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di Arianna Giardini
LA CAPORETTO DI DELIO TESSA di Arianna Giardini
De là del mur, la seconda raccolta di Delio Tessa approntata per la stampa, ma uscita postuma nel 1947 per le cure di Franco Antonicelli e Fortunato Rosti in Poesie nuove ed ultime, si apre con due dialoghi in prosa, ambientati nel 1936 e nel 1937, che precedono e introducono le cinque liriche contenute. L’Antonicelli nella nota conclusiva del libro trascrive però un terzo «dialoghetto»,519 inizialmente presente nella copia dattiloscritta preparata dal poeta per la tipografia e a noi non pervenuta, ma scartato in seguito a causa delle restrizioni fasciste e della piega che andavano prendendo gli eventi alla fine degli anni Trenta. Il brano in questione, che si legge anche nella Nota al testo dell’edizione critica curata da Isella nella parte relativa alla gestazione di De là del mur,
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520 presenta uno scarto significativo rispetto ai due colloqui mantenuti,521 sia per collocazione cronologica sia per contesto e protagonisti. Se in questi Mauro Novelli ha voluto riconoscere una sorta di mise en abyme di dedica, facendo leva sul fatto che uno dei due interlocutori, il crudele Consigliere Delegato, chiede al poeta di consacrargli il nuovo volume;522 nell’altro una breve didascalia introduce in un lontano futuro, precisamente nel 2000, quando Tessa, «morto e stramorto», domanda al lettore di immaginarsi la Milano che sarà. Questo terzo dialogo non è improntato, come i precedenti, sul racconto delle follie automobilistiche del Consigliere, che dopo aver investito un passante incontra il poeta per strada e, quasi ignorando l’accaduto, gli domanda della sua «carriera letteraria e giuridica». Lo scambio di battute si svolge nel corso di una «passeggiata romantica» al Cimitero Monumentale, dove due amici, A e B, prendono atto di come il tempo renda invisibili sulle tombe anche i nomi dei più grandi industriali vissuti ottant’anni prima.
Lo scenario che questa tranquilla promenade prospetta è in realtà desolante. Nell’immaginario dei due protagonisti, infatti, la gente esistita negli anni Venti suscita «un senso di pena», la si ritiene «triste», «oppressa come da un incubo»: quello di «vivere fra due guerre senza potersi rifare della prima e attendendo d’ora in ora la seconda». Un periodo, si afferma, in cui gli artisti, i poeti, non possono far altro che tacere, lasciando che il popolo rimanga «un corpo senz’anima», «un cadavere vivente», perché la guerra, la Prima, le sue conseguenze e le inquietanti prospettive di un nuovo cataclisma all’orizzonte hanno soffocato il canto.
Quanto del vissuto, del mondo che Tessa vede cambiare rapidamente sotto i propri occhi, venga ritratto in queste parole è chiaro, tanto più che il ricorso al termine «incubo» si segnala in altre due significative occasioni. L’una risale al dicembre del 1935, in cui il poeta afferma di non voler pubblicare De là del mur di fronte al presagio di un secondo conflitto mondiale, che viene per certi versi profetizzato: «Aspetterò che la bufera si plachi. Se la calma verrà rimarranno i miei ultimi versi come il ricordo di un incubo notturno, ma se i tempi volgeranno al peggio ancora una volta verrà dimostrato che poesia è sovente profezia»;523 l’altra si legge nella dichiarazione posta a conclusione della prima raccolta L’el dì di Mort, alegher!, pubblicata nel 1932, in riferimento alla «rapsodia di Caporetto», «ricordo angoscioso», «incubo del passato che la realtà nuova ha disperso e per sempre». 524
519 D. TESSA, Poesie nuove ed ultime. Saggi lirici in lingua milanese corredati delle pagine del dicitore, a cura di F. ANTONICELLI e F. ROSTI, Torino, Francesco De Silva, 1947, pp. 341-343. 520 ID., L’el dì di Mort, alegher!, De là del mur e altre liriche, a cura di D. ISELLA, 2 ed. rivista, Torino, Einaudi, 1988, pp. 509-519: p. 515 521 Ivi, pp. 149-152. 522 M. NOVELLI, I «saggi lirici» di Delio Tessa, Milano, LED, 2001, p. 32. 523 L’el dì di Mort, alegher!, cit., p. 511, nota n. 4. Tessa verrà solo sfiorato dallo scoppio della Seconda guerra mondiale, dacché muore il 21 settembre 1939 senza dunque dare alle stampe la sua seconda fatica. 524 Ivi, p. 143.
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Parlando infatti in un suo articolo del 1937 della Storia d’Europa nel secolo decimonono di Croce, Tessa ne riporta un estratto in cui il conflitto mondiale e le condizioni di pace stipulate a Versailles vengono definiti «un comune errore che chiedeva comune espiazione», mentre nell’epilogo del trattato crociano si intravede il corrispettivo di «un cielo basso ed immobile e grave di tempesta imminente […] l’atmosfera pesante, […] la notte precoce del dopoguerra che tutt’ora perdura e incombe sul vecchio continente e opprime gli spiriti».525 Tanto è vero che le uniche parole che a vent’anni di distanza dal conflitto risuonano come vere, benché allora tacciate di disfattismo, sono a detta di Tessa quelle pronunciate coraggiosamente da papa Pio X, quando parlò di «inutile strage».526
La Grande Guerra è a tutti gli effetti nella vita e nell’opera del poeta milanese un punto di non ritorno: non quella promessa di catarsi fatta ai popoli che lo stesso Croce ebbe a definire «mancata», non la forza destinata a guarire un mondo già agonizzante, ma la spinta acceleratrice a «sputtanarlo nelle midolla»,527 aprendo la strada al fascismo. E se è vero che l’inizio del Novecento è per il Tessa della sceneggiatura per film Vecchia Europa già presago di sventure rispetto all’«Ottocento beato», se l’Italia è «una veggia pelanda, razza / de cioij, / assa marscia, insedida / in quella baracca / decrepeta che se squanquassa!!»,528 la realtà milanese può tuttavia ancora offrire dei momenti di serenità.529
Noi uomini di questo agitato decennio sorridiamo di quel pianto [l’esito lacrimevole della prima alla Scala] e sfogliando i giornali milanesi di quel lontano 18 febbraio [1904] – specchi fedeli di un mondo tranquillo, ordinato e felice – troviamo con sorpresa che l’unico cruccio cittadino è stato l’insuccesso della Butterfly, cioè no, si era anche in pensiero, per la salute dello Zar un po’ raffreddato e corrucciato per le cattive notizie della guerra russo-giapponese… perché… sì… c’era pure una guerra, ma in sordina e lontana per quanto pareva senza pericolo di complicazioni.530
All’interno di questo clima municipale d’inizio secolo, certo non particolarmente lungimirante sui futuri esiti della storia, si fa strada l’idea di «scrivere un libretto su i Fioeu, i Piant, i Besti», proposito destinato a naufragare negli anni che seguono il conflitto, data ormai l’impossibilità per il poeta di «godere delle cose semplici e pure […] preso nei gorghi dell’umanità in tempesta».531 L’esperienza bellica infatti segna la fine di quel mondo «tranquillo, ordinato e felice» di cui si legge sopra: «Dopo il lavacro della guerra l’umanità è stata presa dalla passione per l’igiene. Hanno messo il mondo nell’autoclave e ne è uscito sterilizzato e forse anche insterilito, è rimasta soltanto qualche cimice nei letti. Prima del ’14 la gente si lavava meno, ma in compenso amava la poesia».532
525 Il pezzo Benedetto Croce risale al 1937 (lo riprendo da D. TESSA, La rava e la fava. 50 prose disperse, a cura di M. NOVELLI, Lugano, Giampiero Casagrande Editore, 2014, p. 215. Per gli estremi di tutti gli articoli citati da questa raccolta se ne veda la Nota ai testi pp. 27-34). 526 ID., La bella Milano, a cura di P. MAURI, Macerata, Quodlibet Compagnia Extra, 2013, p. 371 (per gli estremi di tutti gli articoli citati da questa raccolta se ne veda la Nota bibliografica pp. 17-19). 527 L’el dì di Mort, alegher!, cit., pp. 511-512, nota n. 6. 528 ID., Vecchia Europa, a cura di C. SACCHI, Milano, Bompiani, 1986, p. 31 (una seconda edizione curata da Isella e uscita presso Archinto risale al 2003). 529 La sceneggiatura Vecchia Europa, pubblicata per la prima volta nel 1986, viene composta verisimilmente intorno al settembre 1932 – data che Tessa sottoscrive alla sua introduzione –, in poco tempo e a ridosso dell’allestimento di L’è el dì di Mort, alegher! (si veda la premessa di Stella all’edizione citata). La vicenda, ricostruibile per accostamenti di frammenti, è quella di una giovane senza via d’uscita che si dà alla prostituzione e a causa di essa cade sfiancata, come il morto che aleggia tra una scena e l’altra. A queste immagini si aggiunge il continuo affiancamento del bordello alla chiesa e la condanna degli stolti borghesi arricchiti di una cittadina lombarda dai contorni sfumati: ritratto di un mondo in sfacelo, la vecchia Europa, e con essa l’Italia, possono offrire serenità ormai solo alle bestie. 530 La rava e la fava, cit., p. 91. 531 L’el dì di Mort, alegher!, cit., p. 26. 532 La rava e la fava, cit., p. 187.
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Tessa non si sa spiegare che cosa sia successo nell’estate del ’14, né sa trovare qualcuno che sappia giustificare come dagli «ozi beati», dai dolci e da Chopin si sia incappati «nella più atroce delle guerre».533 Dal canto suo non prenderà parte al conflitto, sicché il suo punto di vista è quello di chi, rimasto a Milano, assiste di persona al crollo delle abitudini, dei valori e della serenità di una città-famiglia. È in questa circostanza che va rintracciata la causa della progressiva scomparsa di quella «borghesia attiva, dignitosa e benestante» che per tutto l’Ottocento aveva costituito il perno della società: in pieno regime fascista di questo ceto non è rimasto nulla perché si sono tutti arricchiti o radicalmente impoveriti. Tessa infatti prende atto, registrandola in un articolo, della soppressione della seconda classe nella ferrovia Nord, «la più moderna delle ferrovie», segno evidente di una accentuata disparità sociale: i soli fruitori dei treni sembrano ormai appartenere alla prima o alla terza classe.534
Ma, altrettanto amaramente, la prospettiva cittadina gli consente di cogliere l’intera parabola di chi parte per il fronte e non torna, e nei suoi articoli degli anni Trenta ne rievoca il ricordo attraverso una lucida e composta rappresentazione. Ci sono avvocati eroi, nelle sue pagine, come il Lanzi, che attende l’inevitabile chiamata alle armi, contempla le Prealpi azzurre e lontane e ha il presentimento di venire ferito e la convinzione di cavarsela; ma le sue certezze si infrangono con la stessa semplicità con cui trova la morte al fronte poco tempo dopo.535
Ne Il caffè della sciora Cechina la saletta riservata alla compagnia dei giocatori di «football», durante la guerra «si svuota di colpo».
Tutti là… uno sul Carso… uno in Val Lagarina… Di tanto in tanto veniva qualche brutta notizia al banco della sciora Cecchina: «L’ha sentii? I parent del Gusto han ricevuu la lettera… ma sì, el Gusto!... Quel biondon… già, m’han ditt sul Sabotino». Il tavolo dei vecchioni commentava: «Mah… la guerra!»
Ed in questo caffè l’intera guerra è narrata da voci diverse: commenti sugli inglesi non particolarmente amati, benché alleati; il padre di Tessa che in Caporetto rivede Lissa e Custoza; un ex militante nell’esercito austriaco poi fuggito in Piemonte nel ’59 che da patriota si sente infiammare da uno spirito di rivalsa; la resistenza e la vittoria. Solo il marches Carchen ci vede una «bagajad», mandando in bestia uno dei presenti: «Capite? Per lui la guerra europea che cos’era infine? Una ragazzata!!». Ma che cosa la guerra rappresenti, chi abbia ragione o meno, lo scrittore non è in grado di dirlo nemmeno a distanza di diciotto anni.536
In un altro articolo si racconta del signor Peppino, chiamato insistentemente da una voce melliflua che ricorda una tromba: una macchietta, semplice figura di uomo che in licenza per qualche tempo, si intrattiene in via Olmetto 1 a scambiare due chiacchiere con i portinai, ma richiamato alle armi dopo Caporetto, non farà più ritorno a casa.537 Ma c’è anche la capacità di ironizzare su un aneddoto della vita di trincea: esemplare il «fratello della Margherita», che sul Carso, visti per la prima volta dei prigionieri tedeschi, si stupisce siano «omen come nun», immaginandosi invece uomini dalla testa enorme per l’appellativo di craponi, teste dure, con cui talvolta li si additava.538
I toni e gli accenti, a quasi vent’anni da questi episodi, quando le prose vengono scritte, sono dunque ben diversi da quelli che troviamo invece nella più nota rappresentazione che Tessa dà del conflitto, con cui tocca, per usare le parole di Cortellessa, il «vertice tragico della poesia di
533 D. TESSA, Ore di città, a cura di D. ISELLA, Torino, Einaudi, 1988, p. 211. 534 La bella Milano, cit., p. 146. 535 La rava e la fava, cit., p. 151. 536 La bella Milano, cit., pp. 27-31. 537 Ivi, p. 193. 538 Ivi, p. 109.
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guerra». 539 Caporetto 1917 viene composta a caldo, a strage conclusa, tra l’aprile e il maggio del 1919, durante il biennio rosso, e con essa il poeta affronta per la prima volta una vicenda collettiva, non più solo municipale, su cui è impossibile tacere, per poi ritirarsi in un silenzio lirico lungo quasi dieci anni:540 il dopoguerra infatti rappresenta un «caos» in cui la poesia è «morta o quantomeno caduta in catalessi».541
La critica ha più volte posto in evidenza l’eccezionalità del tema affrontato nel poemetto: noto è il giudizio del Croce, che riconosce a Tessa il merito di aver ritratto «come nessun altro ha fatto finora» i giorni di Caporetto,542 poi ripreso a distanza da Isella quando vede nel poeta il solo ad aver dato una risonanza adeguata nella poesia italiana a una vicenda tanto tragica. 543 Si legga in merito anche il commento di Franco Loi:
Siamo nel 1919. D’Annunzio scrive la Canzone del Quarnaro, con i suoi fascisti Alalà!; Ungaretti pubblica Allegria di naufragi e inizia Sentimento del tempo, straricco di elogi al regime. La guerra è finita da un anno – la guerra dei 600.000 morti della ritirata di Caporetto – e i poeti in lingua nazionale illustrano in forma retorica o finto avanguardistica la «guerra della redenzione» e la «Patria in armi» […]. In quello stesso 1919, Tessa scrive Caporetto 1917 […].544
Se i poeti in lingua tendono dunque, a vittoria ottenuta, a rielaborare l’esperienza bellica creando il mito della morte e resurrezione di una nazione, tra i «mediocri vernacolari» l’atteggiamento prevalente, come scrive Novelli, è quello del «ritrarsi atterriti dall’orrore mondiale, volgendosi una volta di più ai propri orticelli municipali».545 Ma non mancano le eccezioni. In ambito milanese infatti, nel 1917, il poeta Enrico Bertini, sotto lo pseudonimo di Berto Cinerini, pubblica la raccolta Meneghin ai so bagaj minga imboscaa, dedicata ai «car solderasc», i soldati combattenti al fronte, col tentativo di divertirli con «quatter storiell e trii spegasc».546 La guerra, la «pù porca che ghe sia», in queste «poesie varie in vernacolo» che si arrestano al 24 febbraio 1917, non è toccata solo di sbieco, sebbene il poeta non parta per il fronte:547 requisitorie contro i
539 Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia di poeti italiani nella Prima guerra mondiale, a cura di A. CORTELLESSA, Milano, Mondadori, 1998, p. 390. 540 L’unica eccezione è data da alcuni rifacimenti delle poesie di Giosafatte Rotondi e da El gatt del sur Pinin. 541 La rava e la fava, cit., p. 155. 542 B. CROCE, Poesia dialettale, «La Critica», XXXI (1933), 2, pp. 155-158; poi in ID., Pagine Sparse, III, Bari, Laterza, 1960 [1943], pp. 90-94. 543 D. ISELLA, Introduzione a L’el dì di Mort, alegher!, cit., p. XIX. 544 F. LOI, profilo di Tessa, in Poesia italiana del Novecento, a cura di P. GELLI-G. LAGORIO, I, Milano, Garzanti, pp. 218-220. 545 M. NOVELLI, I «saggi lirici» di Delio Tessa, Milano, LED, 2001, p. 183. 546 Trad.: «Quattro storielle e tre scarabocchi». 547 Enrico Bertini nasce nel 1862 da una famiglia della media borghesia milanese; compiuti gli studi classici, si iscrive al Conservatorio e ottiene il Diploma nel 1883. Attivo come compositore e insegnante (sue ad esempio le musiche del Roncisval, dramma lirico in tre atti del 1891 su libretto di Emilio De Marchi), sviluppa la sua vena lirica durante il conflitto mondiale. Nel 1917, oltre a musicare L’Inno del Primo battaglione volontari “Sursum Corda”, pubblica infatti Meneghin ai so bagaj minga imboscaa, raccolta introdotta al fronte e letta «qua e là» negli ospedali militari cittadini, secondo quanto riferisce il Pagani (Antologia dei poeti milanesi contemporanei, a cura di S. PAGANI, Milano, Ceschina, 1938, pp. 45-46), e poi confluita in Poesie varie in dialetto milanese (edite una prima volta nel 1919 e poi, accresciute, nel 1929). Alfredo Testoni, suo prefatore alla raccolta del 1919 (e nell’edizione successiva), ricorda: «Si è poeti a scrivere musica, si è poeti a dipingere, si è poeti ad amare, si è sempre un po’ poeti; ci vuole l’occasione. E a scrivere dei bei versi l’occasione per Lei è stata precisamente la guerra» (si cita da E. BERTINI, Poesie varie in dialetto milanese, Milano, Libreria Editrice Ambrosiana, 1929, p. 6). Il Bertini, a guerra conclusa, piangerà nei suoi versi i morti e il sangue versato: amari sacrifici che aprono però uno spiraglio di speranza dopo la vittoria, o meglio, la vendetta della «patria». Nelle poesie dei primi anni Venti, non mancano accenni a Mussolini: viene cantata la morte di alcuni giovinetti fascisti e lo stesso poeta si rappresenta fascista in sogno in un ironico colloquio con il duce. Sarà autore di altre raccolte dialettali in versi: …E giò sti vers!... del 1933, El signor di Poeritt del 1936 (entrambe edite presso Cavalleri, Como). Tra gli scrittori scelti dal Pagani nel 1938 per la sua Antologia, Bertini è descritto come poeta di buon
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socialisti, contro chi non pensa ai fratelli impegnati a combattere e contro i tedeschi; immagini di trincea e di affetti: «han dovuu i nost bagaj andà giò a mucc / mort, ferii, sanguanent in mezz al giazz, / han dovuu tutt’i mamm piang e sgarì»;548 ma anche singolari rappresentazioni che si dicono riprese «dal vero»: così accade nell’episodio del soldato sfregiato che si maschera per divertire i commilitoni nell’ospedale militare, sebbene venga rimproverato dal suo capitano che è invece vestito di tutto punto, e lo stesso vale per la critica a tutti i vari interventisti e neutralisti che sembrano anteporre le ideologie di partito al fatto di essere innanzitutto italiani.
Ma al di là di questi severi giudizi Bertini non sembra condannare aspramente la guerra. Ne ritrae, certo, le conseguenze fisiche, gli «eroi», i martiri, i pianti, ne mette in luce la brutalità, talvolta anche macabramente; ma sembra opporsi perlopiù a chi la giudica o la combatte senza sporcarsi le mani, a chi non se ne cura, peggiorando inconsapevolmente la sorte dei soldati al fronte, cioè il suo pubblico elettivo. Dirà la Madonnina del Duomo osservando dall’alto la città sotto cui continua a scorrere la vita milanese, lontano dalle tragedie del fronte:
Ma quel che podi minga manda giò L’è el vedè in gir sta porca indifferenza, che la me offend cent volt pussee ancamò che on s’giaffon, che qualunque impertinenza; perché la ghe fa mal, pesc che i granad, ai nost soldaa, pussee che i s’cioppetad.549
Le poesie contenute nella raccolta del 1917 verranno poi accresciute in due raccolte successive, una del 1919, l’altra del 1929, recanti entrambe il titolo Poesie varie in dialetto milanese, nelle quali compare anche un sonetto su Caporetto oltre ad altri testi sulla guerra:
26 Ottober 1917 Ah! Che dolor!
Ah, che dolor! Hin denter propi in cà, Denter di nost confin, in-d i nost campagn: purtropp in-d i paës se senten già a batt i pee ferraa cont el calcagn,
Con qui papôss schifôs degn de schiscià Domà quel che sôo mì. Che bel guadagn, o socialist car, m’avii faa fà quand m’avii preparaa on dolor compagn!
Penn, sacrifizi, vitt, roba, danee, tutt è andaa, in quell moment stramaledett; e i sit ciappaa col sangu i emm lassaa indree.
L’è staa quand, cont i tôder a brascett, i nost soldaa, tradii, s’hin miss adree a giugà a fà la Russia e a fà el Soviett.
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senso che ricorda nostalgicamente le usanze del «sano e laborioso» popolo milanese, un po’ messe in discussione dall’ingrandirsi della città, e critica le inutili innovazioni d’Oltralpe spacciate per modernità. Muore nel 1948. 548 Trad.: «Hanno dovuto i nostri figli andar giù a mucchio morti, feriti, sanguinolenti in mezzo al ghiaccio, hanno dovuto tutte le mamme piangere e strillare». La citazione è da I stellett a cinqu pont, E. BERTINI, Poesie varie in dialetto milanese cit., p. 23. 549 Trad.: «Ma quel che non posso mandar giù è vedere il giro questa porca indifferenza, che mi offende cento volte di più di un sonoro schiaffo, di una qualunque impertinenza; perché fa male, peggio delle granate, ai nostri soldati, più delle schioppettate». La citazione è da La Madonnina del Domm (Ivi, p. 45).
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Il ritratto della disfatta è evocato essenzialmente attraverso due immagini: l’una è la presenza dei nemici che avanzano prepotentemente nei territori italiani, conquistati in precedenza con il sangue, e la conseguente perdita di case e averi; l’altra allude invece alla rivoluzione in Russia, causa del rafforzamento delle truppe tedesche lungo il fronte italiano. Eppure, al di là delle esclamazioni di dolore e della violenza verbale, non si coglie pienamente il senso di tragedia di quel «moment stramaledett» (si badi al fatto che non compare la parola Caporetto): tanto più che sembra quasi mancare, se si esclude la parola «sangu», qualsiasi riferimento all’enorme strage che subì l’esercito italiano. Al contrario si preferisce dare un’immagine poco meritoria dei soldati, quasi rivoluzionari, quindi disertori, che dopo il «tradimento» dei russi giocano a braccetto con gli stessi nemici. Eppure, il Bertini a conclusione del conflitto, festeggia il sacrificio dei soldati con un lungo poemetto celebrativo dal titolo Viva l’Italia e nel maggio del 1919 celebra con una Preghiera il 4 novembre 1818, onorando i morti che hanno compiuto la vendetta della patria, e definendo la guerra stessa «benedetta».
Chi legga Caporetto 1917 tenendo conto del comune orizzonte milanese su cui si stagliano i versi dei due poeti e, naturalmente, della centralità della guerra, senza alcuno sforzo coglierà la significativa consonanza delle tematiche e delle immagini trattate: se non fosse che nella produzione del Tessa esse fanno capolino proprio quando il Bertini le abbandona per celebrare una vittoria ottenuta al caro prezzo di migliaia di morti. L’operazione del Tessa, a prescindere dall’indiscussa superiorità dei suoi esiti artistici, si situa dunque ideologicamente agli antipodi di ogni forma di esaltazione: non è finita la tragedia, non ci sono vincitori, e alla rievocazione della terribile disfatta deve aggiungersi l’apocalittica visione di una Milano violenta e delirante dopo la lettura della tragica notizia e dopo il timore di un’invasione.
Quella folla indifferente alle sorti della guerra nei versi del Bertini diventa qui una «loccaja», una «missolta de locch», un «someneri de vasco che slandronna, de trionfa» che intona canzoni disfattiste, si mette a ballare, a ridere, a mangiare, a bere, a festeggiare in «santa pasc» a pochi giorni di distanza dall’evento più tragico del conflitto, al possibile incombere della fine della nazione.551
E la requisitoria del poeta non concede nulla a coloro che sono, seppur con gradi di coinvolgimento diversi, ritenuti responsabili della rovina dell’Italia e degli italiani, al punto che paradossalmente proprio i nemici, pur non sottraendosi al sarcasmo del poeta, sembrano il minor oggetto di biasimo e di rancori. Così accanto alla massa lietamente indifferente, emergono innanzitutto le manchevolezze dei comandi alti, i «generaj de pipa» che sono i primi a trattare i loro stessi compatrioti come carne da macello: «I noster patatocch / a furia de traij ciocch, / de ciappaij per el cuu / de mandaij a cà busca». Non c’è però neppure un briciolo di eroismo nel ritratto dei soldati italiani: la deformazione messa in atto da Tessa non concede loro alcuna parvenza di umanità; quasi asini che «scalcen a salt de cuu» nel disertare, ghiande e foglie che cadono dopo l’abbacchiatura e infine, da morti, corpi destinati a marcire, sebbene la prospettiva di una fine imminente si estenda poi a tutti: «dì / per dì, giò, dì per dì, / d’ora in ora andaremm / giò, giò, a pocch a pocch / tutt in d’on mucc a tocch / e boccon».
E di nuovo, come già nel Bertini, tornano le condanne ai socialisti, agli anarchici, ai neutralisti, quello scontro tra ideologie che Tessa prima condanna e porta poi all’estremo, all’indomani di un’immaginata lettura di un bollettino in Galleria che dà come imminente una seconda Caporetto, una ulteriore ritirata, quella della gente comune da Milano all’imperversare
550 Trad.: «Ah, che dolore! Sono proprio dentro in casa, dentro i nostri confini, nelle nostre campagne: purtroppo nei paesi si sentono già mentre sbattono i piedi ferrati con il calcagno, con quelle scarpacce schifose degne di schiacciare solo quel che so io. Che bel guadagno, o socialisti cari, mi avete procurato quando mi avete preparato come compagno il dolore! Pene, sacrifici, vitto, roba, soldi, tutto è andato, in quello stramaledetto momento; e i luoghi presi col sangue li abbiamo lasciati indietro. È stato quando, a braccetto con i tedeschi, i nostri soldati, traditi, si sono messi a giocare a recitare la parte della Russia e la parte del soviet» (ivi, p. 157). 551 Per il testo di Caporetto 1917 mi sono attenuta a L’el dì di Mort, alegher!, cit., pp. 53-86.
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dell’avanzata del nemico. In questa allucinatoria visione la reale follia della guerra, l’assurdità di certe prese di posizione di fronte a un nemico «in casa» e le agitazioni dell’immediato dopoguerra si fondono nell’iperbolica immagine di una rivoluzione cittadina, che porta al linciaggio del direttore del «Corriere» per il suo orientamento interventista e soprattutto a una Madonnina che in Tessa non parla, ma su cui è innalzata la bandiera rossa, evidente simbolo di una città ormai perduta.
L’adozione di spunti attinenti a fatti accaduti o in corso, gli stessi che come si è visto erano ritratti dal Bertini, ma che vengono poi estremizzati o in qualche modo iperbolicamente deformati, è dunque lo strumento essenziale per conferire forza e insieme preoccupante concretezza alla visione del poeta. Le due ritirate, la vera e l’inventata, ad esempio, si focalizzano su due quadri complementari: diversi quindi, ma pur sempre attinenti a quanto accadde realmente con il progressivo abbandono dei territori invasi. Nel primo caso pochi versi ritraggono i soldati che «scappen», «mollen il mazz», «mollen i arma, slisen de tutt i part»; nel secondo si privilegia la disperata sfilata della gente comune: i cittadini che raccolgono le loro cose (come i genitori di Tessa) o i contadini che, caricati come muli, abbandonano terra e animali, e sfilano a fianco di soldati «in filera trista, in filera grisa».
Similmente la duplice fenomenologia della folla milanese, quella festante che il poeta osserva nel giorno dei morti mentre passeggia per la città e quella che invece immagina intenta ad ascoltare gli aggiornamenti dal fronte, si dispiega attorno a una serie di elementi comuni: al di là di talune coincidenze lessicali, è soprattutto la mancanza di solidarietà a connotare tanto il clima di festa, quanto il clima di paura e attesa. Come non ci si cura del massacro di Caporetto e si intonano persino canzoni disfattiste tra una bancarella e l’altra, così gli insulti e il sovrapporsi delle voci in Galleria schiacciano ogni senso di comunità, anche di fronte all’idea di divenire «Italiani senza patria». Con entrambe le rappresentazioni Tessa si avvia dunque a rappresentare quella massa dominata dai bassi istinti (siano essi la gola, l’egoismo o la violenza) che in pieno regime fascista diverrà popolo cieco e plasmabile.
Il riscatto morale di Milano, però, non avviene neppure tra i singoli: solo i genitori del Tessa, protagonisti di un ironico e quasi stridente siparietto, mostrano che è ancora possibile qualche forma di altruismo, allorché il padre si accorge di aver la cassetta di sicurezza piena della «roba di alter»; ma si tratta di incarnazioni non casuali di una realtà che non esiste più, di un mondo avviato a scomparire. A fugare ogni prospettiva di salvezza si staglia infatti, di fronte al sole che si abbassa e gocciola sangue su una città che appare drammaticamente perduta, la figura dell’ingegner Titola Babeo: «asnin caga-zecchin» che ingrassa e costruisce il proprio impero non con il sudore, con l’operosità, ma con la guerra, e dunque emblema di quella borghesia arricchita sui mali della società, completamente aliena da riserve morali, che con il blocco fascista troverà definitiva affermazione.552
Nell’«amen» che sigilla il poemetto Tessa chiude, così, i conti con un mondo in cui ormai non riesce a riconoscersi e davanti al quale la sua poesia si esaurisce. Ma anche quando troverà la forza di cantare di nuovo, di confrontarsi con una realtà che si è mostrata in tutta la sua assurdità, quando le favole non saranno più possibili perché non è più possibile una morale, il ricordo del conflitto è ancora lì con tutto il suo peso e la sua forza. Non a caso la sua prima raccolta, del 1932, trova in Caporetto 1917 il suo perno: si pensi al titolo L’è el dì di Mort, alegher!, che del poemetto è verso e sottotitolo, e all’organizzazione delle poesie che segue la scansione «De prima de guerra», «Del temp de guerra» e «Del dopo guerra», espressa nell’Indice. Evadere dai lasciti di un flagello così terribile e da tutto ciò che ne è seguito sarà allora possibile solo in un modo, quello che Tessa suggerirà due anni più tardi portando a termine la lirica De là del mur: rinunciare all’intelletto,
552 Nel pezzo «Sì, cara» uscito su «L’Ambrosiano» il 14 ottobre 1937 a due coniugi a cui la rivoluzione e gli strascichi della guerra hanno portato via tutto, lo scrittore contrapporrà «il mondo nuovo, agonistico e sportivo, estraneo, insensibile al pianto dell’uomo solo» dove «tutto è in regime di masse; […] Anche le malattie si adeguano ai tempi. La romantica tisi dei musicisti, dei patrioti e dei poeti ha ceduto il posto al cancro degli industriali» (La bella Milano, cit., p. 153).
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varcare il muro della ragione insieme ai matti di Mombello per mettersi alle spalle le implicazioni della crisi del 1929, la gente «squinternata» e i timori della guerra, quella passata e quella che il poeta teme possa nuovamente verificarsi.553
553 L’el dì di Mort, alegher!, cit., p. 205, vv. 251-253.
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