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Liberi di crescere
Oggi in Italia chi vuole più libertà, più mercato, più concorrenza, più meritocrazia viene ancora tacciato di essere uno spietato liberista.
Spietato al punto di essere accusato di comportamento antisociale, schiavo di appetiti individuali e preda di egoistico ed insopportabile tornaconto personale. E, di conseguenza, destinato ad essere additato al pubblico disprezzo.
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Il liberismo, o le macerie di quello che ne resta in Italia, viene diffusamente percepito come l’origine della crisi. L’apertura dei mercati e la loro globalizzazione, che hanno procurato e che tuttora procurano enormi opportunità di crescita e di diffuso benessere, da noi vengono marchiate come la causa prima dei nostri problemi.
Negli scorsi decenni la globalizzazione dei mercati ha prodotto una crescita straordinaria della ricchezza del mondo; ha fatto crescere i redditi medi di milioni di persone e, nell’arco di tempo dal 1990 al 2020, ha fatto uscire dalla povertà assoluta almeno 1,2 miliardi di individui.
In sintesi, nel 1998 le famiglie in condizione di povertà estrema erano, nel mondo, una su tre; oggi sono poco meno di una su sei.
Senza parlare del fatto che la conseguente apertura delle comunicazioni internazionali ha messo in contatto miliardi di persone che ora condividono idee, letture, musica, esperienze, scambi di informazioni, obiettivi. E modelli di vita. Questa è la società aperta.
Il regime liberale, basato su mercato, concorrenza, merito, è l’unico in grado di produrre, in modo concreto e duraturo, benessere, valore e prosperità. La storia economica della nostra civiltà, dalla prima rivoluzione industriale in Inghilterra, alla seconda rivoluzione industriale fordiana di circa un secolo fa fino allo sviluppo postbellico delle economie mondiali, fornisce risposte ineludibili ed incontestabili. Ma allora perché in Italia esistono ancora tante pulsioni stataliste e antimprenditoriali che tendono a ostacolare sistemi economici e sociali liberali che hanno creato il più elevato, generale e diffuso benessere nella storia dell’Umanità?
Non dimentichiamo che l’Italia è uno dei Paesi in cui è più difficile fare impresa. Ma, se nutriamo indifferenza/avversione alla crescita del mercato, in che modo pensiamo di attenuare l’enorme debito che lasciamo in eredità ai nostri figli (il nostro debito di € 2.573 miliardi è il 155% del nostro PIL – MEF 2020)?
Peraltro, le molte riforme che sono state fatte negli ultimi due decenni non sembrano aver dato i risultati sperati. Ancora oggi il tasso di crescita dell’Italia è da più di 20 anni fra i più bassi della UE.
L’indice delle liberalizzazioni 2019 elaborato dall’Istituto Bruno Leoni afferma che il nostro Paese è di gran lunga il meno liberale tra i maggiori 15 dell’Europa essendo noi aperti al mercato per un misero 28% (Grecia 36%, Regno Unito 86%).
Secondo i dati OCSE tra il 1990 e il 2020 i salari medi nell’Unione Europea sono cresciuti per tutti tranne che per l’Italia, che fa segnare un -2,9% contro il +33,7% della Germania, il +31,1% della Francia e il +6,2% della Spagna.
Il risultato di tutto ciò è sotto i nostri occhi: l’Italia è passata dall’essere la quinta potenza economica all’inizio degli anni ‘90 all’attuale ottavo posto.
È mia personale convinzione che la principale ragione dell’atteggiamento anticoncorrenziale e antimeritocratico sia molto più semplice di quanto non si pensi: il merito, la competitività, il comportamento responsabile costano fatica, impegno, serietà, autodisciplina. Accompagnate da un grande stimolo interno che le alimenta.
Afferma da sempre Pietro Ichino: Il metodo concorrenziale ha un “difetto politico”: esso evidenzia con grande precisione le differenze di capacità tra gli individui facendo emergere il merito personale.
Costa molta meno fatica coltivare eguaglianza sociale che meritocrazia; costa molta meno fatica esercitare indifferenza critica che spirito critico e selettivo; costa molta meno fatica restare quelli che siamo piuttosto che ciò che avremmo potuto diventare; costa molta meno fatica voler cambiare il mondo a parole piuttosto che cambiare noi stessi coi fatti.
Questa è la cultura che ha definitivamente decretato il prevalere dell’illusionismo demagogico e dello statalismo più sfrenato.
Come si può pensare che il risultato dell’incapacità, dell’incompetenza, della disonestà di politici ed amministratori pubblici - sempre impunemente sulle loro poltrone - debba costantemente ricadere sulle spalle dell’italiano onesto e laborioso?
Come può certo sindacato e certa politica impedire di razionalizzare strutture di produzione e di servizi per compiacere i loro serbatoi elettorali a discapito dell’intero Paese?
Come può la nostra politica continuare a prosperare di consenso comprato con l’abnorme ricorso alla spesa pubblica?
Come può certa burocrazia esistere con l’unico obiettivo di autoperpetuarsi indefinitamente?
Come da tempo sostiene Francesco Giavazzi, il ruolo dei liberisti è quello di spiegare ai cittadini che l’alternativa al mercato, alla concorrenza, al merito è una Società basata sui privilegi, sul trionfo delle rendite. Privilegi e rendite che si tramandano di generazione in generazione: i fortunati e gli egoisti vivono tranquilli mentre chi nasce povero è destinato a rimanerlo, indipendentemente dalle sue capacità e dal suo impegno. Perché da noi l’ascensore sociale è perennemente fermo per manutenzione?
In questi ultimi mesi sembra che qualcosa si stia finalmente muovendo, grazie alla nostra appartenenza alla UE. Il recente testo del Ddl sulla Concorrenza, che corrisponde a uno degli obiettivi individuati dal Governo Draghi nel PNRR, interviene sulla rimozione delle barriere all’entrata dei mercati, sui servizi pubblici locali, su energia e sostenibilità ambientale, sulla tutela della salute, sullo sviluppo delle infrastrutture digitali e sulla rimozione degli oneri e sulla parità di trattamento tra gli operatori. Stiamo forse finalmente invertendo la tendenza?
MANTENERE COMPETITIVA L’IMPRESA.
Il business di un’impresa deve garantire adeguati risultati da reinvestire nell’azienda stessa, proprio per permetterne la sopravvivenza e la crescita.
La spinta a conseguire un risultato e una sana competitività sul mercato sono di per sé energie positive: ciò che conta è la modalità con cui vengono messe in atto. Il rispetto degli altri e per l’ambiente deve essere sempre alla base di ogni nostra azione.
D’altra parte è evidente che, solo se funziona, un’azienda ha le risorse sufficienti per pagare regolarmente gli stipendi e i fornitori, per investire in ricerca&sviluppo, per versare tutte le imposte dovute.
Quindi, collocati su solide basi valoriali, gli utili d’impresa sono fondamentali perché innescano un corto circuito positivo che contribuisce concretamente alla prosperità collettiva. Solo così si lavora a un progetto che ha un futuro!
In questo modo il riflesso dell’Economia della Consapevolezza si irradia sempre più verso l’esterno e l’Impresa fornisce così il proprio tangibile contributo agli Shareholder, al territorio che la ospita, all’intera società civile.
Fabrizio Favini