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Gli italiani: circoli viziosi e trappole mentali

Claudio De Mattè, compianto fondatore di SDA Bocconi e non solo, diceva che alcuni Paesi erano stati per una volta nella loro storia in cima al mondo: Babilonesi, Egiziani, Greci, Francesi con la loro Rivoluzione, Inglesi con la Rivoluzione Industriale e così via. Solo l’Italia con l’Impero Romano e con il Rinascimento è stata in cima al mondo due volte; viene subito in mente il detto non c’è due senza tre, e altrettanto rapidamente arriva la triste consapevolezza che ci fermeremo al due dato che siamo da tempo nella fase di declino.

Perché? Come mai un Paese con quasi due terzi delle opere d’arte nel mondo, ripeto nel mondo, un territorio che, in miniatura rispetto alle maestosità dell’Himalaya o ai parchi americani, contiene tutte le varietà delle bellezze naturali, 100 città e molti più borghi che da soli valgono un viaggio e che è anche il secondo Paese manifatturiero d’Europa, si trova nelle condizioni attuali? Per non parlare della qualità del cibo e del bere e della cultura materiale alla loro base.

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Le condizioni attuali le conosciamo tutti a partire dall’enorme debito pubblico e dalla scarsa credibilità internazionale, recuperata magari di volta in volta grazie a singole personalità - vedi Draghi - ma mai come Paese.

Quali sono i meccanismi strutturali che ci spingono al declino? Quali le narrazioni che ci impediscono di migliorare? Quali i circoli viziosi? Quali le trappole?

Vorrei partire dall’immagine diffusa dell’Italia. Quanti italiani sanno che Palermo - non Messina che è a est di Praga - è a EST di Venezia, o che Bari è a NORD di Napoli o che Otranto è a EST di Stoccolma?

Noi sappiamo che l’Italia è storta ma in realtà non ci pensiamo e le conseguenze non sono banali. La contraddizione, la differenza tra Nord e Sud, l’annosa questione meridionale che sicuramente ha delle ragioni storiche, ha fatto dimenticare che il vero spartiacque del Paese è tra Est e Ovest, tra area tirrenica e area adriatica. Ci sono più ragioni di omogeneità o di differenza tra Campania, Calabria e Sicilia da una parte e Puglia, Abruzzo e Molise dall’altra? A me sembra che Camorra, ‘Ndrangheta e Mafia si siano sviluppate nell’area tirrenica creando differenze sociali sostanziali col resto d’Italia tra cui le altre regioni del sud est. La narrazione di comodo che si tratti di un problema culturale del SUD, delle popolazioni coinvolte favorisce la falsa coscienza: è un problema loro, sono società omertose e così via.

Aree di una bellezza straordinaria sono di fatto sottosviluppate; ma quanti hanno voglia di intraprendere se ciò significa avere a che fare con la malavita? E quanti ristrutturano un bar o un ristorante se la conseguenza è un aumento del pizzo?

Quanti del Nord si comporterebbero in modo diverso? È molto più comodo esprimere una superiorità morale e culturale invece di affrontare il problema del controllo del territorio e della riduzione dei freni allo sviluppo. Non è questo lo spazio per approfondire, mi basta dire che le ragioni sociali che giustificavano un ruolo delle organizzazioni malavitose sono scomparse da decenni.

A questa descrizione/narrazione del Paese si aggiunge la trappola di affrontare i problemi dal punto di vista della cultura invece che dal punto di vista dei comportamenti. Ormai diversi anni fa, all’inizio della raccolta differenziata, si giustificavano le diverse performance del Nord e del Sud con la diversa cultura civica. Sfuggiva ai più che in questo modo, dato che i cambiamenti culturali richiedono generazioni, si rinunciava di fatto alle azioni per cambiare la realtà. Provocatoriamente, nei convegni pubblici, io ripetevo che per far comportare un napoletano come uno svizzero bastavano pochi secondi, non decenni. Bastava fargli attraversare la frontiera ed essendo più sveglio di un milanese avrebbe capito subito come comportarsi per non avere problemi. Il tema va quindi affrontato come comportamenti e contesto, non cultura. Non sto dicendo che la cultura non conta, tutt’altro, sto dicendo che non siamo in presenza di una causalità lineare, la cultura che determina i comportamenti, ma di una causalità circolare, nella quale, ricordando il “come se” di Pascal, conviene partire dai comportamenti.

Un’altra trappola mentale è la convinzione: l’organizzazione castra la creatività. E siccome a noi piace immaginarci come un popolo di creativi, persone e organizzazioni flessibili, giustifichiamo la scarsa organizzazione come un pregio. Non riusciamo a vedere che i popoli che consideriamo NON creativi, rigidi ecc., hanno il maggior numero di brevetti, artisti e architetti di fama internazionale.

Noi vinciamo le battaglie, con la rapidità di reazione, e perdiamo le guerre con la mancanza di metodo. Il risultato: usiamo l’80% della nostra creatività per risolvere problemi che non ci sarebbero se fossimo organizzati.

Da qui la convinzione generativa che dovremmo adottare: l’organizzazione libera creatività.

Ce la faremo a guardare in faccia la realtà con occhi diversi? Questa è una delle sfide che la nostra classe dirigente deve affrontare e vincere: passare dal paradigma dell’O al paradigma dell’E; dal considerare coppie che si escludono (Quantità-Qualità, Stato- Mercato, Sviluppo-Ambiente, eccetera) a considerarle coppie generative i cui poli sono presenti contemporaneamente: Organizzazione E Creatività.

Ho lasciato per ultimo il circolo vizioso che caratterizza il nostro Paese e che, secondo me, è alla base di molti nostri comportamenti controproducenti.

PENALIZZAZIONE DEL VIRTUOSO

Noi abbiamo molte leggi severe ma c’è il patto implicito che “poi ci aggiustiamo”; un esempio lontano è dato dai commenti di personalità del governo quando fu emanata la norma che rendeva obbligatorio il casco per i motociclisti. Si dichiarò la tolleranza zero, questa volta facciamo sul serio, senza rendersi conto che ciò equivale a dire che le altre volte invece no. Pensate ai limiti di velocità, che spesso prendiamo come minimi, o ai divieti di sosta in città. O ancora ai condoni, ammissione di fallimento nell’applicazione delle norme. Di fatto la norma viene applicata a macchia di leopardo generando incertezza sulla reale punibilità. Il primo effetto di questa incertezza percepita del diritto è la discrezionalità, il potere, del pubblico ufficiale. Da qui, ovviamente non solo, diffusione di corruzione e concussione. Ma anche un atteggiamento “ossequioso” verso il pubblico ufficiale del quale si cerca la benevolenza, non solo quando siamo in torto, ma anche quando si chiedono atti ai quali si ha diritto.

Da cittadini diventiamo sudditi, con un rapporto con lo Stato e le sue articolazioni malate. E il suddito, cercando di non sottostare, trova comportamenti non leciti che però ritiene legittimi come legittima difesa. Si determina così un contesto nel quale siamo tutti un po’ fuorilegge e il rispetto delle norme non diventa mai un valore sociale condiviso. Cresce la labilità morale, cioè la convinzione che quei comportamenti illeciti non lo sono poi tanto, anzi sono una necessità. E, come se non bastasse, un cittadino moralmente labile non sanziona comportamenti illeciti.

Nel tempo, elusioni ed evasioni aumentano fino ad arrivare alla rottura del patto sociale: si esagera. E qui il capolavoro che chiude il circolo vizioso rendendolo perverso: invece di semplificare e controllare si irrigidisce la norma.

L’ultimo esempio viene dalle truffe sul 110%.

Abbiamo speranza? Possiamo rompere il circolo? Alla prossima puntata.

Piero Capodieci

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