

Simone Bramante, la consapevolezza dell’occhio
Simone Bramante, direttore creativo e fotografo italiano, è stato finalista al Sony World Photography Awards 2020.
Ha esposto a Los Angeles, San Francisco, Parigi, Minsk, Milano.
Ha partecipato alla collettiva 100 fotografi per Bergamo a favore del reparto di rianimazione e terapia intensiva dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. È stato in mostra al Wunderkammer GAM di Torino per contribuire al Fondo straordinario Covid-19 di UGI Onlus.
Nel 2022 a Fabriano (AN) ha raccontato il rapporto tra la popolazione locale e la cartiera con la mostra Volti dalle cartiere
Il lavoro di Simone Bramante è l’evidente risultato di una precisa conoscenza della Storia e della storia dell’arte. La sua grammatica visiva, fortemente contemporanea, occupa una posizione di rilievo sui social (Brahmino su Instagram) e prende spunto dalla corrente ottocentesca del pittorialismo, uno stile nato poco dopo l’invenzione della fotografia (1839), che è riuscito a mescolare sapientemente i diversi linguaggi del pennello e dell’obiettivo, mantenendo un’impronta significativa nel susseguirsi delle epoche. Per essere più precisi, si può dire che la narrazione per immagini di Bramante si posiziona a metà strada tra il manierismo pittorico e il realismo diretto, sintetizzato nel 1932 da Ansel Adams con il termine straight photography: è attraverso l’occhio dell’autore che l’ambiente si lascia ritrarre in tutta la sua maestosità evocativa. Ed è proprio qui che Bramante dimostra di saper padroneggiare un’arte rara, quella della consapevolezza visiva, che gli consente di filtrare la bellezza tramite i tecnicismi del medium fotografico per poi depositarla accuratamente nelle mani del tempo e donarle la vita. All’atto pratico, Bramante vola con un drone tra le meraviglie
In questo numero
3 L’unione fa la forza di NICOLA SEMERARO 4 Il futuro sono le rinnovabili intervista a GILBERTO PICHETTO FRATIN 6 Primo: collaborare intervista a MASSIMO TAVONI 8 Il nodo è la coerenza intervista a DAVIDE PETTENELLA 10 La sostenibilità è partecipazione intervista a ELENA GRANDI 12 Clima: prendiamo esempio dal Covid intervista a LUCA MERCALLI
14 Climate change?
di DENIS CURTIdel nostro pianeta per poi tuffarsi, con il suo obiettivo rivelatore, nel cuore pulsante di boschi e paesaggi incontaminati, catturandone la poetica purezza. Il suo linguaggio espressivo è scandito da una tavolozza di colori pastosi che si amalgamano grazie a un gentile uso della luce e aspira a una totalità emozionale, nella quale bellezza e armonia si fondono inscindibilmente. Il risultato è un alfabeto di emozioni, sfondo ideale per far risuonare la voce profetica della natura, affinché tutta quell’armonia possa farsi esempio di coesistenza. Attraverso scatti formalmente equilibrati, Simone Bramante ci invita a svincolarci dalla frenesia contemporanea, per assaporare un’eterna tranquillità sensoriale. Il suo è uno sguardo rispettoso, coscienziosamente contemplativo, capace di mettere a tacere la chiassosa onnipotenza dell’umanità, con l’obiettivo di sintonizzare la melodia del quotidiano sulle frequenze irresistibili della natura.
Ce l’abbiamo sotto gli occhi intervista a ELISA PALAZZI 16 Mercato legno, i trend intervista a ALESSANDRA BENEDINI 18 Gestiamoli bene, gestiamioli insieme intervista a GIORGIO VACCHIANO 20 Un paese di boschi intervista a FERDINANDO COTUGNO 22 Piccoli atti che contano molto intervista a SETH GODIN 24 La Terra che ho visto dallo spazio intervista a PAOLO NESPOLI
26 A lezione di sostenibilità intervista a MARIA CHIARA PETTENATI 27 Una foresta in casa intervista a ANDREA BARTOLI 28 Il legno riciclato sale sul palco intervista a VALERIO RIGAMONTI 30 Con il legno riciclato facciamo aria pulita intervista a RENATO CIAMPA 31 La canapa ci salverà intervista a LEO PEDONE 32 Rilegno in numeri
Periodicità annuale
Rilegno
Consorzio Nazionale per la raccolta, il recupero e il riciclaggio degli imballaggi di legno
Cesenatico (FC)
Via Luigi Negrelli 24/A Tel. +39 0547 672946 Fax +39 0547 675244
Milano Via Pompeo Litta 5 Tel. +39 02 55196131
Presidente
Nicola Semeraro
Direttore Marco Gasperoni
Consiglio di amministrazione Daniela Frattoloni Vicepresidente
Emanuele Barigazzi Milena De Rossi Cosimo Messina
Giovanni Napodano Stefan Thomas Rubner Paolo Somenzi
Ivana Tagliaboschi
Roberto Valdinoci Andrea Vezzani
Sindaci Marcello Del Prete Presidente del Collegio Cecilia Andreoli Michele Mantovani
Gianluigi Lapietra (Sindaco supplente)
Amministrazione Anna Antaridi
Area tecnica Antonella Baldacci
Marketing e comunicazione Elena Lippi
Contatti info@rilegno.org www.rilegno.org
Anno quarto - 2022 Registrazione al Tribunale di Milano n. 203 del 23/12/2022
Direttore responsabile Michele Riva
Ha collaborato Riccardo Venturi
Progetto grafico e realizzazione Margherita La Noce Art Consultant Franco Achilli
Copyright © 2022 Rilegno
Foto pagina 13: Imagoeconomica Foto pagina 14: Davide Gherzi
Abbiamo fatto gli sforzi necessari per contattare tutti i detentori dei copyright delle immagini pubblicate. In caso di involontarie omissioni siamo a disposizione
Stampa
Pazzini Stampatore Editore srl Via Statale Marecchia, 67 47826 Villa Verucchio (RN)
Denis Curti, critico e curatore della fotografia, è direttore artistico della Casa dei Tre Oci a Venezia. IL MONDO SOSTENIBILE DIL’unione fa la forza
di NICOLA SEMERARO Presidente Rilegno
2022. Tutti speravamo che, superato il grosso della pandemia, quest’anno sarebbe stato un po’ più in discesa. Non è andata così. La guerra e l’esplosione dei costi energetici hanno portato nuove difficoltà per tutti, anche per il settore del legno già colpito dal caro materie prime. Il rischio è che queste emergenze ce ne facciano perdere di vista un’altra, forse la più importante di tutte: quella dell’ambiente e del clima, da sempre al centro dell’attenzione di questa rivista annuale dedicata alla cultura e alla pratica della sostenibilità e dell’economia circolare. Di qui l’idea che permea questa quarta edizione di Walden: oggi più che mai, di fronte a uno scenario che spinge verso altre priorità legate al contenimento dei costi, per continuare a camminare verso la sostenibilità ambientale, sociale ed economica, ormai il traguardo da raggiungere per le imprese e per le comunità come raccomandato dalle Nazioni Unite nell’Agenda 2030, è necessario un lavoro collettivo. L’unione fa la forza: lo dimostriamo noi di Rilegno, considerato che in un anno ancora pesantemente impattato dalla pandemia come il 2021 il riciclo del legno in Italia è tornato a crescere sensibilmente, raggiungendo il suo massimo storico. Grazie alla nostra filiera basata su 1.944 consorziati, 394 piattaforme private che raccolgono il legno e 15 impianti di riciclo, ai cittadini e alle imprese, sono infatti 1.985.251 le tonnellate di legno raccolto e avviato al
riciclo dal sistema Rilegno. L’incremento dei volumi è del 7,8 per cento sull’anno precedente, la percentuale di riciclo degli imballaggi di legno è del 64,75 per cento: è stato doppiato dunque l’obiettivo fissato dall’Unione europea, che prevedeva il 30 per cento di riciclo entro il 2030. Cresce anche l’attività di rigenerazione dei pallet usati, con 908.066 tonnellate recuperate pari a circa 70 milioni di unità, ripristinate per la loro funzione originaria e reimmesse sul mercato. Il risparmio nel consumo di CO2 è pari a quasi 2 milioni di tonnellate, che compensano un milione di veicoli che circolano in un anno.
La rivista che avete tra le mani, o state sfogliando sul web, è un puzzle che compone una foto di gruppo. Solo la partecipazione di tutti può comporre un quadro che sia capace di perseguire in modo efficace gli obiettivi di sostenibilità: i tasselli del mosaico di Walden portano in questa direzione. Il neoministro per l’Ambiente e la sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin conferma l’importanza dello sviluppo di un’azione collettiva. Massimo Tavoni, primo classificato tra gli italiani nella lista dei mille maggiori esperti di clima secondo l’agenzia di stampa Reuters in base a numero di articoli accademici pubblicati, autorevolezza nel proprio campo e impatto sul mondo non accademico, assicura che proprio l’approccio collaborativo e cooperativo è il migliore per contrastare i cambiamenti climatici. Elena Grandi, assessora all’Ambiente del Comune di Milano, annuncia la nascita dell’Assemblea permanente dei cittadini per il clima prevista dal piano di riduzione dell’inquinamento atmosferico. Giorgio Vacchiano, autore del volume La resilienza del bosco, racconta esempi virtuosi di gestione collettiva delle foreste, come la Magnifica Comunità della val di Fiemme, le Comunalie sull’Appennino tosco-emiliano, la Foresta Modello delle montagne fiorentine sul Mugello. Seth Godin, guru del marketing e autore di bestseller internazionali, dà l’esempio con The Carbon Almanac, non solo un libro ma anche un progetto basato proprio sull’idea che sia necessaria un’azione collettiva per fare qualcosa di concreto contro il climate change. L’astronauta Paolo Nespoli propone il modello della Stazione spaziale internazionale, da dove si vede che il divisorio tra l’atmosfera terrestre e il vuoto dello spazio è ben più importante di quello tra le Nazioni, e dove infatti lavorano in team anche persone provenienti da Paesi tra loro non amici come Stati Uniti e Russia. Maria Chiara Pettenati, uno dei cinque coordinatori del gruppo di lavoro di Asvis sull’educazione allo sviluppo sostenibile, spiega che la forza dell’Alleanza è proprio quella di coinvolgere tutti i membri in gruppi di lavoro su diversi progetti, portando così punti di vista molto diversi sui vari temi. Last but not least, We are Walden, la community di Rilegno nata nel 2021, dedicata ai giovani che desiderano impegnarsi attivamente per un futuro più sostenibile, è un esempio di come un lavoro collettivo possa portare a un impegno concreto di tutti. Che lo facciano i nostri giovani, è ancora più importante.
Il futuro sono le rinnovabili
Stiamo accelerando, per aumentare l’indipendenza energetica di pari passo con la tutela ambientale. E puntiamo sul riciclo intervista a GILBERTO PICHETTO FRATIN

Ministro, è possibile affrontare la crisi energetica senza perdere di vista l’importanza centrale della sostenibilità ambientale, anche alla luce del riscaldamento globale?

È certamente possibile e lo stiamo già facendo. Come abbiamo detto con il Presidente Meloni in apertura della Cop27, il nostro obiettivo è raggiungere una maggiore indipendenza energetica dai Paesi esteri, puntando sulle rinnovabili e garantendo l’impegno di ridurre le emissioni del 55 per cento entro il 2030 e la neutralità climatica nel 2050. È importante chiarire che le politiche relative alla sicurezza energetica non sono in contrasto con la tutela ambientale. In realtà sono due facce della stessa medaglia, che devono combinarsi per garantire dinamiche e processi ecosostenibili nel mondo di domani. È chiaro che per avere successo in questa sfida, serve un approccio politico scevro da pregiudizi ideologici, pragmatico e lungimirante.
Quali sono i principali obiettivi del governo in materia ambientale?
Il lavoro che ci attende nei prossimi anni è proiettato verso il futuro: abbiamo il dovere di dare delle risposte concrete per mitigare l’impatto dei cambiamenti climatici sull’ambiente, sul territorio e sulla salute umana, evitando l’errore che è stato fatto in precedenza e che ci è stato drammaticamente posto davanti agli occhi nelle scorse settimane: quello di non pianificare e di rincorrere l’emergenza. Il futuro sono le rinnovabili. Le fonti fossili vanno abbandonate il prima possibile. Il rispetto dell’ambiente deve essere il brand dello sviluppo economico italiano. Due principi che devono camminare sempre di pari passo e l’uno non deve essere il freno dell’altro. Per far questo non possiamo che continuare a perseguire la cooperazione bilaterale e multilaterale per garantire la piena attuazione degli Obiettivi di sviluppo sostenibile previsti dall’Agenda Onu 2030 e gli impegni internazionali per il contrasto ai cambiamenti climatici sanciti nell’Accordo di Parigi del 2015.
Ritiene che la crescente richiesta di requisiti Esg alle imprese che vogliono accedere a diversi strumenti di finanziamento possa riuscire a saldare crescita economica e sostenibilità?
I requisiti Esg misurano quanto un’azienda sia sostenibile e responsabile. Richiedere il rispetto di standard, fra gli altri, di sostenibilità ambientale è un passo in avanti nella giusta direzione, quella della neutralità climatica, perché rappresenta un incentivo per le aziende a migliorare la propria impronta sul pianeta. Per questo governo è importante che la sostenibilità ambientale vada di pari passo con quella sociale ed economica, in modo tale da non lasciare nessuno indietro.
Quanto ritiene importante lo sviluppo di un’azione collettiva nel perseguimento degli obiettivi di sostenibilità?
Il futuro si costruisce tutti insieme e l’impegno di ognuno è imprescindibile. La politica compie le scelte che ritiene migliori per perseguire gli obiettivi del Green New Deal, ma il ruolo di ciascun cittadino è
fondamentale. La possibilità di garantire uno sviluppo sostenibile e raggiungere la neutralità climatica risiede nella capacità di ognuno di agire in questa direzione. È necessario promuovere le buone pratiche e siccome i comportamenti sono guidati dalla consapevolezza, dobbiamo investire nell’educazione. A tal proposito, il Ministero dell’Ambiente sta dando attuazione a un investimento del Piano nazionale di ripresa e resilienza volto proprio a diffondere cultura e consapevolezza su temi e sfide ambientali. L’obiettivo è quello di generare nei cittadini, in particolare nelle nuove generazioni, una maggiore consapevolezza sulle tematiche e le sfide della transizione ecologica, nonché di promuovere l’adozione di comportamenti virtuosi e stili di vita e consumi più sostenibili a livello di individui, famiglie e comunità.
La crescita delle rinnovabili può dare risposta alla doppia emergenza, energetica e climatica? Come intendete muovervi a tal proposito?
Le fonti rinnovabili sono una parte importante della risposta e per questo stiamo accelerando. Nel 2021 è stato dato parere favorevole a impianti per solo 1,5 GW. Quest’anno siamo già a 7 e contiamo di arrivare al 31 dicembre avvicinandoci ai 9. Per quanto riguarda le azioni concrete, innanzitutto ci stiamo muovendo per dare rapida attuazione alla Direttiva europea sull’uso dell’energia da fonti rinnovabili e assicurare un quadro autorizzativo omogeneo che consenta lo sviluppo dei progetti in un arco temporale ben definito. Sul fronte autorizzativo, poi, abbiamo semplificato e velocizzato le procedure, potenziando le Commissioni Via/Vas e Pnrr/Pniec per l’analisi dei progetti, in modo da dare le risposte – positive o negative – nel minor tempo possibile.
Il consorzio Rilegno ha già più che doppiato la percentuale di riciclaggio degli imballaggi indicata dall’Ue come obiettivo per il 2030 (64 per cento vs 30 per cento). L’Italia può essere apripista in Europa nell’economia circolare e quindi nelle pratiche sostenibili?
L’Italia è già leader in Europa nell’economia circolare. Siamo i migliori, come anche la vostra esperienza dimostra. Siamo il Paese d’Europa che ha il più alto livello di riciclo, per questo ci siamo opposti al Regolamento europeo sui rifiuti da imballaggio. La proposta della Commissione europea era basata soprattutto su riuso e vuoto a rendere. Anche grazie alle interlocuzioni personali con il Commissario Ue all’Ambiente, Virginijus Sinkevičius, abbiamo ottenuto un chiarimento molto importante da parte della Commissione e cioè che i target di riuso non sostituiscono quelli del riciclo. Nelle prossime settimane il Commissario Sinkevičius sarà in Italia e sono certo che riusciremo a trovare una mediazione favorevole al nostro Paese. Anche attraverso il Pnrr l’Italia ha investito per consolidare e incrementare un modello che si è rivelato vincente: le risorse economiche destinate all’impiantistica del riciclo e alla infrastrutturazione della raccolta differenziata ammontano a 2,1 miliardi di euro.
Primo: collaborare
Che cosa pensa in questa fase delle politiche climatiche internazionali?

Sono stati fatti passi avanti secondo me importanti. Ci sono alcuni Paesi che stanno spingendo e, se faranno quello che hanno promesso di fare e che stanno anche traducendo in legge, ci saranno dei progressi significativi. L’Europa ha il piano più ambizioso, il Fit for 55, che è stato approvato anche dal Consiglio europeo nelle sue linee generali e adesso è in negoziazione al Parlamento europeo. La politica europea è la più avanzata del mondo e con Fit for 55 dimostra la sua complessità, perché si tratta di un pacchetto molto articolato con quindici leggi diverse al suo interno che coprono moltissimi temi diversi. Speriamo che questo progetto non naufraghi (la probabilità è bassa), oppure che non rallenti, e in questo caso la probabilità è più alta, sotto la spinta della crisi energetica dovuta alla guerra in Ucraina e dei nazionalismi e antieuropeismi che crescono, non solo in Italia, secondo Paese manifatturiero del continente, ma in tutta Europa.
Biden hanno fatto un passo avanti importante, anche se probabilmente non sufficiente a raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni del 55 per cento fissati dall’Europa, e che sicuramente darà anche uno stimolo industriale significativo agli Usa. Vedremo cosa faranno altri Paesi, come la Cina, ma se non altro hanno annunciato alla Cop di Glasgow l’intenzione di andare verso la neutralità climatica. Se mettiamo tutti insieme gli impegni promessi a Glasgow, il quadro non è così male; la temperatura sicuramente andrà oltre 1,5 gradi, e questa è una brutta notizia, sicuramente andrà verso i 2 gradi, e questa è un’altra brutta notizia, visto che già a 1,2 gradi dove siamo oggi la situazione è preoccupante, ma almeno cerchiamo di evitare il peggio. Questo però se i Paesi continueranno a cooperare e continueranno a fare quel che hanno promesso di fare nelle sedi internazionali.
Che impatto ha avuto la guerra su questo scenario? Ha cambiato molto la prospettiva geopolitica del mondo, e non necessariamente nella direzione giusta, però le implicazioni per il clima non sono ancora chiarissime. Da un lato il sovranismo nazionale e di indipen-
Nelle relazioni internazionali come nei comportamenti individuali servono cooperazione e dialogo intervista a MASSIMO TAVONI
denza energetica può anche spingere le fonti locali, in primis le rinnovabili, e questo può essere positivo; ma dall’altro la mancanza di cooperazione internazionale rende molto più difficile trovare una soluzione comune. Il tutto può sfociare in guerre commerciali, costi maggiori di riduzione delle emissioni di CO2, un ritorno ai fossili con nuove infrastrutture come quelle per i gas liquefatti su cui si sta investendo molto anche in Europa. Il rischio è quello di un passo indietro; sicuramente da un punto di vista di politica internazionale il passo indietro c’è stato, e di questo si deve tener conto nel disegnare politiche adeguate. Quanto alle perdite di gas metano nel mar Baltico che se rilasciato nell’atmosfera senza essere bruciato ha un impatto molto forte sul clima, anche se a livello globale si tratta di perdite relativamente modeste, l’impatto sulla temperatura non è visibile. Ma il problema principale è l’Europa.

A cosa si riferisce in particolare?
L’Europa sta faticando molto a trovare una risposta coesa a questa crisi, non riesce a mettersi d’accordo sul tetto al prezzo dell’energia. I Paesi europei vanno un po’ per i fatti loro, la leadership tedesca purtroppo non si sta dimostrando all’altezza, tutti guardano alla propria situazione nazionale. La Germania si è esposta moltissimo al gas russo negli ultimi vent’anni, sia con Schroeder che con Merkel, e si trova in una situazione di difficoltà. Questo non aiuta l’agenda europea a fare una riforma dei mercati dell’energia e a mettere un cap ai prezzi, cosa che il governo Draghi stava chiedendo da mesi.
Qual è il modo migliore per contrastare i cambiamenti climatici?
L’approccio collaborativo e cooperativo. Ci sono Paesi in cui i danni da cambiamenti climatici sono sempre maggiori, come ad esempio il Pakistan. La cooperazione è importante per la mitigazione, ma anche per trovare le risorse per adattarsi ai rischi climatici che colpiranno perlopiù Paesi che hanno contribuito molto poco al problema, perché sono più poveri e si trovano in fasce di temperature che li rendono più vulnerabili. Tutto questo richiede un approccio cooperativo, ma la situazione geopolitica al momento va in una direzione diversa. I movimenti ambientalisti che partono dal basso possiedono questa dimensione globale, penso ai Fridays for Future. In Italia la petizione sul clima di quest’estate è stata sottoscritta da più di duecentomila persone: è un segnale che c’è una sensibilità che cresce anche fra i cittadini globali, che sanno che se si tagliano le foreste in Brasile è un problema per tutti. Purtroppo la politica segue una logica internazionale, le istituzioni globali come l’Onu sono in difficoltà e da un punto di vista di Realpolitik la situazione è abbastanza complessa.
Qual è il suo studio recente più significativo?
Ho lavorato al sesto rapporto quadro dell’Ipcc, il panel sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite, uscito lo scorso aprile. Il mio studio usa sia modelli
computerizzati sia umani veri e propri per cercare di capire come fare la transizione climatica. I messaggi chiave del rapporto sono che questa transizione è fattibile dal punto di vista tecnologico ed economico oggi più che mai, in virtù dei grandi passi avanti su tecnologie fondamentali come le rinnovabili, le batterie, le celle combustibili, le tecnologie di efficientamento energetico e di elettrificazione, dall’auto elettrica, sino alle pompe di calore. Ci sono le strategie per ridurre velocemente le emissioni di CO2, ma il tasso a cui questo dovrebbe succedere per evitare che le temperature crescano troppo è molto alto: si parla di almeno il 43 per cento di riduzione delle emissioni in questo decennio a livello globale rispetto al 2005, che è un numero ambizioso. Il rapporto, per la prima volta, oltre all’aspetto tecnologico evidenzia anche l’aspetto comportamentale. Le scienze comportamentali analizzano sia le azioni individuali dirette di ciascuno di noi, come le scelte di mobilità, dieta e così via, che hanno un impatto sulle emissioni di CO2, sia quelle indirette, dal voto alla partecipazione alla società civile. Il rapporto conferma che la dimensione comportamentale è fondamentale, come lo è la volontà dei cittadini di capire questo problema globale, che difficilmente verrà risolto con misure interne ai Paesi e alle regioni, come auspicato invece da molte di queste nuove tendenze nazionaliste che ahimè vediamo, dall’Italia alla Svezia.
Quando si parla di dimensione comportamentale si pensa a quella individuale; ma c’è anche una dimensione collettiva?
Il comportamento individuale è un’arma a doppio taglio. Il carbon footprint, l’impronta di carbonio di ciascuno di noi, non è stato inventato da Legambiente ma da British Petroleum, perché sposta il problema dal produttore al consumatore. Ma come faccio io cittadino? Non possiamo diventare tutti vegetariani, non abbiamo tutti i soldi per mettere le rinnovabili sui tetti e comprare l’auto elettrica. Le scelte individuali sono importanti; ricordiamoci però che come cittadini dobbiamo mettere pressione sui produttori e le società fossili e sui nostri governi. L’impatto maggiore che possiamo avere è proprio questo. La lotta attuale in tutti i Paesi è una lotta politica di sopravvivenza di diversi interessi industriali che si sono sviluppati attorno alle energie fossili, per i vantaggi che hanno indubbiamente offerto. L’unica via che hanno le democrazie è di mettere la maggiore pressione possibile sui politici e sull’industria, in modo che le politiche di transizione vengano messe in piedi. Ma per fare in modo che il cambiamento di paradigma avvenga, c’è bisogno di consapevolezza nella popolazione, nel management, nei policy maker, nei decisori pubblici. Questo passa attraverso il dialogo e iniziative di educazione nelle università e scuole. Le soluzioni sono complesse e hanno vantaggi e svantaggi. Tutto parte da un processo democratico, presuppone un coinvolgimento diretto degli individui. Questa dimensione comportamentale secondo me è fondamentale, senza togliere nulla all’importanza delle nostre azioni individuali.
professore di Climate change economics al Politecnico di Milano e direttore scientifico dell’European Institute on Economics and the Environment. Le sue ricerche riguardano le strategie e le politiche per sconfiggere il cambiamento climatico.
Il nodo è la coerenza
Tutela della biodiversità, decarbonizzazione, sostituzione di risorse fossili con risorse biologiche: l’UE si è data obiettivi ambiziosi, ma non sempre compatibili fra loro

C’è abbastanza legname in Europa per le esigenze della bioeconomia?
Guardando alle risorse forestali che abbiamo e alla domanda industriale, possiamo aumentare i tagli di legname. Il tasso di prelievo dei boschi europei è di gran lunga inferiore all’accrescimento netto annuo, tenendo conto anche dei grandi eventi di danneggiamento che abbiamo avuto negli ultimi cinque anni in centro Europa e in Italia con la tempesta Vaia. Quindi il potenziale di sviluppo degli impieghi industriali ed energetici è significativo. Guardando al futuro la situazione è un po’ diversa, e questo per due fattori. Il primo sono le politiche in atto da parte dell’Ue, che hanno un forte elemento interno di contraddizione, perché da una parte l’Ue sta stimolando il processo di decarbonizzazione, dall’altro sta prendendo misure molto radicali di tutela della biodiversità, con effetti forti sulla possibilità di espandere la produzione di legname.
E il secondo fattore?
A livello internazionale c’è una crescita imponente dei consumi di legname a uso industriale. Per l’emergere delle economie di Paesi come la Cina, che è il più grande importatore mondiale di legname, ma anche di altri Paesi del Global South. Secondo un recente outlook della Fao, i consumi di legname dovrebbero subire una radicale svolta a seguito dell’emergere di nuovi mercati per i prodotti legnosi, legati a quattro settori: costruzioni; Mmcf (Man Made Cellulosic Fiber), le fibre cellulosiche di origine artificiale; packaging; bioplastiche e in genere bioprodotti, come prodotti biofarmaceutici e cosmetici. Tutte aree dove noi dovremmo nel futuro sostituire risorse fossili con risorse rinnovabili, con biomasse agricole e forestali.
Torniamo alle politiche europee.
L’Ue ha approvato ultimamente alcuni documenti strategici che danno una svolta decisiva a favore delle politiche di tutela della biodiversità. Con obiettivi molto impegnativi, per esempio di sviluppo dell’agricoltura biologica e di riduzione dell’uso di fertilizzanti e prodotti chimici, che porteranno a un innalzamento della qualità della produzione agroalimentare ma anche a una domanda di terra significativa. Sul fronte della tutela delle risorse forestali, la Commissione europea ha stabilito di mettere a protezione legale il

30 per cento del proprio territorio e delle proprie aree marine, e il 10 per cento in una condizione di tutela integrale. Quindi il futuro ci presenta un problema sostanziale: dove produrremo tutte le biomasse necessarie per ridurre del 55 per cento le emissioni di carbonio al 2030, come dire dopodomani, e per azzerarle nel 2050? Come sostituiremo tutta la plastica di origine da risorse fossili? E il 53 per cento dei tessuti acrilici che caratterizzano l’industria tessile? E tutti gli impieghi di risorse fossili per la produzione di plastiche e in tanti altri settori della chimica? Evidentemente la risposta è: producendo più biomasse.
Già. Ma dove?... Appunto. Produrre più biomasse agricole in un contesto in cui i terreni agricoli, per le pratiche più attente alla qualità dell’ambiente e del cibo, vedranno diminuire il loro livello di produttività? O nei territori fore-
Davide Pettenella è professore ordinario di economia e politica forestale all’Università degli Studi di Padova.stali, quando stiamo stringendo i criteri di tutela ambientale, mettendo in protezione molte più foreste e riducendo gli spazi per investimenti forestali di carattere produttivo? L’Europa già dipende come importatore netto di biomasse da molti Paesi, soprattutto del Global South, e sta divenendo sempre più cosciente dei problemi cosiddetti di deforestazione incorporata collegati a questa importazione. È in fase definitiva di approvazione un regolamento che imporrà per sei materie prime e derivati (legname e prodotti lavorati, carni bovine, olio di palma, soia, caffè e cacao) la necessità di documentare che non provengano da forme di deforestazione o degrado forestale. Queste sei commodities dovrebbero coprire circa il 90 per cento della deforestazione incorporata e dovrebbero essere soltanto le prime di una serie molto più ampia di materie prime di origine biologica su cui metteremo forti interventi di controllo.

Quale domanda emerge da questo quadro? Come riusciamo a conciliare gli obiettivi di tutela della biodiversità, decarbonizzazione, sostituzione di risorse fossili con risorse biologiche, quando in Europa non possiamo ridurre la superficie agricola per produzioni alimentari, essendo già importatori netti, e le risorse forestali devono essere gestite con forti criteri di tutela ambientale? Alla luce di questa fortissima crescita dei consumi, gli obiettivi che ci siamo dati come Ue sono abbastanza irrealistici, e dovremo scendere a compromessi. Un riferimento al contesto italiano, poi, è d’obbligo: parliamo di bioeconomia, cioè di un’economia che si libera dall’impiego di risorse non rinnovabili, e aggiungiamo al termine l’attributo circolare. La circolarità dovrebbe ridurre la necessità di ricorrere alla produzione aumentata di biomassa. La trasformazione dell’economia in un’economia su basi biologiche, se accompagnata alla circolarità, potrebbe in linea teorica fare a meno di impiegare grandi quantità di nuovo materiale di origine biologica. Il problema è che l’Italia è già un campione nel settore della biomassa del riciclo, come Rilegno testimonia; siamo già a livelli altissimi di riutilizzo di legname post consumo e a livelli record di riutilizzo della carta e riciclaggio (siamo esportatori netti di carta da riciclaggio). Alzarli ulteriormente si può, ma certamente non in modo molto significativo: non si risolvono i problemi di approvvigionamento in questi termini. Se guardiamo a Paesi dove la circolarità può fare grandi passi avanti questi spazi ci saranno, ma non certo in Italia, e ci sono forti limiti anche guardando alla situazione europea.
Cosa suggerisce?
Di guardare all’incompatibilità tra le diverse politiche. Finora la Commissione europea ha giocato su più tavoli diversi e non ha fatto quell’esercizio che nel campo della programmazione è fondamentale, cioè l’esercizio dell’analisi della compatibilità, della verifica di coerenza. Ci sono state molte diverse iniziative da parte delle diverse direzioni generali, ma internamente non ci si è posti il problema della conciliabilità di queste politiche. Probabilmente dobbiamo essere meno ambiziosi
sugli obiettivi della bioeconomia, soprattutto su quello della decarbonizzazione al 55 per cento per il 2030. Un altro suggerimento ce l’avrei, ma questo è molto più radicale.
Prego, ci chiamiamo Walden mica per niente. Ci sono sostanzialmente due visioni della bioeconomia, una tecnologica e una sociale. In quella biotecnologica il problema fondamentale è di sostituire risorse fossili con risorse rinnovabili, mantenendo gli stessi modelli di consumo, per esempio spostando la mobilità individuale dalle auto a benzina alle auto elettriche, con elettricità proveniente da rinnovabili. Questa visione della bioeconomia è comprensibile ma non si concilia con gli obiettivi di tutela della biodiversità. La visione sociale porta a dire: non dobbiamo soltanto sostituire benzina con biocarburante, dobbiamo cambiare i modelli di consumo e di trasporto. Dobbiamo andare verso un’economia che sia meno basata sull’impiego di materie prime e molto più legata a un’attività connessa allo sviluppo dei servizi immateriali. Qui il discorso si amplia e diventa quasi di carattere filosofico, ma penso sia buona filosofia da fare. Non possiamo più avere il mito del Pil legato alla produzione di acciaio, cemento, benzine e altri beni di consumo, dobbiamo avere altri criteri di valutazione del benessere, molto più basati su beni relazionali, servizi, indicatori della qualità della vita che non si identificano esclusivamente con i livelli di consumo e di acquisto di beni materiali. E poi c’è la curva di Kuznets che mette in relazione crescita del Pil e crescita del benessere…
Cosa indica questa curva?
Raggiunti certi livelli di reddito pro capite alcuni indicatori di felicità, che tengono conto di fattori quali la vendita di psicofarmaci, il numero di suicidi, il numero di persone con disturbi psichici, di persone che muoiono per consumo di droghe e così via, plafonano e poi diminuiscono. Per cui uno si chiede: ma perché dobbiamo andare oltre certi livelli di reddito, ovvero di produzione di beni materiali, quando rischiamo di trovarci di fronte a società meno felici e quindi meno stabili e meno governabili? Forse dobbiamo fermarci, e quindi fermare anche alcuni consumi materiali, guardare agli aspetti fondamentali della qualità della vita che sono quelli relazionali, del tempo libero e della sua disponibilità. Questa diversa visione della bioeconomia potrebbe anche avere impatti per esempio sui consumi di prodotti legnosi. Perché dobbiamo diventare pazzi a produrre biometano o Mmcf per produrre bioplastica, quando oltre a riciclare questi prodotti possiamo anche utilizzarne di meno? Non dico che sia una quadratura del cerchio, è un’ipotesi un po’ più realistica. Ma devo dirle che l’approccio assolutamente dominante a Bruxelles nell’immaginare la bioeconomia è quello tecnologico, che vede come grande elemento di attenzione, faro centrale, le bioraffinerie, questi enormi impianti molto capital intensive che utilizzano milioni di tonnellate di biomasse per produrre tutta una serie di prodotti chimici in alternativa a quelli di origine fossile.
La sostenibilità è partecipazione
I piani di Milano per la qualità dell’aria, il verde, la neutralità carbonica. Con il coinvolgimento dei cittadini intervista a ELENA GRANDI
Quanto è importante coinvolgere i cittadini nel lavoro del Comune per rendere la città più sostenibile? È fondamentale. Abbiamo da poco inaugurato l’Assemblea permanente dei cittadini per il clima che è prevista nel nostro piano Aria e Clima, il piano strategico del Comune di Milano a tutela della salute e dell’ambiente finalizzato a ridurre l’inquinamento atmosferico e a rispondere all’emergenza climatica. Una delle cinque missioni del piano prevede la partecipazione attiva dei cittadini. L’assemblea è composta da 90 persone, che ruoteranno da qui al 2030 ogni sei mesi, per poter dare voce a più cittadini, scelti per sorteggio con un criterio di massima trasversalità di genere, di età, di quartiere, di nazionalità. Questa è un po’ la prova istituzionalizzata di quanto stiamo investendo sul tema della partecipazione attiva dei cittadini. Poi il mio assessorato, come anche gli altri, ha una sinergia continua con i mondi associativi, le rappresentanze, le categorie e anche il mondo dell’impresa. In periodo di bilanci pubblici e di costi elevati il nostro impegno dev’essere anche quello di lavorare molto con il privato. Penso al mio assessorato al Verde e al tema delle sponsorizzazioni, della valorizzazione delle aree residuali,
della rigenerazione urbana: non possiamo pensare di fare tutto da soli.
Quali obiettivi vi ponete sulla qualità dell’aria?

Il progetto è di portare la città alla neutralità carbonica nel 2050, ma l’ambizione del piano Aria e Clima è di arrivare al 2030 con una riduzione del 45 per cento delle emissioni. Quindi la città dovrà diventare sempre più ciclopedonale, sempre più utilizzatrice del trasporto pubblico e sempre meno dell’auto privata, con una conversione costante e progressiva di tutto quello che riguarda le forniture energetiche: energia elettrica da fonti rinnovabili per decarbonizzare, con la dismissione progressiva del gas. Oltre al piano Aria e Clima, poi, abbiamo una serie di altri strumenti.
Per esempio?
A ottobre il sindaco Sala ha aperto i lavori di C40 (il Cities Climate Leadership Group, rete di 97 grandi metropoli fra le quali anche Roma, Milano e Venezia, ndr) a Buenos Aires, in Argentina, dopo due anni di pausa forzata dovuta all’emergenza sanitaria. Insieme alle altre città di C40 abbiamo sottoscritto un impegno,
il Clean Construction Accelerator, a portare la neutralità carbonica nell’intero ciclo di vita di tutti i processi edilizi della città, dalla produzione dei materiali utili alla costruzione fino allo smaltimento e al riciclo degli inerti, e non solo sui consumi una volta concluso un nuovo intervento di rigenerazione urbana. È un impegno importante, che comporta anche complessi incontri con i rappresentanti delle categorie, tutti quelli che lavorano e creano l’indotto in questi ambiti.
I milanesi vi seguono al cento per cento sulla strada della sostenibilità e dell’aria pulita? Non sono molto affezionati alla loro automobile?
Lo sono molto e dovranno disaffezionarsi… Lo dico da assessore all’Ambiente e al Verde, per di più parte dei Verdi. Abbiamo l’obiettivo di ridurre la mobilità su auto privata, per cui dovremo mettere in piedi una serie di azioni importanti e forse anche in parte sgradite inizialmente. L’abbiamo già fatto con area B: abbiamo due grandi fasce di accesso alla città e stiamo lavorando per stringere sempre più l’accesso alle sole auto non inquinanti. L’area C già esiste da un po’, io sono sempre stata dell’idea che debba costare di più.
Qual è l’importanza del verde per una grande città?
La dimostrano migliaia di studi realizzati dai più famosi centri di ricerca e dal mondo delle università. I benefici di una maggiore presenza di verde vanno dal benessere neurologico alla riduzione dell’inquinamento, dall’assorbimento dei fattori inquinanti alla neutralizzazione delle polveri sottili. Vogliamo creare nuove aree verdi: al 2030 sono in previsione venti nuovi parchi, spesso accompagnati da importanti interventi di rigenerazione urbana. Un esempio è la Magnifica fabbrica della Scala a Rubattino, che avrà un parco di quasi centomila metri quadrati già finanziato dal Pnrr. E abbiamo recuperato un’area che non era neanche in carico al Verde, il cosiddetto “boschetto della droga” a Rogoredo Porto di Mare: adesso è un parco accessibile, naturale, non attrezzato, con piste ciclabili e interventi importanti di forestazione. Dobbiamo trovare altre aree dove mettere alberi e in una città densa come Milano non è semplice.
Ci fa qualche esempio? C’è l’area ex Macello, un progetto di rigenerazione che comprende housing sociale, edilizia convenzionata e la sede dello Ied. Qui si creerà un nuovo quartiere, che rispetta l’archeologia dei capannoni dell’ex Macello, e verrà creato un grande parco che oggi non esiste. Si è appena inaugurato il nuovo parco di Porta Vittoria. Dobbiamo creare nuovi parchi, non sempre per forza attrezzati, anche naturali. Con il Politecnico stiamo facendo un gran lavoro con Renzo Piano sull’area della Bovisa, con il progetto da poco presentato detto Bovisa-Goccia, che contiene il nuovo campus. E qui ci sarà anche un nuovo modo di pensare al verde urbano, perché si vorrebbe mantenere il più possibile quello che è nato in questi anni: un bosco spontaneo, su un’area probabilmente tra le più inquinate in città, dove c’erano i gasometri, che sta facendo anche il suo lavoro
di sito bonifica. Dall’insieme di questi progetti emerge una visione della città in cui anche le aree ex industriali residuali possano diventare pezzi di polmoni verdi in un progetto di connessione: per esempio dalla Goccia la connessione con il parco Nord è quasi naturale. In questo modo immaginiamo una città che pur nella sua densità valorizzi e dia sempre più spazio al verde.
L’Europa che ruolo ha in questo percorso? Abbiamo vinto il bando della Commissione Europea 100 Climate-Neutral and Smart Cities by 2030, che vede nove città italiane e 91 europee insieme per progettare e programmare la transizione ecologica. La rete con le città europee è molto fitta; stiamo facendo un lavoro analogo anche con le città italiane. Le nove città italiane che si sono aggiudicate questo bando non lasciano fuori le altre che avevano partecipato, insieme cerchiamo di lavorare per trovare punti di contatto. Ci sono città più simili, come Milano, Roma, Torino, Bologna, Firenze, e altre più piccole, con caratteristiche diverse, ma che comunque devono andare verso una direzione condivisa.
Quindi c’è un lavoro comune delle città italiane? In questi mesi con queste nove città abbiamo fatto un lavoro molto assiduo con il ministro Giovannini, con riunioni frequenti, e abbiamo redatto un protocollo finalizzato alla transizione di queste città. Ogni città ha delle caratteristiche proprie, che ne fanno un modello per un ambito e meno in un altro. Noi, per esempio, siamo una delle città più inquinate d’Italia e anche d’Europa, un po’ anche per conformazione geografica; ma siamo un modello, non solo in Europa, ma credo nel mondo, sul trattamento e l’ottimizzazione del ciclo dei rifiuti, sulla raccolta differenziata, sul riutilizzo e riciclo. E anche sul tema delle acque: abbiamo da anni questi due grandissimi depuratori delle acque fognarie, gestiti adesso da MM, che producono cinquemila litri al secondo di acqua limpida e irrigua per il parco Sud. Una grande eccellenza. Non esistono in Europa depuratori così grandi, quelli di Parigi e Londra sono molto più piccoli. I nostri depuratori sono molto energivori ma saranno convertiti al fotovoltaico: contiamo di ridurre così in modo importante anche i consumi.
Quali sono i prossimi passi del coinvolgimento dei cittadini nei vostri progetti? Il piano Aria e Clima prevede la costante interazione con la cittadinanza, con fasi di monitoraggio ogni due anni: a dicembre 2023 ci sarà la prima. I risultati del monitoraggio potranno comportare modifiche ad azioni previste dal piano, così come le indicazioni o i suggerimenti che verranno da quelle assemblee dei cittadini. Si formerà un tavolo permanente con un contratto di partecipazione tra Comune e questa assemblea, che ogni anno dovrà dare un report al Comune di quanto è stato discusso, deliberato e deciso. Il Comune dovrà dare risposta punto per punto su quanto gli è stato chiesto, spiegando i motivi di approvazione oppure di impossibilità. È evidente, insomma, che da soli non facciamo niente.
Elena Grandi è assessora all’Ambiente e Verde del Comune di Milano. Fa parte della Direzione Nazionale di Europa Verde – Verdi.

Clima: prendiamo esempio dal Covid

C’è ancora chi sostiene che il clima sia sempre cambiato nel corso dei secoli e che quindi non si possa parlare di crisi climatica dovuta all’azione umana... Queste idee si potevano ancora giustificare più di trenta anni fa, quando non era nemmeno ancora stato costituito l’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’Onu. Allora potevano esserci tante opinioni, la ricerca era frammentata nel mondo, non c’era internet, i lavori scientifici erano pubblicati solo su riviste specializzate che stavano nelle biblioteche delle università. Oggi ormai i fatti sono assodati con precisione scientifica a livello mondiale. Chi lo nega ha problemi psicologici, e non è una battuta, me lo dicono i colleghi psicologi. È una forma di difesa, una forma di negazione che
insorge anche nelle persone molto colte. Quando il problema disturba, pone un’ansia; allora è molto più facile negarlo, e anche se non sai niente ti leghi alla prima considerazione facile da dire, magari l’hai letta in qualche sito di fake news: internet non aiuta.
Si può fare un parallelo con il negazionismo del Covid?
Certo. Con la pandemia sono tutti diventati improvvisamente medici – a parte il fatto che c’erano anche dei medici che sono caduti nel tranello. Nell’ambito del clima questo non è successo, si contano sulle dita di una mano i climatologi dissidenti al mondo. Chi fa queste obiezioni nella maggior parte dei casi non è nemmeno un tecnico del settore.
Con il Covid la minaccia era percepita come più grave, quindi la reazione psicologica di negazione era più forte?
Non tanto come più grave: era percepita sulla propria pelle, l’iniezione di vaccino veniva fatta su noi stessi. Quando parliamo di clima non è che devo prendere una pastiglia, non devo coinvolgere il mio corpo ma le mie abitudini, anche se a volte è sufficiente a creare questo sentimento di difesa. Ma nel Covid siamo arrivati a situazioni di estrema tensione fisica: ho sentito racconti di scene in ospedale, gente malata che fino in punto di morte si ribellava ai medici. Delle cose assurde da patologia psichica sociale.
È possibile far percepire alle persone la gravità della crisi climatica come fosse una pandemia? È un problema di tempi: nella pandemia la collaborazione da parte della maggioranza delle persone emergeva perché il tempo nel quale leggevi l’effetto del Covid era di quindici giorni, se lo prendevi e ti andava male in quel tempo eri morto. Riguardo al clima stiamo invece parlando di decenni, e di problemi a macchia di leopardo. Gli abitanti delle Marche colpiti dall’alluvione, per fare un esempio, hanno sperimentato cosa vuol dire quando il cambiamento climatico ti entra nella camera da letto, ma è un episodio puntiforme che ha coinvolto qualche migliaio di persone. Anche con la siccità, finché non ti manca l’acqua in casa è sempre qualcosa che succede a qualcun altro: gli agricoltori, l’industria idroelettrica… Purtroppo le persone reagiscono quando arrivano sull’orlo del baratro, ma per il clima quando arrivi lì è tardi, non si può più riparare. L’ha detto il segretario generale delle Nazioni Unite, l’ha detto anche il Papa, l’enciclica Laudato si’ è del 2015: nessuno li ha ascoltati.
Quindi?
La ricetta non ce l’ho, non sappiamo come si fa. Se vogliamo prendere un esempio dalla pandemia è molto semplice: ci vuole un atto politico forte. Abbiamo accettato tutti delle limitazioni perché il Presidente del Consiglio ha firmato un decreto e ha detto: da domattina tutti a casa, che vi piaccia o no, se non vi piace mando i carabinieri. L’efficacia l’abbiamo vista lì. Poi è ovvio, bisogna essere cauti, non voglio dire che questi problemi vadano risolti con mezzi autoritari, devono essere negoziati. Tuttavia credo che l’atto politico sia quello più efficace, perché quando si fa la legge tutti si devono uniformare. Più o meno come abbiamo fatto con il fumo, la legge che lo vieta nei locali pubblici è stata accettata senza rivoluzioni, ha migliorato il mondo, e adesso non si fuma più al cinema. Credo che se non avessimo avuto la legge saremmo ancora qui a discettare se era un bene o un male, ci sarebbero quelli che dicono che le sigarette fanno bene, che il fumo passivo non fa male, saremmo ancora qui dopo venti anni ognuno con la propria opinione. La forza dell’impatto della legge investe i grandi numeri, altrimenti finché siamo soltanto nell’area dei singoli comportamenti individuali ci sarà sempre chi è più sensibile, chi è indifferente, e chi addirittura è contra-

rio e non smetterà di fumare al cinema. Con la legge si restringe molto di più questa fetta, perché a quel punto si compie un reato: ci sarà sempre chi lo fa, però una fetta molto più piccola.
Torniamo al clima che è sempre cambiato… Sì, il clima è sempre cambiato, ma ci sono delle cause per questi cambiamenti e le cause possono essere molteplici, si tratta di capire quali sono. Se un cambiamento climatico di dieci milioni di anni fa, per esempio, era dovuto a una differente energia in arrivo dal Sole, in questa occasione è dovuto invece alle attività umane; non c’è contraddizione. Il clima è sempre cambiato, è come dire il corpo umano ogni tanto si ammala, dipende da quale è la causa: può essere per un virus, o per esempio perché ti stai drogando. L’Ipcc ogni cinque anni circa pubblica il rapporto sullo stato del clima del pianeta. Stiamo parlando di tremila pagine ogni volta, che sono il documento di riferimento per la politica internazionale. L’Ipcc è stato fondato nel 1988, siamo arrivati alla sesta edizione. Lì dentro sono contenute tutte le ricerche su come funziona il clima, quali sono le cause, cosa si può fare per evitare i danni, e la risposta è inequivocabile: la causa del riscaldamento attuale è l’emissione di gas serra da parte dell’umanità, punto. Non ci sono altri meccanismi, anche perché sono stati cercati.
Per esempio?
Qualcuno ha detto: il riscaldamento dipende dal Sole, che sta diventando più potente. Ma i nostri colleghi astrofisici ci dicono che non è così, il Sole è fermo e tranquillo, non sta cambiando la quantità di energia che manda sulla Terra. Altri dicono: i responsabili sono i vulcani. Siamo andati dai colleghi vulcanologi e abbiamo chiesto: la CO2 può arrivare dai vulcani? Risposta: no, i vulcani di oggi in genere raffreddano il clima, perché emettono nubi di polvere che opacizzano l’atmosfera. Quando esplodono possono raffreddare il clima per un paio d’anni, poi le ceneri ricadono e tutto torna come prima. L’ultimo caso di questo genere è il vulcano Pinatubo 1991, infatti nella serie dati temperatura nel ’91-92 c’è stato un breve raffreddamento di mezzo grado attribuito alla sua esplosione.
Quindi cosa riscalda l’atmosfera? La CO2 che emettiamo noi: i risultati sono ormai coerenti. I modelli di simulazione climatica per i quali è stato assegnato il Nobel per la Fisica 2021 a Syukuro Manabe, Klaus Hasselmann e al nostro Giorgio Parisi, ricostruiscono il clima del passato, e se togliamo dal modello climatico la CO2 vediamo che la temperatura non sale. Se non ci fosse stato un aumento dovuto alle attività umane, la temperatura sarebbe oggi più o meno uguale a quella di inizio Novecento, una linea piatta. Invece inserendo nel modello la CO2 prodotta da noi la temperatura sale. Lo sappiamo, ha questa proprietà, è un gas serra: basta farci passare in mezzo una radiazione infrarossa e si vede che la CO2 la filtra e la rispedisce indietro, quindi di fatto è una coperta chimica.
Climate change? Ce l’abb
Oggi quello che la scienza dice da decenni trova riscontro nell’esperienza quotidiana. L’importante è spiegarlo e comunicarlo bene intervista a ELISA PALAZZI

A che punto siamo nel climate change e nella sua percezione da parte di noi tutti?

Da quando si è cominciato a parlare di cambiamento climatico, oggi per la prima volta i dati che la scienza produce da decenni trovano riscontro nell’esperienza quotidiana. A meno di rifiutare l’evidenza, non possiamo non accorgerci che sta accadendo qualcosa. Vediamo cambiamenti molto rapidi, sempre più frequenti, anche se non riusciamo ancora a collegare tutti i puntini. Il tempo meteorologico sembra impazzito: ci sono alluvioni, ma i mesi precedenti sono stati incredibilmente siccitosi. Non riusciamo bene a capire quale sia il legame con il cambiamento del clima e come questo possa influire sulla meteorologia: però questo legame c’è. Anche i non esperti cominciano a osservare, a sentire sulla pelle i cambiamenti e a porsi qualche domanda in più.
Se si aprono gli occhi, che cosa si vede? Ciò che è evidente. Tutto parte dal riscaldamento globale, l’aumento della temperatura media negli ultimi 150 anni. Sembra un aumento piccolo, da 1,1 a 1,2 gra-
di dal 1850 a oggi. Una crescita irrisoria per la nostra percezione, che si basa sull’esperienza quotidiana delle variazioni meteorologiche, in genere molto più intense. Molti si domandano perché dovremmo preoccuparci di un solo grado in più. Ma la scienza ci insegna che un aumento di oltre un grado non è affatto poco su scala climatica, perché si tratta di un dato medio, valutato su una scala temporale lunga. Un aumento di un grado è tanto, specie se rapportato alla rapidità con cui si è verificato. Nella storia della Terra ci sono stati altri aumenti di temperatura, ma mai così rapidi. L’incremento della temperatura è un dato incontrovertibile su cui la comunità scientifica è concorde, e non lo negano nemmeno i più incalliti negazionisti.
Che cosa dovrebbe farci aprire gli occhi?
Quel che la scienza ci racconta sull’aumento della temperatura, lo sperimentiamo tutti i giorni: l’estate inizia prima, le ondate di calore estive sono più frequenti. Non c’è bisogno di termometri per vedere che i ghiacciai si fondono e si riduce la risorsa neve. Da studiosa dei fenomeni di alta quota osservo che
la stagione della neve si è accorciata; la neve si accumula in estensioni inferiori e non riesce a creare uno strato protettivo sopra i ghiacciai. Così, quando arriva il caldo, intacca il ghiaccio stesso, che deriva dagli accumuli precedenti. Il ghiacciaio sarebbe in equilibrio se d’estate fondesse tutta la neve caduta. Invece sistematicamente tutti i ghiacciai del mondo si ritirano. Le Alpi non fanno eccezione, talvolta con eventi più rapidi e impattanti come quello della Marmolada. Vanno contestualizzati, ma non si possono distaccare dal riscaldamento globale e quindi dalla mancanza di neve; gli eventi estremi si sono estremizzati. Lo stesso vale per il ciclo dell’acqua. Da un lato c’è la siccità: il 2022 è stato un anno esemplare, caratterizzato da siccità non solo d’estate, ma anche in mesi in cui non ce la si aspetterebbe. Ma accanto alla siccità ci sono quelle che vengono impropriamente definite “bombe d’acqua”.

Perché impropriamente?
“Bombe d’acqua” è un termine che sembra rimandare a una natura matrigna, mentre non fa che rispondere alle sue leggi. L’atmosfera si carica di vapore acqueo a causa dell’evaporazione dei mari
Sto cercando di capirlo, si impara via via. Il pubblico è molto cambiato, ti costringe ad alzare l’asticella, è più sensibile rispetto a qualche anno fa. Questo anche grazie alla rivoluzione attuata da giovani preoccupati e arrabbiati, che sono diventati propositivi e coinvolgenti: trovo molto positivo che questo sia successo. Trattare le persone come vasi da riempire di numeri, sebbene la scienza abbia cercato di rendere i numeri più fruibili (per esempio con le warming stripes, che rappresentano l’aumento della temperatura nei vari Paesi), è un approccio poco efficace. Credo che faccia più presa raccontare storie di persone reali. Storie di persone vicine o lontane che stanno vivendo sulla loro pelle la crisi climatica, o che si sono adattate. La storia di un agricoltore che decide di cambiare colture, pensando alle nostre zone e alla siccità che abbiamo vissuto, sarà più immediata da capire. Le storie delle persone ci fanno pensare che certi fenomeni ci riguardano direttamente. Quello che ci muove sono le emozioni. Può essere utile anche raccontare storie di noi scienziati e scienziate, far capire il nostro percorso, la nostra responsabilità sociale, che non può rimanere dietro la scrivania.
iamo sotto gli occhi
caldi, e il Mediterraneo è quello che si è scaldato di più. La termodinamica fa sì che si creino nubifragi e precipitazioni intense, che possono causare alluvioni. In generale c’è un’intensificazione del ciclo idrologico. Gli eventi di caldo estremo rimandano al riscaldamento globale in modo più intuitivo; ma possono accadere anche eventi di gelo. I negazionisti si sono aggrappati alle ondate di gelo come prova del fatto che non esiste il global warming. Ma così si confonde il tempo meteorologico con il clima: il meteo è quel che succede qui e ora, il clima è la statistica di questi eventi; non possiamo confondere un accadimento di una settimana con il cambiamento climatico. La statistica ci fa capire che c’è un cambiamento climatico: quella degli eventi freddi, infatti, si è ridotta. Gli eventi estremi li sentiamo, possono provocare conseguenze disastrose anche per la nostra vita, ci fanno capire che tali questioni ci riguardano anche molto da vicino e richiedono un’azione preventiva. Altri cambiamenti, come quelli della biodioversità, che vanno a braccetto con quelli climatici, sono forse più difficili da percepire. Quel che sta accadendo sul suolo o nel sottosuolo lo conoscono solo gli esperti, eppure è fondamentale, perché garantisce la salute dell’ecosistema e quindi anche la nostra.
Lei è anche una divulgatrice, coautrice del pod–cast Bellomondo con Federico Taddia. Come si fa a comunicare il climate change in modo efficace?
Quel che si studia va comunicato e divulgato. Si deve fare in modo che la coscienza collettiva si traduca in pressione sulla politica e quindi in azione.
E poi che altro?
È importante anche non rinunciare al rigore: le persone si accorgono se uno scienziato sa semplificare senza banalizzare, filtrare la complessità, accompagnare la comprensione con delicatezza, sperimentare nuovi linguaggi cercando la parola giusta. E poi è bene mischiarsi a mondi diversi, come quello dell’arte, della musica e del teatro. Molti artisti stanno mettendo in scena i cambiamenti climatici: una modalità che fa emozionare. Ancora una volta, le emozioni ci smuovono più di un grafico o della vecchia immagine di un orso polare sull’ultimo pezzo della banchisa artica. Ci vorrebbe anche l’aiuto dei giornali: sarebbe importante parlare di cambiamento climatico senza confinarlo nelle pagine scientifiche ma collegandolo ai temi di cui si parla tutti i giorni e che interessano la gente, come il lavoro, il futuro, la casa. Bisogna parlare a chi non se lo aspetta, altrimenti si parla solo ai già convertiti e si resta nella bolla. La pressione sulla politica è l’arma più grande che abbiamo e va utilizzata assolutamente. Le nostre piccole azioni hanno un valore inestimabile, ma non possono ribaltare un sistema, come servirebbe oggi, per contenere l’aumento della temperatura.
VISIONARI PER NATURA
We are Walden è la community di Rilegno, dedicata ai giovani che desiderano impegnarsi attivamente per un futuro più sostenibile. Coinvolgere, formare e sensibilizzare i giovani e catalizzare le loro idee ed energie è un aspetto centrale dell’azione di Rilegno a favore della sostenibilità. In questo numero, nei box colorati a margine degli articoli, raccogliamo e presentiamo alcuni volti e testimonianze dei ragazzi “visionari per natura” che animano la nostra community per un mondo nuovo.

Visita il sito della nostra community
MICHELE, 25
Studio Design
Engineering al Politecnico di Milano. La divulgazione sul canale Telegram ed eventi come la Walden Class e la Walden Hour mi hanno permesso di imparare cose nuove sul mondo della progettazione sostenibile, rendendomi più consapevole per i miei progetti futuri.
Mercato legno, i trend
Fatturati del settore nel 2023 in flessione dello 0,8 per cento, costi in aumento ma i margini restano buoni
intervista ad ALESSANDRA BENEDINIQuale evoluzione sta seguendo il mercato del legno?
Il settore del legno e dei prodotti in legno ha vissuto una dinamica fortemente positiva negli ultimi anni, sostenuta dalla crescita del mercato interno, che ha visto affiancarsi alle richieste attivate dall’industria dell’imballaggio il forte recupero degli ordini di prodotti e materiali destinati alle costruzioni. La ripresa dell’attività edilizia ha infatti consentito al comparto dei prodotti legno per l’edilizia (la componente principale all’interno del settore, che attiva circa il 40 per cento del valore complessivo della produzione di legno e prodotti in legno, al netto dei mobili) di crescere in maniera significativa. I positivi risultati degli ultimi anni hanno consentito alle imprese italiane di consolidare il proprio posizionamento nel panorama europeo, che vede il nostro Paese al secondo posto del ranking dei principali produttori, in termini di valore della produzione, dietro la Germania. Tale risultato è decisamente buono, considerando la scarsità di risorse forestali di cui dispone il nostro Paese, vincolo che penalizza il saldo commerciale (strutturalmente negativo in questo settore) e che ha imposto alle imprese italiane di soddisfare in primo luogo i fabbisogni del

mercato interno e di specializzarsi soprattutto nei settori a valle della filiera. Tale specializzazione è riflessa anche nella dimensione media delle aziende attive in Italia rispetto ai partner europei: nella prima lavorazione del legno (comparto che incide solo per il 14 per cento del valore della produzione dell’industria italiana, a fronte del 30 per cento che caratterizza la media europea) la possibilità di sfruttare le economie di scala è infatti un importante elemento di competitività, mentre nei settori a valle è piuttosto la capacità di personalizzare l’offerta su richiesta del cliente – punto di forza di molti dei settori di specializzazione del Made in Italy – il principale fattore competitivo.
Quindi a fare da traino è stato solo il mercato interno? Non solo. Negli ultimi anni sono anche cresciute in maniera significativa le esportazioni italiane, sostenute anche dall’aumento delle produzioni green. La capacità di trovare spazi sui mercati internazionali si rivelerà un importante sostegno ai livelli di attività nel prossimo futuro, che vedrà un rallentamento della domanda interna, e potrà consentire un rafforzamento della quota di offerta nazionale destinata all’export.
Che dire dell’attuale congiuntura?
Tutto il manifatturiero sta vivendo una fase di rallentamento della crescita e una fortissima accelerazione dei costi, soprattutto quelli di acquisto delle materie prime e dell’energia. Questi elementi, oltre a riflettersi in una crescente inflazione, stanno impattando in modo negativo sui margini di tutti i principali settori manifatturieri. Nel settore del legno e dei prodotti in legno si stima che i costi operativi (materie prime, lavoro e servizi) accusino un aumento superiore al 20 per cento nella media del 2022, crescita che non
LEGNO
E PRODOTTI IN LEGNO
potrà essere integralmente trasferita sui listini di vendita, portando a una caduta dei margini unitari. In complesso, le condizioni di redditività del settore del legno e dei prodotti in legno si confermeranno comunque buone – su livelli nettamente superiori rispetto al pre-Covid – e lievemente superiori alla media manifatturiera, con la redditività operativa stimata su livelli di poco inferiori al 10 per cento, grazie anche alla favorevole evoluzione della rotazione del capitale investito consentita dalla favorevole evoluzione dei livelli di attività.
E nei prossimi anni cosa ci si può attendere? Lo shock energetico, l’elevata inflazione – e le politiche monetarie restrittive intraprese in tutte le principali aree mondiali per contenerla – imporranno un’ulteriore frenata alla crescita dell’economia mondiale nei prossimi mesi, che interesserà anche il Pil italiano, portando a un rallentamento della domanda rivolta al settore, sia sul fronte interno che su quello internazionale. In questo contesto, il settore del legno e prodotti in legno è atteso chiudere il 2022 con un aumento del fatturato a prezzi costanti del +2,4 (ritmo più vivace, come già nel 2021, rispetto al 2,1 per cento stimato per il totale manifatturiero), per poi accusare una flessione nella media del 2023 (-0,8% la crescita attesa del fatturato deflazionato settoriale). Nell’anno in corso la crescita settoriale sarà ancora trainata dalla positiva dinamica dei semilavorati in legno e infissi, sostenuti dagli acquisti attivati dal vivace ciclo dell’edilizia, a fronte di un ripiegamento dell’attività del comparto della prima lavorazione del legno – sono quelli più a monte che quando inizia un ripiegamento dell’attività economica sono i primi a risentirne – stimata contrarsi dell’-1,5 per cento (flessione comunque in parte fisiologica, dopo la crescita del +27 per cento sperimentata nel 2021, che mantiene i livelli di attività molto più sostenuti rispetto al pre-Covid). Il rallentamento dell’attività edilizia – in particolare nel comparto delle ristrutturazioni, condizionato sia dalla rimodulazione del Superbonus che dal rialzo dei tassi d’interesse sui mutui – condizionerà l’evoluzione della domanda interna rivolta al settore nel prossimo biennio, pur in presenza di una buona penetrazione del legno nel settore edile, visto il successo che ha caratterizzato l’impiego di questo materiale negli ultimi anni. La flessione della domanda interna potrà essere solo in parte compensata da un andamento delle esportazioni che si confermerà positivo per l’intero biennio 2023-24, anche se in decelerazione rispetto al recente passato, scontando il rallentamento della crescita a livello internazionale. Nonostante risultati non più così brillanti come quelli degli ultimi anni, il fatturato deflazionato del settore del legno e prodotti in legno si confermer à nell’orizzonte al 2024 su livelli decisamente più elevati rispetto al pre-Covid, così come più elevata si confermerà la redditività operativa.
, economista di impresa, è responsabile delle attività di sviluppo dell’analisi settoriale all’interno della practice Strategie industriali e territoriali di Prometeia, dove coordina numerosi studi di economia industriale.

Gestiamoli bene, gestiamioli insieme
I boschi aiutano a contrastare il cambiamento climatico se sono gestiti in modo pianificato e partecipato. Ecco gli esempi intervista a GIORGIO VACCHIANO
Che cosa fanno i boschi per contrastare il cambiamento climatico? Che cosa potrebbero fare se fossero gestiti meglio?
Giorgio Vacchiano èdocente di Assestamento forestale e selvicoltura all’Università degli Studi di Milano. I suoi studi riguardano il cambiamento climatico e la salvaguardia forestale. È autore di La resilienza del bosco
Due cose. La prima è ridurne le cause: con la fotosintesi gli alberi assorbono CO2, che è la principale causa del riscaldamento globale. Purtroppo le nostre emissioni di anidride carbonica sono talmente alte che tutti i boschi della Terra non bastano ad assorbirle: la presenza di CO2 nell’atmosfera sta aumentando. Gli alberi riescono a risucchiare circa un quarto delle nostre emissioni, per l’esattezza il 26 per cento: se non ci fossero, il cambiamento climatico sarebbe ancora più marcato (in Italia l’assorbimento è solo del 10 per cento circa rispetto alle emissioni). Il primo modo per usare bene i boschi è smettere di eliminarli: parlo della deforestazione tropicale, nei Paesi in cui stiamo ancora eliminando superficie forestale eliminiamo anche possibilità di assorbire carbonio. Inoltre dobbiamo ripristinare il più possibile le foreste dove sono state eliminate: ben vengano le campagne per piantare alberi e ripristinare ecosistemi, a patto che lo si faccia

bene, con le specie giuste, non limitandosi ad azioni di tipo sporadico. E dobbiamo evitare il più possibile che le foreste vengano colpite da altri eventi estremi connessi con il cambiamento climatico, come gli incendi, la siccità, gli attacchi degli insetti, le tempeste di vento. Questi eventi determinano la morte di molti alberi e quindi l’inversione della fotosintesi: tutto il carbonio sequestrato dalla pianta torna nell’atmosfera. Ai danni alle foreste segue dunque l’emissione di grandi quantità di carbonio, che dobbiamo evitare in tutti i modi.

E il secondo modo?
Possiamo usare le foreste come soluzione per il nostro adattamento. Puntiamo a raggiungere le emissioni zero nel 2050, ma fino ad allora soffriremo le conseguenze della crisi climatica. I boschi possono aiutarci a non subire troppi danni: per esempio, in città una maggiore superficie verde esercita un potere rinfrescante durante le ondate di calore. Oppure, gli alberi possono diminuire l’impatto dell’acqua al suolo in caso di improvvise piogge autunnali, assorbendola
sulle loro chiome quando sono ancora verdi ed evitando così danni e ruscellamento sul suolo. Infine, in montagna e nelle zone più seminaturali, dove c’è il rischio di dissesto idrogeologico accentuato dalle piogge intense (come quelle che si sono verificate nelle Marche lo scorso settembre), la presenza di alberi sulle pendici e lungo i fiumi di pianura può aiutare a lottare contro il dissesto. Le radici trattengono il suolo e ne prevengono la frana a valle; se ci sono delle frane, i tronchi possono rallentare i massi e ridurre la minaccia per chi abita nelle vallate a rischio.

Come far sì che gli alberi facciano tutto questo? Abbiamo una responsabilità. Il clima sta cambiando in fretta, a causa nostra, e le foreste sono sotto pressione. Anche in Italia, sebbene stiano ricominciando a espandersi naturalmente dove l’uomo non pratica più l’agricoltura e l’allevamento. Sono ecosistemi molto fragili: se lasciate al loro corso naturale, le foreste si sviluppano ma sono esposte agli eventi estremi. Ecco perché è importante gestire il bosco, per assicurarsi che continui a fornirci i suoi benefici nel tempo anche di fronte a queste minacce. Per esempio lavorare per prevenire gli incendi, che non vuol dire solo arrestare i piromani, ma anche dare alla foresta una forma meno infiammabile possibile, ridurre la quantità di vegetazione secca e morta a terra, distanziare gli alberi uno dall’altro in modo che le fiamme trovino più difficile passare attraverso le chiome. O prevenire i danni da vento, irrobustendo gli alberi e favorendo le specie che hanno radici più profonde e sono meglio ancorate.
Per fare tutto questo è importante una gestione collettiva del bosco?
Proprio così. Quando interveniamo su una foresta, modificando la sua forma, la sua struttura, la sua composizione specifica, la foresta reagisce lentamente. Non otteniamo risultati in un anno come se fosse un campo di patate. Dobbiamo pianificare bene queste azioni. Solo il 15 per cento delle foreste italiane ha un piano, cioè un documento con valore legale che stabilisce quali sono le funzioni, le vulnerabilità, gli interventi più urgenti sulle foreste di un certo comprensorio per renderle più sicure e, perché no, aumentarne la produttività. Il piano è redatto dal proprietario della foresta, ma ci sono molti soggetti che esprimono altri interessi: da chi ci abita e vuole essere protetto dalle frane a chi vuole passeggiare e raccogliere funghi, da chi vuole prendere legno per scaldarsi e costruire a chi dipende dall’acqua potabile che la attraversa. Un piano dovrebbe coinvolgere queste persone, perché il rischio è assecondare solo certi portatori di interessi e trascurare gli altri. La pianificazione è il pilastro della strategia forestale nazionale, il documento uscito ad aprile di quest’anno dal ministero delle politiche agricole e forestali, che detta le priorità per i prossimi vent’anni per le foreste italiane. Ma la pianificazione deve essere partecipata, collettiva: bisogna che insieme decidiamo, con tutti quelli che hanno un interesse nella foresta, qual è il suo futuro.
Quali ostacoli impediscono di muoversi in questa direzione?
Il principale è la frammentazione delle proprietà forestali in Italia. Due terzi sono di privati: parliamo di piccolissimi proprietari, che in media possiedono due ettari o due ettari e mezzo di bosco. In qualsiasi comune o vallata ci sono centinaia o migliaia di persone che dovrebbero essere coinvolte nella gestione della foresta: farlo è difficilissimo, se non impossibile, perché molti sono emigrati e i loro pronipoti nemmeno sanno di possedere un pezzo di bosco. Questo è uno dei maggiori ostacoli che impediscono di gestire il bosco e di renderlo più sicuro, ad esempio facendo la prevenzione degli incendi.
La Magnifica Comunità della val di Fiemme può essere un modello virtuoso a cui guardare? Ci riesce da mille anni. Nasce in epoca medievale, con i residenti che spontaneamente decidono di mettersi insieme per gestire meglio la foresta. Gestire una zona più ampia permette di avere più flessibilità. Si può decidere di destinare qualche bosco alla protezione, qualcuno alla produzione, qualcuno a fare da habitat a una specie animale. Ci sono anche altri esempi di gestione collettiva, per esempio le comunali e sull’Appennino tosco-emiliano, altro caso di proprietari privati che attuano una gestione comunitaria. Tutti i proventi di questa gestione, per esempio quelli dei permessi di raccolta dei funghi porcini, vengono reinvestiti nel miglioramento della foresta: viabilità, strade, sentieri, manutenzione idraulica. In altri luoghi si sta tentando di favorire l’avvio di questo processo a partire da zero. Il ministero l’anno scorso ha emanato un bando per le aggregazioni o le associazioni fondiarie, che prevede dei finanziamenti per i gruppi di proprietari. Un altro esempio è la Foresta Modello delle montagne fiorentine sul Mugello, dove c’è addirittura un network mondiale di proprietari pubblici e privati che hanno fondato un’associazione e decidono insieme come gestire la foresta. Hanno accesso anche ai tecnici dell’università di Firenze e utilizzano strumenti tecnologici, addirittura satellitari, per il monitoraggio della foresta: questi sono i vantaggi di mettersi insieme.
E le foreste pubbliche?
Questa realtà già esiste in alcune Regioni: sono i consorzi forestali. In Lombardia è molto sviluppata, ce ne sono alcune decine, sono i comuni che si mettono insieme e decidono di affidare la gestione dei loro boschi a un ente. Il vantaggio è che anche un piccolo comune, che non ha risorse e competenze, unendosi ad altri può assumere un bravo tecnico forestale, ottenendo così una gestione più esperta e allo stesso tempo partecipata. Queste realtà funzionano molto bene: io lavoro spesso in Valcamonica e in tutta la vallata ci sono ben cinque consorzi forestali. La tempesta Vaia ha colpito anche quelle zone, oltre al Trentino Alto Adige: c’è in atto un grosso sforzo di ripristino e bonifica e si sta procedendo velocemente. I consorzi hanno esperienza, forestali propri, macchine proprie che permettono di gestire anche situazioni di emergenza.
FEDERICO, 23


Studio
We
Walden per me è un’opportunità per pensare progettare, divulgare e fare qualcosa che possa contribuire concretamente a lasciare un segno sostenibile. Per me la community rappresenta la possibilità di “dare e ricevere” nuove e continue occasioni di confronto.
LEONARDO, 23
Laureando al Politecnico di Milano, studio presso l’Artwood Academy. Grazie alla community di We are Walden ho preso consapevolezza sul fatto che chiunque, nel suo piccolo, può cambiare il mondo. Noi ragazzi abbiamo avuto modo di discutere il tema della sostenibilità con persone di spicco come Mario Cucinella e Odo Fioravanti, ma anche di portare a termine progetti concreti.
Un paese di boschi
I boschi occupano il 40 per cento del territorio italiano, anche se pochi lo sanno. Ma sono una risorsa da gestire
intervista a FERDINANDO COTUGNOCome sono cambiati i boschi in Italia negli ultimi anni?
Tante domande di cambiamento hanno cominciato a trovare un senso e uno sbocco. La strategia forestale nazionale è uno dei passaggi più importanti in questa direzione. Era atteso da tanto tempo, è il complemento del Testo unico sulle foreste. Abbiamo iniziato a dare una visione nazionale sistemica a una materia che nella storia repubblicana italiana era sempre stata molto disaggregata, regolata da leggi regionali e spesso anche locali. I nostri boschi hanno avuto un’evoluzione da un lato ecologicamente molto spontanea e disordinata, dall’altro priva di una governance, cioè di una visione in grado di indirizzare questa risorsa. Il grande cambiamento che vedo è che finalmente c’è la consapevolezza che le foreste sono una grande risorsa nazionale. L’Italia è un grande Paese forestale, lo è diventato per dinamiche non coordinate né programmate ma ora lo è. I numeri degli ultimi inventari forestali sono molto indicativi in questo senso.

È una buona notizia?
Quando parlo con le persone cito sempre un dato basilare, eppure completamente invisibile nel dibattito. In Italia la copertura forestale è raddoppiata: il bosco ormai occupa quasi il 40 per cento del territorio. Tutti mi fanno la stessa domanda: è una buona o una cattiva notizia? Do sempre la stessa risposta: non è né buona né cattiva, è una responsabilità che ci dobbiamo prendere. È come se avessimo ereditato un patrimonio, con cui si possono fare cose buone e cattive, come con tutti i patrimoni. Per decenni abbiamo scelto di non scegliere, di non fare nulla; ora vedo che c’è la volontà di farne qualcosa, quasi come se questo patrimonio fosse apparso all’improvviso. È cambiato il contesto politico, siamo entrati nell’epoca della transizione ecologica, che non si può fare in

maniera completa né consapevole senza far partecipare un terzo del territorio.
Quanto è importante una logica collettiva e di sistema per gestire i boschi? È fondamentale. Faccio un esempio: lavoro nel mondo dell’ambientalismo, dove ci sono visioni variegate e spesso critiche nei confronti delle biomasse come fonte di energia. Però ci stiamo accorgendo che, nei contesti in cui si riesce a fare fronte comune, il legno come energia è una risorsa estremamente sostenibile. È il caso delle comunità energetiche, che possono essere basate sulla condivisione e su un uso consapevole e sostenibile delle risorse. Questo tipo di lavoro può essere sostenibile da un punto di vista sia ecologico che economico, e quindi rispondere a tutte le diverse esigenze della società. La base della sostenibilità deve essere sia sociale, sia economica, sia ecologica: il bosco non può essere trattato se non si tengono insieme questi tre aspetti. Finalmente vedo un’unione di intenti, anche nei programmi politici: per la prima volta, nel corso dell’ultima campagna elettorale, tutti i programmi dei partiti nominavano la gestione forestale, alcuni più, altri meno. Non era così nel 2018.
Sta cambiando la percezione dell’importanza dei boschi?
Sì, il bosco sta facendo questa transizione, che è prima di tutto di visibilità: stiamo imparando a vederlo come una risorsa da usare in modo integrato e a superare l’idea di conservazione un po’ settaria insita nell’ambientalismo, secondo cui un bosco deve rimanere intatto, non toccato, fuori dalla società. Al contrario, il bosco deve entrare nella società: va creata più unione tra la società italiana e i suoi boschi. Il bosco ha bisogno di strade più brevi verso la società e dentro il bosco stesso; non può essere lontano, remoto, rimosso, trattato come una risorsa turistica, messo sotto una teca di cristallo, perché è vivo. La tesi di fondo del mio libro è che il bosco è uno specchio della società, ne rispetta le trasformazioni sociali, politiche, culturali. La stessa rinascita del bosco in Italia è lo specchio di una trasformazione sociale. La società italiana, che è urbanizzata, basata sul consumo di suolo, deve unirsi, avvicinarsi al bosco. E dal mio punto di vista serve anche un’altra grande unione.
Quale?
Quella tra l’ambientalismo e la gestione forestale, mondi che si sono sempre guardati molto male, non capendosi. Li ho frequentati entrambi in questi anni e ho sempre visto questa diffidenza di fondo. Il mondo forestale parte dal presupposto che gli ambientalisti non capiscono e non vivono la natura, chiusi nelle proprie Ztl, e gli ambientalisti trattano il mondo forestale, quindi il sistema di accademia, aziende, operatori, come distruttori dell’ecosistema. Un’idea non più sostenibile, perché la comunione di intenti è evidente. L’ambientalismo sta cominciando a vedere che il mondo della selvicoltura è depositario di scienza, conoscenza e sapienza, mentre il mondo forestale inizia a capire che deve confrontarsi con l’ambientalismo, perché è portatore di un tassello di visione fondamentale. Non basta la tecnica, serve la visione. È un’unione che vedo crescere e saldarsi sempre più. Siamo ancora nella fase di intenti, ci sono pezzi di operatività che ancora mancano, ma dopo tanti anni di incuria stiamo andando nella direzione giusta.
A che tipo di trasformazione sociale si è associata la rinascita dei boschi in Italia?
La popolazione italiana nella storia repubblicana è raddoppiata e si è concentrata, lasciando ampie fette di territorio in abbandono. L’Italia si è industrializzata e ha smesso di essere un Paese agricolo. La fine della civiltà agricola ha creato spazio e il bosco se l’è preso: tanti pezzi di territorio che erano pascoli, agricoltura di montagna, sono stati abbandonati e hanno lasciato spazio al bosco. Negli anni Cinquanta e Sessanta ci sono stati progetti di riforestazione di alcune aree, marginali però rispetto alla grande scala dell’abbandono delle aree interne, e il bosco se le è riprese. Queste valli piene di alberi, dove negli anni Cinquanta c’erano i pascoli, sono lo specchio di una trasformazione: prima ci abitavano le persone, oggi non più. Si possono fare mille esempi, come la valle
del Po o il comune di Ostana, in provincia di Cuneo, oggi uno degli esempi di rinascita delle aree interne. Negli anni Cinquanta ci vivevano 1200 persone, negli anni Novanta solo cinque, perché erano andati tutti a Torino a lavorare alla Fiat. Oggi il bosco visto dalla valle opposta è una lingua di case circondata, quasi divorata, dagli alberi. Migliaia di borghi in Italia hanno avuto una storia simile.
Che tipo di consapevolezza ha riscontrato nella gente sul tema dei boschi? Poca consapevolezza, scarsa conoscenza, non distacco, grande consenso: l’Italia è un Paese in cui tutti amano i boschi, ma li conoscono poco, perché li frequentano poco. Quando anche a persone colte chiedevo se in Italia il bosco si è dimezzato o è raddoppiato, i più rispondevano “dimezzato”, mentre come sappiamo è raddoppiato. La percezione è l’opposto della realtà, come nel caso degli immigrati, che si crede siano molti di più. Sentiamo parlare della deforestazione in Amazzonia e pensiamo che ci sia anche qui. Quello che si fa fatica a comprendere è che la sostenibilità consiste anche nel vedere che il bosco vicino a noi è collegato alle foreste globali da dinamiche complesse. Il nostro rapporto con il legno è ancora molto coloniale. Usiamo molto legno, ma non vogliamo che sia preso dai nostri boschi. Però siamo disposti ad accettare che venga da devastanti deforestazioni nei Paesi tropicali. Anche di questo c’è poca consapevolezza: il legno è una materia viva e viene da un bosco, ma non ci chiediamo mai da quale, è un salto culturale che ancora manca. Ecco perché le certificazioni forestali sono poco utilizzate e richieste. Chi acquista un mobile difficilmente chiede se è sostenibile, quando magari ha imparato a chiederlo sul cibo: sul legno siamo ancora all’anno zero.
Esiste una consapevolezza dell’importanza della gestione del bosco?
Sta crescendo, ma c’è ancora la fobia del taglio, l’idea che anche un solo albero che viene tagliato è un danno. L’idea che gestire a volte significhi anche tagliare è ancora poco accettata, compresa, normalizzata, anche per problemi di comunicazione del mondo forestale. Quando si fa prevenzione forestale, per salvare mille ettari a volte bisogna tagliarne uno. Questo tipo di prevenzione è utile a salvare territorio e vite, ma è poco accettato sia dalle persone che dalla politica. Per questo in Italia si preferisce combattere gli incendi anziché tagliare i boschi. Abbiamo un’idea un po’ populista degli alberi, sempre figlia di scarsa consapevolezza. Ciclicamente ritorna l’idea di risolvere tutti i problemi piantando nuovi alberi, magari un milione. È molto semplicistico pensare che l’albero risolva tutto: uno in più è sempre meglio, questo è vero, ma l’argomento viene affrontato con scarso senso della complessità. La materia forestale sembra semplice ed è invece estremamente complessa. C’è un grande problema cronico di comunicazione. Nessuno vuole toccare i boschi e li trattiamo come fossero delle cristallerie.
Piccoli atti che contano molto
Trecento volontari, un libro, un network che cresce. Fatto di piccoli gruppi in tutto il mondo
Tanti dati, tabelle, mappe, infografiche sul cambiamento climatico in un libro collettivo realizzzato da un team virtuale internazionale. Ma anche un progetto molto più ampio, che include una serie di podcast, un corso su Linkedin, una raccolta fotografica, una guida per gli educatori e insegnanti, una versione gratuita per i bambini, una newsletter quotidiana e l’obiettivo di creare tanti piccoli gruppi connessi in un network globale. È The Carbon Almanac, un’iniziativa basata sull’idea che ci voglia un’azione collettiva per fare qualcosa di concreto contro il climate change, lanciata da Seth Godin, guru del marketing e autore di bestseller internazionali (tra cui La mucca viola). “Il cambiamento climatico è un problema che possiamo affrontare solamente uniti” scrive Godin. Per sostituire quelli usati per la stampa del Carbon Almanac sono stati piantati più di centomila alberi. “Non è troppo tardi per fare la differenza. Ma dobbiamo agire in fretta. Non possiamo perdere un minuto in più a discutere della dimensione del nostro problema o a rimpiangere i bei tempi andati. Al contrario, dobbiamo fare della speranza e dell’unione la nostra forza. La speranza che viene dalla consapevolezza che non è troppo tardi. E la forza, quasi illimitata, che deriva dall’azione coordinata e collettiva. Uniti gli uni agli altri siamo molto più efficaci rispetto a quando agiamo come singoli individui”. La stessa dinamica di realizzazione del libro vuole esserne un esempio. “Questo almanacco è stato creato da oltre 300 volontari. La maggior parte di noi non si era mai incontrata prima di impegnarsi in questa azione coordinata” spiega Godin. “Residenti in oltre quaranta nazioni, dal Benin ai Paesi Bassi, dall’Australia a Singapore, abbiamo lavorato letteralmente 24 ore su 24 (i fusi orari!) per realizzare il libro”.
La collaborazione di questo network di cittadini preoccupati per la salute del pianeta, che si è impegnato a titolo volontario per raccogliere i dati e le informazioni contenuti nel volume, vuole essere anche un modello per l’azione. “Sapevo di poter creare un libro che avrebbe risolto parte del problema per come lo vedevo
io, ovvero che molte persone pensano di non essere informate abbastanza per poter parlare di questo argomento” dice Godin. “Ma ho capito che, pur potendo fare qualcosa anche da solo, in quel modo sarebbe venuta a mancare una metafora che ritengo utile per far capire di cosa abbiamo davvero bisogno.” Perché, come ha affermato Tim Wu, consigliere speciale per la tecnologia del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, “non dobbiamo mai dimenticare la gioia del fare qualcosa di difficile e lento, la soddisfazione di non seguire la strada più facile. La costellazione di scelte scomode può essere l’unica cosa che ci divide da una vita di totale ed efficiente conformismo”.
“Se questo libro vi ispirerà a sufficienza da condividerne una copia con un amico, ne sarà valsa la pena” aggiunge Godin. “Se spingerà voi e i vostri amici a organizzare un circolo di dieci persone, avrà fatto la differenza. E se voi dieci vi coordinerete insieme ad altri dieci gruppi per favorire un cambiamento organizzativo e culturale, sarà stato un successo. Abbiamo l’opportunità di concentrarci sulle cose che contano davvero, e di farlo con grazia e urgenza. Se non ora, quando?”
In questa intervista a Walden, Godin propone “un’azione coordinata tra persone impegnate”, ricordando che i piccoli gruppi connessi in un network sono gli unici che riescono ad avere un impatto reale: “Ognuno di noi ha un ruolo da svolgere”.
La sua iniziativa The Carbon Almanac è un lavoro dichiaratamente collettivo. Il cambiamento climatico è un problema che possiamo affrontare solamente uniti?
La magia della cultura di questo pianeta è che funziona proprio perché non siamo uniti. Non siamo tutti d’accordo, non richiediamo un’azione unanime. Abbiamo costruito un sistema che trova i bisogni e li soddisfa, il tutto tessendo insieme una cultura che permette un certo livello di civiltà. Non è perfetto, ma finora è la nostra migliore opzione disponibile. Lo stesso vale se vogliamo affrontare l’e-

norme sfida di risanare il clima e preparare il nostro futuro. Azione coordinata tra persone impegnate. Un lavoro costante, coerente e incrementale per creare sistemi utili e per dare un prezzo equo alle cose: tutto questo è possibile ed è alla nostra portata.
Come sta andando il vostro progetto, che parte dal libro ma è più ampio? È stato un cambiamento di vita per me e per centinaia di persone in tutto il mondo. Internet, con la sua magica promessa di connetterci, può far sentire le persone isolate e indifese. Questo progetto ci ha dimostrato che un’azione coordinata è possibile, che non siamo soli nel nostro desiderio di fare la differenza. Certo, il formato di un libro è potente e facile da condividere, ma convincere le persone a comprare e condividere i libri è un lavoro duro.
Pensa che il modo migliore per avere un impatto sul cambiamento climatico sia quello dei piccoli gruppi?
I piccoli gruppi sono gli unici gruppi che riescono ad avere un impatto. Si sostengono l’un l’altro nel lavoro di proporsi in modo costante e poi, col tempo, crescono e si connettono finché vengono considerati indispensabili. Ma all’inizio non lo sono mai. La maggior parte delle persone vuole convenienza, prezzi bassi, niente drammi e una giornata facile. Ma alcune persone si preoccupano e vogliono imparare di più, condividere di più e fare da guida. Questo è ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento.
Il libro contiene molti dati. Quali sono quelli che possono far tirare fuori la testa dalla sabbia a molti struzzi, per usare una metafora utilizzata in The Carbon Almanac?
Per me l’elemento trainante è una semplice domanda, posta tra cinque anni: “Quando hai capito che potevi fare la differenza, cosa hai fatto?”. Credo che molte persone desiderino sapere cosa sta succedendo e vorrebbero evitare il trauma e il rimpianto che derivano dal non aver agito. Scoprire che l’industria ci ha mentito e ingannato non è una sorpresa, ma i dettagli sono sorprendenti. Una volta che le persone scoprono che l’invenzione dell’impronta di carbonio è della British Petroleum e che il riciclaggio della plastica non può essere risolutivo, di solito vogliono capire cosa sta succedendo davvero.
Quanto contano i piccoli gesti? Voi per esempio proponete di usare il motore di ricerca Ecosia, che ogni 45 ricerche pianta un albero, e mandate la newsletter The Daily Difference. I piccoli atti sistemici contano molto. Se una sola persona passa a Ecosia, non ha importanza. Ma se una persona convince dieci persone, e loro convincono dieci persone… beh, se tutti passassimo da Google a Ecosia, avremmo un impatto enorme sul clima mondiale, e potremmo farlo in un giorno, gratuitamente. La newsletter via e-mail Daily Difference è un modo semplice, gratuito e facile per diventare un po’ più consapevoli e un po’ più connessi ogni giorno.

è
bestseller internazionali, tradotti in più di trentacinque lingue e che hanno venduto milioni di copie. È stato inserito nella Direct Marketing Hall of Fame e nella Marketing Hall of Fame.

CARBON ALMANAC
il frutto di una collaborazione senza precedenti di volontari da tutto il mondo. Raccoglie ciò che sappiamo, ciò che è successo e ciò che potrebbe accadere riguardo al cambiamento climatico. Dati, vignette, citazioni, illustrazioni, tabelle, storie articoli per mettere in luce l’impatto del carbonio sul nostro pianeta, sulla biodiversità, sugli eventi climatici estremi, sull’acidificazione degli oceani, sull’agricoltura, sulla nostra alimentazione, sull’energia, sull’economia e sulla salute. È la fonte definitiva di informazioni sul cambiamento climatico uno strumento essenziale per il movimento globale che vuole combatterne gli effetti. la differenza dobbiamo, per prima cosa, capire cosa sta accadendo. È il momento dei fatti, non delle opinioni. Delle azioni, non dei proclami. cambiamento climatico è un problema che possiamo affrontare solamente uniti. “Se questo libro vi ispirerà sufficienza da condividerne una copia con un amico, ne sarà valsa la pena. Se spingerà voi vostri amici organizzare un circolo di dieci persone, avrà fatto una differenza. se voi dieci vi coordinerete insieme ad altri dieci gruppi per favorire un cambiamento organizzativo culturale, sarà stato un successo. Abbiamo l’opportunità di concentrarci sulle cose che contano davvero, e di farlo con grazia e urgenza. Se non ora, quando?” SETH GODIN
Tre americani e mezzo producono la stessa quantità di CO2 di 146 nigeriani. Pensate che la soluzione sia la tecnologia o la frugalità?
La risposta è entrambe. La tecnologia ci offre un percorso diretto verso il futuro, mentre la frugalità ha un impatto immediato. È molto difficile convincere le persone ad abbandonare volontariamente i modelli con cui si sentono a loro agio, ed è per questo che la corretta determinazione del prezzo del carbonio è uno strumento utile per indirizzare sia gli elementi tecnologici sia quelli di consumo. Oggi le cose sono già cambiate. Nei governi e negli uffici delle aziende si affronta il tema del cambiamento climatico come mai era accaduto in passato. Qualcosa sta succedendo, e ognuno di noi ha un ruolo da svolgere.
La Terra che ho visto da
Il nostro pianeta non è fragile, è capace di rigenerarsi: siamo noi a rischiare di non poterlo più abitare se cambiano le condizioni che ci permettono di essere qui
intervista a PAOLO NESPOLICom’è la Terra vista da una stazione spaziale? Se il turismo spaziale diventerà un’esperienza che molti vorranno fare, sarà per sperimentare una situazione di assenza di gravità e per guardare la Terra da una prospettiva diversa. Quando siamo sulla Terra è come se avessimo il naso appiccicato a un dipinto e cercassimo di leggerlo da una prospettiva molto ravvicinata; vedremmo i dettagli microscopici, le pennellate, ma perderemmo la visione d’insieme. Nello spazio ci si apre questa visione d’insieme. Capiamo che la Terra è un minuscolo pezzettino di universo, un granello di sabbia tra tutti i granelli di sabbia di tutte le spiagge di tutto il mondo; e ci rendiamo conto che la Terra ha dei ritmi completamente diversi da quelli a cui noi razza umana siamo abituati. L’idea che la Terra è fragile a parere mio è vera e non è vera.
La Terra affetta dal global warming vista dallo spazio non è fragile?
Anche se bruciassimo tutto, non sarebbe la Terra a sparire dall’universo. Probabilmente saremmo noi esseri umani, con tutte le specie viventi, a sparire dal pianeta, perché non ci sarebbero più le condizioni per mantenerci in vita. La Terra non si distrugge, cambia: ma se diventa arida, tutta una serie di problemi legati al cambiamento di temperatura potrebbero portare alla nostra estinzione. È a questo che dobbiamo stare attenti. Le ere che caratterizzano la Terra durano migliaia di anni. Se anche dovessimo usare tutte le risorse del pianeta, la Terra tra due, tre, quattro milioni di anni – poca roba per la vita sul pianeta, un po’ come due secondi nostri – rifarebbe tutto da capo. La domanda è: ci saremo noi o no? Lo spazio ti fa capire che noi alla fine siamo molto piccoli rispetto all’universo e che la Terra ha dei cicli di vita che sono completamente fuori dalle nostre capacità anche solo di comprensione: ha 4,5 miliardi di anni, una durata per noi impossibile da immaginare.

Che altro si scopre sulla Terra da una stazione spaziale?
Dallo spazio non si vedono i confini tra le varie nazioni, o quantomeno è molto difficile vederli. Invece si vede un altro confine molto netto, quello dell’atmosfera. Impieghiamo tante energie per controllare i confini nazionali, cosa giusta, e non mettiamo le energie necessarie e sufficienti per gestire tutti assieme questo divisorio che ci separa dal vuoto dell’universo. Possiamo controllare chi entra e chi esce dalla nostra nazione, ma se non facciamo lo stesso con quello che buttiamo nell’atmosfera ci facciamo male tutti assieme. Una volta che vai nello spazio, l’appartenenza a una nazione diventa un po’ offuscata: ti senti un essere umano fuori dalla tua casa, che è la Terra, non l’Italia. Sei orgoglioso di essere italiano, americano, russo, giapponese, ma quel che più conta è il fatto di trovarsi tutti assieme uniti come esseri umani fuori dal mondo per fare qualcosa che pensiamo sia utile per tutta la specie umana.
Come si lavora in modo efficace nello spazio? Si devono mettere insieme tutte le risorse e le capacità, assegnare dei ruoli, che dovrebbero essere legati a quello che ciascuno riesce a fare al meglio, e lavorare
llo spazio
in team fidandosi degli altri. Lavorare in team senza la fiducia, senza pensare che gli altri abbiano capito il ruolo che devono svolgere e lo svolgano bene porta alla caduta del team. Non è facile. Decidere qualcosa che ha a che vedere con la stazione spaziale internazionale vuol dire mettere quindici persone intorno a un tavolo. La democrazia è molto più costosa della tirannia. In democrazia tutti decidono e arrivare a delle conclusioni che soddisfano tutti è complesso. Ma anche nazioni non tanto amiche sulla Terra, come Stati Uniti e Russia, nello spazio lavorano insieme per il bene comune e cercano di ottenere dei risultati che servono a tutti. Questo è un risultato importante della stazione spaziale internazionale, tanto quanto i risultati scientifici che si possono ottenere. Dimostra che quando vogliamo noi esseri umani riusciamo a lavorare insieme per qualcosa che serve a tutti.
Succederà anche sulla Terra per quanto riguarda il lavoro da fare contro il climate change?
Ogni giorno ci rendiamo conto che qualcosa non quadra, che stiamo usando le risorse del pianeta senza fare i conti con la sostenibilità. Quando bruciamo il petrolio, tagliamo le foreste o buttiamo la plastica in mare risolviamo un problema del momento, senza pensare che più avanti il problema potrebbe tornarci indietro. Oggi ce ne stiamo rendendo conto, ma forse i cambiamenti che abbiamo innescato sono arrivati a
un punto in cui non è più possibile fermarli. Il problema è che sulla Terra siamo diventati veramente tanti. Probabilmente non è più possibile continuare ad avere un tenore di vita come quello di noi occidentali e garantire che tutti possano averlo. Dobbiamo trovare il modo di impattare il meno possibile sull’ambiente e cercare di cambiare quel che abbiamo fatto fin qui.
Alla luce della sua esperienza è ottimista? Capisco che la situazione è complicata. Non è facile attribuire con esattezza i cambiamenti che oggi misuriamo e vediamo a un comportamento della specie umana o a un comportamento ciclico della Terra. La Terra si riscalda, ma nei secoli e nei millenni passati ha fatto questo cambiamento parecchie volte. Quello che oggi percepiamo come un cambiamento dovuto a noi esseri umani potrebbe non essere completamente tale: ma di sicuro lo stiamo influenzando e potrebbe portare a un venir meno delle condizioni che ci permettono di essere sulla Terra. Lo spazio ci permette di essere più scientifici in questa analisi: abbiamo i satelliti che misurano esattamente tutte le condizioni del pianeta, ci fanno vedere la temperatura degli oceani, il grado di deforestazione e così via, dati che possono essere analizzati e valutati. Su quei dati dobbiamo lavorare, analizzandoli per capire se si tratta di un cambiamento “normale” o di qualcosa che abbiamo innescato noi. Io penso che siamo responsabili dell’inasprimento di alcuni cambiamenti che sono“naturali”. Col nostro utilizzo delle risorse e con il buttare nell’atmosfera una serie di composti che prima non c’erano, stiamo sicuramente influenzando questi processi in peggio.
Secondo lei non è detto che il climate change sia dovuto soltanto all’uomo? Da ingegnere direi che non abbiamo abbastanza dati e conoscenze per avere una risposta precisa a questa domanda. Non sono scettico, sto solo dicendo che non si tratta tanto di sapere di chi è la colpa, quanto di capire perché queste cose succedono e come tornare indietro. Quando prendo un aereo e vado da Milano a Houston, l’ammontare di emissioni che l’aereo butta nell’atmosfera è forse equivalente a quello generato da tutta la civiltà romana duemila anni fa. Abbiamo milioni di auto che bruciano derivati del petrolio e immettono nell’atmosfera composti chimici deleteri. Ma l’alternativa qual è: non andiamo da nessuna parte, non compriamo più auto? Noi esseri umani stiamo cambiando il nostro pianeta, non è chiaro come lo stiamo cambiando e dove andremo, anche se guardando i dati oggi sembra che ci stiamo infilando in un vicolo cieco. Non sarebbe male spaventarci come genere umano e, invece di fare le guerre o intraprendere altre azioni che inaspriscono la situazione, focalizzare tutte le nostre attenzioni ed energie per capire i problemi e cercare di risolverli. Un po’ come avviene nella stazione spaziale internazionale: lassù non è tutto oro, non è tutto perfetto, ma si fa un passo nella direzione giusta.
Paolo Nespoli è stato astronauta dell’Agenzia spaziale europea (Esa) per quasi trent’anni, di cui venti distaccato alla Nasa a Houston. Ha volato nello spazio per tre volte e ha vissuto per 313 giorni sulla Stazione spaziale internazionale. Oggi si dedica a riportare a terra, nel campo educativo e professionale, le sue esperienze spaziali e non. È autore di diversi libri tra cui Farsi spazio e L’unico giorno giusto per arrendersi

A lezione di sostenibilità
Sviluppo sostenibile e cittadinanza globale entrano nei curriculum scolastici intervista a MARIA CHIARA

del contributo della cultura allo sviluppo sostenibile.” Con questo rapporto abbiamo fatto il punto sulla situazione a livello internazionale, con uno sguardo di dettaglio su quello che accade nel nostro Paese in merito all’educazione a questi temi, proponendo dei suggerimenti per metterla in pratica non solo nell’istruzione dalla scuola primaria all’università, ma anche in senso di life long e per tutte le professioni, tutte le età, tutti i contesti di vita.
è Dirigente di Ricerca presso Indire (Istituto nazionale di documentazione innovazione e ricerca educativa) e si occupa di modelli e criteri di qualità per la formazione degli insegnanti in ingresso e in servizio. È laureata in Ingegneria elettronica all’Università di Firenze e ha un Dottorato di ricerca in Telematica e Società dell’informazione. Da dicembre 2020 è Ambasciatrice del Patto per il Clima EU.
In che modo prepara gli insegnanti a educare alla sostenibilità?
In Indire mi occupo di formazione di insegnanti in senso ampio, dal punto di vista dei modelli di formazione. Ma da cinque-sei anni a questa parte ho cominciato ad approfondire la formazione sui temi dell’Educazione allo sviluppo sostenibile (Ess) e alla Cittadinanza globale (Ecg), che il Ministero ha chiesto all’Istituto di portare a tutti gli insegnanti italiani, in seguito all’approvazione dell’Agenda 2030 dell’Onu per lo sviluppo sostenibile. In seguito ho portato Indire a aderire ad Asvis, l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile.
Sono diventata uno dei cinque coordinatori del gruppo di lavoro di Asvis sul goal 4 dedicato a Istruzione di qualità e del gruppo di lavoro trasversale che riguarda l’educazione allo sviluppo sostenibile.
Qual è il ruolo di Asvis in questo quadro? L’alleanza conta oggi più di trecento aderenti: enti pubblici, soggetti non governativi e del terzo settore, privati, fondazioni, università. Credo che la diversità dei membri che la compongono sia la forza dell’alleanza, insieme alla struttura di lavoro che Asvis si dà: esprimere dei contributi di orientamento o di valutazione sulle politiche nazionali, guardandone l’impatto in prospettiva rispetto ai temi dei 17 goal dell’Agenda.
In particolare sul tema dell’educazione allo sviluppo sostenibile abbiamo pubblicato lo scorso 17 ottobre il quaderno Target 4.7, dedicato all’educazione allo sviluppo sostenibile e alla cittadinanza globale, in senso diffuso e per tutta la vita.
Quali sono gli obiettivi del Target 4.7 e quali quelli del quaderno?
Questo l’obiettivo dichiarato del Target: “Entro il 2030, assicurarsi che tutti i discenti acquisiscano le conoscenze e le competenze necessarie per promuovere lo sviluppo sostenibile attraverso l’educazione per lo sviluppo sostenibile e stili di vita sostenibili, i diritti umani, l’uguaglianza di genere, la promozione di una cultura di pace e di non violenza, la cittadinanza globale e la valorizzazione della diversità culturale e
Quale stato dell’arte emerge dal vostro lavoro? Ci sono già molti strumenti e risorse sia a livello internazionale sia locale, ma siamo ancora indietro nell’utilizzarli per fare sistema e nell’impiegarli con un approccio di analisi sistematica che ci consenta di trarne il meglio. Eppure, come ha ricordato il Presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite Abdulla Shahid nel suo intervento all’High Level Political Forum di luglio 2022, “per spezzare il circolo vizioso delle crisi bisogna fare di più che ‘guardare verso’ un futuro sostenibile: bisogna metterlo in pratica”. L’Ess, l’Ecg e tutte le educazioni “per” certamente contribuiscono a farci vedere un futuro sostenibile, ma soprattutto a metterlo in pratica.
Cosa fare in Italia per migliorare?
Una leva importante è l’educazione civica, che è stata reintrodotta nel 2019. Tutti gli studenti di ogni ordine scolastico devono confrontarsi con questa materia, che prevede anche un voto e non è assegnata a nessun docente in particolare, ma a tutti. Questo è un messaggio che è insieme forte e debole: indica che tutti gli insegnanti si devono preoccupare di insegnare la sostenibilità, ma non è sostenuto da un approfondimento che aiuti gli insegnanti a capire come portare queste competenze nella loro materia. In particolare è emerso che il tema della lotta al cambiamento climatico è molto in ombra nei nostri contenuti curricolari. Non è che non ci sia, ma il fatto che non sia esplicito lo rende secondario. Un punto su cui il quaderno insiste è rendere espliciti questi temi nei contenuti degli insegnamenti.
Nella sua esperienza di formatrice di insegnanti, che atteggiamento ha riscontrato?
Curiosità, ma anche paura di non avere gli strumenti e le competenze per portare questi contenuti nelle loro materie. Quelli che si presentano ai nostri corsi sono persone che danno valore a una finalità dell’insegnamento più alta. Insegnano non solo per insegnare la matematica, la storia o la scienza ma perché sentono che il loro compito è educare alla cittadinanza. In questo modo recuperano un valore fondativo della vocazione dell’insegnante. Da un lato quindi dobbiamo affiancarli, dare loro contenuti, supporto, metodi adatti; dall’altro far sentire loro che in questa esperienza di insegnamento della sostenibilità e della cittadinanza c’è la grande occasione di restituire un valore importante alla loro professione, di dare sostegno al valore della loro professionalità in una fase in cui le sfide educative continuano a crescere.
Maria Chiara PettenatiUna foresta in casa
Da un progetto iconico di riforestazione è nata una attrattiva turistica intervista a ANDREA BARTOLI
legato alla sostenibilità è Countless Cities, una biennale dedicata alle città del mondo con la quale i nostri spazi diventano padiglioni che vengono curati da municipalità, università, designer. Chiediamo ai curatori di raccontarci buone pratiche sostenibili che possano ispirarci rispetto al lavoro che stiamo facendo sul territorio.
Quanto conta la dimensione collettiva nel vostro lavoro?
Andrea Bartoli è notaio e consulente in progettazione strategica, fattibilità e gestione delle organizzazioni culturali e sociali, pubbliche e private.

Ci racconta il progetto Human Forest? Human Forest nasce tre anni fa in un momento in cui tutti parlano di ambiente, ma si fanno poche azioni. C’è una cosa che gli scienziati di tutto il mondo continuano a ripetere che è alla portata di tutti: bisogna piantare alberi! Noi che non siamo scienziati e nemmeno tanto esperti del tema, abbiamo accolto l’indicazione e deciso di insediare una foresta all’interno di un palazzo nobiliare in rovina a Favara, non distante da Agrigento. Se è possibile piantare gli alberi lì, ci siamo detti, allora forse è possibile farlo anche negli spazi esterni, nei cortili, negli spazi di risulta. Abbiamo un centro storico a Favara abbastanza devastato, ci sono stati tanti crolli, e ci piacerebbe partire dalle zone limitrofe a questo palazzo per far forestare gli spazi pubblici. Ma a dispetto di quelle che sono le indicazioni internazionali ed europee, quando ci confrontiamo con l’ufficio tecnico e chiediamo le autorizzazioni per poter piantare a nostre spese degli alberi nello spazio pubblico non riusciamo a spuntarla. Il nostro è un atto di denuncia, una provocazione, ma anche un gesto iconico perché tutte le persone che hanno visitato questo luogo negli ultimi tre anni (sono state tante, parliamo di almeno trenta-quarantamila persone), si sono portate a casa un’emozione. Human Forest fa parte di Farm Cultural Park, il nostro centro culturale indipendente.
Che attività svolgete con Farm Cultural Park? Lavoriamo con l’arte, la cultura e l’educazione: strumenti per dare una nuova possibilità, accendere le luci, far respirare le città in cui lavoriamo. Abbiamo iniziato dodici anni fa a Favara, ma dal 2022 siamo operativi anche su Mazzarino, in provincia di Caltanissetta. Mazzarino, già centro propulsore di cultura all’epoca del principe Carlo Maria Carafa, è considerata la perla del barocco siciliano della provincia nissena per la bellezza delle sue chiese e dei suoi palazzi nobiliari. Abbiamo numerosi progetti espositivi, in questo momento ospitiamo Radical she, quadriennale dedicata a temi del gender equality, dell’empowerment e della leadership femminile. Un altro progetto
Moltissimo. Il patrimonio più importante di Farm è il capitale relazionale, questa grande comunità multiforme, locale e internazionale che condivide dei valori e una missione, e si mette al servizio di un progetto cercando di portarlo avanti. Chi ci visita a Favara o a Mazzarino diventa un pezzo della nostra comunità, e spesso ci dà una mano come può. L’altro aspetto fondamentale è la continuità: abbiamo iniziato dodici anni fa e non ci siamo più fermati. Questo conta perché è molto faticoso avere degli spazi permanenti sempre aperti, si corrono molti rischi. Ma quando nella vita hai avuto qualcosa dagli altri devi restituire quel pizzico di fortuna in un asset per il benessere collettivo. Questo non vuol dire che tutti a Favara o a Mazzarino capiscano quel che facciamo, per chi magari non ha mai visitato un museo è difficile capire un centro culturale indipendente che mette degli alberi all’interno degli edifici. Anche se devo dire che Human Forest, a differenza dei nostri progetti espositivi, arriva a tutti: ai bambini, agli adulti, ai laureati e a chi non ha studiato mai. Questo è un po’ un miracolo, la forza delle piante, hanno una magia che parla una lingua universale come la musica. Ci ha colpito molto vedere tanta gente che non è mai entrata nei nostri spazi espositivi, che vuole vedere questo palazzo perché ne rimane emozionata.
Che effetto ha avuto il vostro progetto sul turismo a Favara?
Favara non era una città turistica. Oggi Farm ha circa quindicimila visitatori paganti l’anno, cui vanno aggiunti gli ospiti, quattro-cinque mila, e le persone che vengono a Favara a fare un giro. Non pagano il biglietto per visitare le mostre, ma visitano gli spazi esterni: si arriva così a sessanta-settantamila persone all’anno. Nel 2010 a Favara c’erano sei camere d’albergo, oggi siamo a seicento posti letto. Insomma, abbiamo creato il turismo a Favara.
Il legno riciclato sale sul palco
We are Walden, la community di Rilegno, cresce e realizza i primi progetti intervista a VALERIO RIGAMONTI

Valerio Rigamonti è
un architetto freelance italiano e ha un master in Architettura al Politecnico di Milano. Attualmente collabora con l’iniziativa di Rilegno We are Walden.

Com’è iniziata la tua esperienza con We are Walden? Un po’ per caso: a inizio dell’anno l’algoritmo di Instagram, sapendo che cerco spesso informazioni sulla sostenibilità, mi ha proposto questa iniziativa. A parte il mio lavoro di architetto, mi tengo sempre delle porte aperte verso altri mondi, e stavo cercando qualcosa per cui valesse la pena impegnarsi. Alle prime riunioni di We are Walden tutto era da costruire, eravamo in tanti e sapevo che il numero di partecipanti sarebbe andato inizialmente scemando. Però fin da subito ho visto grandi potenzialità. Sapevo anche che la presenza di Rilegno assicurava una solidità ottima per realizzare progetti concreti. E con il coordinatore Mariano Chernicoff c’è stata subito sintonia.
Com’è proseguita?
Abbiamo cominciato a costruire la nostra identità, chiedendoci perché We are Walden esiste, cosa vuole fare, dove vuole andare. Ognuno di noi ha la propria visione, pian piano stiamo cercando di allinearci. Quello che vedo personalmente è che questo gruppo, prima di essere una community, è un gruppo di de-
signer, architetti e creativi, che lavora per fare divulgazione sui temi della sostenibilità e del mondo dei makers, i nuovi artigiani 2.0, persone che realizzano progetti con le proprie mani. La nostra formazione ci spinge a focalizzarci su determinati aspetti del vasto campo della sostenibilità. Ora siamo un gruppo di lavoro un po’ più consolidato, seguito da una community che speriamo di espandere sempre più, cui offriremo, oltre alla divulgazione, la possibilità di partecipare a iniziative concrete, quindi un incontro e uno scambio nel mondo reale oltre che in quello digitale, che pure rimane importante. Alla realizzazione del canale Telegram è seguita quella del canale Instagram, cui ho lavorato insieme a Federica, per creare l’immagine di chi siamo e ad espanderci.
Verso cosa vi muovete?
Abbiamo vari obiettivi. Con la creazione di un’identità digitale da cui stiamo partendo vogliamo consolidare la community, attraverso la divulgazione di notizie che possano interessare chi ha coscienza dei temi di sostenibilità contemporanea. Non le notizie
che vogliono un po’ farti la morale e ti fanno sentire in colpa, ma quelle che indirizzano verso le scelte che ognuno di noi può fare per cercare di fare meno danni possibile all’ambiente. Inoltre il nostro gruppo di lavoro è un’opportunità concreta per chi ci lavora e per chi lavorerà con noi a livello anche professionale. Non sempre a dei giovani studenti che escono dall’università per entrare nel mondo professionale vengono date possibilità in cui c’è questa libertà di dimostrare le proprie capacità. Credo che questo gruppo sia fatto di professionisti giovani sempre più bravi a fare quello che fanno. Un gruppo di lavoro che se avrà forza magari riuscirà a sostenersi da solo, anche se qui si rischia di entrare nell’utopia… Intanto siamo entrati in azione, realizzando il primo progetto concreto: un palco teatrale in 59 moduli di legno riciclato per una scuola elementare e media di Torremaggiore, in provincia di Foggia. È stata l’opportunità, sia per chi ha partecipato al progetto sia per chi è andato a costruire sul posto, di fare un’esperienza e imparare qualcosa che all’università non avrebbe trovato. C’è una componente di crescita: chi entra in contatto con noi ha la possibilità di evolvere.
Ci racconti com’è andata questa vostra prima esperienza sul campo?

Dopo che la scuola ha espresso la sua richiesta e Rilegno l’ha accettata, io mi sono occupato della progettazione del palco con l’aiuto di Luisa, una ragazza che fa parte del board. C’è stato un primo incontro nel quale abbiamo presentato la proposta alla scuola, che abbiamo dovuto modificare in base alle loro necessità. Individuato il progetto, Mariano ha proposto un budget che è stato approvato da Rilegno, quindi abbiamo cercato i fornitori del materiale. C’è poi stata la fase importante di precostruzione nel laboratorio allestimenti del Politecnico di Milano, cui hanno partecipato persone del board di We are Walden. Alcune studentes-

se come Valeria e Greta che hanno lavorato molto al Politecnico sono state premiate avendo la possibilità di andare in Puglia per vedere con i propri occhi la realizzazione del progetto, mentre Federico ha avuto il compito di documentare quanto avvenuto in loco. Mi sono poi occupato di comunicare il progetto sui nostri canali social via foto e video.
Quali le caratteristiche del vostro palco? Il progetto è stato pensato per essere molto facile da montare e smontare. È costituito da una serie di moduli diversi simili a cubi che vanno a comporre il palco. Abbiamo utilizzato in massima parte legno riciclato truciolare, per il calpestio invece legno Okumè, un compensato con caratteristiche di rigidezza maggiori e un’estetica migliore. Abbiamo ridotto al minimo le componenti metalliche per una questione di sostenibilità, in modo che i materiali possano essere recuperati e riciclati facilmente. Il risultato ha molto soddisfatto insegnanti e alunni della scuola, che è molto attiva nella realizzazione di spettacoli musicali e quindi aveva decisamente bisogno del palco.


Cosa pensi in generale dello stato dell’arte del lavoro a favore della sostenibilità? Da una parte è un bene che sostenibilità sia diventata una parola forse abusata, perché questo permette di diffonderla a chiunque. A forza di sentirne parlare anche i normali consumatori sono spinti a farsi domande e ad agire di conseguenza. D’altra parte c’è un abuso di questa parola nel mondo dell’architettura e del design per mascherare con l’etichetta della sostenibilità iniziative che in realtà di sostenibile hanno molto poco. C’è ancora forse un gap di conoscenza e valutazione da parte di ognuno di cosa sia davvero sostenibile. Ma esistono sempre più gruppi come il nostro che cercano di diffondere informazioni che possono creare una coscienza comune, per cui in futuro la parola sostenibile corrisponderà effettivamente a ciò che vedremo. È un tema molto difficile, al momento non è nella top list dei governi, che la mettono in secondo piano per far fronte alle emergenze del periodo storico attuale segnato dalla guerra. Non c’è ancora un livello di coscienza tale da mettere questo tema concretamente in cima alle priorità.

Quanto è importante in We are Walden lavorare in gruppo ai temi della sostenibilità?
La dimensione collettiva è molto importante. Per esperienza anche nell’ambito lavorativo quasi mai ci sono opportunità per le persone di mettersi assieme in modo spontaneo a lavorare a qualcosa che magari non tutti hanno chiaro dall’inizio, ma in cui tutti credono sulla base dei valori stabiliti inizialmente. Quel che mi ha attirato è proprio il principio valoriale, poi dallo stesso gruppo possono nascere idee diverse, l’importante è consolidarlo. Questo è stato un anno di test e credo sia andato bene, la sfida più grande sarà sedersi a un tavolo e pianificare meglio i prossimi, forti di una struttura e di una coscienza maggiori di quel che stiamo facendo.
FEDERICA, 24
Studio Digital&Interaction design. Seguo molto le attività di divulgazione di We are Walden perché sono trattate in modo positivo e propositivo. Penso che il tema della sostenibilità sia molto delicato, a volte scoraggiante: trovare una chiave per motivarci ad agire per cambiare le cose è fondamentale.
UMBERTO, 22
Studio economia e finanza all’Università Bocconi. Ho trovato in We are Walden una rete di comunicazione efficiente, un luogo di incontro, confronto e approfondimento molto utile, perché è la conoscenza che ci rende consapevoli e liberi delle proprie scelte.
Con il legno riciclato facciamo aria pulita
Così un’azienda campana produce biofiltri per i fumi di combustione
intervista a RENATO CIAMPACiampa è fondatore di EcoResolution e Ceo del Laboratorio Centro Diagnostico Baronia srl. Laureato in Ingegneria, autore e divulgatore in ambito ecologico, pioniere ed esperto di economia circolare, è inventore del metodo biofiltrante Better per la biodegradabilità e depurazione dei fumi di combustione ed altri brevetti innovativi per la sostenibilità ambientale e promotore del Ciclo Integrato dell’Aria.

Come passate dal legno riciclato ai depuratori dell’aria?
Prendiamo le materie prime seconde recuperate dal ciclo degli imballaggi, le trituriamo e innestiamo del compost. In questo modo creiamo biofiltri, che tramite i batteri metabolizzano gli inquinanti e li trasformano in fertilizzanti, utili per coltivare anche la biomassa che è la materia prima di cui sono composti: un perfetto esempio di economia circolare. Siamo i primi al mondo a biofiltrare i fumi di combustione, abbattendone gli inquinanti. È un po’ come se ci fosse un assaggiatore che sente l’aria prima che la respiriamo, utilizzando i batteri che si nutrono degli inquinanti per trasformare per esempio i Nox, che fanno molto male soprattutto ai bambini, in nitrati, fertilizzanti utili per il ciclo dell’azoto, diventati tra l’altro più rari e costosi con la guerra in Ucraina.
I depuratori hanno bisogno di risorse naturali per funzionare?
I biofiltri per abbattere le emissioni dovute ai fumi non devono nemmeno sprecare acqua, perché il flusso dei fumi di combustione crea l’umidità che serve al biofilm che si forma sopra il legno. La natura ha concepito i cicli in modo che il problema di uno diventi la risorsa dell’altro: noi per fare incontrare esigenze e necessità montiamo i biofiltri sulle ciminiere. Che a volte, oltre a depurare i fumi dagli inquinanti, trasformano le ciminiere in giardini: così un capannone industriale diventa come un casale toscano ricoperto di edera, più caldo d’inverno e più fresco d’estate, aumentando l’efficienza dell’involucro e diminuendo l’effetto isola, la differenza di temperatura tra costruito e paesaggio naturale, che è di diversi gradi tra la città e la campagna che la circonda.
Siete a Solofra, in Irpinia, e fornite i biofiltri alle concerie…
Solofra è il terzo polo nazionale della concia delle pelli. La pelle è un sottoprodotto della macellazione della carne: si trasforma in pellame il cuoio di bovino, di coniglio e così via. Se non ci fossero le concerie ci sarebbero montagne di pelli in decomposizione, con una grande produzione di CO2. Possiamo vedere le concerie come una sorta di aziende di riciclaggio. Con i nostri depuratori non inquinano nemmeno l’aria.
Pensa che l’abbattimento dei fumi industriali dovrebbe essere fatto con più incisività?
Gli antichi romani inventarono le fognature perché si ammalavano e morivano di malattie veneree: prima di allora i pitali si svuotavano dalle finestre, aspettando che venisse la pioggia a pulire le strade. È esattamente quello che facciamo oggi con i fumi di combustione: li buttiamo nell’aria, sperando che il vento, la pioggia e la natura la pulisca. Ma ci sono 400-500mila morti all’anno in Europa per l’inquinamento atmosferico, con un costo sanitario di circa 650 miliardi. I più colpiti dagli inquinanti sono i bambini, perché gli effetti dell’inquinamento sono inversamente proporzionali alla massa corporea. Oggi abbiamo il ciclo integrato dell’acqua e quello dei rifiuti, tra non molto dovremmo definire anche il ciclo integrato dell’aria. Questo dovrebbe avere un impatto anche sulle autorizzazioni per avviare un’attività in un immobile.
Ci fa un esempio?
Prendiamo un capannone di 100mila metri quadrati: tutta l’aria lavorata può essere espulsa anche da un camino di un solo metro quadrato. Si concentra in un piccolo spazio una grande emissione e chi la produce magari deve piantare alberi su una montagna per compensarla. E se invece dovesse installare un biofiltro per annullare la propria impronta ecologica? Questo genererebbe un costo in più sul prodotto: per esempio, acquistando un libro da 20 euro si saprebbe che 2 euro servirebbero a compensare l’impronta ecologica, bilanciando l’inquinamento. I prezzi dei prodotti oggi non sono reali, perché non includono il costo dell’inquinamento. Così molti furbastri bruciano per buttare nell’aria ciò che hanno a terra di solido. Oggi per avere la licenza edilizia bisogna avere lo scarico delle acque a norma, domani chi non ha anche lo scarico degli affluenti gassosi a norma non dovrebbe poterla ottenere. Se quella fabbrica da 100mila metri non può permettersi un biofiltro, non dovrebbe avere la possibilità di svolgere quell’attività: così risolveremmo il problema degli impatti.
La canapa ci salverà
Cresce rapidamente, assorbe CO2 e combatte il caro-bollette.
intervista a LEO PEDONE
Ci racconta la vostra attività edilizia con materiali sostenibili?
È qualche anno che abbiamo una doppia veste: da vent’anni costruiamo case sostenibili e naturali con vari materiali che hanno ricevuto diversi riconoscimenti; e da cinque-sei anni, da quando tra i materiali naturali abbiamo scoperto la canapa e ce ne siamo innamorati, ne siamo diventati anche produttori, attivando delle filiere virtuose. Da esperti della materia abbiamo visto nella canapa come materiale edile delle potenzialità in termini ecologici di uso esponenziale su tutti i territori che gli altri materiali non hanno. Così abbiamo attivato una filiera agricola di produzione della canapa nel Tavoliere delle Puglie, abbiamo intercettato una cooperativa agricola per trasformare il prodotto in un semilavorato utile per la lavorazione industriale successiva.
E poi?
Abbiamo acquisito una vecchia grande industria di manufatti in cemento che cinque anni fa versava in grave difficoltà economica come tutto quel comparto, perché essendo un’attività ormai desueta il mercato la stava un po’ rigettando. Abbiamo fatto una vera operazione di riconversione ecologica su questo stabilimento di Foggia da 25mila metri quadrati, salvando i posti di lavoro, riconvertendo le linee produttive e laddove si usavano prima cementi, inerti minerali con le relative cave e rocce da scavare, li abbiamo sostituiti con inerti vegetali, cioè con la canapa e la calce, che tra i leganti è il materiale più naturale. Questo processo di riconversione industriale ha creato a Foggia un polo di trasformazione e produzione dei materiali in canapa di grande interesse nazionale. Di lì abbiamo iniziato a diffondere in tutta Italia questi sistemi edilizi a base di canapa.
Qual è il segreto della canapa in edilizia?
Lo stelo della canapa non è altro che un piccolo legno. La canapa si semina e in sei mesi produce la più grande quantità di massa arborea in natura, pronta per la raccolta. In soli sei mesi riesce a produrre una sequenza infinita di minitronchi in legno, bacchette lignee fortemente resistenti con il 92 per cento di silicio, come se fosse un legno tropicale. Quindi in pochi mesi riesce ad assorbire dall’ambiente una quantità enorme di CO2: ecco perché è la coltivazione più green. Un ettaro piantato a canapa in un anno sequestra tanta CO2 quanto un bosco della stessa estensione in venti-venticinque anni, perché il bosco cresce molto più lentamente. Nel mondo del legno, si deve individuare un’area dove piantumare, e si sa che dopo poniamo vent’anni si taglieranno i primi alberi. Con la canapa invece si ragiona con un orizzonte semestrale: se decido oggi di fare tremila ettari a canapa, fra sei-sette mesi li avrò già sul mercato. Ecco perché il progetto di scalabilità industriale è molto più interessante, ha una risposta immediata. E c’è dell’altro.
Vale a dire?
È una coltivazione da cui si ricavavano in primis i semi per l’olio di canapa e la fibra per il tessile. Quindi lo stelo che noi utilizziamo nel mattone e negli altri prodotti edili era un rifiuto agricolo. Ecco perché c’è una sorta di assonanza con Rilegno, un rifiuto del campo diventa un prodotto edilizio di grandissima qualità, oltretutto pulendo l’ambiente perché assorbe tanta CO2. Non facciamo altro che aggiornare sulla base delle tecnologie attuali un processo che viene dall’antichità: gli Etruschi prima e i Romani poi usavano la canapa miscelata alla calce per creare impasti rimasti in piedi per millenni.
Quali sono le prestazioni in edilizia della canapa? Lo stelo della canapa è costruito da una sequenza infinita di microalveoli, cioè di vuoti che si alternano a pieni. Questa sua composizione le dà la caratteristica di essere un materiale fortissimamente isolante, che difende sia dal freddo sia, ancora di più, dal caldo; e in più, cosa veramente unica, riesce a equilibrare in maniera osmotica, come se fosse una spugna, l’umidità interna di tutti gli ambienti. Senza nessun tipo di macchinario mantiene caldo d’inverno, fresco d’estate e soprattutto con un tasso di umidità che non supera mai il 62 per cento, che è la prima condizione del comfort e del risparmio energetico. Nel 2019 l’Enea e il Politecnico di Milano hanno verificato in una casa già costruita e abitata in Sicilia che queste caratteristiche fossero reali, nei mesi di luglio e agosto con le temperature e i tassi di umidità altissimi propri dell’estate siciliana. Senza nessun impianto di condizionamento la temperatura interna era di 25 gradi contro 40 esterni e l’umidità del 62 per cento contro l’89-90 per cento esterno. Enea ha quindi affermato che queste tecnologie permettono di risparmiare sull’uso dei condizionatori e quindi della bolletta energetica, un tema di grande attualità; se facessero un test invernale otterrebbero gli stessi risultati.
Le virtù della canapa come materiale edile naturaleLeo Pedone è Ceo di Biomat Canapa.
Nel 2021 abbiamo raccolto e riciclato quasi 2 milioni di tonnellate di legno

Il risparmio di consumo di pari a 2 milioni di tonnellate ottenuto grazie al sistema Rilegno equivale a compensare 1 milione di veicoli che circolano ogni anno
Grazie a Rilegno l’Italia ricicla già oggi il 64,75 per cento degli imballaggi in legno, più del doppio di quanto sarà obbligatorio nel 2030 secondo gli obiettivi fissati dall’Unione Europea.
La filiera nazionale di Rilegno è basata su 1944 consorziati, 394 piattaforme convenzionate, 12 aziende del riciclo, 15 stabilimenti produttivi.
L’ITALIA CHE PRODUCE
TOTALE CONSORZIATI 1.944 LEGNO TOTALE 3.394.066 t* IMMESSO AL CONSUMO TOTALE PALLET RIGENERATI 908.066 t
*IL TOTALE INCLUDE ANCHE GLI IMBALLAGGI IMPORTATI
L’ITALIA CHE RECUPERA
TOTALE PIATTAFORME 394 TOTALE LEGNO RACCOLTO 1.985.251 t AVVIATO A RICICLO
L’ITALIA CHE RICICLA
AZIENDE RICICLATRICI 12 STABILIMENTI PRODUTTIVI 15
Le sedi delle aziende che trasformano il legno in risorsa
BIPAN S.p.A.
Pannellificio Bicinicco (Udine)
Ecobloks S.r.l. Pallet block Finale Emilia (Modena)
Fantoni S.p.A. Pannellificio Osoppo (Udine)
Frati Luigi S.p.A.
Pannellificio
Borgo Virgilio (Mantova) Pomponesco (Mantova)
I-PAN S.p.A. Pannellificio Coniolo (Alessandria)
Gruppo Mauro
Saviola S.r.l. Pannellificio Mortara (Pavia) Sustinente (Mantova) Viadana (Mantova)
Isotex S.r.l. Blocchi legno cemento Poviglio (Reggio Emilia)

Sicem - Saga S.p.A. Cartiera Canossa (Reggio Emilia)
S.A.I.B. Società Agglomerati Industriali Bosi S.p.A. Pannellificio Caorso (Piacenza)
Xilopan S.p.A. Pannellificio Cigognola (Pavia)
Kastamonu S.r.l. Pannellificio Codigoro (Ferrara)
Eco-Resolution S.r.l. Biofiltri Solofra (Avellino)

Ogni giorno le nostre piattaforme raccolgono il legno in Italia
Valle d’Aosta Enval
Piemonte Amiat Ballarini Borgotti Teresa Bra Servizi Cerrirottami Clerico Primino
Consorzio area vasta Basso Novarese
Cooperativa Sociale Risorse Cortini Michele Eco Green
Ecolegno Airasca Elma Ferro e metalli M.M.G.
Relife Recycling Rosso Commercio S.K.M.
S.T.R. Società Trattamento Rifiuti Surico
Vescovo Romano & C. Wood Recycling
Liguria Anselmo Baseco Comet Recycling Di Casale Pietro
F.lli Adriano e Giuseppe Bonavita e figli
Giuseppe Santoro Iren Ambiente RTR Re.vetro
Relife Recycling Riviera Recuperi Specchia Services
Verde Liguria Riciclaggi
Lombardia A2A Recycling Briante Martegani Caris Servizi
Caronni Group Cauto Cantiere Autolimitazione Cereda Ambrogio Convertini
De Andreis - Recuperi e Servizi Ambientali Del Curto Divisiongreen Eco Wood
Ecolegno Brianza Ecolegno Milanoest Ecosan Estri
Focacity Pallets G.L.M. Galli Geo Risorse GGM Ambiente Il Truciolo Isacco Koster
L.D.R. Logistica Di Ritorno Laini Alberto
Legno Pallets Servizi Mantica Rottami Mauri Emilio ME.S.ECO.
Nuova Clean Polirecuperi Rebucart
Rodella Pallets
SABB – Servizi Ambientali Bassa Bergamasca SE.GE. Ecologia
Selpower Ambiente Seval Casei Sima Sorri Tramonto Antonio Tre Emme
Trentino Alto Adige CR3 Ecorott
Energie Ag Sudtirol Umwelt Service F.I.R. F.lli Chiocchetti Galaservice Recycling Lamafer Masserdoni Pietro Santini Servizi Sativa Voltolini Zampoli
Veneto Ambiente e Servizi Arca
Autotrasporti Gruppo Frati Casagrande Daniele Casagrande Dario Centro Recupero Trevigiano Destro Roberto Eredi Ecolegno Verona Ecoricicli Metalli Eco-Trans
ETRA – Energia Territorio Risorse Ambientali Filippi Ecologia Futura Recuperi Intercommercio di Coccarielli Guerrino & C. Intercommercio Isola Futura Morandi Bortot Nekta Ambiente New Ecology Nuova Ecologica 2000 Pegoraro Ranzato Diego Relicyc Relife Recycling
S.E.S.A.- Società Estense Servizi Ambientali Se.fi. Ambiente So.la.ri.
Società Gestioni Ambientali T.M. Truciolo Vallortigara Servizi Ambientali Vidori Servizi Ambientali Zanette Gianni & C.
Friuli Venezia Giulia Autotrasporti Gruppo Frati Eco Sinergie Ecolegno Udine Logica Metfer PR Ecology
Emilia Romagna B. Group Belloni Giuseppe BO-Link Casadei Pallets Cupola Ecolegno Forlì Eurolegno BO Garc. Garnero Armando General Forest Ghirardi Il Solco Coop. Sociale Inerti Cavozza
Iren Ambiente Italmacero L.C.M. La Cart
La Città Verde Soc. Coop. Longagnani Ecologia Maccagnani rottami Marchesini Monti Amato Recter S.E.A.R. Recuperi Salvioli Sandei
Sogliano Ambiente Specialtrasporti T.r.s. Ecologia Tras-press Ambiente
Toscana
Autotrasporti Gruppo Frati Casini Elio Cerroni Dino & Figli Dife Ecolegno Firenze Ecorecuperi Versilia Galeotti Ferro Metalli GCE
Herambiente servizi industriali Mancini Vasco Ecology Marinelli Pianigiani Rottami Real Rugi
Marche
Autotrasporti Gruppo Frati Cartfer Cartfer Urbania Cartonificio Biondi Cavallari Cosmari Costruzioni e Ambiente Dur. Eco Eredi Covi Renzo Ferri & Oliva Gualdesi Immi L.S.L. Lavorazione Scarti Legno P.E. Sampogna Leonardo & C. Umbria Bio Smaltimenti Biondi Recuperi Ecologia F.lli Baldini Ferrocart Gesenu Scarponi Luciano Spalloni Ecosistema Terenzi
Lazio Baldacci Recuperi Bracci Emma C.E.S.PE. C.S.A. - Centro Servizi Ambientali Cassino Espurghi Centro Rottami Cerchio Chiuso D. M. Del Prete Waste Recycling Eco Logica 2000 Ecolegno Roma Ecoprat Ecosystem Ecotuscia F.A.T. Fatone Ferone Fitals Geco Ambiente
Gerica Idealservice Innocenti Intercarta Intereco Servizi M.G.M. Marteco Mediaservice Recycling Pellicano Porcarelli Gino & Co. Refecta RIME 1 Romana Maceri Sabellico Sieco Società Sacite Servizi Ecologici Tecnoservizi Trash
Abruzzo A.C.I.A.M. Cip Adriatica Eco.Lan. Ecoaspa Servizi Ecologici Ecotec GEA L.E.A. Mantini Paterlegno Pavind Rigenera Se.Lecta
Molise R.E.S. West Molise
Campania Ambiente Italia Ambiente Biomasse e Scarti Vergini Di Gennaro Eco Centro Salerno Eco Legnami Eco Sistem S. Felice Ecocart Ecosistem Ecowatt Servizi Ecologici Edil Cava Santa Maria La Bruna Faiella Nicola Fer. Ant. Ambiente Sud Green Energy Revolution Irpinia Recuperi Langella Mario Nappi Sud Pannelli Italia Ravitex S.EN.EC.A. S.R.I. Servizi Gestioni Ambientali Tony costruzioni
Basilicata Decom
Metaplas Paterlegno
Puglia Asia Ecologia C.g.f. Recycle C.m. Recuperi Cave Marra Ecologia Daniele Ambiente Direnzo Ecologistic Ecosveva Fer. Metal. Sud
La Puglia Recupero La Recupero Macero Patruno Group
Recuperi Pugliesi S.e.t.a. Spagnuolo Ecologia Calabria Calabra Maceri e Servizi Circular Factory E. W. & T. Eco Works e Trans Eco Piana Ecologia Oggi Ecology Green Ecomediterranea Ecoross Ecoshark - Igiene Ambientale Ecosistem Lauritano M.I.A. Muraca Poly2Oil Recuperi Costa Rocca
S.E. Servizi Ecologici Servizi Ecologici di Marchese Giosè
Sicilia Bellinvia Carmela Caruter Con.te.a. Coopserservice Dimalò Eco XXI Ecodep Ecogestioni Ecoimpianti Ecomac Smaltimenti Ecorecuperi Etna Global Service FG Gestam L.C.R.
La Sangiorgio Lemac Ma.eco. Marcopolo Morgan’s Niem Omnia
Palermo Recuperi dei F.lli Bologna Pi. Eco Puccia Giorgio Rekogest Riolo Metalli Riu
S.AM. - Sistemi Ambientali S.E.A.P. Sarco
SB Ricicla Sicula Trasporti Sidermetal Trinacria Scavi W.E.M.
Sardegna Eco Silam Ecopramal Pro.mi.s.a. R.G.M. Tecnologie Ambientali Unione dei Comuni Alta Gallura





















