Cesar aprile

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RIVISTA ONLINE 2015

N-10

Gioia Tauro (RC) 89013 RIVISTA ONLINE


Al Suono Delle Eolie

Al morir del suono delle Eolie Placa l’ira e dorme l’errante Odisseo. I Ciclopi dal Mongibello Lanciano incandescenti sassi, lapilli e sbuffano nubi nere, mentre le Sirene ammaliano i naviganti che osano varcare lo Stretto. Scilla e Cariddi Si guardano in cagnesco Nel tempo ,al pizzichìo delle Eolie, Omero canta, Vulcano e Stromboli chiamano il fratello Etna ed al risveglio trema Zancle e Rhegjon Soave tramonto al morir del suono delle Eolie! ROCCO GIUSEPPE TASSONE


INDICE -ARCHEOLOGIA E

ARCHEOMETRIA

-IL MUSEO IPOGEO -CRISTO,MADONNA,APOSTOLI E SANTI IN CALABRIA -LUDI GLADIATORI (II parte) -SANTA MARIA DE’ TRIDETTI -PAOLO ORSI -BIBLIOGRAFIA DEGLI ARTICOLI

-BIBLIOGRAFIA DEGLI ARTICOLI -PARLANDO DI -UOMINI DI CULTURA-NOVOTA’ DAL.... -LIBRI -ITALIA CONCORSI -EVENTI -CESAR


Archeologia e Archeometria

“per una datazione della cultura materiale”

Introduzione Il termine archeometria ingloba tutti quei metodi che occorrono per “misurare l’antico”. Tale misurazione avviene attraverso l’utilizzo di applicazioni dei principi e delle tecniche tipici delle scienze esatte o naturali. I metodi archeometrici introducono, nell’archeologia, dei metodi tipici delle scienze esatte, creando inevitabilmente un sinapsi fra gli ambiti della “ricerca umanistica” e quella delle “scienze naturali”. L’oggetto stesso della ricerca archeometrica permette di rendere possibile questa interdisciplinarietà: essa si rivolge, con una prospettiva diacronica, allo studio del territorio, in quanto contesto archeologico, e della materia, in quanto materiale di lavoro e produzione di oggetti che, successivamente, saranno classificati come Beni Culturali. L’archeometria risponde a tre domande, il come, il dove e il quando un determinato evento storico si sia prodotto; il perché non può ritenersi una domanda alla quale le tecniche archeometriche possono rispondere, in quanto riguarda una step successivo, quello della interpretazione dei dati la quale è connessa alle condizioni ed alle considerazioni “soggettive” del ricercatore, nel nostro caso l’archeologo, che studia il contesto spaziale nel quale l’oggetto è stato rinvenuto. Un campo di applicazione, particolarmente utile agli studi di carattere archeologico, è quello dei manufatti ceramici. Grazie alle tecniche di indagine archeometrica e alla sinergia tra le scienze fisiche, chimiche, geologiche e naturali, è possibile “interrogare” il singolo manufatto; come, dove e quando è stato prodotto. Per conoscere, praticare e comprendere i risultati di una disciplina occorre conoscerne innanzi tutto la storia, quindi i metodi e le tecniche. Lo studio archeometrico delle ceramiche s’inserisce in un ben più ampio campo di studi, finalizzato all’indagine estensiva e/o puntuale delle aree e dei materiali archeologici. Le primissime indagini archeometriche risalgono agl’anni 30 dell’Ottocento e si basavano su tecniche e metodologie proprie della chimica; i primi veri esperimenti nel campo della datazione, furono effettuati nel 1920, in particolare nella dendrocronologia, da A. Ellicot Douglas dell’Università dell’Arizona. R. Pittioni, negl’anni 30 del secolo scorso, si dedicò, invece, alla caratterizzazione dei manufatti, con l’applicazione delle analisi degli elementi in traccia su oggetti in rame e bronzo. Durante gli anni Cinquanta vengono pubblicate numerose riviste scientifiche su altrettanti temi archeometrici, archeometallurgici, geoarcheologici e problematiche legate alla conservazione dei reperti. Tra le diverse pubblicazioni sono da ricordare: A History of Technology, Ceramics for the archaeologists, Soil for the Archaeologist, The Conservation of Antiquities and Technology. Il termine archeometria fu coniato ed utilizzato per la prima volta come titolo di una rivista specializzata “Archaeometry”, pubblicata dal 1958 dal “Research Laboratory for Archaeology and History of Art” dell’Università di Oxford, con il preciso scopo di favorire una fattiva collaborazione fra scienziati, archeologi e storici dell’arte. Durante gli anni Sessanta, grazie alle nuove prospettive introdotte dalla New Archaeology, furono affrontati i diversi aspetti metodologici inerenti l’integrazione tra l’Archeologia e l’Archeometria, i quali confluirono in due opere fondamentali: The Science in Archaeology e Scientists and Archaeology. Nel 1960, A. Westgren consegnò il Premio Nobel per la chimica a W. F. Libby, per la sperimentazione e l’applicazione della metodologia C14 alle indagini archeologiche, presso The Royal Swedish Academy of Sciences. . In Italia, ha inizio l’attività della “ Sezione di Mineralogia applicata” (1967), grazie all’attiva partecipazione di T. Mannoni. Negli anni Settanta, in Inghilterra e negli Stati Uniti, l’approccio archeometrico divenne uno strumento essenziale della ricerca archeologica, mentre l’Italia era divisa tra sostenitori e scettici del metodo. 1


Negli anni Ottanta e Novanta, gli studi si intensificarono e gran parte delle tecniche analitiche, usualmente impiegate nelle scienze, viene, opportunamente e vantaggiosamente, applicata allo studio dei materiali e delle aree archeologiche. Un’ulteriore conquista della disciplina è l’odierna istituzione di corsi universitari di Archeometria, i quali forniscono un’adeguata preparazione sia ad archeologi sia a scienziati, relegando in parte al passato l’accezione pionieristica che aveva contraddistinto gli esordi di questa disciplina. Le differenti tecniche di indagine archeometrica in archeologia. Le indagini archeometriche usufruiscono delle tecniche analitiche, comunemente impiegate per lo studio dei materiali organici ed inorganici. Le più comuni tecniche analitiche, utilizzate per lo studio dei manufatti ceramici, possono essere suddivise in differenti categorie: • fonte di sollecitazione del campione (fotoni, elettroni, protoni ecc.); • area indagabile (analisi macroscopiche e microscopiche); • modalità di preparazione del campione (distruttiva, paradistruttiva, non distruttiva); • tipologia di indagine archeometrica, per cui sono solite essere impiegate (provenienza, tecnologia, conservazione e datazione). Tecniche impiegate per le indagini di provenienza, di tecnologia e di conservazione La microscopia ottica (Optical Microscopy - OM) in luce polarizzata, su sezione sottile, è la tecnica più impiegata ed anche la più economica. L’analisi consente la determinazione qualitativa delle fasi minerali e l’acquisizione di informazioni strutturali. La preparazione del campione prevede l’esecuzione della sezione sottile, ovvero di una pellicola, dai 4 ai 6 cm², estremamente sottile, circa 30 micron, fissata su di un vetrino mediante un collante. L’analisi richiede, in media, alcune ore per campione e fa parte del gruppo delle tecniche paradistruttive. In archeometria, la microscopia ottica è impiegata non solo per lo studio delle ceramiche, ma anche di moltissimi altri tipi di reperti, organici ed inorganici. La microscopia elettronica a scansione (Scanning Electron Microscopy - SEM) è una tecnica molto utilizzata. La strumentazione consente di eseguire analisi strutturali e di determinare la composizione elementare a scala micrometrica. Tuttavia, la composizione degli elementi, con numero atomico inferiore a 8, è da considerarsi con cautela. La preparazione del campione può limitarsi alla metallizzazione; deve quindi essere reso conduttivo o prevedere l’esecuzione di una sezione lucida, per frammenti di grandi dimensioni o superfici curvilinee. L’analisi richiede in media alcune ore, per campione, e si suddivide in cinque fasi: • un filamento di tungsteno produce un fascio di elettroni che colpisce il campione in condizioni • • • •

di vuoto (il vuoto è necessario per evitare la collisione con le molecole d’aria e la conseguente deviazione degli elettroni); produzione di elettroni secondari e retro diffusi; gli elettroni secondari e retro diffusi vengono raccolti dal rilevatore e convertiti in segnali elettrici; il software converte i segnali elettrici in pixel, ottenendo l’immagine della superficie del campione; la microanalisi permette l’analisi semi-quantitativa della composizione chimica della superficie del campione.

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La microscopia elettronica a scansione fa parte del gruppo delle tecniche non distruttive e paradistruttive. In archeometria, è impiegata, non solo per lo studio delle ceramiche, ma anche di moltissimi altri tipi di reperti. La microscopia elettronica a trasmissione (Transmission Electron Microscopy-TEM) è una tecnica che consente di effettuare ulteriori analisi elementari. Differentemente dal SEM, la scala di osservazione del TEM è nano metrica; l’energia conferita agli elettroni è molto più elevata e l’immagine è il risultato del passaggio degli elettroni attraverso il campione. La preparazione di quest’ultimo prevede il distacco e l’assottigliamento di una porzione minuscola dello stesso (diametro 2 mm; spessore non più di poche centinaia di nano micron). Questa tipologia di analisi rientra nel gruppo delle tecniche non distruttive per l’esigua quantità di campione necessaria all’indagine; in archeometria, la tecnica è prevalentemente impiegata per lo studio dei rivestimenti ceramici, quali le vernici e gli smalti. La microsonda elettronica (Electron Probe Micro Analysis - EPMA), analogamente al SEM, è una tecnica che richiede una simile preparazione del campione; consente di lavorare in assenza di aria, permettendo l’acquisizione di immagini e la caratterizzazione chimica dei materiali. Diversamente dal SEM, l’intensità dei raggi X secondari è più elevata, i tempi di analisi sono più lunghi, ma l’accuratezza del risultato è maggiore. Questo tipo di analisi fa parte del gruppo delle tecniche paradistruttive e in archeometria, è impiegata per lo studio di numerosi tipi di materiali archeologici, ceramici e non. La micro-spettroscopia Raman permette di analizzare composti organici e inorganici, senza bisogno di alcuna preparazione del campione. L’analisi richiede tempi che variano da alcuni secondi a pochi minuti. La spettroscopia Raman è una tecnica non distruttiva ed è utilizzata per lo studio dei pigmenti e l’analisi dei rivestimenti ceramici. La spettroscopia infrarossa in trasformata di Fourier consente l’analisi qualitativa e semi-quantitativa di elementi organici ed inorganici, fornendo la cosiddetta “impronta digitale” del composto in esame. La preparazione del campione prevede la macinatura fine dello stesso, nonché la dispersione in olio o la pressatura della polvere. In archeometria, la spettroscopia infrarossa è impiegata per lo studio delle ceramiche, delle resine naturali quali l’ambra, dei pigmenti, della carta e degli inchiostri. DAVIDE MASTROIANNI

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Il «Museo Ipogeo» di Mugnano di Napoli Le indagini archeologiche degli ultimi decenni hanno ridefinito la millenaria storia del Meridione, culla della civiltà occidentale, offrendo nuove occasioni di conoscenza. Nel Comune di Mugnano di Napoli, situato a circa 10 km dal capoluogo partenopeo, gli studi intrapresi nel 1998 dall’Archeologo Davide Fabris (foto 1) hanno portato al rinvenimento in contrada «Paparelle» di un vasto complesso abitativo e funerario, unico esempio attestato in Campania, della prima età ellenistica ascrivibile alla cultura osco-sannita di IV-III secolo a.C. (foto 2). La scoperta archeologica riveste un’importanza notevole per la storia degli antichi centri rurali gravitanti intorno a Neapolis in età preromana. La nota peculiare di questo insediamento è costituita da tratti di fondamenta in muratura caratterizzati da una particolare tecnica Fig. 1 _Archeologo Davide Fabris costruttiva a blocchi di tufo alternati da un getto «a secco» di scardoni del medesimo materiale. La copertura era verosimilmente composta di architravi lignee e tegoloni fittili i cui resti sono presenti su tutto il piano di calpestio.L’adiacente necropoli ha restituito una settantina di sepolture per adulti e infanti, alcune delle quali devastate da scavatori clandestini. La tipologia è composta dalle più ricorrenti deposizioni a cassa di tufo giallo con copertura piana seguite da quelle più modeste a tegoloni e a semplice fossa terragna. Gli oggetti recuperati, che ammontano a poco più di un centinaio, sono omogenei con quelli di altre necropoli del comprensorio. La presenza di prodotti provenienti da Napoli e Capua evidenzia l’intenso rapporto di scambi commerciali delle comunità italiche con i Greci costieri e Fig. 2 _ Insediamento rurale e necropoli di contrada Paparelle (IV-III secolo a.C.) gli Etruschi del retroterra. I corredi funerari degli adulti presentano ceramiche da mensa (foto 3) o connesse al rituale delle offerte e delle libagioni sacre. Nelle sepolture maschili sono presenti armi, che denotano l’ideologia guerriera delle compagini osco-sannite, e oggetti da toeletta d’incipiente gusto ellenizzante mentre ornamenti personali caratterizzano quelle femminili. Particolarmente utili per la lettura cronologica del sito sono, infine, una decina di monete bronzee di zecca neapolitana, risalenti alla fine del IV secolo a.C., alcune delle quali recano la testa di Apollo e la legenda a caratteri greci . La prosecuzione delle ricerche archeologiche dal 2001 al 2005 ha riportato alla luce particolari opere idrauliche in un’area soggetta alla stagnazione delle acque meteoriche o di portata torrentizia provenienti dalla collina Fig. 3 _ Corredo funerario flegrea dei Camaldoli. 4


Fig. 5 _ Il Museo Ipogeo

Fig. 4_ Scuola Media Statale «Filippo Illuminato-Luigi Cirino»

Sono presenti un pozzo, vasche a canalette comunicanti e una profonda cavità con rampa di gradini da interpretare come cisterna o cava di estrazione di materiali. Dalla cavità sono stati prelevati blocchi di tufo lavorati, di elevato livello qualitativo, che indicherebbero l’esistenza di un preesistente edificio monumentale di cui s’ignora la natura pubblica o privata. La successiva costruzione in situ dell’edificio scolastico «Filippo Illuminato-Luigi Cirino» (foto 4) ha comportato la singolare «musealizzazione» di queste preziose vestigia inglobandone parte nel piano cantinato che costituirà il «Museo Ipogeo» in fase di completamento (foto 5). Il Museo nasce da un’iniziativa promossa dall’Associazione Studi Meridionali «N’Azione Napoletana» di Giugliano in Campania (NA) nell’ambito del Progetto Polivalente «Oskoi-Arte e Cultura Napoli Nord», in collaborazione con l’Associazione Culturale «Alice» di Mugnano di Napoli e con l’approvazione della Commissione Beni Culturali e Ambientali del Parlamento Europeo. Quest’articolato progetto, a cura dei Prof.ri Architetti Lucio e Giulia Morrica dell’Università degli Studi «Federico II» di Napoli, esibisce una funzionalità del tutto nuova quale soluzione più idonea per la divulgazione dell’evento. Oltre alle fondazioni murarie, sono rese visibili alcune sepolture comprese nella loro originaria massa terrosa o «zolla» che contestualizza parzialmente il sito archeologico. Un originale percorso sinuoso e irregolare rende vivace l’eccessiva e severa linearità degli ambienti con la visione ravvicinata dei manufatti. I corredi funerari saranno esposti in apposite vetrine con pareti di mattoni che avranno la valenza di vera e propria «quinta scenografica». Il «Museo Ipogeo» rappresenta non soltanto un arricchimento di valore ambientale e culturale ma anche una sfida per il rilancio della periferia napoletana contro il degrado che attualmente la caratterizza. DAVIDE FABRIS

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Cristo, Madonna, Apostoli e Santi in Calabria Leggende e Tradizioni

La Calabria e il sacro: una storia ultra – millenaria che ha interessato il territorio regionale in una molteplicità di aspetti e di eventi. L’eccessivo zelo religioso dei fedeli calabresi a volte è confluito in svariate forme e manifestazioni di religiosità col rischio di sfociare nella superstizione o in altri casi nella leggenda o in narrazioni “colorite a forte tinte” da facies mitiche-religiose. Andando a ritroso nel tempo, anche solo di qualche decennio, numerose erano le credenze. Il punto di partenza è stata la trasmissione orale di questa pluralità di storie tramandate, di generazione in generazione, come eredità, all’interno dei nuclei familiari, anche come semplice forma di intrattenimento. La trascrizione ha invece consentito la corretta trasmissione ai posteri, assicurando così un continuum cronologico. Lo steep successivo è rappresentato dalla divulgazione consentendo il radicarsi nella coscienza popolare, un processo fondamentale finalizzato a garantirne la sopravvivenza, al travagliato e laborioso processo di trasmutazione sociale, che ha risentito fortemente dei progressi tecnologici e scientifici a cui è stata sottoposta l’intera società italiana. La conseguenza è che elementi tipici della tradizione popolare risultano incredibilmente ancora manifeste in una società che dovrebbe appellarsi maggiormente al razionale piuttosto che alla sfera fantastica. In Calabria sono disponibili, un’ampia gamma di racconti di ambito sacro ma parzialmente o totalmente assenti di substrato storico per cui risultano poco o per nulla attendibili, ascrivibili piuttosto all’immaginario collettivo. Ciò nonostante essi rivestono ugualmente una particolare importanza per il fascino o per il simbolismo unico e peculiare, che intrinsecamente contengono. Pittoresca la credenza secondo cui il legno con cui fu fabbricata la croce di Cristo è proveniente dalla Sila. Un dato che attesterebbe un importanza ulteriore al legno degli alberi aspromontani, rinomato già al tempo dei Romani, quando la Congregazione dei dendrofori ricavava con esso veloci imbarcazioni. Anche il racconto che i chiodi utilizzati per crocifiggere Gesù Cristo sono stati realizzati nelle fucine di Grotteria. Questo spiegherebbe perché i nomi di Judeca, Judei o Judecari, sono stati adoperati in senso offensivo da parte delle popolazioni confinanti, considerando che nei primi secoli del cristianesimo si è considerati gli Ebrei deicidi, intesi come i diretti responsabili della morte di Cristo, una colpa con cui è stata motivata la loro persecuzione. Partendo da questo presupposto chiamare un Grotterese con l’appellativo di Judeo o Judecaro, equivaleva annoverarlo come carnefice dell’assassinio di Cristo. È una credenza e poco più che poggia le basi su idee sviluppatesi nel Cristianesimo delle origini come quella secondo cui i fustigatori di Cristo furono Bruzi, un dato non certo, ma non completamente confutabile, considerando che ai tempi di Cristo, la presenza in Palestina di carcerieri Bruzi non è improbabile. Per verificarsi della resistenza degli abitanti del Bruzio e dell’alleanza sancita con il Cartaginese Annibale, nemico di Roma, dopo la vittoria su quest’ultimo, i Romani avevano ridotto in schiavitù i Bruzi mandando alcuni di essi al seguito dei magistrati romani nelle Province Romane e, quindi, anche nella Giudea e questa loro presenza perdurò sotto Ponzio Pilato. Ci sono poi quei testi che fanno riferimento con gli opportuni adattamenti testuali, operati e diversificati a seconda di ciascun comprensorio territoriale, all’arrivo di Cristo e dei Dodici, o alla Madonna ai quali la tradizione attribuì gesti prodigiosi. In verità, né le cronache storiche né tantomeno i riferimenti biblici ricordano che l’attività evangelica si spinse mai in Calabria, ad eccezione di San Paolo. Sappiamo in realtà che l’Apostolo delle Genti, pur non conoscendo direttamente Cristo, permise la diffusione del Cristianesimo allargandolo ai gentili, facendo oltrepassare il messaggio d’amore, d’uguaglianza e di salvezza di Gesù, oltre i confini della Palestina.

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Paolo percorse la rotta commerciale prima di giungere nella caput Imperii, e di essere giudicato nel tribunale romano. Naturalmente giunse a Reggio, scalo obbligato dove come ricorda la tradizione, compì il miracolo della colonna infuocata predicando la Parola di Dio ai pagani reggini che prima di allora non avevano mai ascoltato quella Buona Novella. Discorso a parte si deve fare coi Dodici; essi nell’attività itinerante si spinsero in ben altri lidi, e il loro arrivo in Calabria è fittizio anche se il volgo calabrese ne parla con convinzione e fermezza come se esso si fosse verificato realmente.

Alcune di queste credenze sono note altre un po’ meno, ma rivestono comunque una valenza particolare. Ancora oggi si ricorda di Careri e della montagna di Pietra Cappa, dove si dice giunsero Gesù e i suoi discepoli nel corso della loro opera predicatrice. Stanchi ed affamati per il lungo strenuo peregrinare, non trovando cibo in paese, ricevettero l’ordine dal loro Maestro di prendere dei sassi e di trasportarli nella zona sovrastante il borgo. L’astuzia di Pietro, lo indusse a prendere un sassolino, evitando la fatica del farsi carico, durante il tragitto, di un grosso peso, lascerà presto spazio alla delusione, nel momento in cui Gesù trasformerà miracolosamente quelle pietre in pane. Ciò provocò stupore e incredulità nell’animo dell’Apostolo, ritrovandosi con poco o quasi nulla con cui sfamarsi. La narrazione prosegue ma si biforca, riguardo alla conclusione, nelle due varianti che rendono ancor più pittoresca questa vivace storia: se da un lato, c’è chi ricorda come al successivo ordine del maestro di trasportare altri sassi, Pietro scelse un macigno più voluminoso, speranzoso della trasmutazione, rivelatasi poi vana, in una grossissima e deliziosa pagnotta con cui saziare la propria ingordigia; il finale alternativo invece insiste sul pentimento di Pietro, il quale per redimersi della colpa commessa, ingigantì il masso con un impercettibile tocco del suo dito che accrebbe in altezza e in larghezza la pietrolina dando luogo alla montagna di Pietra Cappa, a ricordo della malizia dello stesso “Cefa”.

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La leggenda vuole che Gesù e i suoi proseguirono il loro tragitto anche ad Antonimina, dove c’erano grosse pietre ognuna delle quali aveva un nome particolare indicate e contenenti una personalissima storia narrata dettagliatamente da un pastore che fece da Cicerone in quei luoghi ai santi visitatori. Pietro iniziò a lamentarsi che non ci fosse una pietra a lui dedicata e lanciò un sasso verso una montagna, il quale fece tre balzelli in cima e da quel gesto sorse una roccia a tre punte ricordata sempre come U Tre Pizzi conosciuta dagli abitanti anche come Pietra di San Pietro. A Palmi, gli anziani del luogo ricordano l’episodio della morte e sulla rinascita miracolosa dell’apostolo Andrea; di questa storia esistono in loco ben tre varianti distinte con la denominazione di Palmi A, Palmi B e Palmi C. Le differenze sostanziali di questi tre racconti interessano sia la funzione del protagonista sia altri elementi (Andrea è qui indicato ora come Apostolo del Cristo, ora come monaco ora come discepolo di un maestro); Ogni adattamento presenta una diversa ambientazione così come diversi sono i personaggi che fanno da sfondo. Il racconto più diffuso di tale tradizione è incentrato principalmente su due temi costituenti il fulcro narrativo: la colpa e l’espiazione; in tal senso Andrea è colpevole di aver rifiutato in un frangente l’attività missionaria per cercare cibo. Proprio perché reo di tale mancanza, la leggenda palmese, pone l’accento come Andrea, debba redimersi sacrificando la sua stessa vita ardendo tra le fiamme. Tra le ceneri del rogo rimane miracolosamente intatto il cuore ancora pulsante di vita, che viene raccolto e deposto con accuratezza all’interno di un fazzoletto dal discepolo Pietro e dato successivamente in custodia ad una locandiera. Il profumo celestiale di mille fiori proveniente proprio da quel fagottino, spinse la ragazza ad aprirlo, vedrà incuriosita il cuore ed inizierà a baciarlo. La dolcezza dell’organo, indurrà così la locandiera a mangiarlo pezzo per pezzo: sarà un banchetto con una conseguenza prodigiosa: la donna resterà incinta e il bambino che partorirà sarà chiamato Andrea. Se i tre testi dell’area palmese, presentano il racconto con certe connotazioni altrettanti varianti si svilupparono in altre zone calabresi (Gioia Tauro, Taurianova, San Mango d’Aquino, Scido e Palmi) ed in altre regioni italiane tra cui la Sicilia e l’Abruzzo . Ovviamente, Sant’Andrea, come è noto, ebbe un altro tipo di morte: fu martirizzato in una croce a forma di “x”, la denominata “croce di Sant’Andrea per l’appunto. Il tema centrale, è tuttavia generalmente quello: il protagonista è un uomo, di nome Andrea, che muore e rinasce nel ventre di una vergine; due aspetti (nascita da vergine/resurrezione) che sono centrali nella fede cristiana, pur essendo in verità, senza turbare la Fede dei credenti, presenti e ricorrenti anche nel paganesimo. A Salice, frazione di Catona di Reggio Calabria, vi è invece una narrazione leggendaria su Sant’Ignazio di Loyola, fondatore dell’ordine gesuita (anche la Chiesa locale è gesuita). Durante una terribile alluvione, un monachello, il cui volto era molto simile a quello raffigurato nella statua del santo posta nella chiesa locale, si diresse verso la fiumara Catona e precisamente si collocò nel punto in cui l’argine non riusciva più a trattenere l’acqua. Il monaco, dopo aver poste le sue mani dietro al collo e con la schiena ricurva iniziò a trattenere con forza un muraglione, fungendo da scudo. La piena passò oltre lasciando intatto il muro e miracolosamente illeso il paese.

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Anche la toponomastica calabrese è ricca di elementi mitico-religiosi. Consiglio ai turisti che si aggirano nelle zone limitrofe allo svincolo di Bagnara Sant’Elia e che esce a Seminara, di recarsi nei pressi di una grossa pietra e di osservarla attentamente. Qui sono sigillate le impronte che hanno fatto sì che essa acquisisca il ricordo di “Pietra del diavolo”, descritta dal palmese Nicola Oliva nel cantico Monte Aulinas. Il diavolo che lasciò traccia in quel luogo del suo passaggio fu però contrastato da Sant’Elia il quale lo afferrò dalla coda lanciandolo verso le isole Eolie. Non solo altri relitti toponomastici regionali (la Rocca del Drago di Roghudi e la Mano del Diavolo di Pentidattilo ) o nazionali ma anche altri sparsi in tutto il mondo fanno riferimento alla presenza del maligno e così nei paesi baschi abbiamo il ponte di Castrejana a Barakaldo, punto di transito per i pellegrini cristiani che partendo dai Pirenei seguono il percorso verso Santiago di Compostela, ricordato anche come “il ponte del diavolo” o “la torre del diavolo” negli Stati Uniti. Il variegato panorama tradizionale calabrese ricorda anche episodi miracolosi attribuiti alla Madonna, realmente mai accaduti, al contrario di apparizioni, prodigi autentici o delle vere intercessioni compiute realmente in Calabria dalla Santa Vergine. Uno di questi descrive Maria in fuga nel territorio calabro dai soldati Romani, insieme al piccolo Gesù in fasce e allo sposo Giuseppe. I tre fuggitivi trovano rifugio in un campo di luppini, ma un forte vento improvviso scuote però i luppini emettendo uno stridio forte che segnala alle guardie la loro presenza. Sono pertanto costretti a dirigersi altrove nascondendosi tra le fronde di un grosso fico. Il tradimento dei luppini li renderà così maledetti ed amari nel sapore, al contrario, l’albero di fico, riparo efficace e sicuro per la Sacra Famiglia, verrà benedetto e reso dolce. Sempre a Salice, c’è la credenza secondo la quale la statua della Madonna della Misericordia, oggi custodita nella chiesa gesuita locale, ha il dito della mano sinistra rivolto in direzione delle acque, a ricordo del leggendario gesto che salvò la Chiesa salicese da una terribile alluvione che sconvolse il territorio catonese, minacciando la vita dei suoi abitanti. In occasione di una successiva alluvione, la Madonna, sollevando il suo manto con la mano destra, forse per non bagnarlo con l’acqua straripata ed indicando ancora una volta il torrente, fa rientrare nel suo alveo l’acqua che gradualmente stava per sommergere il paese.

anziani della provincia reggina ricordano tanti altri espedienti prodigiosi; a Gallico qualcuno fa ancora oggi memoria di una miracolosa campana. Si narra che la campana in questione rappresentasse, insieme a tante altre, il carico di una nave che durante la navigazione sulla Stretto di Messina fu coinvolta in una terribile bufera e stava pertanto affondando. Il comandante allora guardando con sconforto verso terra vide in lontananza una chiesetta e disse tra sé: “Madonna mia, se ci salvi da questa burrasca ti regalerò la campana più bella che è su questa nave!” La bufera cessò e il comandante si accinse a sciogliere il suo voto, quando all’improvviso dalla stiva si sentì un suono meraviglioso. 9


La scelta ricadde ovviamente sulla campana che lo emanava e questa dopo essere stata presa e collocata sulla torre campanaria della chiesetta della Madonna delle Grazie, ha deliziato per anni, grazie al suo suono melodioso, l’intera vallata del Gallico. Purtroppo a causa di un ignaro evento, naturale o umano, la campana cadde a terra e si spezzò. Allora, il commendatore Trapani-Lombardo, che tra l’altro regalò il terreno del Parco della Mondialità, fece fondere la campana e con quel bronzo fuso ne fece costruire una nuova, ma il suo suono non fu più lo stesso. Oggi, questi racconti stanno parzialmente estinguendosi a causa del disinteresse e dell’incuria giovanile, ma è bene alimentare la loro sopravvivenza tramandandoli evitando che questi tasselli caratteristici della nostra cultura vengano dispersi “nell’oblio della dimenticanza”, tenendo a mente però un dato: anche se riferibili a tematiche religiose non hanno nulla a che vedere con la religione autentica e da essa vanno nettamente distinta. Come asseriva Il filosofo Thomas Hobbes: “la credenza in una forma invisibile non ufficialmente riconosciuta si dice superstizione. Se invece c’è il riconoscimento ufficiale, la chiamano religione”. FELICE DELFINO

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Ludi Gladiatori parte II

L’organizzazione e lo svolgimento dei ludi dovevano seguire determinati schemi, anche se,la programmazione degli stessi poteva avvenire per i più svariati motivi, di certo, i costi erano molto elevati e il tempo impiegato per la loro organizzazione era molto lungo. L’editor(l’organizzatore) peringaggiare i gladiatori doveva rivolgersi al lanista, cioè, il loro “impresario”; le “condizioni” applicate erano due: o venivano venduti oppure affittati, in questo caso veniva pagatosolo “l’affitto” per i gladiatori sopravvissuti,mentre, quelli morti, durante i munera, venivano acquistati. Oltre a svariate coppie di gladiatori scendevano nell’arena:venatores, animali esotici, giocolieri, condannati a morte e, soprattutto,erano parte integrante dei ludi quei macchinari che coordinavano scenografie straordinarie. Per le venationes,invece, era più difficile procurarsi gli animali anche se esisteva un mercato specializzato nella vendita delle varie specie di animali destinate a questo tipo di spettacoli. Mentre, per quanto concerneva i condannati a morte, l’editor, si doveva rivolgere semplicemente ai magistrati preposti. Lo spettacolo veniva“pubblicizzato”attraverso programmi scritti sui muri degli edifici pubblici (un esempio ne sono le pareti di Pompei), delle case private ma anche tramite volantini, chiamati libella muneraria e, venduti nelle strade per essere poi consultati durante gli spettacoli. Le informazioni che venivano date erano varie come: il motivo per cui erano offerti i ludi, chi li organizzava, l’elenco delle coppie di gladiatori che vi partecipavano e le armi che, gli stessi, avrebbero usato. Vi erano, inoltre, anche altre informazioni circa l’apertura del velario, se ci sarebbero state le sparsiones(vaporizzazione d’acqua mescolata ad essenze floreali quali croco o zafferano per mitigare il caldo)e,soprattutto, le missilia ovvero: lanci di alimenti, volatili rari, perle, monete, pietre preziose o addirittura tessere per il ritiro di svariati oggetti. La sera prima dei munera, l’organizzatore, offriva un sontuoso banchetto (coena libera) che aveva il solo scopo di aumentare la sua popolarità; 11


vi intervenivano,oltre ai sostenitori dei gladiatori,gli stessi gladiatori che avrebbero preso parte ai ludi;alcuni di loro, ormai inaspriti dai combattimenti , approfittavano dell’opportunitàper ingozzarsi di ciboconsiderandolo come l’ultima cena, gli altri,atterriti dalla paura, non pensavano affatto alle leccornieche erano sui tavoli ma preferivano fare testamento, c’era inoltre chi liberava i propri schiavi, ma anche chi raccomandava la propria famiglia agli amici. Le coppie di gladiatori che si affrontavano nella lotta utilizzavano, di solito, armi diverse secondo norme ben precise. Il combattimento vero e proprio era, di solito, preceduto da un esibizione di schermacon armi di legno e non acuminate, scontro, che permetteva ai gladiatori di riscaldare i propri muscoli prima del duello. Nel pomeriggio si svolgevano i combattimenti più attesi, quelli tra gladiatori. La giornata degli spettacoli iniziava con un solenne corteo (pompa), che entrava e usciva dalla Porta Triumphalis. La Pompa era aperta da due littori e da suonatori che avevano il compito di precedere l’organizzatore, poi entravano i portatori di cartelli con le informazioni che riguardavano i ludi. Per ultimi sfilavano i veri protagonisti dei munera: i gladiatori, i venatores e i condannati a morte. Dopo il corteo rituale ed il saluto rivolto all’Imperatore: “Ave, Caesar, morituri te salutant”,(anche se questa forma non è storicamente provata) aveva inizio il vero e proprio combattimento, accompagnato sempre dalla musica;la funzionalità delle armi veniva anticipatamente controllata dall’organizzatore.Era poi l’araldo ad annunciare al pubblico le coppie che si sarebbero affrontate,mentre, gli harenarii si disponevano a gettare la sabbiapulita su quella che sarebbe stata ben presto bagnata dal sangue. Dopo il giuramento le coppie iniziavano a duellare, fino alla sconfitta o alla morte di uno dei due. Il combattimento era seguito da un arbitro che poteva essere il lanista stesso oppure un gladiatore esperto. Non appena venivano incrociate le spade, nell’arena, rimbombavano le grida degli spettatori che, dopo un fitto scambio di scommesse,urlavano all’unisono “verbera, iugula, ure” (colpisci, sgozza, brucia) mentre inveivano contro i lorarii perché istigassero con le fruste (lora)i combattenti più indolenti. Appena un gladiatore contro il quale si era scommesso barcollava, da tutte le parti, si udiva un solo grido:habet, hoc habet (le prende, adesso le prende). Ildestino che toccava al gladiatore sconfitto era sia nelle mani del pubblico o dell’organizzatore dei giochi ma anche dell’Imperatore stesso.

Gettare le armi, alzare il braccio sinistro o anche solo un dito della stessa mano significava chiedere la grazia. Se veniva concessa gli spettatori gridavano “missum”(libero), al contrario, il grido di “iugula” (sgozzalo) decretava la sua fine e al gladiatore non restava altro che offrire la gola all’arma dell’avversario per ricevere il colpo finale. Spesso, molti gladiatori nonostante venivanoferiti gravemente durante il combattimento, consci della loro imminente fine, preferivano combattere fino alla fine. Fra i molteplici munera si rappresentavano anche i cosiddetti “munera sine missione”,si trattava di giochi ad “eliminazione diretta”, dove i gladiatori sconfitti non avevano alcunaprobabilità di essere graziati, la loro sorte, decisa dall’organizzatore, era solo la morte. 12


I gladiatoriuccisi venivano trasportati fuori dall’arena, attraverso la Porta Libitinensis, da inservienti i cui vestiti ricordavano quelli di Caronte o Mercurio Psicopompo, una volta giunti nello spoliarum, venivano spogliati delle armi che venivano poi riutilizzate da un nuovo gladiatore. Nel caso in cui nessuno ne richiedeva il corpo, gli sventurati, venivano sepolti senza alcuna formalità.A volte poteva anche accadere che a scontrarsi fossero due gladiatori di uguale bravura, alla fine del combattimento,il pubblico stesso chiedeva la grazia per entrambi definendoli stantes missi. Mentre i gladiatori che avevano vinto il combattimento ricevevano, come premio, la palma della vittoria, monete d’oro e svariati doni. I manifesti, con i risultati dei combattimenti, venivano poi apposti sui muri dove,accanto al nome di ciascun gladiatore, veniva contrassegnata una delle seguenti tre lettere che precisava la sorte a loro toccata: P(eriit) morto, M(issus) libero, V(icit) vincitore. La libertà, agognata da ogni gladiatore,poteva essergli restituita sia al termine dellacarriera, sia dopo che aveva dimostrato,nell’arena, di essere un uomo valoroso. In questi casi gli veniva assegnato il rudis, la spada di legno, che testimoniava il ritiro dai combattimenti e quindi il ritorno alla libertà. Nello spazio di tempo che intercorreva tra i ludi mattutini e il munus pomeridiano, vero e proprio, si poteva assistere ad uno spettacolo di inconsueta ferocia, l’oplomachia, durante la quale era superfluaqualsiasi abilità perché era immancabile la morte dei partecipanti I protagonisti di queste condanne erano prigionieri di guerra, disertori e criminali, persone appartenenti alle classi più infime della popolazione. I condannati potevano essere uccisi sia con la damnatio ad gladium, che con la damnatio ad bestias. Nel caso della condanna ad gladium scendevano nell’arena due condannati a morte, uno armato e l’altro inerme, il duello terminava dopo la prevedibile uccisione di quest’ultimo, a quel punto, al condannato armato venivano tolte le armi per essere consegnate ad un altro e si proseguiva a rotazione fino allo sterminio totale. I condannati, però, potevano anche essere messi al rogo, decapitati, crocifissi o trasformati in torce umane.Mentre nelle condanne ad bestias i condannati venivano fatti sbranare dagli animali (leoni, coccodrilli, pantere,orsi ecc.) che venivano resi più feroci nutrendoli con carne umana e lasciati digiuni per molti giorni. Il successo dei ludi mattutini era dovuto alla spettacolarizzazione della ferocia e del sangue versato. Spesso venivano allestite delle vere e proprie rievocazioni di miti, di leggende, di eventi storici;ad interpretarle erano quei poveri sventurati che venivano mandati a morte travestiti da eroi mitologici. Erano questi, però, gli spettacoli del mezzogiorno più amati dall’imperatore Claudio, conosciuto per la sua disumanità e per la passione che nutriva verso i munera.L’esaltazione suscitata dai gladiatori era smisurata per essi scoppiavano risse e tumulti; famosa è la rissa avvenuta nel 59 d.C. durante lo svolgimento di uno spettacolo gladiatorio, nell’anfiteatro di Pompei, tra gli spettatori di questa città e quella di Nocera. A seguito dell’accaduto il Senato vietò ai Pompeiani di tenere pubblici spettacoli per ben dieci anni. Se l’entusiasmo, del popolo romano,provocato dai munera non meno popolarità riscossero le venationes, uno spettacolo scioccamente crudele, dove i venatores(cacciatori) combattevano contro le bestie feroci. I venatores erano di solito uomini condannati a morte, prigionieri di guerra, o schiavi. Indossavano una corta tunica con maniche, portavano fasce alle gambe, come armi disponevano di una lancia a punta larga e di una frusta di cuoio ed erano spesso accompagnati da una muta di cani. La molteplicità di animali da cacciare e uccidere nell’anfiteatro aumentò con il passare del tempo,tanto che, il pubblico romano poté così conoscere, anche se non nei migliori contesti, ogni specie di animale esotico conosciuto a quei tempi. Proporzionale all’importanza della venatio offerta era il numero degli animali chevenivano mandati nell’arena, animali, tenuti in pessime condizioni , al buio e senza cibo, che nel momento in cui vi venivano introdotti e senz’altro anchespaventati dalleurla della folla finivano uccisi dai venatores o dai bestiari. Nei combattimenti potevano affrontarsi solamente animali, ma anche animali e cacciatori.Molto apprezzati dai Romani erano, soprattutto, i combattimenti dei leoni contro le tigri, degli elefanti contro i tori, degli orsi contro i bufali ecc., più cruenta era la lotta di dueanimali legati insieme che si azzannavano fino alla morte. . Mentre nelle lotte tra animali e uomini eranoquest’ultimi, solitamente, a rischiare la vita; combattevano spesso disarmati e per questo destinati ad essere sbranati e, il più delle volte, mostravano tutta la loro abilità con una serie di acrobazie per sfuggire agli assalti degli animali. 13


L’unicità di questa parte di spettacolo era rappresentata, oltre che dalla rarità degli animali e dal loro elevato numero,anche dalle imponenti scenografie che replicavano boschi, torrenti, zone rocciose Poco prima dell’inizio dei ludi mattutini ogni addetto prendeva posto nella cella, che corrispondeva alla gabbia di sollevamento, dove era stata fatta entrare una belva, all’unisono, venivano sganciati i contrappesi e tutti i montacarichi si innalzavano, le bestie uscivano così dalle gabbie irrompendo contemporaneamente nell’arena. Gli effetti scenografici che scaturivano da questi ingegnosi macchinari (pegmata) realizzati nell’officina denominata “summum choragium”,. offrivano tali attrattive che lasciavano il pubblico con l’illusione di trovarsi dinanzi ad un mondo reale. La strage degli animali toccò,probabilmente, la punta massima con Commodo che arrivò a trafiggere cento orsi in un solo giorno. Questo esempiodi divertimentocostò, in alcune regioni, l’estinzione di alcune razze di animali (elefanti in nord Africa, ippopotami in Nubia e i leoni in Mesopotamia). Gli spettacoli gladiatori, vera e propria infamia delle usanze della civiltà romana, sopravvissero,anche se in forma minore, al decadimento dell’impero e malgrado l’editto emanato da Costantino (313) e da Onorio (403) con cui li abolivanopare che si protraessero sporadicamente fino al 438, anno, in cui vennero definitivamente vietati da Valentiniano III. Più lunga fu la durata delle venationes di cui si hanno notizie fino al tempo di Totila* che le abolì tassativamente nel VI secolo. (*Totila, re degli Ostrogoti, prima metà del VI secolo, il suo vero nome era Baduila).

SAMANTHA LOMBARDI

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Santa Maria de’ Tridetti in contrada Badia a Staiti- RC

Fig. 1 _ Facciata principale: portale d’ingresso con grande arco a ogiva

A 15 Km da Brancaleone Marina (RC), fra Brancaleone Superiore e Staiti, alle falde del Monte Campolino, in mezzo una distesa di alberi d’ulivo, si erge un lembo di terra a formare una terrazza poco distante da un piccolo torrente, che scende dal colle; in questo scenario e in questo luogo sorgono i ruderi del complesso monastico basiliano – normanno con la maestosa chiesa di Santa Maria de’ Tridetti, nella contrada ancora oggi chiamata “Badia”. La contrada Badia anche se poco distante dal mare si presenta con un paesaggio alpestre con ricca vegetazione e sullo sfondo aspre rupi a levante e a ponente, dove si possono scorgere Staiti a 750 m s. l. m. e Brancaleone Superiore a 310 m s. l. m. I ruderi della chiesa di S. Maria de’ Tridetti, si sono conservati nel tempo nonostante le catastrofi naturali e i danni causati per opera della mano distruttrice dell’uomo e del tempo. Quest’architettura basiliano – normanna rappresenta oggi una delle tante testimonianze tangibili in Calabria, della presenza fiorente della vita asceta di monaci basiliani in questa regione. Costruita tra l’XI e il XII sec., come molti altri monumenti della Calabria greca, ci restituisce informazioni eccellenti sulla storia di un’epoca di questi luoghi, sulle architetture e sulle tecniche costruttive di età normanna con forti influenze di una cultura bizantina ancora viva nel territorio calabrese a quell’epoca. Oggi, il luogo dove sorge questo monumento si presenta ben delimitato da una recinzione e i resti della chiesa ben conservati; mentre quando Paolo Orsi, nel 1913, arrivò in contrada Badia accompagnato da un amico, si stupì e impressionò per lo stato in rovina in cui si trovava la chiesa; invasa da vegetazione infestante con la cupola squarciata a metà. S. Maria de’ Tridetti è un monumento modesto e non di primo ordine come invece si può considerare, ad esempio, la Cattedrale di Gerace. Qui officiavano i sacramenti pochi monaci basiliani dell’attiguo convento, i cui resti di quest’ultimo oggi sono andati perduti.

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Il portale con un grande arco a ogiva è costituito da robusti mattonacci in cotto come l’incorniciatura delle tre piccole finestre a tutto sesto, che dalla facciata davano un tempo luce alle due navate laterali e a quella centrale; e la finestra sopra il portale si apre fra due merli a coda di rondine in laterizio a vista. La campata centrale è coronata da un’appendice cuspidata con due finestre per campana, tipologia architettonica che secondo Paolo Orsi è da attribuire allo stile normanno, escludendo i pinnacoli lapidei che invece sono aggiunte seicentesche. A noi, che oggi visitiamo il monumento e ci prestiamo a osservare questa parte della facciata principale, ci riaffiora l’immagine delle appendici campanarie delle chiesette rurali. Quelle chiesette con squillanti campane che richiamavano i monaci, ma anche gli abitanti e i contadini del luogo impegnati nelle faccende quotidiane, affinché si riunissero per officiare i sacramenti; o più semplicemente per essere avvertiti con diversi squillanti toni dell’inizio di una festa o dell’annuncio di un lutto.

Fig. 2_ Facciata laterale rivolta a sud

Le facciate laterali della chiesa sono simmetriche con una porta di modeste dimensioni e cinque finestre strombate tutte ad arco tondo e ad alternanza forate e cieche dentro lesene che rompono la monotonia del paramento murario. Le absidi si presentano, poco pronunciate le due laterali con finestrine a tutto sesto, mentre più accentuata quella centrale con un angusto occhio affiancato da lesene che terminano in alto a coda di rondine. Nelle tre absidi sono presenti decorazioni costituite da cornicette dentellate e realizzate nel paramento murario con muratura in laterizio e conci lapidei, questi ultimi posti nei cantonali per renderli più robusti. Sopra l’abside centrale si può osservare oggi quel che resta della cupola, in origine costruita su due corpi quadrati in successione, che si chiudevano in alto con una calotta depressa; e i cantonali del quadrato inferiore sono rafforzati da grossi massi squadrati per garantire la stabilità statica della struttura. Quando si visitano gli spazi interni di Santa Maria de’ Tridetti è evidente che la perdita della copertura, a orditura lignea con capriate e manto di coppi, che ha determinato nel tempo il conseguente degrado interno con la perdita di parti ma ancora si possono osservare i resti di quattro grandi pilastri, due per lato, che sorreggevano mediante grandi archi il muro, al quale appoggiavano le capriate del tetto della navata centrale e i travicelli dei tetti delle navate laterali, questi ultimi sono andati perduti, perché nel passato sono stati smontati e riutilizzati. Nell’ingresso, dal lato interno, e in prossimità delle absidi sono ancora visibili due mezzi pilastri che sorreggono l’arco di trionfo. Quando per la prima volta Paolo Orsi visitava questo monumento, rilevò che un crollo conseguente al catastrofico sisma, che interessò l’area, aveva determinato una lesione passante che squarciava dal basso verso l’alto la cupola, che anche in condizioni precarie in parte si conservò, dimostrando di essere una struttura architettonica costruita a regola d’arte, da maestranze che conoscevano bene la sensibilità sismica del territorio calabro e le caratteristiche geomorfologiche di contrada Badia. 16


Infatti, i normanni conoscevano la sismicità del luogo e sapientemente seppero escogitare una costruzione di mura solide, su un terreno compatto e resistente con lo sviluppo di forme quali: cupola a tre ordini, finestrine a lesene, archi maggiori a conci profondi, che permisero un’efficace resistenza in caso di scuotimenti del terreno sottostante l’edificio. L’abside centrale di S. Maria de’ Tridetti è affiancata da due colonne in cotto sormontate da capitelli marmorei capovolti di stile ionico, anche questi materiale di spoglio proveniente sicuramente da un sito archeologico presente nelle vicinanze e che non praticato, divenne luogo dove poter estrarre materiale d’impiego per le nuove costruzioni.

Fig. 3 _ Particolare interno

All’interno dell’abside centrale sono presenti ancora i resti di un altare di piccole dimensioni e di modesto stile decorativo di fattura seicentesca; invece, a destra e a sinistra del presbiterio due piccoli corpi, poco illuminati, coperti da voltine a crociera con absidi piccole e poco accentuate erano destinate per la Prothesis e il Diaconicom. La piccola basilica a tre navate, priva di atrio, triabsidata e sormontata da cupola, è una costruzione longitudinale gemella di San Giovanni Theristis di Bivongi, le cui murature furono realizzate con materiale da costruzione reperito in loco, come: ciottoli di granito, blocchi e conci di calcare di cave presenti nel territorio, bozze di scisto e laterizi prodotti in fornaci locali. La chiesa basiliana – normanna di Santa Maria de’ Tridetti è un esempio tra i più maturi, dove si legge la fusione tra i motivi architettonici occidentali e quelli orientali. L’utilizzo di materiale da costruzione reperito in loco o nelle località limitrofe aveva delle peculiarità non indifferenti, infatti, con questa pratica si aveva minor impatto ambientale e abbattimento dei costi di costruzione. Il complesso monastico di S. Maria de’ Tridetti dopo il 1500 fu travolto dalla decadenza che trascinò le comunità basiliane verso il definitivo declino. Dopo un prolungato abbandono, fu riscoperta da Paolo Orsi e da molti studiosi del territorio e oggi è una delle mete di gruppi e associazioni attraverso escursioni e visite culturali, che fanno riscoprire la sua straordinaria bellezza all’interno di un circuito turistico culturale territoriale, alla riscoperta dell’identità storica, architettonica e archeologica della nostra terra di Calabria. VINCENZA TRIOLO

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Paolo Orsi, un archeologo Trentino nella Magna Grecia

Il nome e la figura di Paolo Orsi sono indissolubilmente legate alla storia dell’archeologia italiana e calabrese in particolare per il suo grande impegno nella scoperta, nello studio e nella valorizzazione dei numerosi beni di carattere archeologico simboli di quella cultura magnogreca che ancora oggi ci contraddistingue. Paolo Orsi nacque a Rovereto in provincia di Trento il 17 Ottobre del 1859; dopo gli studi ginnasiali compiuti sempre a Rovereto, il suo amore verso le antichità classiche lo portò a trasferirsi a Vienna dove seguì numerosi corsi di storia antica e archeologia. Successivamente ritornò in Italia dove si laureò a Padova e si specializzò in archeologia presso la Reale scuola italiana di Archeologia a Roma. Iniziò la sua attività di ricercatore-archeologo attento e scrupoloso nella sua amata terra natia scoprendo e studiando con cura e dovizia di particolari la zone archeologica del Colombo presso Mori di Trento. Giovanissimo, appena trentenne, nel 1890 fu nominato ispettore archeologo presso la Soprintendenza della Sicilia Orientale con sede a Siracusa avente competenza territoriale anche per la Calabria. Giunto nella città di Dionigi, Orsi, si distinse immediatamente per lo studio e per le sue valide e ben articolate ricerche circa le popolazioni italiche dei Siculi e dei Sicani. Sempre a questo periodo si devono le scoperte di città come Thapsos e Megara Iblea, di templi, di necropoli, di mura e di grandi palazzi. Ma l’evento che ha sicuramente contribuito più di ogni altro a legare il nome di Paolo Orsi alla storia dell’archeologia calabrese e reggina in particolare, come di recente ha anche evidenziato lo storico Arillotta, fu il Congresso Internazionale di Scienze Storiche svoltosi a Roma nel 1904 al quale Paolo Orsi partecipò illustrando le sue importantissime scoperte. Proprio nel corso di quel convegno, durante un acceso e passionevole dibattito, Orsi, esaltò il valore della storia calabrese sottolineando l’importanza e allo stesso tempo l’urgenza di avviare sistematiche campagne di scavo per indagare e conoscere il territorio calabrese fino ad allora poco studiato chiedendo che venisse istituita a Reggio una Soprintendenza Archeologica per la Calabria.

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Furono così avviate lunghe ed estenuanti trattative tra l’amministrazione comunale della città dello Stretto guidata al tempo dall’on. Demetrio Tripepi e il Governo affinché anche Reggio avesse la sua Soprintendenza ed un suo museo nel quale esporre i preziosissimi reperti rinvenuti nel corso degli scavi. Paolo Orsi seguì tutte le fasi delle febbrili trattative attuando una valida politica di mediazione e finalmente nel 1907 con la revisione territoriale di tutte le Soprintendenze si arrivò all’istituzione della “Regia Soprintendenza Archeologica della Calabria e della Basilicata” con una delibera che prevedeva anche la costruzione di un nuovo edificio da adibire a museo archeologico il cui progetto fu successivamente affidato all’architetto Marcello Piacentini. Nel 1907 dunque Paolo Orsi venne trasferito a Reggio dove ricevette subito la nomina di direttore della Soprintendenza Calabra degli scavi. La sua attività fu febbrile; si dedicò con grande interesse a studi relativi alla città di Reggio, di Locri e di Rosarno e di Krimisa fino ad allora conosciuta solo attraverso le fonti. A Reggio va ricordata la lunga battaglia condotta in difesa dei reperti situati sulla via Marina che secondo i piani regolatori post-terremoto 1908 dovevano essere ricoperti, i lavori di scavo presso l’attuale Piazza Italia durante i quali sono emerse le fondazioni di un tempio ascrivibile alla prima metà del V° sec. a.C. ; a Locri Paolo Orsi riportò alla luce il Persephoneion con gli splendidi pinakes; a Rosarno si occupò di uno studio attento e accurato di una notevole quantità di materiale ex-voto rinvenuto in numerose favisse e a Krimisa, identificabile oggi con la moderna Cirò, si occupò di scavare il favoloso tempio di Apollo. Questa solo una breve sintesi della vita culturale di un grande archeologo che con le sue scoperte ha contribuito a dare maggiore lustro alla storia di una millenaria civiltà che continua ancora oggi a stupire e ad affascinare… SAVERIO VERDUCI

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BIBLIOGRAFIA DEGLI ARTICOLI ARCHEOLOGIA E ARCHEOMETRIA: PER UNA DATAZIONE DELLA CULTURA MATERIALE –di DAVIDE MASTROIANNI• ADROVER GRACIA 2001 = ADROVER GRACIA I., Applicazioni della spettrofotometria IR allo studio dei beni cultu rali (Collana I Talenti n. 9). Padova 2001. • ARDID, FERRERO, JUANES, LLUCH, ROLDA 2004 = ARDID M., FERRERO J. L., JUANES D., LLUCH J. L., ROLDA C., Comparison of total-reflection X-ray fluorescence, static and portable energy dispersive X-ray fluorescence spectrometers for art and archaeometry studies, in Spectrochimica Acta Part B, 59, 2004, pp. 1581-1586. • BAHN, RENFREW 2006 = BAHN P., RENFREW C., Archeologia. Teoria, metodi, pratica, (traduzione italiana), Bologna 2006. • CAU ONTIVERUS, GIORGI, PECCI, SALVINI 2013 = CAU ONTIVERUS A., GIORGI G., PECCI A., SALVINI L., Identifying wine markers in ceramics and plasters using gas chromatographyemass spectrometry. Experimental and archaeological materials, in Journal of Archaeological Science, 40, 2013, pp. 109-115. • CHIAVARI, MANNONI, MARTINI 2000 = CHIAVARI C., MANNONI M., MARTINI M., Archeometria del costruito: contributo della termoluminescenza (TL) alla cronologia dell’architettura di edifici storici, in MARTINI M. (a cura di), Atti del I Congresso Nazionale di Archeometria, (Verona, 2-4 dicembre 1999). Bologna 2000, pp. 139-147.

CRISTO, MADONNA, APOSTOLI E SANTI IN CALABRIA –di FELICE DELFINO• BASILE Antonino, La Favola dell’uomo nato due volte, (in), Folklore della Calabria, Rivista di Tradizioni Popolari, 19-20, Società Calabrese di Etnografia e Folklore – Tipografia G. Palermo, Palmi Anno V – 3-4 - Luglio-Dicembre 1960. pp. 49-104 • CRISAFI Marina, Febea. Miti, misteri e leggende di Reggio Calabria e dintorni, Laruffa Editore, Reggio Calabria 2009, pp. 35-37. • DELFINO Felice, La presenza Ebraica nelle Storia Reggina, Disoblio, Bagnara 2013, p. 87. • MONS. LACAVA Ercole, La Madonna della Misericordia, Reggio Calabria 2010.

SANTA MARIA DE’ TRIDETTI IN CONTRADA BADIA A STAITI – RC -di VINCENZA TRIOLO• C. BOZZONI, Calabria Normanna. Ricerca sull’architettura dei secoli undicesimo e dodicesimo, Officina Edizioni, Roma 1974, pp. 40-46. • D. MINUTO, Catalogo dei monasteri e dei luoghi di culto tra Reggio Calabria e Locri, Edizione di storia e letteratura, Roma 1977, pp. 251 – 260. • P. ORSI, Le chiese basiliane della Calabria, Meridiana Libri, Catanzaro 1998, pp.67 -87. • Figg. 1 - 3 _ Immagini fotografiche proprietà di Vincenza Triolo, anno di scatto 2015.

PAOLO ORSI, UN’ARCHEOLOGO TRENTINO NELLA MAGNA GRAECIA - di SAVERIO VERDUCI• P. Orsi , in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1935; • P. Orsi , in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1938; • Irene Calloud, ORSI, Paolo (Pietro Paolo Giorgio), in Dizionario biografico degli italiani, LXXIX volume, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2013;

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Vincenza Triolo

PARLANDO DI...

Nata a Reggio Calabria nel 1980, consegue nel 2014 la laurea in Scienze dell’architettura e nel 2012 la laurea in Storia e Conservazione dei Beni Architettonici e Ambientali nella Facoltà di Architettura di Reggio Calabria. Nel 2001 collabora, con l’incarico di esperto esterno, al progetto PON per il recupero e la valorizzazione del centro storico di Motta San Giovanni. Nel suo iter universitario partecipa a numerosi stage: Fortificazione di Santo Niceto, rilievo e analisi di degradi e dissesti, Archeologia e cantieri di restauro nella Sicilia centrale, Studio di edilizie di base del paese di Armo Gallina (RC). Rilievo e analisi dei degradi e dissesti di Palazzo Spinelli di Motta San Giovanni (RC). Nel 2013 collabora a progetti di ricerca con il Dipartimento PUA presso l’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria ed è stagista presso la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici delle provincie di Reggio Calabria e Vibo Valentia. Nel 2014 collabora con la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici delle provincie di Reggio Calabria e Vibo Valentia con la qualifica di esperto esterno all’attività di catalogazione relativa all’uso del sistema informatico per i Cantieri di Restauro SICaR del MIBACT e all’uso del sistema informatico per la catalogazione relativa all’uso del sistema informatico per i Beni Culturali SIGEC/WEB del MIBACT. Nello stesso anno pubblica il saggio dal titolo: Il Quartiere Praci di Motta San Giovanni (RC). Storia, architettura e conservazione: linee guida per il recupero e il ripopolamento con la GB Editoria; e scrive in diverse riviste online che si occupano di Architettura, Storia e Conservazione dei Beni Culturali.

SAMANTHA LOMBARDI Archeologa, laureata nel 2005 in Scienze Storiche e Archeologiche del Mon do Classico e Orientale con tesi in Preistoria e Protostoria, dal titolo: “Le sepolture del Paleolitico Superiore in Italia con Manifestazioni Artistiche“; nel 2008 consegue la Laurea Magistrale in Archeologia e Storia dell’Arte del Mondo Antico e dell’Oriente con lode, con una tesi dal titolo: “La Cata comba Ebraica di Vigna Randanini”. Entrambe le lauree sono state con seguite presso l’Università di Roma “La Sapienza”.Blogger per il suo sito, www.ilpatrimonioartistico.it, dove pubblica regolarmente articoli che tratta no la Storia dell’Arte, l’Archeologia e gli usi e costumi delle popolazioni an tiche. Collabora con l’associazione culturale, Il Consiglio Archeologico, dove cura i contenuti del sito e delle brochure ed saltuariamente gestisce visite guidate.Attualmente collabora con Il tabloid.it curando la sezione Cultura e Ambiente.I suoi hobbies sono: la fotografia, la lettura, la musica e la cucina. Pratica la speleologia, la subacquea, l’equitazione e il tiro con l’arco. Ama viaggiare per scoprire sempre nuovi luoghi.

DAVIDE MASTROIANNI Nasce il 16/11/1984 a Lamezia Terme (CZ). Archeologo Classico e Topografo, esperto in fotointerpretazione aerea, ha studiato presso l’Università della Calabria, l’Università La Sapienza di Roma e l’Università del Salento. E’ vincitore di concorso della Scuola di Dottorato - XXIX° Ciclo - in “Architecture, Industrial Design and Cultural Heritage”, presso La Seconda Università di Napoli. Ha maturato esperienze pluriennali di scavo in Calabria, Lazio, Toscana e Emilia Romagna come archeologo e come l ibero professionista.


PARLANDO DI...

SAVERIO VERDUCI ( Melito Porto Salvo, 1979 ) Storico e giornalista divulgatore si è laureato in Lettere Moderne presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ Università degli Studi di Messina nel 2006 con una tesi di laurea dal titolo: “La Calabria nello spazio mediterraneo in epoca romana. Produzioni, rotte e commerci”. Nel 2007 ha conseguito presso la medesima facoltà il Perfezionamento post-laurea in storia e filologia: dall’antichità all’età moderna e contemporanea con una tesi dal titolo: “ I rapporti commerciali tra la Sicilia e le provincie orientali in epoca tardoantica”. Nel 2010 ha conseguito il Perfezionamento post-laurea in studi storico - religiosi e nel 2011 ha conseguito il Master di II Livello in Architettura e Archeologia della Citta Classica presso la Scuola di Alta Formazione in Architettura e Archeologia della Città Classica dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria con una tesi dal titolo “ Rhegion fra Atene e Dionisio I ”. Studioso di storia antica e medievale si occupa della valorizzazione della plurimillenaria storia del territorio reggino e segue con particolare interesse la ricostruzione delle vicende storiche relative al territorio di Leucopetra ( Lazzaro) dove egli vive. Nel 2012 è stato nominato membro della giuria Premio Letterario “ Metauros ” sez. A – Libro edito di storia locale e nel 2013 sempre per il medesimo premio ne è stato nominato presidente di giuria della stessa sezione. Collabora inoltre con l’Istituto Comprensivo Motta San Giovanni ormai da alcuni anni in qualità di esperto e referente storico per i vari progetti di ricerca storica sul territorio lazzarese e mottese.Attualmente collabora con le riviste Costaviolaonline.it per la quale cura le pagine di approfondimento storico, con il portale Grecanica.com - voci dalla Calabria greca, con il sito Lazzaroturistica.it per il quale cura le pagine di storia e di archeologia, e con la rivista di studi storici Cesar. FELICE DELFINO Nato il 04 Ottobre del 1979 a Oppido Mamertina (Rc), ha conseguito nel 2009 il Magistero presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Mons. Zoccali” di Reggio Calabria. Ha insegnato per due anni religione e cultura storico-sociale presso la Do.Mi. di Villa San Giovanni ed ha collaborato con alcune riviste storico-culturali locali pubblicando articoli religiosi per la rivista dell’Associazione Mariana “Amici di Fatima” di Rosalì (Rc), ma anche articoli e saggi storici con alcune riviste cartacee e online tra cui costaviola online. Appassionato da anni alla storia ebraica ha preso parte a diversi convegni incentrati sugli ebrei reggini (nel 2011 al Palazzo della Provincia di Reggio Calabria, evento organizzato dalla Fi.da.pa di Rc, insieme con l’avv. Franco Arillotta e con lo storico Natale Zappalà; nel 2012 nella conferenza presso la sez.UNLA di Arghillà Gallico). Ha pubblicato nel 2013, con la casa editrice Disoblio di Bagnara Calabra, il libro “La presenza ebraica nella storia reggina”. Attualmente vive a Catona (Rc).

DAVIDE FABRIS Nato a Napoli il 13 aprile 1967 Residente nel Comune di Mugnano di Napoli (NA) Archeologo, storico meridionalista e giornalista Laureato in Archeologia Classica e del Medioevo presso l’Università degli Studi «Suor Orsola Benincasa» di Napoli con una tesi sperimentale relativa al Museo Civico Archeologico «Museo-Ipogeo» di Mugnano di Napoli . Membro della Società Napoletana di Storia Patria . Promotore del Progetto Culturale Polivalente «Oskoi-Arte e Cultura Napoli Nord» (Delibera Comune di Mugnano di Napoli n° 109 del 14.00 ) a cura dell’Associazione Studi Meridionali Onlus «N’Azione Napoletana» della quale è Socio fondatore


UOMINI DI CULTURA

GIOACCHINO DA FIORE Monaco cistercense, esegeta (Celico 1145 circa - San Giovanni in Fiore 1202). Secondo i dati tradizionali, G. era figlio d’un notaio e, dopo un viaggio in Terrasanta, ove prese piena coscienza della sua vocazione monastica, entrò nell’ordine cistercense, all’abbazia della Sambucina. Dopo esser passato per varî monasteri fu abate a Corazzo fino al 1187, quando da papa Clemente III fu esonerato dai suoi doveri di abate perché potesse liberamente attendere ai suoi studî. Ritiratosi in meditazione sulla Sila, in vita eremitica, raccolse intorno a sé dei seguaci con i quali costruì l’eremo di S. Giovanni in Fiore e costituì l’ordine, poi detto florense, approvato da Celestino III con una bolla del 1196. Tra le sue opere teologiche: il De articulis fidei e il De unitate seu essentia Trinitatis, contro Pietro Lombardo, opera condannata poi nel Concilio Lateranense del 1215 e oggi dispersa (un Liber contra Lombardum di analogo contenuto, giunto fino a noi, è di scuola gioachimita); tra le esegetiche: Concordia Novi ac Veteris Testamenti, la Expositio in Apocalipsim e il Psalterium decem chordarum e, incompiuto, il Tractatus super quattuor Evangelia; una raccolta di sermoni; una biografia di s. Benedetto e infine una polemica contro gli Ebrei, il Contra Iudeos. Fulcro di tutto il pensiero di G. è la considerazione dell’unità e trinità di Dio, pensate non solo nell’interiorità del processo divino, ma anche, e più, nel loro esplicarsi nella realtà storica, che va perciò intesa come il manifestarsi di una economia provvidenziale, in cui a ogni persona della Trinità corrisponde un’era storica: così al Padre corrisponde l’epoca precedente la venuta di Cristo e il relativo Libro sacro, il Vecchio Testamento; al Figlio l’epoca appunto di Cristo e della Chiesa con il Nuovo Testamento; allo Spirito Santo, un’epoca ancora futura, l’età dello Spirito. Questa corrispondenza, chiamata da G. concordia, gli permette poi d’intravedere le linee fondamentali della terza età, che sarà età di suprema libertà, di perfetta carità, di completa spiritualità.Una Chiesa così costituita, nella terza età, può certo attendere senza timore la venuta dell’Anticristo, con le terribili persecuzioni che l’accompagneranno, e poi il giudizio di Dio. Profeta di questa nuova Chiesa, sottile ed entusiasta esegeta, G. esercitò grande influenza sui suoi contemporanei, che o lo avversarono fieramente o ne furono ardenti seguaci (gioachimiti).


NOVOTA’ DAL...

Preziosi volumi d’arte da scaricare con il Metropolitan Museum si può!

l futuro è nella condivisione. Condividere tutto, gratis, in rete. E non c’è regola, filtro, proprietà o esclusività che tenga. Il sistema di accesso al sapere è cambiato, radicalmente; e a nulla sono valsi i tentativi di arginare questo processo spontaneo, implicito alla natura delle nuove tecnologie e alla logica del web. È accaduto con la musica, col cinema, con i libri e i giornali, persino con le opere d’arte, che musei come il Rijks di Amsterdam, o megapiattaforme come l’Art Project di Google, hanno scelto di archiviare su Internet, con file in alta risoluzione pronti per il download. E se nel caso dei libri è abbastanza facile trovare classici e titoli noti, da scaricare senza spendere un centesimo, la cosa resta difficile per volumi particolari, non rintracciabili, oppure da scovare a pagamento su Amazon, a prezzi nemmeno troppo modici. Ed ecco che qualcuno sceglie di fare un ulteriore step. Il Metropolitan Museum of Art, ad esempio. Che ha deciso di mettere in rete il suo catalogo di libri e volumi d’arte, ovvero cinquant’anni di pubblicazioni, per 422 titoli, che vanno da Leonardo a Van Gogh, dall’Art Dèco alla scultura sacra cinese, dall’Impressionismo al Barocco. Tutto consultabile, per chi volesse leggere, scaricare o addirittura stampare. Gratuitamente. Un bel posto virtuale in cui trascorrere del tempo, comodamente, a beneficio di ricerche bibliografiche, approfondimenti o semplice curiosità. Nell’attesa che altri musei, biblioteche, archivi e collezioni prendano esempio, adeguandosi al trend. www.metmuseum.org


...LIBRI


I ITALIA T A L I A

I CONCORSI T I A T L A I L A I A C O C N O C N O C R O S R I S

ANTOLOGIA POETICA: IL FIUME DI ORESTE https://www.facebook.com/ events/1559644684313907/

ITALIAN LIBERTY, concorso fotografico nazionale dedicato all’Art Nouveau http://www.giovaniartisti.it/ concorsi/2015/04/02/è-partito-italian-liberty-concorso-fotografico-nazionale-dedicato-all’art-nouvea

C O N C O R S

“DONKEY ART PRIZE”, III EDIZIONE, PREMIO INTERNAZIONALE PER PITTURA E FOTOGRAFIA http://www.cercabando.it/arti-visive/donkey-artprize-iii-edizione-premio-internazionale-per-pittura-e-fotografia/ Gioia nell’Arte “Incontri ed espressioni di anime ” III edizione www.gioianellarte.altervista.org

Premio Letterario “IL POETA E IL NARRATORE” www.concorsiletterari.net/il-poeta-e-il-narratore-8°-edizione

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