Numero 14 -2016

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RIVISTA ONLINE 2016

N-14

Cultura Evoluzione Storia Archeologia e Arte Ricerca

Gioia Tauro (RC) 89013 RIVISTA ONLINE


Al Suono Delle Eolie

Al morir del suono delle Eolie Placa l’ira e dorme l’errante Odisseo. I Ciclopi dal Mongibello Lanciano incandescenti sassi, lapilli e sbuffano nubi nere, mentre le Sirene ammaliano i naviganti che osano varcare lo Stretto. Scilla e Cariddi Si guardano in cagnesco Nel tempo ,al pizzichìo delle Eolie, Omero canta, Vulcano e Stromboli chiamano il fratello Etna ed al risveglio trema Zancle e Rhegjon Soave tramonto al morir del suono delle Eolie! ROCCO GIUSEPPE TASSONE


INDICE

-ATTO NOTARILE DI DONAZIONE ALLA SPOSA PER MATRIMONIO DEL 1905 -UN GRIDO DALLE VISCERE DELLA TERRA -Il tesoro di re Alarico tra leggenda, storia e realtà -LA TESSITURA E I FILATI IN CALABRIA E NELL’AREA GRECANICA -La pittura dell’Ottocento in Irpinia

PARLANDO DI UOMINI DI CULTURANOVOTA’ DAL.... ...LIBRI-ITALIA CONCORSI EVENTI-CESAR


QUANDO SPOSARSI NECESSITAVA LA “CADDARA DI RAME” ATTO NOTARILE DI DONAZIONE ALLA SPOSA PER MATRIMONIO DEL 1905

Certo sposarsi è stato sempre un dilemma: dall’abito rigorosamente bianco e ricco di pizzi e merletti, alla cerimonia in casa o al ristorante, dall’anello alla dote della sposa. Già la dote! Ancora oggi si parla di dote che la sposa deve portare ma da questo atto notarile del 1905 leggiamo una dote alquanto curiosa ma per l’epoca importante e soprattutto non ci si sposava se la sposa non portava con se “a caddara”. La caldaia di rame nella quale si doveva preparare il maiale o il sapone di casa ma anche l’acqua per ‘a vucata. E tradizione vuole che “a caddara” venisse ereditata da madre in figlia, soprattutto quando non c’era la possibilità di acquistarne una nuova, ma anche in segno di augurio e prosperità. Mi è capitato rovistando tra le carte in occasione della morte di mio nonno l’atto notarile che riporto di seguito e che ritengo una testimonianza d’una cultura ormai superata ma non tanto lontana. N° 112 Rep.Reg. n°1388 Rep. Not.

Donazione. Regnando Vittorio Emanuele 3°= Per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re d’Italia = Lo annomillenovecentocinque il giorno trenta del mese di dicembre in Laureana di Borrello, nel mio studio notarile in via Borrello Vecchio n° 78 Avanti di me Signor Domenico Russo fu notar Francesco, 1


notaro residente in questo suddetto Comune, iscrittto presso il Consiglio Notarile Distrettuale di Palmi alla presenza degli infrascritti due noti ed idonei testimoni per legge richiesti Signor: Corbo Bruno fu Antonio usciere di conciliazione nato e domiciliato in Candidoni e Figliucci Francesco di Giuseppe, commerciante nato e domiciliato in Laureana= Si sono volontariamente e personalmente costituiti i coniugi Maria Giuseppa Gallo fu Gaetano, donna di casa, nata in Candidoni e Lascala Francesco di Domenico, calzolaio nato in Polistena, che interviene nel presente atto tanto in nome proprio quanto per autorizzare la predetta moglie da una parte. E dalla altra la comune loro figliola Maria Teresa Lascala di Domenico anco donna di casa, nata in Polistena= tutti di età maggiore, domiciliati nel comune di Candidoni e personalmente conosciuti da me notaro Dichiarano i costituenti coniugi che maritandosi la prenominata figliuola con l’attuale di costei marito Scarmato Domenico, oggi residente in America, in occasione del matrimonio stesso, la madre di lei sopradetta Gallo, col consenso del marito faceva donazione di una casa palaziata come appresso descritta, ed inoltre tanto essa Gallo, quanto il marito unitamente promettevano di donare alla stessa al medesimo titolo il corredo d’uso, come in seguito designato. Perciò per mancanza di moneta onde sopportare le spese dell’atto pubblico relativo, tale donazione rimase puramente verbale, sicchè oggi trovandosi essi coniugi di disporre del danaro occorrente dichiarano di voler fare con atto pubblico e rivestito delle forme legali quanto avevano fatto verbalmente. Perciò col presente atto, la costituita Gallo assegna e dona irrevocabilmente fra’ vivi alla prenominata sua figlia Maria Teresa Lascala, una casa palazziata composta di due vani. terreno e superiore sita in Candidoni sulla via Chiesa Vecchia n° 6, limitante con eredi Pasquale Tartaria, con eredi del sign. Pietro Golotta e strada suddetta, riportata in quel catasto fabbricati in testa di essa donante allo art° 219 pel reddito di L. 15,00= Tutti e due poi essi coniugi compiendo la loro promessa fatta un anno dietro proprio all’epoca del matrimonio, alla loro figlia, donano ed assegnano a costei un corredo di beni mobili consistenti in oro e argento formanti due paia di orecchine due anelli, un fermaglio e due medaglie sagre, in tre coperte di cotone, in una caldaia e in una casseruola di rame, in tre paia di lenzuola in un letto completo con cavalletti in ferro, in otto salviette, in otto tovaglie da tavola, in otto asciugatoi, in sei vesti, in un tavolino di ciliegio, in due casse di abeto nuove, in tre fazzoletti di seta, in quattro camicette, in cinque sedie, ed in altri oggetti di uso, dei quali mobili la donataria dichiara avere ricevuto parte all’epoca del matrimonio, parte pochi giorni dietro, prima di questo atto e di averli trovati tutti di suo pieno compiacimento,nell’accettare essa donataria la donazione fattale sia dalla madre sola nonchè da tutti e due coniugi, rende loro vivi ringraziamenti. I donanti dichiarano di aver fatto le rispettive donazioni alla prenominata loro figlia sulla quota disponibile di ciascuno di essi, con dispensa di collazione e riduzione, ed il supero dichiarano di averlo donato come lo donano, pei diritti di leggittima che a li spetteranno sulla successione materna e paterna. Per gli effetti del registro si dichiara dalle parti costituente che la casa donata ha il valore di lire Duecento e altre Duecento valgono i mobili colla dichiarazione che l’apprezzo dei mobili non deve produrre proprietà e o alcuna al marito della donataria, essendo di assoluta spettanza di costei. Il solo Lascala Francesco si sottoscrive al presente atto avendo le altre dichiarato di non sapere nè leggere nè scrivere per non aver mai appreso. Del che si è formato il presente atto del quale si è data da me notaro lettura in presenza dei testimoni alle parti che l’hanno confermato in ogni sua parte. Il presente atto venne scritto di alieno carattere su quasi quattro pagine di un foglio di carta legale. Firm=ti Lascala Francesco = Figliucci Francesco = Corbo Bruno = Domenico Russo fu notaro Francesco notaro”. Bene forse è il caso di dire “figli maschi!”. ROCCO GIUSEPPE TASSONE

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UN GRIDO DALLE VISCERE DELLA TERRA

Uno dei segni del nuovo sviluppo verso il quale l’Italia si stava avviando nel Dopoguerra, fu la costruzione di una imponente diga, a sbarramento del fiume Troina in Sicilia, in una vasta area montuosa sui Nebrodi, al confine tra le provincie di Enna e Messina. La diga, che con il suo sbarramento originò un grande lago, venne costruita, con il finanziamento dell’Ente Siciliano Elettricità, tra il 1949 e il 1953 da una serie di imprese che si aggiudicarono i lavori tra cui la SOGENE e la LODIGIANI. Quando sul finire del 1949 iniziarono i lavori per la costruzione della diga di Ancipa, l’economia dei paesi che gravitavano attorno alla zona (Troina, Cesarò e San Teodoro), si modificò profondamente. Infatti per merito di questi cantieri che si dislocarono su vasta scala, in questi paesini sorsero soprattutto attività commerciali oltre che lavoro per i giovani dell’epoca che si sono trovati coinvolti in lavori di manovalanza e, soprattutto, per muratori. Manovali, braccianti, semplici cittadini disoccupati e in cerca di lavoro per sfuggire alla miseria lasciata dalla triste guerra e nella speranza di poter creare un futuro migliore per se stessi e per i loro famigliari, decisero di tentare di lavorare nei nuovi cantieri che progressivamente stavano sorgendo sulle vallate della fiumara Troina. Gli operai giunsero in un primo momento da tutti i paesini limitrofi, poi dall’intera Sicilia e infine da ogni parte del Paese, carichi di speranza e con tanta voglia di lavorare. Le cronache giornalistiche del tempo e qualche testimonianza infatti, raccontano che l’allora ufficio di collocamento del Comune di Troina trascorse giorni particolarmente frenetici, letteralmente preso d’assalto da folte schiere di persone che si candidavano come operai per la costruzione di questa gigantesca opera edilizia. Innumerevoli infatti furono le pratiche di assunzione prodotte i cui documenti affiancavano, per questi “nuovi lavoratori”, alla qualifica di bracciante agricolo quella di manovale.Fu un fenomeno di massa come ampiamente documentato dai certificati di avviamento al lavoro delle ditte che dovevano eseguire i lavori, che aprì una breccia decisiva ed importante; un vero contagio umano, un fratello tirò l’altro, un amico convinse l’altro. Richieste d’assunzione a getto continuo che le ditte accolsero senza esitazione alcuna.

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Anche i sindacati e tutti gli amministratori appoggiarono il gran numero di assunzioni perché ora come non mai, la città di Troina offriva manodopera lavorativa in grado di soddisfare un numero particolarmente elevato di disoccupati anche in ambito nazionale. Contadini che non lasciavano mai le loro attività agricole nelle campagne, neanche nei giorni delle festività di Pasqua e Natale si ritrovarono, miracolosamente assunti in un grande progetto del quale in quel momento essi stessi ignoravano la grandezza e l’importanza sociale e politica. Anche nel Comune di Motta San Giovanni giunse la notizia di quelle possibilità di lavoro e anche alcuni nostri concittadini partirono alla volta di Troina e dell’Ancipa alcuni dei quali andando tristemente incontro ad un tragico e mai aspettato destino. La diga di Ancipa e al lago cui poi è stato dato il nome di Lago Sartori, in onore dell’ingegnere Sartori, direttore dei lavori durante la costruzione dell’opera, sorge a circa 1000 metri di altitudine e ed è il lago più alto della Sicilia con una capacità di quasi 28 milioni di metri cubi di acqua costituendo così una delle maggiori risorse per l’approvvigionamento idrico della Sicilia centrale, fornendo acqua potabile a 13 comuni della provincia ennese compreso il capoluogo e ad altre cittadine del Nisseno e del Catanese.

Due tristi sciagure

Un grido, forte e straziante, in due distinte tristi e drammatiche sciagure avvenute nella cittadina di Troina in Sicilia, ha segnato prepotentemente la storia dell’industria elettrica siciliana e anche qui erano presenti alcuni nostri concittadini impegnati nell’attività di costruzione di una serie di gallerie (condotte forzate per la centrale idroelettrica e condotta di scarico per “il troppo pieno” dell’invaso della diga) per raccogliere le acque del Lago Sartori. Diverse tragedie, innumerevoli lutti hanno caratterizzato l’attività edilizia di questo grande bacino artificiale e due di queste tragedie mortali hanno segnato, nella loro drammaticità e con tutta la loro angoscia, anche la nostra storia. Due sciagure di proporzioni notevoli che mietevano complessivamente diciotto vittime e numerosi feriti, nella maggioranza dei casi in modo grave, che inevitabilmente resteranno gravemente mutilati, alcuni nel corpo, e altri nella mente. Due tristi e luttuose date quella del 5 Dicembre 1950 e quella del 4 Marzo del 1952. Il 5 Dicembre morì, insieme ad alcuni tecnici e altri operai minatori il nostro concittadino Carmelo Verduci, mentre nella sciagura del 4 Marzo 1952 morirono sul colpo ben tre nostri concittadini mentre un quarto e un quinto, gravemente feriti, moriranno successivamente presso l’Ospedale Vittorio Emanuele della città etnea.Si trattò di Scagliola Pietro di Lazzaro di anni 24, Triolo Carmelo di Lazzaro di anni 57 e Verduci Domenico di Lazzaro di anni 28. Relativamente ad uno dei due feriti gravi deceduti il giorno seguente, si trattava di Minniti Francesco di Motta San Giovanni di anni 35. In quell’occasione drammatica però vi erano anche altri tre nostri minatori che facevano parte di quel cantiere di lavoro, che comunque riuscirono, seppur seriamente feriti a sopravvivere a quella grande tragedia che aveva così duramente colpito numerose famiglie accompagnandole nel dramma della disperazione.Ma sfortunatamente, l’avverso destino non si fermò a queste due tristi avvenimenti; negli anni a seguire molti altri furono i morti, altrettanti i feriti. Altri nostri compaesani persero la vita in una serie di incidenti avvenuti sul lavoro proprio presso il territorio di Troina negli anni a seguire.

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Altri morti sull’Ancipa

Dopo queste due grandi tragedie che hanno colpito in modo così devastante la comunità di Troina, la nostra comunità tutta, dopo le interrogazioni parlamentari che si susseguirono nella speranza di dare risposte concrete su come fossero andati i fatti e sulle condizioni di sicurezza dei cantieri, altri lutti, altre morti si verificarono nei cantieri del territorio di Troina fino alla conclusione definitiva dei lavori della diga. Altri minatori morti e tra questi altri 2 compaesani: Sgrò Santo, di anni 32, morto il 02-07-1952 in C/da Spinasanta alle ore 23.30 a causa di un crollo di una impalcatura di legno dalla quale cadeva da una altezza di un metro e mezzo riportando una perforazione all’inguine destro provocata da un attrezzo di lavoro che egli stesso teneva in mano. Prontamente soccorso dai compagni di lavoro, veniva trasportato a bordo di un’automobile a Catania per essere sottoposto alle cure mediche. Tutto risultava però essere vano poiché sopraggiungeva una imponente emorragia causandone la morte ancor prima di giungere a Catania e precisamente nei pressi di Paternò. Dopo Santo Sgrò, anche la vita Nicola Minniti veniva spezzata in un altro grave incidente morto l’1-10-1952 . Oramai la diga di Ancipa stava così diventando, nell’immaginario collettivo, luogo di sventure e di gravi lutti. Gli incidenti stavano ormai divenendo eventi tanto frequenti da segnare la quotidianità dei lavori della diga. Un triste fatalismo che investiva nel corso degli anni ’50, anche i cantieri delle ditte maggiormente organizzate che eseguivano lavori per la realizzazione di altre opere in Italia e nel mondo, ma che invece qui’, forse proprio per un segno inequivocabile e subdolo del destino, stava diventando una costante non poco rilevante. Troppi gli incidenti per poter pensare a semplici infortuni, incidenti di percorso dettati dalla casualità o dalle normali circostanze lavorative. E’ così quindi che dirigenti e operai speravano, essendosi ormai rassegnati a quelle sciagure, di limitare il più possibile tali drammatici eventi nella speranza di riuscire a portare al più presto possibile a termine quell’immensa opera faraonica proteggendo e salvando la propria vita. Alla fine dei lavori, iniziati nel settembre del 1949 e conclusi con la messa in produzione dell’impianto idroelettrico nell’Aprile del 1954, si decise di ricordare tutti quei caduti tragicamente per volere del triste destino: una lapide in marmo, incassata nella roccia della sponda sinistra del bacino riporta: A PERENNE RICORDO DEGLI ANIMOSI CHE NEL DURO LAVORO PER L’IMPIANTO DI TROINA CADDERO

L’E.S.E. 1950 1953 Sono stati in totale 310 i minatori del Comune mottese che hanno lavorato, negli anni dal 1949 al 1952, nei cantieri e nelle gallerie della diga Ancipa. La diga Ancipa ha rappresentato il motore della modernizzazione di Troina. In quegli anni Troina ha compiuto la sua transizione da società ad economia agraria a società post industriale con un discreto benessere diffuso saltando il passaggio intermedio dell’industrializzazione. “Modernizzazione senza sviluppo” è la definizione che hanno dato i sociologi a questa particolare transizione da un tipo di società ad un’altra in assenza di processi di sviluppo economico endogeno ed autopropulsivo come ha ben evidenziato in un suo articolo Silvano Privitera. SAVERIO VERDUCI 5


Il tesoro di re Alarico tra leggenda, storia e realtà

Problematiche e difficoltà della campagna di scavo dell’area del Busento

Il destino di un uomo nel mondo antico è racchiuso nella dicitura di nome; una regola fissa alla quale non si sottraggono né i romani né altri popoli, una consuetudine tanto diffusa quanto significativa. È una traditio che in passato investe sia re che sudditi di cultura e tradizioni disparate anche quella di gente barbara. Un esempio su tutti né è Alarico (370-410) etimologicamente “il re di tutti” un nome indicativo di un destino enfatizzante la sua futura ascesa al trono ostrogoto nel 395.Alarico della dinastia dei Balti, di matrice celtica, è una figura lungimirante ma spietata, un uomo assetato di potere come tanti altri strateghi e sovrani la cui vita è segnata da complesse vicende intimamente legate a due fiumi: il Danubio costituisce la cornice delle sue lunghissime passeggiate a cavallo che segnano inderogabilmente la sua età infantile ed adolescenziale; al contrario, il Busento di dimensioni decisamente più modeste e il suo alveo divengono, secondo la tradizione che attinge da alcune cronache storiche e propriamente annalistiche, custodi eterni della sua salma e dei suoi tesori. Per comprendere quali siano questi tesori riallacciamoci all’episodio del sacco di Roma, la presa della caput mundi e caput Imperii, è costellata di avvenimenti di eminente rilevanza: immaginiamo il culmine dell’oppressione ostrogota della civitas capitolina ad opera di queste orde di barbare: le milizie di Alarico spingendosi con frenesia tra la folla colpiscono bersagli mobili ed immobili, operando razzie e saccheggi di ogni sorta, un tragitto di portata devastante e di elevatissima importanza strategica avente come meta conclusiva l’Ara Pacis. Una struttura adibita al complesso edile e di mirabile fattura, il Tempio della Pace, è depositario di un’incommensurabile fortuna di valenza sacrale proveniente direttamente dall’Oriente, Gerusalemme. Le stanze templari della città santa più volte profanate, nel corso del tempo, dal nemico del popolo giudeo, hanno nel Debir o Sancta Sanctorum il luogo più sacro che racchiude questo scrigno traboccante di ricchezze: un tesoro di monete auree di unica e incommensurabile bellezza, rilucenti oggetti preziosi tra cui primeggia su tutti lo splendore di una Menorah d’oro massiccio di un intrinseco simbolismo che trova corrispondenza nei precetti della Torah. 6


Inizialmente Pompeo lo ha profanato coi suoi occhi di straniero pur non rubando nulla e facendo purificare la struttura templare dai sommi sacerdoti all’indomani del suo ingresso. La dispersione di questo sostanzioso bottino affonda le sue radici nel cruento episodio storico del 70 e.v.,, fulcro della prima guerra giudaica (66-74) e descrivente una delle pagine più drammatiche e tristi in seno all’ebraismo. Il Tempio arde sin dalle fondamenta e i legionari sono capeggiati dal generale Tito, futuro imperatore come aveva predetto Giuseppe Flavio. Nel campo di battaglia figurano uomini spavaldi e temerari, legionari senza macchia anche delle legio XII Fluminata, XV Apollinaris, V Macedonica assetati da un impulso smanioso ed incontrastato di conquista irrefrenabile e con gli animi intrisi dalla cupidigia di ricchezza e di potere. Questi disobbedendo agli ordini maggiori, pervengono al termine delle operazioni di tattica militare all’estremo insanabile gesto di saccheggio e distruzione che sancisce la fine dello Stato ebraico e il tramonto del suo luogo e del suo edificio maggioritari. Si acuisce di conseguenza la diaspora, dispersione di un popolo che da lì in poi errante non ottiene più pace né facile ristoro. Gli occhi di Alarico rimangono estasiati da quella visione che illude e disincanta; brandisce quanto possibile nella foga del momento, probabilmente una piccola parte di questa razzia finirà successivamente a Narbonne grazie al successore al trono goto, Atalarico. Procediamo però con ordine cronologico: Alarico nel corso della razzia, sta per uscire dal Tempio della Pace, ignora tuttavia il sacro candelabro aureo, raffigurato anche nei bassorilievi dell’Arco di Tito e trascinato da schiavi giudei. La Menorah d’oro sarà poi oggetto di conquista del sovrano vandalo Genserico ed infine convergerà nelle mani del condottiero romeo Belisario. È improbabile dunque stando alle fonti che la Menorah fosse inclusa nel tesoro visigoto perché rappresentò un bottino vandalo, per cui chi ha pensato erroneamente in una possibile collocazione dell’oggetto sacro nell’area del Busento, potrebbe rimanere certamente deluso, come potrebbe non corrispondere alle aspettative di altri, l’attesa di un eventuale rinvenimento pecuniario, dato che le monete auree furono impiegate da Tito per l’edificazione dell’Anfiteatro Flavio, meglio noto come Colosseo. L’excursus storico di notevole intensità impregna le cronache del De Bello Gothico di Procopio di Cesarea, il quale ricostruisce parzialmente il tragitto della Menorah, gli spostamenti oscillano tra le coste nordafricane di Cartagine e il centro del potere romeo, Costantinopoli; da lì in poi asserisce lo stesso Procopio del candelabro si perde ogni traccia. Ciò consente la penetrazione nell’immaginario collettivo e la diffusione di improbabili elementi leggendari di ampia eterogeneità, mentre la scoperta dell’archeologo direi “visionario” Sean Kingsley fa permanere qualche perplessità nella ricostruzione del percorso perduto del candelabro che nel suo libro “l’Oro di Dio” la ubicherebbe nei sotterranei del Monastero di San Teodosio in Israele.

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La Calabria invece è certo la sede ultimadel frutto del saccheggio di Alarico: fallito il tentativo di conquista della Sicilia a causa del timore in lui concausato dall’angosciosa visione di una statua miracolosa sgorgante, nello sbigottimento totale visigoto, acqua e fuoco, e collocata, come vogliono le fonti tramandate ai posteri, in una località costiera reggina comunemente ricordata come Colonna Reggina; l’individuazione delle coordinate esatte della sua esatta posizione è stata nel tempo oggetto di numerose diatribe storiche che hanno diviso e unito molti studiosi. Allontanatosi dallo Stretto di Messina, Alarico continua il suo itinerario calabro e si spinge attraverso le zone paludose del cosentino. Qui, contrae la malaria e muore; proprio la convergenza tra le acque dei fiumi Busento e del Crati diviene il suo eterno crepuscolo, la sua memoria permane eterna e il suo tesoro si perde nell’oblio del tempo. Il tesoro di Alarico ha sempre rivestito un’attrattiva particolarmente seduttiva nel cuore dei profani e degli intellettuali che da sempre hanno sperato in un suo possibile scoperta. Leggenda o realtà? Qualche mese fa il saggista e politologo Luttwak, di origine rumena e naturalizzato statunitense, che da anni offre i suoi servigi presso il Pentagono, rispondendo positivamente alla proposta del sindaco di Cosenza, Occhiuto, ha espresso la sua totale approvazione sulla possibilità di fornire la sua consulenza di studioso, effettuare delle campagne di scavo sistematiche nell’area del Busento con l’ausilio dell’indicazioni contenute nell’opera del Jordanes un goto romanizzatosi e nella visione tradizionale anche vescovo di Crotone. Consideriamo che De Origine actibusque Getarum opera del V sec. d.C., del Jordanes cita in sostanza come una folta schiera di prigionieri abbia deviato l’alveo del fiume, deposto il sovrano ormai esanime coi suoi preziosi e, al termine degli scavi, siano stati uccisi i medesimi scavatori, dato successivamente ripreso da Paolo Diacono. La notizia dunque non lascia trapelare dubbi sull’accaduto come si evince chiaramente dalla lettura di questo scritto del Jordanes che in realtà è solo un trattato che prende spunto della mai pervenuta opera di Cassiodoro l’HistoriaGotorum” strutturata in ben dodici libri. L’iniziativa ha certo creato scalpore, dissensi e consensi nel mondo scientifico, nell’opinione pubblica e nella carta stampata. In apparenza è una ricerca utopica ma in molti si sono mobilitati a coadiuvare l’intensa attività finanziata da fondi privati e non pubblici. Il piano progettuale del sindaco Occhiuto prevede una vasta gamma di iniziative di non indifferente attrattiva: la realizzazione di Museo virtuale di Alarico, l’istituzione di un comitato studi, l’apertura di botteghe presso le rive del fiume. Avvalendosi dei rapporti con Israele; Luttwak da consigliere strategico, ha anche riflettuto sulla possibilità di contare sulla tecnologia di un drone di un ingegnere israeliano da questi stesso già adoperato nello Stato d’Israele per finalità logistiche atte a misure precauzionali e di difesa.

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Se la storia è concorde a concedere ad Alarico gli onori degli altari; in questa scelta di studio e di ricerca “si rivolterebbe dalla tomba ”lo storico Antonio Battista Sangineto, forte oppositore dal celebrare un condottiero straniero barbaro come Alarico che seppur esaltato come personaggio prestigioso anche dalla letteratura e dalla poesia, lo ha ritenuto, a ragione, pur sempre un autentico nemico, ostile nonché feroce assassino di migliaia di antenati suoi concittadini di Cosenza. I lavori tuttavia portati avanti con speranza e fatica e guidati dalla sapiente supervisione di Luttwak hanno incontrato un grosso, insormontabile ostacolo nell’opposizione della Sovrintendenza dei Beni Archeologici che in un primo momento aveva fatto trapelare un suo apparente assenso; Negativo anche il parere del PSE un gruppo che con fermezza ha contrastato la volontà di Occhiuto e che ha segnalato ai responsabili della stessa Sovrintendenza alcuni deficit organizzativi in riferimento alla mancanza di permessi che avrebbero compromesso inesorabilmente il proseguimento delle ricerche. Determinante in tal senso la mancata richiesta del sindaco cosentino di autorizzazione e che avrebbe gestito la situazione in maniera troppo individualista senza tener alcun conto del parere delle figure preposte alla responsabilità del settore archeologico. Una questione burocratica dunque che però evidenzierebbe alcune lacune nella gestione di una programmazione delineata ed un eccessiva individualità del sindaco di un progetto si interessante, ma forse ambizioso, troppo ambizioso. Infatti, come ha ben ricordato il noto istrionico critico d’arte Vittorio Sgarbi, che già nel recente passato si era scontrato con Settis per l’altra vicenda legata alla nostra terra quella relativa ai Bronzi di Riace, il ritrovamento del tesoro di Alarico nell’area del Busento/Crati sarebbe improbabile perché questa tradizione è decisamente più legata alla sfera mitica così come probabilmente lo è la ricerca dell’antica Atlantide. Probabilmente sarebbe stato come cercare un ago in un pagliaio e i fondi dei privati potevano anche rivelarsi insufficienti e spesi scriteriatamente. Le problematiche e le difficoltà di questa impresa restano ancora tante, solo il tempo dirà se la questione si divincolerà da questa ben tessuta ragnatela burocratica e se gli sforzi profusi consentiranno presto la ripresa di un cammino bruscamente e forse troppo celermente interrotto.Smorzando ogni scetticismo, la speranza è che un giorno ciò che oggi appare solo un sogno irraggiungibile possa divenire una realtà tangibile e concreta. In attesa che quel momentogiunga a compimento rivolgiamo la memoria ad Alarico con l’auspicio di un possibile metaforico risveglio di ciò che è ormai dormiente nel tempo, il suo corpo, immaginandocelo ancora vivo e nel pieno delle forze intento a guidare con destrezza il suo cavallo nelle sponde delle terre a lui care. Ricordiamo allora il sonno eterno di un re tanto osannato quanto temuto citando per ultimo alcune righe della celebre poesia del nostro caro Giosuè Carducci:

“Dormi o re nella tua gloria, Man romana mai non violi, La tua tomba e la memoria!”

FELICE DELFINO 9


LA TESSITURA E I FILATI IN CALABRIA E NELL’AREA GRECANICA

La lavorazione artigianale della tessitura e la produzione di filati in Calabria hanno origini antiche, lo dimostrano i numerosi contrappesi da telaio in terracotta, alcuni risalenti al VII - VI sec. a. C., che sono stati ritrovati in campagne di scavo archeologico; e tracce di arte greca, arrivate in Magna Grecia, ancora presenti nei capi realizzati dalle tessitrici calabresi, come il ricorrente motivo decorativo della greca. La lavorazione di filati e la tessitura calabrese appartengono alla storia di ogni famiglia come il telaio, simbolo della pazienza e dell’operosità femminile. Il telaio, utile per la realizzazione del tessuto ottenuto tramite l’intreccio di due serie di fili, tra loro perpendicolari, denominati trama e ordito, di cui i primi esemplari compaiono nel neolitico e avevano una semplice intelaiatura rettangolare costruita con rami o pali di legno, messi in posizione verticale sui quali era posto in alto e perpendicolarmente, un terzo bastone, detto subbio, che si evolve e abbiamo testimonianze di esemplari più complessi attraverso delle ceramiche pervenute in scavi archeologici, ne è uno splendido esempio di queste testimonianze lo Skyphos a figure rosse, in ceramica Attica, datato circa 440 a. C., oggi conservato al Museo Archeologico Nazionale di Chiusi (SI). Nella scena rappresentata sono raffigurati: Telemaco e Penelope, in primo piano, e sul fondo un raffinato telaio verticale costituito da due montanti e un architrave, in cui l’ordito è tenuto in tensione con pesi ed è separato da varie barre d’incrocio. Il motivo decorativo presenta il particolare del tessuto già costruito, decorato e avvolto intorno al subbio (rullo).

Fig. 1_ Grande Skyphos a figure rosse (Ca 440 a.C.) con particolare che ricostruisce la decorazione, dove è visibile la rappresentazione di Penelope al telaio, conservato al Museo Archeologico di Chiusi (SI)

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Diffusa ancora oggi in Calabria, con peculiarità che variano da territorio a territorio e da popolo a popolo, la tessitura è la produzione artigianale che meglio rappresenta il multiculturalismo presente nella regione calabrese, tanto che per ogni provincia è possibile classificare diverse tipologie di prodotti tessili. Ad esempio nella provincia di Catanzaro, e in particolare a Badolato e Tiriolo, si ha: la lavorazione di scialli detti Vancali; la produzione delle Pezzare, che sono tessute a strisce multicolori, utilizzate come tappeti o come decorazione delle pareti interne delle abitazioni; e la lavorazione di filati come la lana e la seta, tessuti in telai di tipo Quattrocentesco.

Fig. 2 _ Da Sx a Dx: “Vancali” scialle da donna in seta e la lavorazione al telaio dei “Pezzare”

Nella provincia di Cosenza sono realizzati tappeti e coperte con tecniche d’ispirazione araba, che si distinguono per i loro colori vivaci e luminosi e scene che richiamano il paesaggio del territorio locale. In questa provincia in comuni quali: S. Demetrio Corone, S. Benedetto Ullano, Falconara Albanese e Cerzeto alla fine del Quattrocento circa, si rifugiarono gli esuli albanesi, fuggiti dalle incursioni turche in patria. Questi anche in terra calabra mantennero i loro usi e costumi, la loro lingua e le loro arti, che per quanto concerne la tessitura nelle decorazioni trova richiami nella tradizione della patria balcanica, con forme e disegni che riproducono scene delle loro vicissitudini di essere stati sradicati dalla propria terra d’origine. Tali rappresentazioni nella tessitura sono arrivate ai giorni nostri tramite capi pregiati, conservatesi nel tempo, e attraverso l’uso di tramandare le tecniche per la realizzazione di queste decorazioni alle nuove generazioni di tessitrici. Tra le decorazioni Arbëreshë si distinguono: la lancia e lo scudo simboli delle armi dei guerrieri che combattevano contro i turchi, l’aquila, che è l’immagine di Scanderbeg, il principe che li guidò e che fu il loro capo e la barca che richiama il viaggio dall’Albania verso terre più sicure; mentre nella provincia di Crotone si realizzano, coperte di lana con disegni tradizionali. Nella provincia di Reggio Calabria e in particolare nell’Area Grecanica, quell’area geografica del basso Jonio reggino, che definisce quel territorio dalle caratteristiche socio – linguistiche e culturali anticamente appartenute alla Magna Grecia, culla secolare di quella minoranza linguistica ellenofona di Calabria, dove ancora oggi in alcuni territori comunali della stessa si parla il grecanico e definiti ellenofoni, quali: Bova, Bova Marina, Condofuri, Roghudi e Roccaforte del Greco, nella vallata della fiumara dell’Amendolea, si praticava e si pratica tutt’oggi l’artigianato grecanico, che è l’espressione che caratterizza le comunità che vi risiedono e che si esprime nella cosiddetta “arte dei pastori”; un artigianato prodotto sempre in ruolo strettamente funzionale all’aspro territorio d’appartenenza degli artigiani e della vita quotidiana che si svolgeva in esso. Nell’arte dei pastori, dove si sfruttava quello che il territorio poteva offrire loro mettendo in pratica il sapere ereditato, 11


di rilevante importanza era l’arte della tessitura, praticata dalle donne specialmente nelle giornate invernali quando non erano impegnate nei campi e durante il tempo libero, quando non dovevano accudire ai loro figli e svolgere le faccende domestiche, fino a sera inoltrata. I filati utilizzati per tessere erano di fibre di: lana, ricavata dalla tosatura del bestiame che poi era cardata e filata; e di ginestra utilizzata in sostituzione di fibre più pregiate come la seta, il lino e la canapa, che pur essendo ampiamente lavorate fino agli anni ‘50 del Novecento, erano considerate materie nobili che i più benestanti potevano permettersi. La ginestra invece che abbondava sul territorio aspromontano era alla portata di tutti, e garantiva la tessitura di capi da biancheria e d’abbigliamento. La produzione del filato di ginestra era eseguita dalle donne, ricordo ancora vari racconti di nonna Elisabetta, che nel greto della fiumara dell’Amendolea preparava le fibre per il suo filato di ginestra, da utilizzare nella tessitura delle coperte chiamate “Vutane” o delle “Pezzare”, per tappeti e per decorare le pareti interne della propria abitazione, al suo telaio a pedale.

Fig. 3_ Disegno riproduzione di una tessitrice al telaio a pedale

La ginestra molto abbondante in Aspromonte e nella Vallata dell’Amendolea, si lavorava per ottenere il filato, detto appunto filato di ginestra, dopo la sfioritura nel mese di agosto, tagliando i giunchi più lunghi, grossi e meno ramificati “u spartu”; questi raccolti e legati in fasci venivano trasportati sulle rive delle fiumare, dove erano puliti e bolliti in grandi pentoloni di rame sulla brace, per circa tre ore e con l’aggiunta di cenere allo scopo di ammorbidire gli steli; in epoche più moderne si utilizzava anche la soda caustica invece che la cenere. Finita la bollitura, gli steli erano fatti raffreddare e legati nuovamente in fasci erano poi immersi in ammollo nell’acqua corrente per la macerazione, e quindi nella fiumara, per circa otto giorni, questa fase serviva per ammorbidire completamente la fibra e facilitare le operazioni successive di distacco di parti. La successiva fase serviva per sfilacciare gli steli lasciati a macerare; con la scorciatura si separava la fibra dall’anima interna e si procedeva con il cospargere gli steli macerati di sabbia fine, presa direttamente dal greto della fiumara, e si strofinavano energicamente. Dopo aver finito con la scorciatura si passava alla sfibratura che veniva praticata serrando pochi steli alla volta fra le dita e strappandoli con decisione, per separare la fibra dal canapulo; e poter passare quindi alla fase successiva della battitura, sempre praticata nel greto della fiumara, per raffinare la fibra privandola dalle parti legnose e dal verde della clorofilla. Si eseguiva con robuste mazze di legno che battevano sulla fibra sistemata a mazzetti su grossi massi, intervallando la battitura con frequenti sciacqui 12


e strizzature per purgare e sbiancare la fibra. Finite queste fasi di lavorazione nel greto della fiumara le donne portavano le fibre ottenute a casa per le successive fasi di lavorazione di cardatura e filatura. Nella cardatura le fibre lavate e asciugate si presentavano aggrovigliate e ancora miste a scorie legnose e cuticolari, con una lavorazione a mano o con l’ausilio di cardi, che erano pettini fatti di tavolette di legno, anche di forma circolare, ricoperte di cuoio, sulle quali erano infisse decine di chiodi, si ripulivano le fibre, ammorbidendole, allungandole e selezionandole per la successiva fase di filatura. Attraverso la cardatura delle filacce grezze si ottenevano due filati: il primo l’ordito e il secondo il filato per la trama, costituito dalla fibra rimasta tra i denti del cardo, che si otteneva con la successiva fase di lavorazione di filatura. La filatura era la fase più difficile dell’intero processo di lavorazione, e consisteva nel trasformare la fibra in filato con alcune operazioni manuali laboriose e sincronizzate. Ci si avvaleva dell’uso della rocca, uno strumento che serviva a contenere la fibra e del fuso, che con movimento rotatorio attorciglia le fibre su se stesse filandole all’infinito. In alcuni casi si filava con‘u filarellu, dove il movimento rotatorio per la filatura è generato da un’apposita pedaliera, mentre l’alimentazione della fibra è esclusivamente manuale. Tale attrezzo, sempre uno strumento di carattere artigianale e manuale, aiutava a velocizzare la lavorazione e a rendere più regolare il diametro del filato.

Fig. 4 _ Da Sx a Dx: Fibra di ginestra grezza: mista a scorie legnose, cardata e filata

Il filato di ginestra era utilizzato grezzo oppure tinto, la coloritura si praticava con l’utilizzo di terre o essenze naturali fino agli anni ’50 del Novecento; in seguito vi fu l’introduzione di coloranti sintetici che resero i filati di coloriture più vivaci. I tessuti che erano prodotti per le coperte: “Vutane” di solito si presentavano a forma di teli rettangolari cuciti a tre a tre, che in alcuni casi presentavano rifiniture nei bordi con frange realizzate dello stesso filato con la tecnica della forcella o dell’uncinetto; oppure rifinite con fasce di raso.

Fig. 5 _ Da Sx a Dx coperta: Vutana e telo d’arredo: Pezzara, di filato di ginestra e lana e di sola ginestra, prodotte nella Vallata dell’Amendolea. Tessuta al telaio a pedale dalla nonna Elisabetta Valastro a Condofuri (RC) di proprietà di Vincenza Triolo

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L’arte del tessere, che era tramandata da tenera età oralmente dalle madri, dalle nonne, dalle zie e in alcuni casi dalle amiche di famiglia, iniziava con piccole commissioni per poi evolversi nel trasmettere alle giovani tessitrici la conoscenza del telaio con il suo funzionamento e la conoscenza delle tecniche della tessitura stessa con la composizione delle trame. Le trame della tela erano caratterizzate da forme e disegni stilizzati, dal variegato abbinamento dei colori, vivaci e accostati senza sfumature, che nascevano da una sorta di cantilena, e che erano come uno scrigno che custodiva l’essenza spirituale della tessitrice con proprie conoscenze e credenze, un aspetto conservato tutt’oggi. Alcune trame dei tessuti grecanici riproducevano decorazioni neolitiche, altre erano del tutto simili a quelli prodotti in Grecia e in generale di tutti quelli prodotti nei luoghi soggetti all’influenza bizantina. La rappresentazione dei disegni, sia nella geometria sia nella stilizzazione delle forme, denota un’interpretazione popolare di rappresentazioni chiave dell’ellenismo, con una sovrapposizione di segni religiosi e simboli della vita sociale. Altri tipi di tessuti prodotti al telaio erano di filati di lana, ottenuti da una lavorazione dopo previa tosatura del bestiame; che secondo la qualità si dividevano in due generi: il panno o lana rustica, formato da una qualità di lana più forte e più ruvida, che a doppio strato serviva per gli abiti e i mantelli dei massari e contadini, che avevano bisogno di un vestito caldo e impermeabile all’acqua; e la franninella, un panno più leggero formato da una lana più fine, che serviva per i vestiti del ceto medio borghese perché più fine e più da comparsa; entrambi i tessuti erano utilizzati nei mesi invernali. Invece, con la bachicoltura e la produzione di seta, si realizzavano due qualità di tessuti: quelli di cascame ocapisciola e quelli di seta propriamente detti. Per formare i primi c’era bisogno che i bozzoli, dopo sfarfallati, fossero bolliti e poi sfilati, mentre i secondi erano filati senza ebollizione, cosicché ne usciva un filo di seta lucido che formava i tessuti più pregiati. La produzione di filato di seta in Calabria si diffuse intorno al X secolo, grazie agli arabi e ai bizantini. Della diffusione della gelsicoltura e bachicoltura si registra un unico documento certo, ed è un rogito notarile citato, quale testimonianza certa, dallo storico e studioso francese Andrè Guillon, risalente al 1050 nel quale si legge, che fra i beni della Curia metropolita reggina, figura un campo di migliaia di gelsi. Nella provincia di Reggio Calabria, il primo impulso alla seta fu dato dagli Ebrei, ma ben presto essi furono accusati dai Genovesi e dai Lucchesi di monopolizzare il mercato, e nel 1511 un’ordinanza del re Ferdinando di Aragona, li costrinse ad abbandonare il nostro paese. L’attività serica, ebbe una buona ripresa negli anni seguenti e nel 1790, a Villa S. Giovanni sorse la prima filanda, e più tardi ne sorsero altre; tanto che si registravano otto nel tratto tra Villa San Giovanni - Reggio Calabria. Nel 1863 si contavano centoventi filande distribuite lungo la fascia Villa S. Giovanni - Roccella Ionica. Si tessevano sete damascate, velluti in seta e cotone a vari colori. Questa ricchezza durò ben poco: nel 1879 a Reggio funzionavano appena otto telai e a Scilla quattro, finché scomparvero del tutto. A Cosenza la seta si propagò nella valle del Crati, dove la coltivazione del baco da seta costituiva il principale sostentamento della povera gente. Centri importanti di lavorazione furono: Montalto, Bisognano, Altomonte, Castrovillari e Longobucco. Catanzaro fu il principale centro della regione, dove quest’arte si diffuse, conferendo alla città ricchezza e prestigio. Per merito dei Normanni e degli Svevi le produzioni seriche Catanzaresi, uscirono dai confini nazionali e raggiunsero l’Europa. Il grande imperatore di Svevia Federico II fu convinto protettore di quest’arte. A Lione in Francia, nel 1400 è documentata la presenza del telaio di tale <<Giovanni il calabrese >> che divenne il primo caposcuola e fondatore di molte industrie seriche. L’arte della seta visse periodi di grande prosperità durante il regno di Carlo V che aveva istituito franchigie e privilegi vari. Nel 1519 furono pubblicati gli Statuti dell’arte della seta di Catanzaro. Il massimo sviluppo della seta si ebbe nel Settecento. A Catanzaro si contavano settemila setaioli e mille telai. Si producevano drappi, damaschi e broccati apprezzati in tutta Europa. Tra il XVIII secolo e i primi decenni del XX secolo, le sorti della seta incominciarono a cambiare ed ebbe inizio una lenta ma inesorabile decadenza. L’allevamento del baco da seta e la produzione dei bozzoli avevano carattere familiare: le allevatrici acquistavano le uova del baco e le tenevano al caldo aspettando che i bacolini venissero fuori dal guscio, iniziando così la loro breve esistenza. Altre allevatrici, invece, compravano i neonati di baco e li nutrivano con foglie di gelso triturate e poi li collocavano nei cosiddetti “cannizzi” che erano dei graticci di canne a più piani. I bruchi mangiavano tre volte al giorno per cinque giorni e poi si addormentavano.

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Al risveglio perdevano la pelle che era sostituita in breve tempo con altra per ben quattro volte. Quest’operazione si chiama spoglia, la penultima era denominata tritu e l’ultima casarru. Quando il baco non aveva più fame e rifiutava il cibo, si chiudeva nel bozzolo e iniziava a costruire la sua dimora con la bava, producendo un filo di seta della lunghezza di un chilometro. Allora lo si trasferiva sulla “cunocchia” formata da mazzi di ginestra essiccata e piegata a modo, e qui il baco portava a termine il suo lavoro fino a quando il bozzolo non diventava duro; allora la tessitrice cominciava l’opera di “scunucchiatura”. Essa consisteva nel soffocare, “stuffare”, il baco immettendolo nell’ambiente ad aria calda di 80°-90° C, immergendolo in bacinelle di acqua calda, poi si batteva il bozzolo con i cosiddetti manganeddi, arnesi di legno, che lo ammorbidivano facendone uscire fuori il filo di seta. Il filato di seta era grezzo oppure a varie tinte dopo le lavorazioni di coloritura; e si preparavano quindi le matasse che erano vendute alle filande o alle tessitrici per preparare i corredi alle figlie.(1)

Fig. 6 _ Da Sx a Dx baco da seta con bozzolo e matassa di filato di seta

NOTE: (1) Si riportano nel testo oltre le ricerche condotte, i racconti di Elisabetta Valastro, mia nonna materna, e Vincenza Legato, mia nonna paterna. VINCENZA TRIOLO

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La pittura dell’Ottocento in Irpinia

Lo studio del pittore di Volpe Vincenzo – Amministrazione provinciale di Avellino

L’Ottocento fu caratterizzato da una moltitudine di moti rivoluzionari ispirati all’idea di “nazione” che non coincideva più con i semplici confini politici di uno stato, ma che si rifaceva al concetto più ampio di “popolo”, cioè un insieme di persone unite dalla stessa lingua e la stessa cultura. Si rivendicò di conseguenza il diritto dei popoli ad affermare la propria identità e, infervorati da tali ideali anche gli Italiani, da secoli divisi tra molti stati, lottarono per l’unità nazionale e per liberarsi dal controllo straniero, il che portò, in particolare alle insurrezioni contro il dominio austriaco nel Regno Lombardo-Veneto e contro i Borboni nel Regno delle Due Sicilie.

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L’Ottocento, sulla spinta della Rivoluzione industriale, fu anche un’epoca di invenzioni e scoperte di ogni genere. Nella prima metà del secolo furono brevettati la pila, il telegrafo, la locomotiva a vapore; nella seconda, il telefono, la lampadina ad incandescenza; nel 1885 comparve la prima automobile e la nascita della fotografia e del cinema influenzò enormemente il modo di osservare la realtà, con risvolti anche in campo artistico. A questo proposito è necessario ricordare Raffaele Troncone (Atripalda (AV) 1868 – Atripalda (AV) 1953) fotografo, pittore e gestore della prima sala cinematografica di Atripalda. Avvicinandosi al discorso artistico, bisogna sottolineare che due movimenti culturali caratterizzarono il primo Ottocento: il Neoclassicismo e il Romanticismo. L’uno ripropose modelli dell’antichità classica da imitare, immagini dalle forme perfette, in atteggiamenti equilibrati, dignitosi; l’altro, invece, affermò la personalità dell’individuo e ne esaltò il sentimento, la fantasia, con raffigurazioni più personali e con soggetti assai vari, in cui l’artista si manifestava liberamente. Nella seconda metà dell’800 ci si orientò verso forme nuove, preludio al cambiamento che sarebbe poi avvenuto nel nostro secolo.Nel periodo in questione, Stato e borghesia costituirono sempre più la categoria dei committenti, per cui anche burocrati e nuovi ricchi, vollero possedere opere pittoriche e artistiche in genere, così proliferano gli artisti. Tutto ciò influenzò naturalmente anche la pittura del Diciannovesimo secolo in Irpinia, la quale fu perciò caratterizzata da una notevole differenziazione dei caratteri stilistici ed iconografici, oltre che dall’uso di tecniche artistico-compositive differenti. L’Irpinia dell’Ottocento fu culla di molti artisti. Si pensi ai giovani talenti “segnalati” dalla Provincia di Avellino come meritevoli di usufruire del sussidio per proseguire gli studi presso l’Istituto di Belle Arti di Napoli e a quanti pittori, pur sconosciuti, ebbero il proprio nome menzionato in riviste locali come ad esempio: Antonio Albanese, Raffaele Altavilla, Alfonso Berrilli,Francesco Capone, Gabriele Caporaso, Carmine Crescenzo, Luigi Criscitelli, Federico De Simone, Pasquale Del Balzo, Michele Gervasio, Pasquale Lista, Pietro Maruzzi, Vincenzo Mazzei, Antonio Minocchio, Raffaele Mirabelli, Luigi Santillo e chi sa quanti ancora sconosciuti.

Paesaggio lacustre di Carrillo Achille – collezione privata Fiorentino

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Alcuni divennero noti perché iscritti nell’elenco degli artisti invitati dalla Provincia a esporre alla prestigiosa “Rassegna di Vienna” del 1872. Ad essi si aggiungano quei pittori irpini già noti, come Vincenzo Volpe (Grottaminarda (AV) 1855 – Napoli 1929), Cesare Uva (Avellino 1824 – Napoli 1886), che sono da considerare autentiche “glorie irpine”, e ancora Giovanni Battista (Avellino 1858 – Napoli 1925), Giuseppe Buscaglione (Ariano di Puglia (AV) 1868 – Rivoli Torinese (TO) 1928), Gasparino, Achille, Francesco Carrillo, passato alle memorie di Storia dell’Arte come Achille Carrillo (Avellino 1818 – Napoli 1880), Daniele De Feo(Avellino 1855 – Avellino 1925), Michele Lenzi (Bagnoli Irpino (AV) 1834 – Bagnoli Irpino (AV) 1886), Oreste Recchione (Sant’Angelo dei Lombardi (AV) 1841 – Napoli 1904) e Gustavo Trillo (Bagnoli Irpino (AV) 1876 – Bagnoli Irpino (AV) 1943). Tanti e tanti fermenti e talenti artistici più o meno validi poterono svilupparsi e attecchire grazie al fertile humus delle iniziative culturali che si svilupparono dopo i moti del 1820 avvenuti intorno alla città capoluogo. I pittori irpini dell’Ottocento fecero riferimento ai grandi maestri della pittura Italiana e, soprattutto, Napoletana del Diciannovesimo secolo. Tra Avellino e Napoli si erano inoltre intrecciati diversi rapporti artistici. Nel Principato Ulteriore aveva preso piede la “Società Economica”, e vi si stava diffondendo il “Giornale Economico di Principato Ulteriore”. Così, nella seconda metà del XIX secolo l’Irpinia potè vantarsi di aver avviato un profondo processo di rinnovamento nel campo sociale, culturale e artistico e gli artisti locali, seriamente impegnati in un’eccezionale opera di “sprovincializzazione” della cultura, offrirono il proprio contributo. È il caso di ricordare almeno due esempi: Michele Lenzi, nativo di Bagnoli Irpino (AV), cofondatore a Córtale, in Calabria, di una “scuola di pittura” e inventore della tecnica della “ceramica a fumo” e che, captando e facendo proprio il desiderio di libertà e unità delle genti del Sud, divenne un garibaldino, ma non abbandonò i pennelli d’artista, e Oreste Recchione, nativo di Santangelo dei Lombardi (AV), promotore, anche in Abruzzo dove si era trasferito, del pensiero “liberal-progressista” di Francesco De Sanctis. Anche se pochi raggiunsero un’elevata qualità pittorico-narrativa, oltre che qualitativa, l’Irpinia dell’800 è stata patria di numerosissimi artisti, per lo più sconosciuti ed ininfluenti nella Storia dell’Arte Campana ottocentesca. Per la maggioranza dei pittori irpini dell’Ottocento, sono poche le notizie biografiche, per alcuni è quasi inesistente un profilo critico. Molte pubblicazioni ebbero solo un carattere informativo-divulgativo e non storico-artistico. Si trattò di solito di personalità artistiche di secondo e terzo piano nel panorama della Storia dell’Arte Italiana e Campana del Diciannovesimo secolo. Alcuni furono artisti minimi, altri dipinsero quasi a livello dilettantistico. Alcuni pittori nacquero in Irpinia, per poi trasferirsi e formarsi in altre regioni d’Italia, come ad esempio Giuseppe Buscaglione ed Oreste Recchione. Altri lavorarono pressoché esclusivamente nella città di Napoli: è il caso di Cesare Uva, Giovanni Battista, Achille Carrillo e Vincenzo Volpe Soltanto Michele Lenzi e Gustavo Trillo vissero quasi sempre nel loro paese natale, Bagnoli Irpino. Un artista, Achille Martelli (Catanzaro 1834 –Avellino 1903), si trasferì da Catanzaro ad Avellino, chiamato perché fu anche un apprezzato ceramista, per dirigere la Scuola d’arte Applicata intitolata al patriota e giurista irpino Paolo Anania De Luca (1778 – 1864), istituita il 20 marzo del 1882, data la vocazione del territorio alla lavorazione del legno e della pietra ed oggi divenuta Liceo Artistico. Al vasto pubblico, i pittori irpini più noti dell’800 sono: Vincenzo Volpe e Cesare Uva, ma gli esperti d’arte ricordano volentieri Achille Carrillo, mentre chi segue il mercato della pittura dell’Ottocento apprezza anche Giovanni Battista, Giuseppe Buscaglione ed Achille Martelli. Osservando le aste di opere pittoriche degli ultimi quindici anni si deduce che alcuni artisti irpini dell’Ottocento hanno tuttora un mercato internazionale, soprattutto anglosassone, trattasi di Giovanni Battista e Cesare Uva, altri artisti raggiungono un mercato nazionale; è il caso di Giuseppe Buscaglione e VincenzoVolpe; alcuni hanno mercato solo nell’Italia Meridionale, come Achille Carrillo ed Achille Martelli, mentre altri autori irpini attualmente sono quasi assenti nel “Mercato della Pittura dell’Ottocento”, come, Oreste Recchione e Michele Lenzi. ANGELO CUTOLO 18


CON CESAR UN SISMA CULTURALE IN SALA FALLARA

5 Febbraio 2016, Gioia Tauro. Nell’ampio ed elegante ambiente di Sala Fallara, l’Associazione CESAR torna a scuotere il panorama culturale della città. Ed infatti, di vero e proprio sisma si è parlato. Si è svolto infatti il “primo evento a carattere commemorativo dell’Associazione CESAR” come giustamente definito dal conduttore della serata, l’archeologo Fabrizio Stumpo. In un evento organizzato in grande stile, CESAR ha proposto una commemorazione degli eventi sismici del 5 Febbraio 1783 a tutto tondo. Vari esperti hanno dato un taglio professionale e scientifico al tema trattato, permettendo alla nutrita platea in modo chiaro ed appassionato di ricostruire ampiamente e nel modo più completo il triste evento sismico e le sue devastanti conseguenze. La serata è stata aperta con i saluti ufficiali del Vice Presidente di CESAR, Saverio Modaffari, subito dopo il Cavaliere Rocco Giuseppe Tassone ha introdotto egregiamente e con somma eloquenza la tematica della serata, rifacendosi persino ad una lirica, centrando in pieno seppur brevemente lo spirito commemorativo del momento. Subito dopo un momento di grande delicatezza, sulle note rievocative dell’intervento del membro onorario dell’associazione, il Professore Alessandro Guerricchio dell’Unical di Rende, ha appassionato la folla in platea, con una serie nutrita di diapositive ed ancor più interessanti argomenti di geologia, inducendo il pubblico ad appassionarsi grandemente al discorso trattato.

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All’intervento di impronta geologica, ha seguito il Dottor Antonio Violi, il quale, nella sua approfondita trattazione ha arricchito quanto già appreso nel corso del convegno grazie ad una narrazione assai completa e particolareggiata di quanto storicamente accaduto “nei giorni del grande flagello” a Gioia Tauro e dintorni. Ancora, la serata è proseguita nello svolgimento del tema proposto, il quale si arricchiva sempre più e si svelava ai presenti come un puzzle dai molti pezzi, tutto da ricomporre grazie anche alla competenza dell’Architetto Francesca Valensise dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, la quale ha argomentato riguardo alla ricostruzione tardo settecentesca del territorio avendo come riferimento i catasti post-unitari. A porre fine alla serie di interventi, il Marchese Pierluigi Taccone ha narrato della rinascita agricola del territorio. La serata si è infine chiusa con un forum di domande e conseguente dibattito assai appassionato, sentito, partecipato, nonostante la tarda ora. Ai partecipanti, è stato inoltre rilasciato regolare attestato di partecipazione. Ancora, poco prima dei saluti di chiusura, CESAR ha dato appuntamento a lunedì 8 Febbraio alle 18:00 presso la Chiesa del Duomo di Gioia Tauro, dove sarà celebrata una Messa commemorativa delle vittime del sisma suddetto. Tirando le somme di questo evento di grande spessore per la città, si può dire con certezza che gli ingredienti messi in campo dalla giovane Associazione gioiese si sono mostrati ancora una volta validi ed azzeccati, assai eloquente il boom di presenze, conseguente e meritato frutto di un’organizzazione impeccabile in perfetto stile CESAR, accoglienza calorosa e dibattito culturale vivace. Il presidente dell’associazione Leandra Maffei, ha dichiarato: <<Posso definirmi soddisfatta, l’evento è stato organizzato con la massima cura e preparazione, quello che potremmo definire il “Metodo CESAR”>>. A tutti i partecipanti va il ringraziamento di tutto lo staff di CESAR. L’Associazione da appuntamento al prossimo evento, che certamente non deluderà. MARIKA MODAFFARI

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BIBLIOGRAFIA DEGLI ARTICOLI UN GRIDO DALLE VISCERE DELLA TERRA di -SAVERIO VERDUCIBIBLIOGRAFIA:

Una città di minatori-la storia dei minatori del Comune di Motta San Giovanni, Disoblio Edizioni (1) I nominativi sono stati ricavati dalla consultazione dei Registri degli atti di morte Parte II – Serie B – Anni 1949-1950-1951-1952-1953. Ufficio Anagrafe Comune di Troina. LA TESSITURA E I FILATI IN CALABRIA E NELL’AREA GRECANICA di -VINCENZA TRIOLOBIBLIOGRAFIA:

CASTAGNA E., (a cura di), Pucambù. Guida al turismo sostenibile nell’Area Grecanica, Soveria Mannelli (CZ), Calabria Letteraria Editrice, 2014. FAENZA P., Mani che lavorano. Percorsi nell’artigianato grecanico, Reggio Calabria, Artemis, 2015. FAENZA P., Bova Marina. Storia, arte e natura nella Calabria Greca, Reggio Calabria, Iiriti editore, 2009, pp. 52 - 53. LARUFFA D., I luoghi della ginestra, Reggio Calabria, Ed. Laruffa, 1983. LIOTTA L., I luoghi del femminile: la casa e la stanza del telaio, in Calabria Sconosciuta: rivista trimestrale di cultura e turismo, n. 39 (1987), pp. 21-28. LIOTTA L., I luoghi del femminile: la fiumara, il villaggio, la via, lo slargo e la soglia, in Calabria Sconosciuta: rivista trimestrale di cultura e turismo, n.38(1987), pp. 15-22. MACRÌ M. V., La lavorazione della ginestra, in Calabria Sconosciuta: rivista trimestrale di cultura e turismo, n. 16-17 (1981-1982), pp. 51 – 54. MELISSARI R., La bachicoltura nel territorio reggino, in Calabria Sconosciuta: rivista trimestrale di cultura e turismo, n.35(1986), pp. 13-18. MELISSARI R. La ginestra ed il suo ciclo di lavorazione, in Calabria Sconosciuta: rivista trimestrale di cultura e turismo, n.36 (1986), pp. 13-19. TRIOLO V., Il Quartiere Praci di Motta San Giovanni (RC). Storia, Architettura e Conservazione: linee guida per il recupero e il ripopolamento, Città di Castello (PG), GB Editoria, 2014, pp.106 - 107. VIOLI F., Tradizioni popolari Greco Calabre, Reggio Calabria, Ed. Apodiafazzi, 2001.

La pittura dell’Ottocento in Irpinia di -ANGELO CUTOLO

BIBLIOGRAFIA: AA. VV., Pittori dell’800 in Irpinia nella Collezione dell’Amministrazione Provinciale, De Luca Edizioni d’Arte S.p.A., Roma – 1989. Gaeta Davide, Artisti atripaldesi tra ‘800 e ‘900, Biblioteca del Sabato Collana di Studi e testi a cura dell’Assessorato ai Beni Culturali di Atripalda, Atripalda – 1985. Sica Riccardo, Pittori irpini dell’Ottocento, Elio Sellino Editore srl, Pratola Serra (AV) – 2001.

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prossimamente CESAR presenterà un numero speciale dedicato esclusivamente al territorio “acrese”


LA FOTOGALLERY

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parlando di...

VINCENZA TRIOLO Nata a Reggio Calabria nel 1980, consegue nel 2014 la laurea in Scienze dell’architettura e nel 2012 la laurea in Storia e Conservazione dei Beni Architettonici e Ambientali nella Facoltà di Architettura di Reggio Calabria. Nel 2001 collabora, con l’incarico di esperto esterno, al progetto PON per il recupero e la valorizzazione del centro storico di Motta San Giovanni. Nel suo iter universitario partecipa a numerosi stage: Fortificazione di Santo Niceto, rilievo e analisi di degradi e dissesti, Archeologia e cantieri di restauro nella Sicilia centrale, Studio di edilizie di base del paese di Armo Gallina (RC). Rilievo e analisi dei degradi e dissesti di Palazzo Spinelli di Motta San Giovanni (RC). Nel 2013 collabora a progetti di ricerca con il Dipartimento PUA presso l’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria ed è stagista presso la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici delle provincie di Reggio Calabria e Vibo Valentia. Nel 2014 collabora con la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici delle provincie di Reggio Calabria e Vibo Valentia con la qualifica di esperto esterno all’attività di catalogazione relativa all’uso del sistema informatico per i Cantieri di Restauro SICaR del MIBACT e all’uso del sistema informatico per la catalogazione relativa all’uso del sistema informatico per i Beni Culturali SIGEC/WEB del MIBACT. Nello stesso anno pubblica il saggio dal titolo: Il Quartiere Praci di Motta San Giovanni (RC). Storia, architettura e conservazione: linee guida per il recupero e il ripopolamento con la GB Editoria; e scrive in diverse riviste online che si occupano di Architettura, Storia e Conservazione dei Beni Culturali.

MARIKA MODAFFARI Nasce il 12 Dicembre 1992 a Gioia Tauro e vive a Cosenza, studia Scirnze della Formazione presso l’università UNICAL. Esordisce nel mondo della scrittura con il libro dal nome LUMINA NOCTIS, inoltre collabora come scrittrice per la rivista Gesù risolto di Cosenza.


parlando di...

ROCCO GIUSEPPE TASSONE Nato a Candidoni (RC) risiede a Gioia Tauro. Laureato in Scienze Biologiche, è titolare della Cattedra di Scienze Naturali presso i licei. Un gruppo di suoi alunni ha inoltrato al Presidente della Repubblica Italiana una richiesta per un’onorificenza al Merito. Con decreto del P.R. del 27 dicembre 2003 viene nominato Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana ed iscritto nell’elenco nazionale dei Cavalieri al numero 136626 sez. IV. Più volte giudice popolare presso la corte di assise. Poeta, storico, scrittore poliedrico e divulgatore scientifico. Collabora a varie riviste a carattere storicoletterario ed ha vinto i più importanti premi letterari in Italia e nel mondo. Ha avuto assegnato il premio Anassilaos alla carriera. Opere del Tassone sono state tradotte in inglese ed in bulgaro. Il Tassone è oggi considerato il massimo esponente vivente del dialetto calabrese e dell’etnografia religiosa. Ha pubblicato oltre trenta volumi.

ANGELO CUTOLO Nasce il 4 luglio 1972 , consegue la laurea in Geologia presso l’ Università degli Studi di Napoli Federico II, attualmente, oltre alle attività professionali si occupa di storia locale irpina, avendo già all’attivo la realizzazione del seminario di studi “Un pittore avellinese dell’Ottocento Giovanni Battista (1858 - 1925); all’interno del quale ha personalmente relazionato su diversi pittori irpini dell’800.


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SAVERIO VERDUCI ( Melito Porto Salvo, 1979 )Storico e giornalista divulgatore si è laureato in Lettere Moderne presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ Università degli Studi di Messina nel 2006 con una tesi di laurea dal titolo: “La Calabria nello spazio mediterraneo in epoca romana.Produzioni, rotte e commerci”. Nel 2007 ha conseguito presso la medesima facoltà il Perfezionamento post-laurea in storia e filologia: dall’antichità all’età moderna e contemporanea con una tesi dal titolo: “ I rapporti commerciali tra la Sicilia e le provincie orientali in epoca tardoantica”. Nel 2010 ha conseguito il Perfezionamento post-laurea in studi storico - religiosi e nel 2011 ha conseguito il Master di II Livello in Architettura e Archeologia della Citta Classica presso la Scuola di Alta Formazione in Architettura e Archeologia della Città Classica dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria con una tesi dal titolo “ Rhegion fra Atene e Dionisio I ”. Studioso di storia antica e medievale si occupa della valorizzazione della plurimillenaria storia del territorio reggino e segue con particolare interesse la ricostruzione delle vicende storiche relative al territorio di Leucopetra ( Lazzaro) dove egli vive.Nel 2012 è stato nominato membro della giuria Premio Letterario “ Metauros ” sez. A – Libro edito di storia locale e nel 2013 sempre per il medesimo premio ne è stato nominato presidente di giuria della stessa sezione. Collabora inoltre con l’Istituto Comprensivo Motta San Giovanni ormai da alcuni anni in qualità di esperto e referente storico per i vari progetti di ricerca storica sul territorio lazzarese e mottese.Attualmente collabora con le riviste Costaviolaonline.it per la quale cura le pagine di approfondimento storico, con il portale Grecanica. com - voci dalla Calabria greca, con il sito Lazzaroturistica.it per il quale cura le pagine di storia e di archeologia, e con la rivista di studi storici Cesar.

FELICE DELFINO Nato il 04 Ottobre del 1979 a Oppido Mamertina (Rc), ha conseguito nel 2009 il Magistero presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Mons. Zoccali” di Reggio Calabria. Ha insegnato per due anni religione e cultura storico-sociale presso la Do.Mi. di Villa San Giovanni ed ha collaborato con alcune riviste storico-culturali locali pubblicando articoli religiosi per la rivista dell’Associazione Mariana “Amici di Fatima” di Rosalì (Rc), ma anche articoli e saggi storici con alcune riviste cartacee e online tra cui costaviola online. Appassionato da anni alla storia ebraica ha preso parte a diversi convegni incentrati sugli ebrei reggini (nel 2011 al Palazzo della Provincia di Reggio Calabria, evento organizzato dalla Fi.da.pa di Rc, insieme con l’avv. Franco Arillotta e con lo storico Natale Zappalà; nel 2012 nella conferenza presso la sez.UNLA di Arghillà Gallico). Ha pubblicato nel 2013, con la casa editrice Disoblio di Bagnara Calabra, il libro “La presenza ebraica nella storia reggina”. Attualmente vive a Catona (Rc).


UOMINI DI CULTURA

Giulio Rizzo

Rizzo, Giulio Emanuele. - Archeologo italiano (Melilli 1869 - Roma 1950); ispettore al Museo di Napoli, quindi agli scavi del Foro e Palatino e poi al Museo nazionale romano; prof. all’univ. di Torino, poi di Napoli e di Roma; socio nazionale dei Lincei (1923). Scrisse una monografia su Prassitele (1932); nel campo della pittura, oltre a un volume su quella ellenistico-romana (1930) e al saggio sul fregio della villa dei Misteri, diresse un Corpus delle pitture scoperte in Italia; all’architettura dedicò fra l’altro la monografia sul teatro di Siracusa (1923); sulla numismatica concentrò l’interesse dei suoi ultimi anni di intenso lavoro, concretato nell’opera monumentale sulle monete greche della Sicilia (1946).

Per ulteriori approfondimenti : http://www.treccani.it/enciclopedia/Giulio Rizzo


NOVOTA’ DAL...

IN ARRIVO DALLA SVIZZERA UN CARICO DI ETRURIA!

Riprendono la strada di casa 45 contenitori pieni di reperti provenienti da scavi clandestini. Il tutto nasce a seguito di una procedura penale internazionale condotta dalla procura di Ginevra e partita dalla segnalazione, nel marzo del 2014, da parte delle autorità italiane del sequestro di un sarcofago etrusco, rappresentante un uomo e una donna sdraiati, sospettato di essere passato attraverso la frontiera svizzera. La successiva inchiesta, eseguita dal procuratore di Ginevra, Carlo Mascotti, ha portato al rinvenimento “in un magazzino della città” di un vero e proprio tesoro costituito da reperti archeologici di grandissimo valore: sarcofagi, monete, terrecotte, busti etc. appartenenti al periodo etrusco e che sembrano provenire da scavi clandestini condotti in terre etrusche (Lazio e Umbria in particolare) già oggetto di indagini da parte della Polizia Italiana. I reperti sono rimasti per quindici anni presso Port-Francs a Ginevra, all’interno di alcune scatole contrassegnate con il nome di una società off-shore e probabilmente destinate a un mercante inglese, già coinvolto in traffici illeciti di materiale archeologico. La procura di Ginevra ha ordinato il rimpatrio in Italia di tutti i reperti rinvenuti per Luglio 2015 tuttavia, a causa di alcuni ritardi burocratici, fino a oggi i pezzi si trovano ancora in Svizzera.


...LIBRI


ITALIA CONCORSI

I T A L I A

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*”videomakARS Venice Edition”: imparare a usare i droni http://www.giovaniartisti.it/news/2016/02/17/ novit%C3%A0-dal-concorso-videomakars-venice-edition-imparare-usare-i-droni

*Concorso per video “I giovani contro il razzismo e il pregiudizio antiebraico”. Il 15 marzo scade il termine per l’invio dei lavori http://www.giovaniartisti.it/news/2016/02/24/promemoria-concorso-video-i-giovani-contro-il-razzismo-e il-pregiudizio-antiebraico*Concorso Nazionale di poesia e pittura per ragazzi dai 3 ai 14 anni “Colori e Parole” XII Edizione

C O N C O R S

C O N C O R S

C O N C O R S

http://www.concorsiletterari.it/ concorso,5889,Concorso%20Nazionale%20di%20poesia%20e%20pittura%20per%20ragazzi%20dai%20 3%20ai%2014%20anni%20%22Colori%20e%20Parole%22 *Premio Artistico-Letterario Una Cartolina da Matera IV Edizione - anno 2016

http://www.concorsiletterari.it/ concorso,5715,Premio%20Artistico-Letterario%20 Una%20Cartolina%20da%20Matera *Procedura di selezione a contratto determinato per la durata di 9 mesi di 60 esperti per il patrimonio culturale https://www.mibact-online.beniculturali.it/web/home

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SAVERIO VERDUCI DAVIDE MASTROIANNI VINCENZA TRIOLO FELICE DELFINO CRISTINA VERSACI


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