate - ha ricordato Donato “Tello” Ferrari - È stato Renzo che mi ha convinto». Erano gli anni Settanta. Prima di allora, nel lontano 1935, su quella «diretta» alla cima ci erano saliti solo Dante Dassatti e Bepi Angelini. Renzo Tonelli era il più «testardo». «Tutto passione, grinta e forza di volontà» ricorda oggi l’amico Albertino Betta. E di grinta e forza di volontà ce ne voleva da vendere a quei tempi. Mica c’erano l’elicottero o i trapani di oggi. «Se neva de pont e mazòt» e poi si tornava a valle tutti imbiancati dalla polvere della montagna bucata. «La Rocchetta non è mica le Dolomiti - ricorda oggi Giorgio Bombardelli - Se buchi vien giù tutto. E rampegar su la Rochetta l’era pegio che nar en libera su le Dolomiti». Passa il tempo e l’entusiasmo di Renzo Tonelli contagia gli amici di tante avventure in montagna, «quando le corde l’era de cotone e canapa, de caschi neanca a parlarne e se neva in quatro con na Cinquezento e con tuti i zaini» ricorda ancora Albertino Betta. Ci sono Mario Foletti (anche lui scomparso), Renzo Squarzoni e tanti altri. «Renzo mi ha tormentato per tre anni - scava nel cassetto dei ricordi Nino Miorelli, allora presidente della Sat di Riva - Io tiravo indietro, forse perché ero vecchio già allora. Ma lui ha un merito speciale. Come speciale ero lo spi-

Piccoli «alpinisti» al termine della loro fatica sul cucuzzolo di Cima Sat (Foto Giampaolo “Trota” Calzà)

rito di gruppo che accompagnò quell’impresa». Tonelli, Betta e Bombardelli sono «lo spirito ribelle» (parole di Miorelli) che attraversa la Sat dell’epoca. Come in ogni buona famiglia i momenti di attrito non mancano «ma Renzo - ricorda il presidente di allora - seppe unire tutti verso questo obiettivo». Poi arrivò il compressore «Cobra» per bucare la roccia, offerto dall’impresario di Tenno Ezio Marocchi. E nell’officina di Lino Brunelli si saldavano le scale. Il sogno può diventare realtà. E la realtà supera (forse) ogni immaginazione.

LA SFIDA

Ora il Tracciolino È stato Giampaolo “Trota” Calzà, nota guida alpina di Arco, a lanciare la prossima sfida. Attrezzare come si conviene a una vera e propria ferrata il «sentiero del Tracciolino», un percorso quasi unico, quattro chilometri a picco sul lago che potrebbero diventare (se non lo sono già...) le «Bocchette del Garda». «A mio avviso - ha detto Calzà intervendo alla serata celebrativa in sede Sat - è fondamentale fare lì una ferrata e attrezzarla adeguatamente, se pensiamo tra l’altro che già oggi si contano circa 1.500 passaggi l’anno». Diventerebbe un valore aggiunto di altissimo pregio paesaggistico, così come lo è da decenni la «Ferrata dell’Amicizia». Allora però non c’era coscienza di cosa avrebbe rappresentato quel percorso attrezzato. Oggi però dovrebbe essercene. In tutti.

Passato, presente e futuro Alcune immagini dell’ascensione e della festa di domenica e, al centro, Renzo Tonelli, una delle «anime» di quel progetto

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

Montagna) e i ragazzi dell’Alpinismo Giovanile, ha voluto celebrare il compleanno nel migliore dei modi. Come mai prima d’ora. Prima di tutto con un «grazie». Grazie a Renzo Tonelli, Mario Foletti, Tello Ferrari, Renzo Squarzoni, Sergio Giuliani e Giorgio Bombardelli. Ma anche Gigi Piccioni, Lino Brunelli, Mauro Caceffo, Gino Bugoloni (già capostazione del Soccorso Alpino) e Nino Miorelli, il presidente della S.A.T. di allora. «Grazie» a tutti coloro che hanno realizzato il «loro» sogno che è il sogno di decine di migliaia di amanti della montagna. Un «grazie» espresso nel corso di una serata in sede S.A.T., stracolma

di persone, e proseguito domenica con l’ascesa alla cima. Tutti insieme. Alcuni protagonisti di allora (Adriano Pellegrini, Italo Seia e Tello Ferrari) e circa 25 ragazzi dell’Alpinismo Giovanile che ha organizzato l’uscita, accompagnati in sicurezza dai volontari del Gram e dagli uomini del Soccorso Alpino di Riva. Lassù, prima a cima S.A.T. e poi giù a Capanna S. Barbara, per un ideale «passaggio di consegne», per sancire un legame indissolubile e trasmettere ai giovani quell’entusiasmo e quella passione che quarant’anni or resero possibile questo miracolo. E la festa è riuscita alla perfezione, compresa la splendida e gustosa torta a forma di Rocchetta preparata per l’occasione da Massimo Antonini. Il primo grazie e il primo abbraccio ideale venuto dalla platea che ha partecipato alla serata celebrativa è stato per chi non c’è più. A cominciare da Renzo Tonelli, colui senza il quale tutto questo non sarebbe stato possibile. «All’inizio io ero contrario alle ferrate - ha ricordato Donatello (Tello) Ferrari - È stato Renzo che mi ha convinto». Erano gli anni Settanta. Prima di allora, nel lontano 1935, su quella «diretta» alla cima ci erano saliti solo Dante Dassatti e Bepi Angelini. Renzo Tonelli era il più «testardo». «Tutto passione, grinta e forza di volontà» ricorda oggi l’amico Albertino Betta. E di grinta e forza di volontà ce ne voleva da vendere a quei tempi. Mica c’erano l’elicottero o i trapani di oggi.

Tello, Adriano e Italo a Cima Sat nel 2012

Dai giornali dell’epoca

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

Giorgio Bombardelli

In primo piano il compressore “Cobra”

La posa della targa alla base della ferrata

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

«Se neva de pont e mazòt» e poi si tornava a valle tutti imbiancati dalla polvere della montagna bucata. «La Rocchetta non è mica le Dolomiti - ricorda oggi Giorgio Bombardelli - Se buchi vien giù tutto. E rampegar su la Rochetta l’era pegio che nar en libera su le Dolomiti». Passa il tempo e l’entusiasmo di Renzo Tonelli contagia gli amici di tante avventure in montagna, «quando le corde l’era de cotone e canapa, de caschi neanca a parlarne e se neva in quatro con na Cinquezento e con tuti i zaini» ricorda ancora Albertino Betta. Ci sono Mario Foletti (anche lui scomparso), Renzo Squarzoni e tanti altri. «Renzo mi ha tormentato per tre anni - scava nel

cassetto dei ricordi Nino Miorelli, allora presidente della S.A.T. di Riva - Io tiravo indietro, forse perché ero vecchio già allora. Ma lui ha un merito speciale. Come speciale era lo spirito di gruppo che accompagnò quell’impresa». Tonelli, Betta e Bombardelli sono «lo spirito ribelle» (parole di Miorelli) che attraversa la S.A.T. dell’epoca. Come in ogni buona famiglia i momenti di attrito non mancano «ma Renzo ricorda il presidente di allora - seppe unire tutti verso questo obiettivo». Poi arrivò il compressore «Cobra» per bucare la roccia, offerto dall’impresario di Tenno Ezio Marocchi. E nell’officina di Lino Brunelli si saldavano le scale. Il sogno può diventare realtà. E la realtà supera (forse) ogni immaginazione.

Sergio Giuliani ci ha lasciato Mentre l’annuario era in produzione, ci è giunta la sconsolante notizia che Sergio Giuliani, uno degli accaniti lavoratori della ferrata dell’amicizia, ci ha lasciato. Ho avuto la fortuna di conoscerlo grazie alla ricerca di materiale per la celebrazione del 40° della Ferrata dell’Amicizia. Ricordo il racconto di quando, sull’ultima scala ancora in fase di fissaggio, questa improvvisamente si staccò dalla parete nella parte alta. Assicurati dall’alto, si ritrovarono per tre metri esposti, con la frase che usciva da sola dai loro pensieri: “Stavolta ghe sem!”. Poi invece tutto si risolse con una fugace risalita sulle corde e un nuovo ancoraggio alla roccia. Spesso nei suoi ricordi, come un ritornello, diceva: “Quante ne ho fatte io sulla ferrata!”. Sia in ferrata che in montagna Sergio era un eccelso, sempre in movimento. L’ozio non faceva sicuramente per lui, così gli fu giustamente attribuito Sergio Giuliani sull’Ortles con l’amico Ettore l’appellativo di Nem nem. Con doverosa gratitudine, ricordiamo Sergio in questo piccolo spazio, con l’impegno di dedicare un più approfondito ricordo nella prossima edizione. Flavio Moro Annuario 2013

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

RIFUGIO

RE cat. A

SAN PIETRO GRUPPO

Alpi di Ledro

LOCALIZZAZIONE Monte Calino COMUNE Tenno QUOTA 976 GESTORE

Enzo Santoni Loc. Matoni - 38060 Tenno tel. 0464 502150

TELEFONO 0464 500647 APERTURA 20 giugno - 20 settembre SOCCORSO ALPINO Riva del Garda capo stazione Gianluca Tognoni per chiamata di soccorso tel. 118 0464 550550 ACCESSI

-

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- da Ville del Monte m 556 (frazione S. Antonio) col sentiero 406 che passa da Canale m 598, dalle Case Bastiani m 854 ed arriva presso il rifugio - ore 1,30 - da Gavazzo Nuova m 201, per il sentiero Val di Gola, segnavia 401 che per la Val del Magnone passa da Tenno m 427 - ore 2,15 - da Malga Lomasona m 536 (strada da Dasindo) con il segnavia 410 alla Sella del Calino m 966 e al rifugio - ore 2

Annuario 2013


ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

RIFUGIO

RA cat. B

NINO PERNICI GRUPPO

Alpi di Ledro

LOCALIZZAZIONE Bocca di Trat COMUNE

Riva del Garda

QUOTA 1600 GESTORE Marco De Guelmi Enguiso Concei cell. 349 3301981 TELEFONO 0464 505090 APERTURA 18 maggio - 30 settembre SOCCORSO ALPINO Riva del Garda capo stazione Gianluca Tognoni per chiamata di soccorso tel. 118 0464 550550 ACCESSI

Annuario 2013

- da Lenzumo m 796 in Val Concei, per strada i 7 km fino a Malga Trat m 1556, segnavia 403, indi per sentiero in 20 minuti; a piedi ore 2,15; - da Riva del Garda m 73, segnavia 402, per S. Maria Maddalena m 252, San Giovanni m 440, Pinza, Campi m 672, Rifugio Grassi m 1055, Malga Dosso dei Fiori m 1355, Bocca di Trat m 1581 - ore 4,15 (ore 1,30 dal Rifugio Grassi, ove si arriva per strada di 14 km)

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ATTIVITÀ DELLA SEZIONE

CAPANNA SOCIALE

SANTA BARBARA GRUPPO

cat. B

Rocchetta (Alpi di Ledro)

LOCALIZZAZIONE Monte Rocchetta COMUNE

Riva del Garda

QUOTA 560 GESTORE

Sezione SAT di Riva del Garda

APERTURA A discrezione della sezione SOCCORSO ALPINO Riva del Garda capo stazione Gianluca Tognoni per chiamata di soccorso tel. 118 oppure 0464 550550 ACCESSO

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da Riva del Garda m 70 per stradina, indi sentiero 404 che passa presso il Bastione m 212 - ore 1,15

Annuario 2013



MAURO CHIZZOLA e FRANCO ANTONINI

38066 RIVA DEL GARDA - via Monte Oro, 5/b Tel. 0464 552137 – 554414 Fax 0464 554913 e-mail: riva.del.garda@allianzras.it 38068 ROVERETO - viale Trento, 31 Tel. 0464 410935 Fax 0464 490391 e-mail: rovereto@allianzras.it


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Monviso di Ruggero, Carlo e Lucia Dopo mille peripezie ed un abbondante stress causa i continui cambiamenti meteorologici, all’ultimo momento decidiamo di cambiare itinerario. Dalle Alpi Pennine, dove inizialmente si voleva andare, abbiamo optato per la zona delle Alpi Cozie, più a sud, dove le previsioni erano decisamente buone e che ci davano quella giusta sicurezza. A questo punto Carlo propone di salire una montagna di tutto rispetto, una montagna che ha segnato la storia dell’alpinismo con la sua prima ascensione avvenuta nell’agosto del 1861, dagli inglesi Mathews e Jacombs accompagnati dalle due guide di Chamonix i fratelli Croz: il Monviso.

Negli anni successivi numerose cordate si susseguirono nel compiere questa magnifica ascensione, come quella compiuta da Quintino Sella nel 1863 da cui nacque l’idea per la fondazione del Club Alpino Italiano. Ora, con tutta modestia, anche per noi, Carlo, Lucia e Ruggero, si presenta l’occasione di ripercorrere le orme dei padri fondatori. Ma bando alle chiacchiere, forse è meglio partire. L’appuntamento è alle sette del mattino a casa di Carlo e Lucia e caricato tutto il materiale in macchina in un attimo siamo già in viaggio. La voglia di arrivare è tanta come tanta è la passione di salire in alto, per ammirare grandi orizzonti e numerose altre montagne per poter

Carlo alla sorgente del Po Annuario 2013

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continuare a sognare all’infinito. Chilometro dopo chilometro ci avviciniamo alla meta e ad un certo punto, ancora nella grande Pianura Padana, scorgiamo davanti a noi in lontananza, fra la grande fila di vette che dividono l’Italia dalla Francia, il Monviso. Impossibile sbagliarsi. La sua forma appuntita e slanciata, solitaria nel cielo, ci fa capire la nostra vicinanza e nel contempo il desiderio di arrivare è sempre più forte. Ma prima, imboccata la Valle del Po ci fermiamo per una pausa in un area adibita a pic-nic, approfittando del bel tempo stabile e a disposizione. Ben presto si prosegue, la voglia di arrivare è tanta e così in poco tempo arrancando su una stretta strada raggiungiamo il famoso Pian del Re, dove si trova la sorgente del fiume Po e anche diversi ruderi militari, come la ex caserma dei Carabinieri attualmente utilizzata per scopi civili. È da qui che ci inerpichiamo con i nostri zaini colmi di tutto il necessario, per raggiungere il Rifugio Quintino Sella costruito proprio nei pressi della parete est. Ma durante il percorso sul

Sullo sfondo il Monviso

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sentiero denominato V13 incontriamo svariate bellezze della natura. Poco dopo esserci incamminati raggiungiamo un ampio pianoro, sede del Lago Fiorenza e zona adibita ad alpeggio. Nel proseguire, un altro lago si affaccia sulla nostra sinistra più in basso: è il Lago Chiaretto con la sua incredibile colorazione azzurro-lattiginosa (questa colorazione è data da un minerale presente nelle “pietre verdi” del Monviso). Da qui il sentiero diventa più ripido fino a raggiungere e scavalcare un’antica morena glaciale ed un pianeggiante vallone detritico, situato proprio fra il Monviso e il Viso Mozzo, e dopo diversi saliscendi, in poco tempo raggiungiamo il Colle del Viso dove si apre davanti ai nostri occhi in lontananza il Rifugio Quintino Sella. Al suo fianco, poco sotto, un altro bellissimo lago, il Lago Grande di Viso. Arrivati al rifugio non passa inosservato il meraviglioso panorama sulla Pianura Padana e dopo esserci presentati ai gestori, con gentilezza e professionalità ci assegnano la camera per la notte, dandoci istruzioni sia per la cena che per la colazione. Anche la cena è stata un’esperienza piacevole, un momento simpatico ed utile. Avendo mangiato assieme a dei francesi, abbiamo potuto raccogliere informazioni utili sulla salita, loro erano tornati da poco e il grande chiacchierio faceva intuire l’internazionalità dei frequentatori del rifugio. È ora di ritirarsi nelle proprie brande perchè la sveglia suona presto. È data personalmente dalla signora del rifugio, gesto ben apprezzato da tutti. La colazione è pronta e fuori è ancora completamente buio. Un lavorio ed un andirivieni frenetico riempie tutto il rifugio. Anche in questa notte stellata numerose persone si stanno preparando per la salita. Ed anche noi ci prepariamo per partire, uscendo dal rifugio accendiamo le luci frontali e guardandoci per un attimo attorno ci accorgiamo che siamo gli ultimi. Bene! Si parte. L’alba è ancora lontana ma non ha tardato molto a fare capolino in lontananza, sopra la grande Annuario 2013


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Pianura Padana. Anche questa è una delle tante meraviglie della natura. Proseguiamo spediti costeggiando il Lago Grande di Viso, dove poco lontano dalla riva si intravedono delle tende con le luci accese. Arrivati alla parte attrezzata ci prepariamo indossando l’attrezzatura necessaria, ma ci accorgiamo che la progressione è lenta. Parecchia gente si è ammassata proprio in questo punto. Ed ecco giunti al Passo delle Sagnette dove ormai la luce del giorno ci da la possibilità di scrutare tutta la via di salita che si sviluppa sul versante sud. Non perdiamo tempo e imperterriti avanziamo su grandi massi e numerosi detriti, con un passo costante e determinato da quella grande voglia che è di raggiungere la cima. Ad un certo punto arriviamo al bivacco Andreotti (mt. 3225). Un bivacco spartano ed abbarbicato sotto

una parete di roccia apparentemente solida, ma che a nostro giudizio, sempre pronta a scaricarci addosso qualche bel sasso. Decidiamo di fare una pausa, ovviamente qualche metro più in là, bevendo e mangiando un po’ di frutta secca per recuperare un po’ di forze. Ma presto si riparte, abbiamo ancora oltre 500 metri di dislivello da salire, la parte più delicata, quella da fare con attenzione perché oltre alla fatica della quota, ci sono numerosi passaggi abbastanza delicati ma che, con giusta attenzione e concentrazione, passo dopo passo superiamo fino a guadagnare la vetta. La giornata è memorabile, nel cielo nemmeno una nuvola, nemmeno un cumulo, un orizzonte sconfinato sull’intero arco alpino, sulla pianura Padana che appare senza limiti, verso Sud, dove si presenta nitido il Mar Mediterraneo. Poche

In lontananza il Rif. Quintino Sella ed il lago Grande di Viso Annuario 2013

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cime dispongono di questa peculiarità e di tanta generosità panoramica e noi ne approfittiamo per numerose foto e per assaporare il complesso di emozioni che ci pervade. La vetta veramente esile e striminzita è caratterizzata da una croce inserita in un bassorilievo in bronzo, raffiguranti un Cristo e una Madonna. C’è il libro di vetta e anche noi inseriamo le nostre firme, come è consuetudine fare quando si raggiunge una vetta. Prima però abbiamo un compito da assolvere. Carlo estrae dallo zaino la fotocopia del ricordo pubblicato sul giornale del compianto Sandro Lutteri della Sezione CAI S.A.T. Riva, che recentemente e precocemente ci ha lasciati. “Ciao Ciccio, rimani sempre accanto a noi” titola. Di origini era piemontese e, da amante della sua terra natia, aveva espresso un gran desiderio di salire il Monviso. Il destino

però è stato avverso e crudele. Attacchiamo con del cerotto il pezzo di carta e lasciamo sul libro di vetta un pensiero a testimonianza della nostra stima e riconoscenza che gli dovevamo, sicuri che avrà apprezzato questo nostro umile e sincero gesto. La nostra missione, alpinistica e spirituale, è così compiuta, comincia a farsi tardi e, pieni di soddisfazione, per aver realizzato questo nostro sogno, iniziamo la discesa, mai banale e che richiede la dovuta attenzione. Lasciamo il rifugio dopo un meritato ottimo ristoro e sulla via del ritorno fino al calare dell’oscurità, di tanto in tanto, lo sguardo si girava d’istinto a cercare sull’orizzonte quella maestosa guglia che ci ha regalato una delle più belle ascensioni che mai dimenticheremo. EXCELSIOR!

Il libro di vetta con la dedica a Sandro

Lucia, Ruggero e Carlo in vetta

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Cinquant’anni: una vita nella SAT di Riva di Mauro Caceffo L’anno scorso, in occasione della castagnata dei presidente dela S.A.T. de Riva.” Qualche sera d’inV.I.P versai, come facevo regolarmente ogni anno, verno, fatti pochi passi perché io abitavo in via la quota d’ iscrizione alla S.A.T. per l’anno 2012 Montanara, il papà mi portava nella sede della e così, con grande soddisfazione, attaccai sulla mia S.A.T., presso la porta San Marco, facendomi tessera il 50° bollino, già sapendo che al Congresso salire su una scala erta e stretta fino a una serie del 2012, avrei ricevuto il riconoscimento per que- di locali un po’ austeri e lì trovavo una persona di sto mio traguardo e adesso, passato quasi un anno, poche parole che stava generalmente riempiendo sono qui a Vezzano per questa cerimonia. Sento di segatura un vecchio fornello color porpora chiamare il mio nome e, con emozione assieme ad argentata, fornello che doveva poi servire per rialtri miei amici, mi avvio verso il palco per ricevere scaldare l’ambiente. Anche lì la mia domanda era il diploma e il distintivo: sono pochi passi, ma sono la stessa: “papà quel li?” “ l’ è el Giacomin Torboli, passi lunghi ben cinquant’anni. Cinquant’anni l’ è en vecio socio della S.A.T. e l’ è un che lè stà en sono tanti ma visti con lo sguardo di adesso devo gran sportivo della Benacense!” A volte, quando ammettere che forse sono passati troppo velocemen- andavo a trovare mia nonna Rosa, che abitava te. Nella vita di ogni persona ci sono sempre dei su in via Marocco, quasi sempre mi capitava di valori importanti: la famiglia, il lavoro, il proprio trovare, appoggiati al muro, in estate qualche Credere, lo sport: nella mia oltre a questi ci sono stati la montagna, gli Scout e la S.A.T. ... Quando ero un ragazzino andavo in montagna con mio padre frequentando i monti e i rifugi attorno a Riva e la parola S.A.T. mi diceva ben poco, era solo una parola che si riferiva a qualche episodio particolare. Per esempio: dell’uomo con i baffetti e sempre pronto alle battute, che vendeva chiodi e maniglie nel negozio all’incrocio di viale Dante, mio padre mi diceva: “lè el’ Tonin Alberti, el Cima Carè Alto: Gino Bugoloni, Mauro Caceffo e Rolli Bugoloni Annuario 2013

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Ascensione al Piz Bernina, Mauro Caceffo, Franco Micheloni, Tito Galas, Gino Bugoloni, Rolli Bugoloni e Gianni Omezzolli

corda o picozza mentre d’inverno diversi paia di sci ancora gocciolanti e vista la mia curiosità la nonna mi diceva: “i è arivadi i to zii con i so amizi della S.A.T.”. Nelle occasioni che si raggiungeva il rifugio San Pietro, mio padre mi spronava ad andare a salutare il Francesco e la Maria perché: “i era i gestori de sto rifugio della S.A.T.” e Giacomo Floriani e sua moglie Lucia, una persona burbera che abitava in una baita lì vicino al rifugio perché: ”l’era el poeta di Riva e anca en vecio socio della S.A.T.”. In qualche occasione mio Zio Neno mi raccontava dei Veglioni di Carnevale, oppure dei barconi della Notte di Fiaba organizzati dalla Sezione S.A.T. di Riva. Ecco per me, allora, la S.A.T. era tutto questo e poco più. Poi lasciai Riva per tre anni per andare a fare le scuole medie vicino a Torino e ritornai a casa, quattordicenne, nel luglio del ‘59. Una sera di settembre vidi delle persone che portavano una bara sotto la porta San Marco, dove ancora adesso c’è la sede della S.A.T. e rivolto a mia ma96

dre chiesi : “cosa fanno?” lei mi rispose: “iè drio che i fassù na camera ardente per un rivan che l’ è mort su per la montagna.” Siccome si parlava di montagna allora domandai al papà: “chi el?” “l’ è el Faustin, el falegname amico del Poldo del latte. L’ è cascà dalle rocce perché l’era na a rampegar” (rampegar: ecco una parola nuova per me). Il Poldo, invece, era un uomo che alla sera, con la sua Ape: “el steva su ‘n cantom de via Montanara e el vendeva el latte alle donne che le neva li a torlo con la gamela”. Curioso come sono sempre stato, scesi giù e vidi una bara con vicino delle candele accese con lì accanto don Giorgio Degara, però la bara era circondata da un gruppo di giovani con un bel maglione color rosso vinaccia e un distintivo sul davanti. Vedendo che lì vicino c’era mio zio Vittorio, anche lui vestito da montagna, gli chiesi chi erano quelli che portavano quel maglione, lui mi rispose: “i è i so amizi del Gruppo Rocciatori della S.A.T. di Riva”. Il giorno dopo seguii, da lontano, il funerale. La bara di Fausto Susatti era portata a spalle dai suoi amici rocciatori con il loro maglione color rosso vinaccia e scortati dagli uomini del Soccorso Alpino di Riva, con loro c’erano mio zio Vittorio, Berto Boschetti, Celestino Tamburini, Netto Floriani, Ezio Micheloni, Lino Brunelli e altri, vestiti con le loro braghe alla zuava e con le corde da roccia sulle spalle. Ecco che allora la parola S.A.T. prese per me un altro senso. Qualche anno dopo cominciai anch’io a girare per i monti e per i rifugi con i miei amici Giorgio, Enzo e Tullio Pastina, Franco, Sergio, Rolli e tanti altri e questa mia passione fece si che mio padre, al compimento del diciottesimo anno, mi regalò la mitica tessera della S.A.T. L’occasione di ampliare la conoscenza delle montagne mi venne poi donata dalla Sezione di Riva perché essa incominciò ad organizzare delle splendide gite domenicali. Dapprima con l’insuperabile capo gita Severino Salizzoni “El Sior”, una persona che seppur rigorosa era sempre paziente con noi giovani, poi con il Cesarino Mutti che alcuni anni dopo diventò per tanto tempo Annuario 2013


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Presidente della Sezione di Riva. Eravamo una bella compagnia, magari un po’ rumorosa sul pullman, ma pur sempre capace di stare assieme per fare in allegria delle belle escursioni, anche impegnative, sulle nostre splendide montagne. Passò qualche anno e la mia vita in montagna cambiò nuovamente perché entrai a far parte, come aspirante e poi come socio effettivo, di quel Gruppo Rocciatori che avevo visto portare con tanta fierezza, assieme a tanta tristezza, quel maglione rosso vinaccia in una tragica situazione di qualche anno prima. Entrato a far parte del Gruppo, trovai Nino Miorelli che in quel momento era anche presidente della S.A.T. di Riva e che, con gli altri amici delle nuove direzioni, aveva dato un impulso nuovo alla vita della Sezione e assieme a lui trovai Mario Foletti, Gino Bugoloni, Alvise Squarzoni (detto el vecio), Graziano Marzari, Gianni Angelini che tutti simpaticamente chiamavano “el pipa”, Tello Ferrari che qualche anno dopo, attraverso una splendida attività alpinistica, diventerà Accademico del C.A.I., poi Giorgio Bombardelli,

Renzo Tonelli e Renzo Squarzoni, Franco Micheloni da tutti chiamato Mike, Ivo Benedetti, Albertino Betta, Franco Torboli, Giuseppina Maule, Sergio Giuliani, Tito Gallas e tanti altri. In questo momento mi tornano alla mente le tante ascensioni fatte assieme a loro: dalle Piccole Dolomiti al Gruppo del Brenta, dal Gruppo Sella al Catinaccio, le tante e magari ripetute salite sulle cima dell’Adamello e della Presanella, sul Carè Alto e sul Cevedale, sul Gran Zebrù, sull’ Ortles e sul Bernina. Anche quelle giornate passate con il Rolli nel Gruppo del Cristallo e sulla cima dell’Antelao nel Cadore e tante, tante altre ancora... Non posso però dimenticare le tante emozioni ma anche le tante rinunce, le grandi gioie e con esse anche qualche paura. Allora si frequentava regolarmente la sede per stare assieme, per organizzare le uscite e per vivere le serate alpinistiche che la Sezione ci proponeva. Ho potuto così ascoltare le esperienze di grandi alpinisti: da Marino Stenico ad Armando Aste, da Sergio Martini fino a Bepi De Francesch e Reinhold Messner. Tutti assieme abbiamo

Gita della S.A.T., Cima Marmolada: Mauro Caceffo, Franco Micheloni, Cesarino Mutti, Ivo Benedetti e Rino Zanotti Annuario 2013

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partecipato anche a delle indimenticabili serate dove si è potuto ascoltare e ammirare tanti cori di montagna: da quelli magici della S.A.T. e della Sosat, alle Bianche Zime, e poi tanti altri fino al Coro Castel di Arco. La Sezione di Riva, con questi eventi, ci aiutava a crescere veramente nell’amore per la montagna in tutti i suoi aspetti. Un particolare evento, però, non l’ho più dimenticato: Il Congresso della S.A.T., qui a Riva, nel 1965. Tutto era stato organizzato con una vera “pignoleria” perché era stato il socio Mario Pignoli, assieme a tutta la direzione di allora e con l’impegno di tanti volontari, che seppe prodigarsi nel preparare, con ingegno e fantasia, quel grande convegno. Con quanta emozione ho vissuto quella giornata, quel nostro sfilare in corteo, con i maglioni rossi e il distintivo del Gruppo Rocciatori e Alta Montagna della S.A.T. di Riva, con le corde e le picozze, passando sotto una miriade di volantini di benvenuto, nel centro storico della nostra città. Era la S.A.T. Trentina che si mostrava con fierezza a tutta la città di Riva e devo dire che quel giorno perfino la Rocchetta, la nostra montagna, sembrava che ci osservasse con meraviglia e orgoglio. Passò qualche anno e noi, del Gruppo Rocciatori, ci buttammo in una impresa insperata: costruire una ferrata che dalla chiesetta di Santa Barbara ci portasse dritti in Cima S.A.T. sulla Rocchetta. Tutto era nato da un idea, che dapprima noi tutti pensavamo pazzesca, di Renzo Tonelli supportato in pieno e con entusiasmo da Renzo Squarzoni: essi passarono intere estati sulle cenge sopra la Capanna di Santa Barbara per trovare un passaggio e una risposta alla loro idea. Finalmente la S.A.T. di Riva, con in prima persona il presidente Nino Miorelli e tutta la direzione, fece propria questa avventura. In quel momento Mario Foletti, capo gruppo dei Rocciatori, ci chiese l’impegno di tutti e così iniziò quell’ impresa che alcuni anni dopo fece dire ad una Guida Alpina di Riva: “voi pensavate di costruire qualcosa per voi, invece avete costruito una grande opera per la bellezza e il futuro del nostro territorio”. Con tutta onestà 98

devo però dire che io ho partecipato solo alle prime uscite: in pratica fino ai lavori del terrazzino di ferro della prima scala perché, tempo dopo, trovai una nuova compagnia che purtroppo mi distolse da questa avventura. Però con immenso piacere vidi, anche se da lontano, che per la riuscita di questo obbiettivo ci fu l’apporto di tanti amici, al di fuori del Gruppo Rocciatori, che impegnarono con costanza se stessi, le loro capacità e i loro mezzi per far si che questo grande progetto arrivasse ad essere terminato, per questo al momento della tanto desiderata inaugurazione, che arrivò nel 1972, si decise di dare a questa significativa opera il giusto nome che si meritava: Ferrata del Centenario della S.A.T. “VIA DELL’AMICIZIA”. Purtroppo, poco tempo dopo questo bellissimo evento, venne però a mancare l’amico Renzo Tonelli, che questa ferrata l’aveva ideata e fortemente voluta, egli morì in un incidente stradale. Qualche anno dopo altre ferrate vengono costruite sulla Rocchetta. In quelle occasioni ho conosciuto Silvio (Bacon), Enzo Fruner e Rino Zanotti. Intorno a cima Capi nascono così: la via Susatti, e poi, in seguito, il Sentiero attrezzato Mario Foletti. Questa opera venne dedicata al nostro capogruppo che aveva perso la vita in un disperato tentativo di recuperare un ragazzino annegato in un lago. Con il passare degli anni tanti amici, con cui avevamo condiviso il magico mondo delle montagne, ci lasciano: Nino Bertoldi e Gigi Lotti, generosi e instancabili amici per tanti anni in direzione della S.A.T. E ancora Renzo Tonelli, Mario Foletti, Alvise Squarzoni, Rino Zanotti, Mirella Ischia e tanti altri che portiamo nel cuore e nel ricordo. Come sempre, nella vita di ognuno, con il passare del tempo importanti impegni di vita si fanno sentire e così pian piano si va un po’ meno in montagna, ma soprattutto si partecipa sempre meno alla vita della Sezione, non si va più in sede e forse l’unico forte legame che resta è l’acquisto del bollino e la regolare partecipazione alle assemblee annuali. Con Franco e Claudio, ogni tanto, Annuario 2013


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si partecipa alle cene sociali e alle serate degli auguri di Fine Anno. Se si va in montagna si va con obbiettivi diversi e più facili. Si incomincia a salire solo fino ai rifugi perché essi, che una volta servivano come basi per salire alle grandi cime, sono diventati col tempo delle semplici mete. Assieme ad altri incomincio a ripercorrere le nostre montagne attorno a Riva: montagne che forse un tempo avevo trascurato per cime che allora consideravo più importanti e così ho la possibilità di rivedere posti con panorami incantevoli. In seguito, con la nuova passione che mi hanno trasmesso Franco e Claudio, inizio ad andare alla scoperta dei grandi resti della prima Guerra mondiale, quella immane tragedia che ha riempito le nostre montagne di opere notevoli. Così inizio a percorrere non solo i monti intorno a Riva e Rovereto ma anche gli Altipiani di Folgaria- Lavarone e su su fino a quelli di Asiago e oltre. Intanto nella Sezione di Riva, dopo tanti anni di generoso impegno, Cesarino Mutti lascia la presidenza e la nuova direzione sceglie un giovane come nuovo presi-

dente: Marco Matteotti. Seppur nella continuità e nella consolidata tradizione, Marco Matteotti mette nuova linfa nella vita della Sezione e così si inizia a pensare come avvicinare alla montagna tante persone che per vari motivi ne sono un po’ lontani. Nascono così due nuove iniziative: Famiglie in Montagna e la S.A.T. a Scuola. Una domenica di primavera di 5/6 anni fa, assieme a Claudio e Franco, vado a fare un giro con le ciaspole intorno all’Altissimo; l’escursione era stata organizzata dal Gruppo Famiglie della S.A.T. di Riva. Arrivato dov’era stata stabilita la fermata per condividere assieme il pasto, mi appoggiai contro il muro dello stallone di una malga a prendere un po’ di sole e accanto a me si sedette una signora con dei bambini; dopo un momento lei gentilmente mi offre qualcosa dal suo zaino e poi con molto garbo, visto che era la prima volta che mi vedeva in gita, mi chiese se tutto questo andare in montagna e questa compagnia mi piaceva, ma soprattutto, con le sue parole, cercò di trasmettermi il suo stesso entusiasmo nel far parte della S.A.T.: “sono tre

La fatidica gita del gruppo famiglia S.A.T. Riva con le ciaspole, Mauro Caceffo e Claudio Martinelli Annuario 2013

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anni che mi sono iscritta e ho già tre bollini sulla tessera, avanti provi ad iscriversi anche lei. Vedrà che ne vale davvero la pena!” io risposi: “Grazie, ma quest’anno io ho attaccato sulla tessera il mio 44° bollino”. La signora, alla mia risposta, rimase un po’ così così, mentre io alla sera, arrivato a casa, cercai di riflettere su questa mia frase infelice e magari un po’ arrogante. Certo che, mentre lei era veramente entusiasta di questa sua scelta, io invece andavo avanti in maniera del tutto scontata e inerte. Così, col tempo, pensai fra di me che, per cambiare stile, ci sarebbe voluto qualcosa di nuovo e, come sempre accade, quel qualcosa di nuovo arrivò quando meno te lo aspetti: Il Gruppo VIP. La direzione della S.A.T. di Riva, assieme al suo presidente Matteotti, sentito il desiderio di alcuni soci un po’ avanti con l’età, ma soprattutto spinta da una brillante intuizione di Cesarino Mutti, per tanti anni presidente della nostra Sezione e dinamico organizzatore e responsabile di splendide gite della S.A.T. di Riva, diede l’avvio ad un progetto nuovo per la vita della nostra sezione, un progetto innovativo, ma anche impegnativo pur nella sua semplicità: riportare in montagna, su percorsi facili e piacevoli, tutti quelli che per via dell’avanzare degli anni e di qualche acciacco avevano rinunciato ormai alle escursioni impegnative. Cesarino Mutti si mise subito all’opera con alcuni suoi volenterosi amici e vennero fatti e poi presentati dei programmi di uscite, e così tanti di noi hanno così subito approfittato di questa nuova possibilità. Gli amici soci Elio Bresciani e Sergio Francesconi, quest’ultimo purtroppo ci ha lasciati poco tempo fa salendo verso la sua amata Capanna Santa Barbara, trovarono anche un nome veramente fantastico per questo gruppo: “I VIP” acronimo che stava per significare: “Vecchietti In Pensione”. Con loro, ricomincio anch’io, visto che nella vita c’è sempre la possibilità di ricominciare, ad andare insieme sulle nostre montagne con tante e nuove proposte: dalle Cime di Lavaredo alle Odle, dallo Sciliar al Pian del Cansiglio e così via, ma la cosa 100

più bella ancora è che stavolta io tutto questo lo faccio assieme a mia moglie. È splendido ritornare in montagna così, ma è anche stupendo riscoprire che tutti noi, sicuramente un po’ invecchiati e con i capelli grigi, siamo gli stessi che frequentavano con tanto entusiasmo le prime gite degli anni 60/70. A questo gruppo, sempre più grande, si sono aggiunte tante persone nuove che hanno saputo ricreare quelle amicizie che nascono solo in montagna. La Sezione S.A.T. di Riva ha fatto il miracolo, se così si può dire, perché è stata capace di ridare un po’ di entusiasmo ad un “Satino” che forse, questo entusiasmo, l’aveva dimenticato... Adesso, scendendo i gradini e andando a mettermi in mezzo agli altri con il diploma e il distintivo del mio Cinquantesimo in mano, mi viene in mente una frase che avevo letto una volta nella sede della S.A.T. di Riva. Essa diceva: “più sali, più vali”. Questo sarà anche vero, ma io penso che più sali più vali solo perché questo tuo salire ti rende degno e capace di riconoscere, con il tuo grazie, quel Qualcuno che ha fatto e ci donato tutto questo.

Gita dei VIP sulle cime di Lavaredo Annuario 2013


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Ai fornelli! di Stefania Fenner È Gennaio, sono a casa per qualche giorno di ferie e mi leggo con calma le mail degli amici per i classici auguri di Natale e di inizio Anno. Ad un certo punto, tra le varie mail, scorgo quella di Floz e Valentina... ed un brivido, non lo nascondo, mi corre lungo la schiena! Gentilissimi come sempre, gli amici mi fanno gli auguri... ma mi ricordano che è “tempo di Annuario” e quindi si aspettano uno dei miei scritti. Momenti di panico... nel 2012 ho fatto un anno “sabbatico” di stacco dalla montagna e da tutte le mie 1000 attività (corsa, maratone...) e mi sono dedicata a me stessa, al riposo ed alla riscoperta di amici e parti di me che non coltivavo da tempo. Chiusa la parentesi molto “meditativa”... rimane ora una questione aperta... cosa scrivo quest’anno? Non posso mica raccontare dei miei 5 giorni di meditazione con “nobile silenzio”, anche perché, trattandosi di giornate di meditazione e di silenzio... non credo avrei molti argomenti da narrare... e forse, rischierei anche di far addormentare i lettori (cosa che a me, durante la 5 giorni di “restaurazione spirituale” è capitata spesso! Sarà l’effetto rilassante...). E nemmeno posso annoiare i lettori con la storia dei miei “drammatici” 3 giorni a letto, con gamba fasciata con garze di ossido di zinco, per una brutta infiammazione dopo una gita durissima sul Re di Castello in luglio! Per colpa di questo infortunio mi sono persa il trekking in Val Masino, che con Gabriella, Mara e Lina progettavamo da mesi (loro ci sono state... ed io a casa con l’ossido di zinco... sigh!). Passo un pomeriggio di riflessione, la mattina del giorno seguente corro e penso, ripenso ai vari temi che vorrei raccontare in questo articolo del 2012... ma non “focalizzo” un tema chiaro, ho Annuario 2013

tanti spunti, tante sono le attività della S.A.T., ma mi manca quel “quid” che dia un pizzico di novità, di allegria al mio scritto. Mentre mi aggiro pensosa in casa, il mio sguardo cade su una foto che apre il mio cuore a tanti ricordi... è una foto del 2007... sono con il Maier, il Marco, il nostro caro amico Francesconi alla capanna, e tutta fiera mostro all’obiettivo una padellona piena di cipolle tritate! Che ricordo... lì iniziò la mia carriera ai “fornelli” S.A.T.! Avevo infatti raggiunto la capanna di Santa Barbara dopo una lunga camminata, salendo in cima alla Rocchetta dal sentiero dei Crazidei, con i compagni di viaggio Giovanni, Marco e Silvano. Raggiunta la capanna, troviamo il gruppo dei volontari di Maier, intenti a preparare un succulento goulasch (specialità del Maier!) per il giorno dopo, domenica. Ed è così che anche io vengo magicamente “iniziata” al mondo dei gruppi di volontari della capanna: si tratta di 6-7 gruppi di volontari che ogni domenica, da Ottobre a Maggio, si alternano ai fornelli per dare ai Soci un ottimo e goloso benvenuto alla capanna! Ogni gruppo ha in genere un piatto “tipico” che lo rende famoso: per esempio, il gruppo delle donne (le “Befane”) è rinomato per il fantastico coniglio (di cui io stessa sono ghiotta, lo ammetto, nonostante la tendenza vegetariana...), quello del Maier è famoso per il goulasch, quello dei “giovani” invece propone ad ogni turno piatti nuovi ed originali, a volte anche diversi dalla tradizione classica trentina (vedi... le zuppe meravigliose dello chef Marco, i suoi piatti di verdure, cereali e legumi, i dolci originalissimi...). Che dire? Sono anni che le domeniche alla capanna, sono sempre occasione di incontro tra i soci, con pranzi in allegria e di gran gusto, 101


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ma fino a quel sabato io ho sempre e solo fatto l’ospite. Quel giorno invece, il gruppo mi chiede di aiutare ai fornelli... che emozione! Io, una vera frana in cucina, mi chiedo dubbiosa che compito mi sarebbe stato assegnato...per non sfigurare, nella mia mente cerco disperatamente di recuperare le tante ricette che mia mamma aveva invano tentato di inculcarmi, ma quando mi vengono proposti quei 5-6 sacchi di cipolle, capisco che il mio sarebbe stato un ruolo meno “raffinato”, diciamo molto essenziale! Pelare, tritare, pelare, tritare ed asciugarmi le lacrime sono le mie operazioni... risultato? Una mega padella di cipolla tritata per il goulasch del Maier! La sera a casa porto con me ancora il ricordo dell’allegra mattinata, le barzellette del caro Francesconi e di Marco, Giovanni che come al solito, si da alla macchia, inventando 1000 lavoretti da fare alla capanna per evitarsi i lavori in cucina, ma soprattutto porto con me una cosa indimenticabile... l’odore di cipolla sulle dita, che mi accompagna per qualche giorno. In seguito, inizio ad interessarmi sempre di più ai gruppi di volontari e dentro di me sento il desiderio di aggregarmi ad uno di loro, solo che la mia scarsa esperienza in tema “ fornelli” (ricordiamo che a Shanghai ho lasciato per ricordo ai Cinesi una padella bruciata con i broccoli che avevo dimenticato sul fuoco...), mi suggerisce di “non espormi” troppo, per non fare figuracce. Come una principessa, attendo il “principe azzurro” che mi faccia la gran proposta... secondo voi, chi mai poteva essere così “ardito” da volermi in gruppo? Lui, “l’uomo cingolato”... il Rudy! Rudy è uno dei responsabili del gruppo GRAM, ed è anche lo chef del gruppo omonimo di volontari, il cui cavallo di battaglia in cucina, è lo spiedo. Mosso a pietà, credo, Rudy mi invita nel loro gruppo ed io accetto con piacere! Non vedo l’ora di iniziare, non appena arriva la 102

domenica del nostro turno, salgo di buona lena alla capanna e trovo già operativo, alle 9, il gruppo (avevano infatti dormito lì il sabato prima). Oggi cuciniamo lo spiedo (io non so neanche cosa sia... penso sia una specie di galletto “Vallespluga” ?), per il quale la sede ha da poco acquistato una macchina dedicata allo scopo. Stefano è il responsabile spiedo, al quale si era applicato già il sabato: lo spiedo infatti, necessita di una lunga preparazione, altro che polletto come pensavo io (non sono abituata a cucinare piatti la cui preparazione, sia più lunga di 1 ora). Rudy invece, cura la cucina e tutti i contorni: borlotti, crauti, salsiccia... ma soprattutto i fantastici antipasti di mezza mattina, che prepara per il gruppo in attesa del servizio all’ora di pranzo! Crostoni con burro, salmone, mortadella... e quel giorno si fa festa! Nel “bait del Toni”, invece, gli altri del gruppo preparano la polenta (di patate, concia, integrale, di solito ne facciamo di 2 tipi). Vi state chiedendo cosa abbia fatto io mentre gli altri erano così indaffarati? Ebbene, ruolo chiave... ho preparato le tavole apparecchiate e soprattutto sono stata eletta responsabile “cruditè” ovvero, taglio e condimento delle verdure crude (cappuccio ed insalate varie). In questo modo ho imparato a preparare quantità industriali di cappuccio tagliato, grazie all’affettatrice, che stranamente imparo ad usare senza affettarmi le dita! Altra mansione che mi viene affidata, quella che amerò sempre meno, la preparazione dei piatti di formaggi, diciamo che tagliare il gorgonzola non è il mio forte, anche perché se non mi avessero controllata, avrei cestinato i 2/3 del formaggio visto che mi pareva tutto “ammuffito”! La mattinata scorre allegra e serena, ci prepariamo ad una bella ressa, in quanto la giornata è bella e calda e molti soci sarebbero saliti alla capanna. Dimenticavo un altro membro del gruppo... Giovanni! Lui c’è sempre, anche se diciamo nei momenti “topici” si inabissa e non lo si vede più, Annuario 2013


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soprattutto quando vede tanta gente arrivare! Lui è eletto a nostro esperto di public relations (!!) e quindi, gira per la sala intrattenendo i soci con le sue famose (a volte... ripetitive!) barzellette, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo! L’ondata arriva... ma noi siamo ben preparati, e ciascun ospite riceve il suo agognato piatto di polenta, spiedo e contorni, sulle tavole dispongo orgogliosa le coppe con verdure crude e formaggi fatti da me. Anche i miei genitori sono saliti alla capanna, per assaggiare i piatti del mio gruppo, credo che per loro sia stata un’occasione unica per vedermi “ai fornelli”. Il pranzo per i soci si conclude con grande soddisfazione: oltre all’ottimo spiedo, serviamo infatti una carrellata di torte (fatte in casa) e dolcetti (frittelle, salame al cioccolato, e una volta, Rudy ha proposto pure delle mousse!) ed un buon caffè (con “resentim”!). Piano piano, i soci ci salutano felici e scendono a Riva, mentre noi, dopo aver lavato e pulito tutto, possiamo, solo verso le 16, goderci un pranzetto tutto per il gruppo. Mi chiedo... “cosa mangeremo? Lo spiedo è finito tutto”... ed ecco che magicamente Rudy tira fuori dal forno una teglia di seppie in umido! Adoro il pesce, le aveva fatte solo per il gruppo!

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È fatta, ormai mi sento del gruppo, lo chef ha persino azzeccato i miei gusti da “anti-trentina” (diciamo che salsicce e polenta non sono i miei piatti top)! Mi sono trovata benissimo e mi sono divertita un sacco, speriamo che le mie performance ai fornelli siano piaciute! Ecco, qui vi ho proposto la storia del mio ingresso nel gruppo volontari, sono passati 3 anni, quante domeniche abbiamo vissuto insieme. Ricordo ancora quella con abbondante nevicata, eravamo in pochi ma ci siamo divertiti! Ultimamente ammetto di essere stata un poco “asinella”, ho saltato molti turni per vari impegni, ma proprio la settimana scorsa, ho ritrovato il capo Rudy a chiamarmi a rapporto! Vi assicuro che, dopo aver rievocato questi bei ricordi, la voglia di tornare nel gruppo è ora tanta, quindi vi do appuntamento ad una delle prossime domeniche, venite numerosi ad assaggiare il famoso “Cappuccio di Stefania“!? Al di là delle battute, grazie di cuore a tutti gli amici della S.A.T., che si impegnano a turno e volontariamente, per dedicarsi al pranzetto dei soci e grazie anche al mio gruppo, dove allegria e serenità regnano ad ogni turno! Excelsior!

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Mauro Tomasi, l’alpinista della quotidianità di Paolo Liserre «Normalità». In quell’ora di chiacchierata, interrotta qua e là dai sorrisi e dai complimenti del personale della casa di riposo dove è un vero e proprio beniamino di tutti, Mauro continua a ripeterlo, quel sostantivo. «Perché per me è tutto assolutamente normale. L’ho fatto, e l’ho voluto fare, per gli altri, per chi è come me, per chi ha problemi e per chi non ne ha, magari sta meglio di me e si piange addosso. La mia dedica è per tutti loro». Sarà anche normale, come dice lui, ma qualcosa di speciale c’è nella sfida che Mauro Tomasi ha voluto lanciare e vincere partecipando alla «International Lake Garda Marathon» nell’ot-

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tobre dell’anno scorso, 42 chilometri e mezzo da sponda a sponda del lago passando da Riva, Arco e Torbole. Di speciale c’è lui stesso. Non per la sua «condizione» ma per il cuore grande, la vita e la voglia di lottare che non lo abbandonano mai. Mauro Tomasi ha 44 anni, è nato e vissuto ad Ala sino ad un paio d’anni or sono quando ha deciso di trasferirsi alla «Casa di Riposo» di via Ardaro, a Riva. A Ferragosto del 2000 ebbe un tremendo incidente in moto proprio sulla Gardesana orientale, fra Torri del Benaco e Brenzone. Da allora è paralizzato dalla cintola in giù e non ha più l’uso del braccio sinistro. Più della paraplegia,

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qualcosa meno della tetraplegia. Faceva l’operaio alla «Trm» di Ala, da quella sera di agosto la sua vita è cambiata. «Ma ora vedo cose che prima non vedevo» racconta. Un anno e mezzo fa gli hanno dato una nuova carrozzina e lui ha cominciato a macinare chilometri su chilometri da Riva ad Arco, poi da Riva a Dro, avanti e indietro. «Il movimento e il sole mi fanno bene - ci dice - E grazie al movimento posso anche fare a meno degli antidolorifici». Poi, l’estate scorsa, ecco l’idea: perché non partecipare alla Maratona? Quarantadue chilometri e rotti da coprire in carrozzina con la spinta di un braccio solo. Figuriamoci se uno come lui si tira indietro. Eccolo allora allenarsi praticamente ogni giorno, lungo le ciclabili tra Riva e Arco, sul lungolago, col sole e senza il sole. Poi un giorno incrocia un ragazzo, Nicola Prandi di San Martino, che lo ferma e gli fa: “Se hai bisogno chiamami che vengo a darti una mano?”. «Mica ne trovi tante di persone così» sottolinea Mauro sorridendo. Nicola gli costruisce un parafango speciale che gli consente di spingere con più agilità. Ed è lui che in occasione del grande evento di ottobre lo ha accompagnato in bici lungo tutto il percorso, passandogli acqua, mele e banane per riprendere le forze nei momenti critici. «La parte più brutta è stata quando ha cominciato a piovere - racconta Mauro - Cinque chilometri sotto l’acqua tutt’altro che facili». Un inferno per altri. Non per lui. Anche perché quando devi spingere una carrozzina in titanio di 22 chili con un braccio solo, anche il ponticello di Punta Lido ti sembra il Col du Galibier. Ma guai a chi lo voleva spingere, basta andare a dare un’occhiata al filmato caricato su Facebook e YouTube. «Deve farcela da solo» dice la voce fuori campo, che poi è la voce di Nicola Prandi. E Mauro ce l’ha fatta, ha vinto la sua sfida. Pensava di metterci sei ore, ha fermato il cronometro a 5 ore 39 minuti e 28 secondi, ovvero 668ª posizione su oltre 700 iscritti. E come al solito pensa agli altri: «Mi ero prefissato di stare in quel tempo anche per non costringere l’orga106

nizzazione a tenere chiusa la Gardesana solo per me». E ripete: «Per me tutto questo è normale e magari un domani farò ancora qualcosa. Oggi l’ho voluto fare per gli altri, per dimostrare che volendo si può arrivare ovunque, che anche chi ha una limitazione fisica può raggiungere certi traguardi». Mauro ci lascia ringraziandoci. Di cosa non si sa. Anche perché siamo noi che ogni giorno dovremmo ringraziare lui. Oltre le nostre montagne, ci sono montagne nella vita di tutti i giorni che la maggior parte di noi non vedono. E che solo chi ha un cuore grande e tanta vita dentro di sé sa scalare come nessun’altro.

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Alcune riflessioni attorno al caminetto sul rifugio Don Zio di Arrigo Pisoni Rifugio Don Zio, perché? Don Zio, chi era costui? È una domanda che ricorre spesso per chi arriva per la prima volta in cima al Daìn o Monte Casale, come vogliono i geografi. (Daìn e non Dàino, poiché il nome non deriva dal simpatico ungulato, ma da un linguaggio ormai scomparso e sta a significare “grande massa di roccia, parete rocciosa” (A. Gorfer). Ritornando al “Don Zio”, tenterò di descrivere l’uomo e di giustificare il suo arrivo in cima al Daìn. Essendo il sottoscritto nipote del sopraccitato, figlio di suo fratello Giulio, mi riferisco e­sclusivamente a conoscenze e ricordi strettamente personali, rimandando per ulteriori notizie ai suoi amici ancora viventi o ai testi: “IL MOVIMENTO CATTOLICO TRENTINO DALLE ORIGINI ALLA RESISTENZA 1844-1945” di Paolo Piccoli e Armando Vadagnini. “S. ALESSANDRO, UN PAESE, UNA COMUNITÀ” di Vittorio Colombo. Noi nipoti non lo chiamavamo mai “don zio”, ma “zio don Vittorio”. Quando arrivava da Trento con la sua valigetta di cuoio (da cui saltava sempre fuori il sacchetto di caramelle) e con in testa l’immancabile “cappello da viaggio” (una semisfera appoggiata su una specie di disco volante dove ci infilava la testa), noi nipoti gli correvamo incontro festosi a baciar­gli la mano (così si usava salutare i preti) e naturalmente ansiosi di aprire la misteriosa valigetta, da dove comparivano sempre caramelle, cioccolatini, mandorlato e liquirizia (merda di diavolo la chiamavano allora). Nato a Lasino nel 1891 da una numerosa famiAnnuario 2013

glia di contadini, 7 fratelli e una sorella, ha ini­ ziato i suoi studi presso il Ginnasio Arcivescovile di Trento. Voleva diventare medico, ma finito il liceo, con il massimo dei voti, passò in seminario e celebrò la sua prima messa nel 1916. “Non faremo una grande festa come si vorrebbe” disse mamma Angela Poli ai parenti, “causa la guerra”. Da 3 anni era vedova e la maggior parte dei figli era già al fronte. Don Vittorio fece la sua “pratica” come cappellano a Mezzocorona e poi a Riva del Garda. L’amato Imperatore però rivolse ben presto la sua attenzione anche verso questo giovane pre­tino. Gli regalò una fiammante uniforme e con il titolo di tenente cappellano lo inviò in Galizia con le truppe dei Kaiserjàger, a difendere i confini nord-est del Grande Impero. E così erano sette i fratelli nel turbine della guerra. Francesco Giuseppe li ha voluti tutti, com­presi due cavalli (Derna e Tripoli) e un carro. Allora anche i cavalli erano iscritti, alla leva militare e tutti gli anni subivano la visita veterinaria di leva. Don Luigi, il più vecchio, curato a Terragnolo, sarà internato con tutto il paese a Mittendorf. Giuseppe, farmacista, sarà Feldapotheker, Biagio, professore di Ragioneria sarà Ufficiale Kaiserjager. Si racconta di lui, che il suo più grande atto eroico, sia stato di aver impavidamente sguai­nato la sua sciabola d’ordinanza e aver tagliato con un colpo di netto, la testa di una pacifica oca che ignara passeggiava nei dintorni dell’accampamento. La fine del pennuto è immaginabile. Gli altri fratelli, contadini, Francesco, Eugenio, Oreste e Giulio saranno tutti Kaiserjàger. Euge­ 107


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nio sarà fra i primi caduti al fronte. Mamma Angela riceverà dall’Imperatore un solenne attestato di riconoscenza per i suoi sette figli al servizio della Patria. La guerra finalmente termina. Chi sopravvive ritorna. Dei nostri solo 6 ritornano. Eugenio è rimasto disperso in Galizia. Anche don Vittorio si rimette dalla terribile febbre spagnola che l’ha colpito. Ritorna con il suo prezioso altare da campo, una robusta cassetta di legno con tutti gli accessori per la Messa, fatta dai soldati prigionieri russi, che conserverà con grande amore e lo seguirà poi nelle varie tendopoli e spedizioni montanare (per la cronaca, questo altare l’ha sempre messo a di­sposizione per feste ed escursioni della S.A.T. con molta generosità, non senza però un briciolo di gelosia per quella

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carica di ricordi e affetto a cui lo legava). Don Vittorio ritorna quindi dalla guerra col titolo di capitano cappellano. L’arcivescovo Endici, grande personaggio nella storia Trentina, mette gli occhi su questo gio­vane dinamico e intelligentissimo prete. Lo vuole suo segretario particolare. Ma la carriera ecclesiastica evidentemente non è la sua vocazione. Sono i giovani la sua grande passione. Passione che riceve da don Oreste Rauzi, Vescovo ausi­liare di Trento, e che trasmetterà a don Onorio Spada, famoso Cappellano degli alpini in Russia nella seconda guerra mondiale. A questi due personaggi è legato da profonda e affettuosa amicizia. Sarà quindi catechista al Liceo Prati, assistente alla Juventus (associazione studentesca) e quindi assistente della FUCI (movimento cattolico universitario). In questa attività potrà esprimere tutta la sua capacità di capire, amare, consigliare generazioni di studenti. Genitori, spesso mamme e vedove della grande guerra, troveranno in lui un consigliere sicuro, un grande amico per i loro figli. La sua residenza, via Giardini 20 a Trento, è sempre un gran via vai di studenti, genitori e grandi personalità. Gli studenti vanno da lui anche per ripassare le lezioni. È molto forte in greco e latino ma la matematica è la sua grande passione. Al liceo Prati sostituisce con facilità l’assenza di altri professori. La carica umana, la sua sem­plicità, l’amore verso tutti fa sbocciare questo nomignolo, “Don zio”. Chi sarà stato il primo ad appiopparglielo? Probabilmente non si saprà mai. Quando girava per Trento e qualche volta lo accompagnavo, tutti i giovani lo salutavano cosi: “Buon giorno Don Zio, buona sera Don Zio”; allora si dava sempre del Lei ai professori, preti, ma­estri e persone anziane. Mentre i grandi si scappellavano profondamente con un sonoro “Riverisco professore”. Quelli del “Riverisco professore” sono pian piano scomparsi. Quelli che erano ragazzetti purtroppo sono diventati anziani e hanno continuato a chiamarlo don Zio. Annuario 2013


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E come cresceva questo affetto e stima verso il “don Zio”. Quanti personaggi, diventati anche illustri e famosi, lo abbracciavano con calore in occasione dei loro incontri. Studenti che hanno seguito le vie più disparate. Medici, ingegneri, professori, avvocati professionisti di grande o di modesto successo, politici famosi e non, schierati sui più diversi fronti, tutti avevano un affetto e una stima profonda per don Zio. Quali meriti avrà avuto per meritarsi tanto affetto? Era quasi timido, tanto modesto, ma si faceva con tutti. Aveva un’intelligenza e una forza d’animo pari alla sua bontà. Non tollerava soprusi e ingiustizie. Dove si è potuto esprimere pienamente è stato nei campeggi e nelle tendopoli. Soppressi dal Regime ogni tipo di associazione o associazionismo, è riuscito miracolosamente a tenere le sue associazioni studentesche. Le sue doti di alpinista provetto, pioniere dello sci, grande escursionista e profondo conoscito­ re delle nostre montagne, avranno certamente contribuito ad aumentare il suo ascendente verso i suoi giovani. La vita all’aperto, le escursioni in montagna, la disciplina imposta nell’eseguire a turno i più svariati lavori della vita comune del campeggio e soprattutto il continuo colloquio, non senza mu­sica, canti e scene di allegria, portava alle stelle l’entusiasmo dei ragazzi. Quanti, dopo il ritorno da anni di guerra, di prigionia, riconoscevano di aver avuto da questa scuola di vita l’aiuto per superare i momenti più terribili della guerra (Africa, Russia, Grecia, Al­ bania, Croazia, Germania). Quanto ha sofferto don Zio per questa seconda terribile guerra! Uscito dalla prima guerra mondiale, dove ha visto cadere al suo fianco centinaia di ragazzi immolati dall’ambizione e dall’egoismo di non si sa chi, deve vedere ancora tanti “suoi” ragazzi partire. Sono ragazzi pieni di vita, di entusiasmo. Qualcuno parte volontario. Molti saranno ufficiali e si copriranno di gloria. Ma molti non torneranno più. Moriranno nei cieli dell’Africa Orientale, nelle acque del “Mare Nostrum”, nelle steppe della Russia, o nei camAnnuario 2013

pi di concentramento. Quante lacrime dovrà ancora asciugare, quante parole di consolazione dovrà trovare per geni­tori, fratelli, sorelle, mogli e fidanzate disperate. Lui che odia la guerra, che è feroce nemico del Regime che l’ha voluta, che dal primo giorno urla che è una guerra ingiusta, che ci porterà alla catastrofe, deve ancora incoraggiare i suoi ragaz­zi a compiere serenamente il loro dovere. Quanto dolore, quanta rabbia deve tenersi nel cuore. La guerra lo sposterà da Trento ai Masi di Lasino. Sara professore catechista al centro scolastico di Lasino. Nuovi ragazzi avranno la fortuna di conoscerlo e apprezzarlo. Si interessa anche del settore sociale. Propone un nome nuovo per questa frazione che quelli di Lasino chiamavano “Sarca”, quelli di Pietramurata e Sarche “Masi”. Quelli di Calavino “Sarca qua fora”. Il Regime aveva chiamato questa frazione “Masi di Madruzzo”. Don Vittorio propone un nome nuovo “Pergolese” che sarà accettato quasi all’unanimità. Compera per proprio conto la canonica, che piena di debiti stava per essere venduta all’asta dalle banche, per poi donarla alla Chiesa locale, che farà diventare Curazia. Progetta e costruisce il cimitero, rifà a nuovo la Chiesa con i due campanili e fa affrescare la volta del presbiterio con un grande dipinto (Gesù e i 12 apostoli con il singolare sfondo delle mon­tagne locali), dal suo studente Livio Benetti (che poi diventerà un famoso professore) venuto ai Masi di Lasino in tempo di guerra in viaggio di nozze e soggiorno in luna di miele. Qui è amico di tutti: dei giovani a cui racconta storie meravigliose, degli anziani con i quali nelle locali osterie passa interminabili ore a giocare a tressette o cinquiglio. Quante attività, quanti aneddoti si potrebbero raccontare di lui. Pescatore appassionato, passava su e giù il Rimone, il Lago di Cavedine e il lago di S. Massenza (senza prendere quasi mai niente). Aveva passione per i fiori, per i funghi. Gli piaceva scavare sentieri, giardini, laghetti sul “Gagget” vicino alla casa. 109


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Aveva una completa attrezzatura da falegname che noi ragazzi usavamo solo quando lui non c’era (ci “begava” perché poi non mettevamo mai a posto gli attrezzi). Amico strettissimo del “Giovanni Rosso” (Cav. Caldini), di cui aveva somiglianza di genialità, ne seguiva con attenzione tutte le sue invenzioni da Archimede Pitagorico: la macchina a vapore alimentata da “sarmentei” e legni di vigna, che doveva muovere una pompa di irrigazione, i brevetti delle solforatrici, delle trappole per mosche, la preparazione dell’alambicco e conseguente distil­lazione delle prugne raccolte fra la popolazione pro-Chiesa (in tempo di guerra si era preso una specie di dispensa morale a fare contrabbando di grappa per fini benefici). Il Rosso è morto senza completare la sua macchina del “Moto perpetuo” a cui ha dedicato tanti sforzi. Aveva pensato anche dì procurarsi da se il tabacco, che allora non c’era, per la sua vorace pipa (sempre con la dispensa morale di cui sopra). Io e Gino raccoglievamo il “patarro” (tabacco di scarto che doveva essere subito distrutto, ma che il buon “Giobbe” (Luigi Chistè, fiduciario del Monopolio di Stato per coltivazione del tabac­ co) ci lasciava raccogliere di nascosto. Nascosti in soffitta fra le balle di paglia si procedeva poi alla “macerazione”. Accatastate le foglie sotto un peso si aspettava che “boissero” (fermentazione) poi bagnate si distendevano ad asciugare. Poi si accatastavano ancora per la seconda macerazione. Poi distese e nuovamente accatastate sotto il peso. Si facevano

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3-4 “maserate” a seconda del grado di “forza” che si voleva ottenere nel tabacco (dove avrà imparato lo zio tutte queste cose?). Il taglio era l’operazione più importante e delicata. Levate le nervature, abbiamo sperimentato ogni mezzo per un buon “taglio”. Provato coltelli taglienti, vecchi rasoi, lamette da barba ecc. I migliori risultati li abbiamo ottenuti con le forbici delle viti. Alla prova dei fatti però i risultati non sono stati all’altezza dell’entusiasmo che ci abbiamo messo tutti e tre. Dalla sua pipa di radica alla Pertini, usciva un fumo nero e puzzolente, che avrebbe attirato la finanza o i carabinieri (allora erano quest’ultimi che cercavano il contrabbando) da 1 km. Abbiamo poi cercato di migliorarne la qualità con le “conce” speciali. Quindi: miele, foglie di menta, tè, fiori di camomilla. Abbiamo sperimentato ogni cosa, ma i risultati non sono migliorati di molto. Allo zio l’esperimento è fruttato una bella canzoncina che i suoi ragazzi gli cantavano in cer­chio attorno al fuoco: “E don Zio e don Zio con la pipotta, tira dentro come en mul, foie secche, foie secche e robba cotta per goderse en po’ de fum...” Un’altra sua brillante operazione è stato il recupero di un cannone lasciato nella frettolosa fuga dei tedeschi al Gaggiolo di Dro, quel 2 maggio 1945. Giaceva da qualche giorno il povero cannone solo ed abbandonato fra le vigne sotto i “Sassi del Diaol”. Don Zio, passando da colà ripetutamente in bicicletta, ha notato come non avesse più il suo le­gittimo padrone. Bruciante ancora nel suo ricordo il dolore di aver visto tante mansuete campane scendere pre­cipitosamente dai campanili per trasformarsi in strumenti di morte, ha pensato che finalmente po­teva avvenire il contrario. Per la sua nuova curazia occorrevano proprio le campane e quello era il segno della provviden­za. Nottetempo i bravi ragazzi di Pergolese, allora dei Masi di Lasino, con il carro ed il bue da corsa di Ettore (il bue si chiamava Isa e, all’ordine di Ettore “Isa in corsa”, il bue si lanciava ventre a terra) si sono recati al Gaggiolo. Annuario 2013


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Per don Vittorio sarebbero andati anche nel fuoco. Ilario, Vittorino, Desiderio reduci dalla Flak (antiaerea tedesca), quindi esperti di cannoni, hanno staccato la canna dall’affusto, l’hanno caricata sul carro dell’Ettore, che per la bisogna ne avevano tolto lo “scalà” e sfruttata tutta la “slonga”. Prima dell’alba il cannone era già sotterrato dietro la casa vicino alla montagna. C’era il pericolo della Polizia Partigiana, dei militi del C.L.N. e dei Badogliani che requisivano tutti i residuati bellici. Passato il “Rebalton” il cannone è stato dissotterrato, ma di bronzo c’era solo la cremagliera che comandava l’alzo. Povero don Zio, non sapeva che la Krupp aveva fatto passi da gigante. Dai cannoni di bronzo napoleonici, si era passati ai cannoni di acciaio “Mannessman” a canna rigata. Infatti era un modernissimo cannone antiaereo di precisione. Attorno alla canna aveva 5 o 6 righe di vernice bianca che stava ad indicare gli aerei abbattuti. Per di più era ancora carico e c’è voluto una carica di esplosivo per renderlo innocuo (esperti e tritolo non ne mancavano allora). Il Morandi di Vezzano l’ha tagliato a pezzi con la fiamma ossidrica e l’ha trasformato in tanti aratri e zappe. E questo fu bene, ma lo zio prese poche lire per le sue campane. Passata la guerra don Vittorio ritorna qualche anno a Trento per assumere poi la parrocchia di

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S. Alessandro vicino a Riva del Garda. Colpito da infarto in piena vigoria, passa i suoi ultimi anni con i fratelli Giulio e Oreste a Pergolese. Qui si rinsaldano amicizie e ricordi. E vicino ai ragazzi della neonata S.A.T. Nessuno conosce la montagna come lui. Quando parla del Daìn gli si illuminano gli occhi: “Questa è la montagna più bella del Trenti­no” dice, “tutti parlano della Paganella, ma non conoscono il Daìn”. E lui che ha “scarpinato” ripetutamente il Daìn e la catena del Casale, come tutte le altre mon­ tagne del Trentino, può ben essere una voce autorevole. Un bel giorno anche lui fa la sua “ultima scalata”. Se ne va in silenzio, il 25 aprile 1967, festa di S. Marco e della Liberazione, non senza però su­ scitare un immenso dolore. A Pergolese arriva una marea di gente: ministri, onorevoli, personalità di ogni genere, preti e vescovi a bizzeffe, ma anche un esercito di buona e brava gente. Passa qualche anno. Sul Daìn sta per sorgere un rifugio alpino. Nessuno parla o ha parlato del nome da dargli. Nessuno ci pensa. Un giorno capita in casa Pisoni il giovane e dinamico Presidente della S.A.T. di Toblino, si chiama Luciano Bagattoli (anche lui un discepolo di don Pisoni perché è stato studente al centro scolastico di Lasino nell’anno di grazia 1944-45). Ha secondo lui, una grande idea da sottoporre. L’aveva già partecipata ai pochi intimi amici della direzione della S.A.T. di nome Gianni, Checco e Gino, ricevendone entusiastica approvazione. Come si poteva avere un idea, un intuizione migliore? Si trattava di chiamare questo nuovo punto di incontro, questo monumento all’amicizia e alla montagna con un nome nuovo, originale e dolcissimo “RIFUGIO DON ZIO”. 111


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La caccia “all’oro” della Rocchetta di Stefano Reversi La Rocchetta attira facilmente lo sguardo per quel suo atteggiamento imponente, slanciato, dritto verso il cielo. La maestosità della sua parete orientale domina a picco l’abitato di Riva, e non è difficile incrociare passeggiando per le vie della cittadina, turisti che indicando le sue ripide linee, si chiedono come sia possibile salirle. La Rocchetta in realtà offre molte opportunità per farsi percorrere dagli amanti della montagna: sentieri escursionistici panoramici, o in ambiente selvaggio, ferrate strapiombanti e che percorrono creste spettacolari, vie d’arrampicata, oppure semplici passeggiate che in poco tempo consentono di avere una vista affascinante. Questa è la Rocchetta dei nostri tempi, e per tanti di noi la motivazione per incamminarsi sui suoi itinerari è la passione per la montagna. C’è stato un tempo in cui i suoi pendii erano

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percorsi per un’altra causa. Siamo nella primavera del 1945, la guerra è appena finita, la liberazione finalmente è realtà, anche la Rocchetta è terra di pace. Per conoscere gli eventi e i particolari di questa storia non c’è modo migliore che affidarsi a una memoria storica che ha vissuto in prima persona i fatti descritti. Franco Reversi classe 1930 al tempo quindicenne, racconta: finita la guerra, la ripresa economica non è stata immediata, la possibilità di lavoro era limitata e non esisteva nessun tipo di assistenza sociale (disoccupazione, mobilità ecc.). Mio papà era morto nel 1943, l’anno dopo una brutta polmonite aveva stroncato la vita del fratellino minore. In famiglia eravamo rimasti in quattro, due fratelli, mia sorella e la mamma, io ero il maggiore. Le uniche fabbriche attive erano la cartiera Fedrigoni a Varone (frazione di Riva) e

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Anni ’50, cima Giochello

sempre nella stessa zona la cartiera del Peloso, troppo poco per soddisfare la richiesta di occupazione della maggior parte della gente del posto. È facile capire che per tante famiglie un salario era semplicemente pura fantasia, Franco continua la sua narrazione: in quei tempi per scaldare le case e cuocere il mangiare il carburante che tutta la gente usava era la legna. La mattina si partiva per salire sulla Rocchetta, eravamo in tanti che poi ci sparpagliavamo su per i sentieri e tra i boschi, più o meno una trentina, a volte anche una quarantina. La sera si ritornava a Riva con un carico di legna che variava da un quintale a un quintale e venti, lo portavamo in via Fabbri da un certo signor Benini, che poi la rivendeva. Oltre a lui ricordo che c’erano altri due o tre posti di raccolta, per me il più comodo era quello in via Fabbri. Domando ma perché non la vendevate direttamente ai privati? La gente non si poteva permettere di comprare una grande quantità di legname (come si usa normalmente adesso) al massimo acquistavano venti trenta chili, il giusto necessario. Per noi era più semplice e pratico venderla a un commerciante, noi per lui eravamo dei buoni fornitori. Salivano sulla Rocchetta tutti i giorni dal lunedì al sabato, anche durante l’inverno, come una classica settimana lavorativa, ma come trasportavate il legname e quali zone sceglievate per la vostra raccolta? Preparavamo la “carga” (carico di legna) con i tagli più grossi che poggiavano a terra, e quella più fine sopra, con la loro parte più 114

lunga posta sulla schiena, tirandola la facevamo scivolare fino a Riva, l’ inverno con la neve ” la scivoleva ancor meio”.I primi mesi successivi alla guerra andavamo soprattutto nella zona dei Fontanoni (la valletta al disotto di Boca Denzima). La chiamavamo così (la valletta) per la presenza nella sua parte alta di una riserva d’acqua all’ interno di una rientranza nella parete rocciosa, che riforniva i militari nel 1914/1918. Tutt’oggi questa vasca è uno dei pochi punti di approvvigionamento d’acqua sulla Rocchetta. Da lì si scendeva dall’attuale sentiero 404 e poi 405. A differenza della situazione attuale, che per superare la condotta forzata (che s’ incontra all’ incirca a metà discesa) è in uso un’apposita scaletta di metallo, allora il sentiero gli passava sopra come un cavalcavia, e per superare la parte in salita bisognava essere in due. Un altro punto particolare era l’attraversamento del canale che in direzione di discesa si trova un po’ prima della condotta forzata, anche lì dovevamo essere in coppia, uno davanti che guidava e uno dietro che teneva l’onda evitando che il carico prendesse la via del canale e “ l’arivese zò en centrale” con un bel saluto, ciao ciao giornata di lavoro. Finita la zona dei Fontanoni ci siamo spostati verso la valle dello Sperone che la si raggiungeva sia da sopra, passando da Bocca Denzima, o dal basso partendo dalla Ponale. Nella parte bassa della valle dello Sperone si tagliava l’eles (leccio), un arbusto ben presente in quell’area rocciosa e per mezzo di un carretto lo trasportavamo lungo la Ponale fino a

Anni ’50, nei pressi della chiesetta di S. Barbara Annuario 2013


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Riva. Nelle altre fasce della Rocchetta si tagliava il Faggio, il Carpen (Carpino) e il Frassen (frassino) legna “bona da arder”. La materia prima cominciava a scarseggiare e quindi la necessità di cambiare versante diventava d’obbligo. Il taglio si spostò sui pendii sopra la chiesetta di S. Barbara nella radura detta “del palon”, nella zona dei Crazidei (classico itinerario di rientro dalla cima S.A.T.) e nella località Pinza, che si trova alla base della partenza dello stesso sentiero. In questa zona più ripida (il crinale dove si sviluppa il Crazidei) potevano sfruttare meglio i classico “tòf” (canale molto ripido), almeno fino alla sottostante Pinza. Franco ricorda i dettagli: sul Crazidei tagliavamo quantità maggiori, belle stanghe che si spedivano giù per il tòf e arrivavano al piano. Poi preparavamo la “carga”, più d’una e un po’ più pesante rispetto a quelle che facevamo su per i Fontanoni e d’ intorni, qui il percorso per rientrare a Riva era molto più comodo, in due riuscivamo a trascinare dei carichi che sommati formavano un peso dai tre ai quattro quintali. Nella zona del Crazidei non potevamo stare in tanti a tagliare perché si muovevano parecchi sassi, che diventavano pericolosi per chi stava sotto, quindi al massimo si lavorava in due o tre coppie alla volta, gli altri andavano verso la Pinza fuori dalla traiettoria dei sassi. Rischio e pericolo facevano parte della loro attività sulla Rocchetta: incidenti ne succedevano, purtroppo qualcuno ha perso la vita. Mi ricordo tre o quattro compagni morti, uno era rimasto Annuario 2013

agganciato alle stanghe che scivolavano giù per il tòf nella zona del Crazidei, un altro era stato trovato sopra il proprio carico di legna, mentre attraversava il canale prima della condotta forzata scendendo dai Fontanoni, colpito da un sasso, uno o due scivolarono mentre stavano portando a Riva il loro carico di legna. Non era un impegno per tutti, bisognava essere attrezzati bene fisicamente e sapersi muovere con sicurezza in un’ambiente selvaggio, oltre che aver pratica nell’usare il “manaròt” (mi viene in mente “il canto delle manère” di Mauro Corona). Per loro una giornata sulla Rocchetta rendeva circa come una di lavoro, quindi la loro attività continuava giorno dopo giorno in attesa di nuove opportunità. Qualcosa stava per cambiare giacché era iniziata la costruzione per avviare una nuova industria, il mobilificio Zontini. Siamo ormai quasi alla metà del 1946, il Zontini però non è ancora pronto. Il taglio quotidiano sulla Rocchetta prosegue in attesa della nuova imminente possibilità di lavoro. La montagna è sempre più spoglia, “ormai l’è quasi spelada”. Interviene la guardia forestale assieme alle guardie comunali e si vedono costrette a bloccare la “mietitura” sulla Rocchetta. Oltre che salvaguardare la sua flora, cominciava a nascere anche un problema di caduta sassi sulla sottostante strada della Ponale e della stessa Riva. La decisione era inevitabile nel vietare la continuazione del lavoro delle “ manère”. Cosa potevano fare in attesa dell’avvio dell’attività del Zontini? Franco continua a raccontare: si sapeva che era vicina la partenza produttiva del mobilificio, ma noi non potevamo stare fermi ad aspettare, in qualche modo bisognava guadagnare giornata. Oltre alla legna la Rocchetta ci donava un altro elemento prezioso: il ferro. Come prima si saliva la mattina su per i ” senteri”, non più per tagliare ma per raccogliere le schegge delle bombe. Si formava un carico che variava dai quaranta ai cinquanta chili a testa, riempivamo i zaini e la sera ognuno scendeva col proprio bottino. Una giornata di ferro fruttava circa come una giornata per legna e cosi si 115


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riusciva ad andare avanti anche dopo il divieto del disboscamento. Lo portavamo al recupero che stava in via Canella dal Merighi, lo pesava a tanto il chilo ci pagava. Anche in questa fase, come quando si andava per legna, eravamo un bel gruppo di persone che saliva sulla Rocchetta, trenta o quaranta dipendeva dalle giornate. Dopo la legna, con il ferro la montagna sopra Riva continuava a dare una mano a una parte delle famiglie rivane. Come proseguiva la raccolta e in che zone? A un certo punto le schegge “ non ghè nèra pu, le avevem tolte su tutte” allora abbiamo iniziato a far scoppiare le bombe. Si scovavano quelle inesplose, ma soprattutto si trovavano depositi di munizioni della prima guerra mondiale. Erano bombe da settantacinque millimetri, le mettevamo, una per volta, all’ interno dei fortini (resti di fortificazioni della prima guerra mondiale) gli accendevamo sotto il fuoco e bum, esplodeva ed ognuna rendeva circa sette otto chili di ferro, quindi con cinque o sei esplosioni facevamo il nostro carico quotidiano. Le zone buone per il ferro erano il “ Bochet dei Concolì “, da lì tutto il crinale che sale verso il Giochello, poi andavamo verso” Bocca Denzima” e verso cima Capi. Anche il tratto verso cima S.A.T. era valido, era la parte alta della Rocchetta che frequentavamo in quel periodo. La forestale ci teneva d’occhio, ma ci lasciava fare, conosceva le motivazioni che ci spingevano fino lassù. Le raccomandazioni che ci davano erano di fare attenzione a non provocare incendi, ma poiché lo scoppio era sempre all’ interno dei fortini questo

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pericolo era scongiurato. Qualcuno le disinnescava, il vantaggio c’era, la bomba rimaneva intatta e non si perdeva nemmeno un grammo di ferro inoltre non bisognava aspettare che le schegge diventassero fredde. Naturalmente era più pericoloso e qualche incidente è avvenuto, fortunatamente non mortale. Gli amici e conoscenti dei “ cercatori di ferro” che stavano a Riva erano attenti nell’ascolto delle esplosioni che avvenivano nella parte alta della Rocchetta, la sera quando i “cercatori” rientravano dalla montagna, quelli rimasti al piano gli sapevano dire esattamente quante bombe avevano fatto scoppiare. Franco ricorda un ritrovamento particolare uno dei migliori: ero nella valletta dei Fontanoni mi ero spostato verso il Pollice, una delle cime della valle dello Sperone, eravamo nel periodo della raccolta delle schegge e tra le foglie ne ho vista una. Provo a raccoglierla ma non veniva era come bloccata, inizio a spostare il resto del fogliame e il terriccio, pian piano comincia a prender forma una parte di ruota di una teleferica, pressappoco un terzo per circa settanta chili di buon ferro, ero proprio soddisfatto una delle mie migliori giornate. Mi ricordo che per trasportarla a Riva ho preparato una specie di slitta con stanghe di legna, ho messo sopra la parte di ruota e giù a incassare dal Merighi. Quel pezzo che Franco ha trovato faceva parte della teleferica che da Riva raggiungeva la zona del Pollice, per rifornire il panificio e le cucine in servizio nel periodo della prima guerra mondiale. Domando se oltre le bombe c’erano altri

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modi per procurarsi il ferro sulla Rocchetta: sì, dentro i fortini c’erano putrelle o pezzi di strutture ma troppo pesanti e ingombranti, non riuscivamo a portarle giù a Riva. All’onore del vero c’era un traliccio sul sentiero che prosegue sopra la chiesetta di S.Barbara, un po’ sotto il bivio per Boca Denzima e il Bochet del Concolì, che era preso di mira a colpi di seghetto. Quel traliccio è rimasto sul posto fino al 2012, quando è stato tolto in maniera un po’ più comoda: con l’elicottero. Infatti, la radura in questione è detta “del palon” proprio in “onore” del traliccio ora scomparso. Ora ritornando ai fatti dell’epoca, siamo al 1947, finalmente il mobilificio Zontini inizia l’attività produttiva dando lavoro a quasi ottocento persone, tra cui anche Franco: per noi fu un cambiamento importante avere finalmente un posto di lavoro. Lo stabilimento aveva ottenuto una importantissima commessa (che garantì lavoro per circa cinque anni) per la produzione di camere su ordine del governo Inglese, che donava come riconoscenza ai loro reduci di guerra. Ovviamente non serviva più salire sulla Rocchetta per ferro, ma poi tanti di noi negli anni a venire iniziarono a frequentarla non più per bisogno ma per passione. Comunque per tutti noi che abbiamo vissuto quel periodo difficile del dopoguerra, la Rocchetta è stata la nostra salvezza, come una miniera a cielo aperto, in particolare ricordo con affetto e piacere l’amico Bruno Bordignon, compagno con cui formavo una Annuario 2013

solida e affiatata coppia, sia per legna che per ferro. Nel fine ottocento nell’America settentrionale era in pieno vigore la corsa e la caccia all’oro, anche nell’alto Garda nel 1945/1946 c’è stata una caccia all’oro, quello della Rocchetta: legna e ferro. Nel 2012 è stato festeggiato il quarantesimo anniversario della ferrata dell’Amicizia alla cima S.A.T. Ferrata ardita, pensata e realizzata all’inizio degli anni settanta dai volontari del GRAM (gruppo rocciatori e d’alta montagna) della S.A.T. di Riva del Garda. La sua caratteristica principale sono una serie di scale di ferro che superano dei salti di roccia di quaranta e cinquanta metri. Al sapore di una favola, ma forse non è solo fantasia, pensare che parte di quel ferro portato al piano nell’immediato dopoguerra, sia ritornato sulla Rocchetta non più sotto forma di bombe ma di scale, che formano la ferrata che conduce alla cima S.A.T. detta via dell’Amicizia.

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Sui monti Scarpazi di Silvio Santoni “Bacon” gari nei campi d’estate all’ombra delle vigne o di alberi da frutto e d’inverno nel caldo della stalla, dove si stavano consumando gli ultimi filò. Il nonno e la nonna raccontavano di quel periodo che entrambi avevano vissuto intensamente; dalle loro labbra uscivano storie meravigliose, che io ascoltavo con attenzione. Udii per la prima volta nomi come Austria, Boemia, Moravia, Galizia, Ungheria, Romania e Russia. Il nonno mi diceva che il cervello dell’uomo è come una grande credenza con un’infinità di cassetti, dove vengono riposte le cose che si apprendono; la memoria è la chiave che apre questi scrigni e ne esce il prezioso contenuto. Ora finché avrò l’uso “della chiave” aprirò questi cassetti e vi racconterò le storielle del “vecio” Silvio, soldato del Kaiser “Cecco Beppe” classe 1892, nato ad Arco di Trento. Narrerò pure il racconto della sua sposa la nonna Gisella classe 1901 sfollata nel 1915 con tutta la sua famiglia da Bolognano d’Arco, nell’Austria inferiore. Inizierò da buon cavaliere con il racconto della nonna. Mi raccontò che partirono una mattina da Bolognano d’Arco con le poche cose che avevano, caricate sopra il carro trainato dal bue. La prima tappa fu a Vezzano, dove nelle scuole trascorsero la notte. Il secondo giorno giunsero a Trento e poi a Gardolo, qui i soldati austriaci requisirono il carro ed anche il bue. Li caricarono tutti Mistelbach (Austria inferiore), Giuseppe Righi con la moglie Rosa Armani con i figli Antonia, la nipote Lina, la figlia Gisella e il figlio Mario, di Bolognano d’Arco - Foto su un treno con direzione Bolzano, entrarono in Auarchivio famiglia Santoni Nella mia infanzia ho trascorso lunghi periodi con i miei nonni paterni, che vivevano nella cittadina di Arco. Tempi ormai lontani ma nei miei ricordi sempre vicini. I vecchietti erano contadini, con le loro antiche consuetudini e tradizioni, con noi bambini c’era molta “vicinanza”, direi maggiore che con i nostri genitori. Ci insegnavano con semplicità il modo di affrontare la vita, la manualità quotidiana contadina, l’economia, il rispetto alla religione e agli adulti. Li ricordo sereni e tranquilli; avevano il tempo di ascoltarci e di raccontarci storie, fatti da loro vissuti, grandi e piccoli aneddoti, proverbi e modi di dire. Avevano vissuto la prima guerra mondiale, poi il periodo fascista ed il secondo grande conflitto mondiale. Ricordo che i loro racconti riguardavano principalmente il periodo della prima guerra mondiale, che forse li aveva più fortemente coinvolti. Le storie, le raccontavano nelle pause di lavoro, ma-

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stria, nei pressi di Vienna li fecero scendere e nei giorni successivi li alloggiarono nel villaggio di Laa Obersoderle, posta Strandorf. Qui per circa un anno abitarono in una casa di contadini dove il proprietario si chiamava Anton Majer furono trattati bene non mancò mai da mangiare. La nonna mi disse: “Là, morì mio fratello Achille e in quella terra straniera fu sepolto. Franzele il fratello maggiore era sergente dei Kaiserjäger e combatteva sul fronte italiano nel Friuli; questi nel 1916 disertò e passò in Italia. A quel punto per noi le cose cambiarono; ci fu tolto il sussidio di guerra e fummo trasferiti a Misterbach in una casetta costruita in origine per ospitare ufficiali invalidi. Fu molto duro tirare avanti, infatti io e mia sorella Antonia lavorammo anche in una fabbrica militarizzata; si pensava sempre alla nostra casa al paese natio, ai parenti, al nostro

Loc. Emus 1917, Silvio Santoni e Giulio Lutteri, Arco (TN) - Foto archivio famiglia Santoni

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trentino. A guerra finita ritornammo finalmente nella terra degli ulivi, ma là in Austria restò parte della nostra famiglia e dei nostri affetti. Qui finiscono i miei ricordi delle storie della nonna riguardanti il periodo di guerra 1914-1918. Ora vi racconterò quella del soldato Silvio, cercando di narrare gli avvenimenti il più ordinatamente possibile. Partiamo dunque da Lienz in Austria dove fece il “quadro”, centro addestramento reclute. Diceva che la disciplina era dura ed anche l’addestramento e ci si doveva preparare per la guerra che ormai dilagava in tutta Europa. Mi raccontava che al “quadro” durante le esercitazioni era il più veloce della caserma nella corsa, della grande fame che pativano, di come scarseggiassero i viveri. Una volta mi raccontò che con un commilitone presero dal magazzino di nascosto due coperte se le arrotolarono attorno alla vita e indossando il pesante pastrano, riuscirono ad uscire dalla caserma senza essere scoperti dal corpo di guardia, camminando per un bel po’ fino ad una casa di contadini dove barattarono le coperte con del pane e delle uova. Mi spiegò anche che non è una bella cosa rubare, ma quando si ha fame si fa questo ed altro e non bisogna mai farsi meraviglia se un uomo ruba per sfamarsi. Dopo l’addestramento disse: “Venni inviato sul fronte del Garda sul monte Oro e sulla Rocchetta come addetto alle teleferiche per rifornire le trincee e a tirare i fili spinati. Ricordo, disse quella volta, che mi trovavo con altri soldati sopra il paese di Biacesa, portavamo con dei cavalli con il basto rotoli di filo spinato, quando un colpo d’artiglieria sparato dagli Italiani, scoppiò lì poco distante, spaventò moltissimo i cavalli che si imbizzarrirono; il cavallo bianco quello che conducevo io, si mise a correre all’impazzata, in direzione dei reticolati, in basso verso la linea e le trincee dei “taliani”. La povera bestia si fermò impigliato dentro i fili spinati, il rotolo che era sul basto si mise di traverso e ferì l’animale ad una coscia. I “taliani” si misero a sparare con i Annuario 2013


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moschetti, il cavallo era destinato a restare laggiù tutto il fronte di guerra sulle montagne, dall’ a morire di stenti o colpito da qualche proiettile. Ortles alle Dolomiti Orientali. Non so cosa mi prese, partii di scatto verso l’ani- E non risparmiò neppure quello della Rocchetta male giù in basso, non avevo lo spirito dell’eroe con distruzione di baracche e soldati morti. Pure però dovevo fare qualcosa; giunsi sotto i colpi lui fu travolto ma riuscì ad uscire incolume dalla dei cecchini fino al cavallo gli slegai il basto baracca dove si trovava che fu quasi interamente liberandolo dai fili spinati, poi lo colpii forte con distrutta. una rama, parti come un razzo verso l’alto, io lo Qui finiscono il ricordi della zona Rocchetta e segui di gran carriera, giungemmo tutti e due monte Oro. sani e salvi, al sicuro alle nostre trincee i compa- Parlerò ora del periodo trascorso sul fronte oriengni urlarono e cantarono di felicità, il sergente tale in Galizia e sui monti Scarpazi. si complimentò per la mia azione. Penso che i Disse che quando lui giunse sul confine con la “taliani” avessero capito la situazione e volessero Russia le grandi battaglie erano terminate, oltre lasciar vivere il cavallo e quel matto che era andato a liberarlo. Una volta chiesi al nonno: “Tu in guerra quanti nemici hai ucciso?”. La sua risposta fu: “Neanche uno.” Ed io insistetti: “Ma non sparavi mai?”, e lui mi disse: “Si a volte sparavo, miravo ai sassi o in aria” Così appagò la mia curiosità. Chissà cosa avrà fatto veramente il vecchio, però a me che ero un bambino fece credere cosi. Ancora mi raccontava: “Quando ero alle teleferiche e dovevo andare alla stazione a monte per non fare i lunghi e ripidi sentieri, io salivo sui vertiginosi carrelli, così risparmiavo inutili fatiche”. Silvio Santoni senior, primo a sinistra (Monte Rocchetta di Riva del Garda Mi parlò dell’inverno del 1916, che 1916, servizio alle teleferiche) - Foto archivio famiglia Santoni fece freddo e molta neve; lui si trovava lassù sulla Rocchetta. Mi disse quanto fastidiosi fossero i pidocchi. Una volta mi spiegò non ne potevo proprio più, mi tolsi tutti i vestiti e li misi a bollire in un pentolone con del disinfettante, mi lavai per bene quando i vestiti furono asciutti gli rimisi, ma il giorno dopo ero pieno di pidocchi come prima, questi fastidiosi animaletti cercavano il pulito. Mi parlò anche delle valanghe che in Reticolati al fronte (1914/18) - Da libro quel inverno del 1916, flagellarono Annuario 2013

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il fronte i Bolscevichi erano in rivolta e udiva le urla e i combattimenti, la grande Russia era in fiamme. Dopo l’armistizio entrammo con dure marce forzate in Romania, ricordava le estese pianure, coltivate a frumento, le povere capanne dei

Tomba sugli Scarpazi (1914/18) - Da libro

Artiglieria d’alta quota - Da libro

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contadini dove vivevano miseramente. Mi disse delle piaghe sui piedi e tra le gambe, non c’erano pomate e si usava ungersi con un pezzo di lardo. Qualcuno cadeva svenuto o sfinito allora i barellieri lo visitavano e se stava proprio male lo caricavano su di un carro infermeria trainato da cavalli. Non c’era molta acqua e si aveva sempre molta sete, una volta feci come i cavalli bevetti l’acqua da una pozzanghera, non lo avessi mai fatto mi venne una terribile dissenteria credetti di morire, ma ero giovane e forte e anche quella volta me la sono cavata. Mi disse che dopo la conquista della Romania la fame calò, i ben forniti granai Rumeni avevano dato per un po’ pane all’ affamato esercito Austro Ungarico. Della Galizia, dell’Ungheria e della Romania, il nonno portò un bel ricordo, in particolare della gente che era buona e se poteva dava sempre qualcosa ai poveri soldati. Parlò anche di quella volta che dovevano posizionare un enorme cannone, che era trainato da una gran quantità di cavalli e uomini, e che davanti a tutta la comitiva c’era un asinello, con una corona di fiori attorno al collo. Disse: quando alla fine del 1918 la guerra terminò e fu firmato l’armistizio, ero là in quelle lontane terre su monti Scarpazi. I soldati esultavano di gioia sparavano con i fucili in aria, si accesero grandi fuochi e si bruciò di tutto, carri, attrezzature militari, munizioni, fucili era un caos “en rebalton” tutti volevano tornare alle loro case. Qualcuno era ubriaco buttava “patrone”, munizioni e bombe a mano nei fuochi creando esplosioni anche pericolose. Disse la guerra era finalmente terminata e dopo un lungo viaggio giunsi dalla mia famiglia, ero felice di avere portato a casa la pellaccia. Mi raccontò che qualche giorno dopo essere ritornato dalla guerra, andò con il carro trainato da un cavallo da Arco a Sarche, dove aveva della terra ed una casa. La cavalla che trainava il carro Annuario 2013


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era stata comperata dai fratelli da pochi giorni e sembrava sincera e tranquilla. Stavo, disse, viaggiando sulla strada che da Prabi porta a Ceniga passando sotto le verticali pareti rocciose del Colodri, io stavo sullo “scalà” pianale del carro e dirigevo con le redine il cavallo. Quando ad un certo punto sento un gran colpo in faccia, e nel naso un gran dolore e sangue che usciva abbondante. Li per li pensai ad un sasso che era caduto dalla sovrastante parete di roccia, spronai il cavallo ed in breve giunsi a Ceniga. Qui ad una fontana mi lavai la faccia e una donna del posto mi medicò alla meglio, gli chiesi anche uno specchio per vedere come era ridotta la testa ed in particolare il naso. Ero malconcio ma per fortuna vivo, capii anche da dove era venuto il colpo, era stato un calcio con gli zoccoli ferrati della cavalla. Questa in seguito ci provò ancora ma ormai stavo attento e la “porca” non riuscì più a colpirmi. In seguito venimmo a sapere che il terribile equino aveva ammazzato allo stesso modo il precedente proprietario. In fretta ce ne siamo disfatti vendendola da carne ad un macellaio sulla sponda veneta del lago di Garda, spiegandogli bene il suo nefasto difetto, di stare molto attento e di macellarla al più presto, ci assicurò di sì. Chissà, forse il macellaio veneto ben impressionato dalla docilità della cavalla, la volle provare sotto il carro prima di macellarla, però ahimè anche lui fece una brutta fine, venimmo a sapere che l’animale lo aveva colpito a morte. Quella volta avevo rischiato grosso dalla guerra ero tornato sano e salvo e quasi ci lasciavo le penne qui sulla porta di casa. Annuario 2013

Qualche volta ricordo che chiedevo al nonno quali erano i soldati più forti in guerra e il perché l’Austria avesse perso il conflitto. Il vecchio disse che in guerra i Tedeschi erano terribili, disciplinati ben organizzati e feroci e che a costringerli alla resa era stata la fame. Chiedevo ancora e i “taliani”? Quelli sono brava gente diceva, ma a fare la guerra proprio no. Accarezzandomi con le sue grandi e callose mani, sulla mia piccola testolina mi diceva “popo” la guerra è una brutta cosa: “Roba da matti”, ti auguro di non viverla e conoscerla mai.

Teleferica sulle prealpi ledrensi - Da libro

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C.A.I. Day Sulle strade della memoria di Claudio Martinelli Domenica 3 Marzo 2013 la sezione rivana della S.A.T. in collaborazione con l’Associazione 1T2F “ un territorio due fronti ” e la sezione A.N.A. Alpini di Nago ha celebrato il 150° anniversario di fondazione del sodalizio C.A.I. “Club Alpino Italiano”. Alla S.A.T. toccava il compito dell’organizzazione logistica in generale, alla 1T2F d’accompagnare con le guide Ezio Cescotti, Mario Tranquillini, Nino Mazzochi e la fotografa ufficiale Giuliana Baldessari. Agli Alpini la preparazione della parte enogastronomica della manifestazione. Notoriamente la nostra aggregazione è capace di movimentare grandi numeri di partecipanti alle svariate iniziative che via via si organizzano, ma stavolta il risultato è stato veramente eclatante, in quanto si è arrivati a più di 550 persone presenti. Il ritrovo è stato fissato alle 9,30 nel parcheggio di porto San Nicolo’ e già da subito si è capito che la giornata si presentava piuttosto impegnativa. Per far si che tutto si svolgesse al meglio si sono creati vari gruppi che dovevano partire scaglionati per e v it a re s o vraffollamento o ingorghi all’arrivo. Il mio compito, come per altri “ciceroni”, era quello di dare qualche informazione storica su quanto si presentava ai Annuario 2013

nostri occhi e su quanto avremo visto nel proseguo della giornata. Il solo girare lo sguardo su quanto ci circondava era sufficiente per ricordare la quantità di eventi che sono susseguiti nell’arco dei millenni. Non è certo dall’epoca romana che inizia la storia locale ma va ben più addietro nel tempo. Tornando al Forte San Nicolò esso fu costruito tra il 1860 e il 1861 in una posizione davvero strategica alle falde del Monte Brione per sbarrare la strada per Torbole e affacciato sul lago di Garda per controllarne la navigazione. Esso fu ammodernato nel 1911-1912 con l’aggiunta di sei cannoni da 90 mm e potenti fari per illuminare durante la notte lo specchio d’acqua antistante, era capace di ospitare una guarnigione di 169 uomini. In quegli anni Italia e Austria oltre alla Germania erano alleate, con un patto di reciproco aiuto in caso di attacco nemico. Tuttavia, a scanso di brutte sorprese, da ambo le parti si costruirono o ammodernizzarono delle imponenti fortificazioni su tutta la linea di confine nazionale. Oltre al San Nicolo’, nelle nostre zone, ricordiamo il Forte Garda, la Batteria di mezzo, il Forte San Alessandro, la tagliata del Ponale e il Forte di Nago (Strassensperre Nago). Quest’ultimo costruito dal 1 giugno 1860 e terminato il 5 gennaio 1861 con blocchi di pietra si definisce di “prima generazione” ossia completamente fuori terra. È composto di due casematte che all’epoca erano collegate con scale ed avevano dei portoni di ferro per poter sbarrare la strada rotabile. La guarnigione contava cinque ufficiali e 148 uomini. Nella valle dell’Adige detta appunto “valle dei forti” ricordo la presenza dei Forti: Rivoli 125


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(Wohlgemuth), Ceraino (Hlawaty) e Monte (Mollinary) che potevano sbarrare completamente la stretta del fiume Adige. La visita ai resti del Castel Pénede, da cui si gode un panorama stupendo verso il lago ed il Monte Baldo, ci ha permesso di ricordare la sua storia. Esso era, per la sua posizione, molto importante strategicamente e ne è documentata l’esistenza dal 1210 quale presidio dei signori d’Arco, vassalli del principe vescovo di Trento. Col passare dei secoli è stato ammodernato più volte per mantenerlo efficiente contro i progressi dell’arte bellica ed i suoi armamenti. All’interno risiedevano il Capitano militare della guarnigione ed il Commissario, che per conto del feudatario, amministrava la giustizia civile e penale per la popolazione del territorio limitrofo. Possiamo dire che la sua vita attiva ebbe termine il 27 settembre 1703 ad opera del tristemente famoso generale francese Vendòme che ne ordinò la distruzione lasciando dietro di sé solo un cumulo di macerie. Chi fosse interessato ad approfondire la conoscenza storica del castello oggi ha solo l’imbarazzo della scelta sulla fonte a cui rivolgersi, in quanto le informazioni acquisite sono numerose e facilmente accessibili. Ma torniamo alla nostra giornata, dopo essere scesi dal colle fino all’abitato di Nago abbiamo incrociato la famosa valle di Santa Lucia che fu via terrestre delle navi veneziane. Queste tratte in secca dal fiume Adige in Vallagarina, furono trascinate fino a Torbole per essere immesse nel Garda per combattere i milanesi allora padroni del lago. Attraversata la fertile campagna naghese siamo quindi saliti sul promontorio panoramico in località la Gort, dove gli alpini di Nago coadiuvati dalle gentili consorti ci aspettavano con una fumante pastasciutta. Sarà stato per la passeggiata mattutina che ha preparato un certo appetito o per la squisita preparazione del “rancio alpino” sta di fatto, che tutti erano soddisfatti e non è avanzato nulla. Non voglio dimenticare di 126

ringraziare Giuliano che ci ha offerto il suo vino frutto di un’uvaggio di sua ispirazione. Dopo esserci rifocillati e riposati si è iniziata la discesa verso le Busatte di Torbole e poi su per il sentiero forestale che conduce a Tempesta, attraversando la zona delle marocche di Torbole fino al “Salt de la cavra” da cui si gode un panorama stupendo. Si è iniziata qui la discesa verso il salto di “Corno de Bò” utilizzando in tre punti separati le comode scale in ferro, che con i loro 411 gradini totali, ci portano velocemente a valle percorrendo un ambiente caratterizzato dalla classica macchia mediterranea con i suoi frassini, lecci, roverelle, alloro e piante termofile in genere. Indimenticabile resta anche il viaggio di ritorno a Riva con l’utilizzo dei potenti motoscafi appositamente chiamati in servizio per la nostra escursione. A conclusione penso che sia stata, per chi non aveva mai percorso prima questo tragitto, un’esperienza unica ed affascinante sicuramente da riproporre in futuro, per poterla rivivere noi e per offrire l’occasione anche a coloro che non hanno partecipato, ma che leggendo questo diario, è sorta la curiosità e l’interesse. Bibliografia: Gruppo culturale Nago-Torbole-Castel Pénede. Internet - Wikipedia - l’enciclopedia libera.

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Lago di Loppio Stato avanzamento lavori di Fabio Dal Rì, Paolo Ferrari Il numero precedente dell’Annuario (2012) della S.A.T. riporta un articolo con la storia del Lago di Loppio, i progetti di recupero e gli interventi effettuati. Si ritiene doveroso fornire qui un aggiornamento fino al 2013 degli interventi successivi. Nel 2012 veniva iniziato ed ultimato dalla P.A.T. un intervento per captare acqua dal corpo roccioso situato al lato Sud della S.S. n. 240 di Loppio e Val di Ledro e riversarla nell’alveo del Lago di Loppio. (Ultima parte Progetto n° 2 P.A.T. del costo preventivato complessivo pari a 2.700.000 €)

In particolare l’Impresa appaltatrice CARRON S.p.A. di Treviso, subentrata all’Impresa COSBAU S.p.A. di Mezzocorona fallita, affidava in subappalto all’Impresa Imprefond l’incarico di effettuare, in variante, quattro lunghi fori orizzontali a partire dal fronte roccioso della galleria artificiale precedentemente realizzata dalla COSBAU sotto la sede della Strada Statale. L’Impresa subappaltatrice Imprefond, tra il marzo ed il novembre 2012, realizzava 5 perforazioni con trivella del diametro di 127 mm., con pendenza verso il Lago del 10%. Le prime

Lago e vigneto dall’alto da est (archivio Ivo Cipriani) Annuario 2013

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Acqua nell’emissario (archivio Ivo Cipriani)

tre della lunghezza di 200 metri, la quarta di 500 metri, la quinta di 575 metri. L’intento delle perforazioni era quello di drenare acqua dal versante roccioso della montagna per il ripristino ambientale del Lago di Loppio. Il risultato dei lavori di perforazione si è dimostrato purtroppo un insuccesso. Infatti per 7 mesi, da aprile ad ottobre del 2012 dai fori non è uscita una goccia d’acqua. Solo nel mese di novembre 2012, in occasione del lungo periodo di piogge intense verificatosi in zona, con notevole ma effimero innalzamento del livello del Lago, dai fori n° 1 e 3, 4 e 5, (in ordine cronologico di esecuzione), è uscita solo una trascurabile quantità d’acqua. Dal foro n° 2 non è mai uscita una goccia d’acqua. Dal gennaio 2013 in poi, anche gli altri quattro fori sono ritornati asciutti. Quindi la canaletta in c.a. della sezione 50 x 60 cm, lunga circa 70 metri, nel frattempo realizzata per recapitare nel Lago 128

l’acqua captata dai fori, rimane desolatamente vuota. È provato infatti che dai cinque fori esce un po’ d’acqua solo quando la falda si innalza, in periodi eccezionalmente piovosi. L’esito negativo dell’intervento appena realizzato non dovrebbe peraltro demotivare coloro ai quali competono i progetti e gli interventi necessari a raggiungere l’obiettivo di ripristinare l’ambiente del Lago. Visti i risultati, si dovrebbe quindi proseguire ora nel mettere in programma l’attuazione del progetto n° 1 della P.A.T. In tale progetto sono contemplati sia gli aspetti strutturali della Galleria Adige-Garda, sia gli aspetti ambientali del bacino lacustre. È previsto in particolare il consolidamento strutturale del rivestimento in calcestruzzo della Galleria e l’impermeabilizzazione dello stesso e della roccia adiacente, per il tratto (400 metri circa) situato al di sotto dell’alveo del Lago di Loppio. (La galleria Adige-Garda è lunga circa 10 km). Annuario 2013


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Infatti l’acqua (potabile) che esce dalla Galleria Adige-Garda è dell’ordine di 600-1000 litri/ secondo e viene captata quasi esclusivamente in questo tratto. Un semplice calcolo che tenga conto dei fattori idrogeologici e geotecnici presenti consente di determinare l’acqua necessaria al ripristino ed al mantenimento del Lago. Il progetto n°1, tecnicamente ed economicamente realizzabile, potrebbe risolvere definitivamente il problema. Attualmente, dato il periodo di crisi, ci si dovrebbe dedicare a studiare a fondo il progetto n° 1 della P.A.T. per ottimizzare gli interventi fattibili. Per le necessarie risorse, trattandosi di Sito di Importanza Europea dovrebbe essere utile, da parte di chi ha le competenze, attivarsi per accedere anche ai finanziamenti della Comunità Europea, disponibili e previsti per opere di ripristino ambientale. Perché queste note?

È compito di tutti quanti hanno a cuore il problema, e tra questi l’Associazione “Amanti della Natura per il ripristino del Lago di Loppio”, la quale è instancabilmente attiva, prendere nota dei fatti e riferirne, con lo scopo che l’argomento, con il trascorrere del tempo, non cada nel dimenticatoio e venga invece mantenuto sempre vivace ed aggiornato, mantenendo aperto il dialogo con un fattivo dibattito tra Progettisti della P.A.T., Amministratori e quanti interessati.

Il lago da ovest (archivio Fabio Dal Rì)

Il lago da ovest dall’alto (archivio Ivo Cipriani) Annuario 2013

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Il cammino dell’aquila Trekking attraverso il granvenediger austria di Ingrid Gasperi 30 luglio - 3 agosto 2012 Giro ad anello con partenza a Pragraten in Virgental Ingrid, Lorena, Martina, Debora e l’ immancabile Isabella (non è un trekking senza cane!) PRAGRATEN - RIFUGIO BONN MATREIER 30 luglio... finalmente si riparte! È già passato un anno dall’ultimo trekking e siamo pronte per una nuova avventura. Abbiamo arruolato un nuovo membro della comitiva, la mia compagna di classe Debora, è la prima volta che viene in

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montagna con noi e oggi il suo zaino è grande come lei. La vedo dura... La sveglia è prestissimo perché il viaggio in macchina è lungo, ma alle 9.00 puntuali lasciamo la macchina a Pragraten e iniziamo la lunga salita che in circa 7 ore ci porterà al rifugio Bonn Matreier. Saliremo di ben 1500 m di quota. Siamo molto curiose: è la prima volta che valichiamo il confine per un trekking in Austria, ma siamo fiduciose e lo abbiamo organizzato bene. Più o meno tutte parliamo un po’ la lingua (dopo tre anni di liceo il prof. di tedesco non

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sarebbe felice di sapere che Debora e io non ce la caveremo molto bene, infatti sarà mia madre a condurre la maggior parte delle conversazioni). Grande l’entusiasmo, grandi gli zaini, grande la fatica... Infatti si comincia fin da subito a salire lungo una Via Crucis decisamente ripida, e tra la nebbiolina e la pioggerellina fine l’atmosfera rende il bosco misterioso e quasi inquietante. Al termine della Via ci sono tre enormi croci con Gesù e i due ladroni... tutti senza denti. Nel frattempo ci accorgiamo che due signore anziane stanno venendo su per il sentiero che noi abbiamo fatto sudando sette camicie come fosse niente! L’orgoglio ci costringe a proseguire più veloci. Facciamo una prima tappa ad una malga che consigliamo vivamente. Dal fuori sembra una casetta bellissima ma chiusa, e solo girandoci intorno troviamo una piccola porticina sul retro.

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All’interno ci accoglie una famiglia gentilissima, con il caldo della loro stufa, il brodino del giorno e dei giganteschi krapfen all’anice strepitosi. Le signore di prima ci hanno raggiunto e ci offrono la merenda, si vede che la cortesia è di casa da queste parti. Si riparte. Il sentiero è davvero ripido e la foschia non si dirada, anzi a tratti peggiora fino a che non si vede neanche a un palmo dal naso. Nonostante questo non ci perdiamo, anche perché i sentieri sono ottimamente mappati e ci sono gli ometti che indicano la via praticamente ovunque. Anche se ci perdessimo, su ogni cartello che indica le direzioni dei vari sentieri, c’è sempre un adesivo che riporta le coordinate: latitudine, longitudine e altimetria. Se dovessimo avvisare i soccorsi ci metterebbero un attimo a trovarci, sarebbe molto utile anche qui in Italia. Dopo qualche ora e una molto, molto, molto

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ripida salita (ci rendiamo subito conto che qui i sentieri a Z non sono molto in voga), ci appare la prima meta, il rifugio Bonn Matreier Hütte a quota 2750m. Ci arriviamo dall’alto, dopo aver sceso una forcella ed essere risalite dall’altra, e la struttura appare dalla nebbia all’improvviso; sembra proprio tetro, tutto ricoperto di tegole di legno in mezzo al grigiore, ma con nostra sorpresa veniamo accolte dai gestori che ci vengono incontro con grappa e una bevanda rossa e analcolica per me e Debora. Ci accompagnano alla nostra stanza - esatto, niente cameroni! -, in cui su ogni letto ci aspettano piumini e coperte di pile blu, che probabilmente non serviranno perché fa davvero calduccio. E il meglio deve ancora arrivare: andiamo in bagno e l’acqua è... calda e abbondante! Rispetto agli anni precedenti in cui a stento trovavamo la doccia è decisamente un bel passo avanti. L’unico problema è

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il cibo: scordatevi gli spaghetti al ragù nei rifugi austriaci. Benvenuto brodino! 2° GIORNO: RIFUGIO BONN MATREIER RIFUGIO SAJAHUTTE Dopo una così bella dormita siamo pronte per svegliarci presto. Io e Debora siamo un pochino sotto sopra da guardare, tutte spettinate e ancora stanche, ma al pensiero della colazione ci vestiamo in fretta e scendiamo. Purtroppo, le uniche ad essere soddisfatte siamo io e mia madre, mentre Martina e Debora non sono molto felici di pane nero a volontà e salami. Quando finalmente usciamo dal rifugio Isabella si dimena per liberarsi dal guinzaglio, e in vena di procacciarci il pranzo - e si, il mio cane è convinto che le marmotte siano commestibili - ci precede lungo il sentiero che scende abbastanza fino i 2400m di quota per aggirare il versante meridionale. Si entra nella Timmeltal scavalcando ruscelli, praticelli fioriti e tane di marmotta. Rimanendo a mezzacosta si attraversa tutto il versante, e, accompagnate da un primo meraviglioso raggetto di sole che scalda a tal punto, ci mettiamo in maniche corte. Isabella è particolarmente felice e scattante, non lo sono altrettanto le fotografe ufficiali, Martina e Debora, che cercano invano di fare qualche bella foto a mucche, uccellini e marmotte. Ogni tanto dobbiamo mettere il guinzaglio a questo psicotico del nostro cane, perché temiamo davvero che le venga un infarto a forza di salire e scendere per la vallata. Incontriamo a mezza giornata il rifugio Eisseehütte, che piccolo si staglia tra i prati. Plachiamo la fame con qualche barretta, thé caldo e brodino del giorno - che novità - e nel frattempo il sole se ne va lasciandoci al freddo. Debora beve una specie di succo... tisana... bevanda rossa dal nome impronunciabile, è la nostra nuova scoperta, credo sia mirtillo ed è molto dissetante. Riprendiamo il cammino tra prati fioriti, colorati e profumati, irrigati da qualche torrente 133


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dall’acqua pulita e fresca; la mappa ci spiega che i raccolti vengono usati anche per produrre tisane e infusi di pregio. Marmotte e mucche sono onnipresenti, e persino dall’altra parte del versante, molto più in alto e in pendenza di noi, qualche mandria sta brucando. Nessun dubbio che qui il latte sia buono, queste sono proprio delle Signore mucche. Il sentiero prosegue quasi infinito lungo un pendio scosceso e siamo costrette a legare il cane definitivamente, prima che in uno dei suoi folli inseguimenti non riesca più a risalire. Dopo un po’ crediamo di esserci perse, visto che continuiamo a scendere, ma fortunatamente girato il versante si ricomincia a risalire - quindi forse non è proprio una fortuna. Io e Debby restiamo indietro tanto per cambiare, ce la raccontiamo, ci lamentiamo dei compiti per le vacanze, ci guardiamo intorno, facciamo foto ai fiorellini, facciamo finta di capire quando altri montanari austriaci si fermano per chiacchierare... Non acceleriamo nemmeno quando dopo una curva

ci appare la splendida vista del ghiacciaio, e sulla destra tra dei picchi che formando quasi una conca, si staglia il rifugio Sajahütte, più simile a un castello che a un rifugio. È davvero splendido, a quota 2600m è un rifugio privato, l’unico in cui non accettano la tessera S.A.T. a differenza degli altri, dove grazie a questa, abbiamo pagato esattamente la metà. Nonostante questo, all’interno è come un albergo, con camere spaziose e quasi lussuose, con piumini, coperte, lavandino, specchi e armadi. I bagni sono ancora più grandi e naturalmente con il riscaldamento e l’acqua calda. Oggi siamo davvero molto affamate, così mentre giochiamo a carte chiediamo un sacchetto di patatine da sgranocchiare. Sacchetto che arriva insieme al famigerato brodino. La cena è cominciata. Aspetta! Sono le 17.20? Poco motivate finiamo il brodino e ci troviamo davanti patate lesse, erba cipollina e poco altro. Dove sei pastasciutta mia? Per lamentarmi telefono a mio nonno in Italia, che stimatore com’è della cultura austriaca mi dice che dobbiamo fare come loro e berci su una... due... tre... quattro birre finché ubriache la fame non la sentiamo più. Grazie nonno! Alla fine della cena, intorno alle 18.00, accendono un proiettore su un maxi schermo e spero che ci sia un film, anche se Martina mi ricorda che sarebbe in tedesco. Alla fine è un documentario sulla ricostruzione del rifugio che nell’aprile del 2002 è stato completamente raso al suolo da una valanga, che con splendide immagini e video originali, spiega gli imprevisti e le difficoltà di otto mesi di lavoro. Il risultato è il rifugio all’avanguardia con le risorse energetiche ecosostenibili in cui stiamo alloggiando. Alle ore 20.30 ci mandano a nanna... 3°GIORNO RIFUGIO SAJAHUTTE - RIFUGIO JOHANNISHUTTE Dopo una bella dormita ci accoglie un cielo limpido e sereno. Ci rimpinziamo a colazione che è l’unico pasto decente e ripartiamo per la breve

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tappa che ci porterà al rifugio Johannishütte a 2121m. Una volta superata la forcella alle spalle del Sajahütte si apre un versante completamente diverso dai precedenti, non ci sono prati ma formazioni pietrose con colori particolare e variegati, e anche a un metro di distanza, la roccia cambia tonalità. Da qui si vede in tutta la sua grandezza il ghiacciaio, ampio, abbagliante e maestoso. Per un primo tratto non si sentono più i fischi delle marmotte, ma avvistiamo un bel camoscio che fiero zampetta da una masso all’altro, come se non fosse pericoloso. Tutt’altra cosa per noi, abbarbicate alla parete per la paura di scivolare. Nemmeno Isa si azzarda a dargli la caccia, probabilmente si è resa conto che arriverebbe in valle in tempo zero. Solo quando più in basso riprendono i prati e i torrenti incontriamo di nuovo mucche e marmotte. Il sole ancora persiste, quindi decidiamo di lasciare le nostre cose al rifugio e dopo esserci riposate un po’ ripartiamo per salire verso il ghiacciaio. La salita è lunga e c’è abbastanza gente, ma nessun italiano, il che è strano visto che il confine è vicino, la qualità dei rifugi eccellenti e il panorama magnifico. Sarà contento il caro prof. di tedesco, mio e di Debora, visto che siamo costrette a parlare tedesco! In circa tre ore arriviamo a 3000m, dove si trova la Defreggenhause, rifugio ai piedi del ghiacciaio, utilizzato spesso come punto d’appoggio per chi decide di fare l’attraversata. Il Granvenediger è davvero molto esteso, tutto intorno a noi, e non oso immaginare negli anni passati, quando il ghiaccio non si ritirava così tanto. L’unico giorno in cui il sole dura ci arrostiamo, infatti ci basta poco per diventare rosse in faccia. Saranno dolori questa sera. Facciamo fotografie a raffica fino all’ora di rientrare. Il rifugio Johannishütte è l’unico in cui ci sono i cameroni da 8/10 persone, ma non è un problema, perché è tutto pulitissimo e silenzioso e in fondo al letto, su una coperta calda, troviamo un cioccolatino, piccolo accorgimento che rende l’accoglienza dei rifugi austriaci sempre impeccaAnnuario 2013

bile. Purtroppo in questo rifugio l’infreddolita, stanca e molto viziata Isabella, che vorrebbe solo infilarsi nel mio sacco letto, è costretta a stare in cantina e a noi piange il cuore. Le organizziamo un accampamento tra cuscini e coperte e poi ci consoliamo con la cena. Qui persino il brodino è appetitoso, specialmente perché seguito da un’insalata così mista da uscire dal piatto, strangolapreti al burro e infine il dolce fatto fresco. Andiamo a nanna stanche, bruciacchiate, senza cane, ma molto, molto sazie e soddisfatte. 4° GIORNO RIFUGIO JOHANNISHUTTE RIFUGIO ESSENER-ROSTOCKERHUTTE È di nuovo mattina e siamo pronte a ripartire. Oggi ci aspetta un tappa lunga che prevede anche di valicare un passo il Tùrmiljoch a 2772m. Lasciamo alle spalle il rifugio e il ghiacciaio per prendere quota lungo un ripido pendio, che io e Debora, affrontiamo con fatica e competizione: non se ne parla che delle signore partite dopo di noi e con qualche bel anno in più ci raggiungano. Dopo qualche ora, stanchissime, raggiungiamo un punto in cui il sentiero spiana e attraversa un ruscello che sembra quasi piastrellato e le cui rive sono composte di fango e fresca e liscia argilla. Non posso fare a meno di fermarmi a giocare, mentre Debora che si è fermata a fare foto, mi raggiunge con le mani sporche e con la macchina fotografica sempre davanti al naso. Raggiungiamo mia madre e Martina che stanno prendendo il sole su uno spuntone di terreno, mentre Isabella abbaia a ogni ciuffo d’erba che si muove. Ma non siamo noi gli individui più strani che si trovano per monti, infatti da sopra scende un uomo dal passo deciso e convinto, se non fosse che tiene in mano un ombrello nero e aperto come se fosse la cosa più normale a questo mondo. Dire che ridiamo è dire poco, e per essere sicure di non immaginarcelo gli scattiamo anche qualche foto. Una nuvola copre il sole e sarà l’ultima volta che lo vediamo, così rimettiamo gli zaini in spalla e ripartiamo. 135


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Anche se sempre in salita il sentiero prosegue meno difficoltoso e molto bello da ammirare. Incontriamo un simpatico gregge di pecore mica tanto docili ed è guerra aperta tra Isabella e il capo bianco e batuffoloso. Quando finalmente riusciamo a trascinarla via, perdente, raggiungiamo un laghetto tra alti picchi rocciosi, e alle nostre spalle possiamo di nuovo ammirare il ghiacciaio. Basta scavalcare un piccolo cancelletto per trovarci in Tibet. Sembra davvero di aver cambiato ambiente, il piccolo piano in cima alla montagna è pieno di leggere bandierine colorate, appese tra ometti di sassi disposti in modo ordinato, quasi sia davvero un qualche tempio tibetano abbandonato. Davanti a noi si apre un’altra vallata in cui in alto si staglia un bellissimo laghetto, di un azzurro particolare e insolito, e ancora più sopra riprende il ghiacciaio, ancora più imponente della parte dietro di noi. Mangiamo un boccone, poi il cielo si scurisce e quindi ripartiamo di buon passo. Non ci vuole molto prima che comincino le prime gocce d’acqua. Indossiamo le nostre mantelle, ma non bastano a trattenere il diluvio che si scatena. Arrivate in fondo ci godiamo il panorama della fantastica vallata nonostante la pioggia. È difficile da descriverla a chi non la vede, è semplicemente meravigliosa. Tutto il prato tende quasi al grigio, anche se punteggiato da fiorellini

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viola e gialli, la montagna intorno a noi sale irta e rocciosa e il cielo nero si riflette sulla roccia e sul ghiacciaio, che ha preso sfumature dal grigio scuro all’azzurro più chiaro. Sembra quasi vivo. Scavalchiamo più di un ruscello grazie a qualche asse di legno, e le numerose deviazioni del sentiero ci fanno capire che tutti i ponti sono crollati per via di qualche piena. Non risulta difficile crederlo visto quanto l’acqua si stia già alzando. In vista del rifugio mia madre e Martina decidono di andare a vedere il Simmonsee, il lago che si vedeva dall’altro versante, mentre Debora e io portiamo la “zuppa Isabella” al caldo. L’ultimo rifugio assomiglia ad un enorme ospedale o a una scuola, ma è molto accogliente. Le stanze sono calde e doppie, quindi noi andiamo a darci una sistemata al bagno (che qui ha pure una doccia con gli spruzzi idromassaggio, utilizzabile con un solo gettone per almeno un quarto d’ora) e poi ci accampiamo nella nostra cameretta. Mi addormento che Debby mi sta ancora parlando. Ci troviamo di nuovo tutte e quattro a cena, che per fortuna è soddisfacente, anche se ci mettono un po’ e la nostra pancia brontola. Finalmente è ora di andare a dormire, anche se niente può impedire a Martina di provare prima quella doccia favolosa. 5° giorno Rifugio ESSENER-ROSTOCKERHUTTE Pragraten Veniamo svegliate la mattina dall’assordante rumore della pioggia. Sconsolate facciamo colazione mentre fuori il tempo continua a peggiorare. L’idea di uscire al freddo e al bagnato non è molto allettante, ma non abbiamo scelta, così come quattro gobbi colorati ci avviamo giù per il cocuzzolo sul quale si erge il rifugio. Ben presto ci si bagnano i piedi, a cominciare dai miei perché i miei scarponi sono proprio messi male, ma non ci vuole molto perché anche le altre facciano la stessa fine. Il sentiero ormai è più un fosso, bisogna fare attenzione, l’acqua scorre veloce e sempre più abbondante, finché tutte in Annuario 2013


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fila dietro a Debora non ci limitiamo a seguire il torrente. Sulla nostra destra il fiume è sempre più arrabbiato e le sue cascate fanno quasi paura. Martina e mia mamma propongono di andare a vedere le cascate di Virgental una volta in fondo alla discesa, contente loro... Raggiungiamo molti metri più sotto, l’inizio della strada sterrata che ci porterà fino al paese più vicino, ed a questo punto ci dividiamo, perché io e Debby ne abbiamo fin sopra i capelli di acqua e delle cascate non ce ne può importare di meno..., anche se poi ci dicono che sono molto belle. Andiamo a rifugiarci con Isa in un bagno per cambiarci e sistemarci, e appena usciamo sorpresa! Il sole. Della serie, scherzi? Comincia anche a fare più caldo, ma non abbiamo voglia di aspettare le altre due e prendere l’autobus che ci porterà a Pragraten per recuperare la macchina, così ci avviamo a piedi lungo la strada asfaltata. Vogliamo solo arrivare alla macchina,

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toglierci gli scarponi e infilarci in una konditorei, che per i non intenditori è la parola tedesca per pasticceria, anche se fanno anche caffè, cioccolate calde, pane, pizza... Già sognando un sacco di leccornie proseguiamo a piedi. Fortunatamente due gentilissimi ragazzi olandesi, che avevamo incontrato alla Defreggenhause, ci offrono un passaggio ed in un attimo siamo a Pragraten, in due invece siamo davanti alla vetrina della Konditorei. Ci sediamo a prendere il sole con una bottiglia di cocacola, un cornetto alla cioccolata e un fagottino alle mele e ricotta, fino a che non arrivano le altre, che seguendo il nostro esempio si fermano a comprare Sacher e torte varie... (giusto per stare leggeri). Saliamo in macchina soddisfatte del trekking di quest’anno, e nessuno può impedirci una tappa alla fabbrica della Loacker, poco distante dal confine. Una bella conclusione per un bel trekking.

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A ottant’anni sul Campanile Spilimberghese festeggia l’80° compleanno scalando il Campanile di Val Montanaia di Renato Camilotti Con l’amico Giorgio Quaranta ne parlavano da anni: festeggiare il suo 80° compleanno sulla vetta di quella montagna, che per loro è la più bella del mondo. L’idea era nata per sostituire le classiche 80 candeline della torta con una “candelona”, il Campanile della Val Montanaia, che Giorgio e i suoi amici, avevano scalato altre volte. La realizzazione del progetto, che prevedeva due cordate, aveva imposto ai suoi tre non più giovani accompagnatori (Renato Camilotti, Mario Lubee e Ruggero Petris) di tenersi alle-

nati, per essere pronti quando sarebbe giunto il momento. Naturalmente anche il festeggiato, nonostante qualche comprensibile acciacco, si era preparato per l’ascesa. Alla fine dell’estate, cioè in un periodo in cui è più facile trovare la via di salita non intasata da altre cordate, i quattro son passati all’azione. Il 20 settembre scorso si son dati appuntamento al Rifugio Pordenone. Giorgio e Mario hanno proseguito poi verso l’alta Val Montanaia, alla base del Campanile, per passare la notte al bivacco Perugini, in

Il brindisi in vetta. Da sinistra Mario Lubee (63 anni), Ruggero Petris (72 anni), Giorgio Quaranta (il festeggiato) e Renato Camilotti (68 anni). Annuario 2013

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modo da giungere l’indomani all’attacco della via, senza sprecare energie. Ruggero e Renato hanno pernottato al Rifugio Pordenone e, di prima mattina dopo due ore di cammino, sono giunti ai piedi del Campanile ricongiungendosi agli altri due. Nonostante le ottime previsioni metereologiche, la giornata non si presentava bene, la valle era invasa dalla nebbia e c’era un freddo umido. La scalata iniziò verso le 9.30 con la prima cordata, formata da Ruggero e Giorgio, la seconda da Mario e Renato. A metà mattina il sole fece svanire la nebbia e la giornata si rivelò perfetta per l’arrampicata, con una temperatura ideale. A mezzogiorno, senza eccessivi problemi, i quattro giunsero in vetta, stapparono la bottiglia di prosecco, che Renato aveva portato nello zaino, e brindarono agli ottant’anni di Giorgio e al successo dell’impresa. Mentre si approntavano le corde per la discesa, giunsero in cima altri due alpinisti: una guida alpina del Cadore con un cliente, un attempato (???) veneziano di nome Bepi. Scesi al Rifugio Pordenone, i festeggia-

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Giorgio Quaranta è nato a Mantova il 27/08/1932 ed è residente a Spilimbergo (PN). Ha trascorso l’adolescenza a Riva del Garda, a cui resta molto affezionato. Di professione marinaio e poi successivamente impiegato. Nata la passione per la montagna, pratica l’escursionismo per molti anni, alla fine degli anni ’80 inizia a scalare vie classiche sulle Dolomiti, successivamente scopre il fascino dell’esplorazione e apre numerose vie su pareti finora inesplorate. Altra attività di rilievo, è la ricerca di falesie da attrezzare e adibire a nuove palestre di roccia.

menti continuarono. All’arrivo della guida e del suo cliente, Ivan, il gestore del Rifugio, calcolò che l’età complessiva dei cinque alpinisti, che quel giorno avevano scalato il Campanile, era di 355 anni. Giorgio ha deciso di concludere la sua attività alpinistica con questa salita, ma gli amici son convinti che la passione lo porterà ancora in cima a qualche altra montagna.

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Uno spigolo del Crozzon di Brenta bagnato con striptease finale di Paolo Ferrari - V.I.P. Chi non è stato mai sorpreso da un temporale improvviso, di quelli giusti, camminando su sentieri di alta montagna? Vi voglio raccontare quello che è piombato addosso a me e mio fratello Donato, mentre arrampicavamo sullo spigolo del Crozzon di Brenta. Era il 1964, roba di cinquant’anni fa, ma indimenticabile, un sabato di luglio; avevo appena finito la sessione estiva degli esami al Politecnico di Milano, ed ero scarso di allenamento. Avevo al mio attivo solo qualche uscita sulle pareti della Grigna. Arrivato a casa Tello mi propone: “Andiamo a

fare lo Spigolo del Crozzon? Sono 1200 metri di arrampicata, in qualche punto un po’ duri, faticosi, ma possono andare bene anche per te.” (Per rendere l’idea, si tratta di una lunghissima arrampicata, corrispondente ad uno sviluppo di circa cento volte quella di una moderna parete artificiale di media altezza). Premetto che Tello era già molto esperto in roccia sulle pareti del Brenta, aveva dalla sua diverse vie difficili sulle Dolomiti, per lui era poco più di un allenamento. Non così per me. Lui si sente sicuro nel prendermi come secondo. Io sono un po’ esitante, ma lui fa presto a convincermi, an-

Bivacco al Crozzon Annuario 2013

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che se lo spigolo mi incute una certa soggezione. Detto e fatto. Partiamo da Riva nel pomeriggio in Vespa e raggiungiamo Madonna di Campiglio e di qui Vallesinella. (Allora si poteva arrivare motorizzati, non come oggi solo con pullminonavetta). Da qui saliamo fino al rifugio Casinei e poi al Brentei. La mattina sveglia alle cinque. Scendiamo sotto il Rifugio per un centinaio di metri, attraversando la Val Brenta ed arriviamo all’attacco del nostro spigolo prima delle sei. Saliamo velocemente le prime tirate di corda. Dopo circa trecento metri il tempo si mette al brutto. Incominciano a cadere grossi goccioloni che non promettono niente di buono. Raggiungiamo due cordate. Dai concitati dialoghi comprendiamo che si tratta di Tedeschi e si sono già fermati su una cengia poco lontano dallo spigolo, al riparo di un piccolo tetto. “E noi, Tello, cosa facciamo?” “Non ti preoccupare, cosa vuoi che siano due gocce d’acqua passeggere, andiamo avanti, stai tranquillo, vedrai che smette subito”. Proseguiamo. Io non mi sento tranquillo del tutto ma, per amore o per forza, lo seguo. L’arrampicata è stimolante, gli appigli sono sani e non mancano, le fessure dove infilare i polpastrelli delle dita si trovano. Tello davanti infila i moschettoni nei fori dei chiodi in modo che io possa fargli sicurezza. Dopo quaranta metri, mi tiene lui mentre salgo e recupero i moschettoni. Anche da secondo dà soddisfazione cercare gli appigli buoni e trovarli, senza uscire mai dal tracciato dello spigolo. Se ci si allontana in qualche tratto difficile, si capita su parete impraticabile, almeno per me. Il fatto è che la pioggia, quella vera, è arrivata, e come. Non smette affatto subito, anzi dopo aver arrampicato per alcune tirate di corda viene giù come Dio la manda. Ma siamo in ballo e bisogna ballare, non c’è dove fermarsi al riparo, siamo del tutto allo scoperto. Ora è il diluvio universale. Mai vista una cosa simile. E non accenna a cessare. L’acqua in certi punti scorre 142

proprio a rivoli sulla roccia. Con le braccia in alto a cercare gli appigli, l’acqua penetra nei polsini della camicia e scende giù. Ora siamo quasi a metà strada. C’è un camino difficile da superare, perché spinge in fuori. La guida Castiglioni dice che è normalmente molto bagnato. Qui ora l’acqua si è incanalata sul fondo e viene giù all’interno proprio come un torrente, una cascata. Andiamo avanti. Adesso l’acqua dopo essersi infilata nei polsini della camicia, prosegue e penetra, arriva sulla pelle del petto e della schiena, fino alla cintura e oltre. Scende lungo le cosce, poi sui polpacci, fino alle caviglie. È incredibile come le braghe alla zuava di velluto assorbano bene l’acqua. Acqua che scorre lungo i calzettoni di lana ed entra alla fine anche negli scarponi. Le tomaie di cuoio si ammorbidiscono ed i piedi fanno plic ploc. Per rendere l’idea è come se fossimo entrati vestiti di tutto punto in una doccia (fredda) e usciti dopo qualche ora; non vi consiglio di provare. Ma ormai tanto vale, Tello non si arrende mai. Prosegue imperterrito sotto il diluvio. Superato il tremendo camino, si va avanti mantenendoci sullo spigolo o poco lontano sulle pareti accessibili vicine. L’acqua non accenna a smettere, “la vegn zo propi a sece”. D’altra parte, arrampicando, almeno i muscoli si mantengono caldi. Luoghi al riparo proprio non se ne vedono. (Se no che spigolo sarebbe?) Siamo così inzuppati che una sosta non servirebbe ad altro che ad infreddolirci. A calcolare dalle ore che sono passate siamo arrivati a metà strada. La difficoltà dell’arrampicata in queste condizioni penso aumenti almeno di un grado. No, qui non si tratta di un comune temporale, quello che il cielo ci scaraventa addosso. Un temporale normalmente dura meno di un’ora. Qui siamo tormentati da un pioggia fitta fitta e violenta che non sembra finire mai. Ora si aggiungono anche raffiche di vento. Sono più di sette ore che si va avanti così, siamo sfiniti. Ma da quello che dice la guida Annuario 2013


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di Castiglioni, cioè che il tratto finale è meno impegnativo del resto, sento che ormai non ci manca ancora molto. Ecco, finalmente ci siamo, siamo arrivati. E sembra proprio una beffa, il nubifragio cessa come per incanto. La nebbia sotto di noi si dirada, le nuvole si vanno dissolvendo, il diluvio è finito. Abbiamo passato otto ore di arrampicata in quelle condizioni, tanto quanto una intera giornata lavorativa di quelle pesanti, senza tregua,

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neanche la sosta pranzo. Il sole, squarciate le nuvole, risplende che è un vero piacere. La temperatura si alza, l’aria è bella pulita. Nella circostanza mi affiorano alla memoria reminescenze letterarie di scuola media. I versi della Quiete dopo la Tempesta di Giacomo Leopardi: “Passata è la tempesta: odo augelli far festa, e la gallina tornata sulla via che ripete il suo verso. Sgombera la campagna e chiaro nella valle il fiume appare; ecco il sereno rompe là da Ponente, alla montagna; ... ecco il sol che ritorna, ecco sorride... Si rallegra ogni core, sì dolce, sì gradita quand’è com’or la vita?... quando dei mali suoi men si ricorda?”... ecc. La fine della bufera, la conclusione dell’arrampicata. L’effetto della quota (siamo a 3135 metri) e della fatica ci rende un po’ euforici. Vediamo come in un miraggio il bel bivacco Castiglioni, proprio adesso, che non ci serve più. Piccolo, su un terrazzo, con il tettuccio e tutto il resto in lamiera zincata, ben ancorato alla roccia con cordini di acciaio, se no il vento se lo porta 143


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via. Scoppiamo in una risata. All’interno è pulito ed ordinato, asciutto, con belle coperte di lana, soffici, ripiegate accuratamente. Ci sono due brandine a castello, in quattro vi si potrebbe dormire bene. Noi non siamo bagnati, ma fradici, dai capelli (allora li avevo ancora tutti) fino ai piedi, fino alle ossa. “mizi come l’ua”. Spossati dalla fatica, ma finalmente rilassati e di buon umore. Il sole splende e ci riscalda. In cielo un falco si libra in ampi giri, le ali tese immobili, portato dalle correnti ascensionali. All’orizzonte tra le nuvole che si diradano in lontananza compaiono i colori dell’arcobaleno. Scattiamo alcune foto davanti al bivacco. La vista attorno è una meraviglia. Di qua si vedono la cima Brenta, il Campanil Basso, l’Adamello, la Presanella, il Carè Alto. Dall’altra parte le Dolomiti Orientali ed il ghiacciaio della Marmolada. A Nord la Tosa, l’Ortles, il Cevedale ed il Gran Zebrù. Ma veniamo al sodo. In non ci penso un attimo. Mi levo tutto quello che ho addosso, zuppo d’acqua. In successione giacca a vento rossa (di quelle di cotone), maglione di lana, camicia, canottiera, braghe alla zuava, calzettoni e scarponi (che sono diventati morbidi come pantofole), ed infine gli slip. Un estemporaneo striptease d’alta montagna, in piena regola, senza spettatori. Prendo una delle belle coperte dal bivacco, morbida e calda e me la avvolgo attorno. Metto tutto quanto sui cavetti di acciaio come su di uno stenditoio. Tello è scandalizzato. Lui si è levato solo giacca a vento, maglione e camicia bagnati fradici, per restare a torso nudo e scaldarsi al sole. “Adesso arrivano le cordate dei tedeschi, chissà cosa penseranno”. La leggera brezza è diventato un bel venticello. Si sente un grande silenzio. La cima del Crozzon è tutta per noi. Soli, ci sembra di essere padroni del mondo, di toccare il cielo con un dito. Ci accorgiamo anche di avere un certo appetito. Siamo in movimento dalle cinque di mattina e sono quasi le due. Le cordate tedesche non si vedono arrivare. È probabile e più che comprensibile che 144

abbiano rinunciato e che siano tornate alla base. Rovistiamo nei sacchi in cerca di qualcosa da mangiare e da bere. Ci sono due panini ma sono ridotti ad una disgustosa poltiglia. Ci dobbiamo accontentare e condividere una Simmenthal, un barattolo di albicocche sciroppate, liquido compreso, due mele e due lattine di Coca Cola. Meglio che niente. In neanche tre quarti d’ora di sole splendente e caldo, con il bel venticello, biancheria e vestiti si sono perfettamente asciugati. Levata la coperta, la ripongo per bene in ordine, mi rimetto addosso tutto quanto, lavato ed asciutto. Non avevo mai apprezzato così la biancheria pulita, fresca come di bucato (con acqua distillata). Per il ritorno dobbiamo raggiungere in circa un’ora la cima Tosa. Si tratta di un percorso che partendo dalla cima del Crozzon, si svolge parte su nevaio, parte su roccia con arrampicata prima in discesa, poi in risalita. Arrivati sulla Tosa scendiamo dal noto percorso del camino ed in un’altra ora di sentiero raggiungiamo finalmente il rifugio Pedrotti, dove possiamo rifocillarci. Da qui, attraverso la Bocchetta di Brenta e la Val Brenta, passando per i Rifugi Brentei e Casinei torniamo a Vallesinella, stanchi morti ma soddisfatti. Presa la Vespa ritorniamo a casa a Riva. Posso dire che è stata un’esperienza magnifica, indimenticabile anche a distanza di cinquant’anni, una difficile lotta senza tregua quasi più contro l’acqua che contro le difficoltà dell’arrampicata, che non sono mancate, una bella avventura, infine anche divertente nonostante tutto. Ma prima un bel lavaggio a bassa temperatura, meglio che in lavatrice, poi un bel bagno caldo di sole, infine uno fresco d’aria sopra i tremila metri, al bel bivacco, chi te li paga? Che cosa ci spinge a queste imprese? dirà qualcuno. Sono cose dure da comprendere e difficili da spiegare. Cerco di aiutarmi raccontandole a nipoti, figli e nonni, ai V.I.P., ai Satini ed a quelli che leggono l’Annuario. Non so quanto ci sono riuscito, io ci ho provato. Annuario 2013


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Monte Rosa e Capanna Margherita DUE GIORNI TRA GHIACCI E ALLEGRIA di Paolo e Ruggero

Monte Rosa, la Capanna Regina Margherita. Il Rifugio più alto d’Europa. Ognuno a modo suo l’ha cullato e coccolato nel tempo il sogno di raggiungere questo traguardo, preparandosi a modo suo per questo affascinante appuntamento. Per molti è la prima volta, altri ci sono già stati. Ma il fascino del ghiacciaio e dell’alta montagna è sempre lo stesso. E grazie ai ragazzi del Gram della S.A.T. di Riva tutti possono provare, o almeno tentare di provare, questa grandissima emozione. Siamo in 35 quasi nel cuore della notte di sabato 28 luglio. Occhi gonfi, sguardi assonnati, chi se ne sta in silenzio e chi non smette mai di parlare. Gli zaini sono carichi di tutto punto. Stefano, Rudy, Ruggero e gli altri hanno preparato con cura ogni dettaglio, dalle picozze alle corde, dai ramponi a tutti i tipi di moschettoni che possono servire. Si parte da Riva, un passaggio ad Arco e poi si raccolgono alcuni partecipanti anche a Rovereto. In pullman, dopo circa un’oretta di chiacchiere e scherzi vari, prende il sopravvento la stanchezza e la prospettiva di un lungo viaggio prima di giungere al nostro punto di partenza. Ad Alagna

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piove e le prospettive non sembrano incoraggianti. Ma non c’è nessuno che ha voglia di tornare indietro. Le previsioni non sono incoraggianti ma il giorno seguente il tempo dovrebbe migliorare. Con due tratti di funivia facciamo un balzo di quasi duemila metri di dislivello. Fa freddo, il vento ti sferza il viso. Ci prepariamo e dopo un “pranzo frugale” ed esserci imbacuccati di tutto punto, intraprendiamo il nostro cammino che in poco meno di due ore ci porterà al Rifugio Gnifetti. L’entusiasmo è alle stelle. Tagliamo la parte bassa del ghiacciaio Indren, saliamo un cordone morenico con l’aiuto di alcune corde fisse per poi aggirare attorno ad un promontorio e portarci sul ghiacciaio Garstelet. Alla nostra sinistra si scorge chiaramente la sagoma del Rifugio Mantova, a destra la chiara traccia su neve che porta alla base del promontorio in cima al quale sorge il Rifugio Gnifetti. Il gruppo si allunga e alla spicciolata arriviamo con calma alla meta di questa nostra prima giornata, a quota 3647 metri. Il sole squarcia le nuvole e la seconda parte della giornata ci regala un cielo terso e la speranza che domani sia ancora meglio. Prendiamo posto nelle camerate, si ride e si scherza mentre Rudy, Stefano, Ruggero e gli altri formano le cordate per il giorno seguente. La cena è ottima, la compagnia altrettanto. Peccato solo il mal di testa (dovuto alla quota) che attanaglia alcuni di noi. Tutti a 145


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nanna, domani la sveglia suona nel cuore della notte. C’è chi dorme di gusto e chi non riesce a chiudere occhio mentre fuori il vento sferza il ghiacciaio e l’isola rocciosa sulla quale sorge il rifugio. Si parte alle 4.30, sveglia un’ora prima per prepararsi e fare un’adeguata colazione. Ma quando arriva il momento di tirarsi su, ecco la brutta sorpresa. Nevica e non si vede nulla a venti metri di distanza. Le previsioni dicono che dovrebbe migliorare ma intanto il tempo scorre e si “mangia” minuti ed ore preziose per rimanere nella tabella di marcia. I ragazzi del Gram e tutti noi non possiamo fare altro che aspettare e sperare. In queste condizioni non si può rischiare, non si vede niente e basta un nulla per finire in un crepaccio. Se alle 6 non migliora, tutto annullato. Le “preghiere” di molti vengono ascoltate. Col chiarore del nuovo giorno smette di nevicare e il cielo si apre. Ma troppo tempo ormai se n’è andato, si decide di puntare al Colle del Lys, a quota 4248, spartiacque stupendo tra il versante nord e sud del Monte Rosa. Comunque un bel traguardo per tanti di noi. Ci si prepara di tutto punto, il vento ti congela anche i pensieri mentre diverse altre cordate oltre alla nostra si preparano per mettersi in marcia e dal Rifugio Mantova arrivano altri temerari decisi ad arrivare alla meta. Si parte, l’entusiasmo è comunque alle stelle e la concentrazione al massimo. La pista che risale il ghiacciaio del Lys è ben tracciata e la marcia procede senza intoppi anche se ovviamente c’è chi fa più fatica e chi deve adattarsi alla marcia del gruppo. Un paio di cordate vanno avanti spedite mentre le altre procedono a ritmi meno sostenuti e si fermano, come da programma mattutino, alla sommità del colle. E così arrivati al Colle del Lys con un cielo meravigliosamente limpido tutti i componenti la cordata si sentirono ancor più motivati a proseguire. Fatti due conti sul tempo a nostra disposizione per arrivare in vetta e ritorno si decide di continuare. Senza perdere tempo iniziamo a discendere brevemente su un lungo 146

traverso abbastanza pianeggiante passando sotto una piccola seraccata che fa parte della Punta Parrot. Nel contempo ci avviciniamo sempre di più sotto il grande muro dal fondo del quale si può scorgere chiaramente la nostra meta, la Capanna Margherita. A questo punto dobbiamo fare i conti con il deciso cambio di pendenza e lo sforzo inizia a farsi sentire in modo deciso e determinato, tutto questo a causa della quota e del ritmo sostenuto. Ad un certo punto sentiamo un grido di chiamata, ci giriamo, e in lontananza riusciamo a scorgere un’altra cordata del nostro gruppo che ci segue. Avere compagnia fa sempre piacere. Abbiamo appena oltrepassato alcuni grossi cubi di ghiaccio che incombono proprio sopra di noi, a causa di uno stacco avvenuto tempo addietro, per raggiungere obliquamente il Colle Gnifetti. Vi assicuro che il vento non manca, ci sferza quel poco di viso che abbiamo scoperto e prepotentemente cerca di entrare attraverso l’abbondante abbigliamento. Ma è da un po’ che le nostre pause sono diventate si soventi ma estremamente corte per non lasciarci sopraffare. E si prosegue imperterriti, l’obiettivo è vicino ma allo stesso tempo sembra quasi irraggiungibile, complice anche il grande sforzo che si fa sempre più insopportabile. Ma non possiamo fermarci o tornare indietro proprio adesso. E anche l’altra cordata ci segue a distanza e anche lei non molla! Raggiungiamo il punto più ripido in assoluto di tutta la via. È l’ultimo sforzo per raggiungere la vetta. Vetta che lentamente vediamo sempre più vicina ma che nella nostra testa sembra ancora così lontana. Non dobbiamo perdere la concentrazione. Ma la grande motivazione vale tutti i nostri sforzi concedendo a tutti i componenti la cordata di raggiungere la vetta. Poco dopo, anche l’altra cordata può festeggiare l’agognato traguardo. Così riuniti tutti insieme con grande gioia e soddisfazione non è mancato un caloroso saluto esternato da un abbraccio ed un grande EXCELSIOR! Annuario 2013


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Da 80 a 30 km il passo è... breve di Andrea Hainzl Una mattina di Agosto di tre anni fa incominciava un’avventura che non mi sarei mai immaginato di portare a termine. Mi alzai presto per evitare il caldo e montato in sella alla mia MTB iniziai a pedalare sui tornanti che portano verso il lago di Tenno, obiettivo andare a trovare mia moglie che era in campeggio con i lupetti scout in località Deggia, vicino a S. Lorenzo in Banale. I primi tornanti fino al lago sono sempre piacevoli e non feci nessuna fatica. Arrivato al lago faccio una breve sosta per ammirare i colori e i riflessi unici che ha l’acqua. Subito affronto la salita che porta al passo Ballino; qui l’unica nota stonata, e non capisco il perché, la temperatura di quel breve tratto di strada scenda di qualche grado. Superato il passo giro a sinistra in una stradina sterrata che porta in località Cornelle, poi una discesa fino a Ponte Arche passando dal Bleggio. Il ritmo era buono e mi sentivo più che bene. In piazza mi fermo per una sosta e approfitto per mangiare qualcosa sotto gli occhi di qualche mamma con dei bambini che mi guardano un po’ sorpresi. Riparto verso Villa Banale dove riempio le borracce e faccio due chiacchiere con una signora alla fontana, riguardanti la mia meta e il tempo. Proseguo, affronto la salita che arriva a S. Lorenzo dove mi incontro con mia moglie e tutti gli scout. È già mezzogiorno, approfitto per fare pranzo (un panino veloce) con loro e g u a rdo a lcuni giochi di Annuario 2013

gruppo. È ora di ripartire anche perché da qui in poi la strada per me è sconosciuta. Mi porto fino al lago di Nembia, giro a destra per seguire i cartelli che indicano Ranzo. La strada è sterrata, inizialmente in salita, poi prosegue con dei saliscendi. Subito dopo una curva incontro una mamma capriolo con il suo cucciolo, loro non sembrano sorpresi perché non scappano, si fanno da parte e mi guardano passare. Dopo circa 45 minuti arrivo al paese. Qui inizia l’avventura: mi trovo su uno stradone senza cartelli in mezzo al paese, dove vado? Fuori da un bar chiedo informazioni e mi dicono di prendere “quella stradina lì che porta al lago Toblino”. Pronti via, ma invece di una stradina ne trovo tre, richiedo indicazioni a una signora che mi dice di andare avanti fino a una croce e girare a destra, mi ritrovo in una strada senza uscita nella boscaglia. Risalgo, e finalmente trovo la strada giusta, una bellissima discesa in ciottolato e cemento che mi conduce a castel Toblino. Penso di essere l’unica persona al mondo che si è persa a Ranzo. Siamo circa al 55° km, la strada per l’arrivo non è lunga, ma un po’ di fatica inizia a farsi sentire. A Sarche prendo la ciclabile, arrivo a Pietramurata, bevo una coca e avanti, pedalo sulla ciclabile che mi porta alla centrale di Fies, l’unico nemico in questo momento è l’ora del Garda, che soffia contro, però non demordo e continuo, anche perché ormai è fatta. Passo Arco, le campagne di S. Giorgio e arrivo 147


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in viale dei Tigli, guardo il contachilometri e segna 80 giusto, a questo punto una bella birra fresca me la merito perché è la prima volta che pedalo così tanto. Questa è praticamente l’ultima “avventura” su due ruote che ho compiuto, perché dal 2011, ho cambiato completamente sport e mi sono avvicinato al mondo della corsa in maniera molto soft inizialmente, ma come si sa la mente umana è diabolica e km dopo km ci ho preso gusto e il 3 giugno del 2012, alle 7.30 del mattino, mi ritrovo a Cortina d’Ampezzo ad affrontare la mitica Cortina-Dobbiaco! Il percorso si snoda sulla traccia della antica ferrovia che collegava le due città. Siamo circa 4500 partecipanti sulla strada principale, si sentono odori di creme e affini da tutte le parti. Sono, sembra strano, solo e ascolto gli altri partecipanti che narrano delle loro imprese. La domanda è: chi me la fatto fare a essere qui? Non sono allenatissimo perché una borsite all’anca non mi ha permesso di allenarmi nel mese di maggio e come esperienze passate ho solo la mezza maratona di Milano. Comunque ormai sono in ballo e ballerò. Ore 9.30 colpo di pistola e si parte. C’è solo il rumore delle scarpette e qualche tifoso che urla bravi. Dopo 2/3 km lasciamo l’asfalto e ci inoltriamo nel bosco su strada sterrata che sarà nostra compagna di viaggio per altri 26 km circa. Il ritmo è buono, il panorama è affascinante, il fiume di persone mette carica e prendo coraggio. Dopo 11 km si scollina, sulla destra si intravedono le tre cime di Lavaredo, ecco sono già appagato, solo questo spettacolo ne è valsa la pena di essere qui. Al 17 km incrocio 148

mia moglie che da Dobbiaco sta facendo il percorso al c ont r a r io i n MTB, un saluto veloce e via. Mi fermo a un ristoro contento, anche troppo, perché non pensavo di riuscire ad arrivare a questo punto (20° km circa). Ma come si sa l’imprevisto è sempre in agguato. Intorno al 23° km inizia un leggero dolore ai polpacci, ma come? mi sono idratato correttamente, ho mangiato anche banane e altro! Non ci penso, cerco di distogliere la mente dal problema, ma inevitabilmente il dramma: crampi a entrambi i polpacci, faccio un po’ di stretching, niente, però non mollo sono in corsa da tre ore circa, ho tempo ancora un’ora e mezza per portarla a termine l’impresa, quindi avanti. Per fortuna la strada è in discesa e al grido di “non mollare mai” con altri due compagni di sventura romani, camminando arriviamo alle porte di Dobbiaco. Ultimo km: nel frattempo mia moglie è mia compagna di viaggio, io cammino, lei in mtb, chiacchieriamo. Mi porta una bevanda fresca (la solita coca che in questi momenti è un toccasana), e mi faccio forza. Mi passa vicino un altro concorrente che mi da il “5” con la mano, allora riprendo a correre con lui e arriviamo al traguardo insieme. Io faccio il gesto di Bolt, anche se non ho vinto niente, però finisco la corsa, 30 km, in 4 ore, prendo la medaglia con su scritto finischis o un roba del genere. Anche qui, come tradizione, mi merito una fantastica birra ghiacciata e con le gambe che praticamente non le sento, torniamo a casa con un ricordo che difficilmente dimenticherò. Annuario 2013


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Sul sentiero degli dei di Alberto Maganzini Dire che l’Italia è un Paese fatto di varietà naturali straordinarie non è mai un luogo comune. In ogni regione italiana si possono incontrare paesaggi diversissimi fra loro e al contempo unici nella loro bellezza. Recentemente ho avuto occasione di confermare questo dato visitando spesso il territorio campano, e salernitano in particolare, racchiuso fra la costiera amalfitana e il parco del Cilento. La Costiera, come comunemente viene chiamata dai locali, è ambiente naturale conosciuto in tutto il mondo. Non solo per le sue “perle” come Positano, Ravello e Amalfi, ma per un po’ tutto l’insieme storico di un promontorio

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unico, che si estende dai monti Lattari fino alla punta di Termini, a poche miglia dai faraglioni di Capri. Un territorio mitico, ambìto fin da età pre-romana, dove anche gli “scogli delle sirene” stanno a testimoniare il mitico peregrinare d’Ulisse. Luoghi dove in seguito nacque, con i commerci in oriente dell’ Amalfi alto medievale, la prima repubblica marinara italiana. Un clima e un mare che sono l’essenza del mediterraneo più dolce e che da sempre favorisce coltivazioni a terrazze di limoni e cedri dal profumo inebriante. La penisola si prolunga in tutta la sua bellezza, in un susseguirsi ininterrotto di calette, scogliere, boschi di lecci e paesini arroccati. Esiste una

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carreggiabile, sul genere della nostra ex- Ponale, che collega Vietri fino a Positano, ma è stretta, pericolosa e molto trafficata. Sapevo che per godere della vista migliore di un po’ tutto il promontorio costiero il modo migliore è percorrerlo per un buon tratto a piedi, su quello che appunto viene chiamato a ragione “il sentiero degli dei”. Così lo scorso dicembre, con un amica per guida, siamo saliti in auto da Amalfi ad Agèrola e da lì alla frazione di Bomerano. Qui si diparte appunto il sentiero a mezza costa (500-700 m ca.), che percorre la costiera e arriva fino a Nocelle, la frazione che sovrasta Positano. Sono all’incirca una decina di chilometri, con difficoltà escursionistiche elementari, in cui solo un breve tratto finale presenta un cordino. Ma più cautelativo che indispensabile. Un percorso a sali-scendi, totalmente nel verde e con un alternarsi continuo di vedute incantevoli fra terra, cielo e mare. Si percorre la costa frastagliata fra boschi di lecci e corbezzoli, dove in alcune gole interne la vegetazione è così frondosa da non far passare la luce del sole. Ogni qualvolta si esce su un belvedere si spalancano vedute impagabili. Nei tratti più favorevoli si trova ancora qualche rudere abbandonato e terrazze con vecchie viti, a dimostrazione dell’antica frequentazione dei luoghi. Oltre alla bellezza dell’insieme, la cosa che m’ha colpito fin dall’inizio è il colore e la qualità della roccia. Perché è sostanzialmente identica a quella nostra alto-gardesana! Ovvero

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dolomia calcarea, che, come da noi, muta dal grigio scuro delle parti più antiche a quello quasi bianco dei tratti franati o sbrecciati. Morfologia che unita ad una vegetazione tipicamente mediterranea, limonaie e uliveti inclusi, fa scoprire un paesaggio che somiglia sorprendentemente alla natura alto-gardesana. Eravamo a fine dicembre e, pur intiepidita a tratti da un sole ancora caldo, la giornata non era delle migliori. Alternava brevi piogge e nubi basse a squarci di sereno improvvisi. Dopo circa due ore di cammino siamo giunti nel piccolo piazzale antistante la deliziosa chiesetta di Nocelle. Da lì s’è spalancata la vista sul piccolo golfo di Positano, con la sua spiaggia e il gomitolo di case che sale alle sue spalle, aggrappate sull’erta costiera. Un posto unico al mondo e non a caso mèta fin dall’ottocento di un turismo d’élite. Volendo avremmo potuto proseguire fino alla vicina frazione di Montepertuso e da lì per una lunga scalinata scendere a Positano. Ma dato che la giornata si stava aprendo sempre più al sereno, decidemmo di tornare sui nostri passi e fare il percorso a ritroso, per poter godere così ancora una volta di quell’incanto “divino”.

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La svolta di Alberto Maria Betta Ci voleva anche la pioggia ... Su quel sentiero scosceso, e per giunta bagnato, scendeva lentamente, cercando appoggi sicuri per i piedi. Era già scivolato due volte e i pantaloni erano tutti infangati. Se pensava a quei tre cretini che l’avevano convinto ad avventurarsi lassù... E lui ancora più cretino che aveva dato loro ascolto. Era lì da solo mentre loro erano scesi di corsa fregandosene di lui che era in difficoltà. Quei deficienti quando li aveva pregati di aspettarlo si erano messi a ridere. “Svegliati!” gli avevano gridato ed erano spariti giù per il sentiero lasciandolo a cavarsela da solo... “Begli amici...” Un lampo seguito da un tuono assordante gli fece accapponare la pelle. Ci mancavano anche i fulmini... Erano passate poche ore da quando il gestore del rifugio raccontava di un alpinista che anni prima era stato trovato carbonizzato sulla Piana lunga... Già si vedeva anche lui accartocciato e tutto nero, anzi se lo augurava. Sì! Così quei cretini si sarebbero consumati dal rimorso, (sempre se ce l’avevano una coscienza della qual cosa lui non era del tutto sicuro, anzi, ne dubitava fortemente). Ah, ma di certo gliela avrebbe fatta pagare, li avrebbe ripagati con la stessa moneta. Erano venuti con la sua macchina? Bene, adesso sarebbero ritornati a piedi! Avrebbero cercato di salire? Lui avrebbe bloccato le portiere e dal finestrino anche lui avrebbe gridato: “Svegliatevi!” e li avrebbe lasciati lì di cacca. Gliela avrebbe fatta vedere a quei bastardi! Crogiolandosi in quei pensieri di vendetta giunse al prato e alzando la testa vide in alto la baita, quella di cui Lorenzo aveva parlato lasciando il rifugio e dove affermava avrebbero trovato una tettoia per ripararsi. Il bagliore di un altro lampo e il susseguente frastuono lo fecero sobbalzare: questa volta il fulmine era caduto molto vicino. Annuario 2013

La pioggia ora si era infittita e lì allo scoperto se la sentiva scorrere giù per il collo e la schiena. Ormai era fradicio. “Vieni anche tu con noi, vedrai che ti divertirai.” Gli avevano detto. Proprio un bel divertimento. “Dai Ciccio! forza che ci sei!” Alzò gli occhi e vide quell’ idiota di Gianni che era spuntato da dietro la casa e con il suo solito sorriso da ebete lo stava a guardare divertito. Aspetta che arrivi lì, te ne accorgerai. Poi erano apparsi anche gli altri due e avevano iniziato il coro: “Ciccio, Ciccio, Ciccio, Ciccio!” e ridendo erano scomparsi dietro l’angolo della baita mentre lui faticosamente arrancava per l’ultimo tratto di salita. Lo prendessero pure per i fondelli, se ne sarebbero accorti appena fosse riuscito a raggiungerli, glielo avrebbe fatto vedere lui di cosa era capace il Ciccio! Finalmente arrivato sotto il tetto riprese fiato. Prima di girare l’angolo e affrontarli doveva essere ben riposato. L’intensità della pioggia adesso era scemata: non poteva essere altrimenti, adesso che lui era al riparo e ormai fracido... Inspirò lentamente per tre volte. Ora era pronto. Girò velocemente l’angolo e... rimase pietrificato. La ragazza era ferma sulla soglia, e gli sorrideva. Sorpreso rimase per un attimo senza poter spiccicare una parola e poi a stento riuscì a balbettare un timido “Ciao” “Ciao” rispose lei “Entra dai che ti asciughi, c’è il caminetto acceso, i tuoi amici sono già dentro.” “Grazie, io sono Marco... e quelli... quelli... niente.” “Piacere Maria” Aveva un sorriso bellissimo. “Non è che abbia molta voglia di vedere i miei... amici, mi hanno lasciato solo sul sentiero, è la prima volta che vengo da queste parti... Mi ero già preparato per una bella litigata... ma adesso mi è passata”. 151


RACCONTI

All’interno per l’avvento del temporale le imposte erano state chiuse e illuminava la stanza solo il fuoco del caminetto e la scarsa luce di una lampada ad acetilene appesa al soffitto sopra una tavola, attorno alla quale i tre idioti, stavano seduti chiacchierando allegramente. Al suo apparire i tre avevano cominciato a battere le mani: “Viva il Ciccio! Ciccio l’eroe della montagna!” Avrebbe voluto scazzottarli ma la presenza della ragazza l’aveva trattenuto. Lei aveva notato l’espressione del suo viso: “Non te la prendere, stanno solo scherzando”. In quel momento da una porta alla sua destra uscì un uomo sulla cinquantina con i capelli brizzolati che agitando un mazzo di carte si diresse verso il tavolo. “Papà e arrivato anche l’altro” disse la ragazza, e poi sottovoce sorridendo “ Mio padre moriva dalla voglia che arrivasse qualcuno per poter fare una partita a briscola. Dai siediti vicino al fuoco” “Prima vorrei cambiarmi”. “Certo, puoi cambiarti sopra, vieni ti faccio vedere.” Mentre salivano, Lorenzo si era alzato di scatto dalla tavola: “Signorina che fà non si fidi, quello è un bruto, lo dico per il suo bene...” e rivolgendosi al padre: “Fermi sua figlia, se il Ciccio entra da quella porta insieme a lei non so cosa potrà succedere. La salvi!” “Ma no” aveva ribattuto Gianpiero “quello è innocuo “ vada sicura Maria, quello è un verginello, con le donne non sa che fare.” Marco era arrossito, mentre gli amici intorno alla tavola si sbellicavano dalle risate. Maria si era accorta dell’imbarazzo di lui e richiudendo la

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porta alle loro spalle: “Non preoccuparti, adesso daremo loro di che pensare. Tu cambiati, io scendo dalla scaletta esterna, quando hai finito raggiungimi di sotto” La pioggia era cessata e un timido sole faceva capolino tra le nuvole che lentamente diradavano lasciando lo spazio a limpide macchie d’azzurro. Sotto la tettoia dietro la baita avevano riempito le cassette di legna per il caminetto, e poi si erano seduti a chiacchierare. Marco non aveva mai provato un’emozione così profonda, la dolcezza e il sorriso di lei riuscivano a metterlo a suo agio, gli sembrava di averla sempre conosciuta. Risaliti nella cameretta, Maria lo aveva baciato leggermente sulla guancia. “Ora ci divertiremo, lascia fare a me, scendiamo sotto braccio”. Sul ballatoio gli aveva appoggiato la testa sulla sua spalla esclamando ad alta voce: “Oh Marco è stato bellissimo” poi all’improvviso si era girata e alzandosi sulle punte dei piedi, stringendosi al suo petto l’aveva teneramente baciato mentre i quattro giocatori sorpresi, lasciando cadere le carte sul tavolo, osservavano stupiti. Sei mesi dopo Maria e Marco si promettevano eterna fedeltà nella rustica chiesetta del paese. Lorenzo e Gianni erano i testimoni, Gianpiero impettito in abito da cerimonia assisteva sorridente dai primi banchi. Ciccio non li avrebbe mai ringraziati apertamente per quella gita. Ma in cuor suo sì. Grazie a loro aveva trovato la felicità. Un invito, una gita, un temporale pomeridiano, avevano cambiato per sempre la sua vita. Segni del Destino? Forse. Nessuno conosce a priori le sue trame.

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Moschettoni per le soste, prove in laboratorio di Emanuele Pellizzari Nel Laboratorio del Centro Studi Materiali e Tecniche del CAI (Taggì di Sopra - Villafranca Padovana - Pd), Emanuele Pellizzari ha analizzato un campione di moschettoni e rinvii recuperati dalle soste in falesie. Negli ultimi quattordici mesi, in giro per falesie, ho recuperato dei moschettoni da calata in numero sufficiente per avere una base statistica, atta a trarre delle conclusioni sulla loro tenuta. Ho iniziato la selezione dopo che un moschettone, recuperato in sosta, si era “aperto” a 920 daN (unità di misura equivalente a circa un kilogrammo). I connettori raccolti sono stati testati presso il Laboratorio del Centro Studi Materiali e Tecniche del CAI. La logica e il buon senso sostengono che il punto di protezione più importante nei mono tiri debba essere anche il più solido. L’evidenza dei fatti sembra invece il contrario; ovvero, nel punto più importante per la sicurezza come il moschettone per la calata, troviamo di gran lunga il peggior connettore possibile. Ho trovato, ad esempio, in sosta più connettori che non potrebbero essere venduti in Europa se non con la dicitura “not for climbing”. Il materiale recuperato in falesia è divisibile in due tipi: - quelli “da scalata” e “da ferramenta” - l’ulteriore categoria dei “fissi”, che sono invece dei rinvii completi (con o senza maglia rapida). Prima i moschettoni Quelli “da scalata” riportano il nome del produttore, il carico e, se successivi al 1995, il logo “CE” seguito dal numero Annuario 2013

del laboratorio di certificazione. Il simbolo CE significa “Conformità Europea”, ed indica che il prodotto che lo porta è conforme ai requisiti essenziali previsti da direttive apposite, pertanto non rappresenta un marchio di qualità del prodotto o, tantomeno, di origine ma che il prodotto gode della “Presunzione di conformità”. Ovvero si presume che sia conforme alle norme specifiche. La direttiva europea 93/68/CEE entrata in pieno vigore il 30 giugno 1995, è quella che a noi interessa nel settore alpinistico/arrampicatorio, in quanto determina i requisiti essenziali dei prodotti usati in campo industriale, o alpinistico, per prevenire le conseguenze di una caduta. Da questa data, è illegale produrre e/o mettere in commercio in Europa materiali assimilabili a DPI, che non hanno il marchio “CE”. I moschettoni testati sono in maggioranza in alluminio. Il carico minimo per i connettori è di 20 kN; lo standard è sui 24/25 kN. Quelli “da ferramenta” riportano poche indicazioni, sono in acciaio e non hanno stampigliato tenuta e nome del produttore. Alle volte hanno un generico CE (scritto in stampatello) o un “ce” che sta per China Export.

Il materiale testato

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Prove di tenuta nel Laboratorio del Centro Studi Materiali e Tecniche del CAI (Taggì di Sopra - Villafranca Padovana - Pd)

Questo tipo di moschettoni, ma vale anche per le maglie rapide “da ferramenta”, sono prodotti non “CE” e non DPI (Dispositivo di Protezione Individuale). È molto interessante, nonché importante, andare a leggere Wikipedia (http:// it.wikipedia.org/wiki/Marcatura_CE), dove si evidenzia la differenza tra i logo: CE che sta per conformità europea. CE che sta per China Export e non significa perciò nulla.

Il marchio Comunità Europea (sinistra) e il marchio China Export (destra). Da notare lo spazio tra le lettere del marchio europeo, e lo spazio quasi nullo tra le lettere del marchio China Export

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L’evidenza dei fatti è riassumibile in: - Ogni moschettone “da ferramenta” fa, a dir poco, schifo, sia esso nuovo, vecchio, di ogni forma, tipo e spessore e acquistato in ogni zona in Italia. Tolto un caso, si aprono tutti con una media vicina ai 1200 daN (kg). - Ogni moschettone “da scalata”, anche il più vecchio, logoro e consumato, è meglio del migliore moschettone nuovo “da ferramenta” e presenta un carico, anche se fortemente usurato, pari al dichiarato; tale carico è vicino al doppio della media di quello del moschettone da “ferramenta”. - Spesso il moschettone di calata nel mono tiro (che diventa perciò l’unico punto di ancoraggio) è di gran lunga il peggiore moschettone presente nel kit di attrezzatura di uno scalatore; molte volte tiene meno a leva chiusa rispetto a un moschettone “buono” da scalata a leva aperta. Poi i “Fissi”... Sono stati testati anche dei rinvii “fissi”, cioè dei rinvii lasciati nei punti chiave delle vie per facilitare il moschettonaggio. Sono generalmente composti da due moschettoni e una fettuccia o da una maglia rapida, fettuccia e un moschettone. Nei rinvii “fissi”, la parte debole è rappresentata sempre dalla fettuccia, poi dalle maglie rapide “da ferramenta” e infine dal moschettone (sempre che sia “CE”). Le maglie rapide non “CE”, tengono generalmente meno di un moschettone “CE” anche molto usurato. Le maglie rapide “CE” invece, anche se usurate quasi della metà, hanno carichi simili a quelle nuove. Le fettucce hanno carichi variabili tra gli 800 e i 1800 daN e molto dipende dal loro stato di usura ed esposizione ad acqua e sole. È impossibile perciò predisporre una casistica attendibile poiché troppe variabili entrano in campo; si rimanda a quanto già studiato sull’invecchiamento di corde e fettucce, sull’influenza dei raggi UV, dell’acqua e del ghiaccio (vedi link). Annuario 2013


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Emanuele Pellizzari e Giuliano Bressan nel Laboratorio del Centro Studi Materiali e Tecniche del CAI (Taggì di Sopra - Villafranca Padovana - Pd)

Sintetizzando, una fettuccia esposta alle intemperie, è certamente più debole di un prodotto conservato bene. Di quanto? Anche più della metà. Questo test sulla tenuta dei ”fissi”, non deve però essere confuso con le nuove problematiche emerse sullo spigolo vivo che si può formare sui moschettoni per un uso non corretto sugli spit e che ha già provocato alcuni incidenti (di cui uno mortale). Conclusioni Per molto tempo si è arrampicato in moulinette calandosi su moschettoni da “ferramenta”. Probabilmente lo faremo per molto altro tempo: ci sono in giro così tanti connettori che non è plausibile una loro sostituzione immediata. I carichi generabili sui mono tiri e in sosta, difficilmente saranno così elevati da poter rompere uno di questi moschettoni. Comunque, nelle “top rope” è meglio aggiungere uno dei propri moschettoni. È importante comunque prendere atto che i moschettoni “da ferramenta” sono i peggiori Annuario 2013

connettori che un arrampicatore e/o alpinista può pensare di aver attaccato all’imbracatura. Non potrebbero nemmeno essere venduti, se non con dizione “not for climbing”. Ripeto: è meglio un moschettone vecchio e ben consumato ma “CE”, che uno nuovo “da ferramenta”. In maniera meno grave, il discorso vale per le maglie rapide non “CE”. Infine, nel dubbio, ogni “fisso” è più debole del peggiore dei vostri rinvii. Un ringraziamento al Laboratorio del Centro Studi Materiali e Tecniche del CAI. 155


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Nel regno dell’alta quota nel Vallese Dal mio diario: 12 settembre 1953 di Luigi Vettorato Con tre amici della S.A.T. di Trento, l’accademico Carlo Furlani, Achille Gadler e Vincenzo Loss, abbiamo organizzato una settimana alpinistica a 4000 m (il Weisshorn con i suoi 4505 m, il Zinalrthorn con 4221 m e il Cervino con

4478 m) nel Vallese. In sede abbiamo effettuato i preparativi, esaminato le varie guide, deciso l’attrezzatura (corde, ramponi, chiodi, picozze), l’abbigliamento e i viveri. Siamo partiti sabato 2 settembre 1953 col treno 2340, abbiamo toccato Verona, Milano, Omegna, Domodossola, il Sempione, Briga, Visp (Svizzera), e siamo scesi a Randa (Zermatt), a 1439 m. In una locanda ci siamo rifocillati e abbiamo chiesto informazioni sul tempo, fortunatamente bello per noi, dopo dieci giorni di maltempo, freddo e nevischio. Siamo quindi ripartiti a piedi, diretti alla Weisshornhuette. Abbiamo attraversato la ferrovia e il ponte sul torrente Mittervisp, e siamo saliti percorrendo un sentiero a zig zag nella foresta. Siamo giunti a Roeti, 1973 m, abbiamo deviato nei pressi delle baite e imboccato un sentiero poco segnato che porta a Jalz, 2246 m. Dopo aver compiuto un ampio giro e attraversato una conca, siamo saliti lungo un costone a 2520 m e, dopo aver attraversato un versante dell’Hochliemt, alle 14.00 abbiamo finalmente raggiunto la Weisshornhuette a 2934 m. Dopo aver riposato ed esserci rifocillati, siamo andati ad esplorare il percorso che porta all’attacco della granLa grande muraglia glaciale del Weisshorn (foto L. Vettorato)

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de mole del Weisshorn. Una volta rientrati al ripidi, e perciò rallentando. Eravamo a 150 m rifugio, abbiamo cenato, ristudiato le mappe e dalla vetta quando Furlani e Gadler sono tornapredisposto l’occorrente per la salita (il dislivello ti indietro per la fatica e l’impossibilità di proè di 1574 m e ci vogliono circa sette ore per seguire. Io, che ero più avanti, a 50 m dalla cima, raggiungere la vetta). Ci siamo coricati presto e sulla cresta fra rocce e cornici di neve, avevo alle due eravamo già in piedi per la colazione a assicurato Loss che d’un tratto è scomparso, base di tè, col quale abbiamo riempito anche le caduto in seguito al distacco di una piccola nostre borracce. Muniti di pile frontali, alle cornice di neve e finito in un attimo un metro 02.30 siamo partiti lungo il sentiero percorso la sotto uno spuntone di roccia. Non si è fatto male sera precedente. Dopo aver piegato verso Ovest, perché assicurato alla mia corda, ed è riuscito a abbiamo raggiunto una modesta barriera di tornare sul crinale. Le condizioni precarie e le rocce e imboccato un canale che la incide a rocce instabili hanno convinto anche noi, a monte a quota 3146m. Siamo quindi saliti lungo i pendii ghiacciati del versante Nord tra roccette e neve, dove abbiamo posizionato delle frecce di carta rossa, utili e indicative in caso di nebbia o di maltempo al nostro ritorno. Attraversato un piccolo terrazzo, abbiamo proceduto fino ad una cengia (dove c’è un omino in pietra) e traversato poi verso Ovest dove una costa di rocce rotte (con pericolo di caduta sassi) porta alla cresta Est del Weisshorn a quota 3916 m. Qui iniziano rocce irte di pinnacoli e passaggi di III grado. Dopo aver aggirato i due punti più impegnativi, a Sud il primo, a Nord il secondo, è comparso davanti a noi il crinale nevoso (45° di inclinazione), stretto e orlato di cornici. Ci siamo quindi rifocillati col tè e con della frutta secca, poi abbiamo messo i ramponi e formato due cordate: Furlani e Gadler, Loss ed io. Assicurati, siamo arrivati a quota 4200 m alternandoci alla guida, sprofondando nella neve Carlo Furlani, Achille Gadler, Vincenzo Loss (foto L. Vettorato) marcia nei tratti più o meno 158

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questo punto, a desistere e a tornare indietro. All’inizio del ripido crinale, abbiamo visto i nostri compagni che stavano scendendo faticosamente, e loro hanno visto noi. La neve formava uno zoccolo sotto i nostri ramponi, e spesso dovevamo toglierla con un colpo di piccozza. Io ero davanti, assicurato da Loss. Improvvisamente ho sentito un grido e l’ho visto scivolarmi davanti, di lato, a circa tre metri. A causa dello strappo sono caduto anch’io e sono scivolato per più di duecento metri. La nostra prontezza nel puntare la becca delle piccozze per riuscire a fermarci, oltre alla fortuna di uno spuntone di roccia fuori dal ghiaccio, dove l’aggiramento della corda ci ha bloccato entrambi su lati opposti, e ci ha consentito di salvarci a venti metri dal crepaccio terminale. Loss era in posizione più favorevole per fare sicurezza, così ho potuto alzarmi, con qualche graffio solo alle mani. I nostri compagni, dallo scivolo del lato Nord, ci avevano visto cadere: si sono spostati verso la forcella chiamandoci finché ci hanno visto di nuovo in piedi. Noi due, assicurati dalla corda di 40 metri, ci siamo guardati dandoci la forza per riprendere la marcia. I ramponi tenevano sulla base ghiacciata del pinnacolo Nord. Traversando a monte del crepaccio e guardando giù verso la voragine di ghiaccio bluastro profonda una cinquantina di metri, abbiamo avuto l’impressione di udire suoni macabri. Abbiamo proseguito salendo per oltre 180 metri, arrivando alla corda fissa lasciata dai nostri compagni. Una volta giunti alla forcella ci siamo abbracciati tutti e quattro, abbiamo disinfettato i graffi e ci siamo rifocillati col tè. Abbiamo quindi raccontato la caduta, dovuta ad un rampone impigliatosi nei calzoni alla zuava di Loss, che gli ha fatto perdere l’equilibrio. Il nostro rientro è stato facilitato dalla frecce rosse di carta, che avevamo posizionato al mattino presto. Siamo arrivati al rifugio nel tardo pomeriggio. Sulla tavola, era salita una capra, ma in cucina siamo riusciti a prepararci un ottimo minestrone. Più tardi, ho estratto dal mio borsello di pronto Annuario 2013

soccorso il filo di cotone col quale ho potuto ricucire i pantaloni di Loss. A lume di candela, abbiamo esaminato il percorso per il giorno seguente: la traversata verso la Rothornhuette a 3210m. Siamo partiti alle ore 08.00 del giorno seguente, sotto un cielo azzurro illuminato dalle cime dorate del sole. Siamo scesi per ripidi pendii erbosi verso l’Hochliechtscher a 2400 m. Si traversa scavalcando diverse morene e ci si porta sulla laterale destra che conduce ai nevai del Furggji a 3152 m, del Roghorn a 3392 m e del Plattenhorn a 3344 m. Una traccia di sentiero percorre la Triftkumme e attraversa l’Hasengufer, seguendo la riva destra di un ruscello che scende a zig zag. Si rimonta a sinistra una antica morena e si sale a quota 3100 m. Verso la base rocciosa su cui sorge la Rothornhuette, da cui si ha una grande vista del Mischabel e del Monte Rosa. Siamo arrivati al rifugio nel primo pomeriggio e al gestore abbiamo risposto di essere dei Trentini che avevano da poco salito il Weisshorn fino a 50 metri dalla cima. Abbiamo quindi chiesto le possibilità di salita alla cima del Rothorn (4221 m). Le condizioni del tempo erano fortunatamente buone, dopo dieci giorni di maltempo, in cui erano saliti solo tre Austriaci. Usciti ad esplorare il percorso, abbiamo concordato sulla decisione di Furlani e Gadler di affrontare la salita uniti. La montagna è una punta che si staglia nel cielo azzurro, l’ambiente intorno è maestoso, con le cime dell’Obergabelhorn, del Cervino, del Breithorn, del Weissgrat, del Rimpfschorn, dell’Allalihorn e dell’Alpmubel. Dopo la cena e un canto ci siamo coricati. Verso le tre del mattino abbiamo iniziato la salita sotto un cielo stellato e con le pile frontali, in direzione della parete rocciosa a sinistra costeggiando i nevai del Rothorn Gleischer. Dopo un promontorio innevato, un pendio conduce alla cresta che continua fino verso Sud-Est, fra i due ghiacciai Rothorn e Hochlicht. Superate alcune rocce, si giunge ad un crinale, orlato di cornici verso Est (3786 m), che si fa sempre più stretto. Si traversa a Sud e si guadagna un cana159


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le innevato che porta ad una breccia sul versante meridionale del Zimalrothorn. Lungo la cresta Sud-Est si sale verso un altro canale profondo, che porta ad una forcella (Gabel) della cresta Sud-Ovest. Da qui si scala direttamente la cresta Sud-Ovest per alcune decine di metri, si scende sul versante Ovest per portarsi ai piedi della placca Bimer (III grado) che si aggira a sinistra. Più in alto si sfrutta un’espostissima cengia che porta sul versante Est, da dove si guadagna in breve la vetta del Zimalrothorn a 4221 m. Per la salita, abbiamo impiegato quattro ore e mezza. La vista era incantevole, un vero spettacolo di neve e ghiacciai: il Cervino, il Dent D’Herems, il Tete Blanche, il Dent Blanche, il Gran Comier, la Val Zimal (dove confluiscono i ghiacciai di Monthel, Durano, Rothorn) e il Zimal Vallese (Svizzera), fino al Gran Paradiso. Rientrati dallo stesso percorso, siamo arrivati al

rifugio verso le 13.00. Abbiamo mangiato, bevuto una birra, riempito le nostre borracce di tè e comprato delle cartoline. Alle 14.00 siamo partiti per Zermatt. Dopo una sosta all’Hotel Dutrift (2337 m), abbiamo proseguito verso la Wallenkuppe e il roccioso Obergabelhorn (oltre la valle di Zermatt). Fermateci presso un maso per chiedere alla padrona dove avremmo potuto trovare un posto per dormire, ci siamo sentiti rispondere che, se ci adattavamo, avremmo potuto sistemarci nel suo sottotetto. Ci siamo quindi rinfrescati alla fontana e abbiamo riposato su di una panca all’aperto, da dove abbiamo visto il marito, carico di legna, tornare dall’alpeggio. Ci ha salutato dicendosi felice della nostra compagnia, dal momento che là non passava mai nessuno. Abbiamo cenato insieme nella loro stube, riscaldata dal camino attrezzato con la catena della zegosta per il paiolo di

Dalle cima del Zinalrothorn si vedono il Gran Comier e la val Zinal

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rame, dove avevano cotto la polenta. Il panorama all’ultima luce del tramonto, il sole dorato sulle cime intorno, il caloroso ambiente famigliare dei nostri amici hanno riempito di gioia i nostri cuori. Abbiamo parlato di noi, Trentini in ferie per una settimana a scalare quelle cime maestose, e le nostre avventure in montagna li hanno affascinati. Dopo cena, siamo usciti ad ammirare la piana di Zermatt illuminata, il cielo stellato e la luna che dava luce ai giganteschi monti del Vallese. Il mattino seguente ci siamo alzati alle prime luci dell’alba e abbiamo trovato una buonissima colazione (caffè d’orzo, latte, pane, burro e miele), consumata tutti insieme. Commossi per la loro generosa ospitalità ci dirigiamo verso Zermatt, con la promessa di inviare loro una cartolina delle Dolomiti. Dopo mezz’ora eravamo nel centro di Zermatt (1620m): abbiamo visitato quei luoghi storici per i tanti pionieri dell’alpinismo, abbiamo cercato spunti per salite (consultando anche le nostre guide), e, dopo aver acquistato cibo e bevande, verso le 11.00 siamo partiti nel regno del Cervino diretti alla cattedrale del Matterhorn (3298 m). Si cammina lungo il percorso del Mattervisp, fino alla confluenza del Zimuttbach, dove si attraversa per rimontare il fianco del costone, in direzione di Disee (1763 m). Si costeggia l’abitato di Zum, si raggiunge Hermettje (2027 m) e si sale una ripida costa verso la dorsale che porta all’Hotel Schwarzsee (2590 m). Si prosegue costeggiando la sponda meridionale del lago, per poi salire fino ad una bastionata rocciosa: qui ci siamo fermati per rifocillarci. Siamo quindi ripartiti verso la Hirlischeide. Abbiamo continuato per la cresta e, dopo ben 42 svolte una dopo l’altra, abbiamo guadagnato la Matterhornhuette a 3298 m. Erano circa le ore 16.00. Questo percorso è la via normale di accesso al rifugio, base per la salita del Cervino dal lato svizzero. Dopo aver riposato un po’, siamo usciti per un sopraluogo fino alla base della nostra salita. Alle 02.00 del mattino dopo la colazione, abbiamo riempito le borracce con il tè e con le pile fronAnnuario 2013

tali lungo il sentiero di pietre, abbiamo proseguito in due cordate (Furlani e Gadler, Loss ed io). Dopo un primo sbalzo di 15 metri, si procede obliquamente lungo un canale di detriti che scende dalla cresta. Si giunge quindi ad un terrazzo e si risale la sponda destra lungo una cengia. Superato un camino di circa 4 metri, si prosegue verso la cresta e si raggiunge la base di una torre rocciosa, compatta, con dei ruderi. Da sinistra ci si porta quasi sotto la verticale (Solvayhuette 4003 m: 10 posti letto, utilizzata solo per emergenze). Si superano difficili placche di III grado e si raggiunge il filo della cresta, che si segue fino alla base di una torre rossa. Aggirata a sinistra, si torna sulla cresta, arrivando al nevaio ai piedi della spalla. Superato il ripido pendio (45°), si percorre la spalla, su di un terreno misto, in prevalenza pianeggiante, fino ai piedi delle ultime difficoltà. Da qui, numerose corde fisse agevolano l’arrampicata (II e III grado) su una fascia di placche e sulle ripide successive Rochers-Rouges, oltre le quali la pendenza cala. Sul terreno misto, più facile, ma delicato, si raggiunge la vetta del Cervino (4478 m): ci abbracciamo e ammiriamo il panorama di straordinaria bellezza, col Monte Bianco, il Monte Rosa e in lontananza il Gran Paradiso. La giornata è serena e mite. Tornati per lo stesso percorso della salita, uniti in sicurezza, arriviamo alla Cabale Solvay, dove ci riposiamo e ci rifocilliamo, entusiasti per la conquista del re delle Alpi. Con prudenza scendiamo alla cattedrale della Matterhornhuette, dove ci fermiamo a dormire, felici del nostro grande trofeo del Cervino, desiderato da molti amanti della montagna. Il mattino seguente, uscendo dal rifugio, “una nostra lacrima di gioia cadde ai piedi del Cervino” coronato dall’alba rosea, su questo palcoscenico del creato. Tornati a casa, a Trento, ci siamo poi ritrovati a messa in una cappella per ringraziare della grazia ricevuta sul Weisshorn. Bevendo ancora insieme un buon bicchiere, ci siamo ripromessi di ritrovarci al più presto per un’altra ascensione. 161


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Alla corte del Re di Castello di Sandro Il Monte Re di Castello fa parte del gruppo dell’Adamello e si trova proprio sul confine fra il settore trentino e quello lombardo di questa grande catena alpina; si erge davvero come un gigantesco maniero tra la Val di Fumo e la val di Saviore. Il Re di Castello raggiunge un altezza di m 2889 e la sua cima offre alla vista un panorama incomparabile; si raggiunge dopo una salita di circa 4 ore che non presenta particolari difficoltà per i camminatori un po’ allenati e abituati ai severi ambienti dell’alta montagna. Il dislivello totale è di circa 900 metri ben distribuiti su un percorso che si allunga senza pendenze particolarmente ripide. Per avvicinarci alla nostra cima dobbiamo dapprima percorrere in automobile la lunga Val di Daone per arrivare nei pressi del lago e della diga di Malga Bissina, dove lasceremo l’automobile in un grande parcheggio subito prima della grande diga. Parcheggiato il mezzo si imbocca il sentiero S.A.T n. 242 che sale in fondo al parcheggio stesso attraversando una fitta boscaglia in direzione sud-ovest.

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Il sentiero, non molto ripido, attraversa dapprima un bosco di larici per poi salire più decisamente fino a arrampicarsi lungo un dosso tra cespugli più fitti, ma sempre comodo e ben marcato. Da questo punto si intravede lo splendido Lago di Campo (m 1944) e più in lontananza la cima del Re di Castello; si scende un poco dall’altura fino a raggiungere le sponde del lago, costeggiandolo in ambiente suggestivo tra pascoli, macchie di rododendri, rocce coperte di licheni e mughi. Dopo aver superato i resti dell’ormai abbandonata Malga Campo si riprende la salita in un percorso via via più roccioso ma sempre ben segnalato fino a raggiungere in graduale ascesa il Passo di Campo (m 2296 circa 2 ore dalla partenza); qui il paesaggio si fa ancora più aperto poiché lo sguardo spazia anche lungo il versante ovest in direzione della Cima d’Arno’ e del suo bel lago omonimo. Dal Passo per raggiungere la nostra cima si sale a sinistra su percorso non segnato ma ben visibile, costeggiando la Sega di Arno’ che con il suo profilo dentato ricorda i merli di un castello e probabilmente proprio da questo particolare trae

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il nome la nostra meta. Dopo pochi minuti si inizia la risalita della facile Vedretta di Saviore, poco nevosa in piena estate, mentre davanti a noi si intravede la cima del Re di Castello (m 2889), che raggiungiamo in un paio d’ore circa dal Passo di Campo. La vista grandiosa che ci offre questa splendida montagna ci ripaga dalla fatica impiegata per raggiungerla; lo sguardo spazia in lontananza, perdendosi a indovinare altre cime più o meno famose che ci circondano fra i grossi massi granitici che formano la vetta. A questo punto si può ritornare sui propri passi e ripercorrere al contrario la via di salita, oppure un interessante alternativa è possibile percorrere il facile crinale, che porta fino alla Cima Dernal, sempre con veduta magnifica, per poi calare facilmente e raggiungere in poco più di un’ora il Passo Dernal (m2570) e il rifugio omonimo, che sorge presso di esso. Dopo un’eventuale sosta al rifugio, posto in bella posizione, si ritorna verso il Passo di Campo percorrendo il sentiero CAI

n.1 detto anche Sentiero dell’Adamello, che in un’ora o poco più ci riporta al passo in leggera discesa, attraversando uno splendido ambiente roccioso e solitario. Dal passo ripercorriamo la stessa via della salita e in un’ora e mezza circa ritorniamo al parcheggio di Malga Bissina, chiudendo questo interessante percorso. Ricordo soltanto che il giro va effettuato nel periodo estivo, da fine giugno a fine settembre (periodo durante il quale, in caso di necessità è aperto il rifugio Dernal) e in condizione di tempo bello e stabile, per la scarsità dei ripari in caso di pioggia o temporali, non infrequenti in zona. La Vedretta di Saviore è poco innevata e facilmente percorribile nella stagione calda. L’uscita svolta in queste condizioni al Re di Castello, rimarrà senz’altro un giro indimenticabile sotto ogni aspetto e permetterà di conoscere un “itinerario di confine” delle nostre montagne in una delle sue zone più belle, incontaminate e selvagge. Buon cammino!

No ghe stago pù drio di Mirco

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No ghè pù stagiom e gnanca religiom el piove che Dio la manda e me vei da far na domanda:

La Tera la zent el lavoro l’aqua e el pam come l’oro no ghè da farse tanti penseri la stesa barca ancoi pu de ieri.

Com’ela che no se vol sentir rasom lasar perder torti e resom cambiar en pochetim e vardarse nei oci da vizim?

Mliliari de soldi en armamenti che ‘ngrasa sol i potenti col cor dur come el coram cadene de mort disperaziom e fam.

No ghè bisoi de nar su Marte montagne de scartofie e carte de scavar galerie da tute le bande per po’ trovarse tuti en mudande.

No ghè pu gnanca santi da votarse no l’è che per salvarse da l’aqua ala gola bisogna eser nai a scola!

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Il laghetto vanitoso di Stefano Cominotti Sòra Ville ghè ‘na conca, en mez ai monti e ai prai da fem, che fin da la not dei tempi i ghe ciama Lac de Tem. L’è ‘na lagrima de acqua, ghe stà dentro apena en pè ma ‘n color cosi smeraldo altri uguali no ghe nè. Quando passo da quei posti,ogni tant vago a trovarlo e sicome som zizania me diverto a tormentarlo: “Varda el Garda piem de feste, piem de barche, e anca tompeste, e ti, grant en scandorlòt...,te ghè apena ‘n isolòt!” Ma sa diset bajarèl el me brontola rabiòs mi sòm sempre stà el pù bel anca se no’ som famoss. Quei che i passa per la strada i se ferma,i varda zò, e anca chi che va de corsa i se polsa per en po’. Ghe regalo l’aria bona,en po’ de serenità, el cantar dei oseleti, paze e la tranquilità. I me varda i me contempla sia de sora che de soto i me diss che meraveja e i pu tanti i fa la foto ...e no ghè tut sto gazer come al lac che’l sta la soto. Tuti quei che veign chi ‘ntorno i se desmentega i so affani e i me porta dentro al còr anca dopo tanti anni. Lassa pur che ‘l Garda el creda de esser lu el lac pù preziòs tuti i sà che l’è geloso e po’ anca permaloss! Ciàcolem per tut el dì come i fa do amizi veri quando ormai gò da tornar vers la Busa ei so gazeri, sul sentèr del Prà del Toni me ‘n vio ‘n zo en po’ pensieroso quasi quasi me rincress de esser stà si dispetoso alor me volto e vardo ‘n sù vers le zime del Balim “dormiral pòr picenim?”, o saràl ancor zidioso ma po’ rido ‘n tra de mi... “Ah! laghetto vanitoso!” Annuario 2013

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Valanga 8-9 marzo 2012 di Dario Antolini (gestore del rifugio Trivena) Sostantivo dal suono sinistro anche se comprende tre vocali. Ne conoscevo il significato sin da ragazzo per la passione che già da allora dedicavo allo scialpinismo dopo averlo scoperto grazie al servizio militare. La scelta di iniziare l’attività di ”rifugista” in val Breguzzo inevitabilmente mi ha avvicinato a quegli eventi della natura terribili ed affascinanti. Con un fruscio quasi impercettibile o con un fragore rimbombante ampliato dall’eco della stretta valle, le valanghe non lasciano spazio e irrompono senza possibilità di essere arrestate. Come tutti gli eventi naturali, anche loro seguono l’evoluzione del tempo meteorologico che ne determina causa ed effetto. Quindi con attenzione, soprattutto dopo la decisione di iniziare l’apertura invernale del Rifugio, ne ho sempre osservato la preparazione e la maturazione cercando di capire ed individuare l’arco di tempo nel quale scocca l’effetto. È un po’ come osservare i frutti di un albero quando non vengono colti. Si capisce che sono giunti a maturazione ma non si può definire con precisione il momento del distacco. Più facile da indovinare se intervengono fattori quali il vento o la pioggia. Credo sia chiaro che

Venerdì 6 febbraio Annuario 2013

sto parlando delle valanghe spontanee. Quelle che provochiamo noi sci-alpinisti, in un certo senso è come se si andasse a stuzzicarle. Quando nevica sul serio a Trivena, la neve scende con un fruscio leggerissimo. Sembra un continuo bisbiglio della natura. Nel buio della notte o nella luce opaca del mattino, se interrompi il passo, lo senti continuo e incredibilmente delicato quell’affascinante brusio. Inizialmente induce allegria e un senso di gioia. Dopo alcune ore o una intera giornata, meraviglia per come sale la bianca coltre. Se non smette, così che ogni cosa piano piano si nasconde e si ritrae sotto il bianco mantello, senti insinuarsi una sorta di apprensione. È il momento di armarsi di pazienza ed aspettare che la natura concluda la sua opera. Quel venerdì 6 febbraio 2009 stavo pranzando con Paolo nella sala da pranzo del Rifugio. Lui era salito al Trivena la domenica pomeriggio per collaborare “alla pari” durante la settimana. Ma già lunedì mattina aveva iniziato a nevicare. Inizialmente in modo garbato, fiocchi sottili, non radi e neppure fitti da impedire la visibilità. Le ottime condizioni d’innevamento grazie a un inverno che scorreva freddo e con parecchie precipitazioni, mettevano solo voglia di sciare. Perciò convinsi Paolo a fare una veloce risalita a Pian di Redònt sfruttando la mattinata e la nuova polvere prima che diventasse troppo alta. Lui avrebbe voluto scendere a prendere la sua abbondante e pesante attrezzatura fotografica. Te la porterò io con la motoslitta, gli dissi, così che anche lui fu contento della sciatina che ci apprestavamo a fare. A mezzogiorno di ritorno da Redònt, l’intensità della nevicata era aumentata, c’erano già oltre 20 cm di neve fresca. Appena pranzato, mi diressi verso valle con la moto e Paolo dietro con gli sci. All’imbocco della di167


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scesa all’estremità di Conca Trivena, il motore s’inceppò e non riuscii a farlo ripartire. Paolo decise di scendere con gli sci da solo. Sarebbe tornato prima che i cm. di neve fossero troppi da creare pericolo lungo il tracciato di salita. Alle 18, ormai buio, preoccupato scesi anch’io per andargli incontro. Lo trovai per fortuna già sopra il traverso dell’ormai pericoloso canale Serra. La coltre “nuova” era di quasi 40 cm. Il martedì mattina sembrava che il tempo schiarisse, ma nel pomeriggio nevicò di nuovo. Al rilievo di mercoledì registrai altri 30 cm.

Ma verso tarda mattinata di giovedì il sereno lasciò il posto ad un cielo coperto che non lasciava dubbi. Ricominciò per tutto il pomeriggio e così nella notte verso venerdì. Il rilievo meteo di venerdì alle ore 8.30 mostrava l’asta che misura la neve al suolo, lambita fino al numero 232. Preparai una “prolunga “per allungare il misuratore graduato che presto sarebbe sparito sotto la coltre che continuava a salire in modo impressionante. Paolo fotografò a mezzogiorno l’asta per la misurazione della neve al suolo che registrava 260 cm.

Mattinata di giovedì

L’asta prima di mezzogiorno del 6 febbraio

Una pausa di sereno sembrava volgere il tempo ad un miglioramento. Approfittai per sistemare la scala di accesso alla porta del Rifugio.

“Mangiamo che poi vado a innestare la prolunga prima che la neve mi nasconda completamente l’asta”dissi. Un sordo e cupo botto proveniente dal tetto della cucina interruppe il nostro pranzo. Uno smottamento era sceso dal costone sul retro del Rifugio, caricando il tetto fino a piegarlo. Per il momento il danno era limitato e non dava preoccupazione. Così anche quando sul retro accertai che parecchia neve era entrata dalle protezioni che ogni autunno montavo tra la gronda del tetto e il muretto di contenimento del terreno. Quando smetterà di nevicare sistemerò, pensai. Non feci in tempo a rimettere in bocca un altro boccone del mio pranzo interrotto, che l’alimentazione elettrica si interruppe. Questo è più grave dissi ad alta voce. Calzati gli sci mi diressi alla centralina idroelettrica che fornisce energia al Rifugio.

Giroscala per l’entrata al rifugio

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Locale centralina prima di giovedì

Non ero nuovo dell’esperienza in condizioni simili, perciò sapevo che per superare i 450 ml. che separano il Rifugio dal locale centralina, ci sarebbe voluto più di un’ora. Così fu. Fortunatamente il locale centralina e più precisamente la porta d’entrata era ancora visibile, nonostante fosse già scesa anche la grossa valanga partita sopra quota Corno del Fus e passando sulla casetta, terminata la corsa nell’alveo del torrente. Dieci minuti di pala mi consentono di entrare nel locale ove posso capire, dallo scarso flusso d’acqua in arrivo nel tubo di adduzione, che il problema è alla presa, 50 m. di quota più in alto. Torno al Rifugio, in poco tempo ora che la traccia è fatta. Cambio gli sci con un paio molto più corti mentre Paolo ha iniziato faticosamente a muoversi verso l’opera di presa della turbina. Mi sembra di riuscire meglio a sottrarre lo sci corto dalla morsa del metro di neve che ad ogni passo copre completamente il solco creato dallo sci. Faccio mentalmente la conta delle valanghe che conosco e potrebbero preoccupare se non ancora scaricate. Quella del “Corno”, la “Canevaza”, quella sul retro del Rifugio. Tutte presenti e già arrivate. Ce n’è un’altra poco dopo la teleferica a metà percorso tra il bivio con la segnaletica verticale S.A.T., ormai sommersa dalla neve, e la presa della centralina sul torrente. Quella potrò accertarla solo risalendo il sentiero, dopo il luogo di partenza della teleferica. Non ha un fronte molto largo. Se non è ancora scesa Annuario 2013

bisognerà attraversare in fretta. La progressione veloce in quelle condizioni è un’utopia. Ad ogni passo, pur con gli sci, si sprofonda nella neve fino all’inguine e l’operazione per liberare lo sci e iniziare il passo successivo richiede ogni volta uno sforzo notevole. Raggiungo Paolo impegnato a tracciare, ma causa la scarsa visibilità e l’assenza di riferimenti in quella bianca distesa, devo fermarlo perché sta andando fuori dal sentiero. Torno davanti a riprendere la giusta direzione. Con la pala che mi porto appresso, schiaccio davanti a me la neve in modo da sprofondare un po’ meno. Sembra che stia smettendo finalmente di nevicare e forse anche un soffio di vento ha contribuito a spazzare quella nebbiolina che chiude la visibilità. Continuamente volgo lo sguardo ai pendii delle “Gere Rosse” dove da sopra, le “Mandre ‘npicade”incombono con i loro ripidi pendii che partono dai 2600 m di quota. Alcune valanghe sono già scese ma mai ne ho vista una raggiungere il sentiero. Pertanto non sono affatto preoccupato da quel versante. Penso al canale più sopra che dovremo attraversare augurandomi che anche lì abbia già scaricato. Giro di nuovo lo sguardo verso le “Mandre” che ora appaiono fuori dalla nebbia in tutta la loro lunghezza. Una nuvola troppo bianca e veloce sta scendendo da lassù. Solo nei film avevo visto una cosa simile. Richiamo l’attenzione di Paolo: “guarda”, e indico con il braccio la nuvola. Ricordo che ho pensato di non avere con me la mia compatta. Peccato, ma questo spettacolo lo fisserò nella mente, ho pensato. Pochi secondi per vedere e pensare, la nuvola più scende e più si allarga. “Via Paolo, quella ci prende”. Abbandono la pala e disperatamente in quella neve altissima cerco il più velocemente possibile di avanzare per portarmi fuori dalla traiettoria della nuvola. Ricordo che ho pensato con stizza : “ma non fa rumore”. Guardo di nuovo girandomi di scatto. Gli enormi massi sparsi lungo il pendio sembra non esistano. La nuvola li avvolge e passa oltre. Ora sento il vento, capisco che non c’è scampo. Mi chiudo a riccio nella traccia profonda gri169


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dando a Paolo di fare altrettanto, abbassandomi sul viso il cappuccio del pastrano. Più volte ho pensato a cosa può passare nella mente o cosa si può provare nell’ultimo istante prima di essere spazzati via da quella furia che a sentirla da vicino sa solo di vento. Niente. Non ero riuscito a pensare a niente. Come per miracolo i nostri Angeli Custodi ci avevano spinto per pochi metri facendoci sfuggire alla traiettoria della valanga. Non ci ha fatto niente. Ci ha mancato di pochi metri e ha concluso la sua corsa contro il versante in dx orografica del torrente abbattendo altri larici e abeti. In mezzo a quel groviglio di rami recupererò la capannina bianca della mia piccola stazioncina meteo solo ai primi di giugno. Imbambolati ed increduli guardavamo il risultato di quella furia silenziosa passata come passa, ora lo so, una valanga di neve a debole coesione. Un altro fruscio, quasi la risposta immediata quella della Canevaza che scesa per la seconda volta è andata ad arenarsi sopra quella delle “Mandre ’Npicade”.

ricordarne la posizione, la capannina con il termometro. Uno scavo di due metri per due senza risultato alcuno mi farà capire nei giorni successivi che probabilmente cercavo nel posto sbagliato. Così da quel giorno lasciai perdere le misure della neve e delle temperature. Quando dopo quindici giorni riaffiorarono le punte dei massi più grandi, capii che avevo lavorato venti metri fuori centro. Avvicinandomi al Rifugio tra quelle alte dune, mi aspettavo di non trovare neppure la bacheca al bordo del piazzale. Risparmiata. La furia era passata dieci metri più in là. Un fronte di oltre duecento metri alla base. Incapaci di godere della fortuna che ci aveva assistito in quell’ora, stavamo guardando verso la Canevaza diventata molto più pianeggiante e larga. “Ne manca ancora una all’appello” stavo per dire a Paolo quando un rumore metallico coprì l’ultima mia sillaba. Quasi con un “presente” aveva di colpo invaso mezzo piazzale. Il rumore metallico era opera del canale di gronda dello spigolo est del tetto,

Verso il rifugio dopo la valanga

Il rifugio dopo l’ultimo smottamento

Io e Paolo ci guardiamo e senza parlare, entrambi ritorniamo sui nostri passi (si fa per dire) verso il Rifugio. Ora gli sci non affondano. Conca Trivena è irriconoscibile. Gli enormi massi nei pressi della stazioncina meteo non si vedono più. Rami e qualche abete sradicato, sparsi qua e là. Cerco con lo sguardo dove immagino di

che staccandosi aveva colpito e spinto la scala a pioli di alluminio appoggiata al muro della casa. Lo smottamento che normalmente scendeva dal pendio a nord-est del Rifugio, aveva coperto per intero il lato della casa fino a lambire sul colmo del tetto le mie web-cam. La finestra della stanzetta al secondo piano era sparita. Ricordai che

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un’anta della finestra era aperta per metà. Salii velocemente la scala per capire se quello che temevo era successo. In parte. La neve che aveva rotto i vetri della finestra s’era ammucchiata sul letto di fronte. Ma fortunatamente l’anta s’era chiusa interrompendo il flusso bianco. Stava schiarendo e a sera un cielo limpido mostrava la solita miriade di stelle. Eravamo vivi. Senza corrente alla debole luce delle lampade a gas riattivate per l’emergenza, quella sera dopo cena andammo a letto presto. Il sopralluogo alla presa d’acqua della centralina lo avevo rimandato al giorno dopo.

L’ultimo smottamento terminato sulla baita sotto il rifugio

Storia d’amor di Alberto Maria Betta

L’era bela la Rocheta La viveva su en montagna La vendeva en riva al lac Le fassine d’erba spagna

Ma eco subit na tompesta Fata Ora l’è gelosa La rebalta la barchetta Col bom Baldo e la morosa.

El bon Baldo pescador El g’ha dat ‘na sola ociada E Rocheta pora fiola La se è subit’namorada

No i è pu tornadi a riva S’ei negadi? S’ei salvadi? Fato stà che chi da noi No i li ha pu desmentegadi

“Monta su la me barchetta Oh Rocheta del me cor Che te porto ‘n mess al lac E te ‘nsegno a far l’amor”

En ricordo al lor amor Gh’è do monti che i se varda Monte Baldo e la Rocheta Che i corona el lac de Garda.

La se buta ‘n tra i so brazzi E la monta su la barca E a remade forti e svelte Lu el la mena verso’l Sarca

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RIFUGIO TRIVENA m 1650 - Val di Breguzzo

Apertura estiva dalla seconda domenica di giugno alla seconda di ottobre APERTURA INVERNALE dal 27 dicembre al 31 marzo Tel. rifugio 0465 901019 - Tel. abitazione 0465 322147 www.trivena.com


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Come stanno i ghiacciai trentini Comitato Glaciologico Trentino Il ghiacciaio è un sistema naturale che scambia materia ed energia con l’ambiente circostante. I ghiacciai registrano fedelmente i cambiamenti del clima e rispondono alle sollecitazioni modificando la loro forma e le loro dimensioni in quanto molto sensibili alle variazioni termiche: costituiscono quindi degli indicatori privilegiati dei cambiamenti climatici in atto. Per questo motivo l’osservazione, lo studio e il monitoraggio degli apparati glaciali è particolarmente importante, anzi fondamentale, per conoscere i cambiamenti che stiamo vivendo e capirne l’evoluzione. Sui Ghiacciai Trentini queste attività si svolgono ormai dal lontano 1927 da parte dei volontari

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della S.A.T. (Società degli Alpinisti Tridentini). Proprio all’interno della S.A.T., nel 1990, è stato costituito il Comitato Glaciologico Trentino, che fa parte del Comitato Glaciologico Italiano: da ormai più di 20 anni, gli otre 40 operatori del Comitato mantengono costantemente monitorati i principali ghiacciai trentini, misurandone le variazioni frontali ma anche le variazioni di volume (bilanci di massa). Attraverso, infatti, una Convenzione con l’Ufficio Meteotrentino della Provincia Autonoma di Trento, il Dipartimento di Ingegneria Civile ed Ambientale dell’Università di Trento ed il

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Foto storica

Museo delle Scienze, dal 2006, sui ghiacciai trentini più rappresentativi sono state ampliate le attività di rilievo tradizionale effettuando indagini che consentono di svolgere rilievi ed elaborazioni con notevole precisione e dettaglio: annualmente vengono poi registrati i “bilanci di massa” confrontando gli accumuli nevosi invernali e le perdite estive di neve e ghiaccio. I ghiacciai sui quali vengono effettuati questi studi analitici sono: Mandrone, Lobbie e Presena nel Gruppo Adamello Presanella, Agola nel Gruppo di Brenta, Careser e La Mare nel Gruppo Ortles Cevedale e il Ghiacciaio della Marmolada sulla Marmolada: le misure vengono effettuate attraverso centinaia di paline (pali di alluminio di 2 cm di diametro lunghi 2 metri che, attaccati assieme, raggiungono la lunghezza di 8 - 10 metri) appositamente infisse nel ghiaccio, in corrispondenza delle quali si misurano gli 174

accumuli nevosi invernali e l’ablazione estiva di neve e ghiaccio. Durante le misurazioni primaverili vengono eseguite anche trincee in tutto lo spessore della neve per osservare e registrare la stratificazione del manto nevoso e determinarne la densità. Il riscaldamento dell’atmosfera terrestre a livello globale trova pieno riscontro anche nei dati raccolti presso le stazioni meteorologiche presenti in Trentino (soprattutto presso quelle in quota), così come dalla forte riduzione dell’estensione superficiale e della massa anche dei ghiacciai trentini che, negli ultimi 2 secoli, si sono ridotti notevolmente perdendo circa il 70% della loro massa. Per quanto riguarda gli arretramenti frontali, la fronte del Ghiacciaio della Marmolada, per esempio, è arretrata di quasi 50 metri fra il 1930 ed il 1980 ma di ben 300 metri fra il 1980 ed il 2010! Annuario 2013


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Fronte del ghiacciaio del Mandrone con punto SAT per le misure di variazione frontale

Panoramica dal Cevedale sul ghiacciaio di La Mare Annuario 2013

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La fronte del Ghiacciaio d’Agola (Gruppo di Brenta) nel periodo dal 1990 al 2012 è arretrata di circa 90 metri, mentre la fronte del Ghiacciaio del Mandrone (Gruppo Adamello Presanella) è arretrata di quasi 90 metri nel periodo fra il 2009 ed il 2012. Se poi vogliamo concentrarci sulla riduzione di massa, il Ghiacciaio d’Agola, nel periodo dal 2002 al 2011 ha perso mediamente, su tutta la sua superficie, 17,2 metri di equivalente in acqua pari a quasi 18,5 metri di ghiaccio. La più lunga serie storica dell’intero arco alpino risale al 1967 e riguarda il Ghiacciaio del Careser (Gruppo Ortles Cevedale) e ci dice che, per quanto riguarda questo ghiacciaio, dall’anno idrologico 1966-67 all’anno 2010-11 si sono persi mediamente 46,6 metri di equivalente in acqua, pari a più di 51 metri di ghiaccio su tutta la superficie del ghiacciaio! Sempre nell’ambito della Convenzione, su que-

sto Ghiacciaio sono stati fatti inoltre rilievi con tecniche di laser scanner (LIDAR) e nel 2007 è stato eseguito un rilievo con georadar (GPR), che ha dato la possibilità di determinare lo spessore del ghiaccio e la giacitura della roccia sottostante: sul corpo principale è stata misurata una profondità massima di circa 80 metri ed un volume complessivo di quasi 44 milioni di metri cubi. Sulla superficie del ghiacciaio è stata inoltre posizionata una stazione meteo per poter monitorare con continuità l’andamento dei principali parametri meteorologici. Negli ultimi anni si registra su questo ghiacciaio una perdita media annuale di circa 2 - 2,5 metri di ghiaccio, e questo dato lo possiamo esportare anche sugli altri ghiacciai trentini sotto osservazione. Foto estratte dall’archivio di Christian Casarotto e Gianluca Tognoni

Un’attuale foto del Mandrone messa a confronto con una foto storica dell’archivio SAT

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FERMARE LE EMOZIONI

Fermare le emozioni Vi riproponiamo lo spazio dedicato agli scatti fotografici dei nostri soci e simpatizzanti, che attraverso le loro immagini, possiamo condividere un momento delle tante gite ed escursioni praticate. Il tema perlopiÚ è incentrato sulla montagna e per la prossima stagione, invitiamo gli appassionati e non di fotografia, ad inviarci il loro materiale con il seguente tema: animali in montagna. Confidando nel vostro interesse a produrre materiale per nuove emozioni da fermare...auguriamo una buona visione.

Machhapuchhre di Carlo Zanoni

Argentina - Cataratas del IguazĂš di Danilo Angeli Annuario 2013

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FERMARE LE EMOZIONI

Care Alto di Stefano Parisi

Cile - Torri del Paine di Danilo Angeli

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FERMARE LE EMOZIONI

Cima Capi di Stefano Reversi

Lato est cima Carè Alto di Edoardo Nicolini Annuario 2013

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FERMARE LE EMOZIONI

Montone di Edoardo Nicolini

Specchio in nero sul lago di Molveno di Edoardo Nicolini

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!!Resistere, Resistere, Resistere!! di Erienne Come disse un mio “caro amico” in tempi di benessere si getta l’osso con ancora la carne, mentre quando tale benessere inizia il cammino del declino, l’osso vien gettato ben pulito. Allora, quando un periodo di disagio economico e sociale si presenta nella nostra vita, i ricordi accorrono nella nostra mente per aiutarci a sopportare le difficoltà e forse indicarci una via d’uscita. Ma non solo. Infatti attraverso le esperienze del passato, nostre e altrui, possiamo individuare nuove strategie da applicare alla nostra realtà, pur attingendo dal passato, perché immaginare il futuro è diventato cosa assai difficile. Infatti se il passato è come un tempo dove cullarci piacevolmente, il presente è l’unico tempo che percepiamo in tempi difficili, perché per il momento, il futuro non svolge alcuna attrattiva e

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ispirazione, svuotato di progetti e programmi a lungo termine, nella sua incertezza. Ed ecco che sfogliando un nostro annuario del 1995, ho trovato un articolo in cui l’articolista ha inserito a chiusura del suo articolo, un volantino che aveva trovato nel 1938, sulla cima del Pasubio in una fessura fra la roccia e ben conservato, stampato 20 anni prima. Questo volantino aveva come titolo “!Resistere!” ed incitava alla diserzione e alla resa da parte austro-ungarica, ai soldati italiani entro le linee italiane del fronte. Mi ha colpito l’attualità della parola “resistere”, pur non dovendo disertare alcun paese, ma resistere a tempi difficili si! Proseguendo nella lettura del volantino mi resi conto che questo nostro bel paese, aveva perseguito scelte che si ripercuotevano tutt’oggi, ed il problema del debito, già a

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CULTURA

quei tempi, aveva raggiunto cifre importanti. Il volantino, oltre ad offrire un elenco di motivi per cui scegliere di disertare, incitava il soldato a decidere una scelta definitiva. Oggi gran parte degli italiani si trovano nelle condizioni di “resistere” ad una crisi economica ed esistenziale, che non ha precedenti, che coinvolge ogni ramo sociale o quasi..., in quanto molto dei valori umani e morali hanno lasciato il passo ad una crescente superficialità di contenuti. Pertanto se da una parte c’è la necessità di resistere ad una situazione difficile, dall’altra ci si chiede quale futuro porteranno le scelte e le decisioni prese in questi tempi, se la

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crisi porterà più coscienza civile e sociale, o sarà la solita guerra “fra poveri”. Quanto tempo abbia dedicato il nostro soldato a decidere non lo sappiamo, sappiamo come è andata questa guerra, quanti morti ha lasciato sul campo e come è proseguita la storia dell’uomo, con altre guerre e sofferenze, che ci chiamano ad opporci ad ogni violenza e sopruso umano per la nostra doverosa continuità. Ecco sulla base di una continuità civile, sollecito nuove riflessioni affinché avvenga un vero percorso rinnovativo sociale, dove il bene comune sia il perno su cui si fondano le scelte sociali, politiche, economiche e di ognuno, quotidianamente. Il vuoto culturale è dovuto anche all’abbandono della strada del bene comune, anche all’abbandono nel credere nella dignità umana, anche all’abbandono della ricerca della verità perché attraverso la nostra volontà possiamo cambiare rotta e noi stessi. Come in guerra i giovani erano la forza delle campagne belliche, anche ora ci si aspetta o meglio gli si chiede di essere protagonisti attivi di un rinnovamento fatto di intraprendenza, invenzione e creatività per muoversi verso un progresso, che se rimane fondato sulle vecchie e scricchiolanti fondamenta, ne possiamo immaginare l’esito in pochi anni, che deve aprirsi a nuovi metodi anche stravolgendo le regole, spesso obsolete, della nostra società. Ed i giovani, aperti per natura e provvisti di capacità di adattamento, non temono la sfida, ma invece temono e subiscono la chiusura di una società a Annuario 2013


CULTURA

piramide, dove il potere è gestito per il bene personale e non comune, da pochi o dai soliti... In una società dove non c’è equità è difficile che ci sia progresso civile e sociale, ci sarà solo un gran consumismo di valori-cose inutili, e a questo punto della storia umana è evidente a tutti che l’equità è la nuova strada da percorrere per poter avviarci verso un futuro di stabilità. Stabilità e equilibrio, terreno fertile per l’innovazione della nostra società, per il tempo dei progetti, per la fiducia nel futuro delle nuove generazioni, per una cultura umana aperta che si può permettere qualsiasi confronto perché non basata su alcuna speculazione, fonte di discontinuità economica e sociale. La natura insegna nel suo movimento ciclico l’importanza del rispetto delle leggi per salvaguardare la specie, e appare chiaro che l’uomo si è spinto da sempre contro queste leggi, ma perseguire con ostinazione questa linea di pensiero,

a mio avviso, è il miglior modo per decretare il fallimento umano e di una parte della specie. E mentre la natura rimane connessa con sé stessa, fedele ai suoi principi fondatori, noi navighiamo in rete connessi a milioni ma completamente disconnessi con la parte più intima della nostra anima, vivendo un disagio epocale che ci sta portando allo sbando, allo sconforto, ma che possiamo evitare ritrovando in noi la forza della natura, che giace da sempre anche in noi, come parte del mondo. Credo a questo punto, che opporsi a certi meccanismi della nostra società possa portare nuove visioni per il futuro, attingendo a quella parte del passato del genere umano che lo ha reso migliore, anche se è stata una piccola scintilla nel buio. Termino questo scritto con la prerogativa che resistere sia una fase transitoria positiva pur con la percezione di tutto il negativo che comporta, per una nuova progressione umana più fedele alla sua natura e, con la natura.

Pardùn

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di Grazia Binelli

Perdono

Crèpi fundi ‘ntal cròz firìdi negri di ‘n dulòr sipilì suta i gerùn sgrafignè dala glac^ Afti li sgòla li s-ciablìni cui sö geri larc li cìga ala montagna la disparaziòn. Sai maròc candiloc^ ‘nglacè chi si disfa in surgìvi di fior a dumandàr pardùn ala vita purtàda ià ai giögn.

Crepe fonde nella roccia ferite nere di un dolore sepolto sotto i ghiaioni graffiati dal gelo. Alti volano i corvi (di montagna) con i loro ampi giri gridano alla montagna la disperazione. Sui macigni candelotti di ghiaccio che si sciolgono in sorgive di fiori a chiedere perdono alla vita rubata ai giovani.

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...a ricordo di nostro padre Emilio Gentilini... Bruno ed Ivo


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STORIA

Pregasina e le sue antiche usanze paesane di Bernardino Toniatti (per gentile concessione dell’autore) Quando la vita trascorreva in modo più semplice rispetto ai tempi attuali, specie nei paesi, quando non esisteva né radio né televisione, in certe ricorrenze dell’anno si praticavano delle cerimonie tramandate da tempi immemorabili come questa che mi accingo a raccontare. Alla sera della vigilia di Natale, i ragazzi del paese si riunivano e si presentavano a tutte le famiglie per cantare un paio di canzoni natalizie, mentre facevano girare una “stella”. Questa era stata costruita da un uomo tuttofare del paese; aveva un diametro di circa 80 cm che ruotava su un palo di sostegno di circa due metri lineari, il tutto in

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legno. La stella era a due facce, ricoperta con carte semitrasparenti di vari colori e, dentro questa specie di scatola si accendeva un cero sul perno statico centrale. Durante il canto, il ragazzo più grande della compagnia, reggeva la stella ed un altro la faceva ruotare con una funicella infissa ad una delle punte di forma piramidale. La rotazione della stella permetteva alla luce della candela, di emanare una dissolvenza di colori che per quei tempi era considerata un incanto. In questa particolare atmosfera natalizia, ogni famiglia donava al gruppo dei ragazzi qualche moneta o frutta oppure generi alimentari, uova

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STORIA

- farina -o qualche piccolo salame di propria produzione come si usava a quei tempi. Finito il giro, questa allegra compagnia di giovani si ritirava in una delle abitazioni più disponibili a permettere la continuazione della festa ed in collaborazione cuoceva una abbondante polenta per mangiarla con quanto era stato raccolto. Ricordo che attendevamo con ansia quella ricorrenza appunto per l’abbondante “cena“ consumata in allegra compagnia e dato che, era una antica usanza, nessuna famiglia si permetteva di negare il permesso ai figli, anche se quella era una delle poche occasioni in cui si rincasava non prima di mezzanotte. In quei tempi, non era ancora in uso la Messa di mezzanotte. Il giorno seguente si doveva riconsegnare la stella al legittimo proprietario, uomo molto severo; la controllava alla luce del sole per accertarsi che non avesse subito eventuali danni, si doveva però pagare il noleggio e porgere i migliori ringraziamenti. In una serata sfortunata capitò che il più matto della compagnia volesse portare la stella. Questo non si poteva negare sia perché era quello che ci teneva più allegri, sia perché aveva una certa personalità. La consegna della stella da parte del proprietario era sempre accompagnata dalle stesse raccomandazioni: “tenetela il più dritta possibile, senza bruschi movimenti, usando la massima attenzione ai rami degli alberi o ad altri intoppi, perchè la stella è molto delicata e fragile”. Quella fatidica sera, in mano al Tullio, sembrava proprio una stella filante, alzata sopra le siepi, abbassata sotto le pergole delle viti finché, per la caduta all’interno della candela la stella si incendiò. Il Tullio non si perse d’animo, corse con la stella in fiamme fino ad immergerla nella fontana del paese. In un primo momento il gruppo al completo si trovò esterrefatto, con gli occhi sbarrati attorno allo scheletro della stella ancora fumante senza proferire parola. Poi, cominciammo a valutare la possibilità di ricoprire quei bastoni bruciacchiati ma ancora idonei con analoghe carte incollate. Convenimmo però che sarebbe stato impossibile riuscire in tale ricostruzione, in fretta e senza che 190

il proprietario se ne accorgesse. Decidemmo perciò di riportargliela durante la notte presso la sua abitazione con attaccato un biglietto: “disgrazia è stato l’incendio, disponibili a pagare la ricostruzione“ aggiungendovi i soldi raccolti. Per parecchio tempo girammo al largo da quella casa finché, avvicinandosi il Natale successivo, mandammo un ambasciatore a trattare la possibilità di riutilizzare la stella, e questi riuscì a concludere unicamente con l’aumento dell’affitto. Il repertorio dei canti natalizi è sempre stato quello che negli anni veniva tramandato alle giovani generazioni, limitato ai seguenti pezzi: Il bambino in terra nato Circondato dal pan del ciel. Per salvar quell’uomo ingrato Per goder la gloria in ciel. Tre Marie fè buona festa Per poterlo consolar. L’è padron di tutto il mondo E l’è nato povero e meschin Al termine del canto e a regali ricevuti, si concludeva la visita cantando: Sia ringrazia’ il Signore Di questi bèi presenti, mi ricorderò sempre fino a che vivo. La sera della vigilia dell’Epifania, la stessa cerimonia veniva ripetuta dalle ragazze. Portavano in mano una capanna con dentro Gesù bambino, il bue e l’asinello. La ragazza che reggeva in mano la capanna e le due al suo fianco, portavano sulla testa una corona di carta colorata con dei fregi ispirati ai Re magi. L’inno cantato da tutte le ragazze assieme era il seguente: Noi siamo i tre Re, noi siamo i tre Re, venuti dall’Oriente, ad adorar Gesù. Ei fu che ci chiamò, ei fu che ci chiamò, mandandoci la stella, che ci condusse qui. Ecco, ecco il Bambinello, così grazioso e bello, Annuario 2013


STORIA

in braccio a Maria per la sua povertà. Al termine del canto era consuetudine consegnare alle ragazze delle offerte in denaro, dato che le stesse, più pie dei maschi, trasmettevano il ricevuto alle missioni. Il tutto si concludeva con il seguente ringraziamento: Sempre grate noi saremo della vostra carità, e dal cielo un buon pensiero da noi tutte salirà. Altra usanza era il: TRATTO MARZO Sempre, i giovani della frazione, alla sera del primo di marzo, si dividevano in due gruppi, uno all’estremità sud del paese e l’altro sul colle a nord. Ognuno di questi gruppi era munito di un rudimentale megafono e, con voce tonante si interrogavano reciprocamente sui noti e meno noti amoreggiamenti del paese con queste frasi: “trato marzo in questa tèra” - “per maritar ‘na puta bèla”; “chi èla?” - “chi no èla?”; “l’è la Giudita da maridare”, - “e a chi l’ènte po’ da dare?”;

“al Gaudenzio che ‘l la vol amare”, - “dènteghela”; “dènteghela”. E così andavano ripetendo per altre coppie. Gli annunci di amori già conosciuti e duraturi avevano lo scopo di sollecitare le “nozze“ per così poter mangiare i confetti, cosa questa molto attesa dai giovani della frazione perché abbastanza rara. Gli amori sconosciuti invece, provocavano delle più o meno gradite sorprese da parte dei genitori ignari o di pretendenti che, ancora illusi, vivevano nell’attesa dell’occasione per dichiararsi innamorati. Alcuni degli annunciati, vedovi, solitari e zitellone, erano completamente estranei a tali amori, perciò suscitavano maggiori commenti e critiche da parte dei chiacchieroni e perplessità degli interessati. Alla fine della burla, queste “accoppiate“ venivano aggiunte per scherzo, per creare un po’ di ironia e per ravvivare ancor di più la serata. In tal modo, senza spese ma con un po’ di fantasia ne uscivano dei piccoli spettacoli che, in quel tempo, riuscivano a divertire la gente.

El zoc di Stefano Cominotti Na sera de autùn col sol sul calar, col frèt en dei ossi me decido a fogàr ma per qualche mistero che no stò a spiegar quel porco den fogo nol vol proprio tacàr. Dopo mezòra de lagrime e toss me scampa l’ocio e vedo en bel zoc, un de quei bei, zà stagionà, pareva el volesse esser proprio brusà. Stìzo le brase, el trago en del foc, e a far la so fiamma el ghe mete en gran poc. E ‘ntant che som lì a vardarlo brusar, qualcuni el me parla dal fogolar.

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Cossa saràlo stà fioca vozìna, me mancherà miga na qualche fassina? Co la boca daverta vardo bèm dentro al foc ma no me sentet? Son mi son el zoc! El mà parlà de zime e granzoni, de prai de montagna de lampi e de toni, de albe dorade e limpide fonti, de zime brusade dal ros de tramonti. Tuta la sera è passà a ciaceràr mi su la carega lu nel fogolar E alora ho capì da bon montanar, che anche le storie le pode scaldar.

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STORIA

La storia della lavorazione del ferro in valle di Ledro e due delle officine più importanti: l’Officina Mazzola a Molina di Ledro e la fucina Maroni a Biacesa di Donato Riccadonna Acqua e fuoco al lavoro Nel 2012 è stata presentata la pubblicazione “Acqua e fuoco al lavoro. Tracce di antiche attività in valle di Ledro”. Gli autori sono Alessandro Riccadonna e Stefano Salvi, il libro è stato stampato dal Comune di Ledro e la ricerca, svolta per conto dell’associazione Araba fenice, è stata finanziata dalla Fondazione Caritro e a visto la collaborazione del Museo delle palafitte e dell’Istituto comprensivo della valle di Ledro. Con questa ricerca si è cercato di fare un quadro storico e contemporaneamente individuare quello che è rimasto ora delle attività artigianali e produttive che utilizzavano come forza motrice l’acqua e il calore del fuoco. Di queste attività sono state individuate 10 tipologie: calchere, carbonaie, produzione della pece, fornace per laterizi, mulini, segherie, centrali idroelettriche, cartiera, ferriere e fucine, fabbriche di magnesia. Intrecciando le varie fonti sono state individuati circa 200 opifici che sono stati attivi in un arco di almeno 3-4 secoli, tra il 1700 e la metà del 1900, dando lavoro a centinaia di persone. Il presente articolo prende lo spunto da questa ricerca e si sofferma su due officine tra le più importanti: L’Officina Mazzola e la Fucina Maroni. La storia del ferro in valle di Ledro La storia della lavorazione del ferro in valle di Ledro ha una tradizione antichissima. A partire dal XV secolo assume una organizzazione strutturata, quando il mercato del ferro conosce una stagione particolarmente florida Annuario 2013

nella zona del Garda, aiutato anche dalla strategica collocazione geografica fra repubblica di Venezia e il ducato di Milano. Lo sviluppo dell’artigianato ferroso in valle di Ledro è per certi aspetti “anomalo” poiché, se escludiamo la possibilità dello sfruttamento della forza idrica (il Ponale), non esistevano nella zona miniere ricche di minerali ferrosi e la loro importazione era resa estremamente difficoltosa dall’ostilità dei collegamenti stradali: fu ancora una volta il porto del Ponale ad essere la porta d’ingresso principale del territorio ledrense, grazie al quale le ferriere vissero un periodo di intenso sviluppo fra il XVII e XVIII secolo. Fu così che vennero realizzati, soprattutto nella zona di Molina e Pré, alcuni laboratori di produzione e lavorazione del ferro, dove i manufatti ferrosi venivano prodotti, venduti o stoccati. La prima ferriera ledrense è fatta risalire all’inizio del secolo XVII quando un Salvina di Prè poi detto il Ferrer costruì la propria ferriera sulla strada per Leano, nei pressi della sorgente Acqua Grande. L’attività legata al ferro e ai suoi prodotti era sostenuta anche da importanti famiglie di industriosi mercanti come gli Archetti di Brescia; questi proprietari di alcune ferriere già dal 1600 ne possedevano una a Prè detta al Negozio. Il mercato del ferro era altalenante e una ripresa intensa, anche se mai ai livelli degli anni precedenti, si ebbe intorno al 1820, con otto forni funzionanti. I cambiamenti della situazione politica, l’avvento di Napoleone e della Repubblica Cisalpina, la caduta di Venezia, la rivoluzione industriale e l’arretratezza della val di Ledro dal 193


STORIA

I Negozi

punto di vista infrastrutturale causarono, sul finire del XVIII secolo, il crollo della produzione di ferro e il tramonto del relativo artigianato, con l’eccezione di alcune fosine che resistettero e continuarono a lavorare il ferro, come l’Officina Mazzola. Nel 1866 con l’arrivo di alcune decine di operai bresciani la produzione in valle di Ledro sembrò riprendersi e da loro i ledrensi impararono a perfezione la fabbricazione delle “brocche a zappa” con la relativa complessa tecnica.

di Ledro vicino al canale del torrente Ponale. La data si può leggere scolpita in una pietra di granito che sorregge il grande maglio. La storia della famiglia Mazzola inizia attorno agli inizi del 1900, quando acquistano la casa e l’annessa attività. Il lavoro dura poco a causa di alcune difficoltà e prima della Grande guerra i fratelli Mazzola (Angelo, Leopoldo, Nello ed Elia) emigrarono negli Stati Uniti. Solo Nello ed Elia tornarono in valle dopo la guerra, ma solo quest’ultimo riaprì la vecchia fucina, mentre Nello andò a lavorare nelle fornaci Carloni di Ceole. Nella fucina vi lavorarono inoltre Nicolò, Angelo, Gigi (specializzato con il tornio) ed Arrigo Mazzola, impararono il lavoro anche Antonio e Umberto “Davide” Canali. Dal 1929 l’officina funzionò con la corrente elettrica, mentre prima sfruttava l’acqua del Ponale. Era conosciuta e frequentata da tutta la vallata, in

L’Officina Mazzola a Molina di Ledro Oltrepassare la porta dell’Officina Mazzola è come varcare una porta del tempo ed entrare in un mondo apparentemente sconosciuto dove alcuni oggetti ed attrezzature raccontavano di un tempo antico. L’officina, che ospitava l’attività di un fabbro fin dal 1796, si trova a Molina

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quanto specializzata nella produzione dei cerchi delle ruote per i carri, nell’intelaiatura dei carri da trasporto, in attrezzatura per il traino del legname nel bosco, in aratri, spartineve, zappe, picconi e roncole. Durante il giorno il maglio veniva usato dai Mazzola, mentre la notte, per guadagnare due soldi, veniva affittato ad altre persone. L’opificio funzionò fin dopo la Seconda guerra mondiale e dopo in un cascinale adiacente si trasformò in officina meccanica. Attualmente all’interno dell’edificio sono conservati gli attrezzi originali utilizzati per lavorare il ferro; l’officina assume un’importanza fondamentale grazie alla presenza della forgia con il crogiolo ed il maglio, ambedue ubicati nella loro sede originale. La fucina Maroni di Biacesa Si trova a Biacesa vicino al torrente Ponale e attualmente è una casa di abitazione ristrutturata alcuni anni fa. La costruzione era nata come mulino come risulta dal Protocollo degli Edifizi del 1859) e quest’attività proseguì fino alla Prima guerra mondiale. Durante la guerra venne distrutta e nel 1924-25 Umberto Maroni inoltrò la richiesta di concessione d’uso dell’acqua per poter alimentare non un mulino ma una fucina, dotata di maglio, che rimase in funzione fino al 1955-56 utilizzando sempre la forza motrice dell’acqua. Le tracce antiche tuttora visibili sono: 5 macine

Fotografia degli anni ’60. Si nota il canale artificiale che portava l’acqua alla ruota. (Proprietà Riccardo Ziviani). Annuario 2013

Fotografia degli anni ’60. (Proprietà Riccardo Ziviani)

Fotografia interno fucina anni ’90 (Operatori ambientali)

La fucina Maroni com’è adesso

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di granito, alcuni tratti del canale d’irrigazione (seriola) una ruota idraulica (presumibilmente degli anni ’20 del XX secolo), gli ingranaggi in ferro e delle ruote in pietra interne, il banco di lavoro con la grande morsa all’esterno e alcuni attrezzi di lavoro posizionati nella cantina esterna, utilizzata durante la Prima guerra mondiale come rifugio militare dall’esercito italiano. L’attrezzatura che veniva prodotta all’interno della fucina veniva marchiata come segno di garanzia e di tracciabilità del prodotto. In questo caso possiamo vedere una roncola con quattro stelle poste a semicerchio e la scritta Maroni in Biacesa, il tutto veniva realizzato attraverso l’utilizzo di un punzone su un manico. Questo marchio era il riconoscimento del lavoro di Umberto Maroni, la cui fucina usava soprattutto ferro ed acciaio che veniva recuperato nelle trincee della Prima guerra mondiale. Dal 1948 fino al 1955/56 l’officina fu presa in affitto da Antonio Canali, a cui dava una mano il figlio Umberto “Davide”; venne introdotto un nuovo marchio

Roncola con il marchio dei Maroni costruita presumibilmente fra gli anni ’20 e gli anni ’40 (proprietà di Enzo Pellegrini)

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composto da 3 stelle in orizzontale e furono utilizzate come materiale di trasformazione le rotaie del treno. Erano specializzati in attrezzature da taglio: badili, vanghe, zappe, picconi, zappini per i tronchi, roncole (ne producevano anche 12 al giorno) e scuri di tre tipi (da 32 cm per le bore, un po’ più corte per i rami e quelle più piccole per spaccare la legna).

Esempio di piccola scure per spaccare la legna, che in questo particolare caso venne adoperata da Marino Berti per tagliare il tufo nella cava di Molina. Nel 1950/51 venne riparata da Umberto Canali dopo essersi crepata. Marchiata con le 3 stelle dei Canali.

Durante il censimento delle attività artigianali sono state trovate solamente due ruote idrauliche in tutta la val di Ledro. Una di queste si trova appunto a Biacesa presso la fucina Maroni mentre l’altra ai Negozi di Prè. A differenza di quella di Prè, questa presenta ancora la sua struttura pur se parzialmente danneggiata, questo grazie alla posizione riparata. La ruota si trova ancora nella sede originale dove un tempo era impiegata, è presente anche l’albero che entrando nell’edificio collega la ruota ad alcuni ingranaggi metallici e a delle ruote in pietra. L’acqua derivata artificialmente in un canale, ancora visibile all’esterno, veniva convogliata e fatta cadere da un’apertura tuttora visibile posta sopra la ruota (vedi progetto di Riccardo Ziviani). Annuario 2013


STORIA

Ingranaggi interni collegati attraverso l’albero di trasmissione con la ruota idraulica (Disegno di Riccardo Ziviani)

Si riporta la copia del documento originale della richiesta, di data 21 giugno 1924 a firma di Umberto Maroni, al Ministero dei Lavori Pubblici per l’autorizzazione alla derivazione delle acque del torrente Ponale a servizio dell’officina con allegata la planimetria e l’atto di notorietà attestante il diritto delle derivazione delle acqua a firma dell’allora sindaco R. Maroni e alcuni testimoni. (Proprietà di Riccardo Ziviani). Annuario 2013

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Ma và fa ‘n giro di Mirco Gò voia de scriver do righe no som persona studiada e lè come Ercole e le so fadighe ma zerco de viver ala giornada.

Vei voia de nar al lac co’ na carega ciaparse l’ocasiom per veder le sardene en frega con bicer de quel bom.

Ghè i oblighi e i doveri che i te tira semo ghè le scelte e i piazeri che no i te fa nar al Eremo.

Ghe sen’ vorà na damigiana e na santa pasienza na bela bocada de aria sana e dele sardene se pol anca far senza...

Ghè anca i governanti che i te dis cosa pensar e che far sol che i è cosi tanti che i te cava el magnar.

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L’isola di Sant’Andrea di Ferdinando Martinelli a lungo sull’utilizzo di quella vasta superficie (123 ettari, poco più di un kmq): ricuperare l’area all’agricoltura, farne un bacino di carico per la centrale idroelettrica di Torbole, creare le condizioni perché il lago venisse a riformarsi, farvi crescere un pioppeto, e così via. Discussioni infinite, che non portarono a nulla. Quel tempo, tuttavia, non andò perduto, perché la natura provvide spontaneamente ad instaurare un ecosistema palustre, il più esteso del Trentino, ricco di piante (come salici, pioppi, betulle, ontani, carici) e di animali (folaghe, germani reali, anfibi: in primavera qui si riproduce il rospo comune, ed infatti lungo la strada sono state poste delle reti per impedirne un vero e proprio massacro da parte delle auto). Insomma, la natura selvaggia ha qui avuta la sua rivincita. Ma, tornando alla nostra isola, fin dall’anno 2000 la Sezione archeologica del Museo Civico di Rovereto ha condotto una serie di campagne di scavi sull’isola di Sant’Andrea con la collaborazione di studenti volontari delle scuole medie e superiori di Rovereto. L’iniziativa si è svolta con successo anche grazie al contributo del Comune di Mori e della Trento Servizi SpA che hanno messo a disposizione del Museo i mezzi e i fondi necessari per l’organizzazione logistica del campo archeologico. Gli scavi hanno portato alla luce numerosi reperti e resa quindi possibile la ricostruzione della storia dell’isola e dei suoi abitanti. Sono state rilevate tracce di Ricostruzione, sulla scorta di reperti, della chiesa di Sant’Andrea, consacrata capanne in legno risalenti al V-VI secolo, strati di cenere, focolari nel 1138 «Non credo che fra i laghetti alpini ve ne sia uno di più pittoresco... Le frane, mentre gli composero un lido tutto penisole, seni e frastagli, gli eressero nel mezzo isole scogliose convertite in boschetti a cui fanno vaga cintura alla base i giunchi lacustri...». Così, verso la fine del 1800, l’abate Antonio Stoppani descriveva il lago di Loppio. Tra le “isole scogliose” da lui segnalate, una si distingueva dalle altre per dimensioni e per altezza: era l’isola di Sant’Andrea, che emergeva dalla superficie del lago a circa metà strada tra il paese di Loppio e il passo di san Giovanni, separata dalla riva meridionale da uno stretto di una trentina di metri. Ora il lago, come si sa, è stato completamente vuotato della sua acqua nel 1958, in seguito alla costruzione dello scolmatore Adige-Garda, e alla conseguente distruzione delle falde freatiche che lo alimentavano. Dopo di allora si discusse

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e, più recentemente, sono venuti alla luce muri appartenenti ad edifici di varie dimensioni del VI e VII secolo. I materiali portati alla luce testimoniano che la piccola isola è stata abitata nel corso dei secoli da pescatori e da allevatori, la cui vita era arricchita da oggetti provenienti dall’esterno, come anfore orientali e africane di cui sono stati trovati frammenti. Sulla sommità dell’isola, inoltre, ci sono i resti di una chiesa consacrata nel 1138 e dedicata a sant’Andrea, l’apostolo pescatore, dal quale l’isola prese nome. Sopra questi resti è stato costruito un capitello votivo, quadrifronte, in parte ora diroccato. Il perimetro dell’area sommitale conserva ancora consistenti rovine di una antica costruzione, forse una fortificazione, testimoniata dalla presenza di una possente muraglia di pietre sagomate legate con calce. Nel corso delle varie campagne di scavi nell’isola sono stati portati alla luce numerosi frammenti ossei di animali. Gli animali maggiormente pre-

senti nell’isola, in età tardo antica e alto medievale, risultano essere stati i maiali, seguiti da capre, pecore e buoi. Numerosi sono anche i resti ossei di galli, galline e di altri uccelli selvatici, nonché di pesci, in particolare di ciprinidi (carpa, tinca, barbo, cavedano...). In conclusione, l’economia animale dell’isola era basata sull’allevamento dei grandi domestici e della pesca.

Tutto questo lavoro condotto da esperti archeologi può ora essere visitato con una breve passeggiata. A circa metà della bella strada ciclo pedonale tra il passo di San Giovanni e il paese di Loppio, è stato realizzato, mediante un riempimento con materiale di riporto, un collegamento con l’isola, che è possibile raggiungere solo a piedi. Attraversato il breve canale che la separa dalla terraferma, un comodo sentiero, che sale fino alla cima e che poi ne ridiscende, tocca tutti i punti più interessanti del sito e presenta belle panoramiche sull’intero biotopo, con la sua vegetazione rigogliosa e le sue paludi. Da segnalare che tutti i reperti emersi sono bene illustrati con cartelli recanti esaurienti descrizioni, che talvolta stimolano la fantasia del visitatore, come quello, collocato in un punto particolarmente panoramico, che qui di seguito trascriviamo: «Se potessimo vedere a velocità accelerata il lungo film della vita di questo lago, ad un tratto e per un istante apparirebbe, là sull’orizzonte, una grande folla di uomini, buoi e cavalli. Nel gran trambusto vedremmo i boschi tagliati, Così doveva apparire il villaggio di Sant’Andrea nel VI secolo i tronchi disposti al suolo

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la canonica di Santo Stefano di Mori tra i rappresentanti dei tre comuni, per stabilire il punto di incontro dei confini di pertinenza di ciascuno di loro. E di comune intesa stabilirono che «esso sia alla porta della Chiesa di Santo Andrea la quale si è sopra il dosso che è nel lago [omonimo]..». Ecco il testo del documento: In la Villa de Mori, in la sala della Canonica della Pieve di Santo Stefano, La possente muraglia costruita agli inizi del VI secolo a difesa della sommità del colle adì de Giobia 10 del mese e del villaggio. Oggi rimangono solo pochi resti di agosto 1506, presenti li venerabili don Zuane e una flotta di navi avanzare per terra. Gualdano del teritorio di Ronzono, Joanne di Poi sul lago la vedremmo navigare e di là, con Lamberti de Castro Bologneso, Steffano Barbiero uguale trambusto, riprendere la via di terra verso e Nicolò Barbiero, don Steffano Folador, Nicolò il passo e poi, oltre, sparire. Tonetta abitanti della soprascritta Villa de Mori, Quale onore, per un piccolo lago in mezzo alle tutti testimoni conosciuti a questa cosa chiamati e montagne, esser solcato da navi vere in un viag- specialmente pregati. gio vero! Ed erano navi della Signoria del mare, ...Iinvocati i Nomi di Cristo et di Sua Madre et la Serenissima Repubblica. sempre Vergine Maria dalli quali pendono tutti i Nel 1439, infatti, essendo in guerra con Milano, giusti Giudici. Hanno dito, arbitrato, declarato, Venezia invia un naviglio militare che risale l’A- sentenziato al modo et forma come qui sotto: dige, transita per questa valle e giunge infine sul Primo. Che il primo termine sia alla porta della lago di Garda. Una flotta nel cuore delle Alpi, l’unica di cui la storia conservi notizia». Chi allora abitava l’isola di sant’Andrea, fu dunque testimone dell’evento straordinario: galeas per montes... La sacralità del colle era ribadita, in un lontano passato, anche dalla presenza di un cippo di confine. Infatti la chiesa di Sant’Andrea, sulla sommità dell’isola, segnava un tempo il confine tra i comuni di Nago, Mori e Brentonico. Un documento conservato presso l’archivio storico del comune di Nago-Torbole, sotto la data 10 agosto 1506, racconta di un incontro avvenuto presso Annuario 2013

Gennaio 1916. Targa ricordo del reparto militare che ha occupato l’isolotto del lago di Loppio

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Epigrafe con “Isola Clotilde”, marzo 1916

Chiesa di Santo Andrea la quale si è sopra il dosso che è nel lago di Santo Andrea salvando l’andar e il ritornar a essi di Brentonico et di Mori, et dalla dita porta in su andando al drito per il Monte fino a un altro termine di preda nigra piantato il quale ecc., ecc. 1 Vicino alla porta della chiesa, doveva dunque esserci un tempo il “termine” che segnava l’origine dei tre confini comunali. Sappiamo che la disputa per quello tra Nago e Brentonico nel punto in cui, salendo da Sant’Andrea, incontra i prati della Bordina, è durata secoli, e che ebbe una composizione pacifica solo verso la fine del XIX secolo.

Casina, Doss’Alto e la valle del Roncolà. Nel tardo autunno del 1915, il comando del V Corpo italiano aveva progettato di spostare verso valle la linea di difesa, soprattutto al fine di intercettare al nemico le comunicazioni tra Riva e Rovereto, ma anche per alleviare il disagio delle truppe, ora che si avvicinava la stagione fredda, portandole a quote più basse e in vicinanza di abitati. Fu così che, con una ardita operazione militare, durante la prima quindicina di gennaio 1916 un reparto del VI reggimento Alpini del battaglione Val d’Adige occupò Carpeneda, la q. 403, nord di Piandin, Ca’ Rossa, le falde di q. 703 (Doss’Alto), Loppio e l’isolotto di S. Andrea. A questa ardita operazione partecipò anche il legionario trentino sottotenente Cesare Battisti, al quale fu concessa la medaglia d’argento e la promozione a tenente per meriti di guerra. Le truppe italiane tennero quella posizione avanzata per sei mesi. Curiosamente quell’isolotto, di cui il comando italiano evidentemente non conosceva l’antico toponimo, fu chiamato isola Clotilde, in onore di una principessa Savoia zia del regnante Vittorio Emanuele III.

Avvicinandoci ai giorni nostri, c’è infine da segnalare una certa importanza strategica che l’isola di Sant’Andrea rivestì durante la prima guerra mondiale. Come è noto, all’inizio del conflitto (maggio 1915), il fronte fu arretrato da parte degli austriaci di qualche chilometro rispetto al confine di stato tra Austria e Italia (che partiva dal lago di Garda 3 km a sud di Torbole). Fu una scelta strategica che consentì agli imperiali una migliore difesa. Il fronte scendeva dalla cima dell’Altissimo fino quasi a Loppio attraverso una linea che toccava ora la Varagna, il Remit, Dosso 1 ASCNT Faldone n. 7 Atti amministrativi 1906-1790 (Fascicolo 1506).

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Alpini del VI Reggimento nei pressi dell’isola, marzo 1916 Annuario 2013


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Farewell Annapurna Circuit di Carlo Zanoni È la mia terza volta in Nepal ma l’emozione è quella di sempre, eterno bambino rigurgitante di curiosità. Il Nepal è il paese che mi ha tenuto a battesimo nelle mie esperienze extraeuropee, è un po’ come il primo amore che, come vuole la tradizione, non si scorda mai. Mi stupisco e rimango io stesso sbalordito dall’estrema facilità con cui riesco a togliere la polvere che il tempo trascorso ha inevitabilmente depositato sul cassettone delle esperienze vissute. Forse il compito è più facile di quanto si possa immaginare: basta lasciar correre la mente e non opporre resistenza.

Scopo del viaggiare è disciplinare l’ immaginazione per mezzo della realtà e, invece di pensare come potrebbero essere le cose, vedere come sono in realtà. Samuel Johnson, Johnsoniana, 1776 Usciti dall’aeroporto è subito chiaro che solo Thsiring, il titolare dell’agenzia locale, è quello di sempre. Ora la città è quasi ordinata, i tuk-tuk sono scomparsi del tutto, l’aria allora azzurrina di smog è limpida al confronto. An-

Risaie nella bassa Marsyangdi Annuario 2013

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Costruzione degli ultimi tratti in roccia della nuova carrozzabile

che i prezzi non sono più quelli di allora, ora il biglietto per visitare Patan è per noi turisti allineato con quello dei più sfarzosi musei. Lo stesso dicasi per le varie piazze monumentali della città. Non che sia scandaloso richiedere un contributo al visitatore per il mantenimento e la salvaguardia dei luoghi, ma l’impressione, considerato che non si vedono cantieri di restauro e lo stato generale dei palazzi monumentali sembra esprimere un grido di pietà, è quella di un sistema preordinato a succhiare denaro fresco che poi si disperde chissà dove e come. Quello che rattrista di più è vedere Durbar Square desolatamente sola, quasi un’anima abbandonata. La prima volta era stata una fiumana impenetrabile di gente, turisti e venditori 204

sparsi ovunque a riempire ogni spazio nel gran vociare delle contrattazioni secondo la migliore tradizione orientale. La volta successiva la stessa piazza stracolma di venditori la avevo trovata paurosamente vuota di turisti, ma la colpa era stata addossata alla paura di volare dopo gli attentati alle torri gemelle. Ora sì c’è gente comunque, tanta gente che passa, turisti che osservano i monumenti, ma le bancarelle si sono ritirate in un angolo come se si fossero messe in disparte, specie ormai destinata a una silenziosa estinzione. Una foto scattata per documentare il fenomeno del ritiro dei ghiacciai sulle nostre montagne è l’immagine che mi suggeriscono le dolci e malinconiche note delle mazurche di Chopin che scorrono nelle cuffie Annuario 2013


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mentre scrivo, per raccontare questa strana sensazione. Impercettibile e tuttavia inesorabile. Mi autoconvinco che, forse, sono di fronte ad uno dei tanti tangibili modi con cui la omni additata globalizzazione si manifesta agli occhi del comune cittadino del mondo. È un continuo oscillare fra certezze e nuovi orizzonti. Così è curiosamente piacevole ripassare davanti ad una gioielleria nel centralissimo quartiere di Thamel dove Lucia aveva comperato cinque anni or sono un piccolo ciondolo e scoprire che il proprietario, forse perchè particolarmente legato per professione all’Italia, non appena accennato che si era stati nel negozio si è ricordato della cliente e con grande

precisione che cosa le aveva allora venduto. La crisi che sta investendo il mondo si sente forte, lamentava, disposto a riacquistare il piccolo gioiello allo stesso prezzo di allora per sostenere la genuinità del suo commercio. Ma all’oggetto è legato anche il ricordo di quell’occasione e i ricordi quelli no non si possono vendere. Anzi la gentilezza e la simpatia di quest’uomo meritano di essere consolidate, in quest’epoca di valori evanescenti. Il fatto di aver fissato un legame fra un oggetto, peraltro di modesto valore economico, ed una persona incontrata una volta nella vita ha lasciato un inconsapevole, inaspettato insegnamento.

Internet now available Annuario 2013

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Versanti orientali del massiccio del Annapurna

La crisi si sente marcata, lamentava anche Tshiring e sono sempre meno i gruppi che arrivano specie dall’Italia. Questa è la terza volta che ho l’occasione di interagire con lui nell’organizzazione dei trek e, al di là dell’impeccabile qualità professionale, si re incontra molto volentieri una persona alla quale sono comunque legati tanti momenti intensi. Anche questa una persona che a distanza di tempo, con piacere, scopri essere rimasta sostanzialmente immune dalla tempesta. Già i ricordi riemergono ancora lucidi e freschi nella maestosità delle montagne della valle del Khumbu. In ufficio sulla parete campeggia la foto scattata ad un bambino sullo sfondo della sublime eleganza dell’Ama Dablam. Un bambino in206

stradato alla professione di portatore con cui abbiamo condiviso casualmente un lungo tratto di sentiero. Quante volte volgendo lo sguardo l’ho usata come metro per comprendere il mio presente e sempre mi sono chiesto: chissà se per lui si è aperto un futuro migliore. Testimonianza silenziosa di un infinita irrisolvibile questione. Oppure nella spiritualità del percorso lungo la valle del Karnali che ci ha portato lungo un’antichissima via carovaniera attraverso l’“hidden Himalaya” alla montagna sacra per eccellenza, il Kailash. Ora un po’ posso comprendere quanto il privilegio di aver potuto percorrerne la Kora abbia contribuito ad aver purificato più che l’anima, la capacità di osservare questo nostro mondo. Annuario 2013


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Questa è la volta dell’Annapurna circuit. Era da un po’ di tempo che lo inseguivo. “Prima che questo trek scompaia dalla faccia della terra” mi dicevo sempre. Sull’onda dei ricordi, non poteva esserci poi coincidenza più fortuita. Thsiring ci presenta la sera prima della partenza Kharma la guida che ci ha assegnato. Osservo i lineamenti e la fisionomia, sono trascorsi dieci anni, poi Lucia non ha dubbi e chiedo conferma. È Kharma Sherpa la guida che ci ha accompagnato nel trekking del Khumbu al Campo Base dell’Everest. È sufficiente rammentare qualche aneddoto legato alle vicende del giro di allora che anche lui ci colloca nella griglia della sua memoria. Con l’organizzazione dell’agenzia di Thsiring non avevo dubbi, ma per come ci eravamo conosciuti con Kharma è una certezza che saremo in ottime mani.

Così, accompagnati da giornate splendide, compiamo il circuit “prima che questo trek scompaia dalla faccia della terra”. Il programma di infrastrutturazione è ormai in fase avanzatissima di realizzazione. La Kali Kandaki in discesa è già servita da un servizio regolare di autobus e in auto si arriva a Muktinath, uno dei luoghi più sacri dell’Himalaya, cosa che permette, con gli stessi giorni di viaggio, di agganciare al “Circuit” la salita all’ABC, l’Annapurna Base Camp. Anche in salita lungo la Marsyangdi la strada è in gran parte realizzata, il sentiero in buona parte è stato trasformato nella prossima carrozzabile. Uno sparuto gruppetto di operai stava lavorando ad abbattere l’ultima frontiera scavando nella roccia a picco sul torrente con attrezzature rudimentali l’ultimo tratto. Saranno un paio di chilometri circa. Si tratta di

Casa di abitazione a Ghandruk Annuario 2013

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Motociclette in salita da Muktinath verso il Thorung La

strade tipicamente himalayane, strette e franose la cui percorrenza è riservata a mezzi fuoristrada o a spericolati autobus, ma la portata dell’innovazione è enorme. A Manang in un cortile abbiamo scattato una foto a due motociclette parcheggiate, mentre scendendo dal Thorung La poco sotto il passo ne abbiamo incontrato due che salivano da Muktinath arrancando a spinta. Pionieri di una realtà in breve divenire. A monte di Muktinath una serie di tornanti sono già stati intagliati nel ghiaione e Kharma ci conferma che il Thorung La dovrebbe essere valicato da una strada “ma percorribile solo in estate”, a 5.416 m. di quota lo Stelvio dell’Himalaya. Ingenuamente chiedo a Kharma cosa ne sarà dell’Annapurna Circuit. Questi in tutta tran208

quillità concorda che andrà a scomparire: ma ciò non costituisce fonte di particolare apprensione, e ci spiega che la zona conta molte altre valli oggi chiuse e che diventeranno nuovo terreno per la pratica del trekking. Elementare ed efficace al tempo stesso. Cerco nella mia fantasia di immaginare la parte futura del racconto quando queste rudimentali arterie verranno ulteriormente sviluppate e raggiungere Manang sarà questione di un paio d’ore rispetto ai cinque giorni che abbiamo impiegato. E se da un lato una parte della ragione si indigna per sapere intaccato un ambiente che ci piacerebbe rimanesse invece intatto, la controparte riflette come fino a non moltissimo tempo fa anche nelle nostre montagne le valli fossero come la Marsyangdi o la Annuario 2013


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Kali Gandaki e come oggi per noi sia del tutto normale accettare che gli abitanti di un paese di montagna utilizzino l’automobile per andare a casa o sfrecciare a cento all’ora sui viadotti dell’autostrada del Brennero per permettersi una gita di sci alpinismo sulle nevi della cresta di confine quando da noi i pendii sono ancora bruni di erba ormai seccata dal freddo. L’auspicio ovvio e scontato è che la rivoluzione, per sua natura inarrestabile, sia accompagnata dalla capacità di preservare quegli elementi identitari che rappresentano l’essenza ultima di una popolazione, cercando di evitare gli eccessi e gli errori commessi da chi lungo questo processo ci è passato prima. Qualcuno, alla ricerca di una morale auto assoluzione, potrebbe magari sostenere che il

paesaggio lo si ammira benissimo anche dal finestrino di un’automobile ed è ciò che compiono milioni di turisti in tutto il mondo. Ma a piedi è decisamente meglio. La caratteristica particolare dell’Annapurna Circuit è che si parte bassissimi da Besi Sahar a 800 metri di quota per risalire gli aspri versanti della valle tenacemente coltivati a riso e altri cereali su terrazze strappate alla gravità. “Poco prima che questo trek scompaia dalla faccia della terra” è stato possibile così percorrere un ambiente splendido e, passo dopo passo, cogliere le sfumature che il paesaggio propone. Partendo da Besi Sahar seguendo il ritmo lento della vale, avanti per Bhulbhule e fino a Chamie tutto è dominato dal verde intenso del riso coltivato sulle vaste terrazze nella parte bassa

Paesaggio nei pressi di Thorung La Annuario 2013

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Il gruppo al passo del Thorung La

della valle. Un verde con le sue mille sfumature e dalle forme eleganti per l’andamento sinuoso ed ondeggiante delle terrazze che assecondano il naturale profilo del terreno. Poi mano a mano che si risale la valle, a tratti veramente ostica e troppo scoscesa, il bosco fitto prende il sopravvento, il paesaggio diventa espressione di una vita più avara. A Timang Besi la notte decisamente più fresca annuncia l’ingresso dell’inverno ormai alle porte. La valle piega quindi verso Ovest e ormai con le caratteristiche delle quote più elevate, annuncia la sua parte terminale. Trascorriamo la notte a Lower Pisang da dove, in una giornata memorabile, percorriamo la tappa che ci condurrà fino lassù nella piana terminale dove a 3.600 metri si trova Manang la capitale della provincia al 210

cospetto dell’imponente bastionata ghiacciata dei versanti orientali dell’Annapurna. Poco sopra Upper Pisang i contadini sono alle prese con le ultimissime fasi del raccolto, i campi sono ormai ingialliti dall’autunno, un contrasto vivace e brutale con gli immensi ghiacciai che si stagliano sul lato opposto della valle. Quindi la salita a Ghyaru minuscolo villaggio abbarbicato al sole fiero del panorama di cui è geloso custode. Quindi finalmente Manang, il villaggio dove è consuetudine trascorrere una giornata di acclimatamento. La occupiamo salendo al soprastante monastero dove un Lama impartisce la benedizione ed invoca l’assistenza degli dei per l’attraversamento del Thorung La il passo che dà accesso alla sacra località di Muktinath. Un gesto che si perde nella notte Annuario 2013


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dei tempi, già oggi inquinato dalla richiesta di un’offerta obbligatoria e che chissà come verrà trasformato quando il suo attraversamento sarà motorizzato. Meglio non pensarci ed assaporare l’arrivo al Thorung La immerso nel blu cobalto del cielo accarezzato da innominate cime innevate, e sferzato dall’immancabile vento gelido, quel lieve senso di conquista che si prova quando si raggiunge una meta a lungo desiderata e un po’ sofferta. Abbiamo scarpinato per circa centoquaranta chilometri guadagnando oltre quattromila metri di dislivello ed ora siamo al passo ad ammirare gli spazi tipicamente tibetani del regno del Mustang. L’incanto prosegue anche oltre la veloce discesa che ci vede curiosi visitatori del tempio di Mukninath giustamente sacro custodendo in uno dei templi del sito contemporaneamente due fenomeni altamente simbolici, una sorgente e una fiammella perennemente accesa dovuta, a giudicare dall’acre odore, a una qualche fuoriuscita dal terreno di metano. Acqua e fuoco uniti in un abbraccio intrinsecamente religioso. Oltre la caratteristica fontana dalle 108 teste nella vasta area del parco del tempio sono disseminati innumerevoli ometti di pietra, altrettanti simboli delle anime dei pellegrini giunti fino a qui. Diligentemente erigo anch’io il mio piccolo contributo che immediatamente si perde nella moltitudine dei suoi consimili. La meccanizzazione fa miracoli e così ora da Muktinath con una intensa giornata su sgangherati fuoristrada e altrettanto precari autobus che sfidano a suon di colpi sulla carrozzeria gli angusti spazi della strada strappata ai versanti della montagna, si raggiunge Tatopani risparmiando tre giorni di cammino. Quando si incrocia un veicolo che procede in direzione opposta o in qualche tratto assai più dissestato del resto, l’aiutante dell’autista, generalmente un ragazzino, scende a controllare dove passano le ruote e con una serie di colpi ben assestati con la mano sulla carrozzeria comunica l’assenso a procedere. Per chi si trova seduto sul lato a valle del mezzo, Annuario 2013

che ad ogni buca dondola fino a fine corsa delle balestre, la vista inquietante in fondo al burrone del fiume che scorre impetuoso trascinando con sé l’immagine delle conseguenze di un eventuale incidente. Io, proprio da quel lato, ammiro in basso il baratro affogando i timori nella fiducia della perizia di guida dell’autista e osservando come i locali, invece di mostrare timori, sembrano esprimere tutta la loro ammirazione per la conquista di poter percorrere comodamente seduti quel percorso che per secoli ha richiesto a chi voleva o doveva percorrerlo enormi dispendi di tempo ed energie. Da Tatopani nuovamente a quota 1.100 una intensa salita di 1.700 metri riporta in quota a Ghorepani da dove, al prezzo di una alzata mattutina degna di una salita alpinistica, si raggiunge la vicina collina di Poon Hill belvedere affacciato sul magnifico spettacolo del sole che percorre all’alba tutta la parete ghiacciata del Dhaulagiri. Il freddo è pungente e l’affollamento notevole. Il continuo lampeggio dei flash delle macchine fotografiche crea un’atmosfera del tutto simile a quella che si nota in occasione dei concerti od eventi serali trasmessi in televisione. Ma qui questa volta è sua maestà la Natura ad essere, silenziosa, il protagonista assoluto. “La montagna è una maestra muta che crea discepoli silenziosi” recita un famoso adagio orientale. L’insegnamento di quell’alba non può che essere stata una magistrale lezione. La meccanizzazione fa miracoli si diceva poco sopra e così con il tempo risparmiato lungo la Kali Kandaki ci incamminiamo verso il cosiddetto ABC, l’Annapurna Base Camp denominato anche, con una dizione sicuramente più consona a questo luogo unico, Annapurna Sanctuary. Da Ghorepani, con i tempi un po’ ristretti è una sgambata su e giù lungo alcune valli laterali fino a raggiungere Chomrong con la sua infinita splendida scalinata che immette nella Modi Kola. Qui termina la parte abitata della montagna: Sinuwa, Bamboo, Deurali sono piccoli villaggi costituiti esclusivamente 211


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da lodge per gli escursionisti che salgono al Santuario. L’elegante sagoma del sacro Machhapuchhre inizia a imporre il suo dominio sulla scena. Noi arriviamo ai lodge del Base Camp ormai avvolti da una fitta nebbia pomeridiana. Fa decisamente freddo e il sacco a pelo è invitante. Ma l’ansia di poter scoprire cosa si celi dietro il sipario è troppo forte. Un po’ intirizzito vago lungamente nei dintorni finchè, con la dovuta parsimonia del caso, dapprima il Machappuchhre, illuminato dagli ultimi raggi di sole della giornata, inizia a spuntare dalle nebbie che poco a poco vanno dissolvendosi. Poi la corona di creste alla sua sinistra fino a scoprire in tutta la sua drammatica enormità la parete Sud dell’Annapurna. Infinitamente immensa, elegante insormontabile barriera di ogni velleità umana. Al mattino seguente attendiamo il sorgere del sole in un cielo limpido paurosamente rotto dalle folate di vento che spazzando le creste solleva enormi e veloci colonne di neve lasciando intuire le condizioni umanamente estreme per chi tenta di avventurarsi lassù. Il pensiero va ai tre alpinisti coreani impegnati sulla parete di cui da alcuni giorni non si hanno più notizie e che da due giorni, nei momenti in cui le condizioni lo permettono, un elicottero sta cercando di effettuare ricognizioni. Osserviamo le tende della spedizione lontane dall’altra parte della morena. Kharma ci racconta che stando alle notizie che circolano ai lodge quello di oggi sarà l’ultimo tentativo di individuarli dall’alto, non essendoci ormai ulteriori speranze. Saranno altre tre targhe che andranno ad aggiungersi ai cippi eretti nei dintorni e fra cui spicca quello eretto in ricordo di Anatolij Bukreev: “Mountains are not stadiums where I satisfy my ambition to achieve. They are the Chatedrals where I practice my religion”. 1 1 “Le montagne non sono gli stadi dove soddisfo le mie ambizioni di successo. Esse sono le cattedrali dove pratico la mia religione.”

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Lasciamo questo magico luogo con le prime nebbie del mattino che, risalendo i versanti, ritornano ad appropriarsi dei loro fantastici segreti. Basta scendere di poco per perdere definitivamente di vista la magia di questo vero santuario e destinarlo a rimanere scolpito nei più importanti meandri della memoria. Ora un passo veloce ci riporta a Chomrong e, scavalcato un ultimo crinale, approdiamo all’ultima tappa del trek, Ghandruk. Si rimane colpiti dall’armonia degli anfratti di questo villaggio con le sue case in pietra ben curate, i vicoli ben ordinati. Un gentile saluto per il termine della nostra camminata attraverso queste montagne. Scendendo sotto il villaggio a meno di un’ora di cammino incontriamo una carrareccia. Anche su questo versante le strade stanno arrivando poco a poco sempre più in alto. Chissà fin dove si spingeranno. L’Annapurna Circuit termina come da tradizione nella ridente cittadina di Pokhara dove nell’attesa di rientrare a Kathmandu merita una visita il recente “Mountain Museum”. Fra le varie sezioni rimango colpito da una raccolta di foto d’epoca dove viene messa a confronto la vita contadina sulle nostre Alpi e quella sulle montagne himalayane. È impressionante, nelle sfumature dei grigi delle foto in bianco e nero, la drammatica somiglianza delle fatiche, delle difficoltà e anche delle tecniche impiegate. Ora, invece al giorno d’oggi il divario appare incolmabile. Sulle nostre Alpi quelle foto non sarebbero più scattabili o per avvenuto abbandono o per sopravvenuta meccanizzazione mentre sul versante hymalaiano quelle scene sono invece tuttora visibili sebbene oggi un giovane contadino verrebbe ritratto mentre conversa al cellulare e sui tetti delle case spicca la presenza un’antenna parabolica, mentre all’ingresso di qualche villaggio campeggia la scritta “internet available”. Segni di una incontrovertibile naturale tendenza del divenire dei nostri tempi moderni: farewell Annapurna Circuit. Annuario 2013


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Il mercato di Nele di Mario Corradini Nele è un grosso villaggio del Nepal, nel Solokhumbu, regione montuosa che si estende sotto la famosa valle del Khumbu, la valle che porta all’Everest. Qui però non ci sono le alte montagne ghiacciate che a malapena si vedono lontane, in alto, dal borgo di Phaplu e Salleri, i due vicini centri abitati dove arriva una carrozzabile e dove esiste anche una pista sterrata che funge da aeroporto per i piccoli velivoli che li collegano a Kathmandu. Da Phaplu la strada continua in falsopiano, tortuosa e accidentata, seguendo la conformazione dei fianchi di queste montagne. Però non arriva ancora fino a Nele. Già nel 2011 ho visto tante persone che in vari punti del tracciato, dove ora si snoda questa strada, cavavano pietre e le squadravano a mano

per erigere muri di sostegno, specialmente nelle rientranze e nelle gole dove passano i rivi. Oggi (2012) per raggiungere Nele, al termine di questa strada si deve camminare ancora per un paio d’ore. Tutto è trasportato a spalle, o meglio sulla schiena delle persone, le quali legano i carichi con una corda e sostengono il peso con un nastro che passa sulla fronte. Con questa premessa si possono immaginare le fatiche che comporta il trasporto dei beni che ogni martedì vengono messi in mostra al mercato di Nele. Qui, ogni settimana, tantissime persone dei villaggi sparsi sulle pendici di queste montagne, si radunano in cerca di vestiti, attrezzi, alimenti, oggetti di prima necessità. La merce è esposta su teli, su stuoie, su tavole delle colorate bancarelle che

Alcuni bambini di Nele Annuario 2013

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occupano le due principali strade del villaggio. Il martedì Nele si riempie di colori, di profumi e di odori vari. Spezie (dove prevale il peperoncino), scarpe, vestiti, pentole, attrezzi da lavoro e da cucina, detersivi, sapone, specchi, spazzole, polli, maialini e tanta altra mercanzia. Tutti oggetti di poco valore ma di grande necessità per un popolo di montanari che vive di agricoltura e allevamento del bestiame e che forse, non ha mai visto una città e veri negozi. Tutti cercano

l’occasione. I venditori decantano i loro prodotti e le persone che affollano gli stretti spazi tra le bancarelle osservano e valutano la merce. Spesso il prezzo è oggetto di contratto. Rudimentali bilance pesano le spezie e alcuni alimenti. Molti di questi prodotti sono venduti a “misura”, cioè un barattolo di latta funge da dosatore e questa quantità è valutata in Rupìe. La Rupìa è la valuta nepalese; circa 110 rupìe equivalgono a 1 euro. A Nele ci sono alcuni lodge, una specie di pensione/ ristorante, che offrono alloggio e ristoro ai mercanti e a coloro che si attardano al mercato del martedì e preferiscono trascorrere la notte a Nele piuttosto che camminare, magari per un’intera nottata, per ritornare al proprio villaggio. Come detto, in questa regione del Nepal, la strada arriva a quasi 2 ore di cammino da Nele. Forse nel 2013 verrà completata, ma rimane sempre una strada sterrata ed i pochi mezzi di trasporto (vecchie jeep e trattori) sono comunque troppo costosi per gli abitanti del Solokhumbu. I villaggi sono sparsi

Anno 2011: donne che trasportano le reti per i muri della costruenda strada Paplu Nele

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Annuario 2013


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Anno 2011: uomo che squadra le pietre per la costruenda strada Paplu Nele

Donne di un villaggio nei dintorni di Nele Annuario 2013

Venditore di peperoncini essicati a Nele

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Il villaggio di Nele

Namastè, il saluto nepalese

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Annuario 2013


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sulle pendici delle montagne e sono collegati tra loro da semplici sentieri. Questa gente è abituata a camminare, d’estate e d’inverno, con il sole e con la pioggia. Non tutte le persone hanno la possibilità di acquistare scarpe. Molti calzano delle ciabatte infradito e tanti camminano ancora scalzi. Nele, ogni settimana, diventa un concentrato di persone. Gli uomini sono attratti dagli attrezzi e dagli alimenti. Le donne dalle scarpe e dai vestiti. Le ragazze dai prodotti per la pulizia e la bellezza, quali ad esempio: spazzole per capelli, ferma capelli, shampoo, specchietti, ecc. Le donne sposate portano vistosi piercing al naso. Tanti visi, tanti tratti somatici diversi. Sguardi curiosi, specialmente verso gli stranieri (molto rari in questa parte del Nepal). Il martedì a Nele è una festa. È un’occasione per incontrare tante persone, per scambiarsi oggetti, per barattare ogni genere di cose e per le giovani generazioni incontrare coetanei e ... fare nuove amicizie. Per uno straniero è l’occasione importante per scattare tante fotografie, per catturare espressioni e

Particolare del mercato di Nele Annuario 2013

Piercing al naso delle donne nepalesi

visi mai visti prima, per fermare in un clic attimi inconsueti, per documentare un sistema di vita antico, da noi ormai del tutto scomparso. Ma cordiale, genuino, semplice e contemporaneamente importante perché questo modo di vita contempla inevitabilmente il rapporto umano, la necessità del reciproco aiuto. Valori, da noi ormai persi da tanto tempo. Nele, un grosso villaggio del Solokhumbu, dove lo straniero non è solo spettatore ma, se propenso all’osservazione ed al confronto, diventa allievo per ritornare alla socializzazione. Ho visitato Nele nel maggio 2011 e nel maggio 2012. Nel 2011 era la prima volta e la strada terminava a Phaplu. Ho pernottato a Nele entrambe le volte, poi, il giorno seguente, ho camminato molte ore per scendere a Randepu, il piccolo villaggio nel distretto di Mukli nel Solokhumbu, a quota 1100 metri. Qui ho costruito una scuola elementare. Nel maggio 2012, con alcuni soci dell’Associazione Ciao-Namastè, mi sono recato a Randepu per inaugurare questa scuola. Nell’aprile 2013 ritornerò a Randepu per inaugurare il Punto Medico, adiacente la scuola. Sono certo che riceverò tante nuove emozioni, sia dagli abitanti di Randepu, sia dalle persone di Nele e dei villaggi che si incontrano sul percorso. Per meglio conoscere la nuova scuola di Randepu, i progetti dell’Associazione Ciao-Namastè e visionare altre immagini, si invita a visitare il sito internet: http://ciaonamaste.xoom.it 217


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La Bosnia è la mia casa Un giorno con gli amici di Scorpio (Zenica, Bosnia-Erzegovina) di Stefania Comai A nord-ovest di Sarajevo, a circa ottanta chilometri dalla capitale, troviamo Zenica, quarta città per popolazione della Bosnia Erzegovina. Abbiamo percorso poco più di mille chilometri lungo l’autostrada croata ed abbiamo lasciato la costa perché questo entroterra ha per noi un richiamo tale che quando arriviamo a Spalato, proseguire per Mostar è una scelta così naturale da non richiedere discussioni, e quando siamo a Mostar va da sé che Sarajevo è a portata di mano e non c’è modo di fare retromarcia. Con questa

logica arriveremo ad Ulan Bator, mi dico. E mi sta bene. Quello che c’è nel mezzo, tra un punto e l’altro del tragitto, è l’aspetto più inatteso. Perché Sarajevo posso immaginarla, ne ho sentito parlare, l’ho ricostruita nel mio immaginario attraverso le fotografie, i documentari, i racconti di chi c’è già stato. Ma nessuno mi ha ancora raccontato com’è poi la Bosnia - Erzegovina, se ci assomiglia un po’, di che colori sono i boschi, a che cosa sono coltivati i campi, se a guardarsi intorno ricorda il Trentino

Gli amici del gruppo di Scorpio Annuario 2013

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Zip line

o magari più le Marche o la Puglia, come sono costruite le case, cosa vende la gente a lato della strada. In novembre, quando ci siamo stati noi, ho contato decine di chioschetti che vendevano trecce d’aglio, cipolle e mandarini. Forse l’ultima cosa che avrei immaginato è che avrei percorso Mostar - Sarajevo a mangiar mandarini, neanche fossi nell’entroterra agrigentino. E ho fatto un sacco di fotografie a posti e paesini lungo la strada che non mi ricordo neanche come si chiamano, a tre o quattro arcobaleni spuntati nella campagna erzegovina in poche ore, ad un bambino alto mezzo metro che guidava un trattore, ai signori che giocavano agli scacchi giganti in una piazza di Sarajevo ed a tutta la gente che guardava. Ma il nostro obiettivo questa volta era ancora oltre, e da Zenica prendiamo un percorso che ci porta fuori città, si inerpica e prosegue in un sentiero sterrato di montagna. Ci guida Massimo, un amico conosciuto ad Arco in occasione della manifestazione “Il mondo è la mia casa” organizzata con l’Osservatorio Balcani e Caucaso per la giornata del rifugiato e dedicata nel 2012 proprio ai Balcani. Massimo è friulano ma lavora 220

tra Sarajevo e Belgrado già da diversi anni per la comunità internazionale. Nell’ottobre del ‘96 destino vuole che avesse con sé un paio di scarponcini da montagna. Quando conosce Edin in un certo senso un cerchio si chiude e si apre un nuovo percorso. Edin è il nostro padrone di casa, ci sta aspettando nella sede di Scorpio a Smetovi, nei pressi di Zenica. Scorpio è una piccola ma coraggiosa srl fondata da Edin Durmo nel cuore dei Balcani violati dal conflitto. È una realtà dalla forte impronta comunitaria che nasce dall’attaccamento al territorio, dalla passione per la montagna e per lo sport, dalla consapevolezza che educare al rispetto del proprio luogo - ed in un certo senso al rispetto per il proprio tempo e per la propria vita - è educare alla civiltà ed alla convivenza. Quando raggiungiamo Edin è ora di pranzo e suo figlio alla griglia sta cuocendo carne e funghi coperti da grosse fette di pane che si impregnano di succo ed odori. Siamo fuori stagione ma una piccola comunità ci accoglie come fossimo di casa. Questo luogo è un centro educativo e sportivo. La giornata non Annuario 2013


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è generosa, il cielo è coperto e minaccia pioggia. Ma l’impressione è che questa sia in primo luogo un presidio aperto ai passanti, ai curiosi, alle scolaresche in gita, agli stranieri capitati qui per caso come noi, e che ci sia sempre qualcuno alla porta. Quello che Edin è e fa è difficile da riassumere. È un esperto arrampicatore ed istruttore d’alpinismo e come tale ha un repertorio invidiabile di cime collezionate negli ultimi trent’anni, dalle nostre Alpi (Monte Bianco, Monte Rosa, Dolomiti, Matterhorn), al Caucaso, dal Tian Shan al Pamir ed all’Himalaya, fino alle Montagne Rocciose ed ai Canyons del Colorado. È anche un appassionato di sport estremi e qui a Zenica ha raccolto una piccola comunità di amici e professionisti che oggi costituiscono lo staff, o per meglio dire, la famiglia di Scorpio. La proposta di Scorpio combina la passione per l’avventura ed il divertimento con la conoscenza ed il rispetto del territorio. L’offerta è estremamente ampia e va dall’arrampicata, al trekking, alla mountain bike, al parapendio, al canyoning, allo sci d’alpinismo. A questo si associa un obiettivo squisitamente educativo che coinvolge le nuove generazioni

nell’apprendimento consapevole e responsabile dello sport ma soprattutto nella cura e nel rispetto per l’ambiente. Il centro in cui ci troviamo è sormontato da una parete artificiale che spunta dal bosco e dà verso la città dove in lontananza si alzano i fumi delle fabbriche. Sulla cima della parete, alla sommità della struttura è stata costruita una zip line che scende nella radura che circonda l’edificio principale. Dietro, tra gli arbusti del fitto bosco, è stato ricavato un percorso vita dove regolarmente i bambini sperimentano i primi avventurosi contatti con la natura e, più o meno consapevolmente, con il proprio corpo e le sue facoltà motorie. Poco più in la i rami si diradano e passa un sentiero sterrato per i mountain bikers. Il centro possiede anche una piccola parete attrezzata interna e da qui prendono il via diversi percorsi escursionistici nella zona. Il gruppo di Edin propone anche attività nelle scuole e fa riferimento ad altre zone d’interesse naturalistico e sportivo di tutta la regione. Io che con l’adrenalina ho rapporti sostanzialmente congelati fin dalla prima infanzia sento di fron-

Dintorni del centro di Smetovi; la struttura panoramica sulla parete artificiale Annuario 2013

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te ai racconti di Edin tutto il peso di un universo di emozioni a cui non so se avrò mai accesso e mi sembra ora un limite molto più grave di quanto avrei previsto. Provo una naturale invidia di fronte ad un uomo che mi sembra genuinamente complice della natura e capace di toccare la vita a livelli di intensità che io non credo sarei invece capace di sostenere. Ma il suo attaccamento a questi luoghi e l’attenzione ai ragazzi, questo si lo capisco bene. Forse perché ho avuto una sana infanzia trentina e credo che la montagna come la natura in genere sia a suo modo un baluardo di civiltà e di pace: forse perché qui esistono ancora regole che gli uomini rispettano per reale devozione o forse perché qui di uomini non ce ne sono poi ancora così tanti. Con la logica di questo progetto mi sento a casa, leggo la motivazione negli occhi di queste persone e sono sempre inevitabilmente conquistata

dall’entusiasmo altrui. Evidentemente qui non si tratta poi solo di passione educativo-sportiva. Alle attività del centro va infatti ad associarsi ancora la promozione dell’eco-turismo in Bosnia, perché la Bosnia è esistita ed esiste al di là della sua storia recente, questo ora lo vedo, e ricondurla sommariamente a terra di conflitto è un’operazione che inganna e tradisce noi insieme a loro. Questa regione rappresenta uno spazio ancora di parziale inesplorazione e richiede per questo in pari misura attenzione e tutela. Scorpio nasce anche per questo. Sono contenta di essere arrivata qui, in questo posto che riguarda anche me che bosniaca non sono, e sento il dovere e la responsabilità di renderlo noto perché il linguaggio di questo progetto è un linguaggio che anche noi conosciamo e che si sovrappone alle nostre parole quando ci troviamo ancora oggi a ragionare - come è necessario che sia - di natura, di figli e di futuro.

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Cile - Argentina Dai ghiacciai del Paine al deserto di Atacama di Danilo Angeli Ci sono molti modi per viaggiare, il mio penso sia il più vero, il più antico. Guardo il mappamondo e mi chiedo: “Dove? Dove desidero andare, che luoghi intendo vedere, che popoli voglio conoscere?” La guida “Lonely Planet”, che studio prima di partire per conoscere il paese che intendo visitare, sarà la fedele compagna di viaggio, un buon paio di scarpe e lo zaino con l’indispensabile è quanto basta, unitamente a pochi dollari nella cintura sottopancia, ma non tanti per il mio stile di vita. Oggi vi accompagno in uno dei miei lunghi viaggi, attraverso il Cile e l’Argentina che mi ha visto toccare: Santiago, Valparaiso, la punta estrema del Cile sul Canale di Magellano tra i pinguini e i ghiacciai del Paine, le Isole Ciloè, l’Aconcagua, Mendoza, Cordoba con il Circolo “Trentini nel mondo”, le Catarate di Iguazù sconfinando in Brasile, Resistencia capitale del Chaco, Salta con le sue montagne dai mille colori e la ferrovia delle nubi, le saline delle Ande, San Pedro de Atacama, i Gayser di el Tatio, il deserto di Atacama. Un mese e mezzo, migliaia di chilometri a bordo di barche, pullman, fuoristrada, macchine a noleggio e qualche tratto a cavallo.

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Dovrei scrivere un volume per narrare tutto, ma non è il caso e non ne sarei capace, mi soffermerò solo sulla prima parte, la più satina, per il resto pochi flash per riportarmi a casa. Sono partito, con mia moglie, nei primi giorni del mese di febbraio 2007. Un volo da Milano, con scalo tecnico a Madrid, ci ha portati a Santiago del Cile. Non amo le grandi città, per questo mi dirigo subito nella vicina Valparaiso, visiterò la capitale sulla via del ritorno. Valparaiso, definita “la perla del Pacifico”, è la città che ha dato i natali al grande poeta Pablo Neruda. In parte è adagiata su una stretta fascia lambita dall’oceano e per il resto è sparsa su una catena di colline comunicanti con il piano da una stretta strada sinuosa e dalle sue quindici funicolari (ascensores) che ti portano a mon-

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te, fra vicoli angusti e case abbarbicate, molte fatiscenti, ma tutte colorate con i colori vivi dell’arcobaleno. Dall’alto volgendo lo sguardo a valle si vede il suo porto con schierate le navi della Marina cilena e, a Nord del grande golfo, si scorge, prossima, la bella città turistica di Vina de Mar. Tre giorni bastano per godere la città, i suoi piatti di pesce, la sua allegria. Un volo, l’unico in questo viaggio, oltre all’andata e ritorno intercontinentale, ci porta a Punta Arenas, bella cittadina all’estremo Sud del Cile, coricata sulle rive del Canale di Magellano da dove guarda, al di là di questo, la Terra del Fuoco. La città, anche se molto interessante per la storia che porta in sé, per l’importante porto, non è molto grande, poco tempo basta per visitarla, da lì partono molte escursioni che non si possono trascurare. Una puntata sulla Terra del Fuoco attraversando il canale, una corsa in fuoristrada nella Pampa, una visita all’Isla Magdalena. Due ore di nave per arrivarci, quando ti avvicini la scorgi a distanza, sembra una torta, divenire sempre più grande,

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posata su di una immensa tovaglia blu ricamata dal bianco spumeggiare delle onde, non manca la candelina che si erge ritta in prossimità della sommità con la sua fiammella che arde a tratti come mossa dal vento; è il faro che accompagna le navi. Attraverso un piccolo e traballante molo di legno si scende a terra e, quello che a distanza sembrava la guarnizione della torta, una glassa nera sfumata di bianco, ti incanta, sono le migliaia di piccoli pinguini Magellano che la ricoprono.

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Sembra di trovarsi nel cortile di una immensa scuola materna, dove uno stuolo di bimbi, nel loro grembiulino bianco e nero, giocano, si baciano, si rincorrono, si tuffano, si nascondono. Dico bimbi perché i pinguini Magellano sono piccoli, alti poco più di cinquanta/sessanta centimetri, corrono e camminano goffi, appunto, come bimbi ai primi passi. Ti siedi in mezzo a loro e dopo un po’, timidi, si avvicinano a curiosare ma attenti al becco, potrebbe fare molto male. Si corre, ma il tempo passa, il Paine mi aspetta. Lasciata Punta Arenas, dopo tre ore di pullman siamo a Puerto Natales, la mia base di partenza per il “Parque Nacional Torres del Paine”. Lascio mia moglie in un grazioso alberghetto, lei solitamente, accetta l’avventura e mi segue, zaino in spalla, sui mezzi di trasporto più vari, ma il cavallo di San Francesco non le si addice. Mi aspetterà in hotel, non posso lasciarla per tanto tempo in ansia, per questo ho programmato solo tre giorni per portare a termine, non Annuario 2013

toccando le punte estreme, la “W” (doppia V) del Paine. Poco dopo l’alba, un piccolo autobus mi lascia all’ingresso del parco, alla “Guarderia Laguna Amagra”. Al momento di registrare il mio passaporto con nome, cognome e pagare i 14 Dollari della tariffa d’ingresso, il ranger mi chiede: “Usted adonde piensa ir solo?” (Lei dove intende andare così solo?). La mia risposta è: “A acer la doble V” (A fare la doppia V). Lui ribatte: “No, està loco, no puede entrar, no estamos en Italia, en estos montes no haj helicòpteres ni socorro” (No, lei è matto, non può entrare, non siamo in Italia, non ci sono elicotteri e soccorsi su questi monti). Al che, ammiccando, chiedo: “Però tienen, almeno, los còndores para que tengan limpio el parque?” (Ma avrete almeno i condor a tener pulito il parco?). 225


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I due ranger presenti scoppiano a ridere, registrano il passaporto, incassano il ticket e mi salutano con: “Vaya con Dios, buena suerte” (Vai con Dio, buona fortuna). Devo chiudere l’avventura in tre giorni, come promesso alla mia Signora, intendo fare l’impossibile, magari correndo. Con un fuoristrada raggiungo il “Refugio las Torres”, sono le nove del mattino, prenoto una branda, lascio lo zaino pesante, intendo raggiungere la “Base las Torres” e ritornare, la sera, al rifugio. Il sentiero è comodo, un continuo saliscendi che costeggia, alto sulla destra, il Rio Ascencio fino al “Campamento Torres” dove prendo a sinistra un sentiero ripido fra i sassi che fanno da scala, è duro, ti taglia le gambe, ti toglie il respiro. La mancanza di allenamento si fa sentire. Giunto in cima si apre un panorama mozzafiato, le tre cime di Lavaredo, pardon, le Torri del Paine si ergono maestose davanti a me, da sinistra: Torre Sur m 2850, Torre Central m 2800, Torre Norte m 2600, sul fianco destro, quasi a vegliare le superbe cime, Co. Nido de Condor con il suo cappello nero m 2243, ai piedi un verde laghetto completa questo quadro indimenticabile. Ritorno a valle e, dopo un’ottima cena bagnata dal buon vino cileno, comparto la stanzetta con una simpatica coppia norvegese. Il giorno dopo, di primo mattino, con il catamarano “Hielos Patagònicos”, evitando il comodo “Sendero Passo los Cuernos” che mi impegnerebbe un giorno che non ho, attraverso il “Lago Pehoe” e mi porto al “Refugio Paine Grande” e, toccata terra, senza affacciarmi al rifugio, inizio il cammino per risalire la “Valle del Frances”. Dopo un tratto pianeggiante, costeggiando il “Lago Skottsberg”, salgo fino al “Campamento Italiano” dove un gruppo di persone sta bivaccando, continuo senza fermarmi. Il sentiero si fa ripido fra enormi massi dove bolli rossi segnalano il percorso. Sulla mia destra si ergono i “Cuernos del Paine”, a sinistra osservo il “Glaciar Frances”, quando 226

un boato mi sorprende facendomi sussultare, poi un altro, un altro ancora, sembrano colpi di cannone, rumori sordi che provengono dai vari fronti del ghiacciaio insinuati fra gole rocciose e spoglie. È il ghiaccio che si fende, blocchi si staccano e scendono a valle in bianche cascate di gelo sbriciolato che formano, ai piedi dei dirupi, montagne candide. Mi attardo, guardo verso valle e il mio sguardo si perde oltre il verde degli arbusti, oltre alberi emergenti, rinsecchiti, che sembrano mani scheletriche tese verso il cielo in un grido d’aiuto e poi laghi, monti, ghiacciai: l’Infinito. Mi sento un piccolo essere, un microbo in fondo al mondo, ma un senso di rivalsa prevale, si, sono un piccolo frammento ma sono parte dell’Universo, parte di Dio. Non ho paura, provo un piacere immenso, orgasmico e, come quando esci da quel momento che ti ha rubato l’anima e ti sciogli adagio, attardandoti per non turbare l’incanto, anzi, godendo Annuario 2013


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ora veramente quell’atto d’amore, anch’io, adagio riprendo il cammino. Vorrei arrivare al “mirador” per godere della vista impressionante di tutte le cime del “Paine Grande”, un immenso scenario che ti porteresti negli occhi e nel cuore per sempre. Io non sono destinato a godere di questo, il tempo, fino ad ora clemente, si fa tetro, sono prossimo al “Campamento Britannico” ma il cielo si oscura, le nubi scendono e mi avvolgono, radi fiocchi di neve mi bagnano il viso; devo scendere. Riprendo a passo svelto la via del ritorno, non scorgo i segni rossi sui massi, mi ritrovo in basso, all’altezza del rio, mi sono perso, un attimo d’angoscia mi prende ma non ho nulla da temere, ho con me il necessario per resistere, risalgo a monte con calma e ritrovo il sentiero. Giunto al “Campamento Italiano”, che trovo deserto, il nevischio è cessato e posso riprendere tranquillamente il mio cammino. È ormai sera, sogno un pasto caldo e un letto comodo. Al “Refugio Paine Grande” non trovo Annuario 2013

difficoltà per cibo e vino ma per giaciglio mi devo accontentare di una tendina ad igloo nel prato antistante. Meglio di una coperta di neve fra i sassi, anche se la neve me la ritrovo all’alba a coprire la tenda. Nella notte un bianco mantello è sceso a vestire la terra, ma al mattino è ritornato il sole che, in breve, riporta il verde nei prati. Dopo una sostanziosa colazione mi incammino per un sentiero pianeggiante verso il “Glaciar Grey”, prima attraverso un bosco verde con fiori multicolori che contrasta con le cime bianche di neve, poi, costeggiando il lago omonimo, nelle cui acque galleggiano enormi blocchi di ghiaccio che si approssimano alle rive dando l’impressione di scogli emergenti, giungo al ghiacciaio. Arrivato al fronte non proseguo, scatto qualche foto, giro i tacchi e riprendo, a passo svelto la via del ritorno. Non posso perdere l’ultimo passaggio del catamarano che mi rimette sulla via di casa - si fa per dire. 227


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Ho concentrato in tre giorni quanto andava fatto in cinque, ma sono contento ugualmente, il mondo è grande e non ho sette vite per poterlo visitare tutto, cerco di massimizzare quel tutto che, nel tempo, mi sarà consentito conoscere. A Puerto Natales c’è ancora molto da vedere e anche mia moglie, che mi ha atteso in ansia, ha diritto di conoscere e gustare il clima patagonico. Assieme lasciamo il porto a bordo di una barca che ci porta in mare aperto verso il “Parque Nacional Bernardo O’Higgins”. Attraversato il “Seno Ultima Esperanza” e oltrepassato il “Glaciar Balmaceda”, toccando con mano il fenomeno del ritiro dei ghiacci, arriviamo al molo di “Porto Tolo” da dove, attraverso un sentiero arriviamo alla base del “Graciar Serrano” con il suo fronte che lambisce le acque dell’oceano e lì si frange dando origine a grossi iceberg che vanno alla deriva. È tempo di lasciare la Patagonia. Sarebbe mia intenzione partire da Puerto Natales con la motonave “Puerto Edèn” della Compagnia Navigam

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e risalire l’oceano per raggiungere, in quattro giorni di navigazione, Puerto Mont, attraverso fiordi stupendi, con la vista su una terra incontaminata, abitata solo da indigeni Qawashqar. Purtroppo, anche in questo caso, la fortuna non mi arride; la motonave che effettua il tragitto settimanalmente, con partenza al venerdì, tempo permettendo, si trova in darsena per una riparazione. Non posso attendere sette giorni, per di più senza certezze, il volo aereo non mi interessa, non intendo guardare dall’alto attraverso gli oblò cime innevate e vulcani fumanti, per questo opto per il pullman. Più di tremila chilometri attraverso la pampa argentina su strade in buona parte sterrate ma panorami vari e tramonti stupendi, per poi attraversare le Ande e scendere a Puerto Mont proseguendo fino a Castro, nuovamente sull’oceano, nello “Archipièlago de Chiloe”. Una premessa: “In buona parte del Sud America i pullman (chiamati Cama) che effettuano lunghi tragitti (la ferrovia è quasi del tutto assente o obsoleta) sono particolarmente comodi, molto

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lunghi a tre assi, a due piani, nel primo dei quali si trovano pochi posti, la toelètte, la zona hostess e la spaziosa cabina di guida, al piano superiore che si raggiunge con una comoda scala, sono collocate, in triplice fila, una trentina di poltroneletto che nulla hanno da invidiare a quelle che si trovano in prima classe sugli aerei che effettuano

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voli intercontinentali. Le prime tre si affacciano su di un ampio parabrezza che ti consente una visione invidiabile, due delle quali, previa prenotazione, sono sempre state da me e mia moglie occupate durante tutti i nostri spostamenti”. Cosa dire di Chiloe? Inizio dicendo che i “Chilotes” (abitanti di Chiloe) sono le persone più

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gentili e ospitali che abbia mai incontrato nel mio peregrinare per il mondo. Una povertà vissuta con dignità, la loro terra è un incanto, il posto più bello che ho visto in Cile, un luogo dove vivrei volentieri. Casette di legno colorate, con tetti in lamiera ondulata, molte, su palafitte, si affacciano sul mare. Chiese, sempre in legno, vecchie anche di secoli, alcune dichiarate Monumento Nazionale. Quella di Castro, grande e maestosa come una cattedrale, con le tavole esterne dipinte in un vistoso color salmone con decorazioni viola e un interno in massello ligneo laccato. Passeggiando per le spiagge puoi vedere i leoni marini crogiolarsi al sole. A pranzo e cena un buon piatto di pesce, appena pescato, non manca mai. Vorremmo fermarci di più, ma il tempo corre. Lasciamo Castro, sempre in pullman, per raggiungere Santiago, da dove, dopo il pernottamento, scavalchiamo le Ande attraverso il “Paso de la Cumbre” m 3842 passando ai piedi del “Cerro Aconcagua” m 6960. Un paio di tappe: a Puente del Inca e visita al piccolo “Cementario Andinista”, un cimitero che accoglie gli scalatori deceduti sull’Aconcagua e una all’ingresso del parco per scattare qualche foto. A Cordoba ci aspettano gli amici del Circolo Trentini nel Mondo, preferiamo pertanto non fare la tappa prevista a Mendoza, ma continuare

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per rispettare i tempi ed avere qualche giorno per stare con loro. L’accoglienza è commovente, figli, nipoti e pronipoti di trentini che hanno lasciato l’Italia a fine ottocento, quando la nostra regione sottostava ancora all’Austria, ci abbracciano, interloquiscono con noi nel nostro dialetto antico. È bello sentirli parlare, vedere l’entusiasmo, la gioia di sentirsi italiani fra italiani. Non racconto dei quattro giorni passati con loro, dovrei dirvi dei posti che ci hanno fatto visitare, parlare della bella città di Cordoba, del tango che si balla nella piazza centrale tutti i sabati sera, delle grigliate enormi annaffiate di vino e altro ancora. Lascio tutto alla vostra immaginazione. Puntiamo su Puerto Iguazù, che raggiungiamo dopo ventitre ore di viaggio. La strada continua dritta in mezzo a campi di soia, verso Nord-Est, sfiorando per un breve tratto il confine uruguaiano per poi toccare per molti chilometri quello brasiliano, passando poi per un tratto altrettanto lungo fiancheggiando quello paraguaiano, su per una appendice molto stretta fino alle fantastiche Cataratas. Puerto Iguazù è la nostra base di partenza per la visita delle cascate. È una piccola città molto gradevole per sostarci, ricca di punti di ristoro dove gustare favolose grigliate o filetti alle braci enormi e deliziosi, ma è inutile ripeterlo, è così in tutta l’Argentina, forse qui i piatti sono più curati per

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soddisfare i tanti turisti, anche quelli blasonati, ospitati negli hotel a cinque stelle che arrivano e ripartono in volo da Cordoba o Buenos Aires, accompagnati dalle agenzie, guadagnano molte ore ma si perdono l’anima argentina, le sue campagne, le colline, i paesini, la sua gente. Le Cataratas del Iguazù costituiscono uno spettacolo mozzafiato che sorprende anche chi, girando il mondo, ha potuto ammirare le tante altre cascate imponenti. Su un fronte di due chilometri precipitano a valle, da un’altezza di ottanta metri, migliaia di metri cubi d’acqua. Il fiume a monte, che si allarga nella piana come un grande lago diviso in tanti canali, da scogli e isole da origine a quella miriade di cascate, violente o più tranquille, che creano questo scenario spettacolare. Passerelle in ferro ti permettono di arrivare a contatto dei punti più scenografici ed emozionanti, sia da parte argentina che da parte brasiliana. Quale delle due visuali permetta le

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vedute migliori suscita pareri contrastanti. Noi, per non sbagliare, dedichiamo due giorni alla visita senza perdere alcun punto di vista anzi, affrontando anche dal basso la massa liquida che, con un frastuono assordante, scende a rimescolare l’acqua sottostante ridando vita al fiume che riprende cheto la sua via verso un mare lontano. A bordo di un gommone spinto da due motori da duecentocinquanta cavalli ci avventuriamo verso il “Salto San Martin”. Il pilota punta dritto verso l’enorme massa d’acqua che si riversa dall’alto, in prossimità dall’impatto, sotto una nube vaporizzata e spruzzi corposi, vira a sinistra derapando fino quasi a lambire quel muro liquido e con un colpo di acceleratore i cinquecento cavalli ci riportano in zona di sicurezza, fradici, con il cuore che pulsa all’impazzata, ma non ancora paghi, con l’adrenalina in circolo, bramiamo di più. Affrontiamo le rapide fra scogli affioranti, fino sotto la “Garganta del Diablo”. Il nome, Gola del Diavolo, da l’idea dell’inferno

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in cui veniamo a trovarci, ne usciamo felici, ora possiamo dire di aver visto, ma non del tutto, le Cataratas del Iguazù. Altre dieci ore di pullman per arrivare a Resistencia, principale città del Chaco. Non era nel nostro programma ma non posso esimermi, siamo invitati al matrimonio della figlia di Margarita Bussolon, coordinatrice dei Circoli Trentini nel Mondo. Arriviamo in una città allagata, prima di scendere dal pullman ci togliamo le scarpe e le appendiamo a girocollo e, zaino appoggiato sulla testa, ci incamminiamo (taxi e veicoli pubblici sono fermi) verso l’Hotel che ho prenotato. Un’acqua limacciosa mi supera il ginocchio, scendendo dai marciapiedi lambisce i gioielli di famiglia. Dopo una mezzora, sfiniti e fradici arriviamo in albergo che, trovandosi un po’ in rilievo, è toccato marginalmente, pochi centimetri coprono la hall, dove ci spogliamo restando in mutande, prima di raggiungere la stanza. È mattina, l’acqua defluisce lentamente, nel pomeriggio il problema sembra risolto, almeno per la parte alta dove ci troviamo e dove si trova il centro città. A sera un taxi passa a prelevarci per portarci alla cena di gala organizzata per festeggiare gli sposi. Ci accolgono due-trecento persone abbigliate in abiti da sera, in un salone immenso, addobbato con drappi tricolori. Noi due risaltiamo in tanta eleganza, sembriamo Indiana Jones e signora appena usciti dalla giungla. Mia moglie, a disagio, Annuario 2013

cerca di mimetizzarsi, nascondendosi parzialmente sotto la lunga tovaglia di broccato che copre il nostro tavolo collocato vicino agli sposi, ai famigliari e alle autorità, ma per quanto faccia tutta l’attenzione è su di noi. Fuori, in cottura, ai bordi di una trincea lunga una ventina di metri colma di braci, capre e pecore squartate, pezzi di bue sudanti umori, appesi come Cristi crocifissi, su croci di ferro, umettati con oli e spezie da una schiera di ragazzi. Grande serata, ma il giorno dopo si riparte, previa una rapida visita della città con le sue trecento sculture sparse per le vie. La nostra nuova meta è Salta, un migliaio di chilometri a Nord-Ovest, prossima al confine boliviano dal quale è separata dalla piccola e povera provincia di Jujuy. A mio parere questa è una delle più belle cittadine argentine, di qui partono molti itinerari ed escursioni interessanti, nei giorni di permanenza ne approfittiamo per seguirne alcuni, con auto a noleggio. La prima meta scelta, la più ambita, ci porta a seguire su strada il percorso del “Tren a las Nubes”, al momento fermo in stazione. Lasciata Salta risaliamo, su strade imbrecciate, la multicolore “Quebrada del Toro”. Passiamo per Tastil, Abra Blanca, per giungere al “Viaducto la Polverilla” altitudine 4200 m che, lungo 224 m e a una altezza dal suolo di 64 m, scavalca l’enorme desertico canyon omonimo. Un manufatto imponente, antieconomico, 233


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1600 tonnellate di acciaio che oggi serve solo a portare, unitamente ad altri 31 ponti in ferro, 13 viadotti e 31 gallerie, i turisti fino a Abra Chorillos, altitudine 4575 m, pochi chilometri più avanti. Viaggio stupendo, fra paesaggi bellissimi, montagne fatate, vestigia antiche, indigeni ospitali masticanti foglie di coca. Lo noti dal rigonfiamento di una gota che nasconde il bolo. Il cartello “Coca-bica” (foglie di coca e bicarbo-

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nato) si vede ovunque nel nord dell’Argentina, ha aiutato anche noi a combattere il mal di montagna, unitamente al tè fatto con le stesse foglie. A seguire non poteva mancare una puntata a Cafayate, percorrendo, adagio, con tappe frequenti per ammirare l’insolito panorama, la Quebrada (canyon) del Rio de las Conchas. Ovunque lo sguardo giri è il color ocra che prevale, rocce scolpite dall’acqua nel tempo hanno

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assunto forme strane che richiamano alla mente immagini note, catalogate con nomi altisonanti. La cittadina, altitudine 1700 m, vanta una ottima produzione di vini, le Cantine, sparse nei dintorni, circondate da vigneti rigogliosi, offrono ai visitatori generosi assaggi che annebbiano, un po’ la vista e i riflessi sulla via del ritorno. Lasciamo Salta per rientrare in Cile, scavalcando Annuario 2013

nuovamente le Ande, e raggiungere San Pedro de Atacama. Passata Jujuy si sale per una strada sinuosa, tutta tornanti che ti ricordano quelli dello Stelvio, fino a Passo de Jama (m 4320) e si continua, fra bianche saline immense e pianori incolti, per centinaia di chilometri, mantenendo quota 4000. Si lascia, in distanza sulla sinistra il Cerro Colachi 237


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(m 5631), a seguire, sulla destra si ergono il Cerro Rodondo (m 5698) e il Cerro Toco (m 5604), passiamo il bivio per il confine boliviano che, dopo pochi chilometri, attraverso il passo Pontezuelo del Cajon (m 4480) ti porterebbe a Potosì, alle miniere d’argento. Dopo dodici ore siamo a San Pedro, piccolo paesino, quattro case di mattoni cotti al sole, poste all’estremità settentrionale del grandissimo Salar de Atacama, con un piede nel deserto omonimo. Anche qui tre, quattro giorni servono per toccare i punti di massimo interesse. Un giorno a cavallo, sotto il sole cocente, per visitare la desertica Valle della Luna, per poi tornare, stanchi ma felici, a sera, con le chiappe dolenti e il volto bruciato. Un’abbondante cena bagnata da un buon bicchiere di vino concilia il sonno.

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Il giorno successivo si parte di buon ora, alle quattro del mattino, a bordo di un fuoristrada per raggiungere, prima del levar del sole, a 4300 m sul livello del mare, i Gayser di el Tatio e godere così, a pieno, lo spettacolo delle esplosioni a intermittenza di vapore sparato violentemente verso il cielo, in questa distesa di geyser più alta del mondo e bagnarsi, alla fine, nella grande pozza termale. Il tempo a disposizione ormai volge al termine, millesettecento chilometri ci separano da Santiago, un centinaio per raggiungere Calama attraverso il deserto e poi, a bordo di un autobus “Salon Cama” della Tir-Bus, in una ventina d’ore, percorrendo la Panamericana, siamo a destinazione. Rimangono un paio di giorni per visitare la capitale del Cile e poi via, un volo Iberia, con scalo a Madrid, ci riporta a casa, fra i nostri monti.

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Si ringraziano per la preziosa partecipazione: Sergio Amistadi, Diego Andreoli, Dario Antolini, Roberto Angiolini, Danilo Angeli, Massimo Antonini, Stefano Benini, Alberto Maria Betta, Roberto Biatel, Grazia Binelli, Adriano Boccagni, Mauro Caceffo, Gianpaolo Calzà, Renato Camilotti, Nicola Campisi, Ruggero Carli, Marco Carloni, Sandro Carpineta, Christian Casarotto, Mario Corradini, Stefania Comai, Stefano Cominotti, Comitato Glaciologico Trentino, Ivo Cipriani, Fabio Dal Rì, Erienne, Claudio Fedrizzi, Stefania Fenner, Donato Ferrari, Paolo Ferrari, Franco Francesconi, Giorgio Galas, Ingrid Gasperi, Ivo Gentilini, Rosanna Giacomolli, Ettore Gino, Arturo Giovanelli, Andrea Hainzl, Valentina Leonardi, Paolo Liserre, Alberto Maganzini, Gino Malfer, Claudio Martinelli, Ferdinando Martinelli, Marco Matteotti, Gilberto Mora, More, Flavio Moro, Mirco Moro, Silvano Moro, Edoardo Nicolini, Emanuele Pellizzari, Ezio Parisi, Stefano Parisi, Arrigo Pisoni, Matteo Prandi, Nicola Prandi, Giorgio Quaranta, Lucia Rosa, Donato Riccadonna, Sandro, Stefano Reversi, Silvio “Bacon”Santoni, Nello Santorum, Rudi Simonetti, Gruppo Sopraimille, Gruppo Sciatori Riva, Celestino Tamburini, Maurizio Torboli, Mauro Tomasi, Marco Tamiozzo, Bernardino Toniatti, Luigi Vettorato, Luisa Vidi, Alberto Zampiccoli, Carlo Zanoni, Luca Zanoni, Gianni Zanolli. Si ringraziano inoltre per la loro comprensione e il forte attaccamento alla nostra associazione tutti gli inserzionisti, e in particolare la “Cassa Rurale dell’Alto Garda” e la “InGarda Trentino - Azienda per il Turismo s.p.a.”

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