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Focus diplomatico

Visita del presidente del Consiglio Mario Draghi a Tripoli. Esiti e incognite

La missione di Mario Draghi a Tripoli, accompagnato dal ministro degli Affari Esteri Luigi Di Maio, primo fra i membri del Consiglio europeo a incontrarsi con il premier Abdul Hamid Dbeibeh, fa stato della pronta risposta italiana all’adempimento libico della più importante clausola dell’accordo sul «cessate il fuoco» del 26 ottobre del 2020: l’elezione da parte del parlamento libico del governo transitorio che dovrà condurre il paese alle elezioni generali del 24 dicembre, momento definito «unico» da Draghi, cioè il più opportuno per la piena ripresa delle relazioni italo-libiche a livello di governi centrali. Nel corso di una conferenza stampa congiunta al termine dei colloqui, il Primo ministro italiano ha lodato il governo libico che «sta procedendo a realizzare l’unità nazionale» e ha dato pubblico credito all’ambasciatore e ai diplomatici italiani «per aver tenuto costantemente aperta l’ambasciata» durante gli ultimi difficili anni. Ora è necessario «ristabilire la pace» procedendo ad adempiere a tutte le clausole del cessate il fuoco (tra le quali vi è quella della sollecita partenza dei contingenti stranieri). Draghi ha poi definito i risultati dei colloqui come «straordinariamente soddisfacenti».

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Il premier libico Dbeibeh ha da parte sua salutato la comune volontà di rivitalizzare la «partnership strategica italo-libica» attraverso la riattivazione della Commissione economica congiunta e l’Accordo del 2008, nonché l’accordo doganale, i visti a favore dei cittadini libici e gli investimenti libici in Italia. Ha, in seguito, definito «sfide comuni» quelle relative all’emigrazione, il terrorismo, il crimine organizzato e il traffico di esseri umani.

Durante i colloqui, i due leader hanno parlato anche di infrastrutture (la nota autostrada costiera e l’aeroporto internazionale) di energia (ENI ed ENEL dovrebbero accompagnare la transizione energetica libica) e di cooperazione nel settore sanitario, in particolare contro l’attuale pandemia e nel settore culturale. Anche il tema dei mancati pagamenti alle imprese italiane è stato affrontato, oltre a quelli specificatamente annunciati nel corso della conferenza stampa, quali l’emigrazione, tema sul quale da entrambe le parti si è ritenuto di chiedere anche l’aiuto dell’UE. Draghi si è poi incontrato anche con il presidente del Consiglio presidenziale Mohammed al Menfi e i due vice presidenti, ripartendo per Roma nel primo pomeriggio.

La visita è stata preceduta da una prima missione di Luigi di Maio a Tripoli, domenica 21 Marzo, accompagnato dall’amministratore delegato dell’ENI Claudio De Scalzi. Una settimana dopo, il 28 marzo, il ministro degli Esteri è tornato in Libia con i colleghi tedesco, Heiko Mass e francese, Jean-Yves Le Drian, per manifestare ai Libici l’unità di intenti dei primi tre paesi dell’Unione Europea. In entrambe le occasioni, i tre principali interlocutori locali erano stati il primo ministro Dbeibeh, il presidente del Consiglio presidenziale Al Menfi e la ministra degli Affari esteri Najla Al Mangoush. Inoltre Al Menfi si è recato a Parigi per incontrare all’Eliseo il presidente Macron, mentre la domenica di Pasqua, il presidente del Consiglio dell’UE, il belga Charles Michel si è recato a Tripoli per incontrarsi con Dbeibeh. Nella capitale libica si è recato nel pomeriggio di martedì anche il primo ministro greco. Anche i greci, come i francesi, riapriranno nei prossimi giorni le rispettive ambasciate.

Tripoli, 6 aprile 2021: alcuni momenti della visita del Presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, al Primo Ministro libico Abdelhamid Dabaiba (governo.it).

Tale intensità di contatti, che precede e include evidentemente la visita del nostro Presidente del Consiglio, è dovuta, come accennato dallo stesso Draghi, alla nomina da parte del parlamento libico il 15 marzo u.s. del Governo di transizione, che porterà il paese alle elezioni generali, parlamentari e presidenziali il 24 dicembre p.v. L’adempimento delle parti libiche che avevano preso parte al conflitto alla prima e più determinante delle clausole del cessate il fuoco, ha così nuovamente attirato sulla Libia l’attenzione delle capitali più interessate (in particolare della nostra), che non avendo considerato realizzabile un impegno militare diretto nella guerra, attendevano il ristabilimento dei primi segni di legalità per tentare di ricostruire i tradizionali rapporti di collaborazione e di influenza precedentemente intrattenuti con la Libia.

Resta ovviamente aperta l’altrettanto determinante clausola prevista dal cessate il fuoco del 26 ottobre 2020, le cui norme ricalcano i risultati della Conferenza di Berlino per la stabilizzazione della Libia, tenutasi nel gennaio dell’anno passato: si tratta del ritiro entro novanta giorni dal 26 ottobre 2020, dei contingenti stranieri militari e civili che hanno preso parte alle varie fasi del conflitto e la fine definitiva dei ponti aerei e dei rifornimenti terrestri ai medesimi. Tuttavia, l’atteggiamento delle due principali potenze interessate non sembra conforme alle disposizioni del cessate il fuoco: il Parlamento di Ankara ha autorizzato la permanenza del contingente turco fino al 2022; i russi, da parte loro stanno scavando un «vallo» di circa 90 km in direzione nord-sud, a partire dalle loro basi aerea e navale in prossimità di Sirte. Un vallo che potrebbe porsi a protezione del fianco ovest/sudovest delle loro basi, oppure costituire il primo tratto dell’eventuale confine fra Tripolitania e Cirenaica che auspicheremmo invece di non vedere mai. Ci troviamo quindi di fronte alla situazione che tante volte abbiamo constatato, soprattutto in Medio Oriente, ma anche nel Mediterraneo: ogni qualvolta i diretti contendenti sembrano vicini a trovare un’intesa, questa viene complicata dagli interessi delle potenze regionali e globali. Fino a oggi sia la Turchia sia la Russia, insieme ai rispettivi alleati, hanno preso tempo, continuando a valutare quali vantaggi, come basi militari e benefici politici ed economici diretti e indiretti si potessero ricavare come ricompensa per il loro coinvolgimento nella guerra. Sapremo presto se questa, per il momento, è la vera e unica ambizione delle potenze straniere che hanno «attivamente» sostenuto le parti in causa libiche durante il conflitto armato. In questo caso, verrebbe in sostanza conservato lo status quo fino a nuovo ordine e con l’opzione di riprendere la guerra se ritenuto necessario.

Viene tuttavia auspicato da larga parte della comunità internazionale (non dimentichiamo che la Conferenza di Berlino è stata firmata da ben sedici paesi e organizzazioni internazionali, tra cui la Cina) che prenda corpo una nuova fase diplomatica, volta non tanto verso i libici, che devono ancora portare a termine molti importanti adempimenti (per esempio, lo scioglimento delle milizie e la costituzione di un esercito nazionale), quanto verso le potenze regionali e globali coinvolte, con la speranza che anche la nuova presidenza americana possa continuare a esercitare una opportuna pressione in favore del ritiro degli stranieri e della stabilizzazione del paese. La Turchia, in particolare, sembra, come noto, non passare un

periodo facile sul piano economico finanziario e tale difficoltà potrebbe renderla incline a cercare un compromesso tra le ambizioni strategiche e gli interessi economici che la sua importante posizione raggiunta a Tripoli con la guerra potrebbe oggi assicurarle. Sicuramente più difficile il discorso con la Russia. La recente guerra in sostegno ufficioso del generale Haftar le ha assicurato finora alcune basi aeree e navali. Ricordo che chi controlla la costa libica con adeguata tecnologia, potrebbe potenzialmente minacciare o addirittura impedire il traffico mercantile dal canale di Suez a Gibilterra e viceversa. L’Italia, pur senza controllare Suez o Gibilterra, nel Secondo conflitto mondiale ha impedito il suddetto traffico per tutto il periodo fino all’8 settembre 1943, agevolata anche dalla relativa ristrettezza dei canali di Sicilia e di Sardegna. Inoltre la dislocazione di impianti per lancio missili a lungo raggio lungo la costa libica aggiungerebbe una potenziale minaccia permanente anche al nostro territorio nazionale.

L’Unione europea non è riuscita fino a questo momento a esercitare un ruolo da protagonista pari al suo peso e alle sue capacità nella questione libica, a causa della mancata intesa tra gli Stati membri. Oggi sembra partire con migliori prospettive, come dimostrerebbe la tempestiva visita congiunta dei ministri degli Esteri dei tre paesi maggiori, oltre alla visita del presidente del Consiglio europeo Michel. L’annosa drammatica vicenda dell’emigrazione clandestina passa dalla frontiera sud, come per lo più, i gruppi armati terroristi che escono e rientrano dai confini saheliani. Il contrabbando di armi, petrolio e quant’altro segue varie vie terrestri e aeree, attraversando indisturbato le frontiere. Esistono problemi anche per quanto riguarda sia la frontiera est, che l’Egitto sorveglia con la più alta attenzione, come anche per la frontiera ovest con Algeria e Tunisia.

Se è vero che un controllo indipendente ed efficace delle frontiere è alla base della risoluzione di gran parte delle problematiche nazionali, solo un’autorità indipendente e all’altezza della situazione, su auspicabile mandato del Consiglio di Sicurezza, potrebbe affrontare una tale sfida, con l’aiuto evidentemente di guardie di frontiera libiche, inquadrate e coordinate dalla speciale autorità internazionalmente delegata.

L’Unione europea, si è opportunamente interessata almeno tre volte in questi ultimi anni al problema del controllo delle frontiere libiche, intuendone l’importanza ai fini della stabilizzazione del paese. La prima volta con «The European Union Border Assistance Mission» EUBAM, nel 2013, una missione civile di assistenza alle autorità libiche (capacity building) composta da 35 elementi, che è tuttora in corso. La missione aveva firmato un accordo con l’Organizzazione Internazionale per la Migrazione (IOM) per assistere le autorità libiche nello smantellare le reti di criminalità organizzata volta al traffico di esseri umani e al terrorismo.

La seconda volta, con l’operazione navale SOPHIA (2015-20), intesa a reprimere il fenomeno del traffico degli emigrati clandestini. La terza, con l’operazione aeronavale IRINI (avviata il 31 marzo 2020), volta a reprimere il contrabbando di armi e petrolio davanti alle coste libiche. Si tratta ovviamente di operazioni navali, ma molto diverse da EUBAM, in quanto non si limitano alla assistenza alla guardia costiera (capacity building), ma svolgono un ruolo esecutivo diretto sotto l’egida e il controllo del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e naturalmente sulla base di un accordo con lo Stato libico. L’Italia ha svolto e svolge un ruolo importante in questo quadro, con il comando dell’operazione IRINI (ammiraglio Fabio Agostini) e prima con quello dell’operazione SOPHIA

Personale militare impegnato nell’operazione EUNAVFOR MED IRINI (operationirini.eu).

(ammiraglio Enrico Credendino) e con la direzione dell’EUBAM (dottor Vincenzo Tagliaferri, recentemente sostituito per fine mandato dalla dottoressa Natalina Cea). Ma anche sul piano concettuale, giacché la «strategia marittima dell’UE» fu presentata al Consiglio europeo dall’allora Alto Rappresentante Federica Mogherini, sulla base anche di consulenze all’uopo fornite dai paesi membri e in particolare dalla Marina Militare italiana. Le operazioni IRINI e SOPHIA, accompagnate da quelle organizzate da Frontex hanno potuto, per conto dell’UE, per la prima volta, prendere la diretta responsabilità della frontiera marittima libica, definita frontiera «liquida», per la sua collocazione sull’acqua, che in sostanza rende confinanti con la Libia tutti i paesi europei rivieraschi con il Mediterraneo date le poche miglia di mare che li separano da Tripoli, in particolare quelli più vicini, come l’Italia. In aggiunta all’interdizione del contrabbando di armi e di petrolio, IRINI contribuisce attivamente al contrasto del traffico di esseri umani e provvede alla formazione della Guardia costiera libica. Per tali aspetti della missione, l’UE ha potuto finora schierare tre fregate e due aerei per la ricognizione marittima. Ha infine ricevuto una considerevole flessibilità sul mandato, che sotto speciali condizioni può accrescere la propria «intensità» e area di azione, comprese le acque territoriali libiche, con il previo accordo del governo locale e del Consiglio di Sicurezza. A parte poi la cooperazione con le competenti agenzie dell’UE, IRINI è soprattutto un buon esempio di integrazione tra le sue componenti civili e militari, quali Forze armate e di polizia, magistratura, rappresentanti delle istituzioni europee, rappresentanti di organizzazioni internazionali e NGO.

A nostro parere, l’UE potrebbe avere una buona chance per rafforzare il suo ruolo a favore della stabilizzazione della Libia. Siamo sicuri che l’Alto Rappresentante Josep Borrell possiede le capacità, oltre alle migliori intenzioni per dare all’UE un più alto profilo politico nel processo di pace previsto dai seguiti della Conferenza di Berlino. La massima parte del contrabbando di armi è avvenuto e avviene via terra o con voli clandestini, mentre IRINI sviluppa la sua indispensabile azione sul mare.

Il momento è venuto per l’UE, noi crediamo, di completare il lavoro avviato da IRINI, tramite il concepimento di una ulteriore forza di pace dell’Unione europea, sotto mandato dell’ONU, per assicurare un efficace controllo di tutte le frontiere, in stretta cooperazione con IRINI al Nord e forse condividendo parzialmente con quest’ultima, parte del personale e la logistica del Comando.

La nuova missione potrebbe avere la stessa organizzazione istituzionale di IRINI nel quadro della politica estera e di sicurezza dell’UE, sotto la diretta autorità dell’Alto Rappresentante ed eventualmente essere posta sotto un coordinamento unico insieme a IRINI per assicurare l’unicità di intenti. Questa forza di pace non dovrebbe limitare i suoi compiti all’attività di capacity building, ma dovrebbe assumersi, come dicevamo, maggiori responsabilità, in collaborazione con le guardie di frontiera libiche, con la missione europea in Sahel e sotto mandato e monitoraggio del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ma anche dell’Unione africana. La stessa operazione potrebbe anche interessarsi del problema dei migranti in transito, in stretta cooperazione con le competenti organizzazioni internazionali. Nonostante l’ampiezza di un tale programma, riteniamo che i tempi siano maturi per l’UE di assumersi la responsabilità che il momento richiede. Crediamo anche che nessun altro, al di fuori dell’UE possa efficacemente incaricarsi di un progetto così ambizioso e nello stesso tempo indispensabile.

Paolo Casardi, Circolo di Studi Diplomatici

Diplomatico di carriera, presta servizio a Roma, Parigi, Maputo, Londra, Bruxelles, New York e Santiago. Percorre tutti i rami dell’attività diplomatica bilaterale e multilaterale, prendendo poi posto in Consiglio di Amministrazione della Farnesina con l’incarico di Ispettore Generale del Ministero e degli Uffici all’estero. Lasciato il servizio attivo, è cooptato come socio del Circolo di Studi Diplomatici, ove viene eletto Co-Presidente, svolgendo in quel quadro e fuori, attività di ricerca e attività accademica in materia di relazioni internazionali. È autore di articoli e saggi su riviste specializzate e pubblicazioni. È consigliere scientifico della Marina Militare per l’area umanistica. Il Circolo di Studi Diplomatici è un’associazione fondata nel 1968 su iniziativa di un ristretto gruppo di ambasciatori con l’obiettivo di non disperdere le esperienze e le competenze dopo la cessazione dal servizio attivo. Il Circolo si è poi nel tempo rinnovato e ampliato attraverso la cooptazione di funzionari diplomatici giunti all’apice della carriera nello svolgimento di incarichi di alta responsabilità, a Roma e all’estero.

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