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Che cosa scrivono gli altri

«La presidenza Trump: bilancio ed eredità»

QUADERNI DI SCIENZE POLITICHE, ANNO X - FASCICOLO 17 - 18/2020

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Una graditissima sorpresa ci riservano i Quaderni in parola con un numero doppio di ben 346 pagine e quattordici contributi dedicati a un primo bilancio critico dei quattro anni della discussa presidenza Trump. Un tema che, sin dai suoi albori, ha appassionato gli studiosi che, a diverso titolo, fanno capo alla «scuola storica di analisi delle relazioni internazionali», il cui epicentro si trova nel Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Il presente volume si pone, infatti, in ideale continuità con la precedente analoga monografia Effetto Trump? Gli Stati Uniti nel sistema internazionale fra continuità e mutamento (Quaderni, n. 12/2017). Se però quest’ultimo «tracciava alcune linee interpretative per comprendere i fattori che avevano determinato l’imprevedibile ascesa di Trump alla Casa Bianca e per delineare le tendenze della sua presidenza, lo scopo del presente — pubblicato lo scorso marzo — è invece proprio quello di valutare quanto il mandato di Trump abbia rappresentato una “rottura” da archiviare e quanto invece sia stato espressione di “forze profonde” di lunga durata e di scenari più recenti, entrambi destinati a non scomparire facilmente», come ben fa rilevare nella sua Introduzione il direttore del periodico, prof. Massimo de Leonardis, ben noto ai lettori della Rivista. I primi capitoli dei Quaderni affrontano il quadro strategico globale in cui operano gli Stati Uniti, a cominciare dalla più volte dichiarata svolta di fondo da parte di Trump, «in base alla quale il valore delle alleanze non è più dato per scontato a priori, ma va rivalutato in base alla loro effettiva utilità per Washington» (Davide Borsani) e ciò vale anche per la NATO, i cui rapporti non certo idilliaci nell’ultimo quadriennio (dalla definizione della NATO come «obsoleta», perché focalizzata contro la Russia e non contro il terrorismo islamico al rifiuto sprezzante di pagare la maggior parte delle sue spese), vengono analizzati con la consueta profondità critica dal de Leonardis nel saggio La politica dell’amministrazione Trump verso la NATO».

Il ricchissimo e variegato palinsesto continua quindi con una serie di interventi che mettono a fuoco le relazioni bilaterali di Washington con i singoli paesi come la Russia (Gianluca Pastori), la Cina — che è stata per Trump, e sarà per il suo successore, la cui in strategia globale parte dall’Asia, una «rivale strategica», viste le sue sfide all’ordine internazionale liberale (Mireno Berrettini), l’Australia (Raimondo Neironi) e il Regno Unito (Valentina Villa). Per passare quindi alle scelte politiche poste in essere dall’amministrazione Trump nel travagliato Medio Oriente in specifici e delicati settori geopolitici (come quelli «siro-iracheno/giordanoisraelo-palestinese», a firma rispettivamente di Andrea Plebani e Paolo Maggiolini). Al riguardo si fa rilevare innanzitutto come Trump passerà probabilmente alla storia come il presidente «più filo-israeliano», dato che si è spinto fino al punto di dare attuazione a una legge del 1995 che prevedeva il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele col conseguente trasferimento da Tel Aviv dell’ambasciata americana, decisione invero sempre rinviata dai suoi predecessori, nonostante la norma legislativa. Mentre con la «pace di Abramo» del settembre 2020 e gli sviluppi successivi, Trump può vantare un altro suo personale successo, che si inserisce nel progetto di cooperazione politico-militare mediorientale, noto come Middle East Strategic Alliance (MESA) (di cui ci parla Giuseppe Dentice), apertamente sponsorizzato dalla sua presidenza e sostenuto da Israele, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Né sfuggirà ai lettori il capitolo di Enrico Fassi (Trump e la promozione della democrazia), forse il più critico verso la politica di The Donald, per la sua presa di posizione ideologica. Dalla ricostruzione dell’Autore emerge, infatti, come gli aspetti di maggiore discontinuità di Trump rispetto ai suoi predecessori non siano tanto «lo scarso interesse o preoccupazione per violazioni di diritti umani o norme democratiche in altri paesi», quanto che egli «non sembra credere nel fatto

che il sistema politico americano sia il migliore possibile, e tantomeno che vada promosso altrove. Al contrario, nella sua visione, gli Stati Uniti dovrebbero rinunciare a ogni pretesa di diversità o superiorità morale, per concentrarsi esclusivamente sui propri interessi».

Ed è questa netta presa di posizione forse il dato più sconcertante per l’Occidente laddove, come ben ha sottolineato il prof. de Leonardis in una sua recente intervista: «Ordine liberale occidentale ed egemonia americana sono un binomio assai stretto» (https://il caffègeopolitico.net/67858/Gli Stati Uniti a un bivio). Gli ultimi tre capitoli affrontano infine alcuni aspetti di politica interna: dal suo atteggiamento populista e antielitista (Andrea Campati) all’esercizio dei suoi poteri presidenziali (Cristina Bon) e all’approccio alle tematiche etiche e religiose (Iulio Loredo e James Bascom). In sintesi, la panoplia di temi e problemi che ci viene proposta costituisce una chiave di lettura privilegiata per meglio interpretare la realtà del «mandato Trump», che già nel 2018 Martha Nussbaum dell’Università di Chicago aveva stigmatizzato come «monarchia della paura», nel senso che «il presidente nutre la paura, permette l’odio e accelera la scomparsa della verità con quasi tutto ciò che faceva». Una presidenza offuscata peraltro dallo stile del personaggio, poco «presidenziale», dal «linguaggio duro e bellicoso» (anche se può vantarsi di non aver coinvolto gli Stati Uniti in nessuna nuova guerra), dai difficili e altalenanti rapporti con le gerarchie militari, dall’imprevedibilità delle sue mosse spesso irrituali in politica estera (pensiamo alle defatiganti trattative e ai summit con Kim Jong-un finiti nel nulla!), nonché dalla sua iniziale «incredulità» nei confronti della pandemia dilagante nel paese («alla don Ferrante» dei Promessi Sposi di fronte alla peste seicentesca, per intenderci) e infine, in articulo mortis, dalle infinite, inutili e pericolose polemiche sulla «vittoria rubata». E a questo punto un interrogativo di fondo aleggia al di sopra del contesto critico in chiaroscuro che abbiamo, sia pur rapidamente, delineato. «Sarà ancora Trump, forte dell’assoluzione dal suo secondo “impeachment” e di una “dote elettorale” di oltre 73 milioni di voti, a presentarsi come “sfidante repubblicano” alle elezioni presidenziali del 2024, come lascia presagire il suo auto rilancio politico alla Convention dei Conservatori di Orlando dello scorso primo marzo?

«Il discorso del Presidente. Lineamenti di

politica estera italiana»

ISPI DAYLY FOCUS - LA REPUBBLICA - INTERNAZIONALE, 17/18 febbraio 2021

Se la memoria filmica ci ha consegnato, con tutti i suoi retroscena, Il Discorso del Re, con riferimento all’ormai cult movie del 2010 del regista Tom Hooper, vincitore di ben quattro premi Oscar e relativo al discorso col quale nel 1939 re Giorgio VI annunciò alla nazione la guerra contro la Germania nazista, la cronaca politica del nostri giorni, con grandissimo risalto nei media e nella stampa, sia nazionale che internazionale (al riguardo www.italy24news.com/en/2021/02/the-draghi-government-seen-from-abroad-from-the-new-york-times-toel-pais-the-first-evaluation-of-the-major-internationalnewspaper), a sua volta ci ha presentato il discorso programmatico col quale l’allora presidente del Consiglio incaricato, Mario Draghi (video integrale in www.rainews.it/dl/rainews/media/Governo) ha chiesto la fiducia al Senato il 17 gennaio scorso, illustrando i criteri da intraprendere per far fronte alla «triplice crisi» (sanitaria, sociale ed economica) in cui versa attualmente il nostro paese. Discorso sul quale ci soffermiamo, spi-

golando tra i vari commenti per informazione del lettore, al fine di porre in evidenza in particolare gli indirizzi di politica estera ivi enunciati. «Nei nostri rapporti internazionali questo governo sarà convintamente europeista e atlantista in linea con gli ancoraggi storici dell’Italia: Unione europea, Alleanza atlantica, Nazioni unite». «Il discorso d Mario Draghi, [“un vero e proprio manifesto del multilateralismo”, è stata la definizione di Alessia De Luca su Ispi Daily Focus], supera i tentennamenti e le ambiguità che hanno caratterizzato l’ultimo triennio — è il commento di Gianluca Di Feo sulle colonne de La Repubblica — con gli entusiasmi per la Cina e i rapporti opachi con

la Russia». Per quanto attiene all’Europa — continua Draghi nel suo discorso — i capisaldi di riferimento sono Parigi e Berlino «in un rapporto strategico e imprescindibile», non solo nella costruzione dell’Europa ma anche sotto l’aspetto commerciale, vista l’integrazione delle rispettive economie.

Parimenti importanti sono le relazioni con i paesi del Mediterraneo (Spagna, Malta, Grecia e Cipro), laddove gli ultimi due rappresentano «gli avamposti dei rapporti sempre più tesi con la Turchia, partner e alleato NATO», (di cui si auspica però «un dialogo più virtuoso con l’Unione europea»), unitamente alle aree da sempre di interesse prioritario per il nostro paese (Balcani, Mediterraneo allargato e Africa). Nel contesto dell’Unione europea «altra sfida sarà il negoziato sul nuovo Patto per le migrazioni e l’asilo, nel quale perseguiremo un deciso rafforzamento dell’equilibrio tra responsabilità dei paesi di primo ingresso e solidarietà effettiva. Cruciale sarà anche la costruzione di una politica europea dei rimpatri dei non aventi diritto alla protezione internazionale, accanto al pieno rispetto dei diritti dei rifugiati». E mentre si ribadisce che il «dialogo» resta la strada maestra dei rapporti con Mosca, citando Pechino soltanto nell’elenco delle situazioni problematiche («Seguiamo anche con preoccupazione l’aumento delle tensioni in Asia intorno alla Cina»), ci si apre con fiducia all’amministrazione Biden e ai suoi «cambiamenti di metodo» rispetto all’era Trump, un metodo cioè più cooperativo nei confronti dell’Europa e degli alleati tradizionali, nella convinzione che la collaborazione con Washington sarà destinata a intensificarsi. In buona sostanza: «L’Italia avrà la responsabilità di guidare il G20 verso l’uscita dalla pandemia e di rilanciare una crescita verde e sostenibile a beneficio di tutti. Si tratterà di ricostruire e ricostruire meglio». In conclusione — ha scritto Pierre Haski su Internazionale — davanti al Senato Mario Draghi ha pronunciato il discorso «più europeista» che si sia sentito sul continente da tempo. «Dobbiamo essere orgogliosi del contributo italiano alla crescita e allo sviluppo dell’Unione europea […] Senza l’Italia non c’è l’Europa. Ma fuori dall’Europa c’è meno Italia. Non c’è sovranità nella solitudine».

«Il relitto di Uluburun: una storia mediterranea»

NAUTICA REPORT - ARCHEOMEDIA, 5 agosto e 31 ottobre 2020

Nell’estate del 1982, al largo delle coste turche, dove l’archeologia subacquea è praticamente di casa, a circa 8.5 km a sud-est di Kaş, piccolo centro della regione di Antalya — leggiamo nelle riviste in epigrafe citate a firma di Fabrizio Fattori — un pescatore di spugne segnalò i resti di una vetusta imbarcazione, la cui datazione — successivamente effettuata con il metodo della «dendrocronologia» su un frammento ligneo — si fa risalire intorno al 1350 a.C., cioè nella tarda età del bronzo (XIV sec. a.C.). Le campagne di scavo e recupero dei materiali alla profondità di 40-

Uno spaccato di ciò che poteva contenere la nave di Uluburum completa-

mente carica (The Maritime History Podcast/nauticareport.it). A destra: il

relitto di Uluburum, una storia mediterranea (nauticareport.it).

60 metri, che si sono susseguite per undici anni con un totale di 22.413 immersioni, dirette dall’archeologo americano George Bass e turco Cemal Pulak, hanno riportato alla luce la storia di un naufragio tra i più antichi in assoluto riscontrati nell’area. L’imbarcazione, lunga oltre 15 metri, costruita in legno di cedro del Libano e quercia col metodo delle giunzioni a incastro (il noto sistema «a tenone e mortasa»), simile a quello greco-romano dei secoli successivi e un albero che sosteneva probabilmente una vela rettangolare. Variegato e ricchissimo il carico al suo interno che testimonia l’intensità degli scambi commerciali nell’area mediterranea intesa anche come terminale di più vaste regioni sub-africane, mediorientali e nord-europee.

Tra gli oggetti in oro primeggia uno scarabeo recante il nome di Nefertiti, quindi bracciali e collane in ambra, quarzo, corniola e agata, carapaci di tartaruga destinati a divenire casse armoniche, zanne di elefante, denti di ippopotamo e uova di struzzo oltre a una statuetta del dio Bes (divinità o genio benefico dell’antico Egitto, raffigurato come un nano scimmiesco, protettore del sonno contro gli esseri malefici notturni, presumibilmente protettore dei marinai) e un numero considerevole di ancore dalle fogge estranee alle aree dell’Egeo, varie tipologie di metalli (stagno e bronzo), ceramiche di varia provenienza in forma di vasi e anfore contenenti ancora tracce di resine, olio, fichi, melograni e cereali. Dall’analisi dei materiali recuperati e dal corredo dei naviganti è stata ipotizzata anche una probabile rotta che, da Micene, passando per Creta, sarebbe arrivata fino a Cipro, o forse a Rodi, per proseguire poi con un nuovo carico verso i porti dell’area.

Gli oltre 18.000 reperti recuperati e catalogati, nonché la ricostruzione dell’imbarcazione stessa, sono permanentemente esposti nel Museo di Archeologia Subacquea di Bodrum (https://tripadvisor.it/ReviewsBodrum-Museum), mentre in fondo al mare è stata ricollocata nientemeno che una suggestiva replica dell’imbarcazione stessa. Una vicenda che pone in risalto, ancora una volta, quali tesori inestimabili conservi il Mediterraneo a testimonianza della sua storia plurimillenaria.

Ezio Ferrante