Censurato! Come Ho Messo il Bavaglio ai Comici Più Pericolosi d'America

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WILLIAM G. CLOTWORTHY

CENSURATO! Come ho messo il bavaglio ai comici più pericolosi d'America TRADUZIONE di Marco Bertoli TiTOLO originale: Saturday Night Live: Equal Opportunity Offender. The Uncensored Censor Copyright © William G. Clotworthy, 2001 Tutti i diritti riservati Prefazione di Alberto Patrucco © Alberto Patrucco, 2010 Tutti i diritti riservati IMMAGINI: Copyright © William G. Clotworthy Tutti i diritti riservati Copyright © Sagoma, 2010

Largo Pontida, 18 20059 Vimercate (MB) Tel. +39 039 5967800 Fax +39 039 5967808 info@sagoma.com I edizione: ottobre 2010 ISBN 978-88-6506-005-6


Indice

Prefazione di Alberto Patrucco

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Capitolo 1

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Capitolo 2

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Capitolo 3

57

Capitolo 4

77

Capitolo 5

87

Capitolo 6

111

Capitolo 7

135

Capitolo 8

151

Capitolo 9

163

Capitolo 10

177

Capitolo 11

199

Capitolo 12

205

Capitolo 13

213


Capitolo 14

225

Capitolo 15

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Capitolo 16

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Appendice

MalĂŹa di Hollywood

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Epilogo

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Indice dei nomi

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Le Sagome

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A Ralph, Rick, Maurie e Dick la cui fede nei piĂš alti standard etici e morali della televisione, nella societĂ e nella propria condotta, resta per me fonte di ispirazione.



In memoria di

Travie



Prefazione Maccartismo di ritorno di Alberto Patrucco

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In questo prezioso libro, William G. Clotworthy ci svela i meccanismi della censura annidati nei più popolari programmi d’intrattenimento americani. Passo dopo passo ci porta dietro le quinte dello show business a stelle & strisce, negli anni d’oro della televisione; là dove la superpotenza si scopre fragile, in balìa delle sue paure e dei suoi pudori. Ma, al contempo, si mostra ricca di risorse, umanità, passioni e, soprattutto, contrasti. Quelli che divampano nella redazione del Saturday Night Live, quando uno sketch sopra le righe rischia di lambire minoranze etniche, comunità religiose, interessi commerciali, senso del pudore o, ma soltanto in secondo luogo, questioni politiche. È il momento in cui il telefono si fa rovente, i rapporti di lavoro complicati e l’ingeneroso compito del censore diventa quello di trovare una sintesi: a volte concedendo, spesso tagliando, quasi sempre tentando di non scontentare nessuno. Quindi, deludendo tutti. Ciò nonostante, anche per il grigio burocrate, il giorno della riscossa arriva. Ecco allora che il “solo uomo in giacca e cravatta durante le riunioni”, realizza questo originale volume e si toglie qualche sassolino dalla scarpa. È una rivalsa lieve, per nulla astiosa, ricca di aneddoti e retroscena imperdibili. Più che un 15


pamphlet di memorie, l’analisi in chiave psicoanalitica della più grande democrazia del mondo. Perché dietro ciò che non si vuol mostrare, si nasconde sempre la vera natura di un popolo. In questo diario traspare tutta la tormentata ammirazione del censore nei confronti di artisti di prima grandezza. Il carnefice s’immedesima nella vittima e ne comprende l’impoverimento artistico. Clotworthy, salendo sulle spalle di giganti quali Bill Murray, Billy Crystal o Al Franken, ci pone al cospetto dei fantasmi americani e indirettamente dei nostri, in quello che appare subito un confronto impietoso. Se negli Stati Uniti, infatti, dopo Joe McCarthy, la censura ha avuto in buona misura la forza di liberarsi del peso opprimente della politica, in Italia questo riscatto non è mai avvenuto. Eccezion fatta per scollature e perizomi – l’osé, quello sì, non è più sotto la lente dell’italico censore – la scure del controllo politico, per assurdo, è diventata ancor più affilata: una sorta di maccartismo di ritorno, in salsa italiana. Ecco perché, quasi si trattasse di una curiosa variante della sindrome di Stoccolma, da comico satirico rischio di affezionarmi a questo mio potenziale aguzzino. Perché Clotworthy è un censore che opera sul campo, a stretto contatto con attori, registi, scrittori. È, a modo suo, un artigiano che lavora di cesello nel rispetto – almeno nelle intenzioni – degli autori e del pubblico. Al contrario, la censura di casa nostra piomba dall’alto, subdola, arrogante, ultimativa, ottusa. In fatto di satira, tra Stati Uniti e Italia ci sono differenze sostanziali. In piena campagna elettorale vidi David Letterman dare dell’idiota a George Bush e nessuno fece una piega. Se quello di Enzo Biagi era “uso criminale della televisione”, Letterman è uno stragista. Che negli Stati Uniti si possa dare dell’imbecille a un candidato alla Presidenza, in piena campagna elettorale, desta in noi grande stupore. Ma è proprio da questo che si vede l’apertura mentale di

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una nazione. Quando nessuno si sconvolge di fronte all’evidenza. In più, la libertà americana ci dimostra un’altra cosa: se lasciata libera, la satira fa il suo lavoro e, alla fin fine, non conta nulla. Bush fu eletto e Letterman non fu rimosso, tutti contenti. O quasi. Va da sé che la satira qualche seccatura al potere la procura, anche per la sua funzione di promemoria. La satira è una specie di post-it di carta vetrata e, in fin dei conti, il rischio censura può rendere la cosa più eccitante. Dopotutto, cosa sarebbe stato Zorro senza il sergente Garcia? Purtroppo, il pervadente e permanente controllo politico su certa comicità italiana non è paragonabile a un garrulo sergente adiposo, bensì a un virus letale capace di causare la sparizione di molti attori e il mancato accesso di altri. E porta, soprattutto in un paese come l’Italia, storicamente popolato da sudditi più realisti del re, all’autocensura degli autori e del pubblico mentre il potente è libero di dilagare senza argini. Tanto che un ministro può oggi minacciare una sommossa, dichiarare che sarebbe opportuno sparare sulle navi dei migranti, definire le persone di colore bingo bongo o attribuire alla bandiera nazionale funzioni tipiche della carta igienica, ma un comico no. I ruoli sembrano essersi invertiti in un paradossale quanto folle gioco delle parti. Motivo per il quale, azzardo, alcuni comici si sono messi a fare politica attiva: per poter recitare senza rischi il loro repertorio. La cifra stilistica di William G. Clotworthy è ben altra. È vero, lui ha censurato alcuni tra i più grandi comedian americani, ma non ha impedito loro di diventare, appunto, grandi comici americani. Pur zigzagando tra i suoi tagli, questi big non si sono visti costretti a riparare in penose macchiette da avanspettacolo, come accade sui canali televisivi italiani. E non è poco.

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censurato!

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Capitolo 1 Un censore è un uomo che sa piÚ di quanto ritiene che voi dovreste sapere. Laurence J. Peter, 1977

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Quello che io sono stato, tanti nemmeno sospettavano che esistesse. Ero quello che decideva quanto pelo pubico dipinto su una statua potesse comparire alla televisione nazionale. Mia responsabilità era di definire quanto grandi potessero essere le palle di un toro per poter andare in onda. Ho salvato il mondo dalla visione del comico Sam Kinison nei panni di un necrofilo omosessuale. Ero quello che chiamavano il ‘Dottor No’, il censore della rete televisiva per il Saturday Night Live, il programma più provocatorio e controverso di quel periodo. Quante volte, a un cocktail, mi sono imbattuto in qualcuno che, venuto a sapere della mia professione, reagiva dicendo: “Ma come, in quello spettacolo c’è un censore?”. Cos’altro potevo rispondere, se non: “Dovrebbe vedere quello che non va in onda!” Il libro tratta soprattutto di questo, ovvero di quale dovrebbe essere la mansione di un censore, quali sono effettivamente i suoi poteri e come prende le sue decisioni. Il tutto nel contesto della mia lunga carriera nella radio e poi nella televisione, da apprendista alla NBC nel 1948 a direttore degli Standard di Trasmissione, sempre per la NBC, dal 1979 fino al 1991, anno in cui sono diventato consulente, che è l’eufemismo usato oggi in televisione per definire un pensionato. 23


La parola censore è a sua volta un eufemismo, visto che fra noi ci chiamiamo “editor”. La censura, per definizione, è la “restrizione di qualunque espressione ritenuta minacciosa per l’ordine politico, sociale o morale”. Beh, noi coi segreti militari non c’entravamo nulla, si trattava solo di spettacoli televisivi. Sposati con Figli,1 Saturday Night Live, perfino Jerry Springer2 non costituiscono una minaccia all’ordine politico, anche se non mancano dei gruppi di tutela religiosi e conservatori che li considerano un pericolo per la morale! Censore, poi, evoca l’immagine di un bigotto con la faccia da inquisitore, con una visiera verde sulla fronte e una matita blu, che agisce sulla base di una serie di valori forgiati nel ferro a cui conformare ogni opera, senza compiere il minimo sforzo per giudicarla secondo i suoi intenti o il suo possibile effetto. Si limita a limarne le asperità per farla entrare nel suo stampo. Questa mentalità era personificata dal piccolo censore anale-ritentivo interpretato da Tim Kazurinsky in “Weekend Update”, uno sketch ricorrente del Saturday Night Live. Il suo nome, Worthington Clotman, era una chiara variazione del mio, anche se io non mi riconoscevo affatto in un personaggio così subdolo e represso da ricordare quel vecchio luogo comune per cui i censori sono “pagati per pensare sporco”. Se fosse stato vero, il Saturday Night Live mi avrebbe reso il lavoro molto facile. DON RICKLES, PRESENTATORE (ALLA SCRIVANIA DI “UPDATE”) E adesso, l’opinione del vicepresidente incaricato di Procedure e Applicazioni qui alla NBC, il signor Worthington Clotman. Signor Clotman. 1 Sit com televisiva della Fox sulla sgangherata famiglia Bundy, andata in onda negli Stati Uniti dal 1987 al 1997. Titolo originale: Married, with Children. [n.d.r.] 2 Il titolo completo è: The Jerry Springer Show. Si tratta di un talk show televisivo condotto da Jerry Springer che va in onda dal 1991 ed è noto per le frequenti liti e risse in cui sfociano le discussioni tra gli ospiti.

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TIM KAZURINSKY (SEDUTO DI FIANCO A DON) Grazie, signor Rickles. In televisione il buon gusto sembra appartenere al passato. Oggi ci troviamo inondati da insulti razziali, allusioni sessuali e da un totale disprezzo per la privacy. Non c’è più niente di sacro. Questo appare particolarmente chiaro nei cosiddetti “comici dell’insulto”. È di pessimo gusto parlare di una persona bassa che, in ragione della sua statura, i cani possano scambiare per un loro orinatoio. Si direbbe che i comici dell’insulto televisivo si sentano autorizzati a riferirsi nei termini più spregiativi alla razza, al credo o alla nazionalità di chiunque. Questa sera, in questo show, mi è toccato censurare malignità su ebrei, cattolici, italiani, polacchi, omosessuali e sul signor Frank Sinatra, che non ha mai ucciso nessuno. E sul Presidente e sulla signora Reagan, descritti come bavosi e flatulenti relitti privi di controllo sui loro organi vitali. Questo assalto frontale alla nostra sensibilità deve cessare. La comicità in televisione dovrebbe divertire, non offendere, e i comici dell’insulto dovrebbero far ridere, non shockare. Soprattutto un certo ebreuccio grasso e calvo di Las Vegas che dovrebbe indossare un cinto erniario sulla testa come museruola e di cui non farò il nome. RICKLES Grazie, signor Clotman. (AFFERRA TIMMY E LO STRANGOLA).

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Con una reputazione del genere, viene da domandarsi perché mai uno vorrebbe diventare censore, l’uomo che tutti amano odiare. Credetemi: non è che la gente faccia la fila per diventarlo. Nel mio caso, lo devo a una crisi di mezz’età. Lavoravo in una grande agenzia di pubblicità alle dipendenze di un “genio folle” che non sapeva apprezzare i miei molti talenti, almeno secondo me. In altre parole, era ora di cambiare lavoro e quando un mio vecchio amico della NBC mi parlò di un posto nell’ufficio Standard di Trasmissione, rizzai le orecchie e gli chiesi perché mi ritenesse adatto a un lavoro così specialistico. “Beh, Bill, sei nell’ambiente da tanto tempo. Hai esperienza, e questo conta molto. In secondo luogo, sei una persona di giudizio. E infine, ti sei sempre dimostrato bravissimo a trattare coi matti!” Gesù. Tante grazie. Si riferiva, naturalmente, alla comunità dei creativi: attori, autori e produttori che, è vero, hanno un pessimo carattere, sono testardi, difficili, intransigenti, esasperanti, egocentrici e, ogni tanto, hanno ragione. Io però li adoro proprio per le loro idiosincrasie, allo stesso modo in cui sono invidioso del loro talento e del loro spirito libero. Dopotutto, io ero un grigio burocrate, uno che diceva sempre no, l’unico alle riunioni in giacca e cravatta, un conservatore. Mio Dio, sono perfino un wasp! E non mancava mai chi me lo ricordasse. Tutto questo succedeva alla metà dei miei cinquant’anni, con una carriera trascorsa quasi per intero presso l’agenzia pubblicitaria BBDO, che stava per Batten, Barton, Durstine e Osborn, un’ottima società che vantava numerosi clienti di prestigio a livello nazionale. Parte della loro fama si doveva alla celebre battuta pronunciata alla radio da Jack Benny (ma era di Mary Livingstone) per cui Batten, Barton, Durstine e Osborn sembra il rumore di un baule che precipita per le scale. Negli anni Cinquanta gli sponsor avevano il controllo della programmazione televisiva e dunque il mio lavoro consisteva nel

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tenere d’occhio i programmi sponsorizzati, svolgendo una specie di censura per conto dei clienti. Nel 1953 mi trasferii all’ufficio di Hollywood della BBDO dove il principale cliente di cui dovetti occuparmi fu la General Electric Company, che all’epoca sponsorizzava un’antologia teatrale settimanale prodotta a Hollywood e intitolata General Electric Theatre.3 La presentava l’attore Ronald Reagan. A differenza del Saturday Night Live, GE Theatre non aveva alcuna intenzione di forzare i confini del gusto comune, tutt’altro. La maggior contestazione che ricordi fu per uno show in cui l’attrice Simone Signoret appariva poco vestita in una scena in camera da letto con Lee Marvin. Questo preoccupava un po’ la GE, ma il guaio vero era un altro: il personaggio interpretato da Marvin perdeva la calma e rompeva una radio da tavolo. Questa, per la General Electric, era la vera oscenità; ricevetti l’ordine di risparmiare ai telespettatori l’orrore della sevizia ai danni di un elettrodomestico. E, Dio ce ne scampi, che mai in una cucina si vedessero dei fornelli a gas! La mia responsabilità principale, tuttavia, era di scrivere e produrre i discorsi introduttivi del presentatore Reagan: “Buonasera. Questa sera il General Electric Theatre vi offre l’esordio televisivo di Edward G. Robinson. Il signor Robinson apparirà in uno sceneggiato televisivo originale…”, insomma, più o meno la stessa cosa ogni settimana, il massimo della prevedibilità, con il solo cambiamento dei nomi per proteggere gli innocenti . Questi gioielli venivano di solito girati verso la fine della giornata, sfruttando il set di qualche spettacolo che per quel giorno aveva finito la lavorazione, come Leave It to Beaver.4 Trovavo divertente il fatto che la controfigura di Beaver, usata per posizionare le luci, fosse un nano. Il motivo del suo impiego era chiaro: il nano era 3 Programma televisivo della CBS andato in onda dal 1953 al 1962. [n.d.r.] 4 Sit com famigliare andata in onda per sei stagioni tra il 1957 e il 1963, dapprima sulla CBS e poi sulla ABC. [n.d.r.]

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un adulto che poteva lavorare una giornata intera, mentre gli attori bambini potevano fare solo un numero ridotto di ore. Ad ogni modo, capitava spesso che dovessimo aspettare che si liberasse un teatro di posa e per questo mi trovai a passare molte ore nel camerino di Reagan mentre lui provava il suo ultimo discorso da pronunciare durante il giro delle fabbriche GE. In veste di privato cittadino, Reagan parlava continuamente di politica: mi fece conoscere la National Review e la politica della destra, fu la prima persona che vidi mai indossare lenti a contatto e conosceva tutte le ultime barzellette, spesso volgari o a sfondo razziale. Mi divertì vedere l’agitazione che provocò in New Hampshire, durante una campagna per le primarie, quando fu criticato per aver raccontato una storiella etnica. Si tende a dimenticare quanto gli attori amino l’umorismo etnico, non perché siano razzisti ma perché a loro piace recitare, soprattutto dimostrando la propria abilità con gli accenti! Ronald Reagan era un pezzo di pane. Sarà anche stato un cialtrone, ma a quanto pare le battute etniche assumono una luce diversa quando uno è candidato alla presidenza. Mi ricordo che un anno a Los Angeles si eleggeva il sindaco e si contrapponevano i candidati Norris Poulson e Sam Yorty. Dissi a Reagan: “Questo è il posto giusto per te, che stai sempre a ciarlare di politica. Già che ci sei, perché non ti candidi a sindaco di LA?” Mi guardò un momento e poi scosse una mano. “Sindaco di LA? Nooo, o presidente, o niente!” Quando alla fine si decise a candidarsi, prima come governatore e poi come presidente, la gente non lo prese sul serio: era solo un attore, ma dimenticavano i suoi mandati come presidente della Screen Actors Guild, il sindacato degli attori cinematografici, e il suo profondo interesse e attivismo politico. Allo studio Reagan era considerato da tutti più una noia mortale che un potenziale animale politico, tranne che da Lew Wasserman e da Taft Schreiber della MCA, suoi agenti e potentissimi personaggi di Hollywood, che riuscirono a vendere

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Reagan al Partito Repubblicano della California come candidato governatore proprio mentre lui stava cambiando affiliazione politica, da tesserato democratico che era stato! Ripenso con affetto e grande rispetto al tempo trascorso con i Reagan. Ron e Nancy erano sempre carini ed educati e ci conoscevamo solo da poco quando Ron mi impartì una lezione di politica domestica. Ogni volta che veniva allo studio da casa o dal ranch, subito chiamava Nancy per dirle che era arrivato. Finito il lavoro, chiamava ancora per dirle che stava tornando. E sempre, e dico sempre, chiudeva la telefonata dichiarandole il suo amore: “Ti amo, Mammina”, e mi rimproverava se non mi vedeva fare lo stesso. “Ma Ron, fra venti minuti sarò a casa!” “Non importa, Bill. Le donne vogliono sentire che le ami, non temere di dirlo troppo spesso!” In seguito, durante la campagna elettorale e perfino durante la sua presidenza, fioccavano le battute sull’attenzione addirittura fanatica con cui Nancy seguiva i discorsi di lui e sulla loro “melensa” devozione l’uno per l’altro. Al momento in cui scrivo, nell’autunno del 2000, è appena uscito il libro di Nancy, I Love You, Ronnie. Il libro, pieno delle lettere d’amore di lui e delle commoventi riflessioni di lei, è stato definito “Una grande storia d’amore americana” e io posso confermare in prima persona che la loro relazione fu proprio questo. Loro furono sempre così. Lo stesso General Electric Theatre fu un’esperienza interessante. Il produttore era un dilettante di mezz’età, Bill Frye, amico e confidente di molte grandi star di Hollywood, specialmente prime attrici al tramonto. Furono così tante quelle che facemmo esordire in televisione che lo spettacolo finì con l’essere noto come “Menopause Theatre”. Joan Crawford, Madeline Carroll, Ann Harding, Joan Fontaine, Rosalind Russell, Claire Trevor, Bette Davis, Merle Oberon, Tallulah Bankhead, Claudette Colbert, Gene Tierney, Barbara Stanwyck e Irene Dunne, tutte recitarono in General Electric Theatre.

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General Electric Theatre era di fatto un’antologia drammatica di classe, che portava in televisione opere di scrittori importanti come Thomas Hardy, Sherwood Anderson, Stephen Vincent Benét, Henrik Ibsen e molti altri. E neanche le star maschili erano male: James Dean, Alan Ladd, James Stewart, Paul Muni, Charles Laughton, Fred Astaire, Edward G. Robinson, Ray Milland, i Fratelli Marx (!) e, naturalmente, Ronald Reagan in persona. General Electric Theatre era prodotto dalla Revue Productions, all’epoca proprietà del gigante dello spettacolo MCA. Lo studio si trovava nei lotti già occupati dalla Republic, a North Hollywood, dove un tempo era facile incontrare Hopalong Cassidy, Gene Autry, Roy Rogers,5 i loro compari e i loro ronzini. Grazie al successo di General Electric Theatre e di altri show, la MCA poté espandersi acquisendo gli Universal Studios, in declino finanziario. In poco tempo la Revue aveva sviluppato una fiorente rete di attori, produttori, registi e sceneggiatori, tutti nell’orbita della MCA, con i quali aveva prodotto Leave It to Beaver, The Real McCoys6 e molti altri programmi. Universal City, costruita sui terreni dello studio Universal, è oggi una delle attrazioni turistiche più popolari di Hollywood, ma le sue origini sono umili, quasi casuali. Al principio degli anni Cinquanta non esistevano visite guidate organizzate degli studi; solo gli autobus della Gray Line potevano transitarvi e far sbarcare i turisti per una rapida visita a un teatro di posa vuoto; per il resto i turisti restavano sul mezzo, scattando foto del parcheggio riservato di Cary Grant o di un autotrasportatore che guidava il camion degli spurghi verso qualche set esterno.

5 Il primo, noto eroe dei film western, è un personaggio creato nel 1904 dalla penna di Clarence E. Mulford; gli altri due sono entrambi cantanti country e attori di film western. [n.d.r.] 6 Sit com famigliare della ABC andata in onda per sei stagioni (l’ultima delle quali sulla CBS), dal 1957 al 1963. [n.d.r.]

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