LA CAPORETTO DI DELIO TESSA di Arianna Giardini De là del mur, la seconda raccolta di Delio Tessa approntata per la stampa, ma uscita postuma nel 1947 per le cure di Franco Antonicelli e Fortunato Rosti in Poesie nuove ed ultime, si apre con due dialoghi in prosa, ambientati nel 1936 e nel 1937, che precedono e introducono le cinque liriche contenute. L’Antonicelli nella nota conclusiva del libro trascrive però un terzo «dialoghetto»,519 inizialmente presente nella copia dattiloscritta preparata dal poeta per la tipografia e a noi non pervenuta, ma scartato in seguito a causa delle restrizioni fasciste e della piega che andavano prendendo gli eventi alla fine degli anni Trenta. Il brano in questione, che si legge anche nella Nota al testo dell’edizione critica curata da Isella nella parte relativa alla gestazione di De là del mur,520 presenta uno scarto significativo rispetto ai due colloqui mantenuti,521 sia per collocazione cronologica sia per contesto e protagonisti. Se in questi Mauro Novelli ha voluto riconoscere una sorta di mise en abyme di dedica, facendo leva sul fatto che uno dei due interlocutori, il crudele Consigliere Delegato, chiede al poeta di consacrargli il nuovo volume;522 nell’altro una breve didascalia introduce in un lontano futuro, precisamente nel 2000, quando Tessa, «morto e stramorto», domanda al lettore di immaginarsi la Milano che sarà. Questo terzo dialogo non è improntato, come i precedenti, sul racconto delle follie automobilistiche del Consigliere, che dopo aver investito un passante incontra il poeta per strada e, quasi ignorando l’accaduto, gli domanda della sua «carriera letteraria e giuridica». Lo scambio di battute si svolge nel corso di una «passeggiata romantica» al Cimitero Monumentale, dove due amici, A e B, prendono atto di come il tempo renda invisibili sulle tombe anche i nomi dei più grandi industriali vissuti ottant’anni prima. Lo scenario che questa tranquilla promenade prospetta è in realtà desolante. Nell’immaginario dei due protagonisti, infatti, la gente esistita negli anni Venti suscita «un senso di pena», la si ritiene «triste», «oppressa come da un incubo»: quello di «vivere fra due guerre senza potersi rifare della prima e attendendo d’ora in ora la seconda». Un periodo, si afferma, in cui gli artisti, i poeti, non possono far altro che tacere, lasciando che il popolo rimanga «un corpo senz’anima», «un cadavere vivente», perché la guerra, la Prima, le sue conseguenze e le inquietanti prospettive di un nuovo cataclisma all’orizzonte hanno soffocato il canto. Quanto del vissuto, del mondo che Tessa vede cambiare rapidamente sotto i propri occhi, venga ritratto in queste parole è chiaro, tanto più che il ricorso al termine «incubo» si segnala in altre due significative occasioni. L’una risale al dicembre del 1935, in cui il poeta afferma di non voler pubblicare De là del mur di fronte al presagio di un secondo conflitto mondiale, che viene per certi versi profetizzato: «Aspetterò che la bufera si plachi. Se la calma verrà rimarranno i miei ultimi versi come il ricordo di un incubo notturno, ma se i tempi volgeranno al peggio ancora una volta verrà dimostrato che poesia è sovente profezia»;523 l’altra si legge nella dichiarazione posta a conclusione della prima raccolta L’el dì di Mort, alegher!, pubblicata nel 1932, in riferimento alla «rapsodia di Caporetto», «ricordo angoscioso», «incubo del passato che la realtà nuova ha disperso e per sempre».524
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D. TESSA, Poesie nuove ed ultime. Saggi lirici in lingua milanese corredati delle pagine del dicitore, a cura di F. ANTONICELLI e F. ROSTI, Torino, Francesco De Silva, 1947, pp. 341-343. 520 ID., L’el dì di Mort, alegher!, De là del mur e altre liriche, a cura di D. ISELLA, 2 ed. rivista, Torino, Einaudi, 1988, pp. 509-519: p. 515 521 Ivi, pp. 149-152. 522 M. NOVELLI, I «saggi lirici» di Delio Tessa, Milano, LED, 2001, p. 32. 523 L’el dì di Mort, alegher!, cit., p. 511, nota n. 4. Tessa verrà solo sfiorato dallo scoppio della Seconda guerra mondiale, dacché muore il 21 settembre 1939 senza dunque dare alle stampe la sua seconda fatica. 524 Ivi, p. 143. 216