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di Anna Ferrando

COSTRUIRE IL “MITO DELLA GRANDE GUERRA” DEATH OF A HERO DI RICHARD ALDINGTON CENSURATO IN INGHILTERRA E PROIBITO NELL’ITALIA FASCISTA di Anna Ferrando

«The war to end wars had been won by the right side; President Wilson was bringing us peace in one hand and justice in the other; henceforth we Europeans, good or otherwise, would love each other like little children – just watch the darlings at play».460 Così scriveva sardonico Richard Aldington nelle pagine della sua autobiografia, rammentando la fine del primo conflitto mondiale. Era il 1939 e i buoni propositi delle liberaldemocrazie avevano ormai rivelato la loro vera natura di false illusioni; gli europei avevano ricominciato a “giocare alla guerra”, come se gli anni tra il 1919 e il 1939 non fossero stati altro che «a long armistice».461 Fu allora che, come per illuminazione, Aldington percepì la fine di quel mondo borghese durato più di un secolo e al quale apparteneva, tanto da cogliere in quel momento il senso di testimonianza storica della propria vita. Benché quarantasettenne era già vecchio, perché «whatever sort of world results from these convulsions will be different from what I have known, and, I suspect, far less pleasant for people like myself, who will doubtless be eliminated».462 Allo scoppio della Seconda guerra mondiale era pertanto in grado di guardare al passato prossimo con un certo distacco, apprezzando tutta la portata politica, psicologica e antropologica di quella cesura epocale.

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Dopo il primo conflitto mondiale persino Londra era cambiata e Aldington ne descriveva lo strisciante amoralismo: «everything seemed askew […]. Books were ridiculously cheap, doubtless owing to the fact that the whole intellectual class had joined the army». 463 Esponente di quel ceto intellettuale, uso alle letture dilette e al «Times» fresco di stampa,464 lo scrittore britannico avvertiva così lo sgretolarsi dei valori capitalisti e positivisti della borghesia fin de siècle, mentre l’ottimismo ottocentesco lasciava il posto a una mentalità piena di relatività, a vere e proprie mutazioni nello spirito degli uomini.465 Di fronte ad esse egli prendeva dunque coscienza della definitiva «perdita dell’innocenza»466 che la Grande Guerra aveva comportato, venendo a imprimersi nella propria memoria come l’ossessione per eccellenza.

Richard Aldington fu totalmente magnetizzato dalla guerra del ’14 -’18, combattuta in prima linea come soldato semplice e poi come capitano. Il suo punto di vista era dunque quello di un ufficiale di estrazione borghese, educato al Dover College, una scuola militare, e poi alla London University, presto abbandonata per inseguire la sua vocazione letteraria. Poeta-soldato alla Owen, a differenza di quest’ultimo sopravvisse al conflitto, decidendo di farsi romanziere. Non a caso, il suo primo romanzo era incentrato sulla tormentata esperienza in trincea: «Everything or almost everything I have to say about the war […] has been said in Death of a Hero […]. It is impossible for me now to re-capture the passion and indignation which inspired Death of a Hero». 467 Questo scritto, straordinaria combinazione fra racconto di finzione e pamphlet politico, è interessante non solo per il suo contenuto, ma anche per il contesto editoriale in cui maturò, capace di offrire uno

460 R. ALDINGTON, Life for life’s sake. A book of reminiscences, London, Cassell, 1968, p. 184. 461 Ivi, p. 5. 462 Ivi, p. 6. 463 Ivi, pp. 185-186. 464 Cfr. E. GALLI DELLA LOGGIA, Introduzione all’edizione italiana di P. FUSSELL, La Grande Guerra e la memoria moderna, Bologna, Il Mulino, 1984, p. XI. 465 Cfr. P. MELOGRANI, Storia politica della Grande Guerra 1915/1918, Bari, Laterza, 1972, p. 162. Per un approfondimento di questi temi si legga anche A. GIBELLI, L’officina della guerra: la Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1991. 466 E. GALLI DELLA LOGGIA, Introduzione cit., p. XI. 467 R. ALDINGTON, Life for life’s sake. A book of reminiscences, cit., p. 163.

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spaccato sulle modalità di costruzione del “mito della grande guerra” sia in Inghilterra sia nell’Italia degli anni Trenta.

Il primo conflitto mondiale divenne infatti una ricca riserva di suggestioni, di miti e di simboli a disposizione delle liberaldemocrazie in funzione autolegittimante.468 Sin dall’immediato dopoguerra le classi dirigenti cercarono cioè di ricondurre nell’arena politica, interpretandolo, l’intero carico di sofferenze, attese, illusioni di cui erano state portatrici le masse combattenti, le quali, dopo le battaglie della Somme e di Amiens sul fronte occidentale e Caporetto e Vittorio Veneto su quello italo-austriaco, erano diventate assai meno evanescenti che in passato, venendo a costituire un potenziale soggetto politico, temibile e quindi da addomesticare.469

Addomesticare significava innanzitutto rimodellare la memoria fluida e magmatica della Grande Guerra, frammentata in molteplici ed eterogenee memorie individuali, spesso refrattarie alle cornici edificanti di nobili finalità, ma piuttosto condensate attorno all’immagine di un tenente, di una particolare trincea, di questo e non di quell’episodio.470 Delle singole memorie era una prova tangibile l’enorme quantità di lettere e cartoline in franchigia di cui Gran Bretagna e Italia, come tutti gli altri paesi belligeranti, furono letteralmente invase. Significativamente nel 1976 Paul Fussel intitolava il capitolo centrale di The Great War and Modern Memory, “Oh, what a literay war”, alludendo all’incredibile frequenza con cui l’esperienza di guerra fu vissuta in termini letterari, venendosi a configurare non solo come una fucina epistolografica, ma anche letteraria in senso ampio, una fucina in piena azione ancora per moltissimi anni dopo la conclusione delle ostilità.

Gestire dunque questa «invasione»471 divenne una delle vie per contenere i ricordi confliggenti e costruire il mito del primo conflitto mondiale. Com’è noto i meccanismi di controllo e di propaganda erano stati ampiamente sperimentati durante la guerra e, sebbene attenuati rispetto alla censura preventiva del periodo bellico, furono lo strumento principale d’intervento sulla memoria scritta nelle mani dei governi anche negli anni successivi. Tanto in Inghilterra quanto in Italia gli argomenti ritenuti più sensibili erano gli scritti contro la religione, la moralità (buon costume), il re, il parlamento e il governo, le calunnie contro privati cittadini e l’incitazione all’omicidio.472 Come vedremo, nel testo dell’Aldington si trovavano attacchi al buon costume, alla religione, alla classe dirigente inglese e perfino a privati cittadini.

Sebbene considerato da Lawrence Durrell il più bel racconto di guerra dell’epoca473 e nonostante l’immediato successo tra i lettori d’Oltremanica, il libro non era infatti stato dato alle stampe integralmente. La nota dell’autore posta all’inizio dell’edizione inglese del 1929 è a tal proposito esplicita:

I have recorded nothing which I have not observed in human life, said nothing I do not believe be true. […] If I had wanted to do that, I should have chosen a theme less seriously tragic [...]. At my request the publishers are removing what they believe would be considered “objectionable”, and are placing asterisks to show where omissions have been made [...]. In my opinion it is better for the book to appear mutilated than for me to say what I don’t believe. En attendant mieux R.A.474

468 Si veda in proposito lo studio ormai classico di M. ISNENGHI, Il mito della Grande Guerra, Bologna, Il Mulino, 1989. 469 Cfr. I Luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, a cura di M. ISNENGHI, Bari, Laterza, 1998, p. 586. 470 Ivi, p. 580. 471 F. CAFFARENA, Lettere dalla Grande Guerra: scritture del quotidiano, monumenti della memoria, fonti per la storia: il caso italiano, Milano, Unicopli, 2005, p. 39. 472 Cfr. G. BONSAVER, Censorship and literature in fascist Italy, Toronto, University of Toronto Press, 2007, p. 14. 473 Cfr. C. DOYLE, Richard Aldington: a biography, Basingstoke, Macmillan, 1989, p. XIII. 474 R. ALDINGTON, Death of a hero, London, Chatto & Windus, 1930, p. XVIII.

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Al di là della probabile operazione commerciale e della captatio benevolentiae del lettore,475 Death of a hero fu dunque mutilato da Chatto & Windus nella liberale Inghilterra di fine anni Venti. Richard Aldington, però, aveva voluto avvertire il lettore, prendendo le distanze da quella politica editoriale e affermando con forza che quanto da lui scritto corrispondeva al vero. Protagonista di quegli eventi tragici e testimone oculare, Aldington, proprio in virtù della sua diretta partecipazione, non avrebbe mai potuto mentire o edulcorare i toni del racconto.

I concetti di onestà e sincerità ricorrono infatti sia nella nota dell’autore, sia nella lettera fittizia, posta in apertura del libro, al poeta e drammaturgo Halcott Glover, anche lui combattente nelle Royal Flying Corps durante la guerra del 1914-1918. Aldington vi si rivolgeva all’amico, l’unico cui, forse, poteva confessare tutta la verità, senza tema di non essere compreso:

Benché tu abbia qualche anno più di me, appartieni essenzialmente alla stessa generazione: quelli che hanno passato l’infanzia e l’adolescenza lottando, come giovani Sansoni, per districarsi, dall’oppressione dell’epoca vittoriana; e la cui prima virilità coincide con la guerra Europea [...]. Iniziai questo libro quasi immediatamente dopo l’armistizio, in un piccolo villaggio belga dove eravamo accantonati [...]. Poi venne la smobilitazione e il costo di adattarsi alla vita normale costò la vita al mio manoscritto [...]. Poi dieci anni dopo quasi giorno per giorno, sentii tornare l’impulso e incominciai questo libro [...]. Le mie convinzioni più profonde sono tutte nel senso di ignorare le regole di mestiere nell’arte [...]. Non so se sono stato colpevole o no di super espressionismo o di super-realismo, e non me ne curo. So quel che ho voluto dire e l’ho detto [...] e così immagino che questo sia una romanzo-jazz [...].476

In realtà Richard Aldington usando il linguaggio satirico sceglieva uno stile, una forma. Per rappresentare l’inedita dimensione di fragilità della realtà, continuamente minacciata dal disastro e dal caos, cioè per esprimere la condizione tipica della modernità generata dalla Grande Guerra, lo scrittore, e con lui tanta parte dell’intellettualità borghese, attinse all’ironia.477 Del resto Aldington ben sapeva che la satira era adatta a rimarcare la propria visione antieroica del conflitto, poiché unico genere letterario in cui «il potere d’azione dell’eroe è minore al nostro». 478 Guadagnato un certo distacco, com’era possibile non ridere amaramente dell’eccentrica condotta delle operazioni militari, concepite quasi come un gioco da quegli ufficiali britannici quando, per esempio, calciarono un pallone verso le trincee tedesche?479 Il sarcasmo di Aldington rifletteva sul piano del romanzo quanto aveva già sperimentato nelle poesie composte dopo l’offensiva sulla Somme del 1916,480 nelle quali aveva scelto il verso libero, perché più duttile e adeguato a raccontare le brutalità e gli sconvolgimenti esistenziali di un conflitto che non aveva nulla di epico.481 Ecco perché egli definiva il suo un romanzo-jazz, assimilandone la scrittura al ritmo sincopato e all’improvvisazione, caratteristiche del jazz, espressione in ambito musicale di quelle culture della crisi di cui la Grande Guerra fu un detonatore.

In Death of a hero Aldington prediligeva dunque l’umorismo come arma per smascherare le ipocrisie della società liberal-borghese, rigidamente divisa in classi e compiaciuta di sé che, dopo aver spinto l’Europa al massacro, non ne aveva poi saputo gestire le conseguenze sociali. L’accusa all’Inghilterra vittoriana, esplicitata sin dalla lettera a Glover, percorreva tutto il libro, addensandosi

475 Aldington era consapevole delle possibilità commerciali del suo dattiloscritto, tanto che sollecitò più volte gli editori e l’agente americano a pubblicarlo il prima possibile, nonostante le numerose omissioni. Cfr. M. COPP, An imagist at war: the complete war poems of Richard Aldington, London, Associated University Presses, 2002, p. 17. 476 R. ALDINGTON, Morte di un eroe, trad. it. di C. VIVANTE, Milano, Mondadori, 1956, pp. 7-9. 477 Cfr. E. GALLI DELLA LOGGIA, Introduzione cit., p. XI. 478 P. FUSSELL, La Grande Guerra e la memoria moderna, cit., p. 396. 479 Su questo episodio si legga P. DE VILLE, Il soldato inglese e la Prima guerra mondiale, in Grande Guerra e letteratura, a cura di M. BACIGALUPO - R. DEL POL, Genova, Tilgher, 1997, pp. 376-377. 480 Cfr. M. COPP, An imagist at war: the complete war poems of Richard Aldington, cit. 481 Cfr. La polvere e il segno. Poeti inglesi della Prima guerra mondiale, a cura di L. GUERRA, Milano, Cisaplino-La Goliardica, 1980, p. 15.

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in alcune frasi inequivocabili: «La regina Vittoria assisa col suo largo sedere sulla volontà del suo popolo; la classe abbiente assisa col suo largo sedere sul collo della gente. […] Stravagante vecchia Inghilterra. Va’ in malora, vecchia bagascia, ci hai fatto diventare tanta carnaccia da vermi […]».482 Così iniziava la prima parte del romanzo, volta a mettere in ridicolo l’educazione conservatrice del protagonista George Winterbourne, la cui vicenda è raccontata interpolando continuamente le riflessioni del narratore onnisciente. La seconda parte si sviluppa sulla stessa linea, seguendo la vita di George dall’adolescenza fino alla maturità e all’arruolamento nella guerra. La storia, come si evince immediatamente dal prologo, era quella del giovane soldato George Winterbourne e di come le persone a lui più vicine, i genitori, la moglie e l’amante, reagirono alla notizia della sua morte nel primo conflitto mondiale:

La signora Winterbourne aveva un debole per il tono drammatico nella vita privata. Si lasciò sfuggire un grido molto appropriato, si afferrò con ambo le mani il petto alquanto ciondolante e fece finta di svenire. [L’amante di lei si mise sull’attenti, fece il saluto militare e] disse con solennità: “Nobile morte da valoroso, morte da inglese” (Quand’erano i tedeschi a morire non c’era niente di nobile o di valoroso, ma a quei farabutti - che Dio li *********- stava benissimo).483

Sin dalle prime pagine Aldington ci dice che George non fu protagonista di nessuna morte valorosa: mentre tutta la compagnia era a terra in attesa che le bombarde mettessero a tacere la mitragliatrice, egli per una ragione inspiegata si era levato in piedi, esponendosi volontariamente al fuoco nemico. «Un bell’idiota, fu il commento del colonnello, e scotendo il capo mi lasciò»484: «La morte di un eroe! Che canzonatura, che spudorate frottole! Che sconcio, e che disgusto! La morte di George è per me il simbolo di tutto quel maledetto spaventoso spreco, dell’incredibile stupidità di quello spreco, e dell’angoscia che costa».485 Nessun eroe dunque, ma solo uomini che mandarono a combattere e a morire altri uomini in una guerra inutile, della quale ciò che rimaneva era la fredda indifferenza dei sopravvissuti: «Ed io pensai […] al lungo dolore e alla sua vanità»,486 così l’autore chiosava in maniera laconica nell’epilogo.

L’esperienza di George sui campi di battaglia francesi è raccontata soltanto nella terza parte, la più corposa e la più potente, tanto che secondo numerosi critici essa avrebbe potuto da sola fare di Death of a Hero uno dei più bei romanzi inglesi di guerra. Il focus è sulla progressiva disillusione e il logorante esaurimento del giovane soldato, indotto in questo modo a porre deliberatamente fine alla propria vita. Sebbene venisse definito «quasi insopportabile» dall’editore, questo finale non venne omesso. 487 Paradossalmente tale sezione, cruda e realistica (non mancano i pidocchi, le lunghe attese, la fatica fisica, le licenze in cui George «si sentiva a disagio come il teschio della morte a un banchetto»488), non suscitò troppi grattacapi all’editore. Particolarmente sagace è la descrizione di Evans, ingenuo ufficiale britannico, emblema di quell’élite borghese in gran parte convinta di godere di una giusta superiorità, ma completamente ignara, in realtà, delle proprie meschinità:

Evans era il solito giovane inglese uscito dalle tipiche scuole inglesi, incredibilmente ignorante, ma pur “per bene” e pieno di buonumore. […] Accettava obbediente ogni pregiudizio o divieto della benpensante borghesia inglese. […] Sprezzava tutti i forestieri. […] Credeva che i parigini

482 R. ALDINGTON, Morte di un eroe, cit., pp. 47-48. 483 Ivi, pp. 18-25. Gli asterischi stanno a indicare uno dei quattro passaggi mutilati del prologo. 484 Ivi, p. 43. 485 Ivi, p. 44. 486 Ivi, p. 453. 487 Cfr. J. H. WILLIS JR., The censored language of war: Richard Aldington’s Death of a Hero and three other war novels of 1929, «Twenty Century Literature», vol. 45, n. 4, Winter 1999, Hofstra University, p. 482. 488 R. ALDINGTON, Morte di un eroe, cit., p. 413.

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vivessero con l’industria dei bordelli, passandovi il più del loro tempo. Credeva che tutti i cinesi fossero dediti all’oppio […] [e che] gli americani fossero una specie di gente coloniale inferiore, disgraziatamente distaccatesi dalla più alta di tutte le istituzioni, e cioè l’Impero britannico. […] Non aveva nessun dubbio quanto alla guerra. Quello che l’Inghilterra faceva doveva essere giusto […]. Per cui la Germania doveva trovarsi nel torto. E snocciolava a Winterbourne queste alquanto primitive ragioni con aria condiscendente, quasi impartisse una irrefutabile verità a un inferiore purtroppo ignorante.489

In questa sezione a dover essere censurato non fu però questo episodio, bensì l’intero passaggio in cui un gruppo di soldati si diverte con una prostituta francese, e «the obscene trench talk» (cunt, balls,…).490 D’altronde la disgregazione dei valori borghesi, fino al 1914 percepiti immutabili, coinvolse anche il linguaggio, frammentando i vocaboli e le espressioni in una polivalenza di significati prima impensabile. La «perdita dell’innocenza» si rifletteva infatti sulla parola scritta, tanto che sino al 1914 «una frase come “esclamò ansiosamente” (he ejaculated brethlessly) era un luogo comune in un dialogo del tutto innocente anziché, come in seguito, parte di una descrizione pornografica».491 Richard Aldington ne era pienamente consapevole e in Death of a Hero fece ampio uso di quelle ambivalenze per demitizzare gli episodi bellici.

La prima e la seconda parte, invece, furono sottoposte a un esame più accurato da parte della censura, perché troppo audaci nel rappresentare le ipocrisie sociali e sessuali del mondo vittoriano ed edoardiano di cui George è vittima. I diciotto passaggi espunti (nove in entrambe le sezioni) avevano nuovamente a che fare con la durezza delle parole, la difesa dell’amore libero e i riferimenti espliciti alla sessualità, là dove, per esempio, l’autore descrive l’ignoranza del padre di George on his wedding night, o la provocatoria naturalezza con cui Fanny ed Elisabeth condividono lo stesso uomo, George.

Il linguaggio pornografico faceva il paio con qualche passo in odore di blasfemia, come la satirica descrizione di un quadro dell’amico Mr. Upjohn intitolato Christ in a Bloomsbury Brothel. Probabilmente dietro Mr. Upjohn c’era il pittore allora vivente Augustus John, war artist, esponente del postimpressionismo in Inghilterra, influenzato da Peter Paul Rubens: alla blasfemia si aggiungeva in questo caso anche il vilipendio nei confronti di un privato cittadino.492

Se dunque nella liberale Inghilterra quel libro sollevava timori di natura morale e politica, come si poteva pensare che un testo già pieno di asterischi nella sua edizione originale potesse essere tradotto nell’Italia fascista? Benito Mussolini aveva costruito le sue fortune sull’epopea bellica, dando fiato alle trombe del “mito della Grande Guerra” e propagandando l’immagine di un conflitto virile ed eroico, nonostante la “vittoria mutilata”. In effetti, Vittorio Veneto contribuì a rafforzare il senso d’identità italiana, attraverso i simboli dell’esercito e del re: l’invasore austriaco era stato respinto e nella retorica nazionale dell’immediato dopoguerra si diceva che il Risorgimento era stato portato a compimento. Nel feretro del milite ignoto, nell’ottobre del 1921 simbolicamente sepolto nell’abbraccio risorgimentale e sabaudo del Vittoriano, si era voluto scolpire l’immagine di un’Italia diventata assai meno rarefatta di quanto fosse stata prima del 1915.

Di lì a un anno, però, tutto il patrimonio mitico del primo conflitto mondiale fu fagocitato e stravolto dal fascismo. Il mio diario di guerra di Mussolini, pubblicato quasi “in diretta” a puntate sul «Popolo d’Italia», fu un chiaro segnale del clima culturale e politico che si andava inaugurando, e rispetto al quale il romanzo di Aldington avrebbe rappresentato un’evidente nota stonata all’interno della sinfonia propagandistica in atto. Sebbene il “momento letterario” fosse particolarmente propizio, se si pensa che si era nel pieno della cosiddetta seconda stagione della

489 Ivi, pp. 339-340. 490 Cfr. J. H. WILLIS JR., The censored language of war, cit., p. 482. 491 P. FUSSELL, La Grande Guerra e la memoria moderna, cit., p. 29. 492 Cfr. J. H. WILLIS JR., The censored language of war, cit., p. 481.

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letteratura sulla Grande Guerra,493 la casa editrice Mondadori si era però coperta le spalle da una probabile bocciatura, premurandosi di definire le clausole del contratto a propria tutela:

Dato però che l’argomento del [...] volume [...] è così scabroso da un punto di vista politico (guerra, demografia, ecc) — scriveva esplicitamente l’estensore dell’appunto al Signor Consigliere Delegato — abbiamo combinato il contratto in modo che l’anticipo dovrà essere pagato unicamente all’avvenuta regolare pubblicazione del volume in lingua italiana. Prima di imbarcarci in un lavoro di traduzione che è certamente gravoso data la mole e la difficoltà dell’opera ci sembrerebbe opportuno chiedere a Roma se la pubblicazione stessa è a priori da escludersi.494

Si era soltanto all’inizio del 1933 e gli stessi operatori dell’editoria precorrevano in qualche modo la strada della censura preventiva, temendo possibili sequestri e la perdita di tempo e denaro. L’anonimo lettore era già pienamente conscio dei contenuti non graditi alle autorità romane e presagiva quanto di lesivo della moralità pubblica e dei principi politici del fascismo i censori avrebbero potuto rilevare nelle pagine dell’Aldington: il linguaggio crudo e diretto rifletteva sul piano stilistico il disgusto per la guerra, mentre i temi imbarazzanti dei rapporti extraconiugali venivano paradossalmente intrecciati ai racconti delle azioni belliche e della vita in trincea, rimarcandone la visione antivirile e antieroica. Non abbiamo purtroppo prova diretta dei rilievi sollevati dalla censura italiana, ma certo la durezza dello stile e i riferimenti espliciti alla sessualità, sui quali erano intervenute le cesoie dei controllori britannici, dovettero pesare sulla decisione finale. Tra l’altro si era nel pieno dell’Anno Santo straordinario 1933-1934, il cui clima non mancò di influenzare tutto il mondo della cultura, editoria compresa, alzando il livello di attenzione sulle questioni morali e religiose.495 Si pensi a tal proposito a un passaggio della seconda parte che non era stato censurato nell’edizione inglese, ma che certo non poteva piacere all’Italia fascista del Concordato:

Isabel [la mamma di George] si sposò per interesse, e ottenne quel che meritava, cioè il fallimento. Ma lei era stata erroneamente ammaestrata, nel senso che è dovere di una ragazza adoperare la passione sessuale dell’uomo come mezzo per acquistarsi una rendita. Prostituzione entro la legge. […] George Augustus [il padre di George] non voleva bambini. Neanche Isabel voleva bambini. Veramente, non li voleva. Ma era stato insegnato loro che se un uomo e una donna vogliono andare a letto insieme era una cosa tremenda e malvagia farlo senza essere sposati. Il curato, la cerimonia pubblica, le firme rendevano sacro quel che altrimenti sarebbe stato indicibilmente errato e peccaminoso. Secondo il codice secondo cui erano cresciuti George Augustus e Isabel, “matrimonio” significava “un bel bambino” nove mesi dopo la cerimonia.

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In aggiunta neppure George, né la moglie Elisabeth e l’amante Fanny desiderano avere bambini, anzi, la gravidanza viene chiamata con disprezzo pudding.

Probabilmente pensando a questi passaggi “demograficamente scorretti”, la traduttrice mondadoriana Alessandra Scalero aveva cercato di convincere Aldington ad operare alcuni tagli, ma la risposta piccata dell’autore non si era fatta attendere:

493 Tra il 1926 e il 1935 si assiste infatti a una nuova ondata di scritti di argomento bellico, in modo particolare a partire dal 1928, in occasione del decimo anniversario della fine del conflitto. Cfr. G. CAPECCHI, Lo straniero nemico e fratello. Letteratura italiana e Grande Guerra, Bologna, Clueb, 2013, pp. 124-125. 494 Appunto per il Signor Consigliere Delegato, 27 febbraio 1933, cit. in Non c’è tutto nei romanzi. Leggere romanzi stranieri in una casa editrice negli anni Trenta, a cura di P. ALBONETTI, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1994, pp. 227-228. 495 Cfr. G. BONSAVER, Mussolini censore. Storie di letteratura, dissenso e ipocrisia, Bari, Laterza, 2013, p. 32. 496 R. ALDINGTON, Morte di un eroe, cit., p. 207.

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Your suggestion about the translation of Death of a hero puts me in a difficulty [...]. It seems unfair (peu loyale) to write anything which might make the book seem other than it is. After all it is an Englishman's book written for England; and if Italy does not want it...well, there is it. The book cannot other than it is. [...] But I will not ask no favour of anyone, even of Italy! I have risked persecution and imprisonment in England by saying what I believed to be true; and I am too old to change. So perhaps it is better for you to forgot that a book called Death of a Hero exists.497

In effetti, poco dopo l’uscita del testo Aldington e Chatto & Windus furono citati in giudizio per diffamazione dalla rappresentante della Women’s Army Auxiliary Corps. Il passo sotto accusa era il seguente: «There were numbers of Waacs at Base, and he noticed that many of them were pregnant. Apparently there was no attempt at concealment; but then the birth-rate was declining rapidly in England, and babies were urgently needed for the next war». Alla fine queste righe dovettero essere modificate nella seconda edizione a causa del contenuto ingiurioso nei confronti dello stesso regno britannico.498 I numerosi cambiamenti apportati e i ventitré passaggi così tagliati da Chatto & Windus non erano tuttavia sufficienti per presentare il testo ai lettori italiani degli anni Trenta. Soltanto nel 1956 si sarebbe potuta leggere la versione italiana di Death of a Hero, tradotta fedelmente dall’edizione inglese del 1930, asterischi compresi.499

497 Fondo Scalero, Biblioteca Civica di Mazzè, Torino, lettera ds., R. Aldington ad A. Scalero, 4 ottobre 1934, 7. 04. 498 Cfr. J. H. WILLIS JR., The censored language of war, cit., p. 483. 499 L’unica edizione italiana del romanzo, citata in queste pagine, fu tradotta dalla seconda edizione britannica (London, Chatto & Windus, 1930) più censurata rispetto a quella americana (New York, Covici-Friede, 1929). Il testo integrale di Death of a Hero uscì per la prima volta nel settembre del 1930 a Parigi per la Obelisk Press, ma in un numero limitato di copie, poi nel 1965 per i tipi della World Distributors Consul Edition di Londra.

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