77 minute read

A cavallo tra due mari e 27 secoli

All’apice della propria potenza la «simmachia egemoniale» di Sibari s’ispirava al modello lidiopersiano delle satrapie. La sua influenza si estendeva dai distretti settentrionali situati lungo la congiungente tra Metaponto e Poseidonia-Paestum, fino all’istmo scilletico-ipponiate (tra i golfi di Squillace e di S. Eufemia) a sud (elaborazione da Maurizio Bugno,

Da Sibari a Thurii. La fine di un impero, Centre Jean Bérard,

Advertisement

Napoli, 1999).

L’archè di Sibari, una storia di mare e di economia di ieri e di oggi

Michele Maria Gaetani

Poche città sono entrate di forza nei vocabolari, per esempio Babilonia, sinonimo di confusione, oppure Bisanzio coi suoi, appunto, bizantinismi. Fa loro compagnia Sibari, il cui lusso, infine rovinoso, è proverbiale. Eppure proprio la parabola di questa un tempo grande città-stato presenta parecchi spunti di estrema attualità politica, economica e, di conseguenza, navale.

Gli archeologi hanno dimostrato che la regione che dal VII sec. d.C. chiamiamo Calabria sviluppò sin dal 5000 a.C., ovvero ancora nel neolitico, la navigazione costiera, assicurando il traffico tra le coste tirreniche e quelle ioniche con imbarcazioni cariche di ossidiana, ossia il vetro vulcanico estratto a Lipari e Palmarola. Quasi quattromila anni dopo, i navigatori minoici scoprirono e parteciparono al lucroso traffico dei metalli strumentali. Dobbiamo a questi scambi coi cretesi la statuetta d’avorio, d’eccezionale fattura, scoperta nel 2012 a Punta di Zambrone, vicino a Tropea, che costituisce la più antica rappresentazione di figura umana con caratteri naturalistici mai trovata in Italia e in tutto il Mediterraneo occidentale (1).

L’insediamento di Broglio di Trebisacce (CS) nasce da questi scambi verso il XVII sec. a.C., quando i navigatori e commercianti micenei si stanziarono su uno sperone collinare che domina la linea di costa ionica dieci chilometri a nord della futura Sibari, fondendosi, con ogni probabilità, con le popolazioni locali e avviando produzioni standardizzate di vasellame di pregio decorato in stile egeo e cretese (2). Mezzo millennio dopo, intorno al XII secolo a.C., il collasso quasi contemporaneo delle economie palaziali del Mediterraneo orientale (vittime di fenomeni incontrollabili, sia naturali sia umani) (3) causò la fine della grande Età del Bronzo e l’avvento dei secoli bui del cosiddetto Medioevo ellenico.

Avvocato milanese classe 1970, oltre ad articoli in ambito giuridico, ha pubblicato dal 1996 studi storico-militari e realizzazioni cartografiche per RID, Rivista Marittima (Stive ed Egemonia, supplemento novembre 2007), Storia Militare, Ufficio Storico dello Stato Maggiore della Marina Militare, Businaro-InEdibus, Ali Antiche. Ha inoltre contribuito a opere di altri autori per Osprey e IBN.

La piana alluvionale del Crati e del Coscile era, ed è, fertilissima ma idrogeologicamente instabile. La deviazione del fiume Crati operata dai Crotoniati per sommergere Sibari non ha finora trovato conferme archeologiche e sembra casomai il ricordo, deformato dal mito, di fenomeni naturali conseguenti

al cessato regime artificiale dei fiumi dopo la distruzione della città (Bellotti et al., Insediamenti umani in un paesaggio in evoluzione: Interazione uomoambiente nella piana di Sibari (Calabria Ionica), Il Quaternario - Italian Journal of Quaternary Sciences 22(1), 2009).

È stato comunque «dimostrato che la tecnologia militare dell’Italia fu abbastanza avanzata in confronto con quella della Grecia durante il tardo XIII e il XII secolo a.C.. In particolar modo, le spade da fendente della famiglia Naue II, caratteristiche della c.d. koinè metallurgica, davano un vantaggio ai guerrieri provenienti dall’Italia. I risultati di analisi chimiche e isotopiche provano che gli esemplari più antichi di quelle spade in uso nell’Egeo furono importate dall’Italia» (4). Di più, «le popolazioni costiere in Italia devono aver avuto una certa capacità nella navigazione — com’è dimostrato per esempio dai siti di cultura Appenninica in Corsica — e anche nei trasporti marittimi mercantili» (5). Un contributo decisivo al tracollo del vecchio ordine fu assicurato, secondo alcuni paleo-climatologi, dall’instabilità climatica del XV secolo a.C.: nell’arco di qualche decennio, un secolo al massimo, la superficie dell’Oceano Atlantico settentrionale si raffreddò, e con essa il Mediterraneo, che divenne siccitoso (6). Successivamente, le migliorate condizioni climatiche, unite ai progressi dell’agricoltura, contribuirono a una generale ripresa demografica, con una conseguente espansione in direzione del Mar Nero e dell’Italìa. Tra le prime colonie elleniche del IX e VIII sec. a.C. figurano così Ischia (Pithekyssai), Cuma, Nasso, Zancle (Messina), Siracusa e, appunto, Sibari (7).

Sibari fu fondata tra il 733 e il 707 a.C. (data generalmente accolta: 720) da una spedizione di coloni provenienti dal Peloponneso, verosimilmente sponsorizzati dalla città di Corinto (8). I nuovi coloni achei misero per prima cosa in sicurezza la frontiera settentrionale della novella comunità, subito minacciata dai Dori, loro tradizionali nemici, i quali avevano fondato, attorno al 706-705 a.C., Taranto, principale tra le pochissime colonie dedotte da Sparta. La geografia, le posizioni strategiche e i porti naturali erano, evidentemente, ben noti a tutti. Sorse così Metaponto, tra il 690

e il 620, col duplice risultato di sbarrare la strada ai ta- città dotate di cinte murarie complete (non limitate rantini e di insidiare la fertile Siritide. Dopo questo pri- cioè all’acropoli) che ci sono precisamente note sono mum vivere fu la volta del deinde philosophari, 232; di queste, le poleis che racchiudessero più di 150 mediante un’espansione commerciale, marittima e na- ettari (ossia grandi) erano solo 23, 4 delle quali sicevale in direzione del mar Tirreno e dei locali traffici tra liote (Agrigento, Gela, Camarina e Siracusa), 4 italiote Greci, Cartaginesi ed Etruschi (9). (Crotone, Locri, Sibari e Taranto) una africana (Ci-

Verso il 600 i sibariti fondarono così Poseidonia (la rene) e 14 greche. Se si aggiunge poi il fatto che la difutura Paestum) (10). Nella loro avanzata verso il Tir- mensione media della città greca nel periodo classico reno, vennero in contatto con diverse popolazioni au- (V sec. a.C.) era di 65 ettari (40 la mediana), si capisce toctone dell’entroterra (la «terra di mezzo», com’era l’impressione che dovevano fare i 500 ettari (5 km²) detta in greco), ed è proprio in occasione dei rapporti di Sibari nel VI sec. a.C. (16). Ma dove veniva la stracon gli indigeni che si manifestò la particolarità ordinaria magnificenza di Sibari? Non solo la piana dell’«impero» sibaritico, misconosciuto anello di con- era feracissima, ma le foreste dal Pollino alla Sila forgiunzione tra il modello culturale persiano e quello ro- nivano quantità inesauribili di legname per l’edilizia, mano. L’imperialismo di Sibari non fu scevro da una per le fornaci e per la cantieristica, nonché la miglior durezza sanguinaria e anche sacrilega (da cui l’espres- pece del Mediterraneo (la pix bruttia celebrata dagli sione latina «scelus sybariticum») (11), ma i ritrova- scrittori latini) impiegata, oltre che per scopi medici e menti archeologici di guerrieri enotri sepolti in armi da cosmetici, per la calafatura degli scafi, per l’imperparata fanno propendere per una convivenza e progres- meabilizzazione e la sigillatura delle anfore e nei tratsiva assimilazione tra coloni achei e popolazioni locali tamenti del vino, di cui Sibari era esportatrice (17). (12) in omaggio a un «quadro di “interetnicità” cultu- Detto in altre parole l’industria navale era indispenrale e materiale estremamente composito» (13). sabile e, con essa, tutto l’indotto. Da essa dipendevano

Ancora una volta, pertanto, nihil sub sole novum, sia la possibilità di esportare il vino, l’olio, i tessuti (18) tanto più che tra gli strumenti di penetrazione, un ruolo e il vasellame, sia quella di farsi pagare le merci e i serimportante fu giocato dai «santuari di frontiera», le cui vizi con le buone, se possibile, con le cattive se necesrovine sono oggi la testimonianza dei «più antichi tem- sario. Inoltre, come al buon tempo antico, le arti, a pli di cui abbiamo conoscenza sul suolo d’Italia» (14). partire da quella culinaria, erano fiorite (19). Secondo Erodoto, Sibari era floridissima attorno al 575. All’acme della sua fortuna, essa era «la città più potente, più popolosa, più ricca e più lussuosa del mondo occidentale» (15). In effetti, per quanto i dati relativi a questo periodo siano da considerare molto approssimativi, la popolazione e la superficie di Sibari appartenevano allo stesso ordine di grandezza di Babilonia e di Ninive. Limitandoci all’ambito prettamente ellenico delle 1035 poleis conosciute, le Ecateo, principale geografo del VI secolo a.C., aveva, da Mileto, una visione dell’Italia incentrata su Sibari e sulla rete di relazioni rivolta da lì verso l’Occidente. Questo grafico permette di capire perché le città italiote percepivano se stesse come «Magna Grecia» rispetto all’Ellade metropolitana.

cantili in uso fino al VI secolo a.C., quando apparvero le nuove e sempre più grosse unità a vela, tonde e specializzate (20). A quel punto iniziarono i guai. Stando infatti a quanto scrive Timeo (storico del IV-III secolo, disprezzato però da Polibio), Sibari non solo non aveva un porto, ma i suoi oziosi abitanti nutrivano avversione nei confronti dei viaggi per mare e dei correlati pericoli. In effetti la grave progradazione della linea di costa fa allontanare il mare di un metro l’anno, e al momento della distruzione della città il mare si era già ritirato di circa 200 Questa rarissima statuetta d’avorio testimonia la frequentazione minoica lungo la rotta che Domenico Silvestri ha chiamato «via tirrenica dei metalli strumentali», lungo la quale Témesa e l’Italìa erano plausibili tappe intermedie mentre l’Elba rappresentava l’approdo finale (Reinhard-Pacciarelli, A Minoan Statuette from Punta di Zambrone in Southern Calabria). metri rispetto a quando Sibari era stata fondata due secoli prima. Oggi la foce del fiume Crati dista 3,3 km dai resti della polis achea (21). Un destino, se vogliamo, simile a quello di Pisa, orgogliosa Repubblica marinara ridotta, nel giro di qualche secolo, al modesto sbocco di Marina di Pisa. Non controllando il punto di passaggio obbligato rappresentato dallo Stretto di Messina, decisive divennero le vie istmiche terrestri (22). Secondo Strabone, geografo di età augustea, l’«impero» di Sibari, al momento del proprio massimo splendore, dominava — mediante foedera iniqua, ossia trattati egemoniali come quello stipulato coi Serdaioi e ritrovato a Olimpia — quattro popoli e 25 poleis disseminati Corredo funebre di un guerriero enotrio del periodo precoloniale (IX-VIII sec. a.C.) trovato a Torre Mordillo, altura sulla piana di Sibari. La spada con impugnatura «a lingua da presa» tra il mar Ionio, il Tirreno e l’entroterra, rappresentando il cardine attorno a cui del tipo Naue II, comparsa alla fine dell’Età del bronzo, ebbe, nell’antichità, secondo Louise A. Hitchcock, un’importanza pari a quella della bomba atomica (Museo dei Brettii e degli ruotavano, nel VI secolo, gli scambi comEnotri di Cosenza, Artsupp). merciali e culturali tra l’Asia Minore (Mileto) e l’Etruria. Era una realtà economica

Tutto bene quindi? Non proprio. È un fatto che e culturale «italiana», di taglia tale da rappresentare un questa città marittima che aveva basato le proprie for- mercato della massima importanza nell’ambito dell’intune sul mare non disponeva di un porto, ma soltanto tero sistema mediterraneo e, quindi, «mondiale». delle lagune formate dal delta dei fiumi Crati e Syba- Il sintomo iniziale della crisi di Sibari si avverte ris. Verosimilmente, quindi, un porto fluviale (o un nella neutralità di quella città in occasione della prima porto canale): un terminal, insomma, e probabilmente battaglia navale «italiana» della storia. Accadde che gli uno scalo franco in grado di accogliere le navi mer- abitanti di Focea, città greca sita in quella che oggi

chiamiamo Anatolia, pur di non assoggettarsi al «barbaro» Ciro il Grande quando la loro città fu da lui presa nel 546 a.C., abbandonarono in massa la loro patria: 4000 uomini, donne e bambini a bordo di una quarantina di pentecontori (navi con cinquanta remi). Una simile flotta costituiva per quel tempo un’armata poderosa e i profughi penetrarono indisturbati nel Tirreno stabilendosi ad Alalia, sulla costa orientale della Corsica, dove da una ventina di anni avevano un piccolo scalo commerciale impegnato negli scambi con Etruschi e Fenici.

I nuovi arrivati, oltre a insidiare «il monopolio dei metalli e dell’allume esercitato da Agylla/Caere» (23), si diedero presto a saccheggiare tutti i vicini, come riferisce Erodoto, interrompendo le lucrose esportazioni etrusche verso la Gallia. Fu così che Etruschi e Cartaginesi, legati, secondo Aristotele (24), da un trattato commerciale e militare che definiva le rispettive sfere di influenza, decisero di agire. Verso il 540, 60 navi etrusche e altrettante cartaginesi si scontrarono con 60 navi focesi nella battaglia di Alalia, primo grande scontro navale della storia. Si discute se la squadra etrusca comprendesse un piccolo contingente dell’allora già importante, economicamente e militarmente, Roma dei Tarquini (25). È certo che i Focesi impiegarono per la prima volta il rostro in battaglia rivendicando la vittoria. In realtà si trattò di quella che Erodoto definisce una «vittoria cadmea» (oggi diremmo di Pirro), visto che persero comunque 40 navi mentre le restanti venti risultarono inutilizzabili per i danni riportati.

Non sono note le perdite della coalizione etruscopunica, ma si sa che in mano ai presunti sconfitti rimasero molti prigionieri (parte dei quali fu lapidata dagli etruschi una volta sbarcati ad Agylla-Caere) e che, soprattutto, i sedicenti vincitori evacuarono frettolosamente la Corsica. Sibari fece ricorso, con successo, alla diplomazia e trovò, alla fine, un compromesso tra le parti in causa, non potendo correre il rischio di scontentare alcuna delle potenze coinvolte: i Focesi furono così autorizzati a fondare Elea (Velia) in un territorio che Sibari fece loro vendere dagli Enotri.

La debolezza relativa di Sibari sul mare (in termini sia navali sia marittimi e, pertanto, economici, politici, strategici e sociali) rispetto ai propri vicini occidentali e orientali divenne ben presto tanto evidente da lasciare spazio, verso il 530 a.C., agli esperimenti politici e sociali di Pitagora — esule da Samo — e dei suoi discepoli. Scienziato, filosofo, maestro, mago, asceta, santone, guaritore, incarnazione del dio Apollo nato da una vergine, uomo d’affari e politico ideologo dell’aristocrazia, Pitagora esercitò la propria influenza sul platonismo e sul giudaismo degli Esseni (26). Vero ispiratore dell’idea che risanare la classe politica — come dichiarerà Platone nella sua settima lettera — non fosse possibile in quanto i cattivi governi sarebbero continuati fino a quando a capo degli stati non fossero arrivati autentici filosofi oppure, «per una divina sorte», i potenti fossero diventati essi stessi filosofi (27), Pitagora promosse da Crotone alla Magna Grecia, in nome dell’armonia ideale, se non l’introduzione — come pure si dibatte ancora — della moneta (28), certo

Il Toro cozzante in bronzo custodito al Museo Archeologico Nazionale della Sibaritide. Si trattava di un animale sacro a Poseidone sin dall’età omerica e divenne il simbolo di Sibari. Al dio del mare fu dedicata anche Poseidonia (Paestum), la più importante colonia di Sibari sul Tirreno, a conferma della trinomio Sibari-mare-ricchezza (MIBACT).

Contemporaneo di Buddha e Confucio, Pitagora (575?-495?), nativo di Samo, fuggì in Italìa nel 530 a.C. dopo che Policrate era diventato, a furor di popolo, il tiranno di quell’isola. Comprensibilmente ostile alla democrazia e fautore dell’oligarchia, Pitagora fondò una propria celebre scuola a Crotone facendo proseliti anche tra gli aristocratici di Sibari e Metaponto, dove morì, infine, nuovamente esule (Wikipedia, Musei Capitolini).

quella della finanza. «Battuta in quantità veramente notevole e fors’anche in più di un’officina, la moneta di Sibari circola senza restrizione dallo Ionio al Tirreno, ed è presente ancora in ripostigli interrati intorno alla metà del V secolo [...]. In definitiva si può dire che Sibari aveva fatto dell’emissione monetaria un efficace strumento di controllo politico dei suoi domini» (29). Quanto argento fu battuto da Sibari? Di sicuro «come la fortuna di Atene era legata alle miniere del Laurion, quella di Sibari all’Argentera della Sila». Le stime hanno un ampio margine di incertezza spaziando da coniazioni pari, in media, a circa 1 tonnellata d’argento l’anno a poco più di 1 quintale. La verità sta probabilmente nel mezzo. Poiché sappiamo che il nucleo dell’archè contava circa 300.000 abitanti (di cui un terzo nella capitale), possiamo ricavare che, a seconda delle stime di cui sopra, la coniazione procapite fu tra un minimo di 5,7 grammi nell’arco di 10-15 anni (1.721.400 g / 300.000 ab.), pari a circa 0,46 g/persona/anno, e 115 grammi nel giro di 30-40 anni (34.532.000 g / 300.000 ab.), pari a circa 3,29 g/persona/anno. Si tratta di quantità procapite mediamente comparabili alle coniazioni (di argento e di oro ragguagliato ad argento) dell’Inghilterra tra il 1344 e il 1349 (2,43 g/persona/anno) e della Francia tra il 1354 e il 1489 (0,79 g/persona/anno) (30).

Forse, in concomitanza con l’introduzione della moneta divisionale avvenuta verso il 520, le disuguaglianze sociali si acuirono; forse le ampie concessioni di cittadinanza, insolite e anzi scandalose per i greci, portando «alla formazione di un demos numeroso e soprattutto composito sia per origine (sibariti di umile o modesto livello, indigeni di condizione libera e stranieri di varia provenienza) sia per categorie sociali in esso presenti (piccoli proprietari terrieri, contadini, pastori, artigiani in genere, mercanti, pescatori ecc.)» (31), accrebbero la domanda di terre e le rivendicazioni politiche; forse la piccola proprietà entrò in crisi venendo fagocitata dall’aristocrazia terriera; forse si creò «una dissonanza tra uguaglianza politica e disuguaglianza economica» che fu percepita e scatenò l’invidia sociale (32). Quel che è certo è che la guerra civile iniziò a Sibari con l’uccisione di alcuni pitagorici locali, cui fece seguito la presa del potere da parte del tiranno Telys, forte del sostegno del popolo minuto, in un periodo compreso tra il 520 e (più probabilmente) il 514. Il nuovo regime accusò della crisi i cinquecento sibariti più ricchi, che fuggirono subito a Crotone, mentre le loro terre venivano confiscate a favore del popolo (33). Respinto, su iniziativa di Pitagora, l’ultimatum di Telys per l’estradizione dei fuggiaschi, fu la guerra. Sulla carta la vittoria di Sibari pareva scontata. In pratica quel primo impero occidentale, diviso tra fazioni opposte, si sgretolò.

Dopo l’indovino-stratega Callia di Olimpia, anche l’aristocratica cavalleria cittadina simpatizzò con gli esuli e disertò all'unisono passando al nemico nel corso della battaglia decisiva al guado del Traente, e la città, dopo un assedio, fu distrutta nel 510 e sommersa dal Crati. Tuttavia, le ripercussioni sociali della divisione

delle terre assegnate al popolo resero ben presto ingovernabile il territorio e, alla fine, pure Crotone ne fece le spese, allontanando Pitagora (rifugiatosi a Metaponto, dove insegnò per altri quindici anni fino alla morte, sopravvenuta nel 495 a.C.), mentre i suoi seguaci furono lungamente vittime di una caccia alle streghe e spesso bruciati vivi nei sinedri delle loro città (34).

Cosa ci può insegnare questa storia? Accuratamente dimenticata, è vero, ma attualissima, visto che gli ingredienti odierni sono gli stessi di allora.

Primo: anche la prosperità italiana e, più in generale, occidentale è basata sulla seguente catena: economia – potere marittimo (navale e mercantile) che la rende possibile – pace sociale. Sibari aveva tutto questo, poi (un po’ per demerito proprio, un po’ per merito altrui) la situazione degenerò in pochi anni. Il prezzo, al di là di quello — non stimabile in ragioneria — delle vite umane, fu immenso come immensa era stata la ricchezza, sibaritica, dei suoi abitanti. Eppure, sarebbe bastata una frazione minimale (pagabile, per di più, in comode rate) di quel prezzo materiale per costruire i grandi moli che stavano per sorgere, in quello stesso periodo, nella non certo più ricca Atene per accogliere, al Pireo (in fin dei conti distante ben 13 chilometri dalla propria città madre), le nuove navi mercantili monstre dell’epoca: fino a 500 tonnellate! I sibariti preferirono viceversa puntare, con la benedizione dell’ideologia del momento, su avventurosi giochi finanziari che resero tutti ricchi e, di conseguenza, tutti (meno i soliti noti) (35) poveri. Eppure, il legame tra Sibari e il mare rimase indirettamente testimoniato dal padre stesso della talassocrazia ateniese, Temistocle, che alle sue figlie volle dare i nomi, non casuali, di Sybaris e Italìa.

Secondo: Roma fu, come si disse all’epoca di Giolitti, «la seconda affermazione dell’italianità, dopo Sibari» (36). Certo, cadde anch’essa, ma dopo 1229 anni (2206 se consideriamo l’Impero d’Oriente), lasciando un patrimonio culturale ancora attuale, mentre per Sibari è necessario ricorrere all’archeologia specializzata, come dimostra l’oggettivamente frammentario, ma indispensabile, corredo di note che accompagna quest’articolo. Senz’altro la differenza la fece anche la ben diversa percezione dell’ordine delle priorità di cui furono capaci i senatori romani, sin dal tempo delle guerre puniche, dimostrando un corretto apprezzamento del potere marittimo (37).

Terzo: ferma restando la provinciale (nel senso deteriore del termine) «ideologia del declino» di certi nostri intellettuali, è per contro motivo di ottimismo il constatare che il nostro Paese, a differenza di pressoché tutte le realtà mediterranee, sia sempre rimasto sulla cresta dell'onda, dagli Etruschi e da Sibari fino a oggi, probabilmente grazie anche a un felice incontro tra la cultura autoctona e quella cosiddetta orientale, all’origine delle nostre persistenti fortune e della nostra nazionale singolarità, ammessa da tutti, sia in Italia sia all’estero, di un calabrone che non dovrebbe volare e che, invece, vive e prospera da millenni. Naturalmente

Milone, il maggiore atleta olimpico classico di tutti i tempi, guidò l’esercito di Crotone alla conquista di Sibari. Nella sua casa si riuniva il sinedrio di Pitagora, del quale era genero. Secondo la tradizione, Milone morì sbranato dopo essere rimasto incastrato nella fenditura di un tronco d’albero che stava tentando di spaccare a mani nude (Joseph-Benoît Suvée, Wikipedia).

ria, teoricamente distinta per etnia e lingua, rientra perfettamente in quest’insieme) significa approfondire un'infinita serie di aspetti. In primis quelli economici e, conseguentemente, navali, essendo questi le due facce della stessa moneta, ma anche indagare circa la particolarità, tutta nostrana, della decisiva vicenda femminile nell’ambito della nostra culIl toro retrospiciente è caratteristico degli stateri d’argento (8 g) battuti a Sibari a partire dal 540 o 525 con ben 190 conii diversi. Alcuni studiosi ritengono che la monetazione sia stata introdotta nelle tura, in quanto senza paragoni rispetto al resto del mondo di allora e, ancora, città achee d’Italìa proprio da Pitagora. La tipica tecnica incusa (anziché a doppio rilievo) avrebbe simboleggiato l’armonia degli opposti (Wikipedia). dei secoli successivi: basti dire che «si era arrivati a discutere delle cail voler indagare su quest’eterno enigma italiano (ov- pacità politiche del genere femminile, che Pitagora rivero non solo italiota o italico, visto che anche l’Etru- teneva idoneo anche a governare» (38). 8

NOTE

(1) Reinhard Jung, Marco Pacciarelli, A Minoan Statuette from Punta di Zambrone in Southern Calabria (Italy), in E. Alram-Stern, F. Blakolmer, S. Deger-Jalkotzy, R. Laffineur, J. Weilhartner (a cura di), Metaphysis. Ritual, Myth and Symbolism in the Aegean Bronze Age (Aegaeum 39), 2016. Alle colonne di fumo e alle fiamme delle fornaci metallurgiche che dovevano apparire all'orizzonte di queste «protonavigazioni minoiche» si deve il primigenio nome dell’Italia: Aithalìa, ossia “la terra del fumo e delle fiamme” (è invece ormai sconfessata l’etimologia di “terra dei vitelli”): Domenico Silvestri, L’Italia prima e oltre Roma. Premesse, storia e destino di un nome, in 150 anni. L’identità linguistica italiana. Atti del XXXVI Convegno della Società Italiana di Glottologia. Testi raccolti a cura di Raffaella Bombi e Vincenzo Orioles. Udine, 27-29 ottobre 2011, Roma 2012: Il Calamo, 29-73; Piero Ceruleo, Nuovi elementi sulle vie dell’ossidiana, Annali Ass. nomentana storia e archeologia, 2007. (2) J. Buxeda I Garrigós, R. E. Jones, V. Kilikoglou, S. T. Levi, Y. Maniatis, J. Mitchell, L. Vagnetti, K. A. Wardle, S. Andreou, Technology Transfer at the Periphery of the Mycenaean World: The Cases of Mycenaean Pottery Found in Central Macedonia (Greece) and the Plain of Sybaris (Italy), in Archaeometry 45, 2 (Oxford, 2003) 263–284; R. Peroni, Enciclopedia dell’Arte Antica, Treccani, 1994, alla voce Broglio di Trebisacce; A. Bottini, E. Lattanzi - ibidem, voce Lucania et Brutii. (3) Eric H. Cline, 1177 B.C.: The Year Civilization Collapsed, Princeton, 2014 (trad. it. di Cristina Spinoglio, 1177 a.C. Il collasso della civiltà, Bollati Boringhieri, 2014); Birgitta Eder, Reinhard Jung, On the Character of Social Relations Between Greece and Italy in the 12th/11th c. BC, in Robert Laffineur, Emanuele Greco (a cura di), Emporia - Aegeans in the Central and Eastern Mediterranean, Liège, 2005. (4) Reinhard Jung, Le relazioni egee degli insediamenti calabresi e del basso Tirreno durante l’età del Bronzo, in Luigi Cicala, Marco Pacciarelli (a cura di), Centri fortificati indigeni della Calabria dalla protostoria all’età ellenistica, Atti del convegno internazionale Napoli, 16-17 gennaio 2014, Napoli, 2017; R. Jung, Mathias Mehofer, A Sword of Naue II Type from Ugarit and the Historical Significance of Italian-type Weaponry in the Eastern Mediterranean, in Aegean Archaeology, vol. 8, Warsaw, 2006; R. Jung, Pirates of the Aegean: Italy - the East Aegean - Cyprus at the end of the Second Millennium BC, in Cyprus and the East Aegean, Intercultural Contacts from 3000 to 500 BC, Nicosia, 2009; R. Jung, Mathias Mehofer, Mycenaean Greece and Bronze Age Italy: cooperation, trade or war?, in Archäologisches Korrespondenzblatt 43, Mainz, 2013; R. Jung, Push and Pull, Factors of the Sea Peoples between Italy and the Levant, in Jan Driessen (a cura di), An Archaeology of Forced Migration Crisis-induced mobility and the Collapse of the 13th c. BCE Eastern Mediterranean, Louvain, 2018. (5) Reinhard Jung, Marco Pacciarelli, Barbara Zach, Marlies Klee, Ursula Thanheiser, Punta di Zambrone (Calabria) – a Bronze Age Harbour Site. First Preliminary Report on the Recent Bronze Age (2011–2012 Campaigns), in Archaeologia Austriaca, Band 99/2015. (6) William James Burroughs, Climate Change in Prehistory - The End of the Reign of Chaos, Cambridge, 2005; Benjamin Lieberman - Elizabeth Gordon, Climate Change in Human History Prehistory to the Present, New York, 2018; Josiah Ober, The Rise and Fall of Classical Greece, Princeton, 2015. (7) Jan Kindberg Jacobsen, Maria D'Andrea, Gloria Paola Mittica, Frequentazione Fenicia ed Euboica durante la prima etá del ferro nella Sibaritide, in Rivista di studi fenici, XXXVI, 1/2, 2008; Gino Gullace, C’era una volta l’America dei Greci, in Atti del Primo Simposio Internazionale sulla Magna Grecia, Roma, 2 luglio 1987. (8) Donatella Erdas, Aristotele e le città della Magna Grecia, in Poleis e politeiai nella Magna Grecia arcaica e classica - Atti del cinquantatreesimo convegno di studi sulla Magna Grecia - Taranto 26 - 29 Settembre 2013, Taranto, 2016; Francesco Barritta, Breve storia di Sybaris, in Rogerius - Bollettino dell'Istituto della Biblioteca Calabrese, 2007; Gregorio Aversa, Riflessioni sulla fondazione di Crotone fra problematiche della colonizzazione e dinamiche di occupazione territoriale, in Quaderni di archeologia, a cura dell’Università degli Studi di Messina, vol. I, 2011; Gianfranco Maddoli, Megàle Hellàs: le ragioni del nome, in Atti e Memorie della Società Magna Grecia, Roma, 2016; A. Taliano Grasso, Tra il Sibari e il Crati, in Daidalos, VI, 2004. (9) Werner Johannówski, intervento al convegno Greci e Italici in Magna Grecia - Atti del primo convegno di studi sulla Magna Grecia - Taranto, 4 - 8 Novembre 1961, Napoli, 1962; Jacques Heurgon, La Magna Grecia e i santuari del Lazio, in La Magna Grecia e Roma nell’età arcaica, Atti dell'ottavo Convegno di studi sulla Magna Grecia - Taranto, 6 - 22 ottobre 1968, Napoli, 1969. Dalla Campania gli Etruschi miravano al dominio del traffico terrestre verso la Puglia. (10) Francesca Ippolito, Peter Attema, Connettività regionale e interregionale in età preistorica e protostorica nella Valle del Raganello; Martin A. Guggisberg, Camilla Colombi, Corinne Juon, Tra Mar Ionio e Mar Tirreno: Francavilla Marittima e la rete di comunicazioni transappenninica in età precoloniale; entrambi in Carmelo Colelli, Antonio Larocca, Il Pollino - Barriera naturale e crocevia di culture, Giornate internazionali di archeologia, 2018; Emanuele Greco, L’impero di Sibari. Bilancio archeologico-topografico, in Sibari e la Sibaritide, Atti del trentaduesimo convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto - Sibari, 7-12 ottobre 1992, Taranto, 1993; Giovanna De Sensi Sestito, La Calabria in età arcaica e classica, Storia - Economia - Società, Roma-Reggio C., 1984. (11) Julia Taita, L'indovino Kallias di Elide e le relazioni fra Sibari e Olimpia in epoca arcaica, in Italo-Tusco-Romana, Festschrift für Luciana Aigner-Foresti zum 70. Geburtstag am 30. Juli 2006, pp. 345-363, Wien, 2006, che cita a sua volta M. Osanna, Chorai coloniali da Taranto a Locri. Documentazione archeologica e ricostruzione storica, Roma, 1992; Pier Giovanni Guzzo, Sul mito di Sibari, in BABesch, 78, 2003. (12) Guggisberg et al., Tra Mar Ionio e Mar Tirreno…, cit.; Carmelo Colelli, Luciano Altomare, Amendolara fra Ionio e Pollino (IX-VI secolo a.C.), entrambi in Il Pollino…, cit. Tale sinecismo greco-italico ha un precedente speculare nelle migrazioni di italioti in area micenea nell'età del Bronzo. (13) M. Paoletti, La necropoli enotria di Macchiabate, Lagaria e la ‘dea di Sibari’, in Paolo Brocato, Studi sulla necropoli di Macchiabate a Francavilla Marittima (Cs) e sui territori limitrofi, Università della Calabria, 2014; Pellegrino Claudio Sestieri, intervento al convegno Greci e Italici…, cit.; Jung, Le relazioni egee…, cit. (14) Il culto principale che si celebrava nella sede massima di Timpone della Motta era quello di Atena, una divinità particolarmente rilevante per la storia, l’economia

e la società sibaritiche. Innanzitutto Atena era una divinità collegata all’attività, tipicamente femminile, della tessitura e, in effetti, sono numerosissimi i ritrovamenti di pesi da telaio, i quali confermano l’importanza del ruolo della donna in uno dei maggiori motori dell’intera economia sibaritica. In secondo luogo, con Atena Ippia dovevano essere collegati i riti misterici di passaggio dei giovani aristocratici membri di quella numerosa e potente cavalleria sibaritica che le fonti degli antichi avversari descrivono dediti a bisbocce orgiastiche alla Fonte termale delle Ninfe, nei pressi del santuario extraurbano: Marianne Kleibrink, Dalla lana all'acqua: culto e identità nel santuario di Atena a Lagaria, Francavilla Marittima (zona di Sibari, Calabria), 2004; Giovanni Brandi Cordasco Salmena di San Quirico, Sybaris e gli alleati. L'egemonia di Timpone della Motta nel trattato di Olimpia con i Serdaioi, Prospettive Meridionali, 2013. (15) Louis Ponnelle, Le commerce de la première Sybaris - Sybaris et Siris rivales commerciales, in Mélanges de l'école française de Rome, Napoli, 1907. (16) M.H. Hansen, The Concept of the Consumption City Applied to the Greek Polis, in T.H. Nielsen, Once Again: Studies in the Ancient Greek Polis, Stuttgart, 2004; M.H. Hansen, Polis - An Introduction to the Ancient Greek City-State, Oxford, 2006. (17) D. Uzunov et al., Magna Sila: la tecnologia GIS nello studio e ricostruzione del paesaggio archeologico, in Archeologia e Calcolatori, 24, 2013. Lo stesso toponimo Enotria significherebbe “terra del vino”: E. Salerno, Le Terre Jonicosilane. Guida archeologica, in Quaderni documentari di storia delle Terre Jonicosilane della Sila Greca, 2015; l’etimologia potrebbe essere però più ambigua: Fabio Colivicchi, L’altro vino - Vino, cultura e identità nella Puglia e Basilicata anelleniche, in Siris 5, 2004. Il vino era stoccato in cantine vicino al mare, dove giungeva tramite canalizzazioni che scendevano dalle aziende vinicole sulle colline di Sibari. (18) Daniela Marchiandi, Riflessioni sulla costruzione del valore dei tessili nell’Atene classica (… ma a partire dallo himation del sibarita Alcistene), in Historika - Studi di storia greca e romana n. 9, 2019. Vale la pena di ricordare che il “settore moda” sibarita offriva tessuti così fini da essere considerati trasparenti, tanto che è arrivata fino ad oggi una versione in base alla quale le donne di Sibari, impudiche, lascive e forti bevitrici al pari delle etrusche, secondo i popoli vicini e lontani, facevano indossare a bella posta tali vesti alle proprie figlie adolescenti affinché trovassero più rapidamente marito: Domenico Marincola Pistoia, Delle cose di Sibari, ricerche storiche, Napoli, 1845. A Locri la legge proibiva alle donne perbene di indossare le lussuose stoffe "isomilesie" prodotte a Sibari. (19) I cuochi erano tanto apprezzati che la legge ne tutelava la creatività prevedendo la concessione della privativa annuale per le preparazioni culinarie più innovative e pregevoli: si tratta anzi del primo caso noto di legislazione a tutela della proprietà intellettuale. Claire M. Germain, Don’t Steal My Recipe! A Comparative Study of French and U.S. Law on the Protection of Culinary Recipes and Dishes Against Copying, Florida, 2019; Michael Witty, Athenaeus describes the most ancient intellectual property, in Prometheus - Critical Studies in Innovation, Florida, 2018; Chris Edmonston (University of California, Irvine) Idion kai peritton: the Sybaritic Culinary Patent and Ancient Intellectual Property, in CAMWS Meeting, Natchitoches, 2016; Jacopo Ciani, Intellectual Property Rights and the Growing Interest in Legal Protection for Culinary Creations, in Nobile M. (a cura di), World Food Trends and the Future of Food, Ledizioni, Milano, 2015; Giles Sutherland Rich, The Exclusive Right since Aristotle, in Foundation for a Creative America, Washington D.C., 1991. (20) David Abulafia, The Great Sea: A Human History of the Mediterranean, Oxford, 2011; Ian Morris, The growth of Greek cities in the first millennium BC, Stanford, 2005. Le fonti antiche menzionano tra le professioni dei sibariti quelle di carpentieri, marinai, timonieri, armatori e pescatori. (21) Luigi Ferranti, Rossella Pagliarulo, Fabrizio Antonioli, Andrea Randisi, Punishment for the Sinner: Holocene episodic subsidence and steady tectonic motion at ancient Sybaris (Calabria, southern Italy), in Quaternary International, 2011; Jean-Daniel Stanley and Maria Pia Bernasconi, Sybaris-Thuri-Copia trilogy: three delta coastal sites become land-locked, in Méditerranée, n. 112, 2009. Ma non è del tutto sicuro che la Sibari arcaica sia stata fondata sul mare. (22) Domenico Musti, Magna Grecia - Il quadro storico, Bari, 2005; Laura Boffo, Forme di controllo di merci e mercanti nel Mediterraneo greco antico, in Raffaella Salvemini (a cura di), Istituzioni e traffici nel Mediterraneo tra età antica e crescita moderna, Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo, 2009; G. Lena, Geomorfologia della costa ionica della Calabria e strutture portuali antiche, in M. Paoletti, Relitti, porti e rotte nel Mediterraneo, UniCal, 2009. (23) Giovanni Pugliese Carratelli, Lazio, Roma e Magna Grecia prima del secolo quarto a.C., in La Magna Grecia e Roma…, cit. (24) Politica 3.5.10-11; Joshua Andrew Daniel, Etruscan Amphorae and Trade in the Western Mediterranean, 800-400 B.C.E., Texas A&M University, 2009. (25) Christa Steinby, Rome versus Carthage - The War at Sea, Barnsley, 2014; Anthony J. Papalas, The Battle of Alalia, in Syllecta Classica, Department of Classics at the University of Iowa, Volume 24 (2013); Gioacchino Francesco La Torre, La “Sibaritide tirrenica” in età arcaica, in Sibari e la Sibaritide…, cit. (26) Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, XV, 371: «Gli esseni praticano lo stesso tipo di vita che conducono quelli che i greci chiamano pitagorici»; e di qui, forse, sul cristianesimo: Benedetto XVI Joseph Ratzinger, Gesù di Nazaret, Milano, 2007; Papa Francesco, Meditazione Mattutina nella Cappella della Domus Sanctae Marthae, La notte buia del Battista, Venerdì, 6 febbraio 2015 (da: L'Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLV, n.030, Sab. 07/02/2015); oltre, naturalmente, alla Qabbalah: Moshe Idel, Johannes Reuchlin, Kabbalah, Pythagorean philosophy and modern scholarship, in Studia Judaica, XVI, Cluj-Napoca, 2008; nonché, con riguardo alla massoneria: Kurt Von Fritz, Pythagorean Politics in Southern Italy. An Analysis of the Sources, New York, Columbia University Press, 1940; Christoph Riedweg, Approaching Pythagoras of Samos: Ritual, natural philosophy and politics, in Gabriele Cornelli, Richard McKirahan, Constantinos Macris, On Pythagoreanism, Berlin/Boston, 2013; Maria Timpanaro Cardini, Pitagorici, testimonianze e frammenti, Vol. III, Firenze, 1964. (27) Giovanni Pugliese Carratelli, Relazione conclusiva, in Crotone - Atti del ventitreesimo convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto, 7-10 ottobre 1983, Taranto, 1984. La missione di Pitagora fu dunque quella di “convertire” i membri delle classi dirigenti delle città della Magna Grecia. (28) Emanuela Spagnoli, La prima moneta in Magna Grecia. Il caso di Sibari, Pomigliano d'Arco, 2013; Francesco Barritta, Benedetto Carroccio, Ritmi di coniazione e storia: Elementi per una riconsiderazione della monetazione incusa a Sybaris e nel suo «impero», in Numismatica e Antichità Classiche, Quaderni Ticinesi, 2006; B. Carroccio, Monetazioni incuse, Pitagorismo e aristocrazie indigene - appunti per una ridefinizione del problema, in Giovanna De Sensi Sestito, Stefania Mancuso (a cura di), Enotri e Brettii in Magna Grecia, Modi e forme di interazione culturale, vol. II, tomo 1, Soveria Mannelli, 2017. (29) Nicola Parise, Le emissioni monetarie di Magna Grecia fra VI e V sec. a.C., in S. Settis (a cura di), La Calabria antica, Reggio Calabria, 1988. (30) Il paragone con Atene è di Angelo Lipinsky, cit. in Francesco A. Cuteri, Paesaggi minerari in Calabria: l’“Argentera” di Longobucco (CS), in F. Redi, A. Forgione (a cura di), VI Congresso Nazionale di Archeologia Medievale (L’Aquila, 12-15 settembre 2012), Firenze, 2012, pp. 401-406; Louis Brousseau, Production et circulation monétaire en lucanie antique, in La Lucanie entre deux mers: archéologie et patrimoine, Actes du Colloque international, Paris, 5-7 novembre 2015, édités par Olivier de Cazanove et Alain Duplouy, avec la collaboration de Vincenzo Capozzoli. – Naples, Centre Jean Bérard, 2019; Arthur J. Rolnick, François R. Velde, Warren E. Weber, The Debasement Puzzle: An Essay on Medieval Monetary History, in Federal Reserve Bank of Minneapolis Quarterly Review Vol. 21, No. 4, Fall 1997, Total Minting Activity During Debasements in Medieval France and England, Table 4 France, 1354–1489, Table 5 England, 1344–1549, Total Minting in Silver (Grams/Capita); elaborazione da Claudio Marsilio, Lisbon, London, or Genoa? Three alternative destinations for the Spanish Silver of Philip IV (1627- 1650), Appendix II. Silver coins productions: London, Genoa, and Lisbon (1621-1665), in G. Depeyrot (ed.), Three Conferences on International Monetary History, Wetteren, 2013; ho stimato la popolazione di Inghilterra e Galles in 5,5 milioni di abitanti. (31) Giovanna De Sensi Sestito, Gli oligarchici sibariti, Telys e la vittoria crotoniate sul Traente, in Miscellanea di studi storici, Università degli studi della Calabria - Dipartimento di Storia, 1983. I pitagorici tendevano a finanziare attività non agricole: Alfonso Mele, Crotone e la sua storia, in Crotone, convegno cit. (32) Maurizio Giangiulio, Democrazie greche. Atene, Sicilia, Magna Grecia, Roma, 2015; De Sensi Sestito, Gli oligarchici…, cit. (33) De Sensi Sestito, Gli oligarchici…, cit. A Crotone si formò quindi un governo in esilio di sibariti pitagorici decisi a rovesciare Telys. (34) R.J. Evans, The capture of Sybaris (510 BC) and the siege of Mantinea: History repeated?, in Acta Classica, LVII, 2014; Musti, Magna Grecia…, cit. (35) Non dimentichiamo che, prima di diventare “matematici”, gli accoliti di Pitagora dovevano conferire al loro “guru” e alla sua setta tutto il proprio patrimonio (quantomeno quello mobiliare) per essere ammessi a una vita frugale e all’ascolto (da dietro una tenda) degli insegnamenti essoterici di Pitagora per un periodo di cinque anni in qualità di “acusmatici” (novizi); se avessero fallito l’esame finale di ammissione agli insegnamenti esoterici avrebbero avuto la restituzione del doppio di quanto versato all’ammissione (un rendimento del 15% annuo): A. Mele, Crotone e la sua storia... cit.; George Le Rider, À propos d'un passage des Poroi de Xénophon : la question du change et les monnaies incuses d'Italie du Sud, Kraay-Mørkholm Essays, Louvain, 1989; Selene E. Psoma, Choosing and Changing Monetary Standards in the Greek World during the Archaic and the Classical Periods, in Edward M. Harris, David M. Lewis, Mark Woolmer (a cura di), The Ancient Greek Economy Markets, Households and City-states, Cambridge, 2018. I pitagorici offrivano quindi una "gestione patrimoniale" ante litteram. (36) Ettore Gabrici, Il problema delle origini di Roma secondo le recenti scoperte archeologiche, in Rivista di Storia Antica, XI, 1906, p. 98. Inoltre, «Già gli antichi avevano istituito, come si sa, un sincronismo basilare tra la caduta di Sibari e la fine della monarchia romana. Questo accostamento va molto al di là di uno dei consueti parallelismi eruditi: esso è il segno di una diffusa coscienza delle connessioni reciproche tra i fatti determinanti della storia arcaica del mondo greco coloniale e del mondo tirrenico»: Massimo Pallottino, La Magna Grecia e l’Etruria, in La Magna Grecia e Roma…, cit. (37) Franco Bandini, L’occhio polemico, Iuculano, Pavia, 2006, pp. 41-54. Antonio Flamigni, Il Potere Marittimo in Roma antica, Supplemento della Rivista Marittima, novembre 1995. Ma le nuove talassocrazie "classiche" sorsero dopo la caduta contemporanea dei governi assolutisti di Sibari, Atene e Roma. (38) Eva Cantarella, Gli inganni di Pandora - L’origine delle discriminazioni di genere nella Grecia antica, Milano, 2019.

LISSA

leggende vecchie e nuove

Andrea Tirondola

Nato nel 1977, si è laureato in Giurisprudenza nell’Università di Padova ed è avvocato cassazionista in Vicenza, in ambito civile, penale e amministrativo. Tenente di Vascello (CM) di complemento, è stato più volte richiamato in servizio, in particolare presso il Morosini di Venezia. Ha pubblicato il volume Pale a prora! Storia della Scuola Navale Francesco Morosini. Collabora con la Rivista Marittima, per la quale ha curato diversi supplementi, e l’Ufficio Storico della Marina Militare, per il quale con Enrico Cernuschi ha pubblicato diversi volumi. È presidente dell’Associazione Culturale Betasom.

Pianta dell’isola di Lissa con la posizione delle navi italiane il mattino del 18 luglio 1866, all’inizio dell’assedio (USMM).

Ènoto che lo scontro navale avvenuto il 20 luglio 1866, nel corso della Terza guerra d’indipendenza, nelle acque antistanti l’isola di Lissa tra le flotte italiana e austriaca è stato fonte di innumerevoli polemiche politiche, giornalistiche e giudiziarie che hanno segnato profondamente, e in negativo, i primi decenni di vita della Marina italiana. Quella che Gabriele d’Annunzio definì spregiativamente una «gloriuzza» nel proprio messaggio di scherno lasciato al nemico nella baia di Buccari il 10 febbraio 1918 (1) aveva pesato per cinquant’anni come un macigno sul morale dell’Armata, i cui vertici sino ai primi anni del Novecento furono costituiti principalmente da ufficiali che avevano preso parte a quei fatti (basti citare i ministri della Marina Enrico Morin, Augusto Riboty, Guglielmo Acton, Simone Pacoret de Saint-Bon, Andrea Del Santo, Napoleone Canevaro, Giovanni Bettolo e Carlo Mirabello).

Ippolito Caffi, La corazzata «Varese», 1866 (Venezia, Museo Storico Navale). L’acquerello fa parte di una serie di schizzi effettuati pochi giorni prima dello scontro di Lissa da quel pittore bellunese, tra i protagonisti del Risorgimento veneto, imbarcato sul RE D’ITALIA e scomparso con esso.

Dopo l’infelice pagina del processo all’ammiraglio Persano, tenutosi nel 1867 a Firenze nel Senato del Regno costituito in Alta corte di giustizia per giudicare quel suo pari, le polemiche non accennarono, infatti, a sopirsi, essendo mantenute vive da una certa stampa quotidiana affamata di scandali e sensazionalismo e da alcune ricostruzioni dei fatti a dir poco erronee. Si diffusero così rapidamente, persistendo sino ai nostri giorni con la tenacia propria dell’erba maligna, quelle che furono definite «leggende governative» dallo storico Alberto Lumbroso, autore di un monumentale volume critico dedicato agli atti del processo Persano e di altri studi sul tema (2).

In polemica con altri autori (3) e fiancheggiato da Jack la Bolina (al secolo Augusto Vittorio Vecchj, padre della Lega Navale e della pubblicistica marinara italiana), Lumbroso cercò oltre un secolo fa di demolire il cumulo di inesattezze diffusesi su quella sfortunata giornata; in seguito, nel centenario di quello stesso scontro, si cimentò nella medesima impresa l’ammiraglio Angelo Jachino con un saggio intitolato, non a caso, La campagna navale di Lissa. 1866 Storia e leggenda (4). Quegli autori non ebbero, tuttavia, molta fortuna, visto che le leggende contro cui si batterono dimostrano ancora oggi una caparbia vitalità accompagnate come sono da altri miti di nuovo e recente conio.

Naturalmente non è questa la sede per descrivere i fatti del 20 luglio 1866 con i dettagli del bombardamento di Lissa e della perdita di due unità italiane (la pirofregata corazzata Re d’Italia e la grossa cannoniera,

parimenti protetta, Palestro). Non è però forse vano fare il punto sulle tante, troppe amenità che circolano al riguardo. A questo scopo saranno esaminate dapprima quelle più antiche per poi passare, per quanto consta per la prima volta, alla confutazione di quelle più recenti.

Carlo Pellion di Persano

Il primo e diretto interessato delle notizie fasulle propalatesi subito dopo i fatti di Lissa fu senz’altro il comandante dell’Armata, l’ammiraglio Carlo Pellion di Persano, fatto oggetto di accuse d’incompetenza e codardia (capo d’imputazione, quest’ultimo, stralciato dall’accusa nel processo senatoriale e che avrebbe potuto costargli il plotone d’esecuzione). Un attendibile ritratto del personaggio è fornito dal citato Jack la Bolina, che lo aveva conosciuto bene e che, lungi dal farne l’apologia, ne mise in rilievo anche aspetti caratteriali non certo positivi, che tuttavia nulla hanno a che vedere con le accuse in parola (5). Né talune fondate critiche, in merito alla condotta delle operazioni in questione, gli sono mancate da parte di osservatori non prevenuti come i citati Lumbroso e Jachino, oppure dal celebre storico Aldo Fraccaroli in un proprio articolo dall’emblematico titolo Difendo Persano (6).

Lungi dall’essere un ufficiale inetto e pavido, Persano aveva un curriculum di tutto rispetto. In più occasioni aveva dimostrato doti di non comune perizia marinaresca e di coraggio: si vedano la precisa manovra da lui compiuta al comando del brigantino Eridano a Valparaiso nel 1844, la risalita del Tamigi con la pirofregata Governolo nel 1851, il salvataggio della stessa nave nel 1853 dopo un incaglio di cui fu dimostrato che non aveva colpa alcuna. Neppure gli erano mancati ardimento e polso fermo, come dimostrò nella campagna del 1848 in Adriatico al comando del brigantino Daino in occasione del bombardamento di Caorle e della rivolta (comune ad altre unità della Marina sarda in quei frangenti) del suo equipaggio, da lui ricondotto col solo carisma alla ragione e alla disciplina. Vanno poi ricordati il fondamentale ruolo diplomatico, che gli valse la stima di Cavour e di D’Azeglio, svolto da Persano in occasione della spedizione dei Mille, e il suo successivo impegno (ripagato con ingiustificato astio) per accogliere nella Marina sarda gli ufficiali dell’ormai dissolta flotta borbonica. Nel settembre 1860 Persano diresse lodevolmente l’assedio e il bombardamento di Ancona, e così, nell’inverno seguente, quello di Gaeta; pur tuttavia proprio da allora iniziarono a diffondersi maldicenze infondate sulla sua presunta codardia.

L’astio nei suoi confronti aumentò dopo che, lasciato il servizio a bordo, l’ammiraglio ricoprì nel 1862 la carica di ministro della neonata Marina italiana. Richiamato al comando dell’Armata alla vigilia della guerra con l’Austria, Persano — che non aveva sollecitato la carica, ma era stato scelto in quanto più anziano degli ammiragli in servizio — non era certo la persona più adatta a quell’incarico. Ormai sessantenne e rapidamente invecchiato, si trovò al comando di una flotta la-

Carlo Pellion conte di Persano in un’incisione anonima del 1862 (collezione Paglia).

cerata da regionalismi e odii incrociati, e per di più privo di istruzioni precise e di certezze su quale autorità (se il Ministro, il Capo di Stato Maggiore La Marmora o il Re) dovesse fornirgliele.

Fatto segno di critiche e malumori dei suoi subalterni per il mancato inseguimento della flotta austriaca che il 27 giugno si era presentata davanti ad Ancona e per l’inconcludente crociera «del giusto mezzo» in Adriatico tra l’8 e il 13 di luglio, Persano fu costretto dal ministro della Marina Agostino Depretis a tentare l’occupazione dell’isola di Lissa, impresa ardua date le note fortificazioni di quel punto d’appoggio e priva di significato strategico, non potendo quel sorgitore, già nido di contrabbandieri, dare un adeguato riparo a unità maggiori. L’Ammiraglio intraprese malvolentieri la missione, conscio di non avere ascendente sui propri uomini, ma è errato affermare che nell’intero ciclo di operazioni, dal 16 al 20 luglio, si sia comportato con le (leggendarie) incompetenza e pavidità che gli si addebitano. Anzi, ben diresse i bombardamenti delle batterie di Lissa, e quando all’alba del 20 luglio, mentre dalle sue navi ci si apprestava a intraprendere le operazioni di sbarco, l’avviso Esploratore segnalò il sopraggiungere della flotta austriaca, non esitò (secondo alcuni anzi con troppo anticipo e ardimento) a disporre le sue navi per affrontare il nemico. Molto si è fantasticato sul suo trasbordo, poco prima del contatto col nemico, dal Re d’Italia sul più veloce e protetto ariete corazzato Affondatore: se il momento in cui esso avvenne non fu opportuno, provocando un diradamento della linea di fila sui cui era disposta la squadra dell’Ammiraglio, tuttavia tale decisione non poteva definirsi aprioristicamente errata, né vi poterono essere dubbi, come poi da taluno rilevato, sulla presenza del comandante in capo a bordo di quella nave e sull’interpretazione dei segnali che da essa partivano (7). È un fatto che l’Affondatore si gettò nella mischia tentando lo speronamento degli avversari, risultando poi fra le unità più danneggiate. A nulla valsero, per contro, i richiami di Persano ai suoi subordinati di prendere parte alla mischia: così, rimasero lontani e inerti i 400 cannoni delle navi in legno e non protette dell’ammiraglio sottordine Giovan Battista Albini (accomunato all’altro sottordine, ammiraglio Giuseppe Vacca, da forti contrasti personali con Persano), né presero parte allo scontro la pirocorvetta Formidabile del comandante Saint Bon (assenza da lui motivata coi danni riportati due giorni prima nel coraggioso bombardamento ravvicinato delle batterie di Porto San Giorgio a Lissa) e, inescusabilmente, dalla gemella Terribile, il cui comandante Leopoldo De Cosa uscì, in seguito, indenne da un processo a suo carico.

Neppure è addebitabile a Persano l’affermazione per cui la sua flotta, dopo lo scontro, sarebbe «rimasta padrona delle acque del combattimento». L’improvvida frase apparve in un comunicato emanato dal ministro Depretis, mentre Persano, nel proprio primo dispaccio, aveva chiaramente affermato di avere subìto delle perdite, ma di voler rientrare ad Ancona «onde riparare avarie, rifornirmi di munizioni e carbone, e ripartire per prendere la rivincita» (8). Dopo i fatti di luglio, Persano fu platealmente scaricato dal governo, finendo processato nel 1867 da colleghi senatori del tutto ignari di tecnica marinaresca, che lo condannarono alla perdita del grado, cui seguì quella della pensione, per la soddisfazione del governo, di chi lo aveva in antipatia e della stampa in cerca di un comodo capro espiatorio. La calunnia ottenne così l’effetto vaticinato da don Basilio nel Barbiere rossiniano: «E il meschino calunniato, avvilito calpestato, sotto il pubblico flagello per gran sorte va a crepar».

Ci si dimentica tuttavia sovente che, con tutti i suoi difetti e anche i suoi errori (commessi pure dal suo celebrato avversario Wilhelm von Tegetthoff), il Persano caduto in disgrazia fornì, per il resto della vita, prove di dignità e correttezza davvero inusuali. Durante il processo, e anche in seguito, evitò (pur avendone solidi argomenti) di scaricare responsabilità sui propri subordinati; né, caduto in difficoltà finanziarie, accettò l’aiuto economico che gli amici e lo stesso sovrano più volte gli offrirono.

La battaglia

La vulgata sugli eventi di Lissa afferma che in quella battaglia (sic) rifulse il valore della flotta austriaca, che poté prevalere su un nemico pavido nonostante la propria inferiorità numerica, conseguendo così una grande vittoria di per sé determinante sull’esito del conflitto.

È in primo luogo discutibile il termine battaglia, dal momento che l’episodio si risolse in una confusa pluralità di investimenti e scambi di cannonate. Diversi testimoni hanno più correttamente impiegato il termine mischia o il vivido insalata, ma forse il più azzeccato è quello impiegato dall’ammiraglio Vittorio Emanuele Bravetta: uno scontrazzo «dopo il quale gli avversari stettero alcun tempo a guardarsi e poi si separarono, allontanandosi per primi gli austriaci» (9). Neppure l’episodio può definirsi una clamorosa vittoria austriaca. Le perdite italiane più gravi (due navi distrutte e 603 caduti) furono determinate da due colpi avversari fortunati, uno dei quali mise fuori uso il timone del Re d’Italia, finito speronato e affondato dall’ammiraglia austriaca Erzherzog Ferdinand Max, e l’altro che appiccò il fuoco alla cannoniera Palestro, saltata in aria nelle ore seguenti. Ma al netto di queste perdite, gli italiani patirono sulle altre navi 42 tra morti e feriti e 200 colpi a bordo, mentre gli austriaci ebbero rispettivamente 183 perdite tra gli equipaggi e circa 350 colpi su 12 navi colpite (a fronte delle 9 italiane), con la messa fuori combattimento del pirovascello Kaiser, il quale lasciò la sua polena sul Re di Portogallo (10). Peraltro, nello scontro la superiorità numerica fu sempre in fa- Grafico della fase iniziale dello scontro di Lissa (da Giuseppe Fioravanzo, navale, op. cit.). Storia del pensiero tattico vore degli austriaci, che allineavano complessivamente 27 unità. Sulla carta masero fuori dalla mischia, nelle cui varie fasi le navi Persano disponeva di 29 unità, ma da esse vanno de- di Tegetthoff si trovarono sempre in superiorità numetratte tutte le 11 navi della squadra di Albini, coi loro rica. Basti rammentare che il Re d’Italia fu colpito 400 cannoni, e le due unità corazzate (Formidabile e dopo essere stato circondato da quattro corazzate e Terribile) che nonostante gli ordini dell’Ammiraglio ri- dalla pirofregata Novara (11).

Il vascello di linea 1a classe austriaco KAISER, gravemente danneggiato nello scontro di Lissa, qui ripreso ai lavori di riparazione nei giorni immediatamente successivi alla battaglia. Nella pagina accanto: la pirofregata corazzata austriaca ERZHERZOG FERDINAND MAX, nave di bandiera di Tegetthoff a Lissa (USMM).

Si osservi poi che l’ammiraglio Tegetthoff evitò, dopo lo scontro, di approfittare ulteriormente della superiorità, se non numerica — ché gli equilibri relativi non erano cambiati — morale, in cui si era ritrovato, riparando a Lissa e conseguendo così il (solo) risultato strategico di liberarla dall’assedio. Pur tuttavia, per quanto nell’avvicinarsi al nemico avesse segnalato alle sue navi «Muss Sieg von Lissa werden», lui per primo non parlò, nei rapporti di fine missione, di quella vaticinata Sieg («vittoria»): anzi, «la leggenda di una grande vittoria nemica fu, dopo il 20 luglio, creata dagli italiani», nella furia iconoclasta lanciata contro la Marina, da cui ci si aspettavano mirabilie, proprio a opera di chi aveva assegnato alla flotta un compito impossibile oltre che inutile sorvolando sulle obiezioni, scritte, di Persano (12).

Oltretutto, lo scontro di Lissa avvenne dopo la delusione rappresentata dalla battaglia di Custoza, episodio anch’esso sopravvalutato nelle sue reali conseguenze strategiche; e in una sorta di psicodramma irrazionale fu stimata perduta la guerra proprio nei giorni in cui Garibaldi vinceva a Bezzecca (21 luglio) mentre le truppe del generale Medici giungevano alle porte di Trento (24 luglio), tanto che il generale austriaco Kuhn affermò di essere costretto a ripiegare nel Tirolo tedesco. La delusione per lo scontro di Lissa spinse l’Italia a stipulare la tregua con l’Austria, come aveva fatto la Prussia, perdendo così l’occasione (peraltro improbabile) di liberare il Trentino con mezzo secolo di anticipo. Infine, tra le «fake news» immediatamente diffusesi dopo Lissa vi è quella dei presunti suicidi dei comandanti del Re d’Italia, Emilio Faà di Bruno e del Palestro, Alfredo Cappellini.

Del primo si disse che si sparò mentre la propria nave affondava; circostanza questa, in realtà, priva di ogni riscontro, anzi contraddetta dalle testimonianze. Del secondo si affermò che «sdegnoso sopravvivere alla mancata vittoria, sé e gli annuenti compagni sprofondò nel mare», come recita una lapide in Via Grande a Livorno, restando chissà perché sulla propria unità in fiamme e deliberatamente condannando i suoi uomini a perire con essa. Al contrario, quel valoroso comandante cercò fino all’ultimo con la sua gente di spegnere l’incendio, lungi dal volere assurdamente sacrificare

prima che se stesso il proprio equipaggio. Scrisse bene il Lumbroso che anche in questo caso la verità, che fa del Cappellini un soldato che fa il proprio dovere fino all’ultimo, è molto più semplice ma anche più alta e molto più bella della leggenda, che ne fa un pazzo (13).

Uomini di ferro

Allorché si parla di Lissa è per molti regola imprescindibile, per non far brutta figura, citare la presunta frase di Tegetthoff: «Uomini di ferro su navi di legno hanno sconfitto uomini di legno su navi di ferro», asseritamente indirizzata ai suoi uomini nell’ordine del giorno dopo la battaglia o, secondo altre fantasiose notizie, redatta dallo stesso nel «brogliaccio», come si legge talora, della corazzata Ferdinand Max.

La frase, menzionata spesso con notevoli varianti in cui entrano in gioco le «teste di legno», non trova anzitutto alcun riscontro concreto. L’ordine del giorno di Tegetthoff (il n. 92 del 21 luglio 1866) non riporta minimamente quelle espressioni; né è possibile che un ammiraglio annotasse una frase simile sul «brogliaccio» (sic) di una nave e comunque scrivesse su di esso.

Le prime parole della locuzione hanno però un’origine certa e precisamente nella guerra di secessione americana. Il 7 maggio 1862 il capitano di vascello Theodorus Bailey, comandante della cannoniera USS Cayuga, dopo la vittoriosa battaglia in cui, al comando dell’ammiraglio David Farragut, la flotta unionista aveva conquistato New Orleans, scrisse nel proprio rapporto: «It was a contest of iron hearts in wooden ships against ironclads with iron beaks, and the iron hearts won» (14). Il concetto degli «uomini di ferro su navi di legno» fu erroneamente attribuito a Farragut e divenne subito popolare nell’ambiente marinaro, tanto che pure Tegetthoff — e da qui nasce la leggenda — lo fece proprio in due occasioni. Il 24 giugno 1866 l’Ammiraglio scriveva da Fasana all’amica e confidente Emma Lutteroth: «Noi possiamo mettere in linea 24 navi, di cui 6 corazzate; ma anche dietro murate di legno pulsano cuori di ferro». Stando a una fonte di poco successiva ai fatti, prima della battaglia l’ammiraglio austriaco avrebbe incitato i suoi comandanti col «motto di Farragut»: «Hölzerne Schiffen, eiserne Herzen!» (15). La circostanza non ha altri riscontri, ma Tegetthoff impiegò senza dubbio queste parole nella sua relazione finale su Lissa indirizzata al ministro Franck, datata 27 novembre 1866: «(…) Per un combattimento con navi corazzate a brevi distanze, tuttavia, il motto di Farragut “navi di legno-cuori di ferro” era la regola (...)» (16).

Si noti che mai Tegetthoff in queste occasioni fece riferimento ai suoi avversari, tanto meno con le parole «uomini [o cuori o, ancora, teste] di legno». Curiosamente, si può rilevare che il medesimo concetto fu impiegato dall’avvocato Sanminiatelli, difensore di Persano, il quale nella sua arringa in Senato, svolta nell’aprile 1867, riferendosi all’ammiraglio Albini disse che al suo riguardo potevano «ripetersi con tutta verità le parole dell’ammiraglio americano: “Fregate in legno, cuore di ferro”» (17). La propaganda tuttavia si appropriò delle semplici e oneste parole dell’ammiraglio austriaco, tanto che nel ventennale di Lissa il popolare giornale viennese Neue Freie Presse, in una lunga rievocazione dei fatti, scrisse, inventando di sana pianta, che Tegetthoff avrebbe esortato i suoi uomini dicendo: «Abbiamo solo navi di legno, ma cuori di ferro, il nemico ha navi di ferro, ma cuori di legno!» (18). Come non bastasse, pochi giorni dopo, il corrispondente da Vienna della Stampa («Bix») ribatteva sul giornale torinese all’articolo in questione, dando però per vera la «celebre allocuzione» (19).

L’ammiraglio Wilhelm von Tegetthoff. Morì a soli 43 anni, nel 1871, dopo aver patito diverse amarezze a causa della poca simpatia di cui la Marina

e lui stesso godevano a Vienna (Storia illustrata).

Da allora, la frase è entrata nell’immaginario collettivo venendo ripetuta immancabilmente, senza rendersi conto che, oltre a essere un’invenzione, collide con la realtà dei fatti. Anzitutto, andrebbe chiarita la dicitura «navi di ferro». Se è vero che alcune unità italiane (la netta minoranza) avevano lo scafo in ferro, nondimeno quelle austriache non erano tutte in semplice legno. Tegetthoff poteva, infatti, contare su ben 7 corazzate, compresa la propria nave di bandiera (pirofregata Erzherzog Ferdinand Max), per non parlare delle unità per le quali aveva fatto allestire, nell’arsenale di Pola, delle protezioni metalliche tra i portelli delle batterie, realizzate con lunghezze di catena d’ancora disposte a festoni orizzontali e rinforzate da spezzoni di rotaie e travature metalliche di notevole spessore (20). È quindi inesatto affermare, genericamente, che i marinai austriaci fossero protetti solo dal legno delle proprie navi. D’altra parte, è ancor più falsa la tesi in base alla quale i marinai italiani sarebbero stati uomini (o cuori, o teste) «di legno», offesa mai pronunciata da Tegetthoff e ripetuta in casa nostra — talora parlando a sproposito e per ulteriore, buona misura, di «disonore» — senza alcun rispetto per quei combattenti, che, al pari degli avversari austriaci, si comportarono con coraggio, come è dimostrato dalle sopra menzionate, pesanti perdite inflitte al nemico.

Quegli «uomini di legno» compirono atti di valore già nelle giornate precedenti in occasione del bombardamento di Lissa (basti ricordare l’azione del Formidabile, che sostenne un lungo duello con le batterie di Porto San Giorgio), e ancor più il 20 luglio. Si pensi al duello del Re di Portogallo di Riboty col pirovascello Kaiser, al ricordato sacrificio di Cappellini e dei suoi uomini per salvare la propria nave, agli stessi ripetuti tentativi di speronamento posti in essere dall’Affondatore, al guardiamarina Michele Razzetto che, pistola in pugno, rimase a guardia della bandiera del Re d’Italia fino all’affondamento, ai fanti di Marina del Reggimento Real Navi che dalle sartie di questa nave, come testimoniato lo stesso giorno proprio da Tegetthoff, continuarono a sparare sull’ammiraglia austriaca fino a che scomparirono in mare (21). E se, come ricordato, vi fu chi nelle file italiane tenne un comportamento discutibile, lo stesso potrebbe dirsi per qualche avversa-

rio, come il comandante della goletta Narenta che, come scrisse un ufficiale austriaco, «con rammarico di tutti, ha perso una bella e facile occasione per distinguersi salvando un gran numero di vite umane», vale a dire lasciò deliberatamente affogare dei naufraghi (22). Si dovrebbe inoltre tenere presente che il confronto tra le due flotte non poteva dirsi alla pari. Le navi italiane erano in mare da 4 giorni e reduci da due giornate di prolungati combattimenti contro i forti dell’isola che avevano procurato avarie al materiale e perdite fra gli equipaggi, che certo non erano freschi e riposati; a ciò si aggiungano i dissidi e i malumori tra i comandanti e nei confronti dell’anziano ammiraglio, fiaccato da tre giorni trascorsi praticamente sempre in piedi sul ponte del Re d’Italia, compresa la notte immediatamente precedente lo scontro. Al contrario le navi austriache si presentarono davanti a Lissa in perfetta efficienza dopo una breve navigazione da Pola, agli ordini di un ammiraglio quarantenne in perfette condizioni fisiche, con alle sue dipendenze equipaggi dal morale elevato e che in lui ponevano totale fiducia.

Un sereno critico di quegli eventi, l’ammiraglio francese Édouard Bouët-Willaumez, osservò che la flotta italiana, quasi esaurite le proprie munizioni, i propri uomini, le proprie energie, si vide «calare a capofitto su di sé, all’improvviso, una flotta nemica fresca di forze, compatta» (23). La circostanza era tanto palese che pochi giorni dopo, per ribattere al giornale milanese La Perseveranza che, sulla base dei dispacci governativi, aveva improvvidamente sostenuto la tesi di una vittoria italiana, il giornale satirico triestino (visti i tempi, naturalmente filoaustriaco) Il Diavoletto sosteneva onestamente: «La Perseveranza dovea far emergere il fatto che la flotta italiana combatteva già prima per due giorni contro la fortezza e che era già stanca per avere sostenuto due combattimenti, che avea sofferto dei danni dalle artiglierie di Lissa, mentre la squadra austriaca, benché minore di numero, si trovava nel suo pieno vigore» (24).

I veneti a Lissa

Esaurite le c.d. «leggende governative», si possono analizzare quelle successive, se possibile ancor più infondate e, purtroppo, diffuse. La principale è quella per cui Lissa sarebbe stata l’ultima vittoria della Marina della Serenissima, dal momento che buona parte dei marinai di Tegetthoff sarebbero stati veneti e che a bordo di quella nave si parlava in quel dialetto, e ciò in una sorta di contrapposizione etnica con i marinai che combattevano sotto il tricolore.

È noto che dal 1798, dopo la cessione del Veneto all’Austria, l’allora ridotta Marina asburgica assorbì uomini, materiali ed esperienze dell’ormai dissolta marineria della Serenissima. Fino al 1848, e con la parentesi del Regno napoleonico, Venezia fu la principale base navale austriaca, comprendendovi l’antico Arsenale e l’Accademia navale (o Marinekollegium) istituita nel 1802. Per inciso, si legge al riguardo in numerosissime pubblicazioni, anche di pregio, che quella Marina sarebbe stata denominata «Austro-Veneta» o «Österreichische-venezianische Kriegsmarine»

Il capitano di fregata Alfredo Cappellini, Medaglia d’Oro al Valore Militare,

scomparso a Lissa nell’esplosione della cannoniera corazzata PALESTRO

al suo comando. Ricordato con affetto da Jack la Bolina, che lo ebbe per severo ma amato istruttore alla Scuola di Marina e poi superiore in servizio, la sua memoria è tenuta viva dal brigantino interrato, che ne porta il nome, collocato dal 1881 nel piazzale dell’Accademia navale (USMM).

«Esperia», cui appartenevano i fratelli Emilio ed Attilio Bandiera, figli di un ammiraglio, e il loro collega Domenico Moro, i quali abbandonarono la Marina per finire fucilati in Calabria nel 1844. Quegli ideali di italianità, nati nel Collegio di Marina, si concretizzarono nella partecipazione di numerosissimi ufficiali di Marina lombardo-veneti alla rivoluzione veneziana capeggiata da Daniele Manin del 1848, cui seguì la rinascita della Repubblica di San Marco, avente per bandiera il tricolore caricato del La proclamazione della Repubblica di San Marco, avvenuta il 17 marzo 1848. Gli insorti portano la leone marciano e che mirava bandiera ufficiale di quello Stato, il Tricolore caricato del leone marciano (Istituto Centrale per la Storia del Risorgimento). all’unificazione di Venezia con l’Italia. Dei 94 ufficiali italiani in (25). La notizia è del tutto fasulla, in quanto la deno- servizio nel 1848 nella Marina austriaca solo 19 rimaminazione ufficiale fu, come risulta inequivocabil- sero nei quadri, 76 passarono alla Repubblica e 8 rasmente da qualsiasi documento, «Cesarea Regia segnarono le dimissioni (27). Marina», e dopo il 1815, «Imperiale Regia Marina» o Venezia dovette arrendersi agli austriaci nell’agosto «Kaiserliche königliche Kriegsmarine» (26). È pur del 1849, dopo essere stata bombardata, assediata e in vero che, nella prassi e fino al 1848, quella Marina po- preda alla fame e al colera. L’ammiraglio danese Hans teva essere chiamata «austro-veneta» data la preva- Dahlerup, nominato nuovo comandante della Marina lenza in essa di personale proveniente da quelle terre. asburgica, iniziò — seguito dai suoi successori — una Così come è vero che molti ufficiali austriaci che poi vera e propria opera di de-italianizzazione (o, che è poi combatterono a Lissa si erano formati nel Collegio di lo stesso, di de-venetificazione) della flotta. Venezia Marina, in primis Tegetthoff, che senz’altro compren- perse ogni rilevanza militare: Pola diventò la nuova deva veneto e italiano. Per inciso, al riguardo si legge base navale principale e il Collegio di Marina fu sposul web la notizia, dettata da una terribile confusione, stato a Trieste e poi, con la nuova denominazione di per non dire di peggio, fra il Marinekollegium e il Col- Accademia, a Fiume. Nel personale avvenne una solegio navale «Francesco Morosini» (sorto nel 1961 e stanziale epurazione su base etnica (gli ufficiali italiani dal 2000 Scuola navale militare), per cui il foglio ma- scesero in poco tempo dal 60% al 12% mentre i tedetricolare di Tegetthoff si troverebbe, chissà perché, schi salirono dal 15% al 60%) (28). Nel 1850 si dispose nell’archivio del «Morosini». Ma c’è di peggio: chi inoltre che la lingua ufficiale della Marina (sia il Komscrive ha avuto la ventura di udire, in una conferenza mandosprache in cui si impartivano ordini, sia il Diensul tema, il relatore sostenere che Tegetthoff studiò al stsprache per la corrispondenza e gli atti ufficiali) fosse «Morosini» assieme, niente meno, al futuro imperatore il tedesco, lingua in cui si impartirono, da allora, le leFrancesco Giuseppe. zioni in Accademia e la cui conoscenza era necessaria

Fu proprio nel Marinekollegium, nel quale si parlava anche per la promozione dei sottufficiali (29). e studiava in italiano, che nacque e si diffuse tra allievi Date queste premesse, la Marina austriaca nell’estate e docenti la società segreta irredentista e antiaustriaca del 1866 non poteva certo dirsi, né moralmente né nu-

mericamente, veneta o erede delle tradizioni della Serenissima. A Lissa, circa la metà degli 8.000 uomini della flotta erano sì di etnia italiana, ma provenienti da terre non legate da lunghi rapporti di dipendenza da Venezia (per esempio Trieste, Fiume, parte dell’Istria e della costa dalmata, Segna ecc.). Su quelle navi i «veneti», per lo più di leva (e che non si comprende quale particolare affectio potessero avere per la recente dominazione austriaca), erano circa 600, meno quindi di un decimo (30). Lo stesso dicasi per gli ufficiali: due anni dopo, nel 1868, su 308 in organico gli italiani (comprendendosi anche triestini, fiumani e altri «non veneti») erano solo 29, ossia il 9,7% (31). Nei giorni di Lissa nessun italiano (tantomeno veneto) occupava posizioni di rilievo nella Marina austriaca: su complessive 70 unità in armamento, gli ufficiali in comando di origine italiana erano 8, e di questi, 3 soli presenti il giorno dello scontro (32).

Come autorevolmente sostenuto dallo storico veneziano Alvise Zorzi, non si comprende quindi cosa c’entri l’episodio di Lissa con Venezia e la sua tradizione millenaria (33). La Marina austriaca quel giorno non era certo l’erede della Serenissima, né i suoi ufficiali ed equipaggi erano animati da chissà quale sentimento fieramente «marciano», che a pochi anni dalla rivoluzione di Manin sarebbe stato visto come il fumo negli occhi dai superiori. Anzi, da alcune testimonianze risulta che vi fu, tra i marinai italiani nelle fila austriache, chi moralmente si sentiva vicino a quanti combattevano sotto il tricolore. Il Primo nocchiere Giuseppe Zuanelli, presente a Lissa nelle ore dell’assedio, lasciò scritto: «Si aspettava lo sbarco la notte del 19 e noi eravamo pronti a favorire i nostri connazionali», precisando che molte truppe austriache erano già sbandate. Ancor più significativa la testimonianza del Capo timoniere dell’ammiraglia austriaca, il veneziano Tommaso Penzo, nel descrivere la scena dei naufraghi del Re d’Italia imploranti soccorso dopo lo speronamento da parte della sua nave: «Noi veneti fremevamo dal dispiacere e ansiosi aspettavamo l’ordine del comandante acciò ci permettesse in qualche modo di poterne salvare» (34). Piuttosto, va sottolineato come Lissa si inserisca in un contesto storico in cui le popolazioni venete erano tutt’altro che felici della dominazione austriaca, la quale riservava loro un elevato livello di tassazione e il ruolo di mero fornitore di materie prime.

Tale situazione, unitamente alla censura e al regime poliziesco instaurato dopo il 1849, contribuì ad accrescere un diffuso risentimento, specialmente da parte della borghesia e degli intellettuali, che sfociarono nell’attività irredentista dei «Comitati veneti», diretti dall’esilio da Alberto Cavalletto e attivi nella campagna del 1866 per trasmettere clandestinamente al Regno d’Italia, oltre il Po e il Mincio, notizie sull’attività militare austriaca. Di queste vicende, che potevano costare (come talora, in effetti, avvenne) la vita ai patrioti, veneti quanto italiani, e riguardavano anche la trasmissione di notizie inerenti la Laguna di Venezia, si è ormai purtroppo persa la memoria (35). Gli stessi ideali irredentisti animavano quegli ufficiali che

Il capitano di vascello Domenico Chinca. Già ufficiale della Marina austriaca, decorato di Medaglia d’Oro al Valore Militare dal Regno di Sardegna per un atto eroico compiuto in Siria nel 1840, otto anni dopo lasciò il servizio per accorrere alla difesa di Venezia. Nel 1859 fu tra i protagonisti della liberazione della sua Brescia (legata a Venezia da un secolare rapporto) dall’Austria, per poi entrare nei ranghi della Marina

italiana. A Lissa era comandante in seconda dell’AFFONDATORE (USMM).

Anton Perko, La corazzata «Ferdinand Max» sperona la corazzata «Re d’Italia», 1866 (Vienna, Heeregeschichtliches Museum). Realizzato nell’immediatezza

dello scontro, il quadro, come gli altri facenti parte della medesima serie, fornisce una rappresentazione sufficientemente esatta degli eventi. Nella pagina accanto: l’ammiraglio vicentino Luigi Fincati, fra i più agguerriti ufficiali veneti che combatterono a Lissa. Lasciata la Marina austriaca già prima del 1848, prestò servizio nella Repubblica di San Marco per poi, dopo 10 anni, essere accolto nella Marina sabauda. Nella campagna del 1866 fu al comando della

cannoniera VARESE, gemella del PALESTRO; in seguito giunse al grado di contrammiraglio comandando, nel 1883-84, l’Accademia navale di Livorno.

Il Fincati fu un personaggio insolitamente eclettico: deputato e acceso polemista, scrittore di temi storici e linguistici, archeologo e inventore, costruttore

di strade e docente di matematica, oltre che direttore della Rivista Marittima nel biennio 1877-78 (USMM).

nel 1848 lasciarono la Marina austriaca per combattere con la Repubblica marciana, pagando poi il loro ideale di fedeltà all’Italia e a Venezia con l’esilio e la perdita di ogni bene, spesso vivendo in miseria fino a che furono in buona parte accolti, nel 1859, nella Marina sarda e, in seguito, in quella italiana. Si trattava di un nucleo di ufficiali di elevata cultura e preparazione professionale, che Jack la Bolina (avendoli ben conosciuti) definì, molti anni dopo, «babbi esemplari della Marina italiana di oggi» (36). Fra essi, ciascuno dei quali meriterebbe una monografia, sono da ricordare Galeazzo Maldini, Giuseppe Marini, Andrea Rossi, Vittorio Zambelli e Angelo Marchese, per non parlare di quelli presenti a Lissa: Tommaso Bucchia, Domenico Chinca, Giuseppe Paulucci, Antonio Gogola, Luigi Fincati, Francesco Baldisserotto, Antonio Sandri, Dionisio Liparachi, Vincenzo Foscolo e Giovanni Moro. Se il 20 luglio 1866 vi fu chi in quelle acque combatté nel nome di Venezia e di San Marco erano senza dubbio costoro, che anni prima avevano perduto tutto per lottare contro l’Austria e vedevano finalmente giunto il momento, sotto il tricolore, dell’agognato scontro con l’antico nemico. Non sia vano ricordarli, e con loro il giovane guardiamarina istriano Giustino Ivancich, ucciso da un colpo di moschetto in fronte sulla coperta del Re d’Italia.

Viva San Marco

In questo quadro si inserisce una recente ma diffusa leggenda, stando alla quale sulle navi austriache, dopo lo speronamento del Re d’Italia, gli equipaggi avrebbero esultato al grido «Viva San Marco!». Ora, quando ci si trova a discutere del tema, si assiste a una curiosa inversione dell’onere della prova sancito sia dalla

scienza, sia dal diritto: di fronte alla richiesta di riscontri documentali ci si sente rispondere che occorre, al contrario, «provare che non è avvenuto». Quest’affermazione farebbe sorridere qualunque storico, ma per esercizio si può applicare la regola processuale in base alla quale, non essendo possibile fornire la prova diretta di un fatto negativo (ossia di un fatto mai accaduto), si può dimostrarlo con un fatto positivo idoneo a farlo desumere.

Anzitutto, non esiste alcuna prova (relazioni o testimonianze) che gli equipaggi abbiano lanciato quel grido, tanto meno nella copiosa documentazione archivista di parte austriaca (37). Ma l’assunto fa a pugni con altre circostanze oggettive. Come si è detto, quegli equipaggi erano solo in minima parte (uno su dieci) «veneziani», e non si comprende cosa importasse di San Marco a marinai croati o boemi. Inoltre, è comunque impossibile che a bordo delle navi austriache si potesse prorompere in quel grido senza finire ai ferri. Tutto ciò che rievocava le glorie di Venezia e lo stesso San Marco erano diventati, per gli austriaci, dei tabù, come si legge in un proclama del governatore Gorzkowsy pubblicato sulla Gazzetta di Venezia il 27 agosto 1849: «Restano pure vietati gli emblemi, o segni di partito, o colori repubblicani, i gridi, canti, discorsi, le stampe e gli scritti tendenti a mantenere od a risvegliare lo spirito rivoluzionario». Come ha evidenziato Alvise Zorzi, «“Viva San Marco!” era stato il grido della rivoluzione del 1848 (…) e agli orecchi di Tegetthoff e di ogni altro ufficiale della k. k. Kriegsmarine, fortemente austriacizzata (…) quel grido sarebbe apparso sedizioso e come tale severamente punito» (38). D’altra parte, il grido «interetnico» di esultanza in uso sulla Marina austriaca era il semplice «Hurrah!». Esso fu lanciato il 18 luglio dai difensori di Lissa mentre il Formidabile salpava e, il giorno dopo, dagli equipaggi mentre la flotta usciva da Pola (39). Tutte le innumerevoli fonti austriache riportano concordemente che gli equipaggi gridarono «Hurrah!». Così, il capitano di vascello Max von Sterneck, comandante del Ferdinand Max, che in una lettera a Tegetthoff del 27 luglio 1866 scrisse che il Re d’Italia affondò «tra gli hurrah del mio equipaggio» (40). Lo stesso Tegetthoff, nella sua citata relazione finale del 27 novembre 1866, riferì poi che, dopo avere assistito attoniti alla scena del rapido affondamento e degli uomini in acqua che chiedevano aiuto, «poi anche noi ci siamo uniti al fragoroso evviva che risuonava» dalle sue navi (41).

Né, si badi, alcuna delle testimonianze di parte italiana riferisce di un «Viva San Marco!», che senz’altro avrebbero notato. Il guardiamarina Torello Orsini, capo coffa sul Re d’Italia e quindi osservatore privilegiato, così descrisse gli istanti immediatamente successivi allo speronamento: «Allora vidi l’ammiraglio nemico, bell’uomo con lunghe barbe nere [in realtà era il comandante Sterneck, Tegetthoff era biondo, ndr], togliersi il berretto e dare un grido, a cui rispose un’eco lunghissima della sua batteria» (42). Né quel grido né quell’eco erano, e potevano essere, «Viva San Marco!».

Daghe dentro… con la fantasia

Infine, un’ultima leggenda che fa il paio con la precedente per la bizzarria, la totale assenza di fonti e il conflitto logico e probatorio con quelle esistenti. Si dice che, poco prima dello speronamento del Re d’Italia, Tegetthoff, accanto al timoniere del Ferdinand Max Vincenzo

La fine della storia. Taranto 1920: l’ironclad austro-ungarica ERZHERZOG ALBRECHT adibita a pontone-nave caserma e nota come BUTTAFUOCO e il vecchio AFFONDATORE di Lissa, il quale

aveva assolto, dal 1907, il compito di nave deposito munizioni (collezione Enrico Cernuschi).

In alto: Ludwig Edler Rubelli, Il ponte della «Ferdinand Max» nella battaglia navale di Lissa, 1898

(Vienna, Heeregeschichtliches Museum). L’opera raffigura la scena, montata dalla propaganda

austriaca, della «conquista» della bandiera della cannoniera PALESTRO. In realtà questa unità, accorsa in soccorso del RE D’ITALIA accerchiato, fu a sua volta attaccata subendo un tentativo

di speronamento da parte dell’ammiraglia austriaca. Nell’urto, l’alberetto di mezzana si spezzò abbattendosi sulla coperta della nave austriaca, trascinando, attaccata a una sagola, una delle bandiere nazionali del piccolo pavese alzato per il combattimento. Un marinaio austriaco prontamente fissò a una bitta la sagola, che rimase quindi in coperta dopo che le navi si scostarono. Si noti che in quest’opera, pur palesemente oleografica, non si da credito alcuno alla voce per cui Tegetthoff, ritratto sul ponte di comando, desse ordini al timoniere, intento a riceverne da un altro ufficiale.

Vianello da Pellestrina detto «Gratòn», gli avrebbe detto: «Daghe dentro Nino, che la ciapèmo» («vagli addosso Nino, che la prendiamo»). La frase si legge in numerose varianti, ed è normalmente giustificata, in mancanza di qualunque riscontro, col solo e ineffabile argomento che l’ammiraglio austriaco parlava il veneto avendo studiato a Venezia. Con un po’ di fortuna è stato possibile ricostruire l’origine di quest’ulteriore leggenda, rinvenuta in un articolo pubblicato dal giornalista Pier Antonio Quarantotti Gambini sulla rivista Omnibus del 26 febbraio 1938, in cui affermò: «come qualche vecchio pescatore ricordava sino a pochi anni or sono, durante la battaglia [Tegetthoff] trasmise tutti i comandi in dialetto veneto: “Ciò Nane, ghe la femo?”, chiedeva, dubitoso, al suo timoniere chioggiotto. “Sì, sior, ghe la femo” — rispondeva Nane». Nell’articolo, l’autore affermò di aver udito queste battute «da due marinai di Lussinpiccolo che le avevano sentite da reduci di Lissa » (43). Il punto di partenza è quindi una pura leggenda orale, tratta da una testimonianza de relato al quadrato, oltretutto diversa dal «daghe dentro» oggi diffuso: qui addirittura Tegetthoff chiede un parere al timoniere, venendo da lui rassicurato (!). Ma, anche la tesi dell’ordine dell’ammiraglio al sempre citato marinaio fa acqua da tutte le parti. In primo luogo, Vincenzo Vianello non era timoniere sulla nave ammiraglia, bensì sul Kaiser (44). Al timone del Ferdinand Max c’era quel Tommaso Penzo che abbiamo visto trepidare per la sorte dei suoi compatrioti naufragati. Inoltre, come si è visto, per regolamento sulle navi austriache gli ordini si impartivano in tedesco. Ulteriore argomento dirimente è che per norma, laddove un ufficiale ammiraglio sia im-

barcato, questi non impartisce ordini direttamente al timoniere, facoltà riservata al comandante o all’ufficiale di guardia in plancia. Così, per esempio, il comandante dell’Affondatore, Federico Martini, riferì che Persano gli indicava le manovre volute che poi lui s’incaricava di eseguire (45).

La realtà è molto più semplice: Tegetthoff non impartì alcuna disposizione al timoniere in quanto vi pensò, come logico, il comandante Sterneck, il quale «vide improvvisamente comparire davanti a sé tra il fumo il Re d’Italia. Immediatamente e con la massima potenza della macchina possibile, si diresse verso il nemico, che gli stava di fronte a sinistra» (46). Lo stesso Sterneck affermò, usando la prima persona e quindi giustamente rivendicando la manovra, di avere diretto sull’ammiraglia italiana e di averla speronata (47). Per altro verso Tegetthoff, da quel galantuomo che era, non si attribuì la manovra, dandone sempre merito a Sterneck. Il 23 luglio 1866 l’ammiraglio scrisse a Crenneville che lo speronamento era merito del coraggio del suo comandante di bandiera (48), e così nella sua relazione finale del 27 novembre successivo (49). L’ammiraglio non si smentì in privato: in una lettera alla Lutteroth del 22 luglio 1866 scrisse che Sterneck era stato eccezionale («Max war brilliant») (50).

Conclusione

Si chiude così la rassegna delle più evidenti leggende in merito a un episodio che fu, per la Marina italiana, un (ingiustificato) sfacelo politico prima ancora, e più morale che materiale, per dirla con Jack la Bolina. Va da sé che, come sempre avviene, i più estranei a queste fantasie alla fine sono stati e sono i marinai, che quanto meno sul piano morale hanno ritenuto chiusa la vicenda segnalando: «Pace ai morti di Lissa» alle navi dell’ormai ex flotta austro-ungarica che il 24 marzo 1919 entravano, con equipaggi italiani, nel Bacino di San Marco. 8

NOTE

(1) «In onta alla cautissima Flotta austriaca occupata a covare senza fine dentro i porti sicuri la gloriuzza di Lissa, sono venuti col ferro e col fuoco a scuotere la prudenza nel suo più comodo rifugio i marinai d’Italia (…)». Questo l’incipit del testo vergato dal Vate in quell’occasione. (2) Si vedano di Alberto Lumbroso, Il processo dell’ammiraglio di Persano, F.lli Bocca, Roma 1905; La battaglia di Lissa nella storia e nella leggenda, Roma, ed. Rivista di Roma, 1910; Carteggio di un vinto, Roma, ed. Rivista di Roma, 1917. (3) In particolare si vedano: Carlo Randaccio, Storia delle Marine Militari italiane dal 1750 al 1860, e della Marina Militare italiana dal 1860 al 1870, Vol. 1, Roma, Tip. Forzani, 1886; Domenico Guerrini, Lissa (1866), Torino, Casanova, 1907-08; Domenico Parodi, L’attacco e la battaglia di Lissa nel 1866, S. Pier d’Arena, Scuola Tip. Salesiana, 1899. (4) Angelo Jachino, La campagna navale di Lissa. 1866 Storia e Leggenda, Il Milano, Saggiatore, 1966. (5) Jack la Bolina (Augusto Vittorio Vecchj), Al servizio del mare italiano, Torino, Paravia, 1928, pp. 187-191. (6) Aldo Fraccaroli, Difendo Persano, in Storia illustrata, n. 316, marzo 1984, pp. 50-61. (7) Jachino, op. cit., pp. 408-415. (8) Ibidem, pp. 494-496. (9) Lumbroso, Carteggio di un vinto, p. IX. (10) Giuseppe Fioravanzo, Storia del pensiero tattico navale, Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1973, p. 173. (11) Jachino, op. cit., pp. 438 e 448. (12) Ibidem, p. 484. Si può aggiungere che Tegetthoff sulle prime non fu celebrato come vincitore in patria, data la tradizionale antipatia delle «tuniche bianche» dell’Esercito, egemone a Vienna, per la Marina, destinataria a sua volta di risorse oltremodo scarse. L’ammiraglio austriaco giunse a scrivere il 21 settembre 1866 alla propria corrispondente Emma Lutteroth che «soltanto una buona batosta, soltanto una monumentale frittata, avrebbero potuto indurre quella gente di Vienna a delle riforme, che ora rimarranno lettera morta». Le lettere di Tegetthoff alla sua corrispondente sono pubblicate in Tegetthoffs Briefe an seine Freundin, Vienna, Österreichischer Bundesverlag für Unterricht, Wissenschaft und Kunst, 1926, volume integralmente tradotto in un dattiloscritto apocrifo conservato all’Ufficio Storico della Marina Militare e datato Parenzo - Giugno 1935. (13) Lumbroso, op. cit., p. 473. In quella sede l’autore, nel ricordare che anche Jack la Bolina (il quale aveva avuto Cappellini tra i propri istruttori alla Scuola di Marina di Genova) da tempo cercava di distruggere la leggenda del suicidio di quel comandante, osservava: «Varranno mai i suoi e i miei sforzi a cancellarla dalle storie che i ragazzi italiani leggono come libri di testo?». (14) «Si è trattato di un confronto tra cuori di ferro su navi di legno e navi corazzate con rostri di ferro, e i cuori di ferro hanno vinto». Official Records of the Union and Confederate Navies in the War of the Rebellion, Ser. I, Vol. 18, Washington, Government Printing Office, 1904, pp. 172-173. (15) Hermann Reuchlin, Geschichte Italiens von der Gründung der Regierenden Dynastien bis zur Gegenwart, Lipsia, Hirzel, 1873, p. 516. (16) Angelo Filipuzzi, La campagna del 1866 nei documenti militari austriaci. Le operazioni navali, Padova, Università degli Studi di Padova, 1966, p. 221. (17) Lumbroso, Il processo dell’ammiraglio Persano, op. cit., p. 333. (18) «Wir haben nur hölzerne Schiffe, aber eiserne Herzen, der Feind hat eiserne Schiffe, seine Mannschaft jedoch, hölzerne Herzen!» in Neue Freie Presse, 24 luglio 1886, p. 2. (19) Bix, 20 luglio 1866, in La Stampa, 29 luglio 1886, p. 3. (20) Jachino, op. cit., p. 145. (21) Filipuzzi, op. cit., pp. 106-107. (22) Filipuzzi, op. cit., p. 259. Si tratta della relazione a Tegetthoff del comandante dell’avviso Stadium, tenente di vascello Victor Wimpffen; e il capitano di vascello Sterneck scrisse polemicamente che preferiva tacere in merito al comportamento del Narenta (ibid., p. 234). L’episodio, riferito dai superstiti, aveva suscitato proteste pubbliche da parte del governo italiano, ufficialmente respinte dagli austriaci che avevano affermato essere tale notizia falsa. È invece destituita di fondamento la notizia per cui gli austriaci avrebbero ucciso dei naufraghi, tra cui lo zio di Luigi Rizzo, col getto di pece bollente: a parte la mancanza di seri riscontri, c’è da chiedersi per quale motivo, oltretutto nel dispregio delle più elementari e secolari norme di sicurezza antincendio, si dovesse tenere a bordo pece bollente nel corso di un combattimento. (23) Jachino, op. cit., p. 558. (24) Il Diavoletto, Un articolo umoristico, 28 luglio 1866, p. 1. (25) Si vedano per esempio: Sante Romiti, Le Marine Militari italiane nel Risorgimento (1784-1861), Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1950, passim; Alessandro

Turrini, L’Adriatico e il Risorgimento italiano, in Bollettino d’archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare (d’ora innanzi BAUSMM), settembre 2006, pp. 138-139; Idem, Nascita e tramonto della Imperiale e Regia Marina, in BAUSMM, settembre 2008, pp. 243-292 (si noti che in ogni caso la congiunzione «e» tra Kaiserliche e königliche fu introdotta solo nel 1867, dopo il compromesso con l’Ungheria); Carlo Gottardi, La Veneta Marina dal 1798 al 1849, in Rivista Marittima, dicembre 1988, pp. 84-85, Franco Micali Baratelli, La Marina Militare Italiana nella vita nazionale (1860-1914), Milano, Mursia, 1983, p. 151. (26) Manuale per le Province soggette all’Imperiale Regio Governo di Venezia per l’anno1845, Venezia, presso Francesco Andreola Tipografo Guberniale, 1845. (27) Giuseppe Finizio, Gli italiani nella Marina austro-ungarica (1867-1918), in Rivista Marittima, dicembre 2006, p. 121. (28) Ibidem. (29) Lawrence Sondhaus, The Naval Policy of Austria-Hungary, 1867-1918: Navalism, Industrial Development, and the Politics of Dualism, West Lafayette, Purdue University Press, 1994, p. 4, e Renate Basch-Ritter, Die Weltumsegelung der Novara 1857-1859: Österreich auf allen Meeren, Graz, Akademische Druck -u. Verlagsanstalt, 2008, p. 26. (30) Lawrence Sondhaus, The Habsburg Empire and the Sea. Austrian Naval Policy, 1797- 1866, West Lafayette, Purdue University Press, 1989, p. 4. (31) Finizio, Gli italiani nella Marina austro-ungarica (1867-1918), op. cit., p. 123. (32) Lumbroso, Il processo dell’ammiraglio Persano, op. cit., Documenti, p. 24. (33) Alvise Zorzi, Una leggenda, in Corriere della Sera, 3 ottobre 2005, p. 29. Lo stesso Autore ha affermato che nel 1866 «anche sul mare, il divorzio tra Venezia e l’imperiale e regia Marina era ormai consumato» (Alvise Zorzi, Venezia austriaca, Roma-Bari, Laterza, 1985, p. 238). Identica tesi è condivisa da Sondhaus in The Naval Policy, op. cit., p. 93. Risulta pertanto oggetto quantomeno di dibattito l’affermazione dell’ingegner Turrini in L’Adriatico e il Risorgimento italiano, op. cit., p. 155, secondo cui Tegetthoff dovrebbe considerarsi «a pieno diritto erede dei capitani generali da mar veneziani», categoria nella quale a ben vedere rifulsero nomi gloriosi ma anche meno commendevoli. Allo stesso modo non si concorda con l’ammiraglio Micali Baratelli laddove nel suo La Marina Militare, op. cit., p. 152, afferma che, pur non facendola propria, la frase: «Lissa fu l’ultima vittoria del Leone di San Marco» è un paradosso e come tale «un’intelligente deformazione della verità». (34) Archivio Centrale dello Stato, Fondo Persano, busta 2, fasc. 6. (35) Giuseppe Solitro, I veneti nella preparazione e nella guerra del 1866, in Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, Tomo XCI, Parte seconda, Venezia, 1932. (36) Jack la Bolina, I nostri babbi veneti, in Fra armi e macchine a bordo, maggio 1926, pp. 43-51. (37) Filipuzzi, op. cit. (38) Zorzi, Una leggenda, op. cit. Per Zorzi, inoltre, la leggenda del “Viva San Marco” trasse origine anche da una certa dose di razzismo contro Sardi e Napoletani presente a bordo delle navi austriache (Zorzi, Venezia austriaca, op. cit., p. 238). (39) Jachino, op. cit., pp. 369 e 381. (40) Filipuzzi, op. cit., p. 140. (41) Ibidem, p. 227. (42) Lumbroso, Carteggio di un vinto, pp. 151-152. (43) Pier Antonio Quarantotti Gambini, Cento italiani intorno al globo, in Omnibus, 26 febbraio 1938. (44) Verluslisten der österr. Süd-und Nordarmee im Feldzuge vom Jahre 1866, Vol. I, Praga, Skrejšovský, 1866, pp. 7-8 (45) Lumbroso, Il processo dell’ammiraglio Persano, op. cit., p. 224. (46) Heinz Christ, Geschichte der k. k. Kriegsmarine während der jahre 1850-1866, Vienna, KMA, 2017, p. 611. Resta in ogni caso priva di ogni riscontro la tesi per cui Tegetthoff «parlava in veneziano con il suo timoniere e i suoi nocchieri» riportata in Micali Baratelli, op. cit., p. 152. (47) Filipuzzi, op. cit., p. 140. (48) Ibidem, p. 117. (49) Ibidem, pp. 225-226. (50) Max Freiherr von Sterneck, Erinnerungen aus den Jahren 1847-1897. Herausgegeben von seiner Witwe. Biographische Skizze und Erläuterungen vom Jerolim von Benko, Vienna, Hartleben, 1901, p. 170.

BIBLIOGRAFIA

Renate Basch-Ritter, Die Weltumsegelung der Novara 1857-1859: Österreich auf allen Meeren, Graz, Akademische Druck -u. Verlagsanstalt, 2008. Ferruccio Botti, La campagna del 1866. Cooperazione Esercito-Marina e trasporto via mare, in Rivista Marittima, febbraio 1989, pp. 87-100. Heinz Christ, Geschichte der k. k. Kriegsmarine während der jahre 1850-1866, Vienna, Kriegsmarine Archive, 2017. Ezio Ferrante, La sconfitta navale di Lissa, Roma, Vito Bianco, 1985. Angelo Filipuzzi, La campagna del 1866 nei documenti militari austriaci. Le operazioni navali, Padova, Università degli Studi di Padova, 1966. Giuseppe Finizio, Gli italiani nella Marina austro-ungarica (1867-1918), in Rivista Marittima, dicembre 2006, pp. 119-131. Giuseppe Fioravanzo, Storia del pensiero tattico navale, Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1973. Josef Fleischer, Geschichte der k. k. Kriegsmarine während des Krieges im Jahre 1866, Vienna, Reichskriegsministeriums - Marinesektion, 1906. Aldo Fraccaroli, Difendo Persano, in Storia illustrata, n. 316, marzo 1984, pp. 50-61. Mariano Gabriele, Riboty nella campagna navale del 1866, in BAUSMM, settembre 1996, pp. 9-75. Carlo Gottardi, La Veneta Marina dal 1798 al 1849, in Rivista Marittima, dicembre 1988. Domenico Guerrini, Lissa (1866), Torino, Casanova, 1907-1908. Alberto Lumbroso, Il processo dell’ammiraglio di Persano, F.lli Bocca, Roma 1905. Idem, La battaglia di Lissa nella storia e nella leggenda, Roma, ed. Rivista di Roma, 1910. Idem, Carteggio di un vinto, Roma, ed. Rivista di Roma, 1917. Angelo Jachino, La campagna navale di Lissa. 1866 Storia e Leggenda, Il Milano, Saggiatore, 1966. Jack la Bolina (Augusto Vittorio Vecchj), Al servizio del mare italiano, Torino, Paravia, 1928, pp. 187-191. Idem, I nostri babbi veneti, in Fra armi e macchine a bordo, maggio 1926. Idem, Storia generale della Marina italiana, Firenze, Tip. Coop. Ed., 1892. Franco Micali Baratelli, La Marina Militare Italiana nella vita nazionale (1860-1914), Milano, Mursia, 1983. Domenico Parodi, L’attacco e la battaglia di Lissa nel 1866, S. Pier d’Arena, Scuola Tip. Salesiana, 1899. Carlo Pellion di Persano, I fatti di Lissa, Torino, Unione Tipografica Editrice, 1866. Pier Antonio Quarantotti Gambini, Cento italiani intorno al globo, in Omnibus, 26 febbraio 1938. Carlo Randaccio, Storia delle Marine militari italiane dal 1750 al 1860, e della Marina Militare italiana dal 1860 al 1870, Vol. 1, Roma, Tip. Forzani, 1886. Claudia Reichl-Ham, Le origini della Marina austriaca, in BAUSMM, settembre 2012, pp. 97-162. Hermann Reuchlin, Geschichte Italiens von der Gründung der Regierenden Dynastien bis zur Gegenwart, Lipsia, Hirzel, 1873. Sante Romiti, Le Marine Militari italiane nel Risorgimento (1784-1861), Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1950. Giuseppe Solitro, I veneti nella preparazione e nella guerra del 1866, in Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, Tomo XCI, Parte seconda, Venezia, 1932. Lawrence Sondhaus, The Habsburg Empire and the Sea. Austrian Naval Policy, 1797- 1866, West Lafayette, Purdue University Press, 1989. Idem, The Naval Policy of Austria-Hungary, 1867-1918: Navalism, Industrial Development, and the Politics of Dualism, West Lafayette, Purdue University Press, 1994. Alessandro Turrini, L’Adriatico e il Risorgimento italiano, in BAUSMM, settembre 2006. Idem, Nascita e tramonto della Imperiale e Regia Marina, in BAUSMM, settembre 2008. Ferdinand Ritter von Attlmayr, Der Krieg Österreichs in der Adria im Jahr 1866, Pola, Gerold’s Sohn, 1896. Max Freiherr von Sterneck, Erinnerungen aus den Jahren 1847-1897. Herausgegeben von seiner Witwe. Biographische Skizze und Erläuterungen vom Jerolim von Benko, Vienna, Hartleben, 1901. Manuale per le Province soggette all’Imperiale Regio Governo di Venezia per l’anno 1845, Venezia, presso Francesco Andreola Tipografo Guberniale, 1845. Official Records of the Union and Confederate Navies in the War of the Rebellion, Ser. I, Vol. 18, Washington, Government Printing Office, 1904. Verluslisten der österr. Süd-und Nordarmee im Feldzuge vom Jahre 1866, Vol. I, Praga, Skrejšovský, 1866, pp. 7-8.