Giugno

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RIVISTA ONLINE 2015

N-11

Gioia Tauro (RC) 89013 RIVISTA ONLINE


Al Suono Delle Eolie

Al morir del suono delle Eolie Placa l’ira e dorme l’errante Odisseo. I Ciclopi dal Mongibello Lanciano incandescenti sassi, lapilli e sbuffano nubi nere, mentre le Sirene ammaliano i naviganti che osano varcare lo Stretto. Scilla e Cariddi Si guardano in cagnesco Nel tempo ,al pizzichìo delle Eolie, Omero canta, Vulcano e Stromboli chiamano il fratello Etna ed al risveglio trema Zancle e Rhegjon Soave tramonto al morir del suono delle Eolie! ROCCO GIUSEPPE TASSONE


INDICE -IL CASTELLO RUFFO DI

AMENDOLEA

-NELLA CHIESA DI SAN FANTINO “IL CAVALLARO” -I FRUTTI PIU’ BELLI DEL CONCILIO VATICANO II -I PHROURIA DI SERRO DI TAVOLA SUL VERSANTE TIRRENICO E QUELLI DI MONTE GROSSO E SAN SALVATORE NELLA BOVESIA -CENTRI ANTICHI DI CALABRIA: CALANNA (RC)

-BIBLIOGRAFIA DEGLI ARTICOLI -PARLANDO DI -UOMINI DI CULTURA-NOVOTA’ DAL.... -LIBRI -ITALIA CONCORSI -EVENTI


IL CASTELLO RUFFO DI AMENDOLEA

Fig. 1 – Castello di Ruffo di Amendolea Fig. 1 – Castello di Ruffo di Amendolea

Risalendo la strada provinciale parallela alla Fiumara dell’Amendolea, il cui nome nella lingua greca di Calabria era Amendulìa Potamò, che in epoca greco-romana era navigabile, si arriva all’attuale abitato di Amendolea dove si erge su un impervio costone roccioso a 330 m s. l. m., in posizione strategica è la fortezza medievale conosciuta con il nome di Castello Ruffo di Amendolea, in un luogo importante, in quanto la valle della fiumara dell’Amendolea costituiva in epoca storica il confine tra Locri e Reggio Calabria. Il castello si trova esattamente a nord – ovest del costone roccioso mentre, ai piedi della fortificazione, a sud –est, l’altura è occupata dai monumentali ruderi del borgo di epoca angioina abitato fino all’alluvione del 1953. Il primo riferimento ad Amendolea è offerto da un diploma in greco della fine dell’XI secolo in cui sono stabiliti i confini tra i feudi di Amendolea e Bova e il territorio a destra del torrente Amendolea viene affidato a Guglielmo, figlio di Framundo che era stato compagno d’armi di Ruggero e Roberto d’Altavilla. La prima fase edificatoria del castello di Amendolea è attribuita con pochi margini di dubbio all’età normanna grazie a un documento del 1198 che ricorda la famiglia dell’Amendolea. Il documento è un testamento di Giovanni Colchebret, signore di Aieta, erede di Riccardo Scullandus; in esso è nominato un Goulielmou tes Amigdalias, cui per disposizione testamentaria gli veniva destinato il feudo di Aieta. In un documento del 20 gennaio 1269 Amendolea ricorre tra le terre del giustizierato di Calabria che contribuivano alle collette; e dal 1269 al 1279 in diplomi di Carlo I d’Angiò è spesso menzionato Guglielmo dell’Amendolea. Nel 1422 il feudo appartiene alla famiglia del Balzo in particolare a Iacobum de Balcio come si legge nel diploma di Alfonso d’Aragona Pro domina Catharinella de Grimaldis Comitissa Sinopulis (4 settembre) col quale il re stabilisce che il signore dell’Amendolea paghi il debito contratto con la predetta contessa; nel 1459 passa a Berengario Maldà di Cardona cui è assegnato da Ferrante d’Aragona per punire Antonello dell’Amendolea che aveva parteggiato per gli angioini. In età aragonese nel registro delle polizze del sale è citata Lamendolia: l’annotazione relativa al 26 agosto 1457 riguarda Francisco de Alysandro, luogotenente di Renzo d’Afflitto tesoriere del ducato di Calabria. Questi dati storici testimoniano l’avvenuta formazione di una comunità più ampia, che diede vita all’edificazione del borgo di Amendolea, i cui ruderi ancora oggi, nonostante le varie trasformazioni e ricostruzioni avvenute nei secoli, rivelano nell’impianto e in alcune strutture, la regola dell’arte del costruire di età medievale. Il cedolario della provincia di Calabria Ultra del 27 agosto 1490, in riferimento ad Amendolea riporta che il tesoriere regio Battista de Vena dovrà esigere per i diritti di fuochi e per i diritti di sale ‹‹ducatos centum quinquaginta sex››. 1


Fig. 2 – Castello di Ruffo di Amendolea e borgo antico.

Nel 1494 il castello dell’Amendolea è menzionato in due atti di Carlo d’Aragona: il 14 novembre Carlo ordina al tesoriere di Calabria Ultra, Battista de Vena, di provvedere di sei compagni il castello; pochi giorni dopo, il 4 dicembre, invita il medesimo tesoriere a eseguire subito i pagamenti e si meraviglia della resistenza del tesoriere a pagarli tutti, mentre da un momento all’altro gravi avvenimenti potrebbero accadere nel Regno. Dal 1495 Amendolea fu degli Abenavolo fino al 1528 quando Carlo V lo assegnò a Bernardino Martyrano. Pochi anni dopo passò ai Gomez de Sylva; e al 1624 risale la vendita fatta da Ruy Gomez duca di Panstrano a Francesco Ruffo duca della Bagnara. I Ruffo furono feudatari del Castello di Amendolea fino al 1794; e con l’ordinamento amministrativo disposto dal generale Championnet nel 1799 Amendolia rientrò al pari di Bova in uno dei dieci Cantoni del Dipartimento della Sagra. Con la legge del 1811, in cui furono istituiti i Comuni, venne considerata villaggio di Condofuri insieme a Gallicianò; la pertinenza al comune di Condofuri venne confermata dall’amministrazione borbonica nel 1816. Dalle quattro campagne di ricerca archeologica volte a coniugare la conoscenza del sito-monumento con il suo recupero e la valorizzazione, organizzate dal Dipartimento PAU (Patrimonio architettonico e urbanistico) con il Corso di Laurea in Storia e conservazione dei beni architettonici e ambientali (Facoltà di Architettura - Università Mediterranea di Reggio Calabria), il Dipartimento di studio delle componenti culturali del territorio della Seconda Università di Napoli e la Soprintendenza archeologica della Calabria, fra il 2000 e il 2003; è emerso che il castello venne costruito alla fine dell’XI secolo, quando i primi feudatari normanni costruirono la magna turris d’impianto quadrangolare, direttamente sul banco roccioso, con una muratura costituita da due paramenti, spessi circa 3 m, in grossi conci di scisto disposti in modo irregolare e da un riempimento a scaglie di pietre e malta. A causa di un evento sismico, tali muri furono utilizzati intorno alla fine del XII - prima metà del XIII secolo come base per la costruzione di un nuovo e più elegante donjon, realizzato con una tecnica già impiegata in alcuni edifici di culto greco-normanni di Calabria e Sicilia, basata sull’alternanza di conci di scisto di medie e piccole dimensioni e laterizi, disposti in modo irregolare, e cantonali caratterizzati dall’alternanza regolare di blocchi di scisto, mattoni di dimensioni 23 x 40 cm e pietra lavica. Per il suo impianto quadrangolare questa struttura ricorda il donjon di Sant’Angelo dei Lombardi di XII-XIII secolo. Alla fine dell’ XI e inizi del XII secolo risalgono le murature di recinzione presenti sul versante nord – est che sarebbero state reimpiegate nella costruzione del grande ambiente di forma rettangolare di seconda fase costruttiva. Tra fine XI e metà XII vennero inoltre realizzate le strutture della torrecappella, che fu il primo luogo di culto costruito nel castello normanno.

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La chiesetta, situata al secondo livello, era in origine formata da un unico ambiente di m 8,00 x 8,70, con abside centrale orientata e panche laterali realizzate in muratura. L’ingresso era localizzato sul lato meridionale, per esigenze funzionali e nel rispetto della tradizione bizantina. All’età normanna risalgono anche le murature della recinzione della stessa epoca del tratto perimetrale a ovest dell’ambiente sulla prima cisterna. Tra la fine del XII e la seconda metà del XIII secolo viene edificato il palacium Castri; vengono così realizzati l’aula finestrata, le finestre del piano inferiore, le finestre del piano superiore sul lato ovest ed est, la porta di accesso sul lato ovest con stipite sinistro, i fori per l’alloggio delle travi del solaio, i muri centrali di sostegno relativi alla copertura dell’ambiente e il battuto. La torre-cappella palatina e la torre-mastio, unitamente al muro con finestre arciere e a una piccola cisterna costituiscono l’originario nucleo normanno del castello. Al primo vi è una cisterna, mentre al secondo la cappella palatina, una piccola chiesa a navata unica mono – absidata, il cui arco absidale è caratterizzato da conci di calcarenite e pietra vulcanica, di cui l’alternanza cromatica conferiva eleganza; e al terzo era un ambiente ad uso abitativo. Le scelte decorative e architettoniche della cappella palatina con gli antichi affreschi dove è stata riconosciuta la figura di un leone, evidenziano i legami esistenti con la Sicilia e in particolare i saldi rapporti tra i signori dell’Amendolea e la corte palermitana di Ruggero II. La costruzione del palacium castri determina una diversa destinazione funzionale dell’area; infatti, all’aspetto difensivo viene associato quello residenziale. Il palazzo, articolato su due piani, come documenta la presenza dei numerosi fori per le travi del solaio, si presentava con il piano inferiore che riceveva luce dalle finestre strombate presenti nel muro occidentale; quello superiore era, invece, caratterizzato da ampie finestre con arco a tutto sesto, che mostrano analogie tipologiche e costruttive con l’originaria porta di accesso alla magna turris e presentava due sedili contrapposti che ne evidenziano la molteplice funzionalità; il muro orientale, al di sopra del solaio di copertura, era coronato da merli; e si configura come una grande sala residenziale o di rappresentanza, direttamente collegata all’attigua cappella costruita a metà del XII secolo, tramite una corta scaletta. Anche questa struttura subisce innumerevoli cambiamenti tra la seconda metà del XIII e gli inizi del XIV secolo; in questo periodo si ha la realizzazione di sopraelevazioni, la sistemazione dell’area d’accesso al castello e modifiche alla torre – mastio di carattere più residenziale. La struttura difensiva d’impianto poligonale che delimita il castello sul lato occidentale è stata realizzata tra la fine del XIV secolo e gli inizi del XV, si tratta di un’architettura militare in trasformazione per via dell’impiego delle prime armi da fuoco. Nella campagna di scavo condotta fra il 2001 e il 2002 è stato individuato un ambiente con una struttura per la lavorazione del ferro, abbandonata entro il XV secolo, qui sono stati ritrovati manufatti metallici che potrebbero essere stati prodotti nella forgia dell’ambiente in rapporto alle esigenze della vita quotidiana degli abitanti di questo luogo. Tra il XV e il XVIII secolo, i cambiamenti riguardarono soprattutto la zona d’accesso al castello, furono costruiti tre ambienti riutilizzando in parte muri riferibili sia alla recinzione difensiva di età normanna sia a quella di età sveva, nonché strutture di età angioina; ed è proprio in quest’arco temporale che si registrano nuove modifiche alla torre mastio, con la realizzazione di un nuovo solaio e l’apertura di una porta a un livello inferiore; l’abbandono di molte altre aree del castello, alcune delle quali utilizzati come immondezzai; il restauro della grande cisterna, evidenziato dalla costruzione di un muro di rinforzo e dalla graffitura sul nuovo strato d’intonaco di uno stemma di “ambito” aragonese; la costruzione del grande recinto settentrionale e del sottostante fossato scavato nella roccia. Il Castello dell’Amendolea fu abbandonato in seguito al disastroso terremoto del 1783. Il sisma causò il crollo di molti edifici della fortificazione e una profonda spaccatura degli strati geologici. VINCENZA TRIOLO

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NELLA CHIESA DI SAN FANTINO “IL CAVALLARO”

San Fantino

Chiesa di San Fantino Taureana di Palmi

Incastonata nel cuore dell’antica città dei Tauriani, in una posizione assai strategica sul territorio, nel bel mezzo di una vasta area archeologica (a circa 100 m dal parco archeologico di Taureana) si trova la chiesa di San Fantino. Il sito, sotto una costruzione risalente al 1800, nasconde un piccolo universo di cose da scoprire e realtà da studiare ed esplorare. Le nozioni riguardo al periodo bizantino nel territorio in esame sono molto poche, quasi inesistenti. Tuttavia, sotto la Chiesa dedicata a San Fantino, sono presenti dei resti di un’altra chiesa paleocristiana. Il sito in questione, rappresenta uno snodo fondamentale della storia calabrese, in quanto funge da sparti acque tra il periodo del paganesimo e l’inizio di quello bizantino. I ritrovamenti avvenuti sotto la chiesa ottocentesca di San Fantino, risalgono appunto all’inizio di questa epoca e sono in grado di narrare ancora storie e di fornire informazioni preziose a fini di studio. I resti di questa chiesa, sembrerebbero risalire al VIII d.C, tuttavia, diversi monaci ortodossi, nelle loro visite, sono concordi nel datare i resti osservabili nell’area della chiesa al secolo VI d.C a causa di alcuni rilevanti dettagli quali il metodo di incastro delle pietre nei muri, innalzati certamente grazie all’utilizzo di tecnica siriana. Infatti, reperti di lavorazioni simili sono osservabili ancora oggi maggiormente in Siria e non in Grecia come altrimenti si era pensato in precedenza. Un altro importante dettaglio rilevato da studiosi eminenti nonché rappresentanti della religione ortodossa in Calabria, riguarda le absidi: il loro distanziamento;tanto più che tali studiosi hanno addirittura ipotizzato che i resti della chiesa sarebbero da far risalire ai monaci basiliani. Come è noto, le mura di questa “chiesa sotto un’altra chiesa” sono stati rinvenuti tra il 2005 ed il 2007, anche se l’intero complesso, come vedremo più avanti, risulta danneggiato in alcuni punti a causa di rotture avvenute in tempi precedenti. Si pensa inoltre, che la chiesa bizantina, fosse sormontata in cima da cupole.La datazione indica che questa costruzione, sia addirittura più antica di quella di Stilo (risalente al X secolo d.C), dunque la chiesa di San Fantino a Taureana sarebbe più antica di ben duecento anni.

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Disegno prearatorio “SINOPIA”

La costruzione si presenta divisa in tre navate con muretti che lasciano intendere la presenza di archi paralleli, orientata verso Est come tutte le chiese bizantine, ed in seguito usata come luogo di sepoltura del santo e ad esso dedicata. Sempre all’interno della chiesa, è stato rinvenuto un affresco in fase preparatoria, danneggiato nel tempo dalle muffe e dall’umidità. Nell’immagine, si nota una figura femminile, probabilmente una monaca. Alla sua destra si intravede un giovane, quasi certamente si tratta di San Fantino. Poco distante, si trovano delle scene dell’affresco non visibili a causa dell’interruzione dello scavo in quel punto. Due sono le ipotesi circa l’interruzione della realizzazione dell’affresco: un terremoto abbastanza intenso da richiedere la realizzazione di muri di sostegno ulteriori (necessari proprio al posto dell’affresco), oppure la presenza di una cisterna con tanto di canale di scolo sovrapposto alla parete con l’affresco, il quale, per forza di cose è finito preda della rovina e dell’umido. Ancora, nella chiesa, troviamo mattoni con sopra impresso il nome di chi li ha lavorati, assieme ad altre iscrizioni in diverse lingue, tuttavia non vi è quasi nulla scritto in lingua greca. La chiesa di San Fantino in Taureana (su questo la maggior parte degli studiosi sono concordi per il momento), è il sito cristiano più antico di tutta la Calabria. Per una narrazione maggiormente autentica e particolareggiata da fornire ai visitatori, è possibile osservare in alcune teche poste vicino a quello che un tempo era l’altare maggiore, diverse testimonianze documentarie e fotografiche, capaci di fornire un volto agli uomini coinvolti nello scavo ed una testimonianza visibile al susseguirsi degli eventi circa il ritrovamento dei resti della cripta, delle sepolture esterne nonché della chiesa stessa nei suoi strati più antichi. Procedendo all’osservazione di quello che sarebbe il “pavimento archeologico” della chiesa di San Fantino, è possibile osservare delle fosse, un tempo certamente adibite a sepolture, nelle quali sono state rinvenute delle ossa successivamente spostate altrove. Immediatamente sotto l’entrata sta la cripta, in cui, almeno per un certo lasso di tempo, vennero conservate le reliquie del santo. Altri ingressi si trovavano lateralmente, come in molte altre chiese bizantine. Fino adesso, gli scavi hanno svelato l’esistenza di ben dieci livelli di pavimentazione, la maggior parte visibili ad un primo sguardo; ciò sta ad indicare chiaramente che, nel corso della storia, la chiesa abbia subito diverse ricostruzioni di vario ordine. Infatti, osservando la pavimentazione, è possibile scorgere dei tratti a mosaico, altri in mattoni, poi lastricato ecc. La chiesa perciò, venne più volte modificata nel suo assetto e ricostruita sulle sue stesse rovine a causa di terremoti e altri tipi di danni dovuti alla natura o all’uomo.

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Il fatto notevole in questa constatazione, è la posizione della chiesa. Osservando bene, quello che si impone all’attenzione dell’osservatore è il cambiamento di orientamento che di volta in volta è stato operato nelle varie ricostruzioni. Il luogo però, è sempre lo stesso, le ricostruzioni sempre nello stesso sito, quasi per rispetto alla sacralità del luogo. Come già accennato in precedenza, la presenza di alcuni resti ossei, lascia pensare che la chiesa ospitasse (per lo meno nella fase tardo normanna) le spoglie di personaggi illustri dell’epoca. Pochi sono i resti rinvenuti all’interno del perimetro della chiesa stessa, tuttavia, sul lato sinistro della costruzione, vi sono i resti di una necropoli, attualmente ricoperti onde evitarne la rovina. Si tratta per la precisione di resti risalenti addirittura al periodo pagano, ma ve ne sono anche risalenti a quello del primo cristianesimo in Calabria. Impressionante la scoperta della fosse comune, piena di scheletri a braccia conserte rivolti verso la cripta del santo. Un’analisi al Carbonio 14, rivela che queste sepolture risalgono al 1200 circa, tempo in cui la città di Seminara rappresentava il fulcro vitale della civiltà dell’epoca, centro di riferimento urbano e di conseguenza delle attività e insediamenti del popolo. Attorno al 1200 inoltre, nota è la pestilenza che costò molte vite umane al paese. Questa gente (si contano circa trenta famiglie), venne sepolta poi nel complesso di San Fantino. Sotto questi corpi sovrapposti, alcuni dei quali ancora dotati di denti, vi sono le tombe di epoca romana. Una di esse in particolare, è degna di nota dal momento che conserva ancora l’iscrizione “Mario, figlio carissimo di Lucio”. Altre sepolture risalgono al 1700 e dunque sono piuttosto recenti. Singolare il caso degli unici resti appartenenti a una donna rinvenuti nella chiesa. I più appassionati, sostengono la tesi che tali resti appartengano ad una monaca addetta al rifornimento delle lampade a olio perenni che stavano davanti alla cripta del santo. Il suo nome era Gregoria (per lo meno il suo nome da monaca, visto che il nome di Battesimo resta ignoto), la bambina “non vedente a causa del demonio”, la quale, dopo una notte di intense preghiere davanti la cripta, venne guarita grazie all’intercessione di San Fantino, e che in seguito dedicò la sua vita al servizio ecclesiale. Tale nozione tuttavia non è ancora stata verificata. Si ipotizza addirittura che la donna raffigurata nell’affresco sia proprio Gregoria, la bambina miracolata.

Dunque c’è chi definisce la chiesa di San Fantino “la Lourdes dell’antichità”, per esplicare e rendere immaginabile la rilevanza di tale tappa religiosa nel cammino di fede dei credenti dell’epoca. Andando avanti nell’osservazione del sito, e andando dunque all’esterno, nella parte laterale, proprio accanto al punto in cui è stata rinvenuta la necropoli attualmente interrata, si possono ancora notare, osservando le mura esterne della chiesa, le varie ricostruzioni. Dall’arco laterale i cui resti sono osservabili con un po’ d’attenzione, si accedeva ad un chiostro nel quale i vari fedeli malati venivano ricoverati, nell’attesa di essere esauditi dal Santo. Oggi però, per accedere alla cripta (da non dimenticare è il suo utilizzo a mo di cisterna in epoca romana!), è necessario percorrere una scala di metallo costruita nel 2009. 6


L’ingresso della cripta, è situato sotto una casa di campagna in mezzo ad un vigneto. Il casolare in cui è stato scoperto l’ingresso, un tempo apparteneva ad una facoltosa famiglia palmese, la quale in seguito affittò il casolare ad uso rurale ad un privato del paese, il quale, al piano inferiore usava tenere le galline di sua proprietà, vivendo con la famiglia al piano superiore. Il muro che un tempo era il “pian terreno” tuttavia, conservava ben altri segreti rispetto all’uso di semplice pollaio al quale era stato adibito. Conservava segreti antichi e sacri in attesa di restituirli al mondo moderno.

Il proprietario dello stabile, andando a nutrire i suoi animali, si rese conto che, giorno dopo giorno, il numero del suo pollame diminuiva drasticamente e continuamente. Ad un esame più attento, notò una crepa nella parete sinistra della parete. Era qui che i polli cadevano senza mai fare ritorno. Sotto vi era un ampio spazio: la cripta di San Fantino. I primi scavi furono abusivi prima che il sito venisse restituito agli enti competenti e dunque valorizzato e messo in condizione di accogliere studiosi e visitatori. Si accede alla cripta tramite un’anticamera in cui la scala metallica termina. All’interno di essa, nonostante la presenza dell’acqua (fondamentale e simbolica questa fonte alla quale attingere soprattutto per battezzare i pagani neo convertiti, poco distante dalle sante reliquie), restano visibili tuttora degli affreschi. Al contrario di quanto si penserebbe data la presenza di acqua e umidità, la cripta è in discrete condizioni. Non ha tuttavia subito alcuna modifica significativa o restauro. In uno degli affreschi, alcuni studiosi ritengono che sia presente l’immagine di San Basilio. Altri fanno risalire le immagini dipinte all’epoca normanna. Ancora, immediatamente sotto la piccola finestra (posta non a caso proprio sopra i resti del santo), è osservabile una parte di quella che pare sia una croce gemmata copta. Dai vari livelli inoltre, pare che anche la cripta sia stata più volte ridipinta.

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Nell’angolo sinistro è possibile trovare una parte di colonna adibita ad acquasantiera. Sul tetto della cripta un tempo era dipinto un cielo stellato. Il pavimento in mosaico, purtroppo è andato perduto. In esso troviamo uno scavo in corso, il quale conferma l’uso che veniva fatto in epoca romana della cripta, la quale fungeva da cisterna atta ad immagazzinare l’acqua sorgiva e l’acqua piovana. Inoltre, nel pavimento, è osservabile la presenza di condutture atte a incanalare l’acqua e portarla all’abitato di Taureana. Osservando accuratamente la finestra, si nota il suo decentramento rispetto alla parete. Ciò a causa di un’antica usanza cristiana (la finestra posta non al centro ma quasi lateralmente, starebbe a rappresentare il capo di Cristo piegato lateralmente sul legno della croce). Per finire, degno di essere osservato è il portico d’accesso alla cripta costruito attorno al 1200. Esso appare costituito da materiali di scarto quali pietre provenienti quasi certamente da pavimenti di ville e, addirittura da lapidi incastrate a rovescio. Inoltre, interessante è il rinvenimento nella fondamenta di pezzi di vetro appartenuti a lampade a olio o ad ampolle, posti all’interno delle mura come simbolo e protezione del luogo. Alla luce di quanto esposto, al di là di ipotesi o smentite, il sito paleocristiano di San Fantino resta un luogo di grande interesse archeologico, un luogo che ha molto da raccontare, un luogo sacro del passato, che, nonostante i secoli non ha perduto la sua sacralità.

MARIKA MODAFFARI

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I FRUTTI PIU’ BELLI DEL CONCILIO VATICANO II E IL CONTRIBUTO DELLE CHIESE CALABRESI VERSO UN CAMMINO DI FEDE, DI SPERANZA, DI PACE E DI AMORE. -a cura di- Felice Delfino « Venerabili Fratelli e Diletti Figli Nostri! Pronunciamo innanzi a voi, certo tremando un poco di commozione, ma insieme con umile risolutezza di proposito, il nome e la proposta della duplice celebrazione: di un Sinodo Diocesano per l’Urbe, e di un Concilio ecumenico per la Chiesa universale. » Con queste parole solenni Papa Pacelli, al secolo Giovanni XXIII, il 25 gennaio del 1959, indisse assieme ad un Sinodo romano, al rinnovamento del Codice di Diritto Canonico, un Concilio. Un passo decisivo che condurrà alla riforma dell’Ecclesia stessa. In realtà non si poteva procedere immediatamente alle sessioni dato che prima di apprestarsi con profusa energia e rinnovato entusiasmo al nuovo Concilio (finora l’ultimo Concilio Ecumenico della storia ecclesiale) bisognava concludere i lavori del Concilio Vaticano I, rimasti interrotti a causa dell’evento storico della Breccia di porta Pia avvenuto a Roma nel 1870. Già Papa Pio XI prima e Papa Pio XII dopo, avevano riflettuto sulla possibilità di riprendere e concludere ciò che era stato sospeso, un desiderio che non si concretizzò sotto il loro Pontificato. Il progetto assumerà una forma concreta acquisendo vita proprio con Papa Giovanni XXIII. Avviati i lavori conciliari, le Università Teologiche, tra cui la famosa scuola di Tubinga, assieme alle Congregazioni Religiose di tutto il mondo presentarono le loro proposte sotto forma di temi che furono successivamente sviluppati dalle Commissioni Preparatrici, assieme ad una Commissione Centrale.

Le fonti storiche enunciano le vicende caratterizzanti il C.V.II e le sue problematiche, ponendo l’accento sulle proposte, sulle idee, sulle argomentazioni in stato embrionale poi via via sviluppate, trattate nel corso delle sessioni, ciò garantirà l’uniformarsi ad una visione nuova ed innovativa della Chiesa e del ruolo specifico dei suoi fedeli. Anche i vescovi calabresi si apprestano con fervente entusiasmo a dare un loro importante contributo, prodigandosi,in tal senso, attraverso la loro “consilia et vota”.

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Dalle indicazioni contenute in questi testi si evince la loro preoccupazione, essendovi a quel tempo sostanziali problemi che attanagliavano la vita ecclesiale, ma le loro proposte erano accompagnate dall’augurio che si giungesse repentinamente a soluzioni idonee che garantissero la risoluzioni di queste difficili ed intricate questioni soprattutto per il bene delle anime dei loro fedeli. Questi contributi provenienti dagli uomini di Fede delle nostre Diocesi, sono meno conosciuti di altri; Don Letterio Festa si è preoccupato di rivelarli, in modo da rafforzare l’idea di un processo complicato ma importante, realizzatosi a più tappe, ma determinante, quale effettivamente è stato l’intero iter conciliare. Lo si evince dalle stesse parole del sacerdote: «I Vescovi calabresi – scrive don Letterio – non mancarono di offrire un importante contributo per i lavori preparatori del Concilio Vaticano II attraverso i “consilia et vota”. L’analisi di questi testi permette di riconoscere, nella mente e nel cuore dei presuli, la preoccupazione per la “cura et salus animorum” e la sempre maggiore consapevolezza dei principali problemi in atto nelle loro Chiese. Sarà l’esperienza conciliare, inviata con l’invio delle proposte, a renderli dei testimoni convinti di una Chiesa “semper reformanda”, pronta ad ascoltare le istanze del mondo facendo proprie “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi”.» Per annunciare loro, con il volto rifiorito, il messaggio antico e sempre nuovo di Gesù Cristo «luce delle genti». I Vescovi calabresi arrivarono al Concilio Vaticano II, con la consapevolezza che qualcosa stava cambiando anche tra la gente di Calabria e che bisognava sottolineare le necessità sociali e pastorali delle diocesi calabresi per il bene dei loro fedeli. Tra le problematiche sociali presentate: varie malattie, la crescente criminalità, il diffuso analfabetismo, i disastri urbani e le ferite del cuore, strascichi terribili lasciati dalla Seconda Guerra Mondiale, i massicci flussi migratori verso nuovi lidi in cerca di maggior fortuna. I punti principali sulle sostanziali problematiche della vita della Chiesa regionale erano incentrati anche sulle processioni religiose, sulla condizione dei seminaristi e sui laici. Significative furono le parole dell’allora vescovo di Oppido Mamertina, Mons. Raspini: «Ci porteremo anche noi a Roma, poveri e piccoli asinelli dell’Aspromonte; con fede andremo ad ascoltare, vedere, imparare tutte le ansie della Santa Famiglia umana, che cammina con passo sicuro verso il destino che Gesù Cristo le ha acquistato con il suo sangue.» Alla morte di Giovanni XXIII, avvenuta nel 1963, il suo successore Paolo VI decise di continuare quella che definì “opera principale” e “parte preminente” del suo Pontificato. Nel suo primo discorso esplica i quattro punti fondamentali che verranno poi sviluppati: definizione del concetto di Chiesa; rinnovamento della Chiesa Cattolica; la ricomposizione dell’unità tra cristiani; dialogo della Chiesa col mondo contemporaneo. Il Concilio si concluderà il 7 dicembre del 1965. Sono trascorsi più di cinquant’anni dalla sua indizione e la Chiesa è stata prima rivestita e avvolta, poi trasformata da quest’ aria di rinnovamento pur rimanendo, com’è ovvio, indissolubilmente legata alla sua tradizione. Il seme gettato da Papa Giovanni XXIII, ha trovato terreno fertile per attecchire e col tempo ha dato origine ad una pianta con stabili radici e con numerose ramificazioni e soprattutto ha portato molto frutto. Tra i frutti più belli del Concilio Vaticano II, abbiamo la Lumen Gentium e la Gaudium et Spes. La Chiesa viene così rispettivamente analizzata ad intra, nella sua natura e ad extra nel rapporto col mondo contemporaneo. Figura tra i documenti conciliari la Nostra Aetate, incentrato sul dialogo interreligioso tra la Chiesa cattolica e le altre confessionalità, in particolare coi nostri fratelli ebrei. Com’è noto nel cristianesimo delle origini gli Ebrei erano stati oggetto di persecuzioni, atti d’intolleranza e gli stessi Padri della Chiesa li avevano duramente attaccati come ciechi e guide di ciechi, per non aver riconosciuto la messianicità di Gesù, ma anche scherniti e disprezzati. Con la Nostra Aetate è stato possibile stabilire un dialogo ed il rapporto ebrei-cristiani, da allora ad oggi, si è sempre di più rinvigorito e consolidato. 10


Col Concilio Vaticano II si apre una pagina del tutto nuova della Storia della Chiesa. Moltissime sono le innovazioni e le scoperte fatte dal Concilio. Consideriamo che la Chiesa in quanto mysterion, deve essere vista in relazione con il mistero trinitario. Vi è un legame indissolubile con la Santissima Trinità e del resto non potrebbe essere altrimenti perché la Chiesa è stata voluta da Dio Padre, realizzata da Cristo ed ancora oggi è alimentata e mossa dallo Spirito Santo. Il buon teologo che studia l’Ecclesiologia sa benissimo che non può fare a meno della Cristologia, della Teologia, e della Pneumatologia e sa anche che non può prendere in considerazione uno di questi suddetti studi senza tenere conto degli altri per comprendere la Chiesa nella sua vera essenza, in quanto la Trinità ne è il pilastro, la colonna portante. Oltre alla concezione di Chiesa intesa nella sua realtà misterica, ci sono tante altre accezioni, che in realtà non furono inventate di sana pianta dal Concilio Vaticano II, in quanto provenienti dalle Sacre Scritture, ma che furono particolarmente indicative per gli effetti che produssero, anche se i contenuti che esse racchiudevano in sé non furono da subito facilmente assimilabili per l’ambiente cristiano – cattolico del tempo. Tra queste accezioni ricordiamo su tutte la Chiesa popolo di Dio;si equipara l’importanza di tutti i suoi membri che la compongono e viene rivalorizzato il ruolo dei laici; Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza. Noi popolo di Dio siamo il Corpo di cui Cristo è il capo. Ricordiamo inoltre l’apertura della Chiesa al mondo, prima di allora mancata; si privilegia inoltre la sua attività missionaria. Tra il Concilio Vaticano I ed il Concilio Vaticano II, ci sono delle differenze sostanziali. Il primo tende a criticare il liberalismo, il razionalismo, il fideismo, il materialismo e viene fissato il dogma dell’infallibilità Papale all’interno della Pastor Aeternus.Il Concilio Vaticano II innanzi tutto vuole aumentare la coesione interna e rivolgere l’attenzione della Chiesa stessa ai problemi del mondo contemporaneo. Il punto in comune invece è la riflessione sulla Chiesa: avviata con la Costituzione Pastor Aeternus e completata con la Lumen Gentium, definita dallo stesso Paolo VI la Magna Charta del Concilio Vaticano II. La vetera visione di Chiesa di Bellarmino la considerava “societas hominorum”,e come tutte le società aventi una propria struttura gerarchica,col Concilio Vaticano II decade la gerarchia, anzi per essere più precisi viene ribaltata questa struttura piramidale e il popolo di Dio è collocato al primo posto. Altre innovazioni del Concilio Vaticano II, riguarda l’eliminazione della preghiera “Pro perfidis Judaeis”, istituito nel VII secolo, era presente nella liturgia del Venerdì Santo; inoltre la messa in latino viene sostituita da quella in volgare e i fedeli sono resi parte attiva alla Santa Messa. Sicuramente il Concilio ha portato con sé aria di rinnovamento, ma sarebbe opportuno chiedersi: ci sono state ripercussioni di questo Concilio? Le scelte applicate hanno avuto risvolti positivi, o negativi? Negli anni Sessanta c’era una gran voglia di cambiare il mondo e pertanto questi anni erano caratterizzati da grandi ideologie. Oggi, invece, ci troviamo di fronte a problematiche per certi versi differenti per altri simili. Allora i problemi più drammatici erano quelli della secolarizzazione e dell’ateismo; anche oggi in realtà vi è un crescente numero di atei nel mondo, così come non è sempre semplice la convivenza tra diverse religioni e culture. È certamente cambiato rispetto ad ieri anche il sentimento dell’uomo moderno, al quale la Chiesa si rivolge. Infatti, l’uomo ai nostri giorni, non è più spinto da una visione ideale del mondo, ma è alla ricerca di emozioni, sentimenti ed esperienze che assicurano una buona qualità dell’esistenza, mentalità che si è radicata anche grazie al capitalismo, anche se la profonda crisi economica che ha coinvolto l’Italia così come tante altre nazioni così come l’alto e sempre più crescente tasso di disoccupazione sono aspetti che hanno bruscamente frenato questa soddisfazione. Anche in Calabria, la Chiesa deve essere coraggiosa, riscoprire la sua vocazione e il senso della sua missione, come cinquant’anni fa i problemi legati alla criminalità specialmente alla ‘ndrangheta sono ferite ancora aperte, piaghe sociali che necessitano essere sanate. Lo scorso anno a Oppido Mamertina è successo un fatto eclatante che ha smosso le coscienze di molti fedeli: Durante la precessione sacra la statua della Madonna delle Grazie è stata fermata davanti alla casa del boss Peppe Mazzagatti e si è inchinata. Papa Francesco aveva da poco scomunicato i mafiosi. Il connubio mafia/religione va certo scisso ed è un legame purtroppo assai longevo. Pur considerando la gravità di questi problemi essi rappresentano però soltanto la punta dell’iceberg. 11


Il percorso, è certamente irto di difficoltà e non semplice, ma non scoraggiamoci, armiamoci della corazza della Fede, affrontiamo gli ostacoli che si presentano a noi lungo il cammino con la speranza di chi veramente crede e spera nel Signore, per rinnovarci non solo individualmente ma per effondere questa luce di cui siamo portatori, una luce profusa e prorompente, che deve essere riversata con abbondanza anche a chi non crede o a chi è nel dubbio a causa della disonestà e della perfidia che imperversano nel mondo. Troppi sono i problemi parrocchiali ed individuali, con cui giornalmente ci scontriamo, tuttavia proseguiamo con i migliori propositi e con coraggio in direzione della giusta strada che già è stata tracciata e raggiungiamo la meta prefissa, in nome dell’Amore, della Giustizia e della Fratellanza. FELICE DELFINO

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I PHROURIA DI SERRO DI TAVOLA SUL VERSANTE TIRRENICO E QUELLI DI MONTE GROSSO E SAN SALVATORE NELLA BOVESIA Uno degli aspetti quanto mai singolari che subito è possibile cogliere esaminando la storia degli insediamenti di natura militare della chora reggina è sicuramente il suo elevato numero di fortificazioni erette a difesa e controllo di questo vasto e variegato territorio. Infatti dallo studio storico – topografico sulle aree confinarie dell’antica chora di Rhegion emerge un dato interessante ed inequivocabile: l’elevato numero di fortificazioni a scopo militare presenti sia sul versante meridionale della chora che sul versante settentrionale fino a lambire i piani sommitali del massiccio aspromontano. Serro di Tavola, Palazzo, S. Salvatore, Monte Grosso solo per citare i phrouria più rilevanti; tutti avamposti militari che presidiavano il territorio reggino in riva allo Stretto dal Metauros all’ Halex. Territori questi che più volte hanno visto cruente battaglie e poche pacifiche convivenze; luoghi che hanno indissolubilmente segnato la storia di numerose genti.

Serro di Tavola è il primo phrourion del quale ci occuperemo per la sua strategica posizione di controllo nel quadro del sistema viario del territorio della polis reggina compreso tra il Metauros a settentrione e l’ Halex a meridione. Si tratta dunque di un centro militare edificato dai reggini a 900 m. s.l.m. la cui costruzione risalirebbe al VI - primi decenni del V sec a. C. con più riusi nei periodi successivi. Esso si erge su uno sperone roccioso e abbraccia sotto il suo controllo il territorio dei Piani della Corona e le alture aspromontane. Dal punto di vista dell’indagine archeologica esso presenta una planimetria a pianta quadrangolare le cui dimensioni sono circa 44 mt. x 49 mt. costituite da blocchi quasi regolari di arenaria. Il phrourion è stato indagato dalla dott.ssa Liliana Costamagna che ha ipotizzato due distinte fasi di utilizzo; la prima risalente al VI sec a. C., la seconda risalente ai primi decenni del V a.C. Le strutture risalenti alle prima fase presentano muri perimetrali con uno spessore di 1,80 m costituiti da blocchi di pietra squadrati. Dalle strutture in esame sono anche emersi, nel corso degli scavi, reperti votivi, fenomeno assolutamente normale e ampiamente documentato dalle fonti storiche e storiografiche antiche in quanto era consuetudine dei greci porre sotto la protezione di una divinità i loro fortilizi in modo da esorcizzare la paura per gli attacchi dei nemici. 13


La seconda fase invece presenta una novità edilizia – costruttiva: il phrourion appare del tutto ristrutturato e le dimensioni dei muri perimetrali appaiono essere ridotte; infatti si passa dal 1,80 m. della prima fase al 1,20 m. Inoltre la planimetria della base presenta un ampliamento con strutture destinate al ricovero animale e a deposito merci. Tale fenomeno potrebbe sicuramente indicare, come già ha evidenziato lo storico Zappalà, la probabilità che i Reggini non avessero più la necessità di difendersi dagli attacchi nemici sul versante nord. Il secondo phrourion preso da noi in esame è quello di Monte Grosso sul versante meridionale della chora reggina nel territorio dell’attuale Bovesia. Si tratta di un sito identificato dalla prof.ssa Foxhall sulla cima dell’omonimo monte a 1300 m. di altezza s.l.m. in posizione quasi frontale al phrourion di S. Salvatore. Relativamente a questo sito numerose sono le ombre circa la sua funzione e la sua appartenenza territoriale. Potrebbe trattarsi, alla luce di alcune considerazioni generali, sia una ridotta appartenente al territorio locrese a guardia dell’Amendolea, sia di un avamposto reggino contrapposto a quello locrese di S. Salvatore . Il problema attuale è quello di identificare la sede dell’Halex quale fiume di frontiera. Dell’Halex ci danno notizia anche i rendiconti amministrativi del santuario di Zeus Olimpo a Locri. Essi registrano infatti le rendite delle donazioni di una serie di terre al di là dell’Halex. Si tratta di terre strappate da Dionisio I ai Reggini nel 386 a.C. e offerte ai suoi alleati locresi. Solo 35 anni dopo, Reggio e Locri saranno poste sullo stesso fronte di confine per liberarsi dal figlio di Dionisio I, Dionisio II e attaccare così le popolazioni Bruzie sempre più pressanti. Decidono perciò di stipulare un trattato che ponga fine ai continui dissidi; tale trattato sanciva anche la piena libertà di transito nel territorio fra gli uni e gli altri. Fu così che numerosi territori oltre la frontiera donate da Dionisio I rimasero di proprietà del santuario locrese di Zeus Olimpo pur trovandosi in territorio afferente alla chora reggina . L’ultimo phrourion da noi esaminato è quello relativo al sito di S. Salvatore . Questo sito rappresenta un insediamento fortificato posto a circa 11 km dalla costa e a 1260 m. di altezza sull’omonimo monte di S. Salvatore sui Campi di Bova. La data relativa alla sua fondazione risalirebbe al 550 a.C. Le campagne di scavo hanno evidenziato, da subito, numerose strutture edilizie tra cui i muri portanti di una larga torre quadrangolare e numerose altre strutture posizionate su più livelli. L’area di dispersione del materiale ceramico si estende in direzione sud per una considerevole distanza. Fu probabilmente un incendio di dimensioni catastrofiche ha distruggere il forte di S. Salvatore intorno al 450 / 400 a.C. Si calcola infatti dall’analisi chimica effettuata su alcuni reperti che il fuoco dovette raggiungere una temperatura di circa 1000°. Questo sito ha restituito durante la campagna scavo del 2007, dodici punte di frecce, una grossa cuspide di lancia in ferro, una punta di giavellotto e un frammento di corazza loricata e sono anche emersi elementi che hanno indotto gli studiosi a pensare che tale fortilizio fosse stato dedicato alla dea Persefone. 14


Dal crollo di un probabile secondo piano ci è invece giunta una coppa tardo – arcaica che riporta il nome del proprietario: SIMON. Alla luce di questi ultimi dati, alcuni storici collocano S. Salvatore in area locrese poiché il nome Simon non pare essere attestato a Reggio né si ha notizia di phrouria nel reggino dedicati a Persefone: ciò è accaduto solo per l’area locrese .Ma anche su S. Salvatore le ombre ancora sono notevoli. Ci auguriamo che con la ripresa di future campagne di indagine archeologica si possa fare piena luce sui problemi relativi alle aree confinarie poste tra due delle più belle e affascinanti poleis della Magna Graecia: Rhegion e Lokroi. SAVERIO VERDUCI

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CENTRI ANTICHI DI CALABRIA: CALANNA (RC)

Le prime testimonianze di insediamenti umani a Calanna, paese alle pendici dell’Aspromonte, risalgono all’Età del Ferro. Nel 1953 dei lavori di tipo urbanistico, in contrada Ronzo, hanno permesso il ritrovamento di una necropoli ascrivibile al X-IX sec a.C., con tombe a grotticella o a forno, in cui i corpi erano sepolti in posizione fetale, corredate da importanti ornamenti funerari in ceramica e bronzo, oggi conservati al Museo Nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria. Le tombe sono ricavate su entrambi i lati di un canalone scavato artificialmente nel fianco di una collina di calcare conchilifero. Molte sono le ipotesi interpretative del toponimo di questo paese: la più accreditata fa derivare l’appellativo “Calanna” da columna rhegina (colonna dei reggini). Contestualmente s’ipotizza una vitalità del luogo anche in età greco-romana. Attestazioni dell’epiteto topografico, indicante il punto della costa che più si avvicina alla Sicilia, ci provengono da Plinio il Vecchio, Strabone e Appiano; dai calcoli di Strabone e Plinio, l’ubicazione dell’insediamento in questione coincide con la zona corrispondente a Santa Trada e Cannitello. Un’incerta leggenda farebbe addirittura derivare Calanna da kalè Anna (la bella Anna), ma è più probabile far coincidere il nome del paese con il prelatino Kalanna (scoscendimento, frana, da kala “roccia”) in relazione con le pendici impervie miste a finissima sabbia. Altre informazioni sugli insediamenti nel territorio ci sono fornite sempre da una necropoli scoperta nel 1920 in contrada Marchesi, in questo caso il corredo funerario è abbastanza esiguo, tuttavia, degna di nota è la presenza di un enckolpion (una croce portata sul petto dai viaggi in Terra Santa, con all’interno una reliquia) indice del periodo bizantino. La contrada è la stessa in cui nel 1894 è stato trovato un amuleto di pietra raffigurante S. Giorgio, datato tra il X-XI sec d.C. la quale testimonia la presenza di insediamenti umani nel paese attorno all’anno Mille. Nelle immediate vicinanze di Contrada Ronzo si trova località Imperio, altro sito archeologico rilevante, ma ancora da studiare, dove sono state identificate delle strutture murarie relative ad una fortificazione più antica di quella normanna che, come vedremo, è ancora visibile a Calanna. La civiltà bizantina ha lasciato una forte impronta nella cultura del paese.

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Probabilmente, proprio su un nucleo bizantino i Normanni costruiranno il castello, il quale domina l’intera vallata del Gallico. Si tratta di una struttura originariamente a pianta ottagonale. Oggi sono visibili dei resti della cinta muraria intervallati da torrioni posti a 30 metri uno dall’altro, fossati e cisterne. Da questa fortificazione imponente, si ricava un’altra derivazione toponomastica dal greco, kalè amu(n)a (bel riparo, difesa), proprio per la sua posizione strategica. Qualche notazione di carattere storico è d’obbligo per una panoramica informativa maggiormente accurata: il castello fu feudo, dal periodo svevo, di Pietro Ruffo il Vecchio, che era stato nominato viceré di Calabria e Sicilia, alla morte di Federico II. In seguito alle lotte che contrapposero Manfredi e Pietro Ruffo, il Papa Urbano IV favorì Carlo d’Angiò, a scapito di Manfredi ed ebbe inizio la dominazione angioina. Nel 1275 sappiamo che il Castrum Calanne fu custodito e curato da un castellanum, uno scutiferum e dieci servientes. Il castello di Calanna svolse un ruolo strategico importante nell’ambito delle guerre tra Aragonesi e Angioini, nelle contese fu spesso danneggiato e conseguentemente ricostruito .Ancora, con la pace di Caltabellotta i territori calabri che durante i conflitti si erano schierati con gli Aragonesi (tra cui Calanna) vennero restituiti agli Angioini. A questo periodo risale un documento che ci permette di avere conoscenza di una struttura parziale del castello, che probabilmente aveva bisogno di riparazioni; da tale fonte, si evince la presenza di un muro lungo “cannarum XXXX” posto tra due torri, una a Nord e una ad Est, nella quale “est carcer”. Si trattava dunque di una costruzione imponente, che al suo interno comprendeva anche tre cisterne e due chiese: quella di San Nicola e quella di S. Caterina..

La famiglia Ruffo per molti secoli controllò il paese, con continui passaggi di mano tra Aragonesi e Angioini, nelle guerre per il controllo del Meridione. Nel 1377 troviamo ancora sulla scena storica la persona di Falcone Ruffo, conte di Sinopoli, costui infatti, restò nell’ambito della casata Ruffo fin quando nel 1480 essa non venne infeudata ai Carafa fino al 1548. Passò dunque per diritto di eredità ai De Francesco fino al 1608, quando i Ruffo di Scilla la ricomprarono. Tale fu la condizione di Calanna fino al 1806, anno in cui le leggi di Murat sull’eversione della feudalità eliminarono il sistema feudale in tutto il Regno delle Due Sicilie. L’altro centro che ricade nel territorio calannese è Villamesa, il cui toponimo Mesa significa centro, zona, per derivazione greca; rifacendosi all’arabo invece, indica la zona davanti alla moschea, il mercato.

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Questo luogo si configurò infatti fin dalle origini come un centro di spiccata religiosità, comprendente l’antico monastero di San Martino, il che contribuì a definire i rapporti tra i due territori: Calanna come baluardo difensivo e Mesa come punto di riferimento religioso. Fino al ‘600 Mesa fu solo una contrada. Nel 1859 fu aggregata come villaggio (da qui il francesismo Villamesa) al comune di Calanna e nel 1923 nacque la parrocchia autonoma. IL KASTRON DI CALANNA E I RECENTI SOPRALLUOGHI. Tra il 2009 e il 2010 “Campi scuola residenziali di rilievo archeologico” sono stati promossi a Calanna dal Labortest del Dipartimento PAU dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, al fine di rilanciare il territorio. Come è noto, quello che resta dell’originario castello è ben poco, a causa anche dei cedimenti naturali del terreno. Tutto ciò che finora c’è di conosciuto, proviene dal documento datato 1276, nel quale si accenna alla struttura che necessitava di qualche riparazione. Dalle campagne di scavo condotte precedentemente nel 1991 e 1993, sono state ricavate ulteriori importanti informazioni: resti delle cisterne identificabili dal piano in malta idraulica, la presenza di un altro ingresso al castello nella parte settentrionale e una porzione di cinta muraria orientale.

Ancora, successivo a un’azione di ripulitura dell’area, nel corso dell’ultima campagna, uno studio delle strutture murarie, della funzione degli ambienti castellani e il recupero di alcuni frammenti di ceramica di età normanna e basso medievale. L’analisi del metodo di costruzione del castello ha consentito l’individuazione di somiglianze costruttive con le fortificazioni più vicine. La torre Est risulta maggiormente rifinita; l’uso della pietra lavica infatti garantisce oltremodo questo tipo di raffinatezza. Vi è un’unitarietà di base per l’intero complesso. La situazione più complessa e degna di nota, riguarda la stratigrafia della torre che aveva funzione di carcere, con almeno due fasi costruttive. L’importanza di questo castello dal punto di vista militare, per la propria posizione e per la buona manifattura, rimane nei secoli indiscussa. IL KASTRON DI CALANNA RIPOSTIGLIO DI ETA’ BIZANTINA Il XII Congresso di Numismatica a Berlino nel 1997, ha visto il Prof. Daniele Castrizio, ricercatore presso la cattedra di Numismatica Greca e Romana dell’Università di Messina, Dipartimento di Scienze dell’Antichità, occuparsi di alcune emissioni monetali di età bizantina, nel tentativo di attribuirle alla zecca di Reggio. Riguardo al regno di Basilio I, vi sono alcune monete, oltre quelle provenienti da Costantinopoli, che presentano delle peculiarità ben precise, da essere attribuite alla zecca di Siracusa: la forma ovale dei volti, il disegno semplificato dei capelli, lo stile delle lettere, il modulo ridotto e il metodo di fabbricazione del tondello. Queste raffigurano sul recto il busto di Basilio I e sul verso il busto dei figli Leone e Alessandro. La presenza di quest’ultimo permette di datare l’emissione all’879, quando venne associato al trono, dopo che la città di Siracusa era stata conquistata dagli Arabi. 18


Alcuni caratteri singolari delle monete richiamano i semisia e tremisia aurei, battuti a Costantinopoli proprio per celebrare Alessandro. La zecca di Siracusa, dunque, in questa circostanza, era già stata dismessa. Le monete sono state ritrovate tutte nella stessa area geografica: 10 esemplari in tutto tra Reggio Calabria, una contenuta nella Collezione Capialbi di Vibo, Messina ed il tesoretto di Calanna. È su questo tesoretto che fermeremo l’attenzione, che vede il kastron di Calanna come ripostiglio di un gruzzolo di monete; in genere, il ripostiglio di monete prevedeva l’intenzione di un recupero in seguito. Il tesoretto di Calanna è confluito nel Medagliere del Museo Civico di Reggio con il numero C.3257 (attuali 2704-2808), in principio inventariato come “lotto di 93 monete di bronzo bizantino appartenenti a Leone VI”. Attualmente, le monete che risultano a quel numero d’inventario sono 105, non è da escludere che alcune monete del nucleo originario siano state decurtate e che nel contempo ne siano state aggiunte delle altre non pertinenti. L’occultamento dei ripostigli di Calanna e, similmente, di Via Giulia (RC), comprendente 35 monete di età bizantina è in relazione agli eventi: invasione araba, fine della coniazione di moneta, resa della città di Reggio. La presa di Reggio, nel 901, determinò anche la chiusura della zecca reggina. CALANNA E LA LETTERATURA Una piccola curiosità di tipo letterario permette che si annoveri come poeta, probabilmente originario proprio del paese reggino il famoso Guido delle Colonne, per l’associazione de Columnis o Columna con la derivazione del toponimo Calanna da Columna, come sostiene il Cotroneo (Riv. St. Calab., V (1897) p. 46 e 279-282). Le notizie concernenti la biografia di Guido sono piuttosto scarse: è noto come rimatore appartenente alla scuola siciliana, di cui abbiamo pochissimi scritti; l’unica attestazione certa è che si tratti di un giudice di Messina, perché è un dato che ritorna spesso sotto il suo nome: nei quindici atti del periodo compreso tra il 1243 e il 1280 e in più Dante lo nomina per due volte nel suo De vulgari eloquentia (II, V 4: Iudex de Columpnis de Messana; II, VI 6: Iudex de Messana). Anche nel passo del Purgatorio XI 97-99, una recente interpretazione ha ipotizzato che fosse menzionato proprio Guido delle Colonne: Così ha tolto l’uno a l’altro Guido la gloria de la lingua; e forse è nato chi l’uno e l’altro caccerà del nido. Secondo D. Piccinini, si vuole qui attuare una translatio tra la scuola siciliana e la poesia cortese d’Italia, in cui Guido delle Colonne cede il passo a Guittone o Guinizzelli: si vuole alludere al superamento della poesia dantesca. Si tratta tuttavia solo di un’ipotesi; la tradizione è solita attribuirgli patria romana o messinese. In alcuni testi apografi alternativamente è detto de Columpnis o de Columpna. Infine, dagli autografi di Guido, si può notare che nel 1243 si sottoscriveva come Guido de Columpnulis, mentre in quelli dal 1257 al 1277 leggiamo Guido de Columpnis e da qui si cerca di cogliere il rimando topografico con la località non lontana da Reggio di Columpna Rhegia. CRISTINA VERSACI 19


BIBLIOGRAFIA DEGLI ARTICOLI • • • • •

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IL CASTELLO RUFFO DI AMENDOLEA -di VINCENZA TRIOLO-

In Archeologia castellana nell’Italia meridionale: bilanci e aggiornamenti. IV Conferenza italiana di archeologia medievale, Roma, CNR, 27-28 novembre 2008, a cura di Stella Patitucci Uggeri, Palermo 2010, pp. 241-264. F. MARTORANO, Chiese e castelli medievali in Calabria, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli CZ, 1996, pp. 391- 394. F. MARTORANO, Note architettoniche sui castelli di Amendolea e Bova, Calabria bizantina. Il territorio grecanico da Leucopetra a Capo Bruzzano, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (cz) (ITA), 1995. FONTI ICONOGRAFICHE Fig. 1 _ Immagine fotografica proprietà di Gruppo Archeologico Valle “Valle dell’Amendolea” , anno di scatto 2015. Fig. 2 _ Immagine fotografica proprietà di Vincenza Triolo, anno di scatto 2015.

NELLA CHIESA DI SAN FANTINO “IL CAVALLARO” -DI MARIKA MODAFFARI-

La vita e i miracoli del santo e glorioso servo di Cristo, Fantino “ Giuseppe Pontari Editore 2003 Edimedia edizioni Ricerche e studi storici intorno a Palmi,Seminara e Gioia Tauro del Dott. Antonio De Salvo tipografia Giuseppe Lopresti 1899

I FRUTTI PIU’ BELLI DEL CONCILIO VATICANO II -DI FELICE DELFINO-

DON LITTERIO FESTA, Le Proposte delle Chiese Calabresi per il Concilio Vaticano II, Cittàcalabriaedizioni, MONS. VITTORIO MONDELLO, Amate la Sua Chiesa. Dialoghi coi Miei Seminaristi. Una Lettura della Costizione Dogmatica Lumen Gentium, Reggio Calabria.

I PHROURIA DI SERRO DI TAVOLA SUL VERSANTE TIRRENICO E QUELLI DI MONTE GROSSO E SAN SALVATORE NELLA BOVESIA -DI SAVERIO VERDUCI-

Atti del Convegno di studi sulla Magna Grecia, Volume 37,Parte 1, Arte tipografica, 1999, Digitalizzato 27 Luglio 2007, Provenienza dell’originale: University of Michigan. Bova Marina Archaeological Project/ Progetto Archeologico “Bova Marina”, ClassicalGreekexcavationsat San Salvatore 2005-- / scavi classici a San Salvatore, 2005. Appunti dal seminario “I fiumi della frontiera fra Reggio e Locri Epizefiri ed i forti di S. Salvatore e Monte Grosso a Bova- fonti storiche e scoperte archeologiche”, Bova Marina (RC), Settembre 2010.

CENTRI ANTICHI DI CALABRIA: CALANNA (RC) -DI CRISTINA VERSACI-

AA.VV., Calanna, Laruffa ed., Reggio Calabria, 1982. Strabone, Geografia, VI 1.5. Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, III 73. F.A. Cuteri, G. Hyeraci, Nuovi dati sulla frequentazione medievale del castello di Calanna (RC), in “Studi Calabresi”, V-VI 6/7 (ed. 2012), pp. 39-57. D. Castrizio, I ripostigli di Via Giulia (RC) e del Kastron di Calanna e la zecca bizantina di Reggio sotto Basilio Leone VI, in «Révue Numismatique» 6, 155, pp. 209-219. G.A. Cesareo La patria di Guido delle Colonne in G.L. Passerini, Il Giornale Dantesco (vol. IX). London: Forgotten Books, 1902, pp. 84-87. D. Piccinini, Proposta per Purg. XI 97-99: l’uno e l’altro Guido, in L’A, n.s., n. 32 2008, pp. 95-111.

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Vincenza Triolo

PARLANDO DI...

Nata a Reggio Calabria nel 1980, consegue nel 2014 la laurea in Scienze dell’architettura e nel 2012 la laurea in Storia e Conservazione dei Beni Architettonici e Ambientali nella Facoltà di Architettura di Reggio Calabria. Nel 2001 collabora, con l’incarico di esperto esterno, al progetto PON per il recupero e la valorizzazione del centro storico di Motta San Giovanni. Nel suo iter universitario partecipa a numerosi stage: Fortificazione di Santo Niceto, rilievo e analisi di degradi e dissesti, Archeologia e cantieri di restauro nella Sicilia centrale, Studio di edilizie di base del paese di Armo Gallina (RC). Rilievo e analisi dei degradi e dissesti di Palazzo Spinelli di Motta San Giovanni (RC). Nel 2013 collabora a progetti di ricerca con il Dipartimento PUA presso l’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria ed è stagista presso la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici delle provincie di Reggio Calabria e Vibo Valentia. Nel 2014 collabora con la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici delle provincie di Reggio Calabria e Vibo Valentia con la qualifica di esperto esterno all’attività di catalogazione relativa all’uso del sistema informatico per i Cantieri di Restauro SICaR del MIBACT e all’uso del sistema informatico per la catalogazione relativa all’uso del sistema informatico per i Beni Culturali SIGEC/WEB del MIBACT. Nello stesso anno pubblica il saggio dal titolo: Il Quartiere Praci di Motta San Giovanni (RC). Storia, architettura e conservazione: linee guida per il recupero e il ripopolamento con la GB Editoria; e scrive in diverse riviste online che si occupano di Architettura, Storia e Conservazione dei Beni Culturali.

MARIKA MODAFFARI Nasce il 12/12/1992 a Gioia Tauro (RC). Studentessa Universitaria presso l’unical di Cosenza, nella facoltà di Scienze dell’educazione. Autrice del romanzo “Lumina Noctis”, pubblicato nell’anno 2009. Attualmente collabora con la rivista CESAR in qualità di correttore bozze, ed all’interno dell’associazione culturale CESAR veste il ruolo di segretario. Collabora e redige un magazine trattante temi religiosi.


PARLANDO DI...

SAVERIO VERDUCI ( Melito Porto Salvo, 1979 ) Storico e giornalista divulgatore si è laureato in Lettere Moderne presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ Università degli Studi di Messina nel 2006 con una tesi di laurea dal titolo: “La Calabria nello spazio mediterraneo in epoca romana. Produzioni, rotte e commerci”. Nel 2007 ha conseguito presso la medesima facoltà il Perfezionamento post-laurea in storia e filologia: dall’antichità all’età moderna e contemporanea con una tesi dal titolo: “ I rapporti commerciali tra la Sicilia e le provincie orientali in epoca tardoantica”. Nel 2010 ha conseguito il Perfezionamento post-laurea in studi storico - religiosi e nel 2011 ha conseguito il Master di II Livello in Architettura e Archeologia della Citta Classica presso la Scuola di Alta Formazione in Architettura e Archeologia della Città Classica dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria con una tesi dal titolo “ Rhegion fra Atene e Dionisio I ”. Studioso di storia antica e medievale si occupa della valorizzazione della plurimillenaria storia del territorio reggino e segue con particolare interesse la ricostruzione delle vicende storiche relative al territorio di Leucopetra ( Lazzaro) dove egli vive. Nel 2012 è stato nominato membro della giuria Premio Letterario “ Metauros ” sez. A – Libro edito di storia locale e nel 2013 sempre per il medesimo premio ne è stato nominato presidente di giuria della stessa sezione. Collabora inoltre con l’Istituto Comprensivo Motta San Giovanni ormai da alcuni anni in qualità di esperto e referente storico per i vari progetti di ricerca storica sul territorio lazzarese e mottese.Attualmente collabora con le riviste Costaviolaonline.it per la quale cura le pagine di approfondimento storico, con il portale Grecanica.com - voci dalla Calabria greca, con il sito Lazzaroturistica.it per il quale cura le pagine di storia e di archeologia, e con la rivista di studi storici Cesar. FELICE DELFINO Nato il 04 Ottobre del 1979 a Oppido Mamertina (Rc), ha conseguito nel 2009 il Magistero presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Mons. Zoccali” di Reggio Calabria. Ha insegnato per due anni religione e cultura storico-sociale presso la Do.Mi. di Villa San Giovanni ed ha collaborato con alcune riviste storico-culturali locali pubblicando articoli religiosi per la rivista dell’Associazione Mariana “Amici di Fatima” di Rosalì (Rc), ma anche articoli e saggi storici con alcune riviste cartacee e online tra cui costaviola online. Appassionato da anni alla storia ebraica ha preso parte a diversi convegni incentrati sugli ebrei reggini (nel 2011 al Palazzo della Provincia di Reggio Calabria, evento organizzato dalla Fi.da.pa di Rc, insieme con l’avv. Franco Arillotta e con lo storico Natale Zappalà; nel 2012 nella conferenza presso la sez.UNLA di Arghillà Gallico). Ha pubblicato nel 2013, con la casa editrice Disoblio di Bagnara Calabra, il libro “La presenza ebraica nella storia reggina”. Attualmente vive a Catona (Rc).

CRISTINA VERSACI

nasce a Reggio Calabria il 21/12/1988, consegue la laurea magistrale in Tradizione Classica nel 2014 con una tesi in letteratura greca dal titolo “Cultura greca a Pompei: La Casa degli Epigrammi greci (V 1, 18)” e nel 2011 la laurea in Lettere Classiche con una tesi in filologia classica sul XXIV Idillio di Teocrito (L’Eracliskos), entrambe conseguite presso l’Università degli Studi di Messina. Nel corso dell’iter universitario ha svolto un tirociniostage alla Biblioteca Comunale P. De Nava di Reggio Calabria e uno alla Biblioteca del DICAM (Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne) dell’Università degli Studi di Messina. Sta portando a termine un Master in discipline per la didattica: “Civiltà letteraria della Grecia arcaica”. Collabora con il quotidiano online Calabriapost.


UOMINI DI CULTURA

SAVERIO LANDOLINA NAVA Saverio Landolina Nava nacque a Catania il 17 febbraio 1743 (morì a Siracusa nel 1813). Sotto la guida dello zio, monsignor Landolina, il giovane si dedicò allo studio del latino, del greco, delle scienze naturali, delle lettere, dell’archeologia, dell’economia agraria, della botanica. Nel tempo, grazie alla sua stupefacente cultura ebbe l’onore di essere iscritto fra i soci della Reale Accademia delle Scienze e della Lettere di Napoli, ricevette riconoscimenti dalle accademie di Gottinga e dell’università di Helmestadt, nel Ducato di Brunswick. Durante gli scavi del 1804 rinvenne la statua di Venere Anadiomene. La splendida scultura, conosciuta anche come Venere Landolina in onore del suo scopritore, si può ammirare nel Museo Archeologico Nazionale di Siracusa.Una via del centro storico catanese porta il suo nome, ma pochi sanno chi era l’insigne personaggio. Uomo di cultura dai molteplici interessi e intenditore del buon vino siciliano.


NOVOTA’ DAL...

Agli albori dell’ agricoltura nel deserto Nero

In Giordania un team di archeologi, che hanno lavorato per alcuni anni nel deserto Nero, ha fatto una scoperta che potrebbe svelare come sia stata inventata l’agricoltura. Sono state trovare tracce vecchie di 14 mila anni che potrebbero portare a una nuova comprensione della cultura e dell’ambiente agli albori della civiltà umana nella regione. A quel tempo l’area utilizzata garantiva maggiore pioggia e si potevano prefigurare insediamenti umani. Sotto i basalti vulcanici sulla pianura arida e rocciosa spazzata dal vento, in vista del confine con la Siria, le ossa di un bambino e un adulto affiorano alla superfice dopo migliaia di anni di sepoltura. Analizzando le ossa i semi e gli altri resti gli scienziati potrebbero scoprire che qui, 14.000 anni fa, l’uomo aveva avviato l’agricoltura radunando rilevanti gruppi sociali. Ulteriori scoperte in questo deserto aiuteranno a ricostruire un quadro più chiaro di come l’ambiente e il clima sono cambiati nel corso del tempo e l’impatto che hanno avuto sullo sviluppo della civiltà umana.


...LIBRI


I ITALIA T A L I A

I CONCORSI T I A T L A I L A I A C O C N O C N O C R O S R I S

ITALIAN LIBERTY, concorso fotografico nazionale dedicato all’Art Nouveau http://www.giovaniartisti.it/ concorsi/2015/04/02/è-partito-italian-liberty-concorso-fotografico-nazionale-dedicato-all’art-nouvea

GIOIA NELL’ ARTE “Incontri ed espressioni di anime ” III edizione www.gioianellarte.altervista.org

C O N C O R S

Premio Letterario “IL POETA E IL NARRATORE” www.concorsiletterari.net/il-poeta-e-il-narratore-8°-edizione ARCHEOLOGIA SECONDO ME www,cercabando.it/arti-visive/archeologia-secondo-un-concorso-europeo-per-dirlo/ PREMIO NOCIVELLI PITTURA-SCULTURA E FOTOGRAFIA www.cercabando.it/arti-visive-premio-novicelliconcorso-darte-contemporanea-per-pittura-scultura-e-fotografia/

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