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Le trappole mentali dell’azienda

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MANIFESTO

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Gli esseri umani hanno l’abilità tutta particolare di rimanere intrappolati nelle loro proprie trappole, arrivando a costruire organizzazioni simili a delle prigioni psichiche dove i membri di queste organizzazioni restano ingabbiati da costruzioni della realtà che rappresentano un’immagine imperfetta e distorta del mondo (*).

La storia e la letteratura d’impresa sono ricche di esempi di organizzazioni eccellenti che si sono rinchiuse all’interno dei loro successi celebrandone in continuo i fasti e i meriti senza accorgersi che nel frattempo il mondo questi successi li metteva in archivio. In altre parole i successi ed i punti di forza di queste aziende sono rapidamente diventati altrettante debolezze - il successo rende arroganti - che hanno prodotto gravi problemi di mercato, nonché ampie opportunità di crescita e di sviluppo per i concorrenti.

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In queste culture aziendali è venuta clamorosamente a mancare la percezione del futuro in quanto molte persone credono tuttora che il loro futuro sia uguale al loro passato.

La natura delle prigioni psichiche è questa. Tutta una serie di schemi di pensiero e di azione finiscono con il cristallizzarsi dando luogo a delle vere e proprie trappole che imprigionano gli individui in mondi socialmente precostituiti e consolidati impedendo la creazione di mondi diversi.

Ne risulta che gli essere umani sono prigionieri della propria storia psichica, personale e collettiva. Il passato viene percepito come qualcosa che deve sopravvivere nel presente; in tal modo si dà vita a rapporti distorti e svianti con il mondo esterno.

Ad esempio, una mentalità conservatrice soffre di evitamento dell’incertezza; ha una marcata esigenza di ordine, struttura e chiusura accompagnate da dogmatismo e intolleranza dell’ambiguità; tutto ciò induce ad una resistenza al cambiamento e il ricorso a consistenti e inflessibili credenze e abitudini.

Di converso, anche la mente progressiva soffre di inclinazioni mentali altrettanto anomale, come, ad esempio: una indecisione provocata dal timore patologico della chiarezza, l’ingenua illusione che tutti siano dotati dello stesso talento e della stessa percezione, che spetti allo Stato porre rimedio a tutte le ingiustizie sociali.

Gli archetipi sono modelli che strutturano il pensiero, ovvero strutture di pensiero e di esperienza che ci inducono a conformare la nostra concezione del mondo ed il nostro modo di pensare in forma predeterminata e confortevole.

Pensare comporta un notevole dispendio di energie, anche fisiche.

(*). Il concetto di prigione psichica è stato elaborato per la prima volta da Platone nella Repubblica.

Nel nostro cervello vengono quindi immagazzinati ricordi ed esperienze passate, soluzioni usate in occasioni analoghe, cose che sono capitate a noi e ad altri e di cui noi conserviamo notizia e i tanti modi in cui da un flusso disordinato di sensazioni riusciamo di solito a ricavare una immagine del mondo esterno abbastanza regolare e controllabile, la nostra personale idea di come le cose vanno normalmente.

Gli archetipi sono collegamenti abituali, categorie mentali piuttosto che modelli interiori che “girano” nel nostro cervello così come i software “girano” nei nostri calcolatori. Nel valutare, ad esempio, la probabilità che si verifichi un certo evento - soprattutto se questo evento comporta un pericolo o una situazione spiacevolenon siamo né affidabili né realisti perché confondiamo quello che ci appare con quello che noi vorremmo che (non) si verificasse. Analogamente le nostre decisioni vengono influenzate dal modo in cui il problema ci viene posto: è più probabile che un paziente dia il suo consenso ad un’operazione chirurgica se il medico gli dice che “novanta pazienti su cento sopravvivono” piuttosto che “dieci pazienti su cento muoiono”.

Decidere di fare qualcosa di nuovo, forzare le nostre abitudini, modificare le nostre certezze sappiamo che richiedono uno sforzo cognitivo ed emotivo: dobbiamo valutare cose nuove, verificare le ipotesi di fattibilità e di presunta soddisfazione, confrontare i pro e i contro delle conseguenze delle varie alternative. Spesso ne deriva che, per evitare questa fatica, si tende a protrarre lo status quo per lungo tempo ancora (**). Pertanto si decide di non decidere.

Governi, compagnie di assicurazione, carrier telefonici, banche, esperti di marketing giocano quotidianamente con la nostra propensione allo status quo, sfruttando questa trappola e rendendola particolarmente pervasiva.

Ne deriva che, di sovente il nostro comportamento viene influenzato da quella che viene definita l’euristica del ma sì, è uguale. Una chiara esemplificazione di questo atteggiamento consiste nell’effetto-traino durante la visione dei programmi televisivi. Il management delle emittenti televisive sa bene che un telespettatore che inizia la serata su un canale tende a restarci. Infatti quando il programma finisce, un numero sorprendentemente elevato di telespettatori inconsciamente dice ma sì, è uguale e continua a guardare il programma successivo sul medesimo canale. Analogamente, i responsabili delle distribuzione di giornali e periodici sanno per esperienza che molto spesso il rinnovo è automatico perché il cliente si astiene dal comunicare la formale disdetta dell’abbonamento.

Quindi, per via dell’automatismo delle decisioni, l’opzione default rappresenta una sostanziosa quota di mercato.

Questo è il quadro che emerge dalla generalità dei comportamenti di individui che, presi da tante cose, non possono permettersi di ragionare a fondo ogni volta che devono prendere una decisione, per poco importante che sia.

Il sociologo Max Weber ha notato che tanto più la burocrazia si afferma all’interno dell’organizzazione, tanto più essa riesce a sopprimerne le caratteristiche umane ed emozionali.

(**).William Samuelson e Richard Zeckhauser (1988) hanno chiamato distorsione verso lo status quo la tendenza da parte degli individui a prediligere la situazione in cui essi vivono d’abitudine.

L’aggressività, l’invidia, il risentimento, al pari di numerose altre dimensioni della nostra vita nascosta, sono insite nelle strutture organizzative e nella loro cultura. Il ruolo che ha l’inconscio nei processi organizzativi può essere paragonato ad un buco nero nel senso che l’organizzazione può inghiottire buona parte delle energie degli individui che vi lavorano.

Ma perché rimaniamo intrappolati nei nostri abituali schemi di pensiero? Perché ci crogioliamo nelle nostre illusioni? Perché troviamo tanto difficile modificare il nostro comportamento? Perché tendiamo a crearci tanti problemi e a scatenare ansia?

Le norme, i modelli, le credenze che definiscono una organizzazione non sono dei fenomeni semplicemente ed asetticamente organizzativi bensì personali nel più profondo del termine. Pertanto ogni tentativo mirato a modificare la realtà organizzativa è destinato a mobilitare una serie di resistenze riconducibili al fatto che gli individui ed i gruppi difendono lo status quo nel tentativo di difendere la propria identità.

È pertanto inutile parlare di learning organization o tentare di sviluppare culture aziendali favorevoli al cambiamento se si ignora la dimensione inconscia della natura umana.

L’eccesso di razionalità è spesso una forma di irrazionalità mascherata: la tendenza ad ubriacarsi di lavoro di certi manager, l’insistere ossessivamente su obiettivi, tenere comportamenti aggressivi coi colleghi sono spesso segni che denotano il tentativo di nascondere una serie di insicurezze personali.

L’eccesso di controllo, poi, nega inclusione e diversità mortificando quindi il potenziale innovativo perché l’attenzione del management viene occupata dalle norme e dai controlli interni invece di concentrarsi su sfide, prospettive ed opportunità provenienti dal mondo esterno.

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