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IL MONDO SOSTENIBILE DI

© Franco Figari

ANNO QUINTO | 2023

Marika Arena Max Calderan Ario Ceccotti Tommaso Frusca Braga Vannia Gava Michele Gulinucci Stefano Mancuso Michela Mayer Antonio Massarutto Luca Mercalli Michele Morgante Dario Nardella Telmo Pievani Valerio Rossi Albertini Massimiliano Salini Francesco Spada Alessandra Stefani


LE FOTO DI QUESTO NUMERO

La natura pittrice e scultrice Come ogni anno, Walden ha un fil rouge fotografico, una vera e propria mostra monografica che ci offre uno sguardo personale sulla natura, il bosco, gli alberi, nelle loro mutevoli forme e colori. Le fotografie di questo numero sono di Franco Figari, fotografo milanese, da sempre appassionato di viaggi naturalistici e di trekking, che già dagli anni Ottanta lascia una carriera sedentaria nell’industria tessile e si dedica all’esplorazione del paesaggio negli angoli più lontani del pianeta, per catturare attraverso la fotografia la bellezza nascosta di ambienti incontaminati. Sposato con una finlandese, due figli bilingui, Figari ha iniziato la sua ricerca fotografica proprio dai paesi freddi, la Finlandia e la Scandinavia, poi le Isole Svalbard, le Faroe, la Terra di Francesco Giuseppe, mentre a sud si spinge fino alle Falkland e all’Antartide. La ricerca di un contatto profondo con la natura muove la sua curiosità e la sua spinta a viaggiare, conducendolo per il mondo anche in paesi più caldi e, ovviamente, in Italia. Ne sono un esempio le fotografie pubblicate in queste pagine, che ci portano

dai parchi urbani (il parco di Monza, la Montagnetta di San Siro a Milano) ai boschi della Liguria o del Casentino, dalle foreste della Lapponia, alle faggete del Belgio, ai boschi di sugheri della Sardegna. O alla scoperta di maestosi e contorti alberi secolari, le querce toscane, gli ulivi del Salento. Una fotografia può richiedere lunghe ore di attesa, racconta Franco Figari, per cogliere un attimo fuggente, un’immagine incantata e irripetibile della natura; non di rado il fotografo ritorna più volte nello stesso luogo in attesa del momento giusto per scattare. “Mi interessa l’enorme potenziale che la natura esprime, come pittrice e come scultrice. La natura è pittrice nei colori dei fiori, dei campi, delle sfumature che le foglie assumono in autunno. È scultrice nelle forme delle rocce, nelle geometrie delle foreste, nelle abetaie finlandesi coperte dal ghiaccio fino a diventare quasi irriconoscibili, nella potenza degli alberi secolari e millenari”. Franco Figari è autore di quattro libri e ha esposto le sue fotografie in numerose mostre in Italia e all’estero.

In questo numero 14

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Facciamo sul serio, lo dicono i numeri di NICOLA SEMERARO

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60 miliardi per la transizione ecologica intervista a VANNIA GAVA

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Boschi italiani, ecco il check-up intervista a ALESSANDRA STEFANI

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In Italia vince il riciclo intervista a MASSIMILIANO SALINI

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Energia verde nel paesaggio, si può fare di LUCA MERCALLI

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Parte dalle città la sfida al climate change di DARIO NARDELLA

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Sviluppo, occupazione, ambiente: riciclare fa bene al Paese di MARIKA ARENA

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La copertura arborea come soluzione intervista a STEFANO MANCUSO

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Dove c’è un albero, c’è vita intervista a MAX CALDERAN

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Il legno che sfida il terremoto di ARIO CECCOTTI

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Non diventiamo la Ztl del mondo intervista a ANTONIO MASSARUTTO

Educare per trasformare intervista a MICHELA MAYER

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È la scienza, bellezza intervista a VALERIO ROSSI ALBERTINI

Il futuro della generazione Z intervista a TOMMASO FRUSCA BRAGA

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Biodiversità, l’altra sfida intervista a TELMO PIEVANI

Ci vuole il legno di MICHELE GULINUCCI

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Il sistema Rilegno

Un’Europa di foreste di FRANCESCO SPADA Ritorno alla natura di MICHELE MORGANTE

IL MONDO SOSTENIBILE DI

Rilegno Consorzio Nazionale per la raccolta, il recupero e il riciclaggio degli imballaggi di legno

Presidente Nicola Semeraro

Cesenatico (FC) Via Luigi Negrelli 24/A Tel. +39 0547 672946 Fax +39 0547 675244

Consiglio di amministrazione Daniela Frattoloni Vicepresidente

Milano Via Pompeo Litta 5 Tel. +39 02 55196131

Direttore Marco Gasperoni

Emanuele Barigazzi Milena De Rossi Cosimo Messina Giovanni Napodano Stefan Thomas Rubner Paolo Somenzi

Ivana Tagliaboschi Roberto Valdinoci Andrea Vezzani Sindaci Marcello Del Prete Presidente del Collegio Cecilia Andreoli Michele Mantovani Gianluigi Lapietra (Sindaco supplente)

Amministrazione Anna Antaridi

Area tecnica Antonella Baldacci Comunicazione e sostenibilità Elena Lippi Contatti info@rilegno.org

www.rilegno.org

Anno quinto - 2023 Registrazione al Tribunale di Milano n. 203 del 23/12/2022 Direttore responsabile Michele Riva Ha collaborato Riccardo Venturi Progetto grafico e realizzazione Margherita La Noce Art Consultant Franco Achilli

Periodicità annuale Copyright © 2023 Rilegno Foto pagina 7: Ferdinand Dyck Foto pagina 8: European Union 2014 source:EP Foto pagina 11: Imagoeconomica Foto pagina 23: Nicola Fossella Abbiamo fatto gli sforzi necessari per contattare tutti i detentori dei copyright delle immagini pubblicate. In caso di involontarie omissioni siamo a disposizione Stampa Pazzini Stampatore Editore srl Via Statale Marecchia, 67 47826 Villa Verucchio (RN)


Facciamo sul serio, lo dicono i numeri di NICOLA SEMERARO, Presidente Rilegno

2023. La guerra, o meglio purtroppo le guerre in Europa, in Medio Oriente e nel mondo, non fanno che aggravare l’emergenza delle emergenze: quella dell’ambiente e del clima, da sempre al centro dell’attenzione di questa rivista annuale dedicata alla cultura e alla pratica della sostenibilità e dell’economia circolare. Quest’anno ci interroghiamo sul costo della transizione ecologica e sulla sua concreta fattibilità al di là dei proclami. Un costo che, come ricorda Antonio Massarutto nell’intervista che trovate nelle prossime pagine, è enorme, probabilmente sottovalutato, al punto che tanti obiettivi sbandierati con troppa facilità appaiono irraggiungibili. Una riflessione condivisibile: difficile centrare quei target, soprattutto se tanti, specie quelli che in realtà sono più inquinanti, si nascondono dietro la sostenibilità ambientale, energetica, green, ma in realtà si stanno solo un po’ ripulendo l’anima. Si chiama greenwashing, ed è sempre più diffuso. Chi dice di agire in modo sostenibile, ma in realtà non lo fa, vanifica il lavoro di chi davvero si impegna, riversando addosso agli altri una responsabilità che nessuno può portare da solo. Noi di Rilegno facciamo sul serio: lo dicono i numeri. Grazie alla nostra filiera basata su 1.971 consorziati, 378 piattaforme convenzionate che raccolgono il legno, 12 aziende del riciclo e 15 stabilimenti produttivi, ai cittadini e alle imprese, sono 1.716.973 le tonnellate di legno raccolto e avviato al riciclo dal sistema Rilegno, il 46,45 per cento delle quali sono imballaggi. Il risparmio di consumo di CO2 pari a 1,8 milioni di tonnellate ottenuto grazie al sistema Rilegno equivale a compensare un milione di veicoli che circolano ogni anno. Ancora, sono 3.421.704 le tonnellate di imballaggi di legno immesse al consumo. Grazie a Rilegno viene riciclato il 62,74 per cento degli imballaggi di legno immessi al consumo in Italia: è stato doppiato dunque l’obiettivo fissato dall’Unione Europea, che prevedeva il 30 per cento di riciclo entro il 2030. E sono 903.041 le tonnellate di imballaggi rigenerati e reimmessi al consumo, oltre 70 milioni di pallet. Sulla rivista che avete tra le mani, o state sfogliando sul web, trovate numerosi interventi che vale la pena leggere con attenzione. Il viceministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Vannia Gava sottolinea che tra Pnrr, RepowerEU e Fondi di Coesione 20212027 sono quasi 60 i miliardi di euro destinati alla transizione ecologica, nell’ambito degli oltre 200 per le soluzioni ad alto contenuto tecnologico e di innovazione. Ed elenca i tre principi che muovono l’azione

EDITORIALE

del Ministero: pragmatismo, concertazione, semplificazione. Alessandra Stefani, Direttore generale del Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste, spiega che i boschi italiani crescono, godono di buona salute e hanno una diversità unica in Europa, anche se si registra l’erosione di alcune specie. Massimiliano Salini, europarlamentare di Forza Italia-Gruppo Ppe, indica i limiti della proposta di regolamento Ue sugli imballaggi, ma ricorda che riuso e riciclo possono convivere, se ci sono flessibilità e capacità di adattamento. Luca Mercalli, presidente della Società meteorologica italiana, climatologo e docente di Sostenibilità ambientale, mette in guardia contro l’eccessiva lentezza della transizione, ricordando che il fossile copre ancora l’85 per cento della fornitura di energia mondiale. Dario Nardella, sindaco di Firenze e già presidente di Eurocities, afferma che il cambiamento climatico si affronta proprio a partire dalle città. Michele Morgante, professore ordinario di genetica all’Università di Udine e Direttore Scientifico dell’Istituto di Genomica Applicata, ricorda che le foreste vanno gestite, e l’editing genetico può dare una mano importante, per esempio contro i sempre più frequenti attacchi di patogeni come il bostrico. Antonio Massarutto, professore al Dipartimento di scienze economiche e statistiche dell’Università di Udine, boccia i troppi obiettivi irrealistici di decarbonizzazione e invita a concentrare gli sforzi sulle azioni più efficaci. Valerio Rossi Albertini, fisico nucleare, primo ricercatore al Cnr e professore incaricato di chimica fisica dei materiali all’Università “La Sapienza”, confuta i persistenti negazionismi del climate change facendo appello al metodo scientifico, che ha prodotto evidenze inconfutabili. Telmo Pievani, professore ordinario presso il Dipartimento di biologia dell’Università degli studi di Padova, mette in evidenza l’importanza della perdita di biodiversità e quella del ruolo dei nativi climatici. Stefano Mancuso, botanico e professore ordinario all’Università di Firenze, propone di ridurre la superficie urbana occupata da strade di almeno il 30 per cento, sostituendola con parchi e alberi. Max Calderan, esploratore, protagonista di traversate record a piedi di immensi deserti, invita a recuperare un rapporto diretto e istintivo con la natura, anche per affrontare dalla giusta prospettiva il climate change. E poi c’è We are Walden, la community di Rilegno nata nel 2021, luogo di incontro digitale e fisico dedicato ai giovani che condividono i valori della sostenibilità e del rispetto dell’ambiente: quelli veri.

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60 miliardi per la transizione ecologica

La sostenibilità come occasione di crescita e di trasformazione dei nostri modelli di produzione e di consumo: gli obiettivi del governo e le azioni già in corso intervista a VANNIA GAVA Viceministro, qual è dal suo punto di vista il costo della transizione ecologica? I cambiamenti climatici costituiscono una sfida a livello mondiale, per rispondere alla quale il nostro Paese si è posto traguardi ambiziosi in materia di energia e clima contenuti nel Pniec, il Piano nazionale integrato energia e clima di recente elaborazione, ora al vaglio degli organismi comunitari e successivamente della consultazione in ambito Vas (Valutazione ambientale strategica) e con le Regioni. Il Piano costituisce la cornice giuridica dentro la quale vengono esplicitati, da questo ministero, obiettivi, strumenti e investimenti con cui intendiamo procedere in ogni settore. I recenti eventi che hanno colpito i sistemi sociali, dalla pandemia al conflitto russo-ucraino, hanno rivelato tutta la fragilità del nostro modello energetico, per la quasi totalità

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dipendente dall’estero e dagli agenti esterni per ciò che riguarda l’approvvigionamento. La transizione diventa quindi l’opportunità per cambiare questo paradigma, trasformando i nostri modelli industriali, di produzione e di consumo in sostenibili. Si tratta di effettuare investimenti importanti con cui decarbonizzare l’industria e i trasporti, ridurre la produzione di rifiuti, abbandonare progressivamente le fonti fossili. Ecco, più che del costo della transizione, dovremmo parlare del costo di una non transizione o di una transizione sbagliata: operai privi delle moderne competenze professionali, perdita di posti di lavoro, ambienti non bonificati, desertificazione, perdita di competitività del comparto industriale, assenza di incentivi all’innovazione. La transizione va fatta con le imprese, tutelandole e accompagnandole. Quanto agli investimenti, se si considera la grande

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Pragmatismo, concertazione, semplificazione. Sono questi i tre principi che muovono l’azione del mio ministero. È evidente che si tratta di un percorso complesso che non si presta a soluzioni semplici o a scelte precostituite, ma richiederà gradualità. Non possiamo immaginare di effettuare uno switch del nostro modello industriale e culturale dalla sera alla mattina. E poi ci sono le semplificazioni normative. Perché, come dico sempre, a nulla valgono le buone intenzioni e le risorse se non mettiamo chi deve spendere e investire nella condizione di farlo. Su questo fronte abbiamo lavorato e molto faremo ancora per giungere a una revisione totale del Testo Unico dell’Ambiente.

Betulle in autunno, Finlandia Fotografia di Franco Figari

partita del Pnrr unitamente al RepowerEu, senza tralasciare la nuova programmazione dei Fondi di coesione 2021/2027 e le revisioni normative per accelerare gli investimenti privati, parliamo di oltre 200 miliardi di euro da destinare a soluzioni ad alto contenuto tecnologico e di innovazione, dei quali quasi 60 solo per la transizione ecologica. Che impatto ha sul Pil questo costo? È sostenibile? Il governo, attraverso il Pnrr, il RepowerEu, gli Fsc appena menzionati e la politica fiscale deve sostenere l’ingresso nel mercato delle nuove tecnologie più promettenti e meno mature, la riconversione delle industrie e la coesione sociale. Questa è la leva della spesa pubblica. L’impatto forte sul Pil sarà determinato dagli investimenti privati, che noi dobbiamo incentivare e facilitare. Imprese, banche e società creditizie oggi finanziano solo progetti verdi, orientando così il mercato e la crescita verso la transizione ecologica, la decarbonizzazione e la riduzione dei consumi. Compito della politica, pertanto, è far sì che ciò avvenga in una cornice legislativa “sostenibile”, ovvero che direttive e regolamenti di carattere comunitario siano adeguati e conciliabili con le specificità nazionali. Siamo fermamente contrari a provvedimenti ideologici, irrealistici e inadeguati rispetto al nostro sistema industriale. La priorità di questo ministero e del governo è fornire il proprio contributo in un’ottica di ambizione ma soprattutto di concretezza, coniugando le politiche di decarbonizzazione con la salvaguardia della qualità della vita, dei servizi sociali, della competitività e dell’occupazione, preservando il tessuto produttivo e manifatturiero italiano. Ma la transizione ecologica è realizzabile concretamente oltre le parole? E come?

Come si sta muovendo il governo? Con quali risultati? Grazie alle semplificazioni, abbiamo impresso una forte accelerazione sulle fonti rinnovabili elettriche, triplicandone la potenza autorizzata. Stiamo correndo sulla produzione di gas rinnovabili (biometano e idrogeno) e altri biocarburanti, compreso l’Hvo, per i settori hard-to-abate e i trasporti più difficili da decarbonizzare; e ancora, sulla elettrificazione dei consumi finali (pompe di calore), sull’infrastrutturazione per la diffusione delle auto elettriche. Lo abbiamo fatto aggiornando politiche già esistenti (regolazione, semplificazioni, incentivi) e dando piena attuazione a quanto previsto in quelle di più recente emanazione. In ambito Pnrr, ad esempio, è stata adottata la Strategia nazionale per l’economia circolare per favorire il recupero e il riciclo dei rifiuti. L’investimento supera i due miliardi di euro e abbiamo già dato seguito a progetti faro fondamentali per potenziare l’impiantistica su scala nazionale, che hanno riscosso grande interesse da parte di comuni e imprese. Stiamo rivedendo la normativa degli End of Waste per favorire l’economia circolare, su cui il nostro Paese sta facendo notevoli passi in avanti e che deve entrare a far parte degli standard del mondo produttivo e manifatturiero, intensificando la ricerca di soluzioni che minimizzino l’utilizzo di materie prime e riducano gli scarti. Grande lavoro anche sui Cam, i criteri ambientali minimi, per rendere sostenibili gli investimenti nella pubblica amministrazione. Ci sono poi i progetti del RepowerEu con cui potenziamo alcune misure vincenti del Pnrr, come la resilienza delle reti elettriche, le hydrogen valleys, la riqualificazione energetica. Come ho già evidenziato, c’è anche tutta la partita della nuova programmazione dei Fondi di coesione e sviluppo 2021-2027 che prevederà investimenti contro il dissesto idrogeologico, la ristrutturazione delle reti idriche e degli impianti di depurazione, le bonifiche, con investimenti programmati che archivieranno finalmente l’approccio emergenziale che ha caratterizzato le politiche del passato. Aggiungo, ribadendolo con estrema chiarezza, che dobbiamo tornare a riconsiderare il nucleare, perché è inimmaginabile alimentare la seconda manifattura d’Europa solo con il fotovoltaico. Da questo punto di vista, la sostenibilità deve essere considerata un’occasione di crescita politica e culturale. È la sfida che ha assunto questo governo.

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Vannia Gava dal 2021 al 2022 è stata Sottosegretario di Stato alla Transizione ecologica del governo Draghi e nel 2022 è stata rieletta alla Camera. È Viceministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica del governo Meloni.

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Boschi italiani, ecco il che Il nostro patrimonio boschivo cresce, è in buona salute e ha una diversità di specie record in Europa. Frammentazione, erosione di alcune tipologie ed effetti della crisi climatica sono le maggiori criticità intervista a ALESSANDRA STEFANI Qual è la situazione dei boschi in Italia? I boschi italiani nel 2015 sono risultati in netta crescita rispetto al 1985 e al 2005, come riferiscono i dati del III Inventario dei boschi italiani redatto dai Carabinieri forestali con il Crea Foreste e Legno. Ricoprono più di un terzo del territorio italiano: una superficie di oltre 11 milioni di ettari, pari al 36,7 per cento della superficie totale italiana. A livello regionale la superficie varia di molto, passando da regioni poco boscate, come la Puglia (7 per cento), ad altre in cui i boschi sono intensamente presenti, come la Liguria (63 per cento). Sono presenti comunque in tutto il territorio nazionale, soprattutto nei terreni collinari e montani (sopra quota 500 m slm). Le superfici continuano a crescere, essendo aumentate di circa 587.00 ettari nel decennio 2005-2015, in maniera più marcata nell’Appennino meridionale e nelle isole. Anche in termini di volume,

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la consistenza dei boschi italiani è in costante crescita: la biomassa complessiva è aumentata del 18 per cento, con un volume legnoso passato da 145 a 165 metri cubi a ettaro. Anche lo stock di carbonio accumulato è passato da 490 milioni di tonnellate stimate nel 2005 a 569 milioni di tonnellate nel 2015. Che caratteristiche hanno i nostri boschi? Oltre l’80 per cento dei boschi italiani è vincolato per scopi idrogeologici, il 30 per cento è tutelato da forme giuridiche di protezione della natura, il 100 per cento da vincoli paesaggistici. Il 63 per cento risulta di proprietà privata, di tipo prevalentemente individuale, anche se il 10 per cento della superficie forestale appartiene a forme private di proprietà collettive. I boschi pubblici sono prevalentemente di proprietà comunale, un 10 per cento circa sono di proprietà re-

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gionale, intorno all’1 per cento fanno parte del demanio dello Stato. Si tratta di formazioni boschive caratterizzate da un’elevata diversità di specie, ma anche strutturale: ospitano 117 specie differenti nello strato arboreo, un vero record in Europa, spesso riunite insieme a tre e più specie. I boschi monospecifici sono rari, per lo più frutto di rimboschimenti artificiali o di selezione antropica in caso di interventi selvicolturali. La specie più diffusa è il faggio, ma le querce, spesso riunite tra varie specie, superano il faggio che da solo raggiunge l’11 per cento delle presenze. Faggio, abete rosso, castagno e cerro rappresentano il 50 per cento del volume legnoso complessivo dei boschi italiani. Ben 10 dei 14 tipi forestali definiti dall’Agenzia europea dell’Ambiente sono rappresentati in Italia, a dimostrazione della variabilità ecologico-forestale dei nostri territori.

Parco di Monza Fotografia di Franco Figari

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Alessandra Stefani è Direttore generale del Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste (Masaf). Si occupa dell’elaborazione e del coordinamento delle linee politiche agricole, agroalimentari, forestali, della pesca e dell’ippica a livello nazionale e internazionale.

Quali le criticità? Purtroppo si continua a registrare un’erosione di alcune tipologie forestali, come i boschi igrofili e ripariali, le formazioni nelle pianure e sulle coste. Dunque è la frammentazione il problema delle foreste italiane e un intervento di ricucitura sarebbe estremamente importante. In tal senso, i finanziamenti del Pnrr, rimasti dopo alcune riduzioni e spostamenti, legati alla costituzione di boschi periubani e urbani, oltre agli indubbi benefici al clima e alla bellezza delle città, costituiscono un importante progetto da perseguire con attenzione alle cure colturali nel tempo. Meglio sarebbe poter puntare su una vasta opera di arboricoltura da legno in aree non utilmente valide per agricoltura di qualità e pascoli in quota. Le attività in tal senso contribuirebbero a ridurre le importazioni di legname dall’estero, con tutti i problemi che ciò comporta. Purtroppo la disponibilità di terreni per questi impianti è scarsa e le provvidenze, soprattutto attraverso le politiche di sviluppo rurale, scontano la concorrenza con produzioni agricole più redditizie nel breve periodo. Fortunatamente, come dimostra proprio Rilegno con i suoi dati, in Italia il riciclo ed il riuso del legno raggiungono vette straordinarie e uniche in Europa, in un circolo virtuoso di autentica economia circolare sostenibile. Ma come stanno i nostri boschi? Le foreste italiane nel loro complesso godono di buona salute, anche se ai classici disturbi creati dagli incendi boschivi, che al netto delle oscillazioni tra anno e anno in media mostrano di non diminuire, né in numero né per superficie complessiva, si sono sommati gli estesi danni da vento seguiti soprattutto al fenomeno Vaia del 2018 nelle regioni del Nord Est (circa 40.000 ha). Ma soprattutto è evidente che gli effetti della crisi climatica colpiscono anche gli alberi e i boschi che, sottoposti a stress idrici e colpi di calore, vegetano più stentatamente e sono più soggetti a malattie fungine e ad attacchi di insetti. In questo momento stiamo assistendo a una pullulazione di un insetto corticicolo, della famiglia degli scolitidi, che sta ampliando la sua area epidemica dalle regioni colpite da Vaia, provocando nuovi danni ingenti verso

Ovest, raggiungendo aree, come quelle lombarde, dove il vento non aveva causato estesi danni nel 2018. Perciò dobbiamo concludere che, in tema di risposta alla crisi climatica, le foreste italiane sono certamente una soluzione ma anche una parte dei problemi. Solo una svolta nel segno della sostenibilità di ogni politica ci aiuterà a rispondere alle sfide del clima, e non un’attività, per quanto mirabile, volta solo a piantare alberi e tutelare e gestire sostenibilmente i boschi esistenti. A che punto siamo con il registro dei crediti di carbonio? Continua l’attività del Crea politiche e bioeconomia di raccolta dei dati provenienti dal mercato volontario dei crediti di carbonio forestali. In merito alle regole che una legge recentemente approvata ha delegato al governo di redigere, il Masaf, con il Crea, è al lavoro ma si stanno attendendo le determinazioni in proposito in gestazione in sede Ue. Quali sono gli elementi che determinano una nuova attenzione così da rivitalizzare i progetti legati ai boschi italiani? Innanzitutto, gli effetti della crisi climatica sono evidenti e l’opinione pubblica si interessa in maniera più attenta alla gestione delle superfici forestali nel loro complesso. Anche l’epidemia di Covid ha risvegliato una nuova attenzione al mondo naturale e ai suoi benefici diretti e indiretti sulla salute pubblica, sulla bellezza e sul paesaggio. La crescita dei prezzi dei prodotti legnosi, anche ad uso energetico, ha risvegliato l’economia delle zone boschive, rendendo attive alcune gestioni selvicolturali tradizionalmente passive e perciò lasciate spesso a un utilizzo esclusivamente per autoproduzione. Inoltre, l’intenso sforzo compiuto per unificare le regole gestionali, avvicinarsi a metodi di attività più sostenibili e con meno vincoli burocratico-amministrativi, inquadrare le attività forestali in progetti dedicati ai territori montani e rurali ha certamente risvegliato interesse verso gestioni più attente e virtuose dei boschi vocati, non esclusivamente legate ai tagli boschivi, ma anche alle produzioni dei boschi come funghi, tartufi, piante officinali, bacche, miele, sughero. Anche la possibilità di creare percorsi salute in boschi, asili e scuole ha risvegliato interesse. Quale il ruolo in tal senso della Direzione generale foreste? Abbiamo cercato di destinare parte dei fondi a sua disposizione per sostenere queste iniziative, attraverso i finanziamenti che la legge di stabilità ha dedicato all’attualizzazione della Strategia forestale nazionale, attraverso bandi per la costituzione di associazioni forestali tra proprietari pubblici e privati e incentivando accordi di filiera forestale. La risposta a tutte queste iniziative, così come a quella di formazione degli operatori forestali e degli istruttori, è lusinghiera e fa pensare che davvero si stia consolidando una tendenza virtuosa a perseguire questi percorsi di sostenibilità, autenticamente green.

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In Italia vince il riciclo Ma riuso e riciclo possono convivere, se ci sono flessibilità e capacità di adattamento. L’esempio virtuoso dei pallet e i limiti del regolamento Ue intervista a MASSIMILIANO SALINI

Massimiliano Salini dal 2014 è europarlamentare di Forza Italia-Gruppo Ppe (Partito Popolare Europeo), eletto nel collegio Nord Ovest con oltre 27mila voti.

Cosa pensa della proposta di regolamento europeo sugli imballaggi? Non ci è piaciuto il passaggio da direttiva, che richiede il recepimento dello Stato membro, a regolamento, che invece una volta approvato è immediatamente esecutivo. Ma soprattutto, il testo tende a omologare in maniera identica i paesi membri. Il principale errore della Commissione è proprio quello di non aver tenuto conto degli enormi passi avanti, fatti soprattutto da alcuni paesi come l’Italia, nella riduzione dei rifiuti grazie al riciclo. Le differenze tra paesi vengono trascurate nella proposta di regolamento, che tende a livellare al ribasso, senza tener conto della spinta innovativa e tecnologica di paesi come il nostro, che ha raggiunto con anni di anticipo gli obiettivi fissati dalla direttiva riciclo. Quali punti non la convincono? Il principale elemento introdotto dalla proposta di regolamento è la trasformazione della strategia di riduzione dei rifiuti passando, soprattutto nel settore alimentare (fast food e horeca) dal riciclo come logica prevalente o più adeguata a quella del riuso. Questo si basa sul presupposto che il riuso punta alla diminuzione della quantità di imballaggi: se un bicchiere di plastica di un fast food viene lavato e riutilizzato, non lo si butta, e per la Commissione tale strategia sarebbe la modalità per ridurre i rifiuti. Il caso dell’Italia dimostra che non è la strada giusta: il monouso utilizzato nei fast food e nell’horeca è interamente riciclabile, a volte in percentuali insperate: dal 70 per cento in su. Il che significa che con il ricorso intelligente a tecnologie di riciclo, in maniera ambiziosa abbiamo ottenuto un risultato eccezionale. Perché è meglio il riciclo? La sicurezza alimentare dell’imballaggio è garanzia di freschezza e salubrità dei prodotti, ma al contempo l’utilizzo di imballaggi riciclabili permette di annullarne il rifiuto. È la miglior formula possibile e anche la più adatta allo stile di vita di oggi. Perso-

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ne che avevano il tempo di prepararsi il pranzo o la cena oggi magari non ce l’hanno più e il ricorso a imballaggi molto performanti consente uno stile di vita salubre, riducendo drasticamente i tempi senza rinunciare alla tutela dell’ambiente, perché gli imballaggi sono interamente riciclabili. La decisione a

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favore del riuso è figlia della constatazione che su 27 paesi membri meno della metà ha accettato la sfida del riciclo. Anche stati membri molto forti come la Francia hanno performance di riciclo pessime. Di qui questa logica di omologazione. Ma non basta. Che altro? In Commissione Envi è stata proposta una definizione super restrittiva di “riciclo di alta qualità”, che porterebbe al cosiddetto “close loop recycling”, una versione più spinta del riciclo in grado di mettere fuori gioco intere filiere green come quella della carta, minacciando l’economia circolare europea, in particolare in paesi come l’Italia. Un prodotto che prima dell’utilizzo era una bottiglia, secondo questa visione, dopo il riciclo deve tornare a essere una bottiglia. Questa sarebbe l’alta qualità del riciclo, ma anche in questo caso si tratta di un errore tecnico,

“close loop recycling”? Quale la ratio tecnica? Se riciclo il cartone in carta igienica perché devo essere sfavorito? Ci sono tanti altri esempi, dal settore del trasporto a quello farmaceutico. Contesta anche la tempistica? La proposta di regolamento arriva a fine mandato dell’Europarlamento con una formula equivoca: è caratterizzato da tanti provvedimenti cari ai verdi che in realtà di verde hanno poco. Aumentano il grado di ideologia e quindi il fascino e la raccolta di consenso nel mondo green ma sono poco realizzabili, o se realizzati più che fare bene all’ambiente contraddicono altri provvedimenti presi dalla stessa Ue, che ogni anno cambia target. Ci sono imprese che si trasferiscono dove le regole restano più stabili. È un paradosso europeo, a volte le delocalizzazioni non sono determinate dai costi ma dalla ricerca di ambiti dove le regole durino più di un quarto d’ora: così Basf, campione mondiale della chimica, dalla Germania non si è spostata a Oriente ma negli Stati Uniti. Bruxelles come Roma? Ogni contesto ha le sue stranezze. L’ultima fase dell’Ue non ha il disordine tipico che vediamo nella produzione normativa italiana, che più che contraddittoria è disordinata e lenta; il problema italiano è la lentezza del processo normativo. L’Europa ha un problema diverso, specie in quest’ultima fase ha sviluppato quasi un’ansia da prestazione. Mi permetto di attribuirla all’ex vicepresidente della Commissione Europea Frans Timmermans, che ha lanciato la sua candidatura alla presidenza del suo paese con un’agenda green. Così come il regolamento packaging arriva solo 2 anni dopo la normativa sul single use, la Nature restoration law è arrivata quando c’erano numerosi altri provvedimenti sulla stessa materia; inoltre, nel settore automobilistico, i carburanti alternativi sono stati bocciati dopo pochi anni.

Bosco di faggi, foresta casentinese Fotografia di Franco Figari

poiché non si tiene conto delle enormi differenze tra i vari materiali. L’alluminio delle lattine, per esempio, è facilmente riciclabile in nuove lattine, ma nel caso della carta è sostanzialmente impossibile: un cartone dopo il riciclo diventa un fazzoletto o carta igienica. Qual è la ragione per la quale si dovrebbe adottare il

Ma riciclo e riuso non possono convivere? Assolutamente sì. Con la flessibilità, la capacità di adattamento alle caratteristiche del settore o del materiale è possibile scegliere dove utilizzare il riciclo o dove è meglio il riuso. Con i pallet si è creata una filiera assolutamente virtuosa, in grado di contenere i costi sul trasporto in maniera soddisfacente: un vero punto di riferimento che chiediamo venga considerato con la rivalutazione della normativa. Nel modello integrato italiano hanno funzionato molto bene sia il riciclo che il riuso perché si sono messi assieme tutti gli anelli della catena, fin dai primi sistemi di raccolta degli enti locali, tarati su un sistema virtuoso che presidia tutte le fasi dal consumo, al post consumo, alla raccolta, al modello di smaltimento e riciclo, per arrivare a come dev’essere finanziato il sistema di allocazione delle risorse per i soggetti della filiera. Abbiamo tentato di dare al singolo materiale un’adeguata disciplina con una risposta di tipo industriale; il provvedimento Ue deve basarsi anche su queste buone pratiche.

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VISIONARI PER NATURA

We are Walden è la community di Rilegno, dedicata ai giovani che desiderano impegnarsi attivamente per un futuro più sostenibile. Coinvolgere, formare e sensibilizzare i giovani e catalizzare le loro idee ed energie è un aspetto centrale dell’azione di Rilegno a favore della sostenibilità. In questo numero, nei box colorati a margine degli articoli, raccogliamo e presentiamo alcuni volti e testimonianze dei ragazzi “visionari per natura” che animano la nostra community per un mondo nuovo.

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MILENA 21 ANNI Studio Design degli interni presso il Politecnico di Milano. We are Walden è una fantastica iniziativa che permette di conoscere un mondo che per i giovani sembra essere in via di estinzione. Siamo arrivati a un punto in cui le attività manuali sono poco considerate dalla società e valorizzarle istruendo le nuove generazioni è di fondamentale importanza.

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Foresta casentinese Fotografia di Franco Figari

Energia verde nel paesaggio, si può fare La transizione energetica è troppo lenta, il fossile copre ancora l’85 per cento della fornitura. Bisogna accelerare, anche ripensando il rapporto col territorio, che oggi vive di estremizzazioni di LUCA MERCALLI

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Il negazionismo è presente un po’ in tutti i settori: non mi sorprende che persista anche nel clima, dove ci sono anche dei pesanti interessi. Rispetto a qualche anno fa è sempre più ridotto a un rumore di fondo, ma se riesce a penetrare negli ambienti della politica e dell’economia può fare dei danni e rallentare certe decisioni. Da un lato, quindi, è giusto starne in guardia. Ma la mia esperienza mi dice che è inutile sprecare troppe energie per combatterlo. Meglio andare avanti sulla strada delle attività concrete e lavorare con chi è disposto a recepire i dati della scienza ufficiale e a trasformarli in scelte politiche ed economiche. L’unica cosa che posso rilevare è che purtroppo i grandi enti scientifici che si occupano di clima non protestano abbastanza quando vengono screditati e attaccati dalle tesi negazioniste, perché sono strutture molto grandi e hanno uffici stampa che ogni volta lasciano passare sei mesi prima di muoversi. Questo fa sì che ci sia un incredibile silenzio. Penso per esempio all’Ipcc, che tante volte viene attaccato, ma tace. Noi divulgatori e ricercatori facciamo il possibile per prenderne le difese, però qualche volta piacerebbe anche che fossero degli enti di grande peso a scrivere agli organi di informazione e a lamentarsi quando vengono calunniati esplicitamente. Questa è una grave tara del sistema comunicativo, perché lascia poche persone a difendere il comparto scientifico, che invece a livello di istituzionale molto spesso tace. Quando vedrò scendere la concentrazione di CO2 in atmosfera o le emissioni globali sarò più ottimista. Finché la vedo salire tendo a diventare più pessimista. D’altra parte, tutta la ricerca scientifica sul tema sta alzando il livello di preoccupazione, proprio perché negli ultimi anni abbiamo accumulato un ritardo enorme sulle azioni di mitigazione e anche di adattamento al cambiamento climatico e stiamo pagando questo ritardo con un rischio sempre maggiore. Per cui direi che al momento sono più apocalittico che integrato. Certamente la transizione energetica, che è una parte della più grande transizione ecologica, è molto lenta, nonostante nel mondo ci siano segnali positivi. Ma si potrebbe e si dovrebbe fare molto di più. Abbiamo i mezzi per incrementare il parco di produzione elettrica fotovoltaico, eolico, idroelettrico e purtroppo in questo momento i combustibili fossili continuano a primeggiare. Quindi, anche se abbiamo dei numeri incoraggianti sulle energie rinnovabili, non dimentichiamo che il fossile copre ancora l’85 per cento della fornitura di energia mondiale. È veramente una sfida gigantesca, sulla quale dovremmo prendere atto che al momento stiamo procedendo troppo lenti. Il greenwashing nei progetti di compensazione, che sono prevalentemente dei progetti forestali, esiste eccome. Intanto, non dimentichiamo che lavorare con gli alberi vuol dire lavorare con la vita, non è come una catena di montaggio in una fabbrica. Gli alberi fanno quello che possono in certe situazioni, anche quando vengono accuditi. Sono sensibili alla siccità e

al troppo caldo, quindi ci sono annate nelle quali sottraggono meno CO2 delle attese, figuriamoci se poi vengono addirittura trascurati. La mia opinione è che bisogna veramente scendere con le emissioni all’origine, non si può continuare con questa logica della compensazione che è una sorta di alibi, un modo di avallare il mantenimento del “business as usual”. In certe condizioni è ovvio che la compensazione è una soluzione obbligata, perché la transizione non si può fare in un giorno, ma dovrebbe essere ben chiaro che non deve diventare uno standard, ma restare esclusivamente un aiuto temporaneo. In fondo, la sfida delle energie rinnovabili, essendo così rilevante, avrebbe bisogno di qualche investimento in più in ricerca, in conoscenza e anche in diffusione dei risultati. Perché non possiamo dire che le energie rinnovabili che ci sono oggi non funzionino. Io stesso ho il tetto ricoperto di pannelli fotovoltaici da quindici anni. Certo, possiamo lavorare per migliorarli ancora, per diminuire il costo di produzione, per migliorare la filiera di recupero e di riciclo. Ed è ovvio che la ricerca scientifica rende di più se è coordinata e se evitiamo di disperdere gli investimenti in mille rivoli. Dove ciascuno riscopre l’acqua calda. Il nostro rapporto con il paesaggio in Italia vive di estremizzazioni: da un lato si cerca di difendere il dettaglio in modo perfino maniacale, ma fintanto che sulla carta c’è una riga rossa che delimita una certa area di interesse, appena usciamo da questa riga rossa tutto è permesso: capannoni, strade, autostrade, cave, e il paesaggio è letteralmente martoriato. Credo allora che sia importante una mediazione. Oggi, certamente, sui centri storici è giusto essere un po’ più cauti, ma fuori da quelli, nella gran parte dei casi, sarebbe forse opportuno chiederci quali sono le operazioni che stanno davvero distruggendo in maniera irreversibile il territorio ed essere disponibili ad accettare le nuove energie rinnovabili: non le vedo come la fonte di tutti i mali. Una torre eolica può disturbarci, è vero, ma i ripetitori telefonici non sono più belli da vedere. Sono d’accordo sul fatto che non vadano collocati i pannelli fotovoltaici sugli edifici storici, ma per quanto riguarda gli altri edifici abbiamo una tale quantità di costruito di cattiva qualità che la situazione non può che migliorare se li ricopriamo di pannelli fotovoltaici. Cominciamo dalle aree dismesse e dalle zone marginali, poi arriveremo ai terreni agricoli di qualità. La mia opinione è che anche in questo ci può essere una gradualità. Cominciamo dove è facile, fra vent’anni rifacciamo i conti e se servirà ancora dello spazio andremo a investire zone più rilevanti da un punto di vista paesaggistico; nel frattempo saranno sicuramente nate delle nuove impostazioni. Perché in Italia abbiamo anche il vantaggio di avere una grande competenza sul piano dello stile e della bellezza. Quindi, sono convinto che architetti e ingegneri, storici e archeologi, se lavorassero insieme, troverebbero delle soluzioni accettabili per le forme di energia rinnovabile, che potremmo addirittura esportare nel resto del mondo.

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Ci vuole il legno è una serie podcast originale di Michele Gulinucci per Rilegno. Con Martina Bosica e Federico Martinelli della community We Are Walden, e con i suoni di falegnameria del Laboratorio Allestimenti del Politecnico di Milano - Dipartimento Design (vedi pag. 31).

Per approfondire i temi di questo articolo ascolta Ci vuole il legno - episodio 1: Abitare il clima, cui ha contribuito anche Francesco Spada (vedi pag. 15).

Luca Mercalli è un climatologo, docente in varie università e divulgatore scientifico. Presiede la Società meteorologica italiana ed è responsabile dell’Osservatorio Meteorologico del Real Collegio Carlo Alberto di Moncalieri.

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La Montagnetta, Milano Fotografia di Franco Figari

Parte dalle città la sfida al climate change Forestazione urbana, mobilità elettrica, efficientamento energetico: nelle aree urbane innovazione e sperimentazione per la transizione ecologica di DARIO NARDELLA

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Per approfondire i temi di questo articolo ascolta Ci vuole il legno - episodio 3: Capitali coraggiose, cui hanno contribuito anche Stefano Mancuso (vedi pag. 26) ed Elena Grandi, Assessora Ambiente e Verde del Comune di Milano.

Quella delle città è diventata una questione centrale per il futuro dell’Europa, più ancora che dei singoli Stati, anche perché nelle città si concentrano le criticità più rilevanti della vita di tutti noi. Pensiamo all’impatto dell’innalzamento della temperatura, al cambiamento climatico, alle questioni migratorie, ai problemi legati alla sicurezza, all’integrazione sociale. Pensiamo al grande tema delle periferie e anche alla transizione digitale, alla rivoluzione tecnologica. È inutile ricordare che a livello europeo, nelle città ormai si concentrano i due terzi delle popolazioni del continente. Queste criticità sono al centro della trasformazione continua delle aree urbane. In qualche modo possiamo dire che le città sono il problema e la soluzione allo stesso tempo, perché ancora una volta è nelle città che si sperimenta, si innova e si trovano i modelli di cambiamento della convivenza grazie al fatto che, tutto sommato, da sempre, cioè da quando esiste l’umanità, le città sono dei luoghi di continua evoluzione e trasformazione.

Dario Nardella, avvocato, esponente politico ed ex deputato, attualmente è sindaco di Firenze (al secondo mandato) e presidente del network Eurocities. Dal 2015 è coordinatore delle città metropolitane presso l’Anci.

Se guardiamo a tutte le città europee ci rendiamo conto che sono tutte in modo diverso universali. Non esiste una città monolinguistica, non esiste una città monoculturale, monoetnica. Le città europee sono la sedimentazione di generazioni di secoli che hanno mescolato e rimescolato culture, etnie, stili architettonici, gusti, lingue. Sono anche luoghi di grande identità. L’inglese nasce a Londra, l’italiano nasce a Firenze, ma questa identità non è un’identità monotematica: è un’identità inclusiva, globale. Io dico che ogni città ha una sua musica, quindi ogni città è unica. Però, come tutti i tipi di musica sono comprensibili alle orecchie di chiunque, e non solo a quelle degli esperti, così la musica delle città è una musica universale, che tutti capiscono. Io sono fortunato ad aver fatto l’esperienza di presidente di Eurocities, che è la più grande associazione di città europee. Raccoglie 210 città con più di 250.000 abitanti, il che corrisponde complessivamente a più di 300 milioni di persone. Sono dei veri e propri motori di economia, ma anche appunto di transizione ecologica, digitale e tecnologica. E non è un caso che le città europee abbiano lanciato le sfide più ambiziose. Mentre la Cina promette di arrivare

alla neutralità carbonica nel 2060, l’India nel 2070, l’Unione europea nel 2050, noi sindaci europei abbiamo detto no: noi vogliamo arrivare alla neutralità carbonica nel 2040. Le città sono le locomotive della sfida al cambiamento climatico, anche perché sono i luoghi dove purtroppo gli effetti dell’innalzamento delle temperature e il cambiamento climatico si sentono di più. È incredibile la giustapposizione degli Stati nazionali, che nelle varie Cop, compresa l’ultima, dimostrano tutta la loro debolezza e fragilità, perché non arrivano mai ad assumere un impegno vero; le città, invece, si danno degli obiettivi di cambiamento estremamente ambiziosi e innovativi. Si aprono alla forestazione urbana, sperimentano sulla mobilità elettrica, lanciano piani di efficientamento energetico. Per questo, sostengo che i governi nazionali dovrebbero coinvolgere di più i sindaci, le comunità locali, le città. Ci vuole coraggio perché la situazione è drammatica. Quando parliamo di emergenza ambientale ci riferiamo, per esempio, anche a quello che sta vivendo l’Italia ora. Dall’anno scorso ad oggi abbiamo avuto la più lunga e drammatica stagione di siccità mai vista prima. Questo incide sull’economia, sull’agricoltura, sulla salute dei cittadini. La mortalità degli anziani in Italia a causa dell’innalzamento delle temperature è aumentata del 25 per cento nel 2022. E noi cosa facciamo? Assistiamo a continui rinvii e a continui scontri, a veti incrociati tra Stati nazionali e organizzazioni sovranazionali. Non illudiamoci che facendo un piano di forestazione in Brasile risolviamo i problemi delle emissioni di CO2 o di biossido di azoto in Europa. La forestazione va fatta nei luoghi dove effettivamente c’è un problema di innalzamento delle temperature dovuto alle emissioni di anidride carbonica. Quindi va fatta nelle città. Per farla nelle città, però, ci vogliono spazi, bisogna creare spazi nuovi, bisogna togliere cemento e mettere piante, alberi. E poi ci vuole una programmazione che tenga conto di tutta la filiera, perché se decidiamo di piantare miliardi di alberi nel mondo, come hanno fatto nell’ultimo G7, bisogna capire anche dove vengono prodotti. Pensiamo ai nostri vivai, che da soli non bastano a fornire una disponibilità di piante in tempi così ristretti. Quindi bisogna alimentare la filiera. A Firenze, ad esempio, da pochi mesi è nata la Fondazione per il futuro delle città, presieduta da Stefano Boeri e diretta da un grandissimo scienziato come Stefano Mancuso, uno dei più grandi esperti di questioni legate all’ambiente e alla biodiversità. Questa fondazione ha il compito di fare ricerca, formazione, e anche di creare progetti come quelli di forestazione urbana o legati anche a una maggiore consapevolezza dei valori della sostenibilità e di stili di vita sostenibili. Questi strumenti sono molto utili, perché possono dialogare anche con il privato: ben venga una collaborazione tra il pubblico e il privato per una missione di interesse pubblico collettivo come quella della tutela dell’ambiente.

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Sviluppo, occupazione, ambiente: riciclare fa bene al Paese Una ricerca del Politecnico di Milano ha misurato gli impatti del sistema Rilegno nel 2022 sulla crescita economica, sul lavoro e sul risparmio di consumo di CO2 di MARIKA ARENA

Marika Arena è docente di Accounting, Finance & Control presso il Politecnico di Milano e coordinatrice del Corso di Studi in Ingegneria gestionale. È membro del Consiglio di Amministrazione di F2i Sgr.

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L’impatto della rigenerazione degli imballaggi in legno: il caso del sistema Rilegno è il titolo di una ricerca condotta dal Politecnico di Milano, con l’obiettivo di stimare l’impatto delle attività di rigenerazione e riuso degli imballaggi del “sistema Rilegno” nel 2022. Un sistema che ha consentito di ripristinare e rigenerare 903.041 tonnellate di imballaggi in legno. L’impatto del “sistema Rilegno” è stato misurato secondo la logica della Triple Bottom Line, in termini di effetti economici, sociali e ambientali, considerando il contributo che può apportare agli obiettivi dello sviluppo sostenibile, i cosiddetti Sdg. Gli effetti economici sono stati misurati come produzione nazionale attivata dalla filiera, con conseguenti ricadute sulla crescita economica (Sdg 8), e sulla capacità di supportare lo sviluppo e l’innovazione delle imprese che fanno parte del sistema (Sdg 9). Gli effetti sociali sono stati misurati in termini di occupazione generata dalla filiera, come unità di lavoro equivalenti e relativi salari (Sdg 8). Infine, gli effetti ambientali sono stati valutati come tonnellate di CO2 equivalenti “risparmiate”, grazie alla rigenerazione degli imballaggi (rispetto all’alternativa di valorizzazione energetica), con un beneficio all’obiettivo vita sulla terra (Sdg 15) e alla lotta contro il cambiamento climatico (Sdg 13). Tutti questi effetti sono alimentati da una filiera incentrata su modelli di consumo e produzione responsabili (Sdg 12).

Sulla base delle stime effettuate, il riutilizzo degli imballaggi in legno del circuito Rilegno nel 2022 ha avuto un impatto sulla produzione nazionale di 1.310 milioni di euro, con un contributo importante (pari a circa il 30 per cento dell’effetto complessivo) che deriva dall’indotto salariale, coerentemente con la natura labour intensive dell’attività. In termini di impatto sociale, si è stimato un impatto occupazionale complessivo di 4.481 unità di lavoro equivalenti, con un contributo significativo determinato dall’attivazione della filiera e dall’indotto (pari a circa il 34 per cento dell’effetto complessivo). Infine, per quanto riguarda l’impatto ambientale, le attività di rigenerazione e riciclo degli imballaggi in legno del sistema Rilegno hanno consentito di risparmiare 842.767 tonnellate di CO2 equivalenti, rispetto a uno scenario di valorizzazione energetica. In conclusione, il “sistema Rilegno” rappresenta un modello molto interessante, non solo nel settore del legno, ma anche per altri settori, in virtù della logica di piattaforma innovativa che sta alla base delle sue attività. Proprio la logica di piattaforma consente da una parte efficacia ed efficienza nella raccolta e nel conseguente riciclo e riuso del legno, dall’altra favorisce l’adozione e la diffusione di pratiche innovative e sostenibili tra gli attori del sistema.

Impatto economico

Impatto sociale

Impatto ambientale

II riutilizzo degli imballaggi in legno del circuito Rilegno ha un impatto sulla produzione nazionale di 1.310 mln€, con un contributo importante che deriva dall’indotto salariale, coerentemente con la natura labour intensive dell’attività.

II riutilizzo degli imballaggi in legno del circuito Rilegno ha un impatto occupazionale stimabile in 4.481 FTE, con un contributo significativo determinato dall’attivazione della filiera e dall’indotto.

II riutilizzo degli imballaggi in legno nel circuito Rilegno nel 2022 ha consentito di risparmiare 842.767 ton CO2 eq, rispetto a uno scenario di valorizzazione energetica.

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Un’Europa di foreste Le specie vegetali resistono alle trasformazioni dell’uomo. E con l’abbandono dei pascoli il manto forestale si riforma di FRANCESCO SPADA

C’è un piccolo lembo di bosco di circa un ettaro e mezzo nello storico Orto botanico di Roma, tra il Tevere e il Gianicolo. È un residuo di quelle popolazioni arboree primigenie che si sono mantenute da epoca antica. Lo dico con sufficiente certezza, in quanto le specie arboree presenti sono quelle che il determinismo naturale vorrebbe: giganteschi esemplari di leccio, di roverella e soprattutto di farnia, la quercia dominante in passato nelle pianure dell’Italia centrale, come la piana di Gubbio o la pianura padana di epoca protostorica e storica, che infatti era un immenso bosco di farnia. In particolare, le foreste al di là delle Alpi erano e sono (o meglio dovrebbero essere) in gran parte degli immensi farneti. La farnia è la famosa quercus robur della sistematica linneana. Le specie vegetali hanno, a mio avviso, più delle specie animali, una notevole capacità di resistere nonostante tutte le trasformazioni a cui l’attività umana le ha sottoposte. Fondamentalmente, l’attività umana consiste nell’eliminazione del manto forestale, in quanto, soprattutto dal neolitico in poi, l’uomo è coltivator di messi e quindi ha bisogno di spazi aperti, non occupati da alberi, e tende a trasformare le foreste preesistenti in steppe artificiali, dove coltivare specie addomesticate, come il grano, l’orzo, l’avena e i cereali in genere. In questa continua interazione, l’Europa occidentale conquistata da agricoltori intorno al settimo millennio a.C. ha subito un processo di deforestazione pressoché totale, che ha lasciato lembi di coltre forestale solo in alcuni distretti d’Europa poco abitati. Da quel momento in poi, se nell’Europa centrale e, dunque, anche nell’Italia settentrionale, la deforestazione è avvenuta con l’ascia per far posto alle colture, nell’Appennino è avvenuta anche e soprattutto con il morso degli animali pascolanti, ovini e caprini, ed è stata più capillare. A questo risalgono le origini del pregiudizio settentrionale sulla civiltà pastorale dell’Appennino, che ha eliminato brutalmente tutte le foreste. E questo fu uno dei principi del movi-

Bosco di Grou, Liguria Fotografia di Franco Figari

mento ambientalista del secolo scorso: riportare le foreste nell’Appennino. Oggi la riforestazione in realtà avviene in modo naturale perché purtroppo la civiltà pastorale, con il suo immenso portato culturale, è in regresso. Quindi i pascoli abbandonati si riforestano grazie ai fenomeni naturali di successione. Questa ricostituzione del manto forestale in teoria dovrebbe essere considerata la via verso la guarigione da questo eccesso di sfruttamento della copertura vegetale delle origini. Tutta l’Europa centrale, settentrionale, e meridionale dovrebbe essere forestale dal livello del mare ai 2000 metri di quota: i pascoli e i prati di oggi sono solo aperture legate alla presenza dell’uomo. In natura non avrebbero dovuto sussistere.

Francesco Spada è un botanico, già docente all’Università di Roma La Sapienza e alla Uppsala Universitet. Vive tra l’Italia e la Svezia.

Per approfondire i temi di questo articolo ascolta Ci vuole il legno - episodio 1: Abitare il clima, cui ha contribuito anche Luca Mercalli (vedi pag. 10)

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Ritorno alla natura

L’uomo ha distrutto gli ecosistemi naturali, ma non abbiamo mai provato a ripristinarli. È possibile ripristinare un ecosistema veramente naturale? E siamo sicuri che ci convenga? di MICHELE MORGANTE

Bosco di sugheri Montiferru, Sardegna Fotografia di Franco Figari

C’è un equivoco molto comune nella nostra cultura: pensare l’agricoltura del passato come naturale, mentre quella di oggi come artificiale. È uno dei grandi inganni in cui oggi rischiamo di cadere. Forse è dovuto alla comunicazione o anche a una visione nostalgica del passato, che tendiamo sempre a vedere come migliore del presente e ancora più del futuro. In realtà, fin dalla nascita dell’agricoltura otto-diecimila anni fa, quando ha iniziato ad addomesticare le piante, l’uomo ha cominciato a trasformare quelli che fino ad allora erano ecosistemi naturali in sistemi molto artificiali. Per quanto riguarda le foreste dobbiamo probabilmente distinguere fra situazioni molto diverse. Se pensiamo a paesi come gli Stati Uniti e il Canada, ma in parte anche al Nord Europa, possiamo ancora pensare ad alcuni ecosistemi forestali come a ecosistemi naturali mai toccati dall’uomo. Questo, soprattutto nel

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Nord America, è un obiettivo delle politiche di gestione del patrimonio naturale: un approccio che da noi non trova tanti estimatori. In Europa, in realtà, le foreste sono più o meno tutte antropizzate. Anni fa mi sono occupato di genetica delle popolazioni dell’abete rosso sulle Alpi italiane. È molto difficile trovare popolamenti di abete rosso che sia– no naturali, cioè che non siano il risultato del trapianto di piante che arrivavano soprattutto dal centro Europa, o comunque di disseminazione di semi che non erano quelli originali. Quindi è da vedere quanto ci sia di naturale nelle nostre foreste da un punto di vista genetico, almeno per quanto riguarda l’abete rosso. E comunque si tratta pur sempre di foreste che sono più o meno intensivamente gestite: in Italia si sostiene da molte parti, soprattutto da parte degli esperti di selvicoltura, che le nostre foreste devono essere gestite.

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Per approfondire i temi di questo articolo ascolta Ci vuole il legno - episodio 5: La ricerca che salva, cui ha contribuito anche Renato Ciampa, imprenditore.

Michele Morgante, docente ordinario di Genetica all’Università di Udine, è Direttore Scientifico dell’Istituto di Genomica Applicata. Già presidente della Società italiana di Genetica Agraria, è socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei.

Il fenomeno del rimboschimento in Italia ha portato a un notevole aumento delle superfici forestali, anche se non sappiamo bene cosa stia succedendo su queste superfici, dove il bosco sta riguadagnando terreno. Sono soprattutto pascoli, che una volta abbandonati dalla pastorizia vengono di nuovo coperti dalle montagne. Anche questo è un equivoco: quanto del paesaggio a cui siamo abituati è davvero naturale, e quanto è artificiale? Il momento storico è interessante, perché si sta parlando di sforzi imponenti di riforestazione. C’è questo progetto internazionale dei mille miliardi di alberi, promosso dal G20, che probabilmente non tiene nemmeno bene in considerazione la dimensione numerica. L’idea piaceva, perché mille miliardi è un numero tondo. Ma c’è un problema di superficie e in un paese come l’Italia c’è anche il problema di trovare il materiale da piantare, se si volesse soddisfare l’obiettivo, perché non abbiamo vivai che producano piantine in numero sufficiente. E bisogna capire quanto con questi piani di riforestazione si vogliano ricostituire delle foreste naturali, con uno di quegli approcci che spesso vengono chiamati di rewilding, sui quali non sappiamo ancora molto, perché abbiamo fatto il processo in un senso, ma mai nel senso opposto. Abbiamo distrutto gli ecosistemi naturali, ma non abbiamo mai provato a ripristinarli e non sappiamo neanche bene in quanto tempo si possa riuscire a ripristinare un ecosistema veramente naturale. È sicuramente un processo virtuoso, ma non so quanto sia facile. Sarei molto interessato a metterlo in atto proprio in pianura. Io sostengo che se riuscissimo a intensificare in maniera sostenibile l’agricoltura nella pianura padana, con una combinazione di diverse tecnologie, potremmo permetterci di abbandonare alcuni dei terreni che oggi sono utilizzati per l’agricoltura e riportare nella pianura padana quella foresta di latifoglie che era l’ecosistema naturale preesistente e che abbiamo cominciato a distruggere fin dall’epoca dei Romani. Io credo che in un paese come l’Italia non possiamo considerare le foreste come degli ecosistemi naturali. Ci si avvicinano, sono capaci di supportare livelli di biodiversità sicuramente elevati e credo che in molti casi sarebbe possibile lasciarle al loro destino e ripor-

tarle a una situazione di naturalità. Ma a quel punto bisognerebbe capire se questo soddisfa il bisogno di servizi ecosistemici che le foreste possono fornirci. Ad esempio, uno dei servizi che danno è quello ricreativo: siamo abituati ad andare a camminare in foreste dove i sentieri sono puliti e dove gli alberi, quando cascano per terra, vengono portati via. Una foresta naturale è un’altra cosa. Le tipologie di editing genetico sono applicabili anche a piante di alto fusto. Non c’è nessuna differenza tra piante perenni annuali, specie legnose o erbacee. Ma c’è una differenza sostanziale, ossia che i prodotti delle biotecnologie possono essere diffusi nell’ambiente solo accettando di seminare semi o piantare piante. Se ci si affida solo alla rinnovazione naturale, non c’è modo di portare questi prodotti nelle foreste. Si tratterebbe di farlo attraverso un tipo di selvicoltura molto diverso rispetto a quello che per lo più si fa in Italia. Oggi le piantagioni si fanno molto raramente. Gli obiettivi potrebbero essere principalmente due. Uno è difendere le piante dai sempre più frequenti attacchi di patogeni che il più delle volte arrivano dall’esterno. Quello che sta succedendo, e che è iniziato già nel 1800 con l’intensificarsi sia del movimento delle persone sia degli scambi di merce, è che assieme a persone e merci hanno iniziato a viaggiare anche insetti, funghi, batteri che attaccano le piante. Ora le biotecnologie possono fornire una risposta a questo problema, che esiste anche per le piante forestali. Il pino, per esempio, oggi è minacciato dal bostrico. Questo è un problema enorme. Attraverso le biotecnologie potrebbe essere possibile creare delle piante resistenti all’infezione di questo patogeno. L’altro obiettivo è quello della produzione di legno per scopi industriali e in questo campo sicuramente ci sono tante possibilità. Ma le biotecnologie possono consentirci di rendere le piante più produttive, cioè di aumentare la resa per ettaro, o di cambiare le proprietà meccaniche del legno. Uno dei settori dove c’è stato più investimento in ricerca è quello della produzione di combustibili a partire da specie legnose, in particolare utilizzando il pioppo. Se riusciamo a ottenere pioppi che abbiano meno lignina e più cellulosa, questi materiali potrebbero essere più adatti alla conversione in biocarburanti.

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Non diventiamo la Ztl del mondo

Autunno in Lapponia, Finlandia Fotografia di Franco Figari

La transizione ecologica va fatta, ma smettiamo di inseguire obiettivi irrealistici. E concentriamo gli sforzi sulle azioni più efficaci intervista a ANTONIO MASSARUTTO

Antonio Massarutto è professore al Dipartimento di scienze economiche e statistiche dell’Università di Udine.

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Qual è il costo della transizione ecologica? Enorme. Fin qui, secondo me, alquanto sottovalutato. Facciamo l’esempio dell’energia elettrica: tutti si fissano sul fatto che il pannello solare produce energia a un costo inferiore rispetto alle fonti fossili. Ma il fotovoltaico non è programmabile, e quindi oltre che delle centrali ci servono le batterie di accumulo. Secondo un recente studio di Elettricità Futura, l’associazione delle aziende italiane dei produttori di energia da fonti rinnovabili, a dicembre 2022 risultano installati in Italia 227.477 sistemi di accumulo elettrochimico, pari a un totale di poco più di 2 GWh di capacità, e nel 2030 dovremo averne 80 GWh in più per centrare l’obiettivo europeo del 45 per cento di consumi da rinnovabili. Ma non sappiamo dove andare a prendere i materiali con cui costruirle. Anche questo aspetto è sottovalutato. Senza contare che bisogna completamente rifare le linee di distribuzione e di trasporto, altro aspetto finora trascurato: come se i distributori le linee potessero realizzarle gratis.

Dove sbagliamo? Le batterie vogliamo comprarle dalla Cina perché costano meno, il cobalto e il litio non li vogliamo scavare a casa nostra ma in Africa o in Cina così risparmiamo l’impatto sul paesaggio, il nucleare non lo vogliamo fare per non ammettere di aver sbagliato i termovalorizzatori mai e poi mai, ma poi, mentre aspettiamo il riciclo chimico o l’ossicombustione, ai rifiuti ci pensano i cinghiali. E così via. A forza di dire “facciamo la transizione” e di castrare tutte le opportunità più utili per farla ci facciamo del male da soli. Ci riempiamo di iniziative folli e controproducenti, come il nuovo regolamento imballaggi che promette di costare moltissimo, di sacrificare posti di lavoro e valore aggiunto in tutte le filiere del riciclo per sostituirle con sistemi di riuso e “vuoto a rendere” tutti da inventare, abbandonando tutte le plastiche monouso: tutto questo per risparmiare lo 0,08 per cento delle emissioni. Non c’è neanche il senso della proporzione su quanto le mi-

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sure incidano sull’obiettivo che vogliamo raggiungere. Cosa dovremmo fare, invece? Siamo in guerra contro la CO2? Bene, allora combattiamola, ma per vincere le guerre, se non si vuole andare allo sbaraglio con un bel gesto romantico in stile Lord Byron, se vogliamo sperare di vincerla, questa battaglia, dobbiamo concentrare gli sforzi dove fa più male al nemico, non perdendo tempo a gingillarci con la plastica monouso ma usando le poche risorse che abbiamo nel modo più sensato possibile. I tedeschi chiudono le centrali nucleari che già avevano e in due anni con quelle a carbone emettono più CO2 di quanta ne avrebbero emessa nei prossimi mille anni con la plastica monouso. Mi sembra che ci sia una certa schizofrenia, che sembrerebbe quasi dar ragione a chi dice che la transizione la stiamo facendo sul serio ma soltanto perché Soros ci ha investito un sacco di soldi. Non che io creda a queste stupidaggini, però a forza di comportarsi così il sospetto viene. Come si fa a fare più male al nemico? Ragionando su quali siano le azioni più efficaci in termini di euro spesi per tonnellata di CO2 risparmiata. Molti studi sembrano indicare che a incidere non sono tanto i beni di consumo: secondo uno studio di Circle Economy, oltre il 50 per cento di riduzione della CO2 attesa viene dal settore edilizio. Se riusciamo a efficientarlo otteniamo benefici importanti, potrebbe essere una filiera in cui investire. Ma si dovrebbe evitare di dilapidare soldi, con il 110 per cento del bonus facciate, ad esempio, ci siamo mangiati tutte le possibilità di sussidiare eventuali interventi più benefici. Ci siamo tagliati le gambe da soli, appesantendo il bilancio dello Stato per regalare la coibentazione delle seconde case al mare. Ora che abbiamo speso tutti questi soldi (presi a prestito dai nostri figli), le facciate dovremo romperle di nuovo per metterci qualcos’altro, dovremo rimontare le impalcature per fare nuovi lavori che a questo punto pagheremo noi. E la mobilità sostenibile? Andare a testa bassa sull’auto elettrica è una scelta piena di punti di domanda, a cominciare dal fatto che stiamo buttando alle ortiche l’industria dell’auto europea e occidentale per consegnarci mani e piedi ai fornitori cinesi, per scoprire magari fra dieci anni che dipendiamo dalla Cina più di quanto dipendevamo da Putin. Mentre soluzioni alternative come i carburanti sintetici o lo stesso idrogeno sono trascurate. Ci fa un esempio di quel che ci dice vicino alla sua esperienza? D’accordo, prendiamo il caso dei rifiuti. Secondo me è palese che andare oltre certi livelli di riciclo e recupero finisce per essere controproducente sul piano sia dei costi che delle emissioni. Secondo un mio studio di qualche anno fa, che andrebbe certamente aggiornato, un sistema che puntasse a riciclare il 50 per cento dei rifiuti raccolti potrebbe essere quello ottimale: il target del 65 per cento stabilito dall’Ue è già troppo alto.

Se vogliamo riciclare il giusto e chiudere le discariche, quel che resta va destinato a produrre energia con il recupero di calore: con quale soluzione per produrre energia poi se ne può discutere, senza chiudere le porte al nuovo (ossicombustione, riciclo chimico) ma anche consapevoli che la buona vecchia termovalorizzazione comunque il suo lo fa, e anche piuttosto bene. Quindi? Inseguire traguardi irrealistici di riciclo finisce per costare un sacco di soldi e per mettere chi raccoglie materiali nelle condizioni spiacevoli di non sapere cosa farsene, perché la qualità è troppo bassa per ricavarne qualcosa. Quindi devono bruciarli di nascosto perché non si sa dove farlo, o far finta di esportarli chissà dove, millantando il recupero per poterli valorizzare come energia. C’è ipocrisia, ci diamo target irrealistici ma non vogliamo ammetterlo, quindi continuiamo con questi segreti di Pulcinella che tutti conoscono ma non si possono nominare, si fa finta di scandalizzarsi quando vediamo certe cose ma sappiamo benissimo che non si può evitare di farlo. Non c’è un’adeguata consapevolezza del fatto che ci sono cose anche brutte sporche e cattive che vanno fatte: à la guerre comme à la guerre... Dov’è l’errore? L’Ue, prendendo atto dei ritardi sulla road map per il 2050, non fa altro che inserire obiettivi ancora più irrealistici, così quel che non abbiamo fatto in vent’anni dovremmo farlo in sette... Quanta capacità di fotovoltaico dovremmo installare per seguire la road map? Dieci volte di più. Quante batterie dovremmo realizzare? Multipli di quel che si è fatto fino adesso. Invece di prendere atto dei ritardi registrati, e farne tesoro per correggere gli obiettivi troppo ambiziosi, non facciamo altro che colpevolizzare il primo che passa. Secondo molti il cambiamento climatico è colpa di chi rema contro: di chi compra navi per i rigassificatori invece di favorire le rinnovabili, di chi non lascia installare la capacità eolica e fotovoltaica, come se riempire l’Italia di impianti del genere fosse necessariamente una cosa bella. Ma qualcuno ha idea di cosa sarebbe successo al prezzo del gas in Italia se non fossimo riusciti a diversificare per tempo le fonti di approvvigionamento? E la transizione, dunque? Va fatta. Va fatta con determinazione. Ma non in modo sconsiderato, costringendo l’industria europea a chiudere. E soprattutto con la consapevolezza degli enormi costi sociali che essa comporta. Ci stiamo trasformando nella Ztl del mondo, un’isola che pensa di vivere ecologicamente solo perché scarica sulle periferie della terra tutte le cose sgradevoli, e intanto getta in mezzo a una strada chi queste cose le produce a casa nostra: così possiamo fare le green town chiudendo la manifattura che ci ha resi ricchi e prosperi. Ma se la CO2 è un problema mondiale non è che se un Paese diventa leader della green economy, spostando le emissioni in quello vicino, la situazione globale migliora: resta solo l’illusione di averla migliorata.

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MARIA CRISTINA 28 ANNI Mi sono laureata in Design e specializzata in Industrial&Research design presso LABA. Ho conosciuto tramite social le attività di We are Walden. Successivamente, frequentando il Walden Workshop, ho potuto sperimentare metodi di progettazione differenti dai miei. Ho scoperto per caso la community e per scelta la continuerò a seguire.

YUCHAN 24 ANNI Studio Design del Prodotto al Politecnico di Milano e sono molto contenta di aver conosciuto la community di Rilegno. Grazie al Walden Workshop ho potuto approfondire le mie conoscenze sul mondo del legno e partecipare alla realizzazione di un progetto che unisce valore sociale e sostenibilità in un ambiente fatto da persone piene di passione ed entusiasmo!

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È la scienza, bellezza Le teorie non ortodosse sono utili alla scienza. Ma le tesi dei negazionisti del cambiamento climatico (come del Covid) sono ormai contraddette da una montagna di evidenze sperimentali intervista a VALERIO ROSSI ALBERTINI

Faggeta di Hallerbos, Belgio Fotografia di Franco Figari

Valerio Rossi Albertini, fisico nucleare, è primo ricercatore al Cnr, professore incaricato di chimica fisica dei Materiali all’Università “La Sapienza” e direttore del laboratorio di spettroscopia di raggi X, Area di Ricerca di Tor Vergata del Cnr.

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Lo ha scritto anche il Papa nell’Esortazione apostolica Laudate Deum: circolano ancora troppe teorie negazioniste del cambiamento climatico… Come confutarle? La scienza non si basa su opinioni, e questa è una banalità, ma sull’analisi di dati. Qualunque ipotesi che non confligga con le leggi di natura è ammissibile. Le teorie più astruse si sono dimostrate corrette alla prova dei fatti. Tutta la fisica moderna sembra surreale, folle, però funziona, quindi è una teoria corretta. Potrà avere delle migliorie ma sostanzialmente funziona per quanto ci possa sembrare incomprensibile. Stando così le cose chiunque ha il diritto di affermare qualunque principio astratto: per esempio che i cambiamenti climatici siano dovuti all’influenza aliena. Non possiamo escludere che ci siano degli alieni nello spazio e che utilizzino dei loro strumenti perversi per influenzare le nostre condizioni ambientali, magari per preparare il terreno all’invasione. Questa è una teoria. Enrico

Fermi sosteneva che dovessero esserci civiltà aliene, ed è molto probabile che ci siano. Questa potrebbe essere una teoria con qualche fondamento. Quindi è colpa degli alieni? Un momento: il passo successivo è Galileo, il padre della scienza moderna, che ci ha detto come si fa a procedere nell’ipotesi per darle la dignità di teoria scientifica. L’ipotesi deve essere messa alla prova dei fatti. Quali sono i fatti? Che i cambiamenti climatici ci sono. Perfino il prof. Prodi dice che dobbiamo ammettere che c’è qualcosa di anomalo, non è possibile che ogni estate sia più calda della precedente, che si inneschino processi in passato sconosciuti. Tuttavia, la risorsa ultima dei negazionisti è dire: non è responsabilità nostra, accade indipendentemente dalle nostre azioni. Ma se chiedi: allora a cosa è dovuta?, ecco che cominciano ad annaspare, iniziano a parlare di cicli solari, che sono cicli regolari, potrebbero avere un influsso ma non giustifi-

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cherebbero il fatto che non siamo in una condizione di perturbazione, ma di caos climatico. Che altro sostengono? Che l’anidride carbonica in eccesso non è quella che immettiamo noi nell’atmosfera. Ma allora da dove viene, qual è la sorgente? Sappiamo con certezza che le attività industriali e anche quelle private producono CO2 in continuazione, dovuta alla combustione di carburanti fossili. Non c’è traccia di nessuna altra fonte. C’è tantissima anidride carbonica in atmosfera, quella immessa dall’uomo è una piccola frazione, ma è una frazione rilevante e non c’è nessuna prova scientifica, nessuna evidenza sperimentale, che ci siano altre fonti. E ancora? Dicono che il clima è sempre cambiato, è sempre stato così. Vero, ma bisogna contestualizzarlo: i cicli naturali di cambiamento delle condizioni termiche del pianeta sono molto più lenti, questo non ha precedenti. Non si è mai registrata una concentrazione simile di CO2 in atmosfera, è stato provato oltre ogni ragionevole dubbio. Lo sappiamo con certezza perché sono stati fatti molti e ripetuti esperimenti che hanno dato concordemente e coerentemente lo stesso risultato: negli ultimi ottocentomila anni non c’è mai stata una concentrazione simile di CO2 in atmosfera. Ci piacerebbe poter dire: ti sbagli, questa è la prova, ma non funziona così nella scienza. Quando i fenomeni sono complessi, articolati, investono non soltanto una singola regione ma l’intero pianeta, infatti si parla di surriscaldamento globale alludendo al globo terracqueo, allora bisogna tenere in considerazione tutte quante le possibili cause e valutare i possibili effetti. Chi se ne occupa? C’è un comitato che si chiama Ipcc (International Panel for Climate Change), un gruppo di studi internazionale per i cambiamenti climatici che è un organo dell’Onu, il più prestigioso al mondo, che da oltre vent’anni studia il fenomeno. In questo gruppo, che è costituito dai più grandi esperti nella climatologia, non ci sono ormai dubbi residui. Hanno fatto tutte le possibili controprove. Sherlock Holmes diceva: eliminate tutte le cause che non si possono verificare, l’unica che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità. Nel nostro caso non è affatto improbabile, se consideriamo che lo strato terrestre è sottile ed è verosimile che in due secoli siamo riusciti ad alterare la composizione chimica dell’atmosfera. L’abbiamo fatto anche con il mare, con le isole di plastica, stiamo alterando gli equilibri biologici del mare. Ce la si può fare, e per il mare abbiamo fatto peggio in soli sessant’anni, non in due secoli. Come rapportarsi a chi insiste a dubitare? Tutte le opposizioni e le riserve vanno tenute in debita considerazione, perché nella scienza molto

spesso chi è eterodosso ha ragione. Ci sono teorie su cui gli scienziati non convengono, che alla prova dei fatti si dimostrano quelle corrette. Quindi abbiamo fatto tutte le verifiche del caso, ma così come ogni volta che lanci un sasso quello cade a terra, il che è una prova della legge di gravitazione universale di Newton, abbiamo fatto tutte le controprove per vedere se non ci sono altre spiegazioni plausibili. La risposta è no, c’è invece una prova grande come una montagna, ed è quella a cui dobbiamo attenerci. Si chiama evidenza sperimentale. Si può fare un parallelo tra i negazionisti del cambiamento climatico e quelli della pandemia? Che ci sia qualcuno che per superbia o per spirito di contraddizione, per non volersi omologare, un atteggiamento in alcuni casi anche lodevole, provi a dare delle spiegazioni alternative, mi sembra perfettamente legittimo. Il problema è a un passo successivo, quando non ci si arrende all’evidenza. Gli studi che sono stati condotti sul virus sono stati così precisi, così meticolosi, c’è una letteratura sterminata, che giusto un pazzo potrebbe pensare a un complotto, a una macchinazione planetaria in cui tutti gli scienziati sono legati da un patto e vogliono propagandare una teoria falsa, per qualche scopo che non si riesce a capire. Nel caso della pandemia, poi, i negazionisti erano quelli che dicevano da una parte che era una normale influenza, e che era una forma di arbitrio impedire alle persone di circolare liberamente, sottoporle a un regime restrittivo; dall’altra che sostenevano fosse un pericolosissimo virus, un’arma biochimica sfuggita da qualche laboratorio cinese. Un paradosso che ho sempre sollevato senza che nessuno mi rispondesse: dalla stessa parte c’erano quelli che pensavano che non fosse vero, e quelli che pensavano che fosse il peggio che si era verificato nella storia del genere umano. Non proprio il massimo della coerenza. Già, ma nel caso del Covid sia l’una che l’altra corrente negazionista sono state smentite dai fatti. Le pandemie non cessano per miracolo. Dalle cronache storiche del passato e dalle pandemie sviluppatesi più recentemente, l’ultima delle quali l’influenza spagnola verso la fine della prima guerra mondiale, sappiamo qual è l’evoluzione di una pandemia. Dura molti anni e continua a crescere, a meno che non si ponga un contrasto. Il contrasto nel caso del Covid è stato prima l’isolamento nel breve termine, ma poi il vaccino, perché quando abbiamo ricominciato a circolare, se non avessimo avuto la protezione del vaccino, la pandemia sarebbe dilagata. Ancora adesso saremmo completamente immersi, perché i tempi caratteristici di sviluppo della pandemia sono lunghi, la fase espansiva è di molti anni: siamo riusciti a limitarla a un paio d’anni grazie al fatto che il vaccino è stato sintetizzato in dieci mesi.

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CHIARA, 22 ANNI Studio Prodotto industriale e Ux design. Ho riscontrato in We are Walden la voglia di cambiare le cose e dare una reale soluzione in un mondo di chiacchiere. Il nostro rapporto con la sostenibilità è ovviamente a doppio filo, non per costrutto sociale ma per passione e per missione, e secondo me questo è l’unico modo in cui possiamo fare qualcosa.

ALESSIA, 24 ANNI Lavoro come graphic designer e studio Integrated Product Design al Politecnico di Milano. Ho partecipato al workshop Walden Box ed è stata un’esperienza fantastica in cui ho potuto apprendere meglio le tecniche di lavorazione del legno, mettendo le mani “su tavola” e conoscere nuovi materiali organici e sostenibili grazie agli interventi dei collaboratori.

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Bosco di faggi, foresta casentinese Fotografia di Franco Figari

Biodiversità, l’altra sfida

Ecosistemi in crisi, pandemie, specie infestanti. Quanto ci costa, che effetti produce, come si combatte una perdita di specie autoctone ormai al 30 per cento intervista a TELMO PIEVANI Si parla tanto di climate change, poco di perdita della biodiversità: non trova? È vero, la crisi della biodiversità è l’altro lato dell’Antropocene, che però attira meno attenzione mediatica. Tutti parliamo di climate change, giustamente, perché è la grande dinamica di cambiamento globale della regolazione del pianeta, quindi è importantissimo. Però c’è anche la crisi della biodiversità, che ha delle ragioni indipendenti ma è strettamente connessa con il cambiamento climatico, purtroppo, in modo negativo. La crisi della biodiversità ha delle radici lontane, proprio come il climate change. È legata a pochi fattori: la deforestazione, il più importante di tutti, ricordiamolo; le specie invasive, molto sottovalutate ma che sono la seconda causa in assoluto di

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perdita delle specie autoctone; poi quelli che ci aspettiamo: la crescita della popolazione, l’inquinamento, la caccia e la pesca indiscriminate. Che effetti ha prodotto questo complesso di cause? Una riduzione ormai del 30 per cento, a volte con picchi del 40-45 per cento, della biodiversità in tutti i gruppi di animali. In alcuni casi climate change e riduzione della biodiversità si alimentano a vicenda. Per esempio in quello della deforestazione: se deforesti stai contribuendo immediatamente al climate change perché stai distruggendo alberi che assorbono CO2 e la immagazzinano nel legno; spesso hai anche incendi e quindi un rilascio di quella CO2. Al contempo hai la distruzione di ecosistemi che contengo-

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no la più alta biodiversità. In più il climate change peggiora tutte le altre cause: per esempio favorisce la diffusione di specie invasive. Così l’Italia, un Paese che si sta tropicalizzando, diventa un Paese facilmente colonizzabile da specie quali insetti nocivi. Quindi il climate change agisce peggiorando le cause di perdita di biodiversità. Sono distinti in generale ma fortemente interconnessi e purtroppo si alimentano a vicenda. Quali sono le conseguenze che possono derivare da questa perdita di biodiversità? Sul piano utilitaristico, sono conseguenze economiche molto gravi: la biodiversità offre dei servizi cosiddetti ecosistemici gratuiti, perché non li paghiamo, che purtroppo non hanno ancora un computo economico. Quantificare il valore di questi servizi è una delle grandi urgenze dei prossimi anni. La distruzione della biodiversità li rende più difficili, più rari e quindi, per una legge ben nota dell’economia, più cari: se riduciamo la biodiversità questi servizi dobbiamo pagarceli, diventano più rari e preziosi. Ci fa un esempio? Se c’è una riduzione, come sta succedendo, di circa il 30 per cento delle popolazioni di insetti impollinatori, l’impollinazione, servizio fondamentale per l’economia primaria umana, diventa più rara e quindi bisogna pagarla. In Asia alcune colture hanno già bisogno di impollinatori artificiali, o meglio umani, quindi bisogna pagare persone che fanno questo lavoro e quei prodotti costeranno molto di più. La riduzione dei servizi ecosistemici ha un costo elevatissimo: quasi il 70 per cento della produzione agricola dipende direttamente o indirettamente da insetti impollinatori. Ma vale lo stesso per la purificazione dell’acqua. La biodiversità delle acque dolci è una delle più minacciate in assoluto; sull’Europa negli ultimi cinquant’anni si è ridotta quasi dell’80 per cento la diversità di specie. Questo è molto negativo perché al posto di quelle specie autoctone arrivano specie invasive, portate da fuori, quindi gli ecosistemi sono molto più poveri e omogenei. Ma c’è anche un altro esempio di grande rilevanza per la salute umana. Quale? Se devasti la biodiversità aumenti la possibilità che agenti patogeni attacchino l’uomo, che nascano zoonosi e pandemie globali. Questo perché gli animali si spostano ed entrano in contatto con zone antropizzate, e aumenta così il contatto tra noi e quegli animali. È stato ormai certificato e quantificato che la perdita di biodiversità aumenta il rischio pandemico, il che ci è costato carissimo con il Covid. Le pandemie ci sono sempre state, dipendono da animali portatori di agenti patogeni, ma i dati ci dicono che dai primi anni Ottanta sono aumentate in modo esponenziale. Non può essere un caso, vuol dire che ci sono condizioni ecologiche di contorno che favoriscono le pandemie. Sono le nicchie antropiche che

favoriscono gli agenti patogeni: la deforestazione, il commercio illegale di animali esotici, i wet market, le piantagioni, tutte situazioni in cui animali come pipistrelli, grandi scimmie, roditori, portatori di agenti patogeni, entrano più facilmente in contatto con l’uomo. La statistica dice che il rischio prima o poi diventa realtà, cosa ampiamente prevista e poi verificatasi alla fine del 2019. È possibile intervenire solo a livello globale? No, lo si può fare anche a livello locale. Sul piano globale sappiamo da dati molto attendibili, raccolti da Harvard e altre università, che se passassimo dall’attuale 20 per cento di superficie protetta, tra aree marine, parchi, riserve e così via – in Italia siamo messi piuttosto bene, tra il 21 e il 22 per cento - al 30 per cento nei prossimi dieci anni, e fossimo poi così bravi da arrivare al 50 per cento nei prossimi venticinque anni, la perdita di biodiversità si interromperebbe. La mia non è una visione catastrofista, questo possiamo farlo, con regolamentazioni internazionali ma anche a livello nazionale e locale. Se a livello locale uniamo diverse aree protette l’effetto è moltiplicativo: è quel che vogliono fare in Trentino, dove c’è una situazione virtuosa, con le aree protette che sono quasi al 30 per cento. Se ci si riesce, si creano corridoi faunistici e le opportunità di avere biodiversità aumentano. C’è poi un campo nuovo molto promettente. Ci dica. È quello della urban ecology: anche in zone molto antropizzate, se riesci a creare rifugi, zone dove la fauna può trovare riparo, l’effetto è molto più importante di quello che si poteva pensare, per esempio per gli uccelli migratori. Anche in città si può fare tantissimo per difendere la biodiversità. È facile credere che la biodiversità sia soltanto nelle foreste, in montagna, nelle zone remote; in realtà è tutto attorno a noi, ce n’è tantissima anche nelle zone agricole e urbane. Questi interventi a favore della biodiversità vanno anche molto a favore della qualità della vita umana, diminuiscono la temperatura, combattono le bolle di calore che si formano nelle città.

Telmo Pievani è Professore Ordinario presso il Dipartimento di Biologia dell’Università degli Studi di Padova, dove ricopre la prima cattedra italiana di Filosofia delle Scienze Biologiche. Dal 2017 al 2019 è stato Presidente della Società Italiana di Biologia Evoluzionistica, il primo filosofo della scienza a ricoprire questa carica.

I nativi climatici hanno la possibilità di combattere con successo questi fenomeni? Secondo me sì. Lo stiamo vedendo in università: i ventenni che arrivano obiettivamente hanno un modo diverso di pensare e ragionare. Chiamiamo nativi climatici quelli nati nei primissimi anni 2000: loro veramente in questo problema ci sono nati dentro, ne sentono parlare dalle scuole elementari e hanno maturato un approccio diverso dal nostro. Oscillano tra ecoansia, perché percepiscono la gravità del debito che stiamo scaricando su di loro, e pragmatismo. Sono molto orientati a trovare soluzioni. Stanno esplodendo finalmente le iscrizioni ai corsi di scienze ambientali, climate change, circular economy, quindi secondo me si sta preparando una generazione che affronterà il problema in modo diverso da come l’abbiamo affrontato noi.

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La quercia delle streghe in primavera, Toscana Fotografia di Franco Figari

La copertura arborea come soluzione Ridurre le strade e aumentare la forestazione può contribuire alla riduzione di CO2 intervista a STEFANO MANCUSO Professor Mancuso, la sua ricetta è semplice e radicale: forestiamo le aree urbane e copriamo le superfici edificate con un manto verde. Poteva sembrare la visione di un utopista, invece i sindaci le hanno dato ragione. Com’è successo? Quella di forestare tutte le aree urbane disponibili, alla lunga, è una soluzione la cui efficienza è apparsa evidente a un numero sempre crescente di persone.

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Il problema del riscaldamento globale è legato essenzialmente alla produzione di anidride carbonica, che è prodotta all’80 per cento dalle città, che a loro volta rappresentano soltanto l’1,6 per cento della superficie del pianeta. Quindi era ovvio che dovessimo lavorare sulle città per ridurre la CO2. La politica che si è seguita fino ad oggi, quella di cercare di ridurre le emissioni, è corretta, però di fatto non sta fun-

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zionando. Cerchiamo di ridurre le emissioni, ma in realtà ciò che vediamo anno dopo anno è che l’anidride carbonica aumenta: ogni anno produciamo più anidride carbonica dell’anno precedente. Credo che prima di poter davvero vedere delle significative riduzioni nelle emissioni dovranno passare dei decenni: un tempo che non abbiamo a disposizione. Dobbiamo recuperarli da qualche parte, per questo nasce la proposta della copertura arborea delle nostre città. C’è qualche cosa di strano e di particolare che riguarda le città: il fatto che dovunque esse sorgono, a qualunque latitudine, le similitudini sono maggiori delle differenze. Una città è sempre una città dovunque sorga. In funzione del clima e delle latitudini, gli interventi con le piante dovrebbero adattarsi ai luoghi, ma di fondo le strategie sono sempre le stesse. Come si può fare questo? In parte de-impermeabilizzando, cioè eliminando copertura da parte della città. Sono un forte fautore, negli ultimi tempi, della necessità di rimuovere una parte significativa delle strade. Le città hanno una superficie enorme dedicata alla viabilità. Penso che si potrebbe immaginare una riduzione fra il 30 e il 40 per cento della superficie dedicata alle strade negli ambienti urbani, dedicando la superficie ricavata a parchi e arborei. Avremmo fatto un bel passo avanti. Molte archistar hanno percepito per tempo che la questione ambientale è cruciale per le città, e quindi hanno cominciato a progettare edifici coperti di piante. Ma è chiaro che una città non è fatta di questi edifici simbolo, bensì di edifici normali, di strade, di piazze, di supermercati, di biblioteche, di quella miriade di edifici costruiti senza l’apporto, diciamo di nessun grande architetto, che coprono l’intera superficie della città. Vanno bene i grandi architetti, perché in questa maniera diffondono l’idea che le piante debbano entrare nella città, ma poi questo deve diventare veramente patrimonio di ciascuno. E soprattutto le amministrazioni dovrebbero fare dei regolamenti che obblighino chiunque voglia costruire a mettere anche del verde: in un parcheggio, lungo le strade, nei crocevia, sulle mura degli edifici, sui tetti, nei distributori di benzina, dappertutto, in modo che si sappia come e quanto verde è possibile mettere. Negli ultimi anni la necessità di riforestare è diventata evidente a molte amministrazioni, le quali, alcune in buona fede, altre meno, hanno cominciato a cavalcare anche quest’onda. Stefano Mancuso è un botanico, docente ordinario all’Università di Firenze, dove dirige il Laboratorio internazionale di neurobiolologia vegetale (Linv). È autore di numerosi saggi tradotti in oltre venti lingue.

Lei non avverte una certa tendenza a fare della forestazione urbana una password, qualcosa che assomiglia a un greenwashing municipale? Chiunque pianti un albero sta facendo una cosa buona, però le amministrazioni hanno un compito in più: non basta metterli gli alberi, vanno anche manutenuti, soprattutto per i primi tre - quattro anni. Altrimenti si rischia che la maggior parte degli alberi che si mettono a dimora poi muoiano, e questo è quello che purtroppo sta accadendo in tanti luoghi di Italia, ma direi anche del mondo. Si parte con delle grandi operazioni anche mediatiche di piantumazione diffuse per tutta la città. E poi, dopo un anno o due anni

Per approfondire i temi dell’intervista ascolta Ci vuole il legno - episodio 3: Capitali coraggiose, cui hanno contribuito anche Elena Grandi, Assessora Ambiente e Verde del Comune di Milano, e Dario Nardella (vedi pag. 12).

gli alberi che sono rimasti in vita sono il 10 o il 20 per cento. Ecco, questo non va bene, è molto meglio piantare meno alberi ma assicurare una manutenzione negli anni successivi. Cosa pensa dello scambio tra emissioni e forestazione? La compensazione è ancora un metodo accettabile? La compensazione delle emissioni con interventi di riforestazione è un mondo molto vago e molto difficile anche da afferrare. Se per compensazione si intende che un’azienda non si preoccupa di limitare le sue emissioni perché tanto sa che può compensare da qualche parte con delle piantagioni che poi non si sa bene quanto e come assorbono CO2 e se sono mantenute eccetera, direi che è una mezza truffa. Se invece, per esempio, parliamo di compensazioni da legno, in questo caso penso che la cosa possa essere molto interessante. L’utilizzo di legno che proviene da foreste certificate, quindi coltivate in maniera sostenibile, in questo caso è proprio una compensazione di carbonio. Se si prende un albero che ha cinquant’anni e lo si taglia invece di aspettare che caschi per terra e ributti in aria tutta l’anidride carbonica che ha fissato, e lo si utilizza per fare, per esempio, materiali da edilizia che dureranno 50 o 100 anni, allora si sta fissando anidride carbonica per 50 o 100 anni. Questa è vera compensazione e dovrebbe essere calcolata in termini di crediti di carbonio. Come valuta la carenza di sostanza legnosa prodotta in Italia? Importiamo legno per soddisfare un fabbisogno in crescita, soprattutto nel settore dell’edilizia. Normalmente guardiamo alle piantagioni di alberi da legno come se fossero delle foreste o dei boschi. No, sono delle coltivazioni, così come coltiviamo il mais. Perché non si faccia confusione: io sono del tutto contrario a che si tagli un solo albero da una foresta o da un bosco originario. Sono invece incredibilmente favorevole a far sì che si coltivi e si metta a coltivazione di legno la maggiore quantità di terra possibile, perché questo legno ci aiuterà a combattere il riscaldamento globale.

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Dove c’è un albero c’è vita

Dalle esplorazioni desertiche estreme, una lezione sull’importanza di recuperare il rapporto con la natura per creare una vera cultura della sostenibilità intervista a MAX CALDERAN

Ulivi nel Salento Fotografia di Franco Figari

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CULTURA DELLA SOSTENIBILITÀ


Calderan, lei attraversa a piedi deserti ma propone anche un più semplice ritorno al contatto con la natura. La mia fortuna è stata un’infanzia in natura: nonni, campi, trattore, mucche, vendemmia, frumento, orzo, il preparare il burro in casa, lo spalare letame nelle stalle… Tutti dovrebbero fare esperienze di questo tipo da bambini, anche se il mondo ci porta in un’altra direzione. Il mio percorso non è stato tanto un ritorno alle origini, quanto un riprendere in mano nel corso degli anni quello che in qualche misura avevo dimenticato. Negli anni si è risvegliato in me l’istinto e il desiderio di ricercare quel che sentivo mancarmi sempre di più. Nasciamo nudi, camminiamo scalzi, ma poi a un certo punto ci dobbiamo vestire, mettere delle scarpe, andare a scuola, all’università, intraprendere un lavoro, avere responsabilità, una casa: ma non dobbiamo però dimenticarci da dove veniamo. Non ha senso pensare di sostituire con qualcosa di surrogato qualcosa che in realtà è ancora disponibilissimo a costo zero, ma che percepiamo come ostile e distante perché non lo ricordiamo più. È così importante tornare in natura? Per saperlo basta vedere il sorriso che nasce nelle persone che respirano aria pulita, una sorta di rinascita. Partendo da questo presupposto ho sviluppato le mie esplorazioni e il mio stile di vita. La tecnologia dovrebbe regalarci più tempo per recuperare la nostra origine naturale, non togliercene. Il torto più grave che si può fare oggi a una persona è togliergli la possibilità di avere un raggio di sole, di avere un albero sul quale arrampicarsi, o di trovare refrigerio all’ombra nelle giornate calde. Di chinarsi su un torrente in montagna e bere perché l’acqua è pulita e fresca, di andare al mare e trovare sabbia pulita senza mozziconi e plastica. Questo per me è il torto più grande che puoi fare a un essere umano, perché recuperare il contatto con la natura è vitale. C’è un legame tra il rapporto diretto con la natura e quello con il cambiamento climatico? Oggi pare che per risolvere questa situazione in continua evoluzione, che potrebbe mutare giorno dopo giorno, sia sufficiente buttare la plastica nell’apposito contenitore, così per l’umido, e così via. Sembra che se si acquista un’auto elettrica si riducono le emissioni di CO2 e si è fatta la propria battaglia. Ma questo non funziona e non potrà mai funzionare, perché manca la consapevolezza vera della necessità di tornare alla propria origine naturale, manca la coerenza tra quel che viene detto e quel che viene fatto. Non possono funzionare azioni omologate e uguali per tutti, perché non si tiene mai in considerazione il punto centrale: l’essere umano, la persona. Un po’ come nella medicina ci si sposta verso quella personalizzata, manca il concetto di trasferire azioni adatte a ciascuno. Cosa posso fare io che abito a Milano in un condominio con 50 appartamenti in una zona periferica vicino a una discarica con l’inceneritore?

Già. Cosa può fare? Dobbiamo ricreare la consapevolezza dell’importanza di avere parchi dove i bambini possano salire sugli alberi, non su giochi di plastica riciclata, perché l’essere umano sta bene se tocca il legno, non la plastica. Ridare il giusto valore allo spazio aperto della natura. I bambini di oggi prenderanno decisioni future sul cambiamento climatico. Manca la formazione consapevole, l’esperienza, in modo che in futuro la gestione sia da parte di chi la natura l’ha vissuta in prima persona. Non mi farei fare una dieta da uno specialista in sovrappeso che beve, non andrei da un chirurgo cui trema la mano perché la sera prima ha bevuto, e neanche metterei la responsabilità dell’ambiente in mano a chi non ha mai respirato aria pulita, ma solo quella di hotel a cinque stelle. È un lavoro che si semina adesso nei bambini, nelle scuole, con attività di esperienza a cielo aperto, sporcandosi le mani. E la sua esperienza di esploratore? È in linea con questo mio sentire. La Calderan line che ho aperto a febbraio in Arabia Saudita è lunga 1100 km. Si trova nel deserto di sabbia più grande al mondo, in una delle zone più inospitali, tra le più pericolose, dove non c’è acqua, nulla. Ma ho capito che potrebbe tornare verde come era ventimila anni fa: in quella esplorazione si è sviluppato in me il progetto di riportare acqua e alberi per ripristinare una sorta di equilibrio con l’ambiente, per riportare anche razze di animali che si riteneva fossero estinte. Un progetto che prenderà l’acqua dall’aria con un grande umidificatore alimentato da un pannello solare, con cui verrà irrigata una prima piccola oasi, per cominciare. L’Arabia Saudita è un terreno molto fertile anche dal punto di vista dello sviluppo di idee un po’ folli. Esiste un progetto che prevede di piantare un miliardo di alberi da costa a costa. Le risorse ci sono, ognuno lo fa a suo modo, più o meno eclatante, però ci sono questi progetti un po’ folli che hanno il potere di richiamare l’attenzione.

Max Calderan, esploratore, nel 2020 entra nella storia attraversando in solitaria a piedi i 1.200 km del Rub’al-Khali in Arabia Saudita, il deserto di sabbia più grande al mondo. Il percorso da lui tracciato è oggi noto come “Calderan Line”. Ha raccontato la sua impresa nel libro La linea nel deserto (Gribaudo, 2021).

Gli alberi sono importanti? Fondamentali. Con le mie esplorazioni ho costruito pozzi d’acqua in tante zone del pianeta per farli crescere. Quando un albero cresce crea un’ombra, sotto la quale due persone comunicano: inizia una condizione di confronto che porta a un miglioramento. Quando arrivano persone da più parti del mondo, ognuno con la sua etnia, la sua religione, la sua politica, il suo pensiero, la sua cultura, inizia il confronto; ma se inizia un dialogo vuol dire che c’è un interesse comune. La condivisione di idee diverse può portare un greening nuovo, una svolta nuova per tenere in salute non solo il pianeta ma soprattutto il rapporto fra le persone. Se le persone pretendono che in città ci sia verde pulito, ci vorranno politiche per renderlo possibile. Per me, che sono abituato alla sabbia, il legno rimane quel che può essere condiviso da tutti, perché dove c’è un albero c’è vita.

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Il legno che sfida il terremoto Dalle ricerche sulle proprietà del legno lo sviluppo di soluzioni abitative e costruttive confortevoli, economiche e antisismiche di ARIO CECCOTTI

Ario Ceccotti è un ingegnere civile, già docente di Tecnica delle Costruzioni presso varie università italiane e direttore di ricerca del Cnr. È autore di numerosi manuali sulle strutture in legno, con particolare riferimento alle loro proprietà antisismiche.

Per approfondire i temi di questo articolo ascolta Ci vuole il legno - episodio 2: Impronte creative, cui ha contribuito anche Mario Cucinella, MCA Mario Cucinella Architects.

Quando ho iniziato io, il legno non era molto considerato dagli ingegneri. Ero ricercatore e ricordo che il mio professore di riferimento mi disse: fai ricerca sul legno? Sei libero di farlo, però tieni conto che io non ti posso aiutare perché è un materiale sconosciuto fino ad ora: per me con il legno ci si faceva solo la segatura. Mi sembrava che l’uso del legno nel costruire andasse d’accordo con il mio sentire, in quanto è un materiale che non danneggia la natura, che ricresce. Allora mi sono divertito – mi sono sempre divertito nel mio lavoro – a studiare questo materiale dal punto di vista dell’ingegneria, della resistenza e durabilità. Ho scoperto l’esistenza di un gruppo di persone chiamati tecnologi del legno: dottori in scienze forestali che si occupano del legno dal punto di vista delle proprietà resistenti. Mi si è aperto un mondo. Sono persone che hanno una grande esperienza specifica. La collaborazione tra architetti, ingegneri civili e tecnologi del legno è stata fondamentale. L’architetto, secondo me, tira la corsa, l’ingegnere civile fa i calcoli, il tecnologo indica quale specie usare. Ma poi mi si è aperto un altro mondo, quello fuori dall’Italia, dove le costruzioni in legno hanno sempre suscitato interesse da parte dell’università, in Germania specialmente. Ho scoperto gruppi internazionali di ricerca sul legno e mi ci sono inserito. Ero come una spugna e prendevo molto, finché mi sono chiesto: e io che cosa posso dare? Allora, siccome in Italia sfortunatamente abbiamo un’esperienza di terremoti, mi sono reso conto che nessuno si interessava al legno come materiale di costruzione nelle zone sismiche. Così, quasi senza volerlo, è nato quel filone che ci ha portato a farci conoscere a livello internazionale. Ho sempre fatto l’insegnante e grazie all’autorità e all’autorevolezza che il Cnr ha in Italia e nel mondo

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è stato più facile arrivare a certi livelli, importanti per avere finanziamenti, che sono necessari per fare ricerca. In Trentino, che con la Toscana è la regione con più foreste, ho conosciuto le persone giuste nel momento giusto. Volevano promuovere il legno trentino, quindi mi sono trovato in un terreno fertile: volevano idee, e noi gliele abbiamo date. E queste idee ci hanno condotto a testare un edificio di sette piani su tavolo vibrante a Kobe, in Giappone, una simulazione sismica che da un punto di vista mediatico ha riscosso molto interesse. È stata fondamentale, non soltanto in Giappone e in Italia. È conosciuta in tutto il mondo. Purtroppo, nel 2009 c’è stato il terremoto a L’Aquila. La mattina del giorno dopo ricevo una telefonata dall’ufficio stampa del Cnr. Professore, mi dicono, bisogna tirare fuori il tema del legno come materiale antisismico. Io risposi timidamente, ma avevano ragione. Se ne parlò in televisione, finché nella nota trasmissione Affari tuoi una sera il presentatore chiese a una partecipante: ma lei cosa ci farebbe con questi soldi se vincesse? E lei rispose: mi ci farei una casa di legno, perché resistono ai terremoti. Sicuramente quella prova ha sdoganato nella testa di tanti italiani l’idea che il legno sia antisismico. In tutto il mondo, le linee guida per difendersi dai terremoti suggeriscono di cercare rifugio sotto un oggetto capace di proteggerci da un’eventuale caduta del soffitto. E una delle prime indicazioni che danno è di nascondersi sotto un tavolo. Quando è venuto il terremoto ad Amatrice, e poi anche al Mugello, dove abito io, mi è tornata in mente l’idea. Abbiamo fatto delle prove in Trentino, realizzando un banco di legno nell’azienda di un amico di Cavedine, e abbiamo scoperto che esistono tanti brevetti di banchi antisismici usati esclusivamente come rifugio in caso di terremoto. Abbiamo replicato all’Università degli Studi di Padova alcune prove fatte con banchi israeliani in acciaio e abbiamo visto che Lifeshell, il nostro banchino di legno, resisteva forse anche meglio. C’è una scuola a Vancouver, in British Columbia, Canada, che in attesa di essere sismicamente adeguata è stata dotata di banchi in acciaio di questo tipo. Ma sono costosi. Un banco di legno monoposto, invece, costerà circa 120 euro. Non lo abbiamo brevettato. Perché anche se ci avessero rubato l’idea, se di banchi così ne avessero fatti in tutto il mondo, non ci sarebbe certo dispiaciuto. Insomma c’è una domanda da parte dei ragazzi, che induce ricercatori e giovani docenti a interessarsi al legno come materiale di costruzione antisismico. C’è quindi un progresso. Non c’è ancora stato un salto definitivo, ma c’è una tendenza, che mi sembra stia andando avanti. E poi penso che non mi possa contraddire nessuno se dico che lo stato di benessere e di comfort che si prova all’interno di una casa di legno, rispetto a una casa in muratura, è decisamente diverso.

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Educare per trasformare Un cambiamento radicale a partire dalla scuola e dagli insegnanti. Un progetto di Rilegno intervista a MICHELA MAYER

Michela Mayer da più di 30 anni è ricercatrice e formatrice nell’ambito dell’Educazione Ambientale e alla Sostenibilità (Eas) e ha partecipato a Ricerche Nazionali e Internazionali. Responsabile per l’Eas presso l’Italian Association for Sustainability Science (Iass), fa parte del Comitato Scientifico della Commissione Italiana Unesco per l’Agenda 2030 ed ha contribuito, come esperta per l’Italia, alle ultime pubblicazioni relative all’Eas della Commissione Europea inclusa la proposta per le Competenze Green.

Perché un’educazione trasformativa? Quando parliamo di educazione formativa, vogliamo dire che l’educazione deve “dare una forma”. Una forma ideale costituita da idee, regole, modi di fare, che una società ha individuato come proprie modalità tipiche per mantenersi e svilupparsi. Dire che l’educazione deve essere “trasformativa” vuol dire capire che la nostra società, educata al consumo di risorse e alla mancanza di rispetto per l’ambiente, è insostenibile. Ogni nucleo umano ha cercato di trasmettere quel che aveva imparato alle nuove generazioni, perché potessero replicare i successi, e possibilmente evitare gli insuccessi, di quelle precedenti. Si tratta dunque di modificare l’educazione così come l’abbiamo sviluppata negli ultimi duecento anni. C’è davvero questa esigenza? L’educazione formativa non va abbandonata. Le conoscenze scientifiche, artistiche, letterarie che abbiamo sviluppato, le affermazioni sui diritti umani e del Pianeta, costituiscono una conquista dell’umanità. Ma molti aspetti del nostro vivere quotidiano denotano una mancanza di rispetto della casa in cui viviamo. Per questo l’educazione deve essere trasformativa. Non per “salvare il pianeta”, ma per salvare noi stessi. La vita sul pianeta ha già avuto altre crisi e sopravviverà. Il problema riguarda noi. Stiamo andando come lemming verso un burrone. Quali sono le caratteristiche dell’educazione trasformativa? Ci sono quattro elementi fondamentali, che coincidono con le quattro competenze chiave che la Ue ha proposto nel 2022. Il primo è la speranza per il futuro. Il rischio è che a scuola riempiamo i ragazzi di informazioni su come va male il mondo, con il risultato che ognuno di loro dica: e io che ci posso fare? Vivo la mia vita al meglio possibile. Me la voglio godere,

voglio fare carriera, tanto non posso farci nulla. Greta Thunberg ha dato un segnale: anche giovani che non hanno ancora un ruolo nella società, ma potranno averlo, possono fare qualcosa. Il secondo elemento? Sono i valori, la consapevolezza di quali sono le cose importanti per l’umanità. Solo la riflessione su cosa ci interessa proteggere come genere umano e come singole persone può darci una visione per il futuro. A scuola si lavora poco sui valori, e si praticano solo come regole disciplinari. La scuola dell’infanzia e le elementari sono quelle in cui si lavora di più sul rispetto, sull’inclusione, sul lavorare insieme, mentre lo si fa molto meno nelle superiori. E gli altri due elementi fondamentali? Intanto la complessità. La nostra società ha enormemente semplificato la visione del mondo. La rivoluzione industriale ci ha portato a costruire macchine che ci hanno liberato dai vincoli della natura. Ci siamo sentiti padroni di cambiare regole che sembravano immodificabili. Invece, se si modifica un elemento, anche tutto il resto cambia e magari ce ne rendiamo conto solo dopo cento o duecento anni. Il problema del cambiamento climatico comincia con la rivoluzione industriale. Le discipline insegnate a scuola sono sempre proposte in una forma semplificata. La realtà ha molti più imprevisti e molti più rischi. Infine, l’azione. Non si può educare senza preparare a fare qualcosa. Ma la scuola non lo fa. Anche l’ex alternanza scuola lavoro, oggi Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento (Pcto), sembra andare nella direzione dell’azione, ma in realtà non lascia ai ragazzi nessuna possibilità di definire il loro obiettivo e il loro modo di agire. L’educazione trasformativa spinge i ragazzi a pensare qualche azione, anche minima, che possono compiere per andare nella direzione di un futuro più sostenibile. Bisogna spingere le scuole e i giovani a fare qualcosa, non solo a capire che è importante, non solo a immaginare il futuro, ma a fare qualcosa, anche di piccolo, perché quel futuro si realizzi. È più facile trovare piccole cose da fare alle scuole elementari, come un giardino o un orto. Molto più difficile alle superiori, specie quelle considerate d’élite. ) Qual è il senso del progetto con Rilegno? La scommessa è di coinvolgere gli insegnanti, che hanno un ruolo fondamentale. Molti sono sensibili al tema, sentono che la disciplina che insegnano può aiutare i ragazzi a essere più costruttivi e trasformativi, ma si sentono ingabbiati dai programmi e dai libri di testo. Spesso è la società stessa che non comprende il ruolo che l’educazione può svolgere per una ‘transizione’ ecologica che conduca ad una società più equa e attenta al futuro. Rilegno ha scelto di sostenere gli insegnanti in questa sfida, di offrire loro la possibilità di mettersi in ricerca, di raccontarsi e di confrontare idee e metodi – dall’infanzia alle superiori – per costruire esempi di Educazione Trasformativa verso una Società Equa e Sostenibile.

CULTURA DELLA SOSTENIBILITÀ

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Il futuro della generazione Z Sostenibilità, inclusione, tecnologia al servizio del bene comune: tre obiettivi per ridare prospettiva ai giovani intervista a TOMMASO FRUSCA BRAGA

Tommaso Frusca Braga è membro di Arketipos, associazione no profit che si occupa della promozione della cultura del paesaggio e della tutela dell’ambiente. Studia Environmental Engineering for sustainability e Urban Planning and Policy Design. Ha collaborato alla Walden Hour.

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Qual è la visione dei giovani, prima del lavoro, per un mondo nuovo? La categoria dei giovani è generica, va dai diciottenni ai venticinquenni, nel nostro caso appartenenti a uno specifico quadrante del mondo, quello occidentale. Se parliamo del periodo pre-lavoro, la risposta si complica ulteriormente perché in questo quadrante il lavoro per noi giovani non c’è o si limita al “lavoretto”. E soprattutto viene vissuto con una prospettiva ben lontana da quelle delle generazioni precedenti: oggi l’avvenire non è visto automaticamente come portatore di cambiamento positivo, anzi la speranza è di evitare il peggio. Se in passato c’era la quasi certezza di vedere i figli crescere con più opportunità dei genitori, ora è l’opposto. Da un punto di vista generazionale i giovani, la cosiddetta “gen-Z”, hanno vissuto diverse vulnerabilità (dall’11 settembre al Covid, passando per la crisi del 2008). Pensiamo alla generazione dei nostri nonni che nutrivano una speranza nel futuro, trovandosi davanti a una società tutta da ricostruire. Ora invece

IL SISTEM A RILEGNO

per i giovani sembra venuta a mancare la prospettiva futura. Noi giovani abbiamo l’impressione che la nostra società non stia tagliando solo il ramo su cui siamo seduti, ma addirittura, per usare una similitudine, tutto l’albero. Che fare quindi? A noi spetta il compito di rianimare questa prospettiva futura, impegnandoci nella lotta al cambiamento climatico, che possiamo considerare la grande sfida del nostro secolo. Possiamo quindi individuare tre principali obiettivi, ai quali la nostra generazione deve puntare: che la sostenibilità sia al centro delle decisioni politiche; che l’uguaglianza e l’inclusione siano promosse, facendo attenzione agli aspetti inter e intra generazionali; e che la tecnologia sia utilizzata maggiormente per il bene comune, contrariamente alla tendenza attuale che sembrerebbe anteporre l’invenzione al suo utilizzo appropriato. Quali sono le città del futuro? La categoria delle città comprende realtà molto diverse: da agglomerati urbani in forte espansione come Lagos alle megalopoli cinesi, dalle metropoli classiche come New York, Tokyo o Londra a una costellazione di città minori (almeno demograficamente) come quelle europee. In linea generale possiamo dire che una città rimane tale quando riesce a mantenere il suo carattere di urbs accanto a quello di civitas o, per dirla in un altro modo, quando sa coniugare lo spazio fisico e quello relazionale, la dimensione strutturale e il senso di comunità civile, la cittadinanza. Mantenere questo rapporto significa avere coscienza dei limiti: la città del futuro deve saper porre un limite alla sua crescita. Questo è il principio base della sostenibilità, equilibrio ed equità per quando riguarda economia, società e ambiente; ciò si traduce in un sistema economico in grado di incorporare le esternalità ambientali, accettando di porre dei limiti al profitto facendosi carico del costo della tutela dell’ambiente e del paesaggio. Quali i modelli sociali possibili e rispettosi dell’ambiente, dell’uomo e dell’economia? Da un punto di vista sociale bisogna far sì che a pagare il prezzo delle crisi non sia solamente chi è in fondo alla scala sociale. Mi sembra ovvio che attualmente non siano operanti modelli sociali integrati adatti a essere proposti come modello futuro. Anzi, si apre un grande cantiere per costruire delle risposte alle domande cogenti cui accennavamo prima: cambiamento climatico, equilibrio ecologico, disuguaglianza socio-economica globale, sviluppo tecnologico (si pensi al cambiamento antropologico che le innovazioni come l’IA, il metaverso e la robotica stanno introducendo). Spero e credo fortemente che i giovani condividano l’importanza di valori fondanti, come libertà e giustizia, che ci possano guidare in tutti gli ambiti, anche ecologico-sociali, se intesi come rispetto per le espressioni individuali, tutela delle nostre differenze e attenzione ai più deboli.


Ci vuole il legno Il podcast di Rilegno racconta la sostenibilità attraverso la materia prima che accompagna la storia dell’uomo di MICHELE GULINUCCI

Michele Gulinucci, autore e conduttore radiofonico, ha curato numerosi programmi di Rai Radio3. Già vicedirettore di Radio Rai, ha scritto e condotto numerose serie podcast originali per RaiPlay Sound. Ci vuole il legno, prodotto da Hotbrain per Rilegno, è il suo esordio da indipendente.

Cambiamento climatico e transizione digitale sono le due rivoluzioni della nostra epoca, ma definirle ancora in questi termini tradisce l’ingenuità di chi, fino a poco fa, pensava di poter guidare il “cambiamento” e dominare la “transizione”. Oggi che avanziamo dentro una nuvola di chiacchiere, presi dall’ecoansia o persi nel machine learning dell’intelligenza artificiale, dove ci sentiremmo di fissare, in coscienza, un punto di non ritorno? Forse nel lungo momento in cui il dibattito sul clima ha trasformato dati, tesi e previsioni in qualcos’altro. Paul Krugman lo descrive così, parlando degli Usa: “La scienza in generale e la climatologia in particolare sono diventate una prima linea della guerra culturale”. La guerra contro le cosiddette élite. In Europa non abbiamo ancora squadre di svitati in costume da bufalo che assaltano i Parlamenti, ma sui social il tono dei negazionisti è quello che è. E all’estremo opposto non mancano gli arcigni cultori della distopia, che argomentano l’estinzione di Homo sapiens come una segreta vendetta. Quando Elena Lippi mi ha proposto di fare un podcast sul legno – materia prima nel senso aureo che Guido Tonelli riassume nelle prime pagine del suo saggio Materia – sono partito da qui. Dal piacere di interrogare chi sa, e dalla

sorpresa di farlo con i ragazzi di We Are Walden, lungo un sentiero di cultura e impegno che è l’antidoto di ogni guerra. Non a caso Ci vuole il legno ha trovato il suo habitat nel catalogo di Storielibere.fm. Adesso, leggendo parte dei contributi a qualche mese di distanza, mi sembra che il lavoro resti attuale. Non è scontato per un prodotto digitale. Oppure può darsi che la sconfortante persistenza dei disastri ambientali, in questo 2023 di alluvioni e incendi, renda la cronaca una storia a lento rilascio. Anche per questo l’intreccio continuo che si avverte tra ere geologiche e tempo degli avvenimenti, tra leggi di natura e denunce militanti – nelle parole di quanti hanno accettato il nostro invito e tornano qui in versione scritta – suona come un richiamo alla compresenza di tutto nel tutto. Un richiamo utile per la generazione di We Are Walden: giovani donne e uomini che non possono cavarsela con l’apologia o la dannazione del passato, né baloccarsi con le apocalissi prossime venture. Intanto, dalle steppe della Mongolia interna, il pastore di capre Bekh-Ochir ci manda a dire: “Abbiamo un pianeta azzurro e lo facciamo diventare marrone. E vogliamo andare nello spazio per vivere su un pianeta rosso? Che idiozia”.

La storia del genere umano è una lunghissima Età del Legno, oggi messa a rischio proprio da noi post Sapiens. Tocca anzitutto ai più giovani salvare l’habitat comune, inventare un modo nuovo di convivere nell’ecosistema minacciato dal cambiamento climatico. Ci vuole il legno nasce dal confronto su questi temi tra due ragazzi – Martina Bosica e Federico Martinelli – e una serie di scienziati, amministratori, architetti, ambientalisti, professionisti e imprenditori: Ario Ceccotti, Renato Ciampa, Mario Cucinella, Francesco Gatti, Elena Grandi, Elena Lippi, Marco Lorenzon, Stefano Mancuso, Giulia Menozzi, Luca Mercalli, Michele Morgante, Dario Nardella, Francesco Spada. Ci vuole il legno è una serie podcast originale di Michele Gulinucci per Rilegno. Con Martina Bosica e Federico Martinelli della community We Are Walden, e con i suoni di falegnameria del Laboratorio Allestimenti del Politecnico di Milano Dipartimento Design. Hanno collaborato Mariano Chernicoff, Gianluca Frigerio, Mario Maneri, Salvo Miraglia, Andrea Vignolini.

IL SISTEM A RILEGNO

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Rilegno in numeri Nel 2022 abbiamo raccolto e riciclato 1,7 milioni di tonnellate di legno

Il risparmio di consumo di CO2 pari a 1,8 milioni di tonnellate ottenuto grazie al sistema Rilegno

1.716.973

TONNELLATE DI LEGNO RACCOLTE E RICICLATE, DI CUI IL

equivale a compensare

46,45%

1 milione di veicoli

SONO IMBALLAGGI

che circolano ogni anno

3.421.704

TONNELLATE DI IMBALLAGGI DI LEGNO IMMESSE AL CONSUMO IN ITALIA

GRAZIE A RILEGNO VIENE RICICLATO

62,74%

DEGLI IMBALLAGGI DI LEGNO IMMESSI AL CONSUMO IN ITALIA

903.041

Grazie a Rilegno l’Italia ricicla già oggi il 62,74 per cento degli imballaggi in legno, più del doppio di quanto sarà obbligatorio nel 2030 secondo gli obiettivi fissati dall’Unione Europea.

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IL SISTEM A RILEGNO

TONNELLATE DI IMBALLAGGI RIGENERATI E REIMMESSI AL CONSUMO (OLTRE 70 MILIONI DI PALLET)


63 milioni

I 25 anni di Rilegno

DI TONNELLATE DI IMBALLAGGI IMMESSI AL CONSUMO

34 milioni

DI TONNELLATE DI LEGNO AVVIATE A RICICLO DI CUI

10 milioni

10 milioni

PROVENIENTI DAL CENTRO-SUD

DI TONNELLATE DI IMBALLAGGI RIUTILIZZATI PARI A CIRCA

800 milioni

9.000

DI PALLET

ANALISI CHIMICHE PER GARANTIRE STANDARD DI QUALITÀ

2 milioni

DI VIAGGI PER TRASPORTARE IL LEGNO VERSO I CENTRI DI RICICLO

460 milioni

DI EURO GARANTITI DA RILEGNO A SOSTEGNO DEL SISTEMA

Le sedi delle aziende che trasformano il legno in risorsa BIPAN S.p.A.

Isotex S.r.l.

Ecobloks S.r.l.

Sicem - Saga S.p.A.

Pannellificio Bicinicco (Udine)

La filiera nazionale di Rilegno è basata su 1.971 consorziati, 378 piattaforme convenzionate, 12 aziende del riciclo, 15 stabilimenti produttivi.

Blocchi legno cemento Poviglio (Reggio Emilia)

Pallet block Finale Emilia (Modena)

Cartiera Canossa (Reggio Emilia)

Fantoni S.p.A.

S.A.I.B.

Pannellificio Osoppo (Udine)

Frati Luigi S.p.A.

Pannellificio Borgo Virgilio (Mantova) Pomponesco (Mantova)

I-PAN S.p.A.

Pannellificio Coniolo (Alessandria)

Gruppo Mauro Saviola S.r.l.

Pannellificio Mortara (Pavia) Sustinente (Mantova) Viadana (Mantova)

IL SISTEM A RILEGNO

Società Agglomerati Industriali Bosi S.p.A. Pannellificio Caorso (Piacenza)

Xilopan S.p.A. Pannellificio Cigognola (Pavia)

Kastamonu S.r.l. Pannellificio Codigoro (Ferrara)

Eco-Resolution S.r.l. Biofiltri Solofra (Avellino)

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We are Walden

We are Walden è un progetto di Rilegno rivolto ai giovani interessati al mondo della sostenibilità. È un team di lavoro e partecipazione che coinvolge appassionati, creativi, designer, e architetti con l’obiettivo di avvicinarsi concretamente alla materia legno sostenibile per eccellenza e diffonderne il valore. Essere artigiani di un futuro migliore significa sensibilizzare, educare e fornire gli strumenti per essere sempre più consapevoli.

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Walden Wood Box L’ultimo progetto realizzato dalla community di Rilegno è il “Walden Workshop”. Un laboratorio formativo pensato per imparare facendo, dove l’obiettivo finale è stato quello di realizzare insieme la “Walden Wood Box”. Durante il workshop 22 giovani partecipanti hanno avuto modo di fare esperienza nel mondo dell’Eco-design attraverso incontri professionalizzanti di progettazione e lavorazione del legno. Nella prima fase i 7 gruppi nei quali si sono divisi i partecipanti, hanno elaborato singole proposte progettuali che, grazie a uno studio di fattibilità, sono state il riferimento per la definizione del progetto della box finale. Nella seconda fase si è passati alla realizzazione: grazie a un lavoro collettivo, sono stati prodotti e assemblati tra loro tutti i pezzi necessari tramite l’utilizzo dei macchinari del FabLab Open Dot e del Laboratorio Allestimenti del Politecnico di Milano. Per la realizzazione è stato recuperato e riutilizzato il legno proveniente da pallet e da vaschette porta documenti a fine vita. Il risultato finale è la “Walden Wood Box”, una scatola piena di valore e significato, al cui interno sono presenti tre contenitori estraibili con 38 campioni di materiali, una brochure e una tabella comparativa. Ciascun materiale è corredato da una scheda tecnica digitale che è possibile consultare scannerizzando il qr code presente sulla brochure.

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Ogni giorno le nostre piattaforme raccolgono il legno in Italia Valle d’Aosta Enval Piemonte Amiat Ballarini Borgotti Teresa Bra Servizi Cerrirottami Clerico Primino Consorzio area vasta Basso Novarese Cooperativa Sociale Risorse Cortini Michele Eco Green Ecolegno Airasca Ferro e metalli Haiki recycling M.M.G. Relife Recycling Rosso Commercio S.K.M. S.T.R. Società Trattamento Rifiuti Surico Wood Recycling Liguria Anselmo Baseco Comet Recycling Di Casale Pietro F.lli Adriano e Giuseppe Bonavita e figli Giuseppe Santoro Re.vetro Relife Recycling Riviera Recuperi RTR Specchia Services Verde Liguria Riciclaggi Lombardia A2A Recycling Briante Martegani Caris Servizi Caronni Group Cauto Cantiere Autolimitazione Cereda Ambrogio Convertini De Andreis - Recuperi e Servizi Ambientali Del Curto Divisiongreen Ecolegno Brianza Ecolegno Milanoest Ecologica Servizio Ambientale 2000 Ecosan Estri Focacity Pallets G.L.M. Galli Geo Risorse GGM Ambiente Il Truciolo Isacco Koster L.D.R. Logistica Di Ritorno Laini Alberto Legno Pallets Servizi Mantica Rottami Mauri Emilio ME.S.ECO. Nuova Clean Polirecuperi Rebucart Rodella Pallets SABB – Servizi Ambientali Bassa Bergamasca SE.GE. Ecologia

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Dati al 31/08/2023



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