MANAGER DEL FUTURO
Powered by #08 Marzo 2023 Anno VI
MANAGER DEL FUTURO
REACH - MANAGER DEL FUTURO powered by BULLONE
Richmond Italia via Guglielmo Silva 22 Milano 20149 info@richmonditalia.it richmonditalia.it
@richmonditalia @richmond_italia
Bullone
viale Cassala 30 Milano 20143
fondazione@fondazionenear.org
ilbullone.org
@ilbullonefondazione
Il Bullone
REACH è stato ideato e realizzato dal Bullone
Marzo 2023 - Anno VI - Numero 08
In copertina: Matteo Ianza di Eat Pink, fotografato da Stefania Spadoni
Concept: Bullone
Redazione: Stefania Spadoni Direttrice creativa e Photo editor, Francesca Bazzoni Responsabile editoriale, Elisa Legramandi Art director, Eugenio Alberti Autore
Hanno collaborato: Eleonora Prinelli, Marta Viola, Cristiano Misasi, Elisa Tommasoli, Sofia Segre Reinach, Bill Niada, Luciano Attolico
Si ringraziano per i contenuti visivi: Giorgio Romanelli (illustrazione pag 4), Chiara Bosna (illustrazioni pagg 6-7), Sandra Riva (fotografia pag 55), Alberto Ruggieri (illustrazione pag 67), Paola Parra (illustrazione cornice pagg 67-69), Lenovys e Il Bullone (fotografie pagg 68-69), Elisa Legramandi (infografiche pagg 78-82), Davide Papagni (fotografie pagg 8486), Stefania Spadoni (fotografie degli intervistati e fotografie pagg 96-97), Paolo Tosti (fotografie pag 116 e fotografie VOP), Antonella Ficarra (grafica ADV e pagine istituzionali Richmond Italia)
4 Editoriale Claudio Honegger Amministratore unico Richmond Italia 8 Che cos’è Reach 6 Chi è Il Bullone Enrico Zordan - Eat Pink CFO direttore amministrativo e finanziario 16 Profit meets no profit Il Bullone e Saitè 96 VOP - Very Open People Costanza Hermanin e Giulio Sapelli 87 VOP - Very Open People Alessandro Panaro e Umberto Pelizzari 118 Meet the B.Liver Alessia Piantanida 84 Alla scoperta dei valori di Richmond Italia Raccontare la vita - Teodoro Rubino 54 Alla scoperta dei valori di Richmond Italia Responsabili nelle scelte - Ilaria Borreca 110 La posta di Marina Marina Carnevale e i suoi pensieri liberi Paolo Tosti’s Eye L’arte di ricordare la verità 114 Reach ospita Il Bullone Cosa sono gli ESG 66 Reach ospita The Map Report Guerra e clima 42 Dimmi il tuo colore e ti dirò chi sei e qual è il tuo stile manageriale 78 Domus del Chirurgo a Rimini Un passato che sembra futuro 30 Un alfabeto per capire il futuro Richmond Italia 10 116 113 The Bookmaster Sorelle piante, abbiamo molto da imparare 22 Luciano Viticchiè - Ariston Supply chain Italy & global replenishment senior director 48 Alessandra Monasta Performance and business coach / consultente e fonico forense 107 Matteo Ianza - OneStream Software Business development representative 26 Francesca Novella - Despar - Gruppo Aspiag CFO 12 Alessandra Desii - GoodHabitz Responsabile marketing Italia 34 Wanda Gobbi - Tesi Group HR manager 92 Luigi Vallone - DENSO Manufacturing Italia HR manager 70 Elise Fraval - AXA XL Head of HR 38 Simone Ghiazza - Adecco Outsourcing Operation start up manager 98 Enrico Pavanello - Körber Technologies Logistic manager 58 Fabio Taccone - Longino & Cardenal Responsabile operation 62 Giordano Monacelli - Kastamonu IT manager 102 Fabio Santoprete - Merck Group Global Sr. IT/OT program manager 74 Giulio Raineri - Repower Italia CTO 88 Francesco Ciuccarelli - Alpitour CIO e CTO 44 Raimi Schibuola - Alessi IT manager 57 VOP - Very Open People Vittorio Emanuele Parsi e Padre Natale Brescianini
You have the power to change
Caro lettore, qualcuno ha detto che il potere (ma lasciatemelo dire in inglese, power, forzando le regole, perché mi suona meglio e mi dà la carica) è per il 50% sapere e per 50% azione. Ecco, il primo è la glicerina e la seconda è il nitronio. Oggi voglio parlare di power per invitare tutti – i manager con cui interagiamo, i miei contatti di lavoro, i colleghi e le persone del mio team, ma anche gli amici e i familiari – a non desistere. A non lasciarsi sopraffare dagli alibi che gli analisti economici tracciano, che tengono conto giustamente dei fattori geopolitici negativi che stiamo attraversando o di problemi anche strutturali, come indebitamento e inflazione.
Personalmente, tendo a non fidarmi eccessivamente delle previsioni positive (e sono poi puntualmente felice di essere smentito, quando invece si realizzano), ma nemmeno di aderire in modo acritico alle previsioni fosche, che affossano lo spirito di agire. Mi riservo un piccolo delta, anche irrazionale se volete, per il quale occorre agire a prescindere da come andrà a finire, e anche se le condizioni esterne non sembrano perfettamente indicate. Il fatto è che le suddette previsioni non tengono conto del mio caso isolato che non ha seguito le consegne di incrociare le braccia. E se poi il mio caso isolato non fosse così isolato? Allora una rete di puntini imprevisti andrebbe a impattare sugli scenari pesti, e già le cose, forse, non sarebbero così tragiche.
Le persone che fanno impresa e gestiscono business hanno il potere di farlo, naturalmente, ma hanno anche qualcosa in più: la responsabilità di spingere i processi in avanti anche quando le motivazioni degli altri calano. Altrimenti a che ci servirebbero gli imprenditori? Da mio padre Vittorio, che per tanti ha accompagnato le imprese italiane alle fiere di Düsseldorf, ho imparato che tenacia e costanza pagano, non bisogna cambiare le proprie strategie ogni tre mesi. E bisogna metter su il sorriso anche quando magari dentro avresti voglia di tutt’altro.
You have the power. Questo è il messaggio con cui entriamo in un anno nuovo col segno + davanti. Siamo a quota 24 forum in un anno, con una tornata di speaker eccezionali e tanti feed back positivi che ci spronano. Ed è anche un invito ad ascoltare la nostra voce interna, i nostri istinti, la nostra involontaria saggezza. È importante ascoltare gli altri, ma non è meno importante avere cura di ciò che siamo, di chi siamo nella nostra essenza e soprattutto del potenziale di cambiamento che ci portiamo dentro. Potenziale che supera di diverse lunghezze tutte le paure di cambiare messe insieme.
P.S. Non ho resistito alla piccola liturgia di farmi un giretto su internet alla ricerca di quotation sul tema ‘power’. Questa è carina, e la firma Eleanor Roosevelt: “Non consentire a una persona di dirti di no se quella persona non ha il potere di dirti di sì.” E dunque, never forget, you have the power.
Claudio Honegger
Amministratore unico Richmond Italia chonegger@richmonditalia.it
5
Chi è il Bullone?
Il Bullone è una fondazione no profit che attraverso il coinvolgimento e l’inclusione lavorativa di ragazzi che hanno vissuto o vivono ancora il percorso della malattia, promuove la responsabilità sociale di individui, organizzazioni e aziende. I ragazzi si chiamano B.Liver e la loro esperienza genera
Il Bullone, un nuovo punto di vista che va oltre il pregiudizio e i tabù verso uno sviluppo sociale, ambientale ed economico sostenibile
Il Bullone è pensiero: un giornale, un sito e i canali social, i cui contenuti sono realizzati insieme a studenti, volontari e professionisti per pensare e far pensare.
Il Bullone è azione: esperienze con i B.Liver, progetti di sensibilizzazione, lavoro in partnership con le aziende.
Per saperne di più visita ilbullone.org
Il Bullone Jewel
Il nostro simbolo racconta di un’energia che ci unisce e ci fa andare oltre. Oltre la malattia, oltre i pregiudizi, oltre le apparenze, consapevoli che in questo percorso corriamo insieme. Lo puoi comprare sul nostro e-shop!
Interviste pazzesche
Negli anni Il Bullone ha dato vita a inchieste e interviste esclusive, durante le quali i B.Liver si sono confrontati con grandi personaggi del panorama nazionale e internazionale su temi come la pace, la sostenibilità, la cura e la lotta alle discriminazioni. Tra alcune delle conversazioni più emozionanti, quella con Piero Angela, giornalista, divulgatore scientifico, saggista e presentatore. Con lui abbiamo parlato di fake news e dell’importanza di una divulgazione attenta e corretta delle notizie. Un prezioso contributo che il giornalista ha lasciato al Bullone prima della sua scomparsa.
Giornalismo sociale
Il Bullone ha ricevuto il riconoscimento dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia che infrange le regole e per ottantaquattro giornalisti del Bullone (anche per chi da sempre lo fa come volontario) ha rilasciato i tesserini di giornalista pubblicista ad honorem per l’impegno sociale e la sensibilizzazione che ognuno di noi, sia chi percepisce uno stipendio, sia chi no, ha messo in ogni singola parola degli articoli che ha scritto. Ci sono anche quattro tesserini speciali realizzati per Eleonora Papagni, Alessandro Mangogna, Leonardo Ghilardi e Andrea Balconi che, chissà, forse continuano a scrivere da sopra le nuvole con la passione che sempre li ha accompagnati quando lavoravano con noi.
I libri del Bullone
La scrittura è lo strumento principale che il Bullone utilizza in tutti i suoi progetti e tramite la quale attiva nel lettore, attraverso la narrazione, una riflessione interiore. Negli anni la fondazione è stata protagonista di alcuni libri, dove tante penne si incontrano per racconti e osservazioni unici nel loro genere.
Per scoprire i libri del Bullone visita il sito bulloneshop.org
ORDINARIO SMARRIMENTO L T T D
Cos’è Reach?
Reach è un magazine semestrale e un progetto di comunicazione sociale, realizzato dal Bullone in collaborazione con Richmond Italia
Nasce nel 2018 con l’intento di raccontare i Richmond business forum attraverso l’incontro con i partecipanti agli eventi, raccogliendo spunti che siano d’ispirazione per il manager del futuro
Reach propone una nuova idea di azienda grazie ad articoli, interviste e contributi di coach professionisti, ospiti illustri e imprenditori che raccontano le proprie storie.
Storie di vita, storie di business, storie di “inciampi” che non li hanno fermati. Qualsiasi esse siano, sono storie che svelano, insegnano, ispirano. E sono storie straordinarie.
In questo numero troverai tante novità e nuove rubriche scritte dai B.Liver, i ragazzi beneficiari della fondazione, che contribuiscono attivamente alla riuscita di questo prodotto editoriale.
Leggi il numeri precedenti di REACH su issuu.com/richmonditalia
Buona lettura dalla redazione di Reach!
Reach è un magazine semestrale, al quale ci si può abbonare al costo di 100 euro l’anno, detraibili fiscalmente. Basta fare una donazione a:
Fondazione B.LIVE ETS, IBAN IT75U0623001614000015408620
indicando nella causale Donazione Reach 2023, nome, cognome e indirizzo per la spedizione.
Abbonandoti fai la cosa giusta anche sul piano solidale: sostieni le attività sociali dedicate ai ragazzi del Bullone.
ABBONATI A REACH E LASCIATI ISPIRARE!
8 USQUE AD FINEM
each La vita è troppo bella per avere paura sono ragazzi affetti Richmond Italia sono ragazzi che #01 Powered by
Strategie, modelli di business, mercati e tecnologie: tutte le risposte di cui hai bisogno per non arrivare impreparato all’appuntamento col futuro le trovi qui. Never forget, you have the power.
9
RIMINI 26-28 MARZO 2023 EDIZIONE SPRING
RIMINI 25-27 OTTOBRE 2023 EDIZIONE AUTUMN
UN ALFABETO PER CAPIRE IL FUTURO
A ciascuna intervista realizzata per questo numero è stato associato un simbolo che fa parte di un “alfabeto del cambiamento” creato da Richmond Italia a supporto della campagna di comunicazione in corso e incentrata sull’importanza di prefigurare il futuro. Se le icone misteriose ti hanno incuriosito, qui sotto trovi i significati di ciascuna di loro.
LA PARTECIPAZIONE
Non stare a guardare, sentirsi coinvolti e responsabili del futuro
LA CONSAPEVOLEZZA
Aprire gli occhi, saper guardare, essere vigili
IL CAMBIAMENTO
Aver coraggio, saper rischiare uscire dall’area di comfort
L’EQUILIBRIO
Mirare a un futuro sostenibile, la sintesi fra essere e avere
L’EMPATIA
Human2human, l’incontro, lo scambio, il lato umano del business
L’IMMAGINAZIONE
Una, cento, mille idee che germogliano
LA FIDUCIA
L’ottimismo, la voglia del fare, l’intraprendenza, lo sguardo aperto
LA COMPLESSITÀ
Sapersi orientare, risolvere i problemi, non temere il labirinto
IL PENSIERO GENERATIVO
Assecondare connessioni, lasciarsi andare alle intuizioni, ascoltare
LA CRESCITA
Il movimento, andare avanti, raggiungere gli obiettivi
IL RISPETTO
Il vero bene comune è trattare gli altri come vorresti essere trattato tu
LA PROGETTAZIONE
La forza dell’ingegno, la dignità della ragione, la fiducia nella tecnica
12
La storia di Alessandra
Responsabile marketing Italia GOODHABITZ
La rivoluzione dei dettagli
Ho origine leccesi e dieci anni fa mi sono trasferita a Milano per studiare economia. Venendo dal liceo classico ho vissuto un po’ come una tortura questo periodo, ma poi quando ho fatto l’esame di Marketing è veramente scoppiata la passione per questo mondo e per tutto quello che è raccontare un brand. Senza escludere qualche lotta interiore, data da una mia componente morale molto alta che in alcuni casi va a mitigare degli aspetti legati al mondo del marketing e della comunicazione, trovo che il bello di questo lavoro sia che ti consente, se scegli la direzione giusta, di raccontare e trasmettere in maniera coinvolgente la parte migliore, il bello di quello che la tua azienda fa.
Mi sono specializzata nell’ambito della comunicazione e media management, dopodiché ho lavorato per un periodo in un’agenzia media per capire in breve tempo che quel mondo non mi appartiene. Mi piace sentire che quello che sto facendo sia finalizzato a qualcosa che in qualche modo diventa mio e nel mondo dell’agenzia ti passano davanti innumerevoli progetti per cui vedi il risultato ma non hai la sensazione di conoscere il brand fino in fondo e di conseguenza la possibilità di credere al 100% in tutto quello che fa e fai. Mi sono quindi spostata verso il mondo aziendale, ho lavorato in BlaBlaCar per un anno e mezzo. Questa esperienza si è conclusa purtroppo per via dei cambiamenti dovuti all’emergenza covid ma è stato bellissimo per me scoprire il mondo di questa straordinaria community.
Ho iniziato a guardarmi intorno e ho incontrato GoodHabitz, che in Italia esisteva da pochissimo. Quando ho letto la job description ho pensato che fosse proprio quello che stavo
cercando, mi è piaciuta subito questa realtà perché consente a tante persone di migliorarsi e di apprendere sempre qualcosa di nuovo. In un contesto come quello professionale che non sempre ti invoglia realmente ad uscire dal tuo seminato, è importante crescere per il proprio benessere e non solo per la performance. Mi è sembrata un’opportunità meravigliosa e il fatto di entrare in un’azienda che a livello italiano era giovanissima e quindi di partire quasi da zero è stato molto stimolante. Lavoro lì da due anni e mezzo e ad oggi ho veramente la sensazione che si possa trovare tutto ciò che c’è di stimolante anche nel panorama internazionale, dato che c’è un’altissima contaminazione tra tutti i paesi. Questo è il frutto di un lavoro a cui ho partecipato e che ho potuto apprezzare nelle varie fasi.
Ho realizzato che nel mondo del B2B si può fare marketing in una maniera assolutamente coinvolgente, soprattutto quando hai un prodotto che te lo consente, come in questo caso, ma è fondamentale anche il modo in cui decidi di approcciarti all’azienda. Noi abbiamo un’impronta nordeuropea che crea contrasto con quella che è l’immagine tipica del mondo professionale in Italia ma riconosco che sta avvenendo una crescita nel nostro Paese, una piccola rivoluzione che stiamo portando avanti insieme ad altre aziende che hanno deciso di togliere il velo dell’eccesso di burocrazia e di formalità, con la conseguenza di rendere il mondo aziendale più aperto e meno stressante, inclusivo nel senso più ampio. Ci sono aziende che magari due anni fa non erano pronte a un prodotto come il nostro ma che nel tempo hanno cominciato a vedere i competitor o le aziende che prendono come punto di riferimento aprirsi
13 La storia
di Alessandra Alessandra Desii
sempre di più e occuparsi dei propri collaboratori. Utilizziamo il più possibile la parola collaboratore, perché il termine dipendente rimanda a un rapporto di subordinazione. Generalmente a livello di linguaggio ci sono diversi termini sui quali cerchiamo di fare attenzione, per esempio parliamo il meno possibile di soft skills, perché in qualche modo questa espressione le sminuisce mentre non sono assolutamente competenze di secondo livello. In alcune professioni, se non hai una competenza specifica non entri ma le competenze trasversali sono un aspetto molto importante che può fare la differenza; più spesso le chiamiamo power skills o human skills, a seconda del contesto. Quando ci rendiamo conto che il mondo sta cambiando direzione e la nuova prospettiva che si sta facendo strada ci calza meglio addosso, cerchiamo di adottarla a nostra volta. Un’altra battaglia è quella che riguarda il linguaggio principalmente declinato al maschile, cerchiamo di eliminarlo il più possibile nei testi utilizzando una perifrasi ugualmente di senso che vada nella direzione di abbracciare tutti.
miglioramento. Quando il meccanismo si attiva percepiamo chiaramente che la gente ha fame di scoprire qualcosa di nuovo, però in azienda un percorso formativo può essere percepito come lavoro aggiuntivo oppure non ci si aspetta che l’azienda possa offrire possibilità che vanno a migliorare effettivamente l’esperienza. Manca il famoso ritorno sull’investimento: in questo caso l’investimento è il tempo, e tutto sta nel far capire il valore di ciò che si può ottenere da questi corsi. Io stessa continuo ad alimentare la mia formazione, abbiamo anche un’academy che ci offre una serie di contenuti grazie ai quali cerco di tenermi aggiornata perché in questo settore le cose cambiano molto velocemente. Mi piace avere a disposizione tanti contenuti tra cui scegliere, a volte li cerco per necessità, altre per scoprire una cosa completamente fuori da ciò che mi serve nella vita quotidiana.
Ho iniziato a vivere bene da quando ho iniziato a capire perché avevo deciso di intraprendere proprio quel determinato percorso. Tutto il mio cammino è stato pieno di ostacoli, che spesso
HO INIZIATO A VIVERE BENE DA QUANDO HO INIZIATO A CAPIRE PERCHÉ AVEVO DECISO DI
Credo che nell’aderire a servizi come quello che offriamo ci sia una componente influenzata dal fatto che oggi non è più possibile farne a meno, ma mi auguro che i benefici vengano pienamente percepiti. A volte ci capita di incontrare realtà che non riconoscono ancora il valore di offrire servizi di formazione trasversale all’interno dell’organico aziendale, ma è essenziale che tutti abbiano l’opportunità di crescere e migliorarsi, anche in un’ottica di lavoro più sostenibile.
Diventa fondamentale tenersi al passo anche con esperienze che sono fuori dalla propria zona di comfort a livello professionale ma che possono essere di supporto in tanti altri aspetti, come nel caso in cui la persona scopra una nuova propensione. Generalmente non siamo abituati dopo la scuola a continuare a formarci e quindi tendenzialmente capita che o lo si faccia perché obbligati oppure, la maggior parte delle volte, non lo si faccia perché non sappiamo nemmeno cosa abbiamo a disposizione. Qui entra in gioco il ruolo dell’azienda, che non solo deve mettere a portata di mano dei propri collaboratori una serie di strumenti di formazione continua, ma deve comunicarli ripetutamente per invogliare all’utilizzo e al
ho messo da sola perché ho sempre cercato di contare prevalentemente sulle mie forze. A livello professionale non ho mai voluto passare tramite conoscenze e questo mi dà grande soddisfazione. Venendo da una città piccola come Lecce, in cui vivi e cresci in un contesto protetto, scontrarsi con una realtà come Milano dove nessuno si cura di ciò che fai ha un grande impatto. Io volevo cavarmela da sola ed è stato bellissimo rendersi conto di avere un milione di possibilità davanti a sé, cosa non scontata in altre città.
Inizialmente tendevo a rimanere nella mia comfort zone, con persone che venivano da contesti simili al mio ma che avevano fatto percorsi di studio e lavorativi molto diversi dai miei, poi ho iniziato ad acquisire sicurezza, a capire chi volevo diventare e il perché avessi scelto di fare certi sacrifici come trasferirmi dall’altra parte d’Italia. Lì è cambiato tutto, ho percepito il pieno beneficio del nuovo contesto, sono entrata in contatto con persone con i miei stessi interessi, con il mondo che più amo in cui sono tutti creativi, e ho capito come sopravvivere in un ambiente più o meno grande. Ho tante persone intorno che se potessero tornerebbero a casa domani, io invece sono nella mia dimensione: oggi vedo molti più stimoli, innovazione e creatività.
14
La storia di Alessandra
PROPRIO QUEL DETERMINATO PERCORSO
INTRAPRENDERE
15
La storia di Alessandra
16
La storia di Enrico
CFO direttore amministrativo e finanziario EAT PINK
La consapevolezza del cambiamento
Sono una persona che ha sempre cercato di coltivare una certa ambizione, avevo voglia di imparare e ricoprire ruoli di responsabilità, contribuire a guidare l’azienda con il mio modo di pensare.
La mia grande curiosità a volte può portarmi anche a disperdere le energie, infatti mi appassiono a molte cose, a volte sperimentando la sensazione che non basta mai ciò che faccio. Il rischio che percepisco è quello di farsi assorbire un po’ troppo, e il mondo, per come corre velocemente in questo momento, non aiuta nemmeno a restare ancorati a qualcosa.
Nel 2003 mi sono laureato in economia a Modena e ho iniziato a lavorare in un istituto di credito, anche se non era l’attività che in quel momento mi interessava svolgere, perché in realtà volevo insegnare. Molti anni dopo ho partecipato quasi per gioco a un concorso pubblico entrando in graduatoria ma a quel punto ho rinunciato perché da poco ero diventato direttore; per sedici anni ho lavorato in banca. Una posizione da considerarsi ambita per il grado di autonomia, che mi ha permesso di conoscere sempre persone diverse.
Quattro anni fa ho fatto un salto importante, sono andato a ricoprire il ruolo di CFO di
un’impresa industriale. Dal punto di vista professionale, di settore e di attività, è stato il cambiamento che cercavo perché negli ultimi anni mi ero reso conto che ero poco soddisfatto, sempre meno motivato. Mi sono attivato per cogliere altre opportunità e in questo modo ho trovato la strada che poteva rispecchiarmi di più in quel momento. Prima di effettuare la scelta ho ragionato molto su quali fossero le mie reali necessità che mi portavano alla ricerca di un cambiamento. In generale, vale ancora l’idea che lavorare in banca garantisca una certa sicurezza, per cui non era scontato che potessi decidere di prendere un’altra strada.
È stata una scelta non semplice, che ho condiviso con la mia famiglia. Oggi posso dire che non mi sono pentito, anzi ho fatto un percorso interessante e mi sono “divertito” in questi ultimi quattro anni. Se ti metti in un’ottica di crescita e soddisfazione quotidiana, hai la garanzia di avere la forza necessaria di capire quando cambiare e ripartire, uscire dalla zona di comfort e cercare nuove sfide. La paura che avevo cambiando lavoro era quella di non avere più tempo per la famiglia, quando ho fatto questo passaggio mia moglie aspettava Vittoria, la nostra seconda figlia. La soddisfazione oggi è anche e soprattutto su questo
17
Enrico Zordan La storia di Enrico
fronte, perché sono riuscito a coniugare i due aspetti della vita familiare e professionale. Riesco infatti a coniugare in modo abbastanza equilibrato gli impegni casa-lavoro, riservo del tempo per i miei cari, consapevole del fatto che conta non solo la presenza fisica ma anche e soprattutto quella mentale. Su questo ho iniziato un percorso perché ho realizzato che non avevo piena consapevolezza dei momenti vissuti, li vedevo sbiadire perché ero subito impegnato su un’altra cosa e sentivo di non vivere in maniera profonda le cose che mi accadevano. Ho imparato a domandarmi se quello che sto vivendo è funzionale a quello che voglio veramente. Non è ovvio, perché mi sono reso conto che la dopamina dura per poco tempo, poi l’effetto novità inizia a scemare e c’è bisogno di ricaricarsi ciclicamente e gestire l’energia. Per fare questo, da un lato provo a imparare a prendermi qualche momento per riflettere, utilizzando la meditazione o una passeggiata consapevole; dall’altro utilizzo il canale della formazione: mi piace molto studiare e
uffici. Quando sono arrivato, ogni settore era un’isola e ho cercato di lavorarci mettendo in contatto le persone, facendole proprio incontrare, perché dobbiamo ricordarci che davanti a noi abbiamo prima di tutto una persona e necessitiamo di stabilire un rapporto di fiducia reciproca. Senza rincorrere l’idea che siamo tutti amici, il fine è aumentare il benessere delle persone perché se al lavoro ci sentiamo bene, funziona tutto meglio.
Ho iniziato così ad approcciare agli altri chiedendo come si sentono e ho compreso che la semplice risposta che spesso viene data per cui va tutto bene, non sappiamo cosa significa nella realtà. Se riusciamo ad approfondire il vissuto e lavoriamo costantemente sulla connessione, mantenendo una continuità degli scambi relazionali, piano piano qualche risultato si vede.
Possiamo migliorare solo ciò che possiamo misurare e questo vale anche per quanto riguarda concetti meno tangibili, come il
approfondire determinate tematiche che fino ad oggi non avevo affrontato e trasferirle al mio team di colleghi. Questo percorso mi ha aiutato a migliorare la capacità di gestire le persone in maniera positiva e non dalla prospettiva commerciale, usando un approccio focalizzato sul benessere.
Oggi l’utilizzo così pervasivo delle tecnologie spesso non aiuta le relazioni, anzi tende ad annichilirle. Per fare giusto un esempio, in passato ricordo che tra colleghi avevamo l’abitudine di comunicare attraverso delle lunghe telefonate, mentre ora si mandano messaggi molto più concisi. Oggi è predominante l’utilizzo delle mail, ma se ci pensiamo non è un modo di comunicare molto ricco, piuttosto uno strumento di report oppure una modalità utile a fare una domanda specifica.
Nel mio lavoro devo curare con costanza gli aspetti umani che si inseriscono nelle dinamiche aziendali, perciò ho attuato un percorso con il mio team per favorire il dialogo tra gli
benessere. Si ottengono risultati importanti sulla produttività con questo approccio e le persone che lavorano in quest’ottica di comunicazione risultano di fatto essere più attive. In genere, siamo tutti molto abituati a lamentarci e a sottolineare la presenza dei problemi, al contrario siamo meno fluidi nel trovare soluzioni, soprattutto insieme agli altri. Quindi abituare le persone a risolvere insieme le problematiche è molto importante, come lo è condividere i propri risultati per permettere agli altri di apprendere nuovi punti di vista e pensieri.
Portando avanti delle piccole attività tutti i giorni, in maniera reiterata, il risultato poi si inizia a vedere. Il mio augurio è di poter vivere in maniera più intensa e con gratitudine, perché sono ancora molto bravo a vedere il puntino nero sullo schermo bianco, e questo in realtà mi può rendere la giornata più tossica. Aprirsi a cogliere nuovi spunti, non solo in ambito professionale, è la chiave per non chiudersi in situazioni che non ci fanno stare bene.
18
E
HAI LA GARANZIA
AVERE LA FORZA NECESSARIA
SE TI METTI IN UN’OTTICA DI CRESCITA
SODDISFAZIONE QUOTIDIANA,
DI
DI CAPIRE QUANDO CAMBIARE E RIPARTIRE, USCIRE DALLA ZONA DI COMFORT E CERCARE NUOVE SFIDE
La storia di Enrico
19 La
storia di Enrico
Da marzo a novembre 2023 ogni mercato ha il suo forum
20
21
Tutte le risposte che cerchi in settori strategici fortemente orientati all’ innovazione
Verifica la data delle prossime edizioni e richiedi informazioni
22
La storia di Luciano
Luciano Viticchiè L’arte di variare
Sono nato ad Agrigento in una famiglia con una piccola azienda. Per noi famiglia e azienda sono sempre stati indissolubili. I miei genitori erano un po’ rock e, nonostante il contesto in cui vivevamo non fosse molto fertile, hanno sempre cercato di aprire gli orizzonti a me e ai mei fratelli, un grande merito che riconosco loro, specialmente a mio padre. Mio padre è stato sempre iperbolico: ricordo ancora che una volta, io avevo 8 anni, disse quanto fosse bello essere in cinque in famiglia, perché avevamo così speranza un giorno di poterci trovare ognuno in un continente diverso. La frustrazione di un bimbo di 8 anni divenne il germe dell’uomo di oggi. Quei concetti e quella modalità di pensiero mi hanno portato a seguire un percorso di studi a Torino, dove ho frequentato il Politecnico. Durante il terzo anno di studi ho iniziato a lavorare in un gruppo di ricerca nell’università, lo facevo un po’ per ego, un po’ per gloria, e mi pagavano pure, cosa che sembrava strana in Italia.
Ho poi fatto il dottorato in Ingegneria industriale. Per inteso: se rinasco non lo rifaccio più, il dottorato! Ho perso tempo e ho imparato cose che forse era meglio non sapere,
arrovellandomi con fronzoli che per un po’ mi hanno solo fatto sentire incompreso. L’azienda ha infatti la missione di andare avanti anche se “la bambola non è perfettamente pettinata”. L’attenzione alla raffinatezza dentro un contesto che si deve muovere e deve andare avanti, paradossalmente rischia di frenare l’evoluzione dell’azienda stessa. Una cosa è la ricerca, dove bisogna essere scientifici e rigorosi, un’altra è l’azienda. La possiamo paragonare a un trattore, non a una Ferrari. L’ingresso nel mondo del lavoro è stato quindi particolare, dopo un paio di testate contro il muro ho fatto reset e sono andato avanti. Non ho buttato però niente di quello che ho imparato, semplicemente ho iniziato ad applicare un filtro. Non voglio far passare il messaggio che ho studiato troppo, ma se avessi iniziato tre anni prima il percorso in azienda ora sarei più avanti, di fatto ho iniziato lavorare a 28 anni invece che a 25. Tornando indietro sceglierei l’esperienza invece dello studio, l’università italiana ci prepara abbastanza al mondo del lavoro ma non del tutto. Vero è che forse da noi l’università ha un approccio più antico, quindi più solido, ma più antico, almeno per la mia genia. Alla fine del dottorato mi sono spostato a fare
23
La storia di Luciano
Supply chain Italy & Global replenishment senior director ARISTON
logistica per CNH, a suo tempo la figlia bella del gruppo Fiat. In ogni lavoro che ho fatto nella mia vita non penso di aver mai lasciato il perimetro che ho toccato, piccolo o grande che fosse, nella stessa maniera in cui l’ho trovato. Non ho mai avuto paura della responsabilità. Fin dall’inizio, anche da interinale, mi sono preso la briga di cambiare e di guardare le cose da un angolo diverso, anche per lavori che magari da decenni venivano fatti in una certa maniera. Oggi mi si prende più sul serio e devo moderare le cose che dico o faccio perché rischiano di avere un peso significativo, ma questo non cambia la mia indole.
In CHN scoperchiammo molti vasi di Pandora. Nel 2008 producevamo come locomotive, fuori dagli stabilimenti dai cui uscivano gli escavatori c’erano i camion che aspettavano di portar via le macchine pronte. Con la crisi di Lehman Brothers, in tempo zero abbiamo
In CHN lavoravo molto con il Brasile, ho iniziato a fare trasferte e ad avere rapporti con i colleghi di lì. Mi proposero di trasferirmi, decisi che volevo farlo ma il mio capo non voleva lasciarmi andare. Io avevo già la valigia pronta e la testa in Brasile, così trovai subito un’altra opportunità per partire. Volevo conoscere e misurarmi con un altro contesto, nel 2013 ci sarebbero stati i mondiali, il Brasile stava crescendo con il governo di Lula.
Lasciai CHN e andai in Brasile. Lì avevo un capo che era disgraziato e geniale allo stesso tempo perché mi lanciava nelle situazioni nuove; dopo un mese che ero arrivato andai a negoziare con Fiat e ancora non parlavo bene la lingua. È stato meglio così, se vedo un’opportunità mi faccio il piano e cerco di portarla a casa, non mi spaventa che qualcosa possa essere troppo, anzi mi gasa. Con la sfida lavoro bene, ma se la pressione è data da un tappo
NON CREDO CI SIA MAI UN TERMINE PER CAMBIARE
E PER CHIEDERSI COSA SI VUOLE.
avuto più di mille macchine invendute sul piazzale, ognuna con infinite caratteristiche specifiche, che corrispondevano a centinaia di migliaia di euro. Uno tsunami di capitale circolante se si pensa che lo stesso è capitato in tutti i piazzali dell’azienda. Quando arrivava un ordine bisognava andare a controllare tra le macchine rimaste se ce n’era una uguale a quella richiesta per poterla vendere. Con gli strumenti in mano in quel momento, era una mission impossible. Mi inventai di scaricare dal sistema le caratteristiche di tutte le macchine rimanenti nel portafoglio ordini, una macro di Excel scritta da me faceva i vari incastri. La prima volta che l’abbiamo usata, ci siamo accorti che stavamo producendo sessanta macchine che avevamo già perché non le avevamo trovate tra quelle disponibili. Sembrava insuperabile quell’idea, ma non lo era: la macro imparò a cercare macchine non uguali, ma simili, a cui bastava cambiare gli pneumatici o la lingua degli adesivi con le precauzioni. Sono sempre andato avanti così, dopo che raggiungo un obiettivo ne intravedo subito un altro. Non mi disturba l’idea di entrare nei problemi, quello che mi spaventa è il non capire come poter uscire da quella situazione scomoda. Se almeno mi illudo di capire da dove posso partire, sono sereno e mi metto a lavorare.
che ti mettono o se sento che il contesto non è produttivo per ritrosie o freni inutili, scoppio e cinque minuti dopo sto mandando cv per andare altrove. In Brasile eravamo una quindicina di famiglie espatriate, tutte giravano intorno alla Fiat. Con una media di due figli a famiglia, significa che costituivamo una comunità di circa sessanta persone. Si festeggiava almeno un compleanno a settimana. C’era continuamente l’occasione di fare festa e ci vedevamo tutti insieme in queste case stratosferiche. Una volta che non abbiamo avuto compleanni abbiamo festeggiato lo stesso.
Tornai in CNH perché l’azienda mi piaceva e da lì ebbi una parentesi di un anno in Argentina. Ci andai perché mi chiesero di studiare un caso di investimento milionario. CHN spendeva cinque milioni di euro all’anno in operazioni logistiche per magazzini esterni e l’intenzione era di costruire opportuni magazzini internamente nel compound di proprietà. Sono stato tre settimane a grattarmi la testa, poi dichiarai che secondo me non serviva costruire nulla e potevo occuparmene io, facendomi bastare quanto già disponbilie. Mi diedero fiducia e l’ho fatto, ho smontato tutto in un contesto delicato, perché l’Argentina è un paese molto sindacalizzato e queste organizzazioni sanno essere anche violente. Chiudere la logistica
24
La storia di Luciano
SE SI PENSA CHE UNA COSA POSSA ESSERE FANTASTICA VUOL DIRE CHE PUÒ ESSERLO ANCORA DI PIÙ
esterna è stata una gatta da pelare ma ci sono riuscito perché l’operazione è stata costruita con soluzioni su misura per il contesto. In molti hanno sperato non si riuscisse. In questo passaggio molte persone avrebbero rischiato di rimanere senza lavoro, ma abbiamo trovato una soluzione alternativa per loro.
A quel punto, pur stando benissimo professionalmente e avendo fatto carriera, con la mia famiglia ci sentivamo in esilio e volevamo tornare in Italia. Abbiamo fatto richiesta ma l’azienda ha detto che avremmo dovuto aspettare, così ho cambiato di nuovo tutto. Era maggio, volevo che a settembre i miei bambini potessero iniziare la scuola in Italia. A luglio ho fatto il colloquio e, dopo cinque anni in Brasile, a settembre eravamo a Fabriano e io ho iniziato a lavorare in Ariston. La mia famiglia è contenta degli spostamenti, ci piace questo ritmo. I nostri figli, Angelo e Brisa, con la splendida
mamma e moglie Lorena, si affacciano all’adolescenza. Pensavamo avessero bisogno di stabilità e preferissero non muoversi più adesso, invece ci chiedono già dove andremo la prossima volta. Mia moglie condivide questa lettura della vita, ci siamo scelti anche per questo. Ora siamo in Italia da quasi cinque anni. Avevo un piano: sono tornato con la legge del rientro dei cervelli, sapevo di avere vantaggi per cinque anni invece ho scoperto che sono dieci, per cui anche se pensavo di far girare di nuovo il bussolotto, visto il vantaggio forse staremo fermi ancora un po’. Può darsi invece che andremo via lo stesso, dipenderà dalle opportunità e dal contesto. Oggi, rispetto al passato, il mio movimento non è dato dal seguire l’onda ma dal valutare al meglio le condizioni. Non credo ci sia mai un termine per cambiare e per chiedersi cosa si vuole. Se si pensa che una cosa possa essere fantastica vuol dire che può esserlo ancora di più.
25
La storia di Luciano
26
La storia di Francesca
L’accoglienza e l’ascolto dell’altro ci rendono migliori
Sono nata e cresciuta a Vicenza e mi sono laureata in ingegneria al Politecnico di Milano. Dopo gli studi ho iniziato a lavorare come consulente nell’ambito del controllo di gestione in Arthur Andersen. Il mio percorso professionale mi ha permesso di viaggiare molto ed entrare in contatto con altre culture da cui ho potuto trarre spunti di crescita per la mia persona.
Ho avuto l’opportunità di vivere per un periodo in Arizona, dove ero responsabile del controllo e collegamento tra l’headquarter e la filiale americana di un’azienda italiana leader del settore occhialeria. Da questa esperienza sociale di un contesto antitetico al nostro mi sono portata dietro la consapevolezza che avevo un importante bisogno di colloquiare con le persone anche su argomenti non strettamente lavorativi e di coltivare spazi per me che andassero oltre il contesto professionale. Nel Midwest avevo avuto la percezione molto forte del fatto che la cultura, così come la intendiamo in Italia, non viene contemplata. Una volta stavo giocando a tennis con un ex giocatore professionista e tra una chiacchiera e l’altra gli ho chiesto se andasse in vacanza all’estero; mi rispose che per lui era inutile uscire dai confini americani perché in quel paese avevano tutto. Questo ci fa capire come alcune cose per noi scontate in altre culture non vengano considerate. In Cina, per esempio, ho trovato una cultura millenaria e, nonostante le restrizioni presenti in quel tipo di organizzazione socioculturale, ho potuto vedere che gli studenti sono supportati nel loro percorso formativo, diversamente dagli Stati Uniti dove gli studi non sono sovvenzionati rendendo più difficoltoso l’accesso a chi non ha mezzi economici a disposizione.
Grazie anche a queste esperienze, insieme alle competenze tecniche che ho via via
implementato, ho avuto il desiderio di migliorare nelle competenze soft, in passato poco diffuse e che invece nei gruppi di lavoro fanno una grande differenza. Per questo motivo ho scelto di misurarmi in un percorso di coaching e ho approfondito così l’approccio della filosofia orientale oltre le tecniche di mindfulness, e questo mi ha portato a una crescita sia a livello personale che professionale, perché mi ha permesso di approfondire il sentire legato alla compassione, intesa nell’accezione buddhista, come sentimento verso le altre persone che ci permette di riconoscere e di stabilire una connessione con loro.
Spesso mi accorgo che non ci rendiamo conto del patrimonio umano che abbiamo intorno a noi: se lavoriamo con altre persone abbiamo la necessità di farlo in maniera consapevole, per cogliere in pieno il loro valore. Gli insegnamenti, la meditazione e la pratica mi hanno aiutato a essere presente in ogni momento e quindi a essere più consapevole. Ora mi focalizzo su cosa sto facendo e su chi ho di fronte senza interferenze, permettendomi così il reale ascolto. A volte siamo noi stessi a non cogliere le possibilità che abbiamo, per il semplice fatto che siamo distratti da altri pensieri. Cerco sempre di mettermi in discussione, valutare come poter migliorare e cosa mi fa stare bene, per vivere meglio con me stessa e con gli altri. Nella ricerca continua di miglioramento mi imbatto in situazioni e stati d’animo che poi riesco ad abbracciare, anche quando sono scomodi. Con un allenamento costante, ho provato a trasferire questi insegnamenti anche nel lavoro, la mia capacità di ascolto è migliorata e sono diventata molto paziente. In un’ottica anche utilitaristica, ho compreso profondamente che arrabbiarsi era controproducente e mi sono impegnata per gestire diversamente le situazioni critiche.
27 La
storia di Francesca Francesca Novella
CFO DESPAR - GRUPPO ASPIAG
Anche grazie al mio approccio calmo e paziente, oltre alle competenze e alle esperienze pregresse, sono stata scelta dall’azienda in cui lavoro oggi e mi trovo a coordinare un centinaio di persone. In questo gruppo ci sono diverse personalità e caratteri, dai giovani talentuosi con una forte motivazione per la crescita alle persone più vicine alla pensione, che comunque necessitano di motivazione e obiettivi. Cerchiamo quindi di unire le diverse competenze che confluiscono nel gruppo, i giovani hanno forse maggiore entusiasmo e i meno giovani sicuramente maggiore esperienza, sono entrambi importanti.
L’evitare in tutti i modi discussioni è inoltre un aspetto presente tra i principi del codice etico dell’azienda per cui lavoro ed è una modalità che genera effettivamente un contesto molto più favorevole. Il nostro slogan è “il valore della scelta” e questo vale sia per il discorso di essere scelti dai nostri consumatori sia per quanto riguarda l’essere scelti come datori di lavoro. Una cosa interessante è che i ragazzi oggi arrivano a fare i colloqui con la check list in cui danno un punteggio: la retribuzione è uno degli aspetti, in coda alla possibilità di crescita e di imparare nuove cose. Abbiamo quindi la
responsabilità di fornire gli strumenti effettivi di crescita professionale e di garantire la motivazione elevata a chiunque voglia lavorare con noi.
Nel mio storico lavorativo ho avuto la fortuna di non vivere situazioni spiacevoli in quanto donna, ma visto che gli ambienti lavorativi sono ancora molto maschilisti, cosa che non comprendo perché credo che debbano contare le competenze prima del genere, voglio consigliare alle donne di essere coraggiose e di non aver paura di niente, di credere nelle proprie possibilità e non limitarsi poiché oggi si possono raggiungere risultati notevoli in tutti gli ambiti. L’importante è trovare qualcosa che ci appassioni. Tra gli obiettivi dell’azienda per cui lavoro c’è anche l’incremento della presenza femminile nella direzione. Noi facciamo parte di un gruppo austriaco con un network di novantamila colleghi e quest’anno abbiamo avviato un programma per alti potenziali, grazie al quale dodici ragazzi provenienti da tutta Europa stanno facendo il giro dei vari paesi. Dopo un periodo in Austria sono arrivati in Italia, e di questo gruppo otto erano donne. Quindi vuol dire che qualcosa sta finalmente cambiando a favore di una reale parità di ruoli che premi prima di tutto il merito.
28
La storia di Francesca
Strategie, modelli di business, tecnologie e best experiences: tutte le risposte per gestire le risorse IT come una vera leva competitiva le trovi qui. Never forget, you have the power.
RIMINI 19-21
MARZO 2023 EDIZIONE SPRING
RIMINI 12-14 NOVEMBRE 2023 EDIZIONE AUTUMN
29
Domus del Chirurgo a Rimini: un passato che sembra futuro
LE TESTIMONIANZE
ARCHEOLOGICHE
CI AIUTANO A CAPIRE
ABITUDINI, TECNOLOGIE
E MENTALITÀ DEGLI ANTICHI
SU UN TEMA CRUCIALE
ALLA BASE DELLA FILOSOFIA
DELLA VITA: LA CURA E
LA SALUTE
Nel circuito archeologico dell’antica Ariminum, la città fondata dai Romani dopo la sconfitta dei Galli, nella centralissima piazza Luigi Ferrari, c’è un luogo sorprendente: la villa-ambulatorio di un medico benestante e in vista che prestava esercizio nel centro della città. Il sito ha restituito degli splendidi mosaici ma soprattutto una straordinaria collezione di strumenti chirurgici.
Ma andiamo con ordine. Nel 1989, degli operai che stanno sradicando un albero, trovano delle tessere musive impigliate nelle radici. Partono gli scavi, e alla profondità di due metri e mezzo, affiorano i resti di una villa romana risalente
al primo secolo avanti Cristo, su un’estensione di circa 450 metri quadrati.
La casa era stata abbandonata repentinamente per un incendio, e infatti gli strumenti mostrano segni di fusione a causa del calore, e spuntano ossa di un cane che non aveva fatto tempo a scappare. Grazie a un’iscrizione su un muro, si ipotizza che il nome del medico fosse Eutyches. Proveniva quasi sicuramente dal mondo greco-orientale, dove c’erano le più grandi scuole di medicina del tempo. A supporto di questa ipotesi ci sono diversi oggetti: una tavoletta votiva in pasta vitrea che ritrae un’orata, uno sgombro e un delfino, difficilmente reperibile
sul mercato occidentale (se ne trovavano a Corinto); due vasetti di erbe medicinali con incisioni greche; un piede della statua di Ermarco, filosofo epicureo; e infine una mano votiva in bronzo associata al culto di Giove Dolicheno, divinità di origine siriana venerata dai soldati romani del II secolo dopo cristo.
La stanza cosiddetta di Orfeo è esposta a est, e gode della migliore illuminazione. L’abbondanza di luce è importante per la clinica, come riportano le fonti del Corpus Hippocraticum nei passaggi dedicati all’organizzazione dell’ambulatorio. In questa stanza, in cui presumibilmente il medico riceveva i pazienti e operava, c’è il mosaico più bello,
con rappresentato Orfeo al centro, sei animali intorno (un leone, un fagiano, un pappagallo, una pernice, un daino e un’aquila) e ai quattro angoli una coppia di pantere e una di cerbiatti. La scena richiama il mito di Orfeo che incanta gli animali con la musica della lira.
In questa stanza, detta appunto Stanza di Orfeo, è stata rinvenuta quella che si considera la più ricca collezione chirurgica antica del mondo per varietà e numero degli oggetti: circa 150 pezzi utilizzati per intervenire su ferite e traumi ossei, più una serie di vasetti utilizzati per la preparazione e la conservazione dei medicinali. Nel corredo chirurgico ci sono vari bisturi, pinze,
scalpelli per intervenire sulle ossa, sonde, pinzette, tenaglie odontoiatriche, leve ortopediche, un trapano a bracci mobili e diversi ferri utilizzati per esportare calcoli urinari, ma anche altri attrezzi, come bilance e misurini di bronzo, vasetti in terracotta e vetri, fiale e altri contenitori per uso farmaceutico.
La tipologia dei ferri chirurgici indica che il chirurgo riminese era un medico militare, essendo principalmente rivolta alla cura di traumi e ferite e non comprendendo strumenti di ostetricia. Uno dei ritrovamenti più importanti è il cucchiaio di Diocle, pezzo unico al mondo, che serviva per estrarre le punte di freccia conficcate nel corpo:
un manico di ferro termina con una lamina a forma di cucchiaio, forata al centro, in modo da bloccare ed estrarre la freccia. Era utilizzato dai medici che operavano sul campo di battaglia. Dagli strumenti rinvenuti, desumiamo che il chirurgo non si sottraesse a operazioni anche ardite e rischiose, come la trapanazione del cranio (sono presenti sgorbie, scalpelli e archetti di trapano) o la litotomia, ossia la rimozione dei calcoli renali. Gli strumenti del medico erano una dotazione fondamentale della professione. Galeno riporta la pratica di forgiare strumenti unici, eseguiti da fabbri specializzati a partire da modelli di cera plasmati dai medici stessi.
Che cosa impariamo da questo sito?
Il medico esercitava al pian terreno della sua abitazione, e risiedeva al primo piano. In età romana gli ospedali in cui si poteva essere ricoverati e curati durante la convalescenza si chiamavano valetudinaria. Erano strutture generalmente molto grandi e utilizzate soprattutto dall’esercito. Accanto a loro c’erano gli studi medici privati, anche chirurgici, chiamati taberna medica. In alcuni casi, non è escluso che i pazienti potessero essere ricoverati per breve degenze.
Nella Domus di Eutyches è stato ritrovato anche un praefurnium, ossia un grande forno ricavato nel terreno in cui ardevano le
braci per produrre aria calda che andava a riscaldare l’ipocausto e i tubuli parietali di una stanza per la pratica dei bagni di vapore e le cure termali. L’applicazione di liquidi caldi o freddi era una componente importante delle terapie romane. Nella domus sono stati ritrovati un bacile bronzeo a intercapedine e un bellissimo vaso a forma di piede umano, sempre a intercapedine.
Se capitate a Rimini, non lasciatevi sfuggire questo incontro ravvicinato con l’eredità antica. Quasi sempre, dialogando con gli antichi, capiamo il grande debito che abbiamo con le culture di cui siamo figli.
34 La storia di Wanda
Il tempo migliore
Alle risorse umane sono arrivata per caso, dopo la maturità classica. Ero una tipa da 97/100, perché “se prendo il massimo poi diventa troppo e bisogna fare di tutto per mantenere alta l’aspettativa”. A quel punto dovevo scegliere, non sapevo se fare l’università né cosa studiare, perché a quell’età mi sentivo incompiuta, ancora troppo legata all’esperienza (bellissima) del liceo e con nessuna voglia di separarmene. Onestamente, continuare gli studi è stato un modo per rimandare l’ingresso nella vita vera. Purtroppo gli anni universitari per me sono stati brutti, nulla di paragonabile al liceo. Nella performance unica, l’esame, andavo bene e collezionavo voti alti, però sentivo che non c’era un percorso complessivo, magari da disegnare un po’ alla volta, in cui potessi davvero riconoscermi. Sono partita da una laurea in lettere moderne con un taglio legato al mondo del teatro e dei media, poi sono andata verso la comunicazione di impresa e marketing e lì ho scoperto la comunicazione interna e ho capito che avere a che fare con le risorse umane, cioè le persone, era la mia strada. Insomma, brancolavo ancora nel buio ma poi pian piano ho unito i puntini. L’inizio non è stato semplice e lineare ma di azienda in azienda il percorso si è modellato.
Nel mezzo del cammin della mia vita, quando lavoravo per una startup spagnola che faceva
social shopping, il mio capo disse che non ero tagliata per questo lavoro, perché prendevo tutto sul personale e non riuscivo a mantenere la giusta distanza e neutralità dalle cose. È così ancora oggi, a dire la verità. Per tanti anni sono stata inquieta, non trasgressiva in modo evidente, non ho neppure i buchi alle orecchie e tantomeno una collezione di piercing o tatuaggi, non ho neppure mai cercato di scappare di casa. La mia ribellione era più che altro ribellarmi alla ribellione. Di fatto ero insoddisfatta, avevo un fondo di incompletezza sentimentale che avevo bisogno di colmare.
Le cose sono cambiate solo pochi anni fa, quando ho incontrato il mio compagno, che mi ha fatto sentire di essere scelta. La vera te stessa, se trovi la persona giusta, migliora, così come tu rendi migliore l’altro. Questa cosa, che apparentemente di professionale ha molto poco, ha cambiato il mio modo di fare risorse umane perché sono diventata molto più serena, anche se non ha cambiato la mia equidistanza dagli eventi perché reagisco male ancora adesso quando c’è un’ingiustizia o un comportamento che giudico improprio. Sono una persona che empatizza molto con gli altri, e nelle giornate in cui si rivolgono a me per qualunque problema e mi rovesciano addosso tutte le frustrazioni, alla fine sono una spugna satura. Io non pratico mindfulness,
35 La storia di Wanda
Wanda Gobbi
HR manager TESI GROUP
yoga o cose di questo genere, dev’essere sempre per quella famosa forma di ribellione a ciò che va per la maggiore. Per decomprimere cammino tanto e vado al lavoro a piedi, trenta minuti per volta. Poi arrivo a casa e se sono ancora sottosopra mi sfogo con il mio compagno, che ancora una volta si rivela preziosissimo. A una certa età diventi più disposto ad accettare i difetti altrui, in fondo non cerchiamo la perfezione ma di essere ognuno se stesso e riconoscerci nella nostra umanità. La relazione di coppia da un lato ha rafforzato la mia capacità di comprendere gli altri, perché siamo tutti diversi e non puoi giudicare, e dall’altro ha rafforzato la mia capacità di assumermi le responsabilità.
Da circa un anno e mezzo ho trovato anche la mia dimensione professionale, era l’ultimo tassello che mi mancava per stare bene e devo dire che la felicità lavorativa è arrivata più tardi
ancora un reparto di Risorse umane ma dove grazie alla fiducia che il titolare ha dato alle mie idee e al mio modo di pormi sono riuscita ad impostare un lavoro costruttivo in un ambiente umanamente adatto a seminare e crescere.
Quando fai risorse umane, capita di non andare a pranzo con i colleghi perché non vuoi che ti chiedano qualcosa anche mentre addenti un panino. In realtà se questo avviene vuol dire che stai facendo un ottimo lavoro, perché se ti vengono a cercare e credono di poter trovare da te la soluzione o l’ispirazione vuol dire che sei un riferimento. Quindi sì, è vero: empatizzo con chi sta male e mi costa molto in termini di fatica personale, posso tornare a casa distrutta, ma il giorno dopo succede una cosa bella e questo mi dà una carica potente per tutta la settimana. Quando non mi sento in grado a volte lo dico,
CERCHIAMO DI
FARE TUTTO QUELLO CHE
È
IN NOSTRO POTERE PER FAR SÌ CHE LE PERSONE ABBIANO RAGIONI PER RIMANERE. SE POI SE NE VANNO, CI PERDONIAMO PERCHÉ A VOLTE NON C’È ALTRO DA FARE. IL PERDONARSI È UN GRANDE BALSAMO PER OGNI FERITA
rispetto a quella personale (che già non era stata proprio facile da trovare). Sono scappata da una dimensione per me tossica e in cui non riuscivo a essere felice, sia per l’ambiente sia perché erano gli anni sotto assedio della pandemia. Durante il Covid, mi sono confrontata con diversi colleghi e abbiamo constatato che le prime risorse umane di cui nessuno si è preso cura durante la pandemia sono proprio quelli che ci lavorano, nelle Risorse umane. Ci è stato chiesto di diventare improvvisamente qualcuno che non potevamo essere ed è stato davvero sfibrante. Penso che una parte della formazione dell’HR debba essere vita e quindi esperienza, non solo formazione accademica.
Quello che siamo ci condiziona, così come siamo influenzati da quello che facciamo. Perciò mi piace dire che faccio l’HR manager, perché ha a che fare con qualcosa di costruttivo, che tu vai a creare. Se individuo un problema devo affrontarlo e così avevo deciso che me ne sarei andata da quel contesto e ho iniziato a cercare. Se stai cercando ossessivamente impari anche ad avere l’occhio per valutare le opzioni e ti accorgi di quello che non vuoi più. Poi l’alternativa si è manifestata, non è perfetta ma mi rende felice. Ho incontrato brave persone, una realtà in cui non c’era
ho impostato una relazione trasparente e onesta con gli altri, se capita che arrivino con un carico di frustrazione e di problematiche che non riesco a gestire emotivamente chiedo di poterne parlare il giorno dopo, se non è urgente. L’alternativa sarebbe dare la peggiore versione di me stessa, perché non sono neutra e quindi non sarò mai efficiente allo stesso modo tutti i giorni. Se in quel momento non ho niente da dare preferisco rimandare, e se la mia richiesta di posticipare non viene accettata, a quel punto chi sta dall’altra parte si prende quello che c’è.
Nel mio lavoro in generale si cerca di anticipare le criticità che possono portare una persona a dare le dimissioni, cercando di avere una politica vera di cura delle risorse umane. Nel mio piccolo, ascolto le persone e cerco di capire cosa vogliono, e ascolto anche le esigenze dell’azienda. Si prova a disegnare un processo di sviluppo, dei riti, delle occasioni in cui l’azienda non sia solo un posto di lavoro ma parte della vita perché effettivamente lo è, viste quante ore ci passiamo. Si lavora per creare occasioni di aggregazione, far sentire le persone parte di una famiglia, anche se ci sono circostanze in cui devi solo lasciare andare. Cerchiamo di fare tutto quello che
36
La storia di Wanda
è in nostro potere per far sì che le persone abbiano ragioni per rimanere. Se poi se ne vanno, ci perdoniamo perché a volte non c’è altro da fare. Il perdonarsi è un grande balsamo per ogni ferita. Mettere in atto un processo di attenzione costante allo sviluppo delle persone, dare feedback e un percorso di carriera, riconoscere degli aumenti prima che li chiedano, sono tutte azioni volte a fornire condizioni ottimali per restare. Se la risorsa comunque decide di abbandonare il percorso facciamo un’intervista di uscita e proviamo a capire esattamente se abbiamo sbagliato qualcosa, perché dobbiamo comunque trarne un insegnamento. Facciamo i conti con piani aziendali complessi pensati per trattenere le persone per molti anni in azienda e dobbiamo realizzare che non è detto che il futuro
sarà così. Magari si potrà avere un rapporto di lavoro che durerà non vent’anni ma cinque, però in quel periodo il dipendente darà il meglio di sé. È molto difficile seguire le mutazioni delle persone e del contesto, quello che possiamo fare è intraprendere fin dall’inizio un percorso di onestà con le persone, per portare avanti un patto che sia efficace e produttivo da entrambe le parti. Quando ho cambiato lavoro mi sono sentita in parte sconfitta perché non sono riuscita trovare una soluzione ai problemi che avevo e ho deciso di andarmene. Ho capito però che se una relazione, anche lavorativa, è tossica, non la puoi accettare. Bisogna innanzitutto prendersi cura di se stessi, nella vita personale come nel lavoro, solo così possiamo dare il meglio di noi.
37
La storia di Wanda
38
La storia di Simone
Simone Ghiazza Divertiti!
Credo che tutte le storie siano fatte di tanti pezzettini, compresa qualche battuta d’arresto, ma che abbiano anche un chiaro filo conduttore. Parto dalla scelta dell’università, dai conflitti con i genitori perché io volevo studiare filosofia mentre loro pensavano a qualcosa di più stabile. Ho proposto ingegneria informatica, ma loro no, meglio l’indirizzo meccanico, perché anche l’azienda di famiglia era nel mondo delle lavorazioni meccaniche. Di nuovo mi sono imposto, scegliendo economia. Ok, hanno risposto i miei, allora che sia economia aziendale. Ho fatto tutti gli esami di storia economica, storia del pensiero economico, geografia economica, tutte le economie pure. Ho fatto la cosa meno aziendalista possibile, cercando di modellare un percorso che fosse “di pensiero”. Avevo questa attitudine da monello, quando ero bambino. Terminata l’università sono entrato nel mondo del lavoro iniziando dal marketing in un’azienda collegata a quella della mia famiglia, in seguito mi sono occupato delle vendite nell’azienda di famiglia, che nel frattempo era stata acquisita da una più grande. Quando ho sentito un mattone sulla testa e ho visto che la mia crescita professionale era più lenta rispetto a quanto desiderassi, ho deciso di prendere e partire, per finire poi nel settore della logistica dove è stato amore a prima vista.
Ho avuto la fortuna di trovarmi accanto a un imprenditore che ripartiva con un nuovo
progetto, con delle storie industriali molto fortunate nel passato che si erano concluse con degli exit verso gruppi internazionali. È stato lui stesso a gestire le aziende che aveva venduto all’estero e tornato in Italia, pur di non finire in una sorta di prepensionamento, aveva creato una nuova società di logistica. Era una start up e bisognava farle prendere il volo. La storia è bellissima, di quel periodo sono davvero contento perché siamo partiti da un taccuino di pelle dove c’erano tutti i suoi contatti di una vita, insieme a quelli di suo papà. Sono ripartito da lì, a scegliere il software CRM e importare i contatti, mentre si ragionava di organizzazione, rete commerciale e proposta di vendita. Così abbiamo iniziato ed è stata una rampa di crescita bellissima perché c’erano dei valori solidi. Questo mi ha permesso di seguire tutto, dalla richiesta del cliente alla creazione del progetto, il monitoraggio, la gestione della commessa. È stata l’esperienza lavorativa fino adesso più galvanizzante e divertente, arrivavano i risultati e, fatica per fatica, c’era un buon riscontro. La sfida di chi fa una start up è una salita dietro l’altra, ci sono l’incognita, lo sforzo e poi la vetta, quando hai concluso con successo la parte iniziale. L’impegno lavorativo stimola e flirta con la parte personale.
Poi ho fatto una scelta, quella di cogliere l’occasione di lavorare in una multinazionale. Non me ne pento, ma non è stato semplice visto
39
La storia di Simone
Operation start up manager ADECCO OUTSOURCING
il trasporto emotivo che avevo verso una persona che mi ha dato fiducia e con il quale ho condiviso anni bellissimi. Cercavo un aspetto più strutturato, ero sempre stato in aziende padronali e avevo respirato in casa l’impostazione di un papà e di un nonno imprenditori, dove tutto è poco incasellato e molto di pancia, per cui mi mancava la parte di regole ed era il momento giusto per cambiare.
Intimamente sento sempre una base di irrequietezza, mi appartiene e penso che non si risolverà mai. Avrei fatto scelte diverse in alcune occasioni, dopo gli studi ad esempio volevo lavorare in consulenza, ma tra il richiamo del business di famiglia e l’arrivo di mio figlio una scelta che mi consentiva di stare vicino a casa era più semplice. Sono diventato papà anche prima di entrare nel mondo del lavoro, tecnicamente anche prima di laurearmi, avevo 24 anni e forse questa è stata la sfida
divertirsi, vedo che si sviluppa naturalmente tramite il raggiungimento quotidiano degli obiettivi. Senza essere invasivi condividiamo altri aspetti oltre il lavoro, anche perché spesso essendo il nostro un servizio itinerante significa fare le notti in albergo insieme.
Questa estate abbiamo fatto un bel progetto vicino Modena. C’era una finestra operativa dalle 19.30 alle 4.30 e non è esattamente quello che un giovane laureato che entra in una multinazionale con la prospettiva di management si aspetta e ambisce fare. Lo chiariamo in fase di colloquio: possibilità di crescita grazie alle esperienze. Abbiamo chiesto un albergo con piscina, così dalla sveglia sino alle 19.30 stavamo in relax. Se non uso l’incentivo del divertimento, del gruppo e della sfida, che altro posso utilizzare? La motivazione economica è certo un punto, ma se odio l’idea di lavorare fino alle 4.30 del mattino perché
SE HO UNA DOTE È QUELLA DI ESSERE RESILIENTE,
L’HO PORTATA A CASA PROPRIO DALL’ANDARE IN MONTAGNA.
PRIMA SCIATORE, POI SCIALPINISTA E ARRAMPICATORE: TUTTA LA VITA DELLA MONTAGNA TI DÀ LA FORZA DI NON MOLLARE
di project management più complessa che ho affrontato. Secondo me siamo programmati per essere pronti, è che non lo sappiamo fino a quel momento.
Oggi per lavoro sto lontano da casa per cinque giorni alla settimana, ci sono le condizioni e posso anche recuperare parte di quello che non mi sono goduto prima, poi quando torno mi dedico totalmente alla famiglia. La cosa più difficile comunque è canalizzare le energie nel posto giusto per non farle degenerare, altrimenti poi diventano capricci. Così il mio spirito monello lo sfogo in montagna. Se ho una dote è quella di essere resiliente, l’ho portata a casa proprio dall’andare in montagna. Prima sciatore, poi scialpinista e arrampicatore: tutta la vita della montagna ti dà la forza di non mollare.
Se ho vissuto un momento grigio al lavoro era perché mi mancava il divertimento, quindi anche stimoli e prospettive. Ora mi diverto un sacco ed è quello che chiedo a tutti i ragazzi con cui mi trovo in team a lavorare. Non lesiniamo sulle ore, facciamo quelle che servono per portare a casa il progetto, ma divertiamoci. Mi annoio in fretta, devo essere ingaggiato in sfide e cerco di coinvolgere gli altri in questo processo. Non chiedo loro direttamente di
sono un ingegnere logistico laureato a pieni voti al Polimi, per quanti soldi posso fare una cosa che non mi piace? Io ho trovato questa strada. Dal mio punto di vista nel lavoro, oltre la carriera, ci devono essere altri obiettivi. Lo stimolo è nel rendere piacevole il lavoro anche a orari assurdi, farlo diventare leggero e vivere meglio l’esperienza. Essere via tutta la settimana è compensato dal divertimento e non mi pesa; è una bella fatica, a partire dalla banalità di preparare la valigia tutte le domeniche sera, quindi il divertimento non deve mancare.
Con mio figlio Giovanni, che ora ha 17 anni, parliamo spesso di futuro scolastico e lavorativo. Attraverso i racconti delle esperienze mie e di alcuni amici che fanno cose molto diverse tra loro, gli illustro per ognuno che studi e percorsi ha fatto, per mostrargli che per ogni scelta ci sono moltissimi incastri possibili. Buttiamo variabili e risultati sul tavolo nella speranza che lui veda che non c’è nulla che preclude nulla e che spesso uno inizia da una parte per finire da un’altra, l’importante è che sia estremamente sereno nella scelta. Libero arbitrio all’ennesima potenza, compresa l’opportunità nelle sue mani di non fare carriera, perché non siamo tutti destinati alla stessa strada, è importante che ognuno si impegni in ciò che gli piace e lo diverte.
40
La storia di Simone
41
La storia di Simone
GUERRA E CLIMA
In questi tempi apocalittici, mi ritornano spesso alla mente i versi di un grande poeta americano, Robert Frost (San Francisco 1824 - Boston 1963). La poesia in questione s’intitola Fire and Ice (Fuoco e ghiaccio) ed è giustamente tra le sue più famose. Eccola nella traduzione di Silvia Bre per Adelphi:
C’è chi dice che il mondo finirà col fuoco e chi col ghiaccio.
Per ciò che ho assaporato io del desiderio sto con chi tiene per il fuoco. Ma dovesse perire per due volte so di sapere dell’odio a sufficienza da dire che a distruggere anche il ghiaccio va bene e basterebbe.
È una poesia sulla “fine del mondo”, quasi profetica, come se Frost l’avesse scritta intuendo il futuro, quel che per noi è ora il tempo presente. Un’epoca in cui l’avvento del climate change, che si manifesta appunto con un’alternanza di eventi estremi (siccità, alluvioni, troppo caldo e troppo freddo) ci pone di fronte ad un possibile collasso, ad un incerto esito, che potrebbe essere segnato sia dal “fuoco” che dal “ghiaccio”. Ma non basta. Il poeta introduce con amara forza un altro protagonista dei nostri tempi, l’”odio”, il ghiaccio dei cuori e delle menti, in grado di distruggere con molta più efficienza e rapidità degli eventi fisici. Per quanto mi riguarda, dopo cinquant’anni di ambientalismo (proprio mezzo secolo fa ero a Stoccolma, alla prima Conferenza ONU su Ambiente e Sviluppo ed ho assistito alla nascita del movimento ecologista globale) continuo a ripetere che l’ecosistema più a rischio è la
mente umana. In particolare il venir meno del collegamento mente/cuore, il ghiaccio dell’indifferenza e della mancanza di cura che sta letteralmente avvelenando non solo il pianeta, ma le coscienze.
L’irruzione inattesa della guerra in Ucraina nel febbraio di quest’anno ci ha di nuovo scaraventato in faccia, con spiazzante brutalità, la connessione tra distruzione dell’ambiente e conflitti, soprattutto quella più che mai attuale tra guerra e clima.
I dati parlano chiaro, anche se pochi ci fanno caso. Stando al Perspective Climate Group, un’agenzia di consulenza tedesca, le emissioni del settore militare possono raggiungere centinaia di milioni di tonnellate di anidride carbonica l’anno. I comparti militari di grandi paesi come Usa e UK arrivano a toccare l’1% del totale nazionale. Tra i maggiori incriminati, gli aerei da combattimento ma anche le riserve di carbonio distrutte durante i conflitti. Mentre le emissioni indirette, dovute ad una gamma di fattori (vedi la ricostruzione di città ed infrastrutture dopo le guerre) possono superare i 100 milioni di tonnellate di CO2. Per quanto concerne l’Ucraina, non ci sono ovviamente ancora statistiche sul tema, ma occorre tenere conto anche dell’impatto negativo nella lotta al cambiamento climatico dovuto al fatto che, in assenza delle forniture regolari di gas russo, l’Occidente è stato costretto ad un ritorno, seppure parziale, ai combustibili fossili per liberarsi dalla dipendenza nei confronti di Mosca. Come osserva l’International Crisis Group nel podcast War and Peace (Guerra e Pace), questo rallentamento forzato verso il raggiungimento degli obiettivi climatici fissati dalle COP precedenti si è tradotto in una semirinuncia alla tanto conclamata, e sinora poco realizzata, “transizione ecologica”. Che rischia di essere frettolosamente archiviata (o, peggio, soltanto simulata con grande abbondanza di greenwashing) sotto l’urto degli eventi bellici.
La guerra in Ucraina sta avendo un impatto grave anche sulla sicurezza alimentare planetaria. Vari paesi in via di sviluppo, infatti, dipendono in maniera significativa dal grano ucraino e russo. L’Eritrea, per esempio, importa tutto il proprio grano dai due paesi, la Somalia dipende da questi per il 93%, il Pakistan si procura la metà del proprio fabbisogno dall’Ucraina e circa un quinto dalla Russia. La riduzione della produzione agricola ed i blocchi nella zona del Mar Nero hanno causato, secondo il World Food Programme dell’ONU, una ridotta disponibilità di prodotti essenziali ed un forte aumento dei carburanti e dei fertilizzanti, con
IL PUNTO DI GRAZIA FRANCESCATO
Contenuto a cura della redazione di The Map Report. The Map Report è un magazine di Media Trade Company dedicato ai temi della sostenibilità, della responsabilità sociale e dell’innovazione. Si articola in un periodico cartaceo, un website di informazione quotidiana e un palinsesto tv visibile sul canale 513 di Sky.
sotto costante tiro dei russi fino ad arrivare al surreale confronto a fuoco letteralmente “sulla testa” della pericolante centrale nucleare di Zaporizhzhia, che ha tenuto e tiene il mondo con il fiato sospeso. Oltre ai danni ambientali, i conflitti in corso riportano alla ribalta un vecchio problema: la fragilità del quadro normativo che dovrebbe assicurare all’ambiente un minimo di tutela durante le guerre. Fin dal 2009 l’ONU ha iniziato un percorso per rafforzare le norme, mettendo insieme quelle a salvaguardia delle risorse naturali e le leggi a difesa dei diritti umani. Dal 2013 opera la ILC (UN International Law Commission), un gruppo di esperti incaricati di proporre raccomandazioni all’Assemblea Generale dell’ONU riguardo all’adeguamento del quadro normativo internazionale. Il progetto, denominato PERAC (Protection of the Environment in Relation to Arm Conflicts) ha per ora identificato 28 principi base ma ha ottenuto scarso ascolto da molti Stati, contrari all’imposizione di obblighi vincolanti in materia. Se ne occuperà anche la COP27 (sto scrivendo alla vigilia della grande assise in Egitto) che ha previsto un panel ad hoc per presentare il Rapporto 2022 sulle emissioni prodotte dal settore militare a livello planetario in base ai dati del CEOBS (Conflicts and Environment Observatory) e alle ricerche di Scientists for Global Responsability, esperti che hanno introdotto metodologie innovative per stimare i danni ambientali e climatici dovuti agli scontri armati.
drastica salita dei prezzi e ricadute micidiali soprattutto per le fasce più povere della popolazione terrestre. Secondo l’Hunger Map del WFP, se aggiungiamo a questi danni gli strascichi negativi della pandemia ancora in corso, il mondo avrà nel 2030 ben 840 milioni di persone affamate. Senza contare i danni per inquinamento dell’acqua e il danneggiamento delle risorse naturali, insomma della biodiversità nel suo insieme. Per esempio, secondo il Conflict and Environment Observatory, specializzato nel valutare i danni ambientali causati dal conflitto, l’attacco russo al Donbass ha provocato, oltre alle innumerevoli vittime umane, contaminazione del reticolato di fonti idriche, inquinate dalle sostanze chimiche rilasciate durante i conflitti. Per non parlare dei pericoli cui sono esposti gli oltre 170 impianti chimici sparpagliati nella parte orientale,
Inutile dire che non ci si attendono balzi in avanti consistenti. Perché, come ci ammonisce la poesia di Frost, che va dritta al cuore del problema, quando alle minacce del clima si aggiungono le derive folli dell’odio globale, la distruzione della vita, umana e non solo, si profila all’orizzonte con cupa potenza. E può essere arginata solo da un salto di qualità della coscienza collettiva che oggi ci appare desolatamente lontano, ma verso il quale dobbiamo continuare a camminare, ad ogni costo, senza perdere la spe
ranza.
GRAZIA FRANCESCATO, giornalista e leader ambientalista, è stata presidente del WWF Italia, dei Verdi italiani ed europei, nonché responsabile rapporti internazionali di Greenaccord. Membro del Consiglio Generale di Aspen Institute, collabora oggi a Women 20, il filone del G20 che ha come protagoniste le donne.
AMBIENTE 3 themapreport.com
-
L’ecosistema più a rischio è la mente umana
44
La storia di Raimi
Raimi Schibuola
IT manager ALESSI
Conoscere le culture
Mi chiamo Raimi. Il mio nome proviene dal Sudamerica, dagli Inca, dove un dio del sole molto venerato e tutt’oggi festeggiato dagli indios si chiama Inty Raimi. Mia madre mi ha dato questa croce e delizia. Per la mia famiglia è stato un modo per trasmettere qualcosa delle sue origini di Lima. La mia famiglia ha radici in tutte le parti del mondo, abbiamo viaggiato tanto e sin da bambino sono stato immerso nelle culture. Mi piace moltissimo vedere, conoscere e capire le persone e i posti, e lo trasferisco anche alle persone che lavorano con me. Lavoro in Alessi, che è un’azienda familiare, tradizionale, e ha una sua cultura aziendale molto forte. Mi piace molto poter portare la mia esperienza di un mondo che è ormai globalizzato nelle culture e nelle tecnologie.
Questo mio amore per il mondo e le altre culture lo devo a mio padre, che essendo stato manager in diverse aziende nel campo del petrolio e delle raffinerie, ha sempre viaggiato, e noi con lui. Abbiamo vissuto in Cina, Thailandia e in Arabia Saudita, dove siamo stati per sei anni e dove è nata mia sorella. Dopodiché mia madre ha deciso di fermarsi e abbiamo scelto l’Italia, la provincia di Bergamo, perché mio padre aveva la famiglia qui e lavorava per aziende italiane. Sono sempre stato felice di vedere luoghi e persone diverse, per me era sempre tutto nuovo. Ho ricordi bellissimi, anche di posti come Ryad, nonostante fossero gli anni Novanta e ci fossero molte complessità. Qui, insieme alle altre persone
occidentali vivevamo in un compound dedicato ai dipendenti dell’azienda, un residence circondato da mura e diviso dalla città. Le donne, compresa mia madre, erano costrette ad indossare il burka quando uscivano. Io non me ne rendevo conto, avevo cinque anni e vivevo quel posto come un parco giochi, divertendomi con tantissimi bambini che parlavano lingue diverse e creando amicizie che sono sopravvissute fino ad oggi, questa per me è una cosa davvero preziosa. Ho vissuto tutto in maniera positiva e miei genitori sono stati molto bravi a mostrarmi sempre il bello.
Oggi che ho una famiglia mia, mi piace che mia figlia abbia esperienze simili alle mie; a sette mesi era già in giro sugli aerei con noi, zaino in spalla. Stiamo cercando di trasmetterle un mondo che era già globalizzato vent’anni fa e oggi con le tecnologie lo è ancora di più. Tutte queste esperienze ho voluto portarle nelle aziende con cui ho lavorato. All’inizio l’incontro con questa nuova realtà è stato uno shock, penso per entrambe le parti. In primis abbiamo persone del mio team con esperienza pluriennale che vivono l’azienda da sempre, ma col tempo abbiamo tutti accettato la nuova sfida con ottimi risultati. In secondo luogo perché dal mio arrivo ci sono stati molti cambiamenti nel concreto, volti a raggiungere un determinato risultato in tempi e modalità ben definite. Prima le tempistiche erano diverse e le priorità tantissime, oggi invece vengono decise, coordinate e date in carico a singole persone. C’è stata quindi una focalizzazione
45
La storia di Raimi
precisa dei processi. La parte IT, che seguo io, è trasversale a tutte le funzioni e ho sentito che servivano delle persone anche in IT che si concentrassero su determinate aree, aiutando i colleghi dei singoli team.. Non è facile dopo decenni di lavoro abituati in altro modo.
Caratterialmente sono molto diretto e questo mi ha permesso di entrare in relazione con tutti, ho riflettuto molto su come pormi con le persone e ho capito che con ognuno bisogna avere un diverso approccio, considerando anche il contesto e la cultura da cui provengono. Alessi ha il suo headquarter sul Lago Maggiore. Mi ritengo fortunato in quanto ho trovato persone intelligenti e in azienda la maggior parte del personale ha colto questo cambiamento come opportunità. È stato fondamentale inserire anche persone nuove e giovani che fossero del territorio, in un progresso graduale, in modo che potessero aiutare
Borsa Italiana e quando sono uscito da quella comfort zone la mia famiglia mi ha dato del matto. L’ho fatto in parte perché mi stavo annoiando, ma anche perché sentivo che era troppo presto per fermarsi. Avevo bisogno di vedere qualcosa di nuovo, di diverso. Mi interessava vivere una fabbrica dal punto di vista delle tecnologie, quindi ho deciso che era arrivato il momento di un cambiamento e sono arrivato in un’azienda di cosmetica, poi c’è stata l’opportunità di crescita in Alessi, sempre in ambito manufatturiero, ma con logiche diverse e una complessità che non avevo mai visto, e sono felicissimo di essere in questo tipo di contesto.
La mia valvola di sfogo è ovviamente la mia famiglia, mia moglie e mia figlia, con cui mi diverto tantissimo e che ringrazio per il loro costante supporto. Poi abbiamo lo sport a 360°, principalmente sci, tennis, corsa che mi
HO RIFLETTUTO MOLTO SU COME PORMI CON LE PERSONE
CAPITO CHE CON OGNUNO
l’azienda e il team a proiettarsi nel futuro. A me interessava investire oltre che nelle tecnologie anche nelle persone, valorizzandone le competenze, sia che avessero vent’anni che cinquanta. Mi piacerebbe, quando avrò sessant’anni, che ci fosse qualcuno che mi faccia rimettere in gioco e mi dia nuovi stimoli. Poi, in ambito tecnologico bisogna essere sempre un po’ curiosi a prescindere dall’età, ma ho trovato persone davvero valide e che ancora oggi hanno quella voglia, fattore a mio avviso imprescindibile. Alessi rimane sempre un’azienda tradizionale e ha un aspetto romantico che scopro giorno dopo giorno e che mi incuriosisce molto. Ci sono tanti aneddoti, storie uniche dell’azienda che non sono conosciute e che secondo me sarebbe bellissimo divulgare. Dal concetto dei designer con cui collaboriamo, al fatto che tutt’oggi ci siano persone in azienda che controllano e puliscono l’oggetto a mano, sino ai membri della famiglia Alessi che hanno un bagaglio culturale, oltre che di esperienza, unico. Non sono quindi sorpreso quando il nostro presidente Alberto Alessi, che ha introdotto in azienda il concetto del design, va a parlare in tutte le università del mondo o vince premi come il Compasso d’Oro per l’eccellenza del design. Non ho scelto di lavorare in ambito tecnologico, è venuto un po’ per caso. Anni fa lavoravo in un’azienda bellissima come
aiutano nel ricaricare le batterie. Purtroppo, mi dispiace non esserci sempre per mia figlia, ma quando sono lontano, spero di imparare qualcosa di nuovo che magari potrò trasmetterle, in un futuro, proprio come ha fatto mio padre con me. La famiglia per me è importantissima e mi ha sempre insegnato tanto. Mia sorella ha una disabilità dalla nascita, per cui mia mamma dopo tanti anni in cui ha lavorato con i volontari ha voluto creare una sua associazione per cercare di costruire un futuro per tutte le persone con disabilità e fare in modo di creare contesti in cui queste persone, mia sorella in primis, siano integrate stando a stretto contatto anche con ragazzi senza alcuna disabilità. Così ha fondato la Onlus “Ci Sono Anch’io”, che si occupa di ragazzi disabili e prova davvero a creare inclusione.
Viviamo di emozioni. A tutti più o meno è capitato qualcosa di spiacevole nella propria vita, che magari ha generato una sensibilità e un’attenzione verso alcune tematiche. Io stesso ci ho riflettuto molto. Ricordo che da ragazzino ero in imbarazzo a parlare della disabilità di mia sorella, oggi invece mi fa piacere parlarne e trasmettere la mia esperienza come esempio di empatia, socialità e forza. Insomma, penso che l’incontro, lo scambio, il conoscere altri contesti e realtà sia sempre fonte di ispirazione e insegnamento, nella vita come nel lavoro.
46
La storia di Raimi
E HO
BISOGNA AVERE UN DIVERSO APPROCCIO, CONSIDERANDO ANCHE IL CONTESTO E LA CULTURA DA CUI PROVENGONO
47 La
storia di Raimi
48
La storia di Alessandra
Performance and business coach metodo R.I.G.O.R.E. / Consulente fonico forense / Scrittrice / LAW5 consulenza & formazione
Rompere il soffitto di cristallo
Il Dipartimento del lavoro degli Stati Uniti definisce “soffitto di cristallo” quelle “barriere invisibili ma impenetrabili che si frappongono tra i ruoli dirigenziali e le donne, impedendo a queste ultime di raggiungere i vertici nell’ambito del business, indipendentemente dai loro meriti”. Sono ostacoli che impediscono di avanzare, barriere apparentemente impercettibili… Spero che raccontare la mia storia sia un esempio utile per far crescere la consapevolezza in leader di entrambi i generi che già lottano e promuovono una nuova cultura di collaborazione valorizzando i diversi punti di vista.
La mia è una storia lunga e articolata, che ha cambiato forma tante volte. Se dovessi definire un inizio del cambiamento, sarebbe sicuramente l’evento della separazione dei miei genitori: avevo circa quindici anni e la mia vita è iniziata in salita, con una visione degli uomini piuttosto particolare perché mi sono sentita tradita dall’uomo più importante del mio mondo. Ho sempre studiato e lavorato, il mio desiderio era quello di essere utile alle persone, così mi iscrissi alla facoltà di legge pensando di fare l’avvocato o il magistrato. Poco dopo mio zio notaio mi disse che una sua collega, sposata con un magistrato dell’antimafia, aveva bisogno di una babysitter per i suoi bambini. Io facevo già la hostess negli eventi, qualcosa di leggero che piace alle adolescenti per iniziare ad inserirsi nel mondo del lavoro, ma lui mi convinse a valutare questa possibilità con una frase che ancora oggi ricordo e dico ai miei clienti: “Apri tutte le porte che hai davanti perché dietro ogni porta non sai mai cosa ci sia, sono sempre opportunità”. Così
andai a fare la tata nella casa di un notaio e un magistrato, era l’inizio del 1990, anni molti caldi per l’Italia, ed era molto interessante per me l’ambiente che respiravo lì dentro perché passavo dal vedere delle cose al telegiornale all’ entrare personalmente dentro al telegiornale osservando gli eventi in prima persona. La loro villa era frequentata da magistrati come Vigna, Chelazzi, Grasso, Nicolosi, e da tipi che inizialmente definivo “strani”, armati ma vestiti in borghese, e avendo la curiosità di capire chi fossero e che lavoro facessero, li ho sempre origliati. Dopo diverso tempo espressi la mia curiosità al magistrato e lui mi presentò a dei poliziotti della Digos che mi formarono nell’ascolto e riconoscimento delle voci nelle testimonianze in Aula penale e nelle intercettazioni telefoniche e ambientali.
Mi disse che secondo lui potevo essere adatta a quell’ambiente in quanto ero molto sopra le righe. Inizialmente il sentirmi dire “Sei sopra le righe, fai sempre tante domande, fai troppe cose” mi faceva sentire diversa in negativo, la vivevo come critica e difetto, solo con gli anni mi sono resa conto che era un mio plus. Per questa tipologia di lavoro non esiste una scuola vera e propria ma vieni formato sul campo, così in breve fui catapultata in Aula e i primi processi in cui ho iniziato la mia gavetta sono stati quello del Mostro di Firenze e quelli delle stragi di mafia. Ho svolto il lavoro lì per molti anni e mi sono accorta, nello svolgere gli incarichi, che il mio ruolo di ascoltare le vite degli altri, di stare in ascolto anche di ciò che non viene detto, comprendendo cosa la persona sta scegliendo anche di non dirti, era la caratteristica che avevo di speciale. L’ascolto
49 La
storia di Alessandra Alessandra Monasta
è un’elaborazione più complessa del semplice sentire, è comprendere quale sia il messaggio al di là della parola stessa. Gli incarichi sono stati sempre più numerosi e su indagini complesse e delicate. L’andare a cercare le bugie e lavorare sulla ricerca della verità, sul trovare le giuste informazioni, ha iniziato a curare un po’ quella che era la mia ferita rispetto al comportamento di mio padre.
Lavorando a stretto contatto con tantissimi uomini, mi sono scontrata con un ambiente fortemente maschilista, soprattutto negli anni ’90 quando ancora c’erano poche professioniste donne nell’ambiente. Per una donna lavorare in un ambito dove la maggior parte dei giudici, poliziotti, carabinieri e Forze dell’ordine sono uomini non è semplice. Io ero molto giovane, 21 anni, ed ero molto curata nel vestirmi ma nonostante tutto mi veniva sempre fatto notare che fossi donna, che avessi i tacchi, che fossi formosa e quindi appariscente.
studiando molto proprio per comprendere che competenze avessi acquisito e potenziarle. Tempo dopo ebbi una grande opportunità perché la casa editrice Longanesi mi propose di scrivere il primo romanzo al mondo sulle intercettazioni telefoniche, La cacciatrice di bugie, che alla prima stesura vendette migliaia e migliaia di copie lasciandomi stupita di poter essere così “unica ed interessante” come mi dissero gli editori. Mi domandai chi volessi essere in quella fase nuova della mia vita: il lavoro del Tribunale iniziava a starmi stretto e avevo voglia di vedere altro, mettermi in gioco e creare qualcosa di nuovo. Quel libro, che ha prodotto più di cento interviste in pochi mesi, mi ha aperto nuove porte e io in quel momento volevo farmi trovare preparata. Avevo sicuramente un obiettivo, quello di non sentirmi più sola. Mi ero resa conto, e l’accelerata di questa consapevolezza me l’avevano data i giornali, che in tutti gli anni che avevo lavorato tra le Procure e i Tribunali, accettando sempre ogni lavoro, per dimostrare a me stessa e
L’ASCOLTO È UN’ELABORAZIONE PIÙ COMPLESSA DEL SEMPLICE SENTIRE, È COMPRENDERE QUALE SIA IL MESSAGGIO AL DI LÀ DELLA PAROLA STESSA
Il mio lavoro è sempre stato dietro le quinte, a casa con le cuffie. Il ruolo principale del Consulente Fonico Forense è ascoltare, trascrivere le conversazioni, riconoscere le voci di chi parla, ma poi arriva il momento in cui si va in Aula a testimoniare. Quello è sempre stato un momento delicato, in cui racconto cosa ho ascoltato per mesi, talvolta anni di lavoro. Spesso ho portato pagine e pagine trascritte che ritrovavo anche sul tavolo del Pubblico Ministero e degli Avvocati. Ho sempre avuto il dubbio di cosa potesse pensare l’imputato che aveva avuto un ascoltatore nella sua vita a cui non aveva aperto le porte, per cui nella mia mente io ero sicuramente considerata una spia, un ascoltatore non scelto. Invece tutte le volte ho trovato un’incredibile curiosità, come se si creasse un filo trasparente di connessione tra me e la persona ascoltata. Tutti gli imputati si sono sempre focalizzati sul fatto che io li stessi ascoltando e che dedicassi del tempo per ascoltarli. Ho iniziato a chiedermi quali competenze, a parte quelle tecniche, avessi acquisito sul campo tanto da creare una connessione mentale con qualcuno che non mi aveva mai vista e che scopriva che ero stata a sentire la sua voce e le sue conversazioni private per anni.
Così scelsi di ampliare i miei studi e sono diventata un Counselor professionista e un Coach,
agli altri che fossi valida (eravamo solamente due donne in un team tutto maschile), avevo lasciato andare la mia vita, me stessa. Tra i vari articoli che uscirono ce ne fu uno de Il Venerdì di Repubblica che si intitolava: Per ascoltare le vite degli altri ho perso la mia, mi fece molto male. Avevo già 38 anni, lavoravo diciotto ore al giorno e realizzai che il tempo mi era volato dalle mani e che io mi ero soltanto dedicata a dimostrare che ero brava, che valeva la pena darmi un’opportunità.
Sono caduta dalla padella alla brace quando ho deciso di affacciarmi nel mondo del calcio. Io abito a Coverciano e andai a conoscere l’ambiente del Centro Tecnico Federale a soli cinque minuti a piedi. Non sapevo nulla di calcio, non sono mai stata tifosa, ma volevo provare innanzitutto a conoscere nuove persone, uscire dalla mia stanza, crearmi un progetto sostenibile a chilometro zero data la vicinanza al Centro principale del mondo del calcio, ma soprattutto vivere la sensazione di sentirmi inclusa in un ambiente, come lo sport, considerato aggregazione. Lì sono passata attraverso tantissime difficoltà. L’ambiente del calcio è estremamente maschile e maschilista, la donna è considerata competente ma solo in certi ruoli, mentre io mi avvicinavo come professionista di livello. Questa è stata la mia
50
La storia di Alessandra
sfida più grande in assoluto perché ho dovuto sospendere e separarmi da una parte di me. Innanzitutto non dissi subito quali fossero le mie competenze ma mi presentai come Counselor e come Coach, per non spaventarli. Sono stata inizialmente accolta e ho scoperto che in quel mondo se vuoi essere ascoltata mentalmente è necessario abbandonare la tua parte femminile, quella seduttiva, per essere conosciuta come cervello. Non mi vergogno a raccontarlo, negli anni ho preso diversi chili, lasciato i tacchi, messo vestiti sempre più larghi per uniformarmi. Dovevo essere uomo per essere accettata, apparentemente essere uomo per mostrare il valore aggiunto di essere donna.
È stato molto faticoso, a un certo punto ho capito che il mondo del calcio giocato non mi rappresentava, è ancora molto indietro e non è pronto ad avere donne nel team, così sono passata dai giudici di aula ai giudici di campo, incontrando uno dei più grandi leader del mondo arbitrale, Stefano Farina, che mi ha
storia voglio raccontare di come una donna può arrivare in ambienti di altissimo livello perdendo inizialmente una parte di sé che poi può andare a ricercare e riconquistare. L’uomo tende a omologarsi alla collettività per essere accettato, quindi siamo entrambi limitati dalla società. Regole come: “Non puoi mangiare con gli sportivi quando sono in divisa” o “Non puoi perché sei donna”, sono forti elementi di differenziazione; inizialmente mi sono sentita esclusa, poi ho semplicemente accettato le regole. Frasi come “Adesso devi stare un po’ in disparte perché non passi inosservata”, “Tu aspetta, decidiamo noi, ti devi fidare”, hanno messo e mettono tuttora a dura prova la mia intelligenza che invece sente di essere uguale e degna delle stesse opportunità.
Giorno dopo giorno, sono stati gli Arbitri a rendersi conto che non sentivo così grande questo peso perché il mio obiettivo era ben più grande, sarebbe stata una forma di orgoglio limitarmi a offendermi per delle regole
RIMANERE NEI LIMITI CHE CI METTE UNA SOCIETÀ, O NEI NOSTRI LIMITI MENTALI, NON CI FA ANDARE AVANTI ED EVOLVERE
fatto vedere le partite da un altro punto di vista cambiandomi per sempre la visuale sul calcio. L’arbitro si occupa di giustizia, è un punto di riferimento, non è solo colui che fa osservare le regole ma si occupa dell’incolumità dei calciatori e si prende cura delle persone, quindi ho ritrovato quella parte di me che è sempre stato il desiderio del prendermi cura dell’altro. Intanto ero diventata un formatore a tutti gli effetti, già lavoravo con le aziende, e il fatto di conoscere professionisti d’eccellenza che si occupano della giustizia in campo, ma che poi sono spesso attaccati all’esterno e non si possono difendere, mi intrigava, mi ha fatto sentire a casa ricordandomi il mondo dal quale venivo. Però sono entrata ancora una volta in un mondo maschile. Qui sono riuscita a farmi ascoltare ma ancora una volta rinunciando alla mia parte femminile, al gioco, l’ammiccamento, la leggerezza, affinché accettassero che io potessi essere utile attraverso un altro punto di vista e ci sono voluti anni di ascolto, pazienza, umiltà, alta competenza.
Mi sono continuamente chiesta cosa potessi fare di nuovo e di diverso per accettare la situazione nella quale fossi e provare a cambiare la forma di pensiero. Rimanere nei limiti che ci mette una società, o nei nostri limiti mentali, non ci fa andare avanti ed evolvere. Con la mia
che erano tali anche per loro, così ho imparato il vero valore dell’accettazione. In alcuni momenti è utile spogliarsi di una parte di sé perché quello che si trova dopo è una parte più evoluta: bisogna saper essere in base al contesto. Quando ho raccontato loro chi fossi e della mia esperienza lavorativa a quel punto già mi conoscevano e ci siamo quindi messi su un piano di ascolto e apertura reciproco. L’ascolto ha bisogno anche di saper ascoltare l’ambiente, se questo non è pronto, se l’uomo, i dirigenti, non sono pronti, bisogna andare per tappe, perché il rischio più grande è quello di un’incredibile chiusura.
Oggi sono arrivata a essere una professionista che lavora con sportivi della serie A, che ha creato una metodologia, un marchio didattico, R.I.G.O.R.E. (Risorse interne della persona, Intelligenza emotiva, Gruppo, Osservazione, Ritmo, Empatia) e per anni ho scelto di firmarmi sempre con il nome del metodo perché sapevo che il giorno che mi fossi firmata Alessandra Monasta mi avrebbero chiuso le porte. Anche oggi, che sono amata e stimata per le mie competenze e il mio percorso, mi ritrovo ancora ad avere una strada piena di ciotoli da percorrere, talvolta con la paura di fare il gesto sbagliato ed essere allontanata e ferita da un ambiente dove al vertice ci sono
51
La storia di Alessandra
solo gli uomini che camminano sul pavimento di cristallo. I silenzi, le telefonate non risposte, i finti sì, sono quelli che mi hanno fatto diventare la persona che sono. Oggi però è arrivato il momento di accorciare le distanze e farmi sentire libera di essere me stessa. Non ho avuto figli, sarebbe stata la cosa più importante della mia vita, e questa ulteriore ferita, sommata a tante altre, sono riuscita a trasformarla nel momento in cui ho scoperto che potevo avere un utero grandissimo e dare attenzione e cure volendo bene a tantissime persone. Quando lavoro come formatore nelle aziende e le persone escono felici dall’aula, sento che la mia vita ha un significato e soprattutto lo sento con gli sportivi, con loro ora siamo una famiglia.
Penso che quando una donna riesce a creare con un uomo una connessione tale per cui si cresce insieme, andando nella stessa direzione per la realizzazione di obiettivi comuni e di successo, è molto emozionante. Il senso della vita è la condivisione. Oggi mi sento dire: “Abbiamo vinto insieme, eri con me in campo” e questo dà valore a tutta la fatica
di tutti i miei anni e mi dà anche l’energia per trasferire la mia storia ad altre donne che potranno arrivare a provare lo stesso, e che spero, forse, dovranno fare qualche gradino in meno di quelli che ho fatto io per salire a piedi in questo palazzo che non finisce mai, dove sembra di non arrivare mai all’attico. C’è questo soffitto di cristallo tra noi e molti uomini che, lavorativamente, si posizionano al piano di sopra: io adesso sono pronta a spaccarlo.
Oggi mi sto riconciliando con la mia parte femminile, mi sto allenando a ritrovare questa parte, attraverso il gioco, la complicità, la leggerezza. Ho scoperto che i miei clienti vogliono prendersi cura di me come io mi prendo cura di loro. Ora desidero tornare ai tubini e tacchi alti: non devo più tenere i pesi nel mondo, conservare dentro di me tutte le ferite che ho avuto, ora posso finalmente ascoltare anche me stessa condividendo strade comuni con chi sta percorrendo, come me, il viaggio del cambiamento verso una cultura di reale rispetto e valorizzazione delle risorse umane.
52
La storia di Alessandra
Buona logistica a tutti.
Strategie, risorse tecnologiche, nuovi business e nuovi player: tutte le risposte per fare buona logistica le trovi qui.
Don’t forget you have the power.
RIMINI 22-24 OTTOBRE 2023
53
Alla scoperta dei valori di Richmond Italia
4. Raccontare la vita
La vita vera è uno strumento di comunicazione potentissimo, che semina valore e innesca reazioni positive. Basta avere il coraggio di raccontarla senza mistificazioni, filtri o manipolazioni.
Crescere insieme Crescere dentro Vincere e perdere Raccontare la vita Agili nell’azione
Responsabili nelle scelte
1. 2. 3. 4. 5. 6.
Il gusto pieno della vita
In questo valore mi sento un po’ a casa. Come a casa mi sento ormai in Richmond Italia, dove lavoro da 9 anni. Subito dopo la laurea in Sociologia ho iniziato facendo un part-time e occupandomi delle cose più basiche, come inserimento dati, gestione e pulizia del database. Sono poi passato al reparto Delegate, dove ho lavorato fino a quando mi è stata offerta la possibilità di entrare nel Reparto Vendite. Qui ho imparato che non esiste mai una strada sola, conta molto il proprio stile individuale. Ascoltando i colleghi con i quali condividevo l’ufficio ho capito che ciascuno è più “forte” in qualcosa, chi nelle telefonate, chi nelle e-mail, chi nella pianificazione…
Una cosa però riguarda tutti. L’autenticità è efficace, e paga sempre. Nella relazione con il cliente non hai tempo di costruirti delle maschere, e la tua vera personalità affiora inevitabilmente. Oggi il lavoro delle vendite è sofisticato, dal mio punto di vista confina con quello della consulenza. Tornando al mio stile, mi piace annotarmi tutto. I colleghi mi prendono in giro per le mie note fiume e perché mi segno particolari apparentemente minori. A me servono perché sono i particolari a fare la differenza, cerco di fare entrare la vita nel lavoro. Di rado inizio una telefonata con il Lei e la finisco con il Lei, mi piace stabilire con il sorriso relazioni schiette e dirette. Da mio padre, di indole taciturna, ho imparato ad ascoltare e il mettermi al servizio. Da mia madre, più aperta ed empatica, il gusto della battuta e della risata. Da entrambi ho preso anche il mio difetto, il mio orgoglio siculo-lucano.
Un esempio? Mi è capitato non molto tempo fa che una persona mi avesse scritto per avere informazioni sui nostri forum, ma non avevo poi avuto nessun suo riscontro alle mie e-mail e telefonate. Bene, non mi sono arreso e dopo un certo tempo l’ho ricontattato. Dopo una bella telefonata ha confermato la partecipazione in meno di un’ora. Ma soprattutto si è stabilita una bella relazione. Mi ha anche proposto di andare a lavorare nella sua azienda. Non ci sono segreti: faccio un lavoro che mi piace in un ambiente in cui mi sento apprezzato. E mi piace la mia vita. Viverla, e raccontarla.
Teodoro Rubino Sales manager Richmond Italia
www.ilbullone.org L'ESPERIENZA FORMATIVA AL BULLONE AIUTA I RAGAZZI A RIPARTIRE, AL DI LÀ DELLA MALATTIA. CODICE FISCALE 94624410158 SOSTIENILI CON IL TUO 5X1000 Alessandra Volti che hanno accettato e amato ogni mia fragilità, ogni mia ferita, volti che hanno raccolto la mia gioia e le mie lacrime. Posso solo dire grazie a Il Bullone.
Gli opening speaker dei forum di Richmond Italia sono persone speciali. Hanno alle spalle metodo, esperienza, cose da dire, da mostrare, da raccontare. Ma soprattutto hanno voglia di farlo e di condividere la propria visione del mondo. VOP Very Open People è un nuovo spazio fisso di Reach magazine dedicato alla loro passione e al loro spessore. Tirate fuori gli smartphone e scansionate il QR code: potrebbero sorprendervi più che degli effetti speciali.
IL CORAGGIO DI AVERE CORAGGIO
VITTORIO EMANUELE PARSI
I valori sono risorse
(…) I principi sono le risorse più importanti che abbiamo quando attraversiamo momenti di crisi, quando abbiamo paura che le cose non vadano come avevamo previsto. Allora dobbiamo poter fare ricorso a queste casseforti, a questi caveau di risorse che sono le cose in cui crediamo, i principi per cui ci battiamo, i valori per i quali siamo disposti a vivere.
PADRE NATALE BRESCIANINI
Cresce la domanda di senso
(…) Vedo degli spiragli molto interessanti. Anche il mondo delle multinazionali comincia a farsi alcune domande su alcuni temi. Il modo di lavorare che ha fatto tanto successo negli anni ’80 e ’90 ma anche il modo di essere dei leader all’interno dell’organizzazione sta cambiando. E sta andando sempre di più verso un mettere la persona al centro.
Monaco camaldolese e formatore
Professore ordinario di Relazioni internazionali Università Cattolica di Milano
58
La storia di Fabio
Taccone
Responsabile operation
LONGINO & CARDENAL
Fianco a fianco
La mia storia professionale è un po’ particolare, sono entrato nel mondo del lavoro come chef di pasticceria, avevo frequentato una scuola vicino a dove vivo, sulle sponde del lago Maggiore. Durante un’estate in cui lavoravo negli alberghi, mio padre ha avuto un malore e i medici gli dissero che per due/tre anni non avrebbe più potuto lavorare. La mia famiglia allora aveva un’azienda di lavorazione conto terzi di metalli in cui lavorava già mio fratello, nell’inverno precedente mio padre aveva firmato per l’acquisto di una nuova struttura e nuovi macchinari, erano investimenti importanti. Vista la situazione, mi chiese di smettere di fare il mio lavoro per aiutare mio fratello. Così, appena maggiorenne, ho iniziato a fare l’imprenditore. In quel momento non mi è pesato, è stata una scelta per aiutare la famiglia a far sì che tutto funzionasse. Magari l’avrei fatto in ogni caso, ma non in quell’età così giovane.
Nel tempo, quel tipo di lavoro e quel tipo di attività, soprattutto la dinamica del rapporto con mio padre all’interno dell’azienda, sono fattori che hanno inciso molto su di me. Mio padre non ha avuto la possibilità di studiare ed è andato a lavorare che era ancora un bambino, a undici anni; la mentalità per cui bisognava lavorare e basta gli apparteneva totalmente, non vedeva oltre. Ho fatto alcuni anni molto positivi, poi ci sono state le varie crisi di settore che ci hanno dato dei colpi, abbiamo dovuto ridimensionare l’azienda in modo molto importante. Sono rimasto in azienda fino al 2010, quando è nato mio figlio, evento che mi ha portato a decidere che
quella non era la vita che volevo né il futuro che volevo dare a lui. Poco tempo dopo è mancato mio padre ed è stato un momento di stacco molto forte, in cui avevo bisogno di una svolta. Abbiamo deciso di chiudere l’impresa, mio fratello è rimasto nel settore mentre io mi sono totalmente rimesso in gioco. Dopo un paio di esperienze lavorative come responsabile di azienda, sono stato contattato da un gruppo che fornisce consulenza al gruppo Rovagnati per diventare direttore di produzione della Van Berkel International, la società che produce le affettatrici manuali. Dopo svariati colloqui, sembrava quasi un invito a matrimonio, ci siamo piaciuti e abbiamo trovato una quadra. Ho iniziato questo percorso con un manager di altissimo livello che aveva voglia e capacità di integrare le persone nei suoi progetti. È un aspetto importante la condivisione perché vedo che a volte c’è la tendenza a non trasmettere la conoscenza agli altri, perché se l’altro diventa più bravo di te può rubarti il posto. Sono stato con questo manager per tre anni, un periodo pieno di progetti importanti e stimolanti. Mi sono adoperato per il restyling dei reparti e dei magazzini, perché l’idea era che i clienti entrando in produzione avessero la percezione di trovarsi in una boutique. Abbiamo così trasformato un’azienda metalmeccanica degli anni ’70 in un posto in cui se fossi entrato con il vestito da sera non ti saresti sporcato. Quando ho parlato con il mio capo per avere un adeguamento di stipendio per il lavoro fatto, non c’è stato un punto di incontro; sono così passato al mondo della Gdo, mettendomi
59
La storia di Fabio Fabio
in gioco in un nuovo settore, dove per i primi mesi era altissima la percezione di essere in un frullatore perché i ritmi sono inverosimili.
La scelta di cambiare nuovamente, entrando così in Longino & Cardenal, è legata al fatto che avevo bisogno di fare il papà a 360°, dove stavo non avevo modo di potermi prendere tempo e spazio da dedicare a mio figlio. Mattia ha delle caratteristiche particolari ed importanti, necessita della mia presenza e abbiamo un legame molto forte. Quando sei in un’azienda che lavora sempre non sei mai a casa e anche quando hai tempo libero sei reperibile e devi rispondere. Non mi permetteva di fare il genitore come voglio, ma comunque non mi sarebbe andato bene perché l’equilibrio vita personale-lavoro ci deve essere, indipendentemente che tu abbia una famiglia o meno.
Spesso mi sono scontrato con l’idea della proprietà aziendale per cui se tu stai in ufficio allora vuol dire che stai lavorando, ma in realtà non è detto che sia per forza produttività, magari è
chiederti un giorno, che siano consapevoli del fatto che tu capisci che hanno un’esigenza e la rispetti; trovo che sia un aspetto fondamentale nel rapporto fra manager e collaboratori. Non ci occupiamo di medicina d’urgenza, non salviamo vite. Se facessimo quel lavoro le dinamiche sarebbero diverse, ma abbiamo un lavoro che si pone al servizio del ristoratore, delle persone, dello stare bene e della convivialità.
Lavoriamo in un open space quindi tra di noi lo scambio diretto è molto facile, se capita un problema e il gruppo va in tilt ci fermiamo e ragioniamo. Anche se sono persone di esperienza, hanno bisogno di qualcuno che li incoraggi e li spinga. Faccio lo stesso con mio figlio, che in alcune situazioni si sente non all’altezza, di non poter arrivare all’obiettivo. Quello che cerchiamo di fargli capire, insieme alla mia compagna, la cosa importante, è che lui ci voglia arrivare, se poi accade con il punteggio massimo o il minimo importa poco. Il legame con mio figlio mi aiuta anche nel rapporto lavorativo, quando ti relazioni con un ragazzo che fa
LE AZIENDE HANNO SEMPRE PIÙ BISOGNO DI MANAGER CHE SI SIEDANO A FIANCO DELLE PERSONE E NON SOPRA, QUALCUNO A CUI APPOGGIARSI E NON QUALCUNO CHE DIA ORDINI IN MODO CONTROLLANTE
solo presenza. Sono un sostenitore della settimana corta, per me è inutile stare in ufficio tredici ore, dopo sei scaldi l’aria e non riesci più a dare un valore aggiunto all’azienda. Se i risultati li porto a destinazione, non ci devono essere problemi quando ho bisogno di staccare perché devo occuparmi di mio figlio. A volte il venerdì prendo un permesso, Mattia la chiama la giornata padre-figlio, vado a prenderlo a scuola e pranziamo insieme. Prima non riuscivo mai a staccare, ero arrivato a un momento in cui arrivavo a casa da lavoro, mio figlio prendeva il telefono dalla borsa lo spegneva e diceva adesso sei mio
Quello che mi ha sempre fatto specie è che la maggior parte dei manager che ho incontrato ha una famiglia, eppure stanno in ufficio anche quindici ore al giorno perché tanto a casa c’è qualcuno che si occupa dei figli. Io l’ho fatto per un po’ di tempo, ma delegare tutto alla mia compagna non è corretto, diventa un rapporto squilibrato dove non ti prendi mai la responsabilità di essere presente. Tutto il mio gruppo di lavoro ha figli, comprendo perfettamente se un collaboratore mi chiama per un problema in famiglia e non può venire al lavoro. È importante che le persone si sentano libere di
fatica ad apprendere e che si sente in difetto nei confronti del mondo, devi spingerlo ad arrivarci. Questo ti cambia l’attitudine al confronto con il mondo lavorativo, personale, con la quotidianità. Secondo me le aziende hanno sempre più bisogno di manager che si siedano a fianco delle persone e non sopra, qualcuno a cui appoggiarsi e non qualcuno che dia ordini in modo controllante. Quando Mattia ha difficoltà con i compiti, ci mettiamo insieme e magari io sono lì a fianco con il mio pc a fare cose, lui si sente stimolato e fa da solo i compiti. Anche con i collaboratori, a volte mi metto a fare delle cose con loro nel caso di problemi, io seguo una cosa, loro un’altra e alla fine risolviamo. Ci dividiamo i compiti, definiamo delle priorità. Per gestire le persone devi avere una certa attitudine, tanti ingegneri che ho incontrato tecnicamente eccellenti erano però carenti nella capacità di ascolto.
A livello tecnico, per un giovane che entra nel team, sei un’eccellenza che può trasmettere conoscenza ma devi dargli anche gli strumenti per poter crescere come manager. La mia attitudine al cambiamento nel lavoro mi porta a pensare che se entri in un posto pensando di restare per sempre lì, hai spento il cervello
60
La storia di Fabio
perché non ti dai la possibilità di conoscere altri mondi e metterti in discussione. Cambiare azienda significa essere in prova per i primi sei mesi, indipendentemente dalle esperienze pregresse e in quel tempo; puoi essere anche Marchionne, ma i numeri li fai quando le persone diventano la tua squadra, prima le stai ancora conoscendo.
Oggi vedo la voglia di cambiamento, ma permane anche il timore legato al retaggio
sul fatto che cambiare può essere rischioso. Resiste ancora il valore riconosciuto della tranquillità data da un percorso definito ma per me, quando non hai più stimoli, non sei più una risorsa per l’azienda. Quello che dico a mio figlio, anche se non è ancora in un’ età universitaria, è di scegliere quello che gli piace, non quello che sceglie la massa. Se vuoi puoi anche stare per cinque anni a New York a vendere panini, ok, l’importante è farlo sempre con impegno e il sorriso.
61
La storia di Fabio
62
La storia di Giordano
Giordano Monacelli
IT manager KASTAMONU
Sono il primo giudice di me stesso
Sono nato in un paesino molto piccolo in provincia di Perugia. L’Umbria è bellissima, ma pur essendo il cuore dell’Italia non è certo il cuore dell’industria; non c’è grandissima offerta ed è difficile, perciò, pensare al successo qui o riuscire a soddisfare la propria ambizione. Mio padre mi ha tramandato la passione per l’informatica e, anche se lavorava per un’importante azienda italiana come Ferrovie Italiane, non ha mai voluto raccomandarmi e mi ha sempre insegnato la meritocrazia. Col senno di poi, tutte le scelte che ho fatto, giuste o sbagliate che fossero, mi hanno portato a essere la persona che sono oggi e tornando indietro avrei sì la tentazione di cambiare qualcosa, ma probabilmente rifarei tutto per tornare a dove sono adesso perché finalmente comincio a essere abbastanza soddisfatto dei miei traguardi. Insieme alla passione per l’informatica nel tempo ne ho sviluppata un’altra tutta mia: la fotografia. Nel periodo universitario, mentre studiavo ingegneria, per non gravare troppo sulla mia famiglia, ho iniziato a fare alcuni lavori come fotografo. Questo mi ha dato la possibilità di crescere come persona, ha ampliato la visione e la percezione che avevo di me stesso e mi ha permesso così
di non limitarmi a pensarmi solo come un tecnico informatico. Ho vissuto quegli anni universitari a Perugia, assaporando in pieno la bellezza di questa città. Poi c’è stato un tracollo dovuto al caso Meredith: quell’evento ha cambiato la percezione dei luoghi, non ti sentivi più al sicuro e gli studenti hanno iniziato a girare molto meno a piedi in centro storico.
Certo, lavorando e studiando insieme ho allungato un po’ il mio percorso di studi, ma non lo rinnego perché ho avuto alcune esperienze di lavoro importanti che mi hanno permesso di approfondire non solo il lato tecnico del mio lavoro, ma anche quello umano. La risoluzione dei problemi degli altri è un punto molto importante nel lavoro da IT e per fortuna era una cosa che mi veniva abbastanza naturale, questo mi ha fatto sentire piuttosto confidente nell’approccio al lavoro e mi ha fatto decidere di provare la carriera in proprio. Ho aperto una partita IVA con doppio ruolo, tecnico informatico e fotografo, e facevo entrambe le cose: assistenza informatica per piccole e medie imprese e fotografo di matrimoni ed eventi sportivi. Questa mia doppia competenza mi aiutava a rendere al
63 La
storia di Giordano
meglio. Il vero cambiamento nella mia vita è avvenuto quando è nata mia figlia, l’11 settembre, il giorno del mio ventottesimo compleanno, è stato proprio un bel regalo. Decisi di fare un colloquio per un posto di lavoro più stabile e iniziai a lavorare in IBM, dove rimasi fino al 2017, senza mai lasciare la fotografia. Mi accorsi purtroppo, col passare del tempo, che quella meritocrazia che tanto mi aveva insegnato mio padre qui non era rispettata e che non riuscivo a crescere o a imparare qualcosa di nuovo. Per me non andava bene perché sono molto ambizioso e preferisco fare dei sacrifici per crescere che vivere sempre nella mia comfort zone, così un giorno ricevetti una proposta di lavoro nuova e accettai. Era Kastamonu, l’azienda per cui lavoro oggi, un colosso vero e proprio che mi ha permesso di vivere e vedere il mondo IT in maniera molto diversa. Poco dopo chiusi la partita IVA come fotografo per dedicarmi totalmente a questo
dopo tanto lavoro i meriti se li prende qualcun altro. L’ingiustizia ci sarà sempre, ma voglio insegnare a mia figlia a guardare dentro sé stessa e riconoscere lei in primis il valore del suo operato per poi essere in grado di farlo capire agli altri. Uno slogan che va molto di moda nel mondo IT e: “risolvere in silenzio problemi che non sai nemmeno di avere”, ma se questo genera solo risentimento interiore, non ti fa lavorare bene e se non lavori bene, non vivi neanche bene. Non credo nel dogma della separazione della vita privata da quella lavorativa. Per me la vita è una, se hai bisogno di creare due compartimenti stagni significa che qualcosa non funziona.
L’informatico per sua natura nasce con l’incapacità di comunicare con gli altri, io mi sono sempre sforzato per lavorare su questo aspetto, e anche qui la fotografia ha aiutato molto, anche se ho sempre bisogno di
HO BISOGNO DI SFIDE, ANCHE LA FOTOGRAFIA È UNA
SFIDA CONTINUA: VEDERE UN FIORE O UNA PERSONA
E CERCARE DI RAPPRESENTARLA IN UN MODO DIVERSO
lavoro e per conoscere il mondo iT a 360°. Non bastava più essere abbastanza bravo a far tutto, dovevo essere molto bravo in tutto. Era un vero stimolo per me perché ho sempre voluto avere un’identità ricca di competenze diverse e non definita e specifica in un solo settore e se ci penso, di fatto la mia identità è determinata da tutte le mie passioni. Ho bisogno di sfide, anche la fotografia è una sfida continua: vedere un fiore o una persona e cercare di rappresentarla in un modo diverso. Come dicono in tanti, sono arrogante ed egocentrico, accetto la critica ma l’importante per me è cercare di non essere banale in niente di quello che faccio. Lo faccio per gli altri, ma anche e soprattutto per me.
Trovare soluzioni, risolvere i problemi, questo dà un senso al mio lavoro e al sacrificio che faccio per portarlo avanti, visto che cinque giorni a settimana sto lontano dalla mia famiglia e da mia figlia. Voglio essere un buon padre, voglio farla crescere nella consapevolezza che i sacrifici sono importanti, e valuto il tempo passato insieme in termini qualitativi e non quantitativi. Seguo l’esempio di mio padre, è grazie ai miei genitori se sono diventato la persona che sono oggi, e spero di essere d’ispirazione per lei come loro lo sono stati per me, in modo che trovi la sua strada. Il mio motto è mai darsi per vinti, anche quando
ritrovarmi nel silenzio. Al lavoro mi considerano un po’ scorbutico, ad esempio mi sono tolto da tutti i social perché detesto in maniera viscerale la stupidità e i commenti fatti senza un briciolo di pensiero, quindi, per evitare di inferocirmi ogni giorno ho preferito evitare. Nonostante io abbia una visione un po’ pessimistica della vita, il mio consiglio ai più giovani è quello di non scoraggiarsi mai, imparare dai propri errori, provarci sempre con criterio, fare formazione e, piccola cosa importante, scrivere bene i curricula. La scuola non è tutto, soprattutto la formazione con modello italiano molto teorica e poco pratica, allora spesso dico: trova una persona a cui ispirarti e cerca di prendere tutto quello che puoi, bisogna essere delle spugne. Mio nonno mi diceva sempre di circondarmi di persone più intelligenti di me perché mi avrebbero fatto crescere.
Per me stesso invece mi ricordo sempre di metterci qualcosa in più nelle cose, i dettagli fanno la differenza di essere sempre me stesso senza limitarmi e di provare a essere empatico il più possibile senza rinunciare a dire la verità. Faccio anche molta attenzione a non farmi trascinare giù da persone o esperienze negative. Non mi interessa emergere rispetto agli altri, il primo giudice di me stesso sono io e sono un giudice davvero molto severo.
64
La storia di Giordano
65
La storia di Giordano
COSA SONO GLI ESG E PERCHÉ SONO
COSÌ IMPORTANTI?
Oggi, quando decidiamo di investire in un soggetto, non possiamo più valutarlo solo dal punto di vista delle sue performance finanziarie. Vi sono altri aspetti, legati all’ambiente, alla società e all’amministrazione delle aziende, che devono guidare le nostre scelte. Si chiamano ESG - Environmental, Social and Governance, i tre fattori fondamentali per misurare la sostenibilità di un investimento.
Il primo criterio, quello ambientale, si riferisce al modo in cui l’azienda si rapporta alla salvaguardia ambientale. Indaga quindi l’impronta ambientale del soggetto: se la sua attività è strutturalmente dipendente dai combustibili fossili, se smaltisce correttamente i rifiuti, se è coinvolta nella deforestazione e via dicendo.
Il secondo fattore è quello sociale, che analizza le condizioni di lavoro dei dipendenti dell’impresa. Inclusione e rispetto della diversity, così come la salvaguardia di corretti rapporti interpersonali e l’attenzione alla sicurezza e alla salute sul luogo di lavoro, svolgono un ruolo fondamentale in questo ambito.
Infine, la governance osserva come viene amministrata l’azienda, ponendo una particolare attenzione alla remunerazione dei dirigenti (che non deve essere sproporzionata rispetto a quella degli altri dipendenti) e a pratiche fiscali, al fine di verificare che l’impresa non sia coinvolta in scandali legati alla corruzione o all’elusione del fisco.
L’analisi ESG sta diventando quindi il caposaldo dell’Investimento sostenibile e responsabile (Sustainable and Responsible Investing, SRI), prende in considerazione non solo il modo di operare delle aziende nella società, ma anche come questo influisca sulle loro performance future.
Da tempo Il Bullone affronta tematiche legate alla sostenibilità e all’etica delle aziende attraverso approfondimenti, interviste e inchieste sul mondo imprenditoriale realizzate dai beneficiari del progetto – ragazzi con patologie croniche – e dai volontari della redazione. Inclusione, ambiente, formazione, sensibilizzazione sono solo alcuni degli aspetti che hanno indagato e valorizzato nei propri
editoriali, consapevoli della loro rilevanza nella gestione aziendale. Per questo motivo Reach magazine ha deciso di dedicare agli ESG una rubrica con un articolo del Bullone che parli di queste tematiche. Pensiamo, infatti, che dalla contaminazione di testate diverse possano nascere nuove occasioni di riflessione e scambio intellettuale.
Nelle prossime pagine riportiamo un estratto del primo Lean Lifestyle Summit organizzato da Lenovys, società di consulenza direzionale che ha fatto evolvere il Lean Thinking in Lean Lifestyle, un nuovo modo di lavorare e di gestire l’azienda per ottenere più risultati, con meno tempo, meno stress e più benessere. I ragazzi del Bullone, in occasione del forum, hanno partecipato e realizzato un inserto per il 69° numero del giornale di cui potete leggere qui accanto alcuni estratti. Nelle pagine successive potete trovare gli interventi di Luciano Attolico, fondatore di Lenovys e Bill Niada, fondatore e Presidente del Bullone.
66
Nelle pagine de Il Bullone riportate di seguito: occhiello di Sofia Segre Reinach, articoli di Luciano Attolico e Bill Niada, illustrazione di Alberto Ruggieri, illustrazione cornice di Paola Parra, fotografie per gentile concessione di Lenovys e Il Bullone.
A cura di Eleonora Prinelli
Contenuto a cura della redazione de Il Bullone. Il Bullone è il mensile realizzato dai B.Liver - ragazzi che vivono il percorso della malattia - insieme a volontari e professionisti del settore. L’Ordine dei Giornalisti della Lombardia ha conferito il tesserino di giornalista pubblicista ad honorem a 84 ragazzi, riconoscendo il valore del giornalismo sociale svolto dalla testata.
Lenovys con Il Bullone
PIETRO CASSANI
La strategia?
Partiamo dall'identità
GIANLUCA GIOVANNETTI
Più innovazione nelle reti digitali
Direttore generale – Gellify a pag. V
LUCA BARILLA
La dimensione-uomo fattore determinante
Vice-presidente Gruppo Barilla a pag. VI
MAURO MAGATTI
Unire produzione, consumo e generatività Sociologo ed economista a pag.
ERA DUBBI
STRATEGIA, TRANSIZIONE DIGITALE, SOSTENIBILTÀ UMANA E SOCIALE
E ORGANIZZAZIONI AGILI: SONO I QUATTRO PUNTI DI PARTENZA CON I QUALI
SI È APERTO IL DIBATTITO SU COME FARE AZIENDA OGGI
LEAN LIFESTYLE SUMMIT
Quando l'incertezza apre una finestra nuova
on riesco a pensare a nulla di più appropriato del termine imprevedibile.
L’irruzione dell’imprevisto in un mondo occidentale come il nostro, che fonda il suo io – perlopiù economico –sull’analisi dei dati e della statistica, rende manifesto il concetto che il tempo che ci attende contiene al suo interno una componente di imponderabilità: l’avvenire».
L’avvenire non è il futuro. «Il futuro è necessariamente legato al presente», spiega così il filosofo Silvano Petrosino ai ragazzi del Bullone «perché esso è sempre il doma-
di Sofia Segre Reinach
ni di un determinato oggi. Non potrebbe essere altrimenti: quando noi progettiamo un’iniziativa futura, non possiamo far altro che partire dal presente in cui viviamo, vale a dire dalle nostre idee, sogni, speranze e ipotesi. È a partire dall’oggi che pensiamo al domani e, ancor di più, è a partire da ora che progettiamo (o cerchiamo di pre-vedere) il poi. Pro-gettare, lo dice la parola stessa, vuol dire gettare qualcosa in avanti, nel futuro.
All’opposto, invece, l’avvenire è precisamente ciò che non può essere pre-visto o pro-gettato. In direzione dell’avvenire non
possiamo gettare nulla. L’avvenire è il campo dell’evento, dell’avvenimento, di ciò che accade e lo fa senza avvisare». Stacco.
Villa Castelletti, Signa. 16 settembre 2022, prima edizione del Lean Lifestyle Summit, organizzato da Lenovys in collaborazione con Il Bullone
Un evento esclusivo che ha riunito imprenditori, amministratori delegati e relatori autorevoli per fermarsi e confrontarsi sull’era che stiamo attraversando: quella dei dubbi, dei cambiamenti continui e dell’incertezza. Una giornata per condividere visioni,
idee ed esperienze concrete per un nuovo modo di fare impresa. Strategia, transizione digitale, sostenibilità umana e sociale, organizzazioni agili. Questi i quattro spunti di partenza su cui, grazie all’ascolto attivo, il dialogo informale abbiamo – tutti insieme –aperto nuove strade.
Sì, siamo nell’era dei dubbi. E i dubbi, se non ci travolgono ma si attraversano, ci aiutano a costruire.
Una certezza la trovo a fine di questo incontro: la certezza della necessità dell’incertezza.
67 19 Novembre 2022 Il Bullone
CEO
Marchesini
S.p.A. a pag. IV
-
Group
«N
L'
DEI L'ILLUSTRAZIONE È DI ALBERTO RUGGIERI I
VII L'ILLUSTRAZIONI È DI PAOLA PARRA
Domandiamoci che cosa fare di diverso, che cosa fare meglio
Quando avevamo iniziato a capire come vivere in un mondo complesso, ecco che siamo piombati nella più assoluta incertezza di ciò che ci attende dietro l’angolo.
Le aziende devono aprirsi al mondo per affrontare il cambiamento e trovare nuove strade da intraprendere per crescere e svilupparsi
Mi sono reso conto che dovevo cambiare mentalità quando è nato mio figlio: dovevo aiutarlo ad accedere a tutte le sue personali risorse
Non dobbiamo dimenticare che abbiamo una responsabilità sociale perché le nostre aziende influenzano la vita di molte persone
Oggi è diventato dannatamente difficile immaginare il domani delle nostre aziende e impegnarci concretamente nel lasciare un segno positivo nelle persone, nella società e nell’ambiente.
In momenti come questi c’è bisogno, dal mio punto di vista, di mettere insieme menti ed esperienze, per domandarci che cosa fare di diverso e cosa fare meglio.
Quando si vive nell’epoca dell’incertezza e dei dubbi, la chiusura su se stessi non aiuta a trovare nuove strade da intraprendere. Come imprenditori e manager siamo al contrario chiamati a unire prospettive diverse e aprirci al confronto, condividere domande e stimoli per superare le alte onde in cui ci troviamo quotidianamente.
È per questo motivo che due anni fa ho avuto l’idea di creare un manifesto per definire un modello di azienda – la Lean Lifestyle Company – che potesse essere ispirazione e aspirazione per imprenditori e manager come me.
L’idea mi è venuta con la nascita di mio figlio, e dai tanti dubbi che mi hanno assalito pensando a che genitore avrei dovuto – e voluto – essere. Mi sono confrontato, ho letto libri, ho parlato con neuroscienziati ed esperti. Una domanda mi ha colpito in modo particolare: «Luciano, che modello di figlio, di persona, hai in mente?» Questa domanda mi ha spiazzato. Inizialmente ho cominciato a rispondermi che avrei voluto un figlio che andasse bene a scuola, nello sport, che avesse un buon lavoro. Mentre mi rispondevo così, ho capito però quanto fossi vittima del pensiero comune del mondo moderno, incentrato su risultati, performance, apparenza. Mi sono quindi reso conto che l’unica cosa che ho a cuore davvero per mio figlio, è che lui possa avere accesso a tutte le sue risorse, per poter sviluppare il suo potenziale, costruirsi la sua strada, ed essere felice.
Questa nuova prospettiva, ha cambiato il modo in cui faccio il genitore, ma anche il modo in cui faccio l’imprenditore e il consulente. Le nostre aziende devono tirare fuori il meglio delle persone, del loro potenziale. Questo crea il terreno fertile per lo sviluppo e per poter far fronte anche a quest’epoca incerta.
Ogni volta che nella storia dell’uomo c’è stato un cambiamento, c’è stato qualcuno che ha avuto il coraggio di farlo e che ha aggregato altre persone.
Non restiamo da soli, non ragioniamo solamente con la nostra testa, ma apriamoci al confronto così com’è avvenuto nel Lean Lifestyle Summit. Non dimentichiamoci che abbiamo una responsabilità sociale. Ogni singola azione della nostra azienda va a influenzare centinaia di migliaia di persone. Accettiamo la sfida dei dubbi e chiediamoci che cosa vogliamo realmente fare per lasciare il nostro impatto positivo nella società, andando ben oltre i nostri interessi personali. Allora sì che possiamo partecipare attivamente alla trasformazione di questo Paese.
Il Lean Lifestyle Summit ha voluto essere una zona franca, senza nessun meccanismo di particolarismo, che ha sottolineato l’esigenza concreta di oggi di fare squadra, di mettere in condivisone le esperienze di aziende di diversi settori, per costruire un pensiero condiviso e acquisire spunti, riflessioni e azioni concrete nuove da applicare ciascuno nella propria realtà aziendale. Portiamoci a casa il coraggio di fare almeno un pezzettino di quello che abbiamo appreso.
20 Novembre 2022 Il Bullone ❞ Il Bullone ILLUSTRAZIONE È DI PAOLA PARRA II
Luciano Attolico, CEO & Founder - Lenovys
Alcuni momenti del Lean Lifestyle Summit, l’evento esclusivo organizzato da Lenovys. 16 settembre 2022, Villa Castelletti, Signa. (Crediti: Lenovys)
I ragazzi del Bullone fanno scoprire altri mondi per l'azienda
Ho avuto la gioia di avere dei figli. Purtroppo la più grande di loro, Clementina, si è ammalata. Così, da tre figlie, ora ne ho due. Seguire la malattia di Clementina dai quattro ai dieci anni, nella speranza che potesse guarire, e poi, cercare di capire come si possa convivere con l’ipotesi della morte del proprio figlio, mi ha fatto riflettere su cosa avessi imparato e cosa avessi accolto da questa bambina saggia, saggia come tutti i bambini che attraversano la malattia. Noi adulti spesso corriamo, ma dobbiamo fermarci per capire che ci sono cose più importanti dietro cui correre: io ho sempre fatto l’imprenditore, mio padre è un industriale, ho fondato diverse aziende, ho portato per la prima volta gli outlet in Italia e ho partecipato in una startup che si chiama Napapijri Poi quando Clementina si è ammalata, ho cercato per sei anni di curarla in giro per il mondo e, quando è mancata, ho creato una fondazione che si chiama Magica Cleme, che porta i bambini malati di cancro e i loro genitori a divertirsi. Sono così entrato in un mondo parallelo, un mondo che nessuno vorrebbe toccare, ma che permette di scoprire cose bellissime, entrando in contatto con la parte migliore dell’essere umano.
Negli anni immaginavo Clementina crescere, oltre a divertirsi e giocare doveva anche lavorare, e così è nata nel 2012 la Fondazione Near Onlus e nel 2015 il nostro giornale: Il Bullone, un giornale autorevole, diretto da Giancarlo Perego che quest’anno ha vinto il Premio Montale e il Premio De Sanctis.
Dal 2021 l’Ordine dei Giornalisti ha conferito 84 tesserini da pubblicisti ad honorem ai ragazzi che scrivono, riconoscendone il merito e non perché malati: nella fondazione non c’è nulla fatto per pietismo, nessuno deve pensarsi come malato.
La nostra forza è andare oltre la malattia, tutti si devono riconoscere come persone e non come pazienti. I ragazzi vogliono riscoprire la propria identità, le proprie passioni, i propri talenti. Vogliono essere accolti per come sono e mettercela tutta.
Quello che cerchiamo di fare, anche qui con Lenovys, è portare delle emozioni e una prospettiva diversa, che è quella di chi si è confrontato con incertezze vere, indipendenti dalla propria volontà e dalle proprie capacità, lasciando un segno e un messaggio per crescere. Questa fondazione realizza progetti con le aziende, che ci cercano proprio perché portiamo il punto di vista dei giovani, con intelligenze e sensibilità che spesso non vengono considerate, ma che in realtà sono importantissime.
Negli ultimi cinque anni, grazie agli incontri con Luciano Attolico e Lenovys e alle reciproche collaborazioni, abbiamo appreso come lavorare seguendo i valori dell’ordine e della disciplina, che sono fondamentali anche all’interno di una fondazione. Spesso i ragazzi, quando arrivano nella nostra realtà, sono affaticati dalla malattia, sono rinchiusi in una spirale di incertezze: disciplina, ordine e organizzazione servono per rimanere saldi e poter progettare il futuro. Luciano e il suo team gli hanno insegnato ad applicarle nel lavoro e ne sono grato. La nostra fondazione, oltre a portare empatia e capacità di ascolto, è anche qualcosa di utile ai ragazzi per imparare a lavorare, ma penso che possa essere anche utile alle imprese per capire che ci sono altri modi di fare azienda.
❞
Ci siamo confrontati con incertezze vere, indipendenti dalla nostra volontà, lasciando un segno e un messaggio per crescere
La perdita di mia
figlia Clementina mi ha messo in contatto con la parte migliore dell'essere umano e mi ha fatto scoprire cose bellissime
Questa
fondazione realizza progetti con le aziende per i giovani che vanno oltre la malattia e vogliono mettercela tutta ed essere accolti
21 Novembre 2022 Il Bullone III
Bill Niada, Fondatore e Presidente Fondazione Near Onlus
Lenovys con Il Bullone
70 La storia di Elise
Al servizio delle persone
La mia esperienza lavorativa inizia dodici anni fa in Axa, dove sono tutt’ora. Ho sempre saputo che volevo lavorare nel mondo delle risorse umane, volevo parlare le lingue e aiutare le persone, sentivo la forte esigenza di mettermi al servizio degli altri. Ho iniziato le prime esperienze in Croce Rossa quando avevo 6 anni, c’era la sezione junior dove ci insegnavano che era importante dare il nostro contributo. Oltre ai primi soccorsi facevamo tutta una serie di attività alternative, per esempio organizzavamo feste per i nostri coetanei che vivevano in quartieri disagiati, oppure creavamo dei balletti per gli anziani nelle strutture per la terza età. Ho dei ricordi bellissimi di quel periodo.
Conosco varie lingue perché sono di famiglia metà francese e metà italiana, mio nonno mi parlava in tedesco, la mia classe era internazionale e avevo compagni di scuola australiani, americani, messicani. Sono cresciuta dentro un mix culturale e linguistico che mi ha stimolato molto. Quando poi ho cercato il mio orientamento professionale ho saputo ascoltarmi e ho colto gli input che avevo ricevuto facendo la scelta giusta. Sono cresciuta nel Principato di Monaco e ho deciso di andare via di casa per vedere altri mondi, più grandi: prima Madrid, poi Parigi, e sette anni fa sono arrivata in Italia. Quando mi hanno proposto di creare la funzione HR nella piccola divisione del gruppo Axa a Milano ho accettato perché era l’occasione di organizzare tutto da zero, potevo divulgare i concetti dell’HR nel modo in cui io li intendevo. Ho potuto realizzare le iniziative che ritenevo importanti a partire proprio dalle esigenze dell’azienda e delle persone e chiedendo loro un riscontro per poter adattare e implementare ogni passaggio.
Sono convinta che il ruolo delle risorse umane sia proprio quello di migliorare la vita delle persone e dare un contributo alla società. Dedichi tante ore al lavoro e quello che ti porti a casa è importante, se sono solo cose negative invadono la tua vita personale e anche le persone con cui condividi il tuo spazio e il tuo tempo.
L’HR per me è un intermediario, fa in modo che i concetti aziendali possano essere compresi dalle persone, e viceversa. Nelle mie varie esperienze ci sono stati anche momenti difficili da affrontare da un punto di vista umano perchè l’organizzazione doveva riadattarsi a esigenze aziendali e questo ha comportato dei grandi cambiamenti per le persone. In questi cambiamenti penso che il mio ruolo come HR sia quello di permettere all’azienda di raggiungere i suoi obiettivi, trovando le migliori soluzioni sia per il team che individuali. Questo accade ricollocando le persone, formandole a nuovi ruoli, aiutandole a prendere decisioni sul loro futuro in azienda o in altre realtà, seguendole nella loro transizione verso la pensione e il pre-pensionamento, piuttosto che aiutando coloro che scelgono di cambiare vita a cogliere l’occasione per seguire i loro sogni o obiettivi professionali con la creazione di un’attività in proprio.
A livello culturale mi sono trovata a dover gestire molti cambiamenti che rappresentano una svolta nel proprio quotidiano. È stato complicato perché nel ruolo delle risorse umane in alcuni casi mi sono sentita sola, senza poter contare sul supporto del team che talvolta subisce anche questi cambiamenti organizzativi. Quello che però ho impostato in maniera coerente negli anni ha fatto sì che le persone avessero
71 La storia di Elise
Elise Fraval
Head of HR AXA XL
comunque fiducia in me. Nel periodo della pandemia per esempio, i forti cambiamenti organizzativi in un momento di così grande incertezza non potevano essere accompagnati dalla creazione dei legami tra le persone per via dell’isolamento prolungato ed è stato difficile per me cogliere a distanza le problematiche, così ho cercato di colmare questo divario sentendo continuamente le persone, cercando il contatto giornalmente. Abbiamo anche creato, con il team HR, dei piccoli gruppi di incontro come il Who’s who? durante i quali si condividevano dettagli personali attraverso un quiz, così le persone si ascoltavano e avevano modo di conoscersi in momenti di svago. I cambiamenti organizzativi sono complessi da gestire, le soluzioni non ci sono per tutti e nonostante le mie buone intenzioni bisogna fare i conti con la realtà. In ogni situazione, mi sono messa nei panni delle persone che ricevevano la notizia che il loro ruolo, così com’era, domani non ci
puoi scinderli. A livello aziendale c’è un grande impegno per migliorare la consapevolezza su questo e condividere le informazioni, lo facciamo attraverso una settimana dedicata alla salute fisica e mentale, con conferenze dedicate alla prevenzione e alla gestione delle varie problematiche, così come curiamo la parte sociale con l’associazione Axa Cuori in Azione che organizza eventi a cui ci si può iscrivere e partecipare.
Parlare della salute è un argomento delicato, soprattutto per la salute mentale, dove si tende spesso a nascondere i propri problemi. Vale anche per la malattia fisica, c’è questo atteggiamento che porta a pensare che passerà da sola e si sceglie di non guardare i sintomi non rendendosi conto di quanto siano importanti la prevenzione e i controlli periodici, in questo modo si rischia di arrivare al punto in cui la situazione diventa ingestibile. Tutto il sistema
LA DIFFICOLTÀ DELL’HR È EDUCARE I MANAGER
PROPRIO A INTERCETTARE QUESTI SEGNALI DI MALESSERE PERCHÉ NON SI PUÒ ESSERE CON TUTTI IN OGNI
sarebbe più stato; il mio compito era quello di trovare l’equilibrio, non dovevo farli preoccupare ma non potevo dirgli di non allarmarsi perché effettivamente non sapevo ancora quali avrebbero potuto essere le soluzioni.
Per aiutare le persone a stare bene devo trovare la giusta distanza per non essere troppo invasiva e coinvolta ma neanche troppo distaccata. La fiducia si costruisce quotidianamente, per me è una questione di disponibilità: esserci nel momento in cui qualcuno ti chiede di esserci e avere tempo da dedicargli. A volte in azienda è come se tu cercassi di essere un’altra persona, nascondendo le tue debolezze che però alla fine sono i tuoi elementi di forza se le utilizzi nel modo più onesto possibile. Le persone ti vedono per come sei, quindi puoi essere te stesso e cercare di essere trasparente nella comunicazione con gli altri, senza fare promesse e ugualmente senza nasconderti o mentire.
La mia percezione è che ci sono persone che cercano di cambiare le cose aprendosi al mondo, e ci sono quelle che sono impostate in una modalità lavorativa dove la parte personale non deve entrare in quella professionale. È un peccato, per me l’equilibrio vita-lavoro comporta il considerarli insieme e sempre influenzabili l’uno dall’altro, oggi si parla sempre di più di sinergia tra questi due aspetti perché non
sanitario nazionale è a disposizione per curarsi ed è un peccato non utilizzarlo. In azienda dedichiamo diversi momenti alla consapevolezza, e quando vedo una persona che non sta bene cerco di parlarci per un primo contatto. Mettiamo a disposizione un numero e una chat H24 in tutte le lingue per parlare della tematica che riguarda le persone, professionale o personale, compresi i problemi finanziari che spesso creano un disagio importante di cui in azienda non si parla mai. La difficoltà dell’HR è educare i manager proprio a intercettare questi segnali di malessere perché non si può essere con tutti in ogni momento. Cerchiamo di fare formazione continua, ma se non c’è una sensibilità di partenza è molto difficile cambiare le persone e le proprie abitudini.
Oggi non puoi non prenderti cura delle persone, soprattutto perché lo scopo dell’azienda è proprio quello, per cui lo metti in pratica a partire dai tuoi dipendenti. Poi viene fatto certamente anche per un profitto per l’azienda. La reputazione trasmette fiducia ai clienti, così come il fatto di prendersi cura dei dipendenti li porta, a loro volta, a prendersi cura dei clienti. Al di là delle logiche aziendali, l’importante è che venga fatto e che ci sia coerenza nel modo in cui questo meccanismo viene portato avanti, per un profitto a lungo termine per le nostre comunità e per la società in cui viviamo e vivranno le prossime generazioni.
72 La storia di Elise
MOMENTO
73 La storia di Elise
74
La storia di Giulio
Giulio Raineri
CTO REPOWER ITALIA
imparato a
Mio fratello e mia sorella sono sordi, mi è quindi molto caro il concetto di andare oltre la malattia, e mi ha insegnato molto. Nel corso della mia vita ho dovuto imparare ad aiutarli, io ero il maggiore e quindi mi sono ingegnato per trovare dei modi diversi per comunicare,, per far capire a persone che fondamentalmente non parlano la tua lingua, che cosa sta accadendo, quello che si sta facendo. Potete facilmente comprendere come questo abbia agevolato il percorso della mia carriera. Io sono un esperto di comunicazioni, in tutti gli ambiti applicabili, non solo a livello di esposizione, di struttura, di gestualità, ma anche nel mondo delle telecomunicazioni. Mi sono specializzato nell’ambito della telefonia, partendo dal basso, attaccando cavi per i centralini telefonici, e poi sono cresciuto pian piano. Dalla mia avevo una skill importantissima, che arrivava proprio da quella mia personalissima esperienza familiare: sapevo farmi capire. Questo è stato fondamentale nel lavoro, ad esempio per dialogare anche con chi non è familiare con il gergo tecnico dell’IT perché semplicemente si occupa di altro. Sono sempre alla ricerca di diversi modi di comunicare nel lavoro come nella vita.
Una delle mie passioni, che è anche un mio modo di comunicare, è la musica. Sono un musicista, suono la chitarra da quando avevo sedici anni e ho capito nel tempo che questo era il mio modo per esprimere dei valori. La musica è solo uno strumento, nel senso che è un altro mio modo per trovare una struttura delle cose e ho compreso che prendere tutte queste esperienze e traslarle anche nel modo di operare sul lavoro aiuta molto. Certo, a volte bisogna fare piccoli aggiustamenti, dare qualche martellata a destra e a sinistra, ma in definitiva le cose funzionano. Il contesto in cui sono cresciuto mi ha sicuramente regalato
un’apertura mentale tale da permettermi di calarmi nel contesto delle vite altrui trovando spesso il giusto modo per farlo, ma soprattutto mi ha portato a una riflessione importante: la comunicazione non è solo con, verso o per gli altri. La comunicazione è anche con se stessi, e saper comunicare con noi stessi è fondamentale per poter poi comunicare con gli altri.
Sono buddista, e il buddismo è una filosofia di vita che mi aiuta a comprendere prima me stesso poi gli altri. Ho incontrato la filosofia buddista a sedici anni, grazie a un lontano cugino buddista. Ai tempi lavoravamo insieme in un bar e lui in un momento di estrema stanchezza si è fermato e mi ha detto che andava a praticare; quando è tornato era rigenerato e quell’immagine mi è rimasta impressa indelebilmente nella mente. Per tanti anni l’ho lasciata in cantina e non ho mai approfondito la cosa, poi qualche anno fa ho conosciuto una ragazza buddista e quando le ho raccontato questo ricordo mi ha convinto a provare. In quel momento attraversavo un periodo di grande sofferenza emotiva: mi ero appena separato e nella pratica buddista ho trovato un modo per superare quella sofferenza, quasi subito però ho scoperto che la pratica buddista poteva essere e dare molto di più. È infatti un modo per conoscersi e un tentativo di abbracciare il bene del mondo, tutto quello che c’è e che a volte non vediamo in un mondo come il nostro attento quasi esclusivamente al soldo e poco ai valori. Il mio percorso lavorativo è sempre stato permeato dalla mia vita personale, per un motivo o per l’altro. A volte, nell’ambito lavorativo la gestione delle responsabilità e dello stress è un tema complesso da gestire. Io all’inizio usavo come arma la grinta, cercando di affrontare tutto a viso aperto, accettando tutte le conseguenze, belle o brutte, i fallimenti, poi è arrivato il buddismo,
75 La storia di Giulio
Ho
comunicare stando vicino ai miei fratelli
uno strumento che mi aiuta a gestire lo stress senza contrastarlo come facevo prima, ma sciogliendolo attraverso la meditazione. L’energia prodotta dalla grinta c’è ancora ma viene espressa in maniera differente, con meno ansia. Medito circa un’ora al giorno, mezz’ora la mattina e mezz’ora la sera e faccio sport. Forse agli occhi degli altri queste sono soft skills, ma posso assicurarvi che per me non sono per niente soft. Sono molto profonde e forse emergono poco o siamo abituati a vederle e usarle poco, ma soft non è il termine corretto, forse potremmo chiamarle deep skills. Se il mio percorso personale non fosse stato questo, probabilmente oggi farei un altro mestiere, di sicuro non mi interesserei di comunicazione e sarei rimasto nel mio bugigattolo tecnico a fare il programmatore o il sistemista. Di sicuro non sarei un manager, attività che secondo me richiede una buona dose di capacità comunicativa e di empatia. Dal punto di vista umano cerco sempre di ascoltare e stimolare i miei collaboratori, mi piace che i brainstorming siano veramente liberi e che ci sia la possibilità anche di dire cavolate, senza vergogna, perché poi è proprio da lì che si parte per costruire qualcosa di nuovo e si innescano meccanismi virtuosi. Vi racconto questa piccola cosa di cui sono fiero: nel ‘98, quando ancora non c’era Google Maps, uscì l’Alfa 146 che era la prima macchina che montava un navigatore seriale e mi incaricarono
di scrivere il protocollo di comunicazione che dal satellite arrivava al call center di Alfa Romeo per contattare un operatore, il quale a quel punto, dopo aver chiamato tramite telefono l’utente, cercava sul database le informazioni necessarie per raggiungere il luogo di destinazione desiderato e le inviava al navigatore tramite sms. A pensarci oggi sembra assurdo, ma funzionava proprio così il “papà” di Google Maps. Questo per me è affascinante da raccontare perché ti fa vedere veramente molti aspetti della comunicazione: sistemi che comunicano tra sistemi, operatori umani che comunicano sia con altri esseri umani sia con sistemi digitali, insomma tutte le varie interazioni possibili. Ormai avrete capito che per me la comunicazione è fondamentale: ho sofferto molto nel vedere come il Covid abbia in qualche modo soffocato la comunicazione reale fra noi, mettendo in secondo piano l’importanza di vedersi e potersi guardare negli occhi senza un filtro tecnologico in mezzo. Le nuove generazioni si incontrano poco, è un peccato, a maggior ragione per i più fragili, e di nuovo qui la mia esperienza familiare mi fa riflettere. Bisogna diversificare le tecnologie perché nella disabilità non è facile trovare quella che unisca i bisogni di tutti, però ricorderò sempre la prima videochiamata con mio fratello e mia sorella, potevano vedermi e attraverso il movimento labiale capire quello che stavo dicendo: è stato davvero emozionante.
76
La storia di Giulio
ABBONATI A REACH E SOSTIENI I PROGETTI SOCIALI DEL BULLONE
Scopri le formule per privati e aziende, a partire da 100 euro l’anno su www.richmondmagnewsmail.com/abbonati e sostienici con la tua energia e partecipazione.
1. Leggi la versione on-line
Vai alla sezione Social responsibility di www.richmonditalia.it e sfoglia le copie digitali di Reach.
2. Parlane sui social
Se una storia o un contenuto ti hanno colpito, fallo sapere sui tuoi canali social con l’hashtag #human2humanmagazine.
3. Raccontaci la tua storia
Scrivici a reachmagazine@fondazionenear.org per scoprire come raccontare la tua storia di vita e di business e vederla pubblicata su Reach.
77
DIMMI IL TUO COLORE E TI DIRÒ CHI SEI E QUAL È IL TUO STILE MANAGERIALE
Ogni persona, e dunque ogni manager, hanno un modo diverso di prendere decisioni, risolvere problemi e relazionarsi con gli altri. Ma all’interno di un mosaico di sfumature praticamente infinito si possono scorgere delle famiglie di paradigmi ricorrenti, degli stili decisionali e cognitivi. E qui le cose si fanno interessanti. Tutto è iniziato con un progetto di formazione interna che abbiamo intrapreso con l’aiuto di un nostro partner di lunga data, HXO Humanities inventriX Opera. Abbiamo ‘mappato’ il nostro team rispetto a quattro colori di base, il Blu, il Verde, il Rosso e il Giallo, ciascuno portatore di uno spettro valoriale piuttosto esteso. E poi in occasione di un evento interno abbiamo provato a ‘indossare’ l’abito che ci è stato cucito addosso per vedere come ci stava. Ci siamo divertiti molto, e ne abbiamo tratto una consapevolezza giocosa che si è poi si è rivelata assai utile anche nelle cose serie.
A quel punto, ci siamo detti, perché non mappare l’intero ecosistema che gravita intorno ai nostri forum? Detto fatto. Abbiamo chiesto a tutti i partecipanti dei 21 eventi realizzati nel 2022 di rispondere ad un agile test non solo per dare a ognuno di loro la possibilità di definire il proprio colore predominante (e lo hanno fatto con una buona dose di divertimento!) ma anche per restituire una panoramica dei diversi reparti aziendali, scoprendo eventuali fattori comuni o dissonanze proprio all’interno degli stessi.
Il campione è di tutto rispetto: 1.411 Delegate e 1.250 Exhibitor divisi in ben 17 diversi ruoli manageriali e reparti, dalla logistica al marketing, dalle Risorse umane agli Acquisti... e cosi via. L’età media è di 43 anni, il 75% degli intervistati è di sesso maschile. Abbiamo chiesto agli psicologi Paola Pirri, David Cariani e Lara Cesari di interpretare i risultati. Ecco cosa ne è venuto fuori. Non è escluso che vi riguardi.
Benedetta Favara Chief Operating officer Richmond Italia
ETÀ E GENERE
Cominciamo col dire che nel campione preso in esame l’età è ininfluente sui colori delle persone, ogni età ha tutti i colori rappresentati, mentre il genere influisce molto. Gli uomini tendono a essere più Verde e le donne tendono a essere più Rosso: gli uomini tendono quindi a utilizzare uno stile più caratterizzato dall’analisi neutrale dei dati di realtà, dalla logica, a fare ipotesi sulle possibili decisioni con lo sguardo distaccato dello scienziato. Le donne sono più inclini a immergersi nelle situazioni con coinvolgimento affettivo ed emotivo e a prendere decisioni dando più rilevanza agli impatti che queste possono avere sulle persone.
40% 27% 14% DONNE 23% 27% UOMINI 21% 23% 25%
OGNI FORUM HA I SUOI DELEGATE
È il nostro lavoro che ci modella e sviluppa alcuni colori più di altri? O al contrario scegliamo il nostro lavoro in funzione dei nostri colori? Noi siamo per la prima opzione. Certamente nell’analizzare le risposte abbiamo riscontrato differenze rilevanti fra i Delegate dei diversi settori di riferimento dei forum.
Fra i CFO, gli Energy manager e gli HSE manager prevale il profilo del Razionale, che nasce da una composizione di due colori dominanti: il Blu logico analitico e il Verde pragmatico, con assenza del Giallo espressivo. Sono conclusivi e rigorosi negli impegni che assumono, risoluti nell’individuare soluzioni attendibili per non lasciare le situazioni nell’incertezza. Tendono ad avere un approccio cauto, controllato, a tratti distante e a volte possono evitare la ricerca di intimità e vicinanza. Nell’analizzare le proposte che vengono loro fatte preferiscono utilizzare categorie strutturate e solide, considerando aleatorio ciò che ha a che fare con i canali emozionale e relazionale. Nei loro interlocutori, per decidere di fidarsi, cercano integrità, neutralità e affidabilità, mantenendosi più cauti e distaccati con chi propone fantasiosi scenari da immaginare o possibili conseguenze non dimostrabili. Non sono particolarmente interessati allo scambio e alla reciprocità, ciò che conta per loro sono i contenuti fondati e i risultati documentabili.
I Logistics manager, i Facility manager e i manager che, all’interno delle aziende, si occupano di avviare percorsi di trasformazione Industry 4.0 hanno un profilo direttivo pragmatico con forte dominanza Verde, accompagnata da un’assenza di Giallo espressivo intuitivo. Sono concreti e fattivi, interessati a ottimizzare i processi di lavoro e a presidiare l’efficienza e il risultato. Sono rapidi nell’individuare ostacoli e nell’organizzare i modi per superarli, sanno prendere decisioni rapidamente e con sicurezza. Non hanno tempo per i fronzoli, vogliono la chiusura del cerchio, il quindi conclusivo, vanno al sodo e non si guardano indietro per portare dubbi o fare revisioni che considerano inutile spreco di tempo. Quando ricevono proposte che vogliono valutare cercano la sintesi, la capacità di andare al punto, i risultati che la proposta porterà, detestano le lunghe premesse, i “forse”, l’indeterminatezza, i rivoli ipotetici delle presentazioni. Vogliono conoscere i vantaggi e i risultati concreti che conseguiranno nel loro contesto di riferimento.
I Delegate che si occupano dei sistemi informatici sono nel complesso Blu logico analitico, e non hanno il Giallo espressivo intuitivo. Danno grande importanza all’analisi critica, alla competenza, alla perfezione tecnica, ai fatti. Sono particolarmente efficaci nelle analisi e nella formulazione di giudizi distaccati e ponderati. Sono scrupolosi, non amano l’approssimazione e prediligono un approccio esploratorio e accurato alle questioni, anche disponibili a mantenere sospeso l’atto di decisione finale pur di giungere a una conoscenza approfondita degli elementi costitutivi del problema. La loro affidabilità, il rigore con cui affrontano ogni singolo onere professionale, la loro disponibilità ad assumere su di sé la responsabilità degli obiettivi li rendono persone di grande spessore e integrità. Quando viene loro presentato un progetto o un prodotto, la loro necessità di perfezione tecnica li potrebbe rendere desiderosi di analisi accurate e approfondite, corredate da dati puntuali e dimostrabili. Rifuggono l’approssimazione, amano il rigore e l’aderenza ai dati di realtà nell’elaborazione di soluzioni. Hanno bisogno di lentezza, ponderazione, non sono a proprio agio nella velocità e nella superficialità dello scambio.
I Delegate del settore Digital, E-commerce e Marketing e, scopriamo con grande stupore, anche i Responsabili della sicurezza informatica sono per lo più Giallo espressivo intuitivo, con assenza del Blu logico analitico. Abili nell’intuire soluzioni ai problemi e nel ricavare una visione d’insieme delle cose, cercano e creano il cambiamento, non amano la ripetitività, e con entusiasmo si domandano cosa fare per rendere migliori le cose, desiderosi di sorprendere e guidare evoluzioni. Sanno trasmettere all’ambiente energia e dinamismo, ispirare e motivare all’ideazione e alla scoperta, per nulla inclini a rimanere in disparte. Poco inclini a fermarsi a lungo su un atto di ponderazione e approfondimento, tendono a non dubitare, a fidarsi delle proprie intuizioni adattando i dati che raccolgono alla loro visione delle cose, scartando ciò che potrebbe mettere in crisi le loro conclusioni. Portano entusiasmo e amano negli altri l’entusiasmo, si avvicinano con disponibilità a chi propone innovazioni, evoluzioni, cambiamenti, mentre non amano chi percepiscono titubante, conservatore, nostalgico. Un punto di attenzione quando ci si confronta con loro è l’incostanza: può infatti essere percepito come innamorato di un progetto e coinvolto per poi volgersi altrove, fluttuando fra momenti di forte slancio e momenti di distrazione.
I professionisti delle Risorse umane sono Rosso affettivo, con assenza di Blu logico analitico. Si confermano orientati alle persone e alla costruzione di relazioni interpersonali significative, generosi e inclini a costruire rapporti di fiducia e reciprocità, capaci di sviluppare un forte senso di appartenenza al gruppo e all’organizzazione, di cui non solo diventano parte ma dei cui obiettivi di crescita e sviluppo si fanno garanti e propulsori. Sono attenti a raccogliere indizi comportamentali, sulla cui base costruiscono e organizzano la conoscenza del contesto aziendale. Si riconoscono la capacità di scovare e individuare segnali invisibili ai più, contribuendo alla lettura dei contesti in termini relazionali, culturali, di evoluzione di sistemi di rapporti. Vivono le esperienze con passione, senza neutralità, schierandosi ed esponendosi in prima persona, e quando affrontano un problema non sono inclini a utilizzare distacco emozionale, logica e razionalità.
79
I manager dell’area Retail sono soprattutto Istintivi, profilo che nasce da una composizione di due colori dominanti, il Verde pragmatico e il Rosso affettivo, cui si affianca l’assenza del Blu logico analitico. Rapidi, fattivi, concreti, sanno mettere a fuoco gli aspetti rilevanti di una questione, definendo con sicurezza cosa è marginale e trascurabile e cosa non lo è, e tendono a fare la stessa cosa nelle relazioni, che leggono in modo affettivo e immediato. Sono sicuri della loro capacità di interpretare le intenzioni degli altri e l’incontro con l’altro genera in loro riflessioni rapide: sono intuitivi, viscerali, pronti a decidere per l’apertura o la diffidenza, per la vicinanza o la cautela. Hanno bisogno di un gruppo in cui operare, non sembrano trovarsi a proprio agio in situazioni di lavoro solitarie: prediligono il confronto, lo scambio, l’appartenenza, il sentirsi parte. Fuori da un’appartenenza potrebbero perdere motivazione all’impegno, indebolire la propria energia e le proprie potenzialità realizzative. Hanno bisogno di percepire nell’altro stima e fiducia e su questa base si consentono di dare stima e fiducia, hanno bisogno di sentirsi riconosciuti e su questa base riconoscono se stessi. Immediati e istintivi nell’approccio alla vita, tendono a non utilizzare modalità strategiche, che anzi potrebbero subire con fastidio.
Nel reparto Acquisti troviamo soprattutto Finalizzatori, profilo che nasce da una composizione di due colori dominanti, il Giallo espressivo intuitivo e il Verde pragmatico, cui si affianca, a rafforzamento, l’assenza del Blu. I Finalizzatori tendono a formulare rapidamente ipotesi, sia basandosi su dati di realtà sia sulle proprie intuizioni, svincolandosi precocemente dalla fase di studio e approfondimento dei problemi. Propensi ad arrivare a conclusioni con attenzione all’efficienza, sono più inclini a chiudere che ad aprire, a superare e risolvere situazioni di incertezza soffermandosi sulla visione globale più che sul singolo dettaglio. Sono coraggiosi, non temono il conflitto, si espongono e sanno prendere e presidiare i propri spazi e i propri obiettivi. Questa loro caratteristica può a volte portarli a essere provocatori, a tralasciare le comuni esigenze di convenzionalità del primo impatto e possono essere percepiti come tesi a mettere alla prova l’altro, a verificarne la forza. Non amano l’ingenuità, la compiacenza, e chi si propone loro può averne la fiducia se si presenta dominante e audace, fermo e deciso nel presentare le proprie idee verso una direzione chiara.
I Delegate del settore Security hanno nel complesso il profilo dell’Ideatore, dato da una composizione di due colori dominanti, il Blu logico analitico e il Giallo espressivo intuitivo, cui si affianca l’assenza del Rosso affettivo. L’Ideatore è dotato di ingegno, intuizione e rigore; è abile nel comprendere i termini dei problemi e delle questioni e sa collocarli entro una visione d’insieme, individuando nuove prospettive di analisi e inediti punti di vista. È una persona intensa e profonda, intuitiva e pronta a mettere in discussione le proprie conclusioni, tanto che gli altri tendono a fidarsi delle sue intuizioni, soprattutto in quanto non sono basate su certezze aleatorie ma su opinioni argomentate. Ha molta energia ideativa, sa dedicarsi con passione a nuovi progetti credendoci a fondo, con ottimismo e fiducioso nella loro riuscita. Può essere percepito distaccato e superbo, poco disponibile a tollerare gli ostacoli portati dalla vischiosità di interlocutori più lenti o puntigliosi. Ama la profondità.
CYBER RESILIENCE
DIGITAL COMMUNICATION
E-COMMERCE
ENERGY BUSINESS
FACILITY MANAGEMENT
FINANCE DIRECTOR
FUTURE FACTORY
HSE
HUMAN RESOURCES
80
DELEGATE FORUM PER FORUM
BUSINESS
=1%
IT DIRECTOR LOGISTICS MARKETING PROCUREMENT DIRECTOR RETAIL
SECURITY DIRECTOR
IL PIANETA DEGLI EXHIBITOR
Gli Exhibitor sono molto diversi dalla maggior parte dei Delegate, e nel complesso hanno il profilo del Sognatore, che nasce da una composizione di due colori dominanti, il Giallo espressivo intuitivo e il Rosso affettivo con assenza del Blu logico analitico. Ingegnosi e creativi, tendono a volersi sperimentare in situazioni nuove e a ricercare una visione d’insieme delle cose. Nelle relazioni cercano vicinanza e riconoscimento e regalano rivelazioni e sorprese. Il loro modo di vivere ogni esperienza è l’entusiasmo, la motivazione alla partecipazione e il desiderio di offrire il proprio contributo. Dotati di ingegno e creatività, orientati a sperimentarsi in situazioni nuove, sono abili nell’intuire soluzioni ai problemi e nel ricavare una visione d’insieme delle cose, ricercando con immediatezza sintesi e aperture a modi inediti di valutare la realtà. Amano essere riconosciuti e valorizzati fino a ricercare, nelle relazioni la possibilità di sentirsi “figlio prediletto”; hanno bisogno di percepirsi “profeti”, ascoltati e seguiti dagli altri in quelle che vorrebbero concepire come “rivelazioni”, capaci di contribuire con le loro intuizioni a viraggi del lavoro e dei processi realizzativi.
UN MONDO DI DIFFERENZE
Le differenze a colori fra Delegate ed Exhibitor sono un’utile indicazione per comprendere il rischio di non comprendersi fino in fondo, e per fare propria la necessità di impegnarsi a sintonizzarsi gli uni sugli altri per favorire l’incontro. Gli Exhibitor Sognatori possono percepire alcuni Delegate, soprattutto nei casi in cui il Blu o il Verde siano dominanti, come distaccati, rigidi e poco propensi a mettere in discussione le proprie conclusioni, guardando in modo critico alla loro inclinazione a fidarsi del proprio rigore nell’approccio all’analisi dei problemi e a ritenere di non essersi esposti ad errori di valutazione. I Delegate, soprattutto quei profili descritti da dominanze Blu o Verde, possono tendere a percepire gli Exhibitor come superficiali, poco costanti e a volte imprevedibili, guardando in modo critico alla volatilità delle loro intuizioni e alla loro tendenza a dare il massimo nell’impegno ideativo e meno nell’onere realizzativo.
DELEGATE =1%
Blu - 33% Giallo - 19,3% Rosso - 23,9% Verde
7,7% Blu - 41,5% Giallo - 18,5% Rosso - 32,3% Verde
13% Blu - 33,7% Giallo - 28% Rosso - 25,4% Verde
26,5% Blu - 19% Giallo - 21,8% Rosso - 32,7% Verde
14,8% Blu - 20,4% Giallo - 27,8% Rosso - 37% Verde
25,5% Blu - 7,8% Giallo - 22,5% Rosso - 44,1% Verde
19,2% Blu - 15,4% Giallo - 19,2% Rosso - 46,2% Verde
30,4% Blu - 18,4% Giallo - 24,1% Rosso - 27,2% Verde
17,1% Blu - 20% Giallo - 45,7% Rosso - 17,1% Verde
28,2% Blu - 20,5% Giallo - 26,9% Rosso - 24,4% Verde
25,4% Blu - 18,3% Giallo - 19,7% Rosso - 36,6% Verde
17,2% Blu - 39,7% Giallo - 32,8% Rosso - 10,3% Verde
19,6% Blu - 29,9% Giallo - 23,4% Rosso - 27,1% Verde
13,3% Blu - 24,4% Giallo - 28,9% Rosso - 33,3% Verde
37,5% Blu - 37,5% Giallo - 0% Rosso - 25% Verde
EXHIBITOR =1%
23,9%
UN MESSAGGIO AI DELEGATE: RISCOPRITE IL GIALLO!
Nel complesso i Delegate, salvo qualche eccezione, come abbiamo visto (Cyber, Digital, E-Commerce, Marketing, Procurement), sembrano aver dimenticato il potere del Giallo. Quando il Giallo espressivo intuitivo diventa una zona grigia, le persone tendono a rimanere ancorate al qui e ora, a operare in modo sequenziale, a rimanere più affezionate all’efficienza che al cambiamento. L’assenza del Giallo porta a prediligere un approccio disciplinato e lineare alle cose e a considerare la creatività come caratteristica di artisti e poeti che può rimanere confinata nelle arti e poco ha da offrire al lavoro. Inutile dedicare tempo ed energie ad immaginare il futuro, con le fantasie non si raggiungono i risultati. Un certo conservatorismo prevale rispetto alla ricerca di innovazione, un atteggiamento cauto prevale rispetto alla disponibilità ad entusiasmarsi. Il Giallo sopito porta a restare su toni temperati e misurati, a preservare la moderazione, ma può anche spegnere l’ottimismo, ingabbiare nelle ragioni del “non si può fare”, spingere a dimenticare l’entusiasmo, la sperimentazione, il coraggio di correre rischi calcolati per raggiungere risultati ambiziosi e sfidanti. Ma invece sono proprio queste ultime le capacità e le attitudini di cui abbiamo un profondo bisogno in questo momento per costruire organizzazioni più flessibili, innovative e generative, capaci non solo di rispondere alle sfide di business ma anche alle attese e ai bisogni delle persone che ne fanno parte.
NON SOLO RUOLO E REPARTI
Accanto all’analisi dei colori legata ai ruoli e alle funzioni aziendali, ci siamo divertiti a saggiare il terreno su come i manager si percepiscono e vivono sul piano delle differenze di genere. La qualità che le donne si riconoscono maggiormente? L’empatia (59,93%) La qualità che gli uomini si riconoscono maggiormente? Essere amichevoli (46,74%). La sistematicità non è donna (solo il 4,9% se la riconosce come qualità) e la rigidità non è maschile (7,5%). E il difetto peculiare? Solo lo 0,73% degli uomini si sente Sprovveduto, e solo lo 0,76% delle donne si definirebbe Bugiarda (ma gli uomini non si distaccano di molto con l’1,14%). I maggiori difetti che entrambi si riconoscono? In ordine, Impaziente, Critico/a, Permaloso/a.
PREGI LA TOP 10
DIFETTI LA TOP 10
Caro manager, scopri il significato del tuo colore. I colori sono l’alfabeto della vita. Ma sono anche metafore dei nostri stili cognitivi e di comportamento. Scansiona il QRcode, fai anche tu il test e scopri il tuo colore e il tuo stile manageriale.
EMPATICO ORGANIZZATO IMPAZIENTE PUNTIGLIOSO SENSIBILE RAZIONALE CRITICO INGENUO AMICHEVOLE CREATIVO PERMALOSO COMPLICATO LOGICO DIRETTO PIGNOLO INCOSTANTE INTUITIVO DINAMICO SUSCETTIBILE PRECIPITOSO
46% 26% 30% 17% 11% 13% 14% 12% 32% 28% 18% 16% 32% 37% 31% 33% 32% 45% 47% 44% 60% 37% 33% 14% 18% 16% 14% 12% 30% 27% 15% 18% 35% 25% 33% 31% 50% 24% 49% 45% =
=
DONNE
UOMINI
www.ilbullone.org L'ESPERIENZA FORMATIVA AL BULLONE AIUTA I RAGAZZI A RIPARTIRE, AL DI LÀ DELLA MALATTIA. CODICE FISCALE 94624410158 SOSTIENILI CON IL TUO 5X1000 Martina Scoprire le cicatrici può essere doloroso, ma è salvifico. Il Bullone mi insegna ogni gior no che rompere gli schemi è possibile.
Meet the B.Liver
STORIE DI LAVORO E RESILIENZA
I B.Liver sono adolescenti e giovani adulti che hanno incontrato lungo il percorso una diagnosi di malattia grave o cronica e che, attraverso le attività del Bullone, contribuiscono a cambiare la percezione e la narrazione della malattia alle quali siamo abituati. Con loro parliamo di curriculum vitae, legge 104 e lavoro. Perché la vera diversity passa attraverso l’inclusione spontanea di categorie protette in azienda, assunte non per fare numero, bensì per il loro grande valore aggiunto.
ALESSIA PIANTANIDA
Chi è Alessia Piantanida?
Tutti i miei amici mi chiamano AP, ho 23 anni. Ho fatto il Liceo delle Scienze Umane perché il mio sogno era quello di diventare una maestra della scuola dell’infanzia. Poi ho smesso di studiare. Ho fatto la maturità in ospedale ed è stato bruttissimo, da lì non ho più voluto proseguire e non ho fatto l’università. Per un anno non ho fatto niente poi ho pensato di iniziare a viaggiare con la speranza che mi avrebbe aiutata un po’.
Perché? Qual è la tua storia?
Con l’inizio del liceo sono capitata in una scuola dove non conoscevo nessuno e mi sono sentita da subito isolata. Sono rimasta molto segnata da un incontro in particolare, quello con una compagna di classe che dopo l’inizio dell’anno accademico ha iniziato a vomitare. Lo faceva di continuo e ogni volta lo riferiva a tutti oppure scappava dalla classe. Io ero nel banco davanti a lei e sentivo tutto. Questa ragazza ha poi cominciato ad avere atteggiamenti da bulla e l’unione tra il suo comportamento e il fatto che vomitava in continuazione ha fatto nascere in me la fobia del vomito. Ho iniziato a temere di vomitare anch’io, in qualsiasi caso, ci pensavo sempre.
È così ti sei ammalata…
Ho iniziato a mangiare sempre meno fino a non mangiare quasi nulla per la paura di stare male. I miei genitori si sono accorti che avevo perso parecchio peso e così siamo andati al centro DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare) dell’ospedale Niguarda. I medici non credevano che la mia fosse una paura, pensavano che volessi dimagrire ma io non mi sarei mai sognata una cosa del genere, ho sempre avuto un fisico esile e non mi interessava. Dopo due anni di cure, ho smesso completamente di mangiare ed è arrivato il sondino. Panico. Dovevo andare lì tutti i giorni per otto ore e mettere il sondino, avendo perennemente la nausea. Sono stata lì sei mesi ed è stato un periodo orribile, mi sentivo sola, avevo paura di vomitare e se fosse successo avrei voluto vicino mia madre. Non mi sentivo capita e ho scoperto solo molto dopo quale disturbo avessi, cambiando percorso ed andando dalla psicologa e psichiatra, ma fino a quel momento continuavo a fare esami, perché nessuno mi credeva. Invece la mia paura esiste e ne soffrono moltissime persone.
Come l’hai scoperto?
Mi capitavano video su TikTok di ragazze che parlavano dell’Emetofobia, la paura appunto di vomitare, avevano molte cose in comune con me per cui mi sono sentita capita. All’inizio anch’io non credevo che esistesse, oltretutto avevo talmente tanta paura di vomitare da sentire anche la nausea, quindi non capivo se avessi qualche malattia allo stomaco o se fosse davvero un problema psicologico, poi ho scoperto che era vero.
Da lì cosa è cambiato?
È cambiato il mio modo di vedermi, ho capito che dovevo uscire da quella situazione. I viaggi mi hanno aiutato tantissimo, già solo a prendere l’aereo avevo paura di vomitare per le turbolenze. Il primo viaggio che feci fu per le Maldive, la destinazione sicuramente aiutava anche se sono state nove ore di ansia ma è andato tutto bene e, una volta arrivata, mangiare cibi che non erano preparati da mia mamma, che non erano leggeri, è stata una svolta. Da lì pian piano insieme alla dietista ho iniziato a sbloccarmi, soprattutto con le quantità, lei mi ha aiutato a reintrodurre tutto. Poi grazie a mio padre, che faceva sin da quando ero piccola i presepi di Natale a mano e mi ha trasmesso la sua creatività, appena sono stata un po’ meglio ho iniziato con lui a fare centrotavola natalizi e ho pensato, perché non fare anch’io qualcosa che mi piace e mi rispecchia? Un giorno ho visto un video dove facevano portachiavi in resina, ho comprato un kit on-line con tutto l’occorrente e ho iniziato a creare i primi portachiavi. Subito i parenti hanno iniziato a chiedermeli e mia mamma mi ha consigliato di provare a venderli, era subito dopo la pandemia. Ho iniziato così a creare questo piccolo business tramite conoscenze di amici e parenti, lavorando con la resina ma anche con l’uncinetto che ci avevano insegnato ad usare quando ero in ospedale; facevo orsetti di Natale, portachiavi, era diventato un antistress che accompagnava ogni mio momento. Ho unito l’utile al dilettevole e man mano ho aggiunto
intervista a cura di Francesca Bazzoni foto di Davide Papagni
vari oggetti: portaciucci per i bambini personalizzati, sonagli, massaggiagengive, pensando sempre ai bimbi con cui avrei voluto lavorare. Così è nato il brand AP, che inizialmente stava per Alessia e Paolo, mio padre, perché vendevamo insieme i nostri oggetti, poi con il tempo AP è diventato solo Alessia Piantanida e mio papà mi aiuta con le vendite.
Come vendi i tuoi prodotti?
Prima di tutto ho creato una pagina Instragram e abbiamo pensato di provare con un mercatino a partecipazione gratuita, è andata discretamente. Vicino a casa nostra c’era un mercatino di Natale, in cui pagavi l’affitto ma che aveva già un pubblico di persone che andava a fare acquisti per le feste, così abbiamo sponsorizzato la nostra presenza sui social e quel mercatino è stata la svolta che mi ha convinto a provare seriamente.Poi sono stata per alcuni mesi in Inghilterra, nel countryside di Manchester, come ragazza alla pari. Avevo portato con me qualche regalo per la famiglia che mi ospitava e alla mamma della bambina che curavo è piaciuto moltissimo quello che facevo, così si è proposta di darmi una mano per vendere anche in Inghilterra. Siamo andate ad informarci in una sorta di grande magazzino dove vendono prodotti fatti a mano e ho messo anch’io il mio stand. Ora lo stand è lì fisso, pago l’affitto ma io non devo stare lì perché c’è una cassa in comune; quindi, basta mettere il proprio logo e il bollino sui prodotti. Un’amica mi aiuta curando lo stand ogni tanto e a me arrivano solo i profitti. A Natale torno a fare rifornimento di prodotti perché è il periodo in cui si vende meglio e gli oggetti personalizzati piacciono molto, ma il costo di realizzazione e le spese di viaggio impattano molto, quindi penso che chiuderò quello stand per dedicarmi ai mercatini qui in Italia perché a parità di lavoro guadagno molto di più. Ho provato anche on-line ma tra le percentuali trattenute dai siti e l’elevatissima concorrenza è difficile spiccare il volo, preferisco farmi conoscere a poco a poco tramite passaparola.
Dove ti piacerebbe arrivare?
Sicuramente non mi immagino come Chiara Ferragni, ma mi piacerebbe avere un sito on-line dove le persone sanno che esisto e comprano le mie cose. Ho pensato di contattare qualche influencer,
quelli più piccoli che hanno anche la testa sulle spalle, ma è una strada fatta di tentativi. Per me fare questo significa non essere la figlia mantenuta, ma fare qualcosa che mi gratifica, la soddisfazione personale che mi dà il poter guadagnare con il mio lavoro. E poi mi diverto tanto, faccio pasticci, mischio, gioco. Mi piacerebbe anche aprire un piccolo negozio dove le persone possano vedere i miei prodotti. Ad un mercatino una signora mi ha chiesto di insegnarle ad usare la resina, quindi mi è venuta anche l’idea di fare dei piccoli corsi per i bambini, così che i bambini possano fare un’attività dove non si sta davanti ad uno schermo e portarsi a casa un piccolo prodotto. Insomma, il futuro è ancora da scrivere.
Ora come stai?
La mia paura non è scomparsa, e non penso neanche che scomparirà mai, ma ho imparato a conviverci. È come se fossi tornata alla vita precedente, mangiando di tutto ma con attenzione, ora riconosco il mio problema e so gestirlo. Il mio peso è rimasto scarso ma l’importante è che la mia paura si sia attenuata e che io sia tornata a mangiare, il peso arriverà. Ora mi sento completamente un’altra persona e anche il mio carattere è cambiato, prima ero timidissima, non postavo mai foto sui social, parlavo poco; invece, adesso parlo anche con le persone che non conosco, condivido e non mi limito più, ho cambiato modo di affrontare la quotidianità e mi piace molto di più il mio carattere.
Lavori l’uncinetto che hai imparato ad usare in ospedale, alla fine nella sfortuna hai trovato un po’ di fortuna.
Si, fortuna innanzitutto di conoscere il Bullone. Quando ero in ospedale e mi stavo preparando per la maturità il Bullone era presente per fare della attività con le ragazze del reparto. Stavo studiando letteratura ma vedevo le altre fare il laboratorio e allora mi sono unita a loro abbandonando il libro. Quella volta abbiamo fatto orecchini con le cialde del caffè. Lì ho iniziato un po’ a tirarmi fuori dall’intorpidimento e ho iniziato a capire alcune cose confrontandomi con questo gruppo. La fondazione mi ha aiutato ad andare oltre la malattia e penso che non ci sia niente di più forte, ho capito che la mia malattia non poteva essere un limite così grosso, non volevo più perdermi le cose belle, io voglio vivere e fare tutte le esperienze possibili.
Gli opening speaker dei forum di Richmond Italia sono persone speciali. Hanno alle spalle metodo, esperienza, cose da dire, da mostrare, da raccontare. Ma soprattutto hanno voglia di farlo e di condividere la propria visione del mondo. VOP Very Open People è un nuovo spazio fisso di Reach magazine dedicato alla loro passione e al loro spessore. Tirate fuori gli smartphone e scansionate il QR code: potrebbero sorprendervi più che degli effetti speciali.
COSTRUIRE NELLA GIUSTA DIREZIONE
COSTANZA HERMANIN
Visiting professor College of Europe, Bruges
La parità di genere spinge il PIL
(…) Dovremmo avere coscienza degli stereotipi di genere. Nessuno di noi pensa di avere stereotipi di genere, sono molto difficili da trovare. E invece ne abbiamo eccome, su tante piccole cose. Sulle studentesse o sulle donne che si candidano a un lavoro e si definiscono lavoratrici indefesse, mentre i loro colleghi uomini si definiscono leader e creativi.
GIULIO SAPELLI
Per una finanza che torni alle origini
(…) La finanza dovrebbe ritrovare ciò per cui è nata, quando serviva ai banchieri fiorentini per garantire i traffici del commercio a livello internazionale, serviva per costruire le grandi opere militari del Sangallo, serviva per costruire le grandi piazze che vediamo a Gubbio, che sono state capolavori di ingegneria, serviva soprattutto nel Nuovo Mondo.
Professore emerito di Storia Economica Università di Milano
88
La storia di Francesco
CIO e CTO ALPITOUR
Il valore della trasversalità
Sin da giovane sono stato appassionato di tecnologie, ho iniziato a programmare su Commodore 64, la macchina che ha “sdoganato” l’informatica personale e la più diffusa intorno alla fine degli anni Ottanta, e in Assembly, il linguaggio macchina, quindi ho imparato le basi dell’informatica. Tutti mi chiamano ingegnere ma in realtà non lo sono. Sono un economista prestato alle tecnologie. Ho studiato Economia aziendale e a un corso di laurea mi sono poi appassionato al tema delle tecnologie e a come queste potessero fare la differenza nelle aziende, da lì è iniziato un percorso molto variegato. L’essere qui oggi è quindi il frutto di una serie di scelte che sono avvenute nel corso della vita, le famose sliding doors. Ho fatto tanti cambiamenti di aziende, di settore, di mestiere, con un filo conduttore che è stato appunto l’innovazione tecnologica.
Il primo lavoro è stato da ricercatore accademico insegnando all’università, poi alla scuola di formazione dell’Università Bocconi, sempre focalizzandomi su temi legati all’utilizzo delle tecnologie informatiche in azienda e su come queste potessero portare miglioramenti di processo e di modello di business. Non ho un percorso tecnico alle spalle e questa è stata già una prima sfida con cui mi sono dovuto confrontare perché quando ho iniziato a entrare nelle aziende per gestire i siti ho dovuto legittimarmi
in qualche modo. Sicuramente mi è tornata utile quella passione di un tempo perché conoscevo la parte di logica e di funzionamento dei computer, ma penso che la mia vera capacità sia sempre stata quella di collegare l’informatica all’aspetto aziendale, ai processi, alla parte finanziaria ed economica.
Dopo la Bocconi ho fatto un’esperienza di startup avviando con alcuni soci un’azienda in Svizzera che ha sviluppato il primo mercato on-line di prodotti siderurgici, un settore che non brilla certo per tecnologia però avevamo individuato un nuovo concetto che era stato valutato molto positivamente da alcuni investitori. È stata una sfida, ero giovanissimo e forse per certi versi impreparato, ma anche molto temerario quindi ho accettato e ho imparato tantissimo. È stato il classico esempio di quando esci da una zona di comfort per crescere in maniera accelerata. In quella fase ho vissuto uno dei primi momenti di crisi e difficoltà: nei primi anni 2000 c’è stato lo scoppio della bolla Dot-com e il fenomeno delle Aziende Internet è imploso, per cui per la nostra Startup non è più stato possibile finanziarsi e abbiamo dovuto chiudere l’iniziativa. Ho colto quindi una nuova opportunità, che si è presentata tramite gli investitori che avevano finanziato questo progetto, per cambiare di nuovo mestiere. Sono entrato così in un gruppo strutturato,
89 La storia di Francesco
Francesco Ciuccarelli
un’azienda abbastanza importante nel panorama informatico italiano, occupandomi di processi come consulente interno e lavorando con l’IT per sviluppare progetti innovativi.
Con la stessa azienda, che ha fatto un’acquisizione in Francia, ho lavorato a Parigi per un anno e mezzo dedicandomi a software per logistica e trasporti. Poco tempo dopo purtroppo è arrivato arriva il crac finanziario di questa azienda, subito dopo il caso Parmalat, e abbiamo affrontato una grande crisi aziendale. Sono stati mesi molto duri per tutti, ho ricordi vividi come la mancanza del riscaldamento in ufficio e dello stipendio, il non sapere cosa sarebbe successo il giorno dopo, ma come team siamo rimasti uniti e siamo riusciti a trovare insieme una nuova opportunità fondando una nuova società di sviluppo software per logistica e trasporti. Gli anni successivi sono stati ricchi di esperienze e cambiamenti: dopo un “anno sabbatico” nella consulenza web, sono entrato per la prima volta da CIO in un contesto aziendale di dimensioni importanti e tra il 2011 e il 2018
e controllare l’impatto che le macchine hanno sulle nostre vite.
A 50 anni penso di aver capito la mia vocazione, il voler lasciare un segno e lavorare sul cambiamento, che poi è il bello del nostro settore. Oggi è ormai fatto acquisito che le tecnologie siano diventate trasversali, sono uno dei fattori produttivi più importanti delle aziende, e quindi da un lato non c’è più la sindrome da Calimero da parte di chi se ne occupa e dall’altro tante aziende hanno bisogno di portare cambiamenti importanti per riuscire a essere protagoniste di questa rivoluzione tecnologica. È quindi un momento d’oro per chi riesce porsi come traino del percorso di innovazione delle aziende. Questo richiede l’avere diverse skill, anche comportamentali, che non sempre si ritrovano nelle professioni tecniche e c’è quindi un tema di ricambio culturale che va portato avanti. Con i colleghi CIO dell’associazione Aused, di cui sono consigliere, ci confrontiamo quotidianamente su quale sia il senso del nostro ruolo, sull’evoluzione che dobbiamo
LE TRAIETTORIE DI CARRIERA E SVILUPPO PROFESSIONALE SONO SEMPRE PIÙ IMPREVEDIBILI, QUINDI NON È TANTO LA COMPETENZA SPECIFICA CHE HAI MA QUANTO IMPARI A IMPARARE A DARTI PIÙ VALORE
ho cambiato tre aziende facendo lo stesso tipo di percorso di trasformazione in settori diversi, sino ad arrivare al Gruppo Alpitour.
Pensando alla mia vita mi piace usare la metafora del surf: è un susseguirsi di onde e come l’onda va giù bisogna provare a risalirla, ci vuole tempismo. In queste situazioni bisogna avere la capacità di cogliere i segnali per tornare sulla cresta. Posso dire di aver avuto molte esperienze trasversali. Quando mi capita di parlare con gli studenti, che hanno sicuramente molto meno il mito della stabilità rispetto a un tempo, è importante sottolineare il fatto che le traiettorie di carriera e sviluppo professionale sono sempre più imprevedibili, quindi non è tanto la competenza specifica che hai ma quanto impari a imparare a darti più valore. Sviluppare delle meta-competenze che riguardano la capacità di ascoltare, adattarsi, imparare: riuscire a seguire un flusso di cambiamento che sfiora l’imprevedibilità, diventa fondamentale. Per questo penso molto alla valenza delle formazioni di tipo umanistico e credo che il dominare la tecnologia andrà verso quella direzione. Chi controlla le macchine di automazione, o l’AI, sarà il detentore del lavoro del futuro e occorre sviluppare la competenza per capire
portare nelle aziende ma anche nella nostra professione, su quali competenze servono oggi e su come porsi rispetto agli altri colleghi, agli azionisti e alla trasformazione dell’azienda.
La maturità che ho acquisito oggi è il frutto di tutta la diversità che ho visto prima, in tanti settori e posizioni diverse. A chi oggi entra nel mondo del lavoro raccomanderei di differenziare, di prendere anche il rischio di cambiare magari completamente per poi tornare e riportare la sintesi di questa diversità. Questo ti differenzia anche rispetto ad altri colleghi che hanno un percorso più lineare. Sino a un po’ di tempo fa il cambiamento poteva essere visto come una cosa negativa mentre oggi, fortunatamente, è completamente cambiato l’approccio. Determinante è il saper cogliere nelle situazioni difficili tutte le opportunità che si presentano, senza farsi prendere dallo sconforto.
Per il futuro mi auguro di riuscire a trovare gli stessi stimoli che ho trovato sino a ora e di trovare nuove oppotunità per far compiere alle organizzazioni dei salti evolutivi, utilizzando la leva delle tecnologie. Cerco di rimanere sempre aggiornato, sempre pronto, per poter cogliere, come un verso surfista, la prossima onda.
90
La storia di Francesco
91
La storia di Francesco
92 La storia di Luigi
HR e F&A manager DENSO MANUFACTURING ITALIA
La sostenibilità relazionale
La flessibilità e la disponibilità all’ascolto messe in campo in negli anni di lavoro mi hanno fatto apprendere tanto e crescere all’interno del Gruppo, consentendomi di proporre attività e soluzioni sempre in linea con le necessità aziendali che sono cambiate molto nel tempo. All’università ho studiato Economia e Commercio e la passione per i viaggi mi ha portato a partecipare alla borsa di studio Erasmus in Danimarca e alla borsa lavoro Leonardo da Vinci, svolta a Parigi dopo il conseguimento della laurea. Queste esperienze mi hanno permesso di vivere per più di un anno con persone di nazionalità e culture diverse, migliorando molto il mio approccio con gli altri e l’inglese e il francese che avevo studiato a scuola.
Al ritorno da Parigi si è insediata in me l’idea di entrare in un contesto lavorativo multinazionale ma, vivendo in Molise, le possibilità erano piuttosto limitate. Non ho esitato quindi a estendere le mie ricerche e così, agli inizi del 2000, dopo alcune esperienze svolte in ambito locale, ho avuto due proposte interessanti da grandi società, entrambe operanti nel settore automotive. La prima era a Torino mentre la seconda a San Salvo in Abruzzo, presso l’amministrazione della Denso Manufacturing Italia che aveva appena rilevato la Magneti Marelli ed altri siti sia in Italia che in Europa, sotto la direzione della Casa Madre giapponese Denso Corporation. Avendo accettato la seconda
proposta, mi sono subito trasferito a San Salvo dove ho conosciuto mia moglie Stefania e così, dopo qualche anno, abbiamo avuto i nostri due figli. All’inizio mi sentivo inesperto in un ambiente di lavoro così grande e variegato, affiancavo i colleghi più anziani con tanta umiltà e pazienza, allo stesso tempo avevo però la consapevolezza che quello che dovevo imparare non era il lavoro in sé, che mi risultava spesso facile e migliorabile, ma il metodo.
Con il passare del tempo, grazie anche al mio carattere curioso e proattivo, ho affrontato e risolto i problemi che si presentavano e proposto soluzioni spesso diverse e migliorative rispetto a quelle convenzionali. Ho guadagnato così la fiducia del management che, nel corso degli anni, mi ha affidato ruoli con responsabilità sempre più elevate, oltre a progetti di miglioramento e trasformazione sia in ambito amministrativo che nelle risorse umane. Tali progetti erano necessari per allineare la sede di San Salvo con gli elevati standard internazionali del Gruppo. In questi 23 anni di lavoro ho dato così il mio contributo nella contabilità generale, nella contabilità clienti, contabilità fornitori e tesoreria, per passare poi ad altri progetti dell’ente risorse umane. L’ultimo in ordine di tempo riguarda l’implementazione di strategie per la sicurezza delle informazioni aziendali e l’attività di sensibilizzazione di tutto il personale agli attacchi informatici diventati sempre più frequenti negli ultimi anni. Sono
93 La storia di Luigi
Luigi Vallone
iniziate così le mie vere Relazioni Umane con colleghi locali ed europei, responsabili, fornitori e consulenti, diventati in alcuni casi dei veri amici. Ho sempre ritenuto fondamentale curare il rapporto con le persone e oggi posso affermare con certezza che il lavoro facilitato da buone relazioni ha dato una marcia in più ai nostri progetti, spesso portati a termine prima dei tempi stabiliti.
Ho inserito le mie passioni nel contesto lavorativo e ne sono felice. Una di queste è la musica che ha forgiato il mio carattere sin da piccolo quando, spinto dalla passione di mio padre, sono entrato nella banda musicale del mio paese suonando il clarinetto a soli 7 anni. Con il passare del tempo mi sono appassionato a diversi strumenti formando anche dei piccoli gruppi musicali. Quello di cui oggi faccio parte si chiama Blues On The Night, nato qualche anno fa per ripercorrere insieme ai miei amici
lavorativa, aumentando così il benessere dei lavoratori e allo stesso tempo la competitività dell’azienda che può contare su un team molto più affiatato. È dimostrato infatti che ad avere un vantaggio competitivo sul mercato sono proprio quelle aziende che hanno dimostrato una maggiore velocità di adattamento ai cambiamenti economici e sociali e che hanno lavorato in anticipo sul capitale umano dei propri team, ottenendo enormi ritorni economici. Per questo sono grato ai miei collaboratori, colleghi e amici per il percorso che abbiamo fatto in tutti questi anni.
Vedo la Corporate Social Responsibility più autentica adesso e penso che, se utilizzata in modo appropriato, darà benefici a chi dimostrerà di essere sempre più orientato alla sostenibilità e al benessere collettivo. La mia visione del lavoro, dei problemi e della vita è cambiata nel tempo. Oggi guardo le cose da una
HO SEMPRE RITENUTO FONDAMENTALE CURARE IL RAPPORTO CON LE PERSONE E OGGI POSSO AFFERMARE CON CERTEZZA
CHE IL LAVORO FACILITATO DA BUONE RELAZIONI HA DATO UNA MARCIA IN PIÙ AI NOSTRI PROGETTI, SPESSO PORTATI A TERMINE PRIMA DEI
Silvio e Massimiliano le strade del Blues. Poiché sono convinto che la musica, lo sport e il buon cibo siano ottimi mezzi di comunicazione, non ho mai perso occasione per organizzare eventi musicali, tornei e serate di degustazione vini, coinvolgendo sempre i colleghi nell’organizzazione delle attività piuttosto che offrire loro dei semplici inviti a partecipare. Questi eventi hanno rafforzato i nostri rapporti e hanno creato un cuscinetto molto utile per assorbire le tensioni lavorative, talvolta generate da piccole incomprensioni. Ho scoperto inoltre delle qualità di colleghi che fino ad allora ignoravo.
Oggi si parla molto dell’importanza del clima aziendale, delle buone relazioni e della connessione tra le persone ma l’esigenza di trovare un buon equilibrio con se stessi e con i propri colleghi secondo me è sempre esistita. Siamo consapevoli che il tempo dedicato al lavoro occupa una parte significativa della nostra vita, pertanto la sua qualità non può e non deve passare in secondo piano. La pandemia probabilmente ha evidenziato ancora di più tale esigenza perché ognuno di noi è stato segnato da questo drammatico evento, in maniera più o meno lieve. Nel linguaggio aziendale è entrato così il termine di work life balance, che rappresenta l’attenzione delle organizzazioni a trovare un giusto equilibrio tra vita privata e
prospettiva diversa, più estesa, globale, per avere una maggiore consapevolezza del punto di partenza, della strada da percorrere e della velocità che un progetto, sia esso di lavoro o di vita, deve avere per essere efficace. Mi piace esplorare tutti gli aspetti in cui la sostenibilità può entrare in gioco, non solo sul prodotto ma anche sulle persone. Cerco di cogliere sempre l’aspetto positivo anche nelle situazioni più difficili e, con il passare del tempo, ho imparato ad ascoltare gli altri senza pregiudizi. È un esercizio difficile, ma per valutare una persona in modo oggettivo o per sfruttare al meglio le sue qualità diventa fondamentale gestire i propri bias cognitivi. Mi piace essere sempre trasparente e spiegare il perché delle mie convinzioni o decisioni.
Guardando i giovani che si approcciano al lavoro, mi rendo conto che sono cambiate le aspettative rispetto a qualche decennio fa. Oggi sono molto più attenti alla qualità della vita e al tipo di lavoro che dovranno svolgere, valutano attentamente il luogo di lavoro, il benessere e la sostenibilità dell’azienda di cui faranno parte, viaggiano di più e sono disposti a cambiare per conciliare le loro passioni e aspettative con la vita professionale. Questo diverso approccio al lavoro è stato avvertito negli ultimi anni con il fenomeno delle
94 La storia di Luigi
TEMPI STABILITI
dimissioni volontarie di massa che hanno riguardato non solo i giovani ma anche tutti coloro che hanno utilizzato la pausa forzata dalla pandemia per rivalutare se stessi e formulare progetti per ritrovare un giusto equilibrio di vita-lavoro. Credo che questo fenomeno possa essere arginato solo se il management sarà in grado di osservare e ascoltare i segnali che arrivano prima di tutto dai vari livelli all’interno della propria organizzazione, per poi intraprendere azioni che possano rivelarsi motivanti non solo per i talenti ma anche per coloro che quotidianamente dedicano impegno e passione al proprio lavoro. Una equa distribuzione del lavoro in un ambiente sano, coerente, creativo e collaborativo conta molto di più di una gratificazione salariale che, se non gestita attentamente, diventa un’altra fonte di
malcontento. Il benessere creato partendo dall’interno diventa così un amplificatore che rende le aziende più attrattive sul mercato e apre le porte all’innovazione e alla creatività, che sono alla base di iniziative meno convenzionali e spesso profittevoli da tutti i punti di vista. È importante inoltre pianificare con largo anticipo i progetti per il proprio futuro, con la consapevolezza che il tempo è la cosa più preziosa che abbiamo e pertanto deve essere gestito al meglio. Un consiglio che mi sento di condividere con i giovani è quello di essere sempre onesti con sé stessi e con gli altri e di investire nella formazione non solo professionale ma anche di crescita personale per dare sfogo alla propria creatività e proporsi in modo innovativo alle aziende, sempre in cerca di chi può fare la differenza.
95
La storia di Luigi
Profit MEETS no profit
Collaborazioni fuori dal comune: Il Bullone e SaiTé
Amo le sfide e qualsiasi oggetto con le ruote, forse è per questo che la vita mi ha donato la disabilità. Se la filosofia di Senna era “Non esiste curva dove non si possa sorpassare” la mia è “Non esiste salita troppo ripida per chi ha un cuore ribelle e una mente lungimirante”.
Le storie migliori fioriscono dagli incontri più fortuiti. Le collaborazioni nate sotto la stella dei forum di Richmond Italia, tra la realtà sociale autrice di questo magazine, Il Bullone, e le aziende che partecipano agli eventi, sono preziose e meritano di essere raccontate. Costruire un ponte virtuoso tra mondo profit e no profit è possibile!
96
Articolo di Cristiano Misasi
Chi non ama la multifunzionalità degli oggetti? Chi non è mai stato attratto dai mille utilizzi del coltellino svizzero? Quando ho conosciuto per la prima volta l’azienda produttrice di tisane SaiTé, mi è subito balzato alla mente questo parallelismo. La loro filosofia imprenditoriale si può conciliare con una frase estremamente passionale della città eterna “Mettice sempre er core”. Basandosi su quest’ultima sono riusciti a mettere in opera un organismo attentissimo a curare le esigenze della società, infatti oltre a produrre tisane 100% naturali, SaiTé ha compreso bene, che l’equilibrio sottile tra commercio e benessere vitale ricade proprio sulla sostenibilità verde, ed è per questo che è molto attenta sia alla qualità degli ingredienti e sia ad utilizzare packaging a basso impatto ambientale. Tuttavia al coltellino svizzero SaiTé mancava ancora l’utensile più importante e a donarglielo fu il progetto “B.evici su” realizzato in collaborazione con il Bullone, fondazione formata dai B.Liver narratori di vita quotidiana e di cicatrici conquistate. La collaborazione ha inizio nell’ottobre 2022 e nasce con l’obiettivo di trasformare l’ora della tisana in un’opportunità per avviare un confronto sarcastico ma allo stesso
tempo costruttivo. L’idea è quella di rispondere a domande pungenti di parenti e amici, con frasi autoironiche scritte e pensate dai B.Liver, con l’intento principale di allenare la prontezza nel controbattere a interlocutori arditi. È scientificamente provato che durante monologhi o dialoghi in cui sono presenti battute sarcastiche (comizi, lezioni scolastiche, dibattiti mediatici, conferenze) il cervello riesce a mantenere per più tempo l’attenzione e di conseguenza a comprendere in un modo più efficace quello che la persona vuole trasmettere.
Abbiamo quindi creato dei packaging ad hoc per questa importantissima missione dove è un’etichetta parlante a raccontare le nostre storie con una forza unica, dando così vita ad una linea di tisane a cura del Bullone, infusi gustosi e ad alto effetto wow. Nel caso in cui l’effetto della simpatia della frase impressa sugli infusi non sia in grado di adempiere al suo compito, si può sempre contare sull’effetto distensivo della tisana. Ciliegina sulla tisana e cosa non meno importante, SaiTé donera il 10% dell’importo speso per ogni ordine dal cliente al Bullone, cosa dire di più?
97
98
La storia di Enrico
Enrico Pavanello
Logistic manager
KÖRBER TECHNOLOGIES
Gioco di squadra
Al raggiungimento della maturità mi si è prospettata l’opportunità di giocare a rugby, come professione! Ho iniziato all’età di tredici anni ed era già tardi, ma il professore di educazione fisica mi propose di provare e da lì non ho più smesso. Ho avuto l’occasione e il privilegio di giocare per la Benetton Rugby dove ho avviato un percorso professionale che mi ha portato a rimanere per undici anni a Treviso, vincendo 6 scudetti e collezionando 217 presenze. Ho fatto parte della Nazionale italiana, vestendo per 8 volte la maglia azzurra, e in un’occasione sono stato convocato dai Barbarians, una selezione internazionale su invito. Poi ho iniziato a invecchiare, come atleta. Ho militato altri due anni nel massimo campionato italiano con Mogliano Veneto Rugby dove ho vinto il mio ultimo scudetto e nel 2013, quando come si dice in gergo “il mio borsone cominciava a essere troppo pesante” e le botte difficili da passare, ho cominciato a pensare alle prospettive per il mio futuro. L’ultimo anno di gioco l’ho voluto vivere nella società che mi aveva visto nascere come rugbista, per dare un esempio a tutti i bambini del minirugby affinché coltivassero le proprie passioni. Smesso di giocare ho iniziato a allenare e contemporaneamente mi sono inserito nel mondo del lavoro. È stato un momento durissimo perché la mia vita stava cambiando totalmente. Sono passato da una passione che era diventata un lavoro a dover andare verso una direzione in cui avrei perso tutto quello che fino a quel momento avevo fatto. Mi sentivo come se fossi appena uscito dal mondo della scuola. Avrei potuto giocare a rugby ancora qualche anno ma sarebbe stato una sorta di accanimento e non ero certamente
più il giocatore che avevo dentro la mia testa. Per onestà verso me stesso e per lasciare un buon ricordo, ho voluto uscire definitivamente dal campo e rimettermi in gioco su un terreno a me sconosciuto e in cui non mi sentivo affatto sicuro, ma soprattutto volevo che il rugby rimanesse solo una passione e non un obbligo. Il rugby l’ho sempre vissuto come un’arena dove entravo da gladiatore… e ora non ero più nessuno.
Poco più che trentenne entravo in un mondo nuovo e venivo trattato come quello inesperto, per me non è stato per niente facile. Per il mondo del lavoro la mia esperienza non contava nulla e lo posso dire con convinzione visto che ho fatto una marea di colloqui. Sia le persone più giovani che le più anziane con cui mi sono confrontato non consideravano minimamente la mia esperienza nello sport ad alto livello. Non solo ero l’ultimo arrivato ma soprattutto ero uno che nella propria vita non aveva fatto nulla. Ho vissuto un momento di grande e generale apatia rispetto al mondo e solo grazie a mia moglie, che mi ha sostenuto moltissimo, sono riuscito a tenere duro. Serena e io ci siamo sposati nel 2007 e abbiamo due figli, Ettore e Luigi. Sono felice del fatto che entrambi abbiano avuto la fortuna di vedermi giocare e vincere. Nel primo lavoro che ho affrontato mi occupavo di acquisti, ma facevo un po’ di tutto e non mi sentivo considerato a livello dirigenziale. Ero arrivato a un punto di non ritorno e parallelamente anche nell’ambito del rugby il mio star male iniziava a essere manifesto. Nel rugby quando ti fai male devi recuperare per rimetterti in forma e ripartire,
99 La storia di Enrico
ma quando le ferite sono morali sono molto più complicate rispetto a un taglio o un braccio rotto: quando sei ferito al cuore fai fatica a giocare, non sei concentrato, e se la ferita è profonda non è sempre scontato che guarisca. La mia famiglia stava pagando lo scotto più grande della mia infelicità e io non me ne rendevo conto. Ho condiviso con mia moglie la pesante decisione di mollare tutto, entro un paio di mesi mi sarei licenziato dal lavoro e avrei smesso di allenare. Non so se sia stato il caso, molti dicono che sono fortunato, o forse più semplicemente sono io che cerco la fortuna, ma quando ho preso la decisione di licenziarmi si è aperta un’opportunità, ho mandato il cv, ho fatto il colloquio e praticamente dopo un mese ho firmato il contratto per l’azienda per cui tutt’ora lavoro.
Ero contento perché ero riuscito a trovare un’alternativa prima ancora di restare senza lavoro. Entravo in un mondo che non conoscevo ma ho trovato un ambiente dinamico che
assumere l’incarico di responsabile della logistica. Credo che il tempo di reazione e della risposta sia stato minore di un secondo. Ed eccomi qua: avere un ruolo di responsabilità è un po’ come essere allenatore. Quando ho iniziato è stata una sfida nella sfida, di fatto non c’era nessuno nell’ufficio spedizioni. Mi sono trovato da solo senza conoscere il gestionale e senza sapere lo stato delle cose. I colleghi mi hanno supportato, chi sapeva qualcosa la condivideva con me e hanno sopportato errori che non potevo non fare. Adesso ho un team di tre persone e sono felicissimo di ognuno di loro perché sono entrati con l’atteggiamento e l’entusiasmo giusti. Anche con il rugby, dopo un periodo sabbatico, mi sono rimesso in gioco e ora sono Direttore Tecnico di una società vicino a Treviso. La sfida non è tanto allenare i bambini ma riuscire a fare in modo che gli educatori e gli allenatori trasmettano loro lo spirito che li porti ad alimentare la passione. Anche qui, come nel lavoro, cerco di migliorare la comunicazione e la relazione
IL RUGBY APPARE CONFUSIONARIO MA IN REALTÀ È ORDINE, DA FUORI SEMBRA IL CAOS MA OGNI AZIONE È IL FRUTTO DI STUDIO, PREPARAZIONE E ALLENAMENTO
mi ha lasciato esprimere la mia esperienza. Mi occupavo della parte del postvendita, seguivo gli acquisti e tutto il materiale che serviva all’azienda per gestire l’After sales. Ho portato molto di me: il rugby appare confusionario ma in realtà è ordine, da fuori sembra il caos ma ogni azione è il frutto di studio, preparazione e allenamento. Si perdono ore a fare scouting delle squadre avversarie e si legge ogni piccolo particolare di ogni giocatore. C’è un sistema di qualità e di analisi dell’errore che se si riesce a portare, in maniera adeguata, all’interno di un’ azienda, diventa un plus. Per me fare l’analisi delle performance è assolutamente normale, ero abituato a studiare cosa facevamo noi e cosa facevano gli avversari. Cambiano gli strumenti e il tipo di informazioni, ma il criterio con cui ci si approccia alla risoluzione dei problemi e alla ricerca delle soluzioni più efficaci è simile. Un altro aspetto che ho riportato dal rugby al contesto professionale è la consapevolezza che non stai lavorando da solo. Ci sono aspetti nel gioco che prevedono che tu perda una battaglia individuale per permettere alla tua squadra di fare meta. È un po’ quello che deve succedere in azienda, ci sono delle volte in cui devi cedere il passo e sforare il budget a favore del conto finale.
Un anno e mezzo fa c’è stato un cambio dirigenziale, mi hanno convocato e chiesto se volevo
tra le persone. Nel mondo del rugby bisogna considerare che la passione è tutto e i collaboratori sono a disposizione gratuitamente, questo è diverso dal contesto lavorativo in cui la dinamica economica regge equilibri importanti.
Sono un sognatore e spesso mia moglie mi paragona a Peter Pan. Ho avuto nella mia vita l’opportunità di fare il lavoro dei miei sogni di bambino ma bisogna rendersi conto di quello che si ha tra le mani e bisogna farne tesoro, la serenità nasce internamente a noi stessi e il posto di lavoro ne è una conseguenza. Si deve anche avere la forza di cambiare, decidere, ed è tutto questo che ha messo in moto in me una serie di cambiamenti favorevoli. In passato forse le persone avevano un’idea di me che non corrispondeva più all’uomo che sono diventato grazie al mio percorso sportivo, erano rimasti legati al ragazzo che ero quando ho iniziato. Ho un carattere impulsivo e questo in passato mi ha fatto perdere alcune opportunità ma a livello formativo mi ha fatto crescere e valorizzare la fortuna che avevo.
Oggi ho una nuova serenità sorta anche dal fatto che ho dovuto allontanare alcune persone per ripartire da solo e questo mi ha permesso di non abbattermi e di guardare avanti con coraggio da solo.
100 La
storia di Enrico
101 La
storia di Enrico
102
La storia di Fabio
Fabio Santoprete
Unsegno tangibile
Ho 33 anni e vengo da Rieti, quello che geograficamente è il centro d’Italia, il che mi piace perché quantomeno penso di stare al centro di tutto. Sin da piccolo l’idea sul mio futuro è sempre stata legata all’informatica, diciamo che ero un bambino un pò nerd. A nove anni discussi con il mio tecnico del pc perché non ero convinto che mi avesse installato un Pentium 4 e lo obbligai a farmi vedere nel BIOS del pc che fosse davvero così, andava di moda il Pentium 4 e io non volevo il 3. Oggi lavoro in IT. Non avrei mai predetto che avrei lavorato nel pharma, nessun bambino lo sogna, piuttosto si immagina alla Nasa, o in Microsoft, ma ormai sono da dieci anni in questo settore ed è un mondo in cui mi trovo bene. Ci sono approdato un po’ per caso. Dopo la laurea ho iniziato a lavorare in consulenza, come tutti quelli che si laureano in Ingegneria informatica, ma sono rimasto pochissimo perché non era un ambiente che faceva al caso mio. Dopodiché sono stato chiamato da un’azienda farmaceutica che stava a 300 metri da casa mia, Baxter poi divenuta Takeda tramite una serie di M&A, un Big Pharma americano, e sono rimasto lì per 8 anni. In Baxter mi trovavo in una comfort zone. Sono diventato manager a 28 anni, ero
il più giovane, avevo un team di persone stupende, un capo bravissimo nonché grande mentore, lavoravo su progetti internazionali e passavo più del 30% del mio orario lavorativo in giro per il mondo tra Asia, America e Europa. Insomma, mi trovavo talmente a mio agio che ho deciso di cambiare. Tante volte quando tutto sembra girare per il verso giusto non ci rendiamo neanche conto se stiamo davvero bene o se stiamo bene perché lo crediamo. Io vivo in una città di 50.000 abitanti e ogni tanto mi fa bene tornare a casa. Giro il mondo e a volte mi manca l’ambiente piccolo, dove esco senza macchina o lascio le chiavi sulla porta, ma se ci sto troppo non riesco a viverci. Quindi penso che ci sia bisogno di evadere, uscire da quello che ci fa stare tranquilli fa bene finché non ci manca anche lo stare bene.
Stavo facendo in contemporanea un master in Business administration e mi sembrava il caso di sfruttare questa esperienza. Per allargare la mia comfort zone dovevo capire se fossi veramente bravo oppure se fosse l’ambiente circostante che era talmente buono da farmi performare bene, quindi ho cambiato lavoro e da qualche mese sono in Merck, un’azienda
103 La storia di Fabio
Global Sr. IT/OT program manager MERCK GROUP
farmaceutica tedesca dove ricopro un ruolo differente sempre in ambito IT. Anche qui mi trovo molto bene, viaggio e lavoro con un respiro internazionale. Per me è una prerogativa lavorare in aziende che sono strutturate per darti visibilità mondiale, per una questione culturale, di interessi, di opportunità e qualità del lavoro. Fondamentale è che l’azienda abbia anche una vision e una mission orientate al digitale e che ti permetta di costruire il tuo ruolo in modo da poterti ritagliare il tuo spazio in ogni contesto. Quando fai un cambiamento viene automatico paragonare le diverse situazioni ma se fai così ogni volta guardi solo la superficie. È inutile farsi delle aspettative su quello che ci attende, dobbiamo invece avere idee su quello che vogliamo, cioè non su come sono fatte le strutture ma su come vorremmo fossero fatte, e se non ci piacciono andarcele a costruire. In tutte le scelte di vita, l’importante è saper sgomitare e trovare la situazione
Ad esempio, durante l’attività di mentorship al liceo scientifico di Rieti ho conosciuto una ragazza che voleva fare tutto tranne lavorare con i computer. Secondo me doveva fare quello, era portata, così le ho regalato un libro di informatica. Ora lei ha 23 anni, ha già una laurea magistrale in Ingegneria informatica ed è a Los Angeles per uno stage. Prima vedeva solo il brutto dell’IT, io l’ho aiutata a vedere il bello e questo mi ha permesso di lasciare un segno.
Il bello dell’IT per me è la digital transformation, cioè il dare un senso tangibile e un ritorno di soluzioni, investimenti, benefit, tramite la digitalizzazione. È chiedersi quale sia il problema più grande che ho nel mio business o nella mia vita di tutti i giorni e trovare una soluzione, spesso digitale, che lo risolva. Il ruolo dell’IT è quello di rispondere a un’esigenza. Se pensiamo allo smartphone ad esempio, è dotato
IL BELLO DELL’IT PER ME È LA DIGITAL TRANSFORMATION,
più adatta a sé, poter lasciare un’impronta, un segno tangibile.
L’impronta che lasci in azienda la misuri dall’essere riconosciuto con una funzione di esperienza. Si dice che non importa quanto una cosa la fai bene ma quanto questa sia percepita bene, il riconoscimento è una chiave. È importante però saper anche uscire dal proprio ruolo, mantenere quindi il focus e la mission sul proprio ruolo ma allargarlo al benessere dell’azienda in sé. Ad esempio nel precedente lavoro facevo parte di alcune iniziative legate al welfare aziendale; in questa nuova azienda c’è un livello di benessere molto superiore e molte di queste iniziative già ci sono e ciò mi porta a volerne pensare delle nuove. In genere mi accontento poco e voglio sempre di più. Insieme al lavoro, allo studio e alle iniziative strutturali, tutt’oggi faccio corsi di project management e mentorship ai ragazzi del liceo, cogestisco una società di calcio, aiuto un gruppo che fa politiche giovanili, sono un collezionista di orologi e vinili, e ho aperto una startup con i colleghi del master che si occupa di shopping assistance. Non è banale fare tutto in contemporanea ma mi da grande carica. Ho continuamente voglia di performare, in ogni contesto sono felice di essere in prima fila e mi piace lasciare un segno, qualcosa che porti un risultato diretto sulla popolazione.
di moltissimi strumenti che c’erano già ma che sono stati uniti in un unico dispositivo; nessuno 30 anni fa avrebbe detto che l’esigenza fosse quella di portare meno cose nello zaino ma in realtà era un problema. La rivoluzione non è stata dirompente ma gentile. Cerchiamo quindi di creare soluzioni che migliorino qualcosa che non percepiamo come migliorabile. Non è un volere di più ma volerlo meglio. La tecnologia va vista come un supporto dove non arriva la nostra capacità a causa delle limitazioni fisiche, conoscitive, economiche o logistiche, ma non deve essere una sostituzione. L’eticità e la trasparenza devono andare di pari passo alla tecnologia. Se affrontiamo il discorso della trasformazione digitale senza la consapevolezza, se quindi non la guidiamo e non educhiamo le persone a questa trasformazione, diventiamo degli automi, creiamo cioè quella che si chiama single point of failure. Se deleghiamo tutta la nostra vita alla tecnologia, il giorno in cui fallirà lei falliremo anche noi, dobbiamo sempre avere un’alternativa sennò perdiamo anche le capacità basilari. Il rischio della tecnologia è di farsi assorbire troppo tralasciando le relazioni. Ci sono cose che non sono sostituibili dalla tecnologia, come i rapporti umani. Io ogni tanto faccio detox, ne ho bisogno. Durante i miei speech se vedo qualcuno con il telefono in mano blocco la conversazione. Proprio perché la tecnologia ci supporta non ci deve
104
La storia di Fabio
CIOÈ IL DARE UN SENSO TANGIBILE E UN RITORNO DI SOLUZIONI, INVESTIMENTI, BENEFIT, TRAMITE LA DIGITALIZZAZIONE
mangiare o essere più importante di noi. Le esperienze si vivono e non si devono per forza fotografare o commentare, le opinioni non si devono per forza sovvertire o polemizzare. La tecnologia ha di positivo che ci ha dato opportunità che non pensavamo di avere, ma dobbiamo vivere con la tecnologia non far vivere la tecnologia al nostro posto.
C’è un episodio che ricordo bene e ha cambiato il mio modo di pormi. Una volta stavo seguendo un training in azienda e mi sono distratto per rispondere a una mail aziendale. Il trainer si è fermato e mi ha chiesto, provocatoriamente, se l’azienda avrebbe chiuso se io non avessi risposto subito a quella mail. Alla mia risposta negativa, mi ha fatto notare che lui era venuto dal Belgio apposta per il training, che era partito alle 5 del mattino e aveva fatto molte ore di viaggio, mi ha chiesto se
secondo me anche un solo minuto di distrazione non valesse tutta la fatica che lui aveva fatto per noi. Mi ha colpito. Aver compreso che imparare a gestire le priorità, capire che tante volte qualcosa è più importante, e non solo per te ma per qualcun altro, e che tu puoi essere un attore principale in quell’importanza, ha iniziato farmi vedere una prospettiva diversa anche nel lavoro. Nel lavoro non devi portare il risultato a casa per te ma per la comunità che rappresenti. È lì che è cambiato il mio approccio alla trasformazione in generale, anche alla carriera, e cioè non orientandola agli obiettivi, ma arrivando a un punto facendo però un’analisi di costi e benefici. Mi piace il lavoro perché occupa una fetta importate della mia vita ma sinceramente non vivo solo per lavorare, invece lavoro per vivere, vivo per performare e portare a casa risultati, per lasciare un segno.
105
La storia di Fabio
106
La storia di Matteo
Vengo da Trieste, città multiculturale per eccellenza ma dove si riscontra purtroppo che la mentalità delle persone non è in realtà particolarmente aperta. Se resti sempre nel luogo da cui vieni non puoi muoverti più di tanto da quei confini mentali che hai costruito finché eri lì e che sono i tuoi riferimenti principali. Quando sono riuscito ad andare all’estero ho incontrato nuove persone e culture che mi hanno arricchito dal punto di vista personale e professionale. Dopo l’Erasmus in Portogallo non sono più tornato a casa, da allora vivo e lavoro all’estero. Ogni tanto penso al fatto che non avrei mai incontrato persone che vengono da tutto il mondo se non fossi andato ad Amsterdam, dove mi sono stabilito per studiare l’inglese e città in cui ho trovato un ambiente meritocratico e ho potuto costruire il mio percorso.
Quando mi relaziono con persone che vengono da luoghi molto differenti, cerco di fare tesoro di tutto ciò di positivo che incontro, farlo diventare un po’ anche mio. Ho studiato scienze politiche ma il mio sogno era quello di aprire un bar o un ristorante, così ho lavorato in questo settore dopo gli studi, per poi cambiare quando ho incontrato la mia compagna e sono diventato papà. Lavorare la sera e di notte non era conciliabile con i nuovi ritmi della vita familiare e grazie alla mia laurea mi sono inserito nel mondo del corporate. Sono una persona molto ambiziosa: un altro dei miei desideri, nel caso non fossi riuscito ad aprire la mia attività, era lavorare nelle vendite e ci sono effettivamente riuscito. Ora il mio ruolo è il Business development rappresentative, entry level del sales, in un’azienda americana.
Ormai sono cinque anni che lavoro in questo settore, ma approcciare questo percorso per me è stata una sfida, inizialmente non era nemmeno
il mio sogno dato che avevo visto i miei genitori lavorarci e mi ero sempre detto che non volevo farlo anche io, inoltre mi ero occupato di altro fino a quel momento. Al di là della realtà della meritocrazia estera, comunque non avevo esperienza in questo mondo ed è stato bello poi ottenere i miei risultati. Adesso vivo sicuramente una maggiore qualità della vita sotto tutti i punti di vista, non ultimo quello della salute, e sto sperimentando un bell’equilibrio.
Se penso al percorso che ho compiuto finora, il paragone con l’Italia porta a varie riflessioni. A livello lavorativo mi piacerebbe che ci fosse maggiore meritocrazia, nei confini italiani non avrei raggiunto gli stessi traguardi nello stesso periodo di tempo rispetto all’estero. Inoltre non vedo in Italia una parità fra le persone indipendentemente dai ruoli professionali, questa è una cosa invece che apprezzo molto della mia esperienza in Olanda. Non ci sono gerarchie, le idee di tutti vengono ascoltate, vieni interpellato e c’è proprio la volontà di ascoltare e ricevere feedback perché si comprende il valore aggiunto di punti di vista differenti. Inoltre c’è una modalità diversa di vivere l’ufficio e gli orari lavorativi, in maniera più fluida rispetto ai ritmi italiani. I manager sanno che sei molto più produttivo se hai anche del tempo libero da dedicare a te e alle cose che ti interessano. Stai meglio quando riesci a conciliare le varie parti che compongono la tua vita e a non sacrificare eccessivamente qualcosa.
Dal mio canto, sono consapevole di mostrare e condividere con miei colleghi il lato tipicamente italiano dell’ospitalità e il nostro savoir faire. Noi italiani abbiamo la capacità di lanciarci più liberamente nelle situazioni, siamo più immediati e questo aspetto all’estero viene decisamente apprezzato.
107 La storia di Matteo
Matteo Ianza
Uscire dai confini italiani mi ha aperto al mondo
Business development representative ONESTREAM SOFTWARE
Se penso al mio futuro, mi piacerebbe magari più avanti riprendere in mano il mio sogno per la ristorazione, cambiando sicuramente modalità per riuscire a conciliare la passione per questo settore con le mie necessità personali e familiari. Questa grande passione deriva dall’attività che gestiva mio nonno, lui mi ha trasmesso tutto l’interesse per la cucina e per l’ospitalità. In realtà, a ripensarci, ricordo che mi ha sempre detto di non fare questo lavoro, perché mentre gli altri sono in vacanza tu sei in servizio. Crescendo con mio nonno, ho imparato molto da lui e dal suo essere sempre pacato e non perdere la pazienza, è stato davvero un modello e fonte di ispirazione per la mia crescita personale e professionale.
Proprio in virtù dell’importanza del rapporto che avevo vissuto con lui, quando sono arrivato ad Amsterdam mi sono chiesto dove fossero gli anziani. Qui ho trovato un’altra grande differenza con l’Italia, questa però non mi piace molto. C’è la concezione che fin quando guadagni e sei produttivo sei perfettamente inserito nel contesto socio culturale e la tua importanza è riconosciuta grazie al contributo che dai al contesto. Quando arriva la terza età invece cambiano drasticamente i rapporti umani e le
persone anziane finiscono pian piano in disparte. Ho potuto osservare che manca proprio l’abitudine di trascorrere del tempo libero insieme in famiglia con le persone in età avanzata. Penso a mio figlio e mi dispiace che stia crescendo senza poter stare a contatto con i nonni e poter imparare da loro come è stato invece per me.
Sono molto attaccato alla famiglia, mi definisco un proud mommy’s boy. Non è facile star lontano dalle mie radici ma ormai ho creato la mia famiglia ad Amsterdam e ho il mio percorso attivo in questo contesto. La mia compagna è olandese ed è curatrice in un museo, entrambi viaggiamo spesso per lavoro, non è sempre facile conciliare tutto ma riusciamo ad organizzarci. Il periodo del Covid è stato un momento che mi ha permesso di stare di più a casa, cosa che mai sarebbe stata possibile altrimenti. Se avrò l’opportunità di tornare in Italia vorrà dire che sarò riuscito nei miei obiettivi di carriera. Avendo l’opportunità di lavorare da remoto, sceglierei certamente di farlo nella mia terra d’origine. Mi piacerebbe tornare in Italia anche per cercare di cambiare l’atteggiamento tradizionale riguardo ai ruoli gerarchici negli ambienti di lavoro.
108
La storia di Matteo
Strategie, modelli di business, tecnologie e best experiences: tutte le risposte per fare bene nel mercato dell’energia italiana le trovi qui. Never forget, you have the power.
RIMINI 5-7 MARZO 2023 EDIZIONE SPRING
RIMINI 20-22 SETTEMBRE 2023 EDIZIONE AUTUMN
109
Alla scoperta dei valori di Richmond Italia
6. Responsabili nelle scelte
Più che una miniera da spremere, l’umanità è un orto da coltivare.
E io, ho saputo esercitare integrità e senso della comunità?
Ho saputo trasferire il mio sapere alle nuove generazioni?
Ho saputo creare un clima migliore di quello che ho trovato in azienda, nella società, nel territorio, pensando anche ai soggetti meno avvantaggiati?
Crescere insieme Crescere dentro Vincere e perdere Raccontare la vita Agili nell’azione
Responsabili nelle scelte
1. 2. 3. 4. 5. 6.
«Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…» (Il Piccolo Principe).
Sono sempre stati i libri a guidarmi fin da bambina, e ad insegnarmi, con il tempo e con gli anni, il valore della curiosità, della determinazione e della responsabilità. Sapere che il nostro agire nel mondo porta con sé dei risultati, delle tracce, delle reazioni che possono influenzare (e si spera magari migliorare) il sistema nel quale ci muoviamo è sempre stato per me un pensiero molto rassicurante. Significa non affidare tutta la nostra vita a un destino scritto bensì alla piena coscienza di noi stessi, di chi siamo e di cosa possiamo essere domani.
Essere responsabili nelle scelte è una sfida: a fare meglio, a sentirsi parte di qualcosa a cui contribuire tangibilmente, a lasciare un segno buono del proprio passaggio. La responsabilità è un modo di essere, una filosofia di vita nella quale la consapevolezza e la coerenza diventano una bussola e in cui la riflessione avviene prima dell’azione.
Le scelte che mi hanno portata dove sono ora rappresentano la mia vittoria, la mia storia. E gli errori fatti in questo percorso, perché solo chi non sceglie non sbaglia, non sono da meno. Evitare di sbagliare è impossibile, quando accetti questo, impari anche a conoscere il lato buono degli errori: l’opportunità di fare meglio.
Mi piace applicare questo approccio nella vita personale così come in quella professionale: far parte di un’azienda significa abbracciarne i valori, voler far parte della crescita di un progetto comune, essere parte attiva di un insieme. Perché c’è qualcosa di profondamente confortante nel sapere che le proprie scelte, anche se a volte in piccolissima parte, possono dare concretezza a qualcosa che prima era solo un’idea, solo un germoglio.
Ilaria Borreca Conference operation manager Richmond Italia
Provo a essere soddisfatta di me stessa, un gradino dopo l’altro
Un percorso di team building per costruire e per rafforzare l’identità di gruppo, creando fiducia, riconoscimento e senso di appartenenza
Un’esperienza di condivisione e di creatività, che racconta la storia di un team attraverso la realizzazione di un’opera d’Arte.
Un’occasione per comprendere il valore delle fragilità e trasformarle in punti di forza, da valorizzare insieme alle risorse individuali e del gruppo .
Una strada per arricchire con autenticità la propria cultura aziendale in ambito D&I, renderla visibile in un progetto di Responsabilità Sociale e incisiva sul proprio score ESG.
Scopri di più e partecipa
THE BOOKMASTER
SORELLE PIANTE, ABBIAMO MOLTO
DA IMPARARE
Stefano Mancuso racconta avventure botaniche che ci aprono gli occhi
Questo godibilissimo trattato sul coraggio, sull’inventiva, sulla tenacia e sul talento del lavoro di squadra delle piante fa parte di quel club di libri direi abbastanza esclusivo che fanno cambiare idea al lettore su un tema di grande portata. Scrive Mancuso nelle pagine introduttive: “Ciò che conosciamo delle piante è molto poco, e spesso questo poco è sbagliato… Nonostante le piante non possano spostarsi nel corso della loro vita individuale, di generazione in generazione sono in grado di conquistare le terre più lontane.” Ed è proprio in questo lavoro di colonizzazione – di creazione di colonie in habitat più o meno amichevoli – che si esprime la vocazione delle nostre sorelle verdi a fondare città, a espandersi, e a comunicare con i propri simili, trovando finissime strategie di mutua cooperazione. Le piante mettono in campo paradigmi diversi da quelli degli animali. Gli animali incassano e si adattano alle circostanze anche più scomode seguendo logiche evolutive adattive, in buona sostanza non risolvono i problemi ma li circumnavigano. Le piante invece non scappano di fronte ai problemi, li affrontano e spesso ne vengono a capo. Già solo per questa differenza dovremmo stimarle, rispettarle e amarle. Dovremmo amare i salici che sono andati a colonizzare un isolotto emerso a 100 chilometri dall’Islanda nel secolo; amare la flora che sta ripulendo tutta l’area contaminata di Cernobyl’ cibandosi di radionuclidi; amare gli eroici Hibakujumoki, gli alberi che hanno retto all’impatto della bomba di Hiroshima a distanza di poche centinaia di metri dall’epicentro e oggi sono venerati come monumenti nazionali; amare gli alberi solitari, questi misteriosi paladini che incutono rispetto e ammirazione, come l’acacia del Teneré, un vero campione nell’arte della sopravvivenza in uno dei territori più ostili e aridi al mondo, nel nord del Niger, per secoli un punto di orientamento essenziale per le carovane del sale dei Tuareg, distrutto da un autista di camion libico ubriaco che lo investì per ben due volte, unico albero presente per centinaia di chilometri e con radici che affondavano al suolo per decine
di metri. Nel libro si narra di piante che fuggono dalla cattività mettendo in campo tutta la loro intelligenza come le piantine di Senecio squalidus che in Inghilterra si sono espanse in tutta l’isola usando le ferrovie e i bordi delle strade. Uno dei ‘mestieri’ principali delle piante è riprodursi, e colpisce la creatività con cui di volta in volta individuano i vettori dei loro semi: l’acqua di mari e fiumi, il vento, gli animali piccoli e grandi, nei cui intestini i semi delle piante resistono, o anche gli esseri umani. Cosa dire delle incredibili strategie riproduttive messe in atto dal cocco, con i suoi semi giganteschi e ricchi di vita! Sono storie che suscitano ammirazione e quasi invidia per la bravura sociale delle piante. Quanto sono capaci di agire insieme con un unico scopo e quanta fiducia sviluppano nelle generazioni future: molte delle cose che intraprendono non potranno vederle in vita. Che cosa possiamo imparare dalle piante per essere umani migliori? L’insegnamento principale è propagare la propria specie, quindi il senso della durata, il tempo lungo. E poi la ‘nazione delle piante’ non riconosce confini e dà libera circolazione a qualunque essere vivente sui suoi territori, all’opposto di quanto fanno gli animali. In un’intervista Mancuso ha detto: “Noi siamo una specie giovane, di soli 300mila anni, e non abbiamo davanti un grande futuro. Le piante sono sopravvissute per centinaia di milioni di anni e ci possono insegnare a sopravvivere.” Sarà per questo che la pianta preferita di Mancuso è il Gingko biloba, la specie più antica risalente a 200 milioni di anni fa. “Una bellezza mozzafiato.” Stefano Mancuso
è opening speaker di Richmond IT director forum Spring e Richmond Future factory forum 2023.
Eugenio Alberti e i libri degli opening speaker ealberti@richmonditalia.it
Stefano Mancuso, L’incredibile viaggio delle piante, Editori Laterza 2018, 144 pagg. 18 euro
ANCHE LA BELLEZZA VUOLE CORAGGIO
Buio in sala. Sul palco di una sala del Gubbio Park Hotel ai Cappuccini, fra arte contemporanea, pietre medievali e paesaggi profumati dell’Umbria, sale un’attrice. Si chiama Lucilla Giagnoni. Rompe il silenzio con queste parole appassionate.
Dante, Shakespeare, Galileo e Einstein hanno rivoluzionato il nostro modo di vedere il mondo, perché hanno guardato dove nessun altro aveva osato e ce l’hanno raccontato. Curioso che il loro sia sempre uno sguardo dal Buio alla Luce. Perché come racconta per la creazione del mondo anche il libro della Genesi, è la Parola che fa Luce.
Quando in principio di ogni cosa Elohim-Tutta la divinità, creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre incombevano sull’abisso. Mentre lo spirito di Tutta la divinità sovrastava la superficie delle acque. Allora Tutta la divinità-Elohim disse: “Sia la luce!”
La Parola è il codice con cui persino la Divinità crea il mondo. Il mio intervento di questa sera sarà il racconto di quel Codice. Su ciò che c’è all’Inizio. L’Inizio di un’avventura ne determina in modo tangibile lo sviluppo, e forse anche la Fine. Su ciò che avevano intuito Dante, Einstein, Shakespeare e Galileo. Naturalmente per come l’ho compreso io, che di mestiere racconto storie.
Dove siamo? Anno 2011. Apertura di Richmond Energy business forum. Negli archivi ho ritrovato la foto di Lucilla, e insieme alla sua fotografia è riaffiorata la memoria di un episodio bello, importante, che mi ha aperto delle porte nel lavoro che faccio all’interno di
Richmond Italia. Molti anni fa, in occasione di un appuntamento in cui presentavo un nostro evento, incontrai Marco, che oggi mi permetto di chiamare amico. Rimase a tal punto colpito dalla passione con cui raccontavo il mio lavoro, che decise di farmi un regalo: mi fece conoscere Lucilla Giagnoni. Mi disse che era certo che “ci saremmo piaciute” e che forse avremmo potuto fare qualcosa insieme. Così un giorno pranzai con Lucilla, una voce importante del teatro italiano, sia come interprete che come autrice, e… sì, ci siamo piaciute. Presi il coraggio a due mani e armata solo di quello – oltre che dell’incondizionata fiducia di Claudio Honegger (il capo) – la invitai a tenere una sessione a Energy Business forum. Con quale motivazione? Quale era il nesso con i temi cari agli Energy manager? Apparentemente nessuno. Il tema era semplicemente la bellezza che avevo visto in Lucilla e nei suoi spettacoli.
114
Marina Carnevale e i suoi pensieri liberi mcarnevale@richmonditalia.it
LA POSTA DI MARINA
Un nesso poi mi toccò trovarlo per dare un razionale alla mia scelta. Il monologo di Lucilla Big Bang parla di energia creatrice. Forse un po’ tirata per i capelli, ma pur sempre un anello di congiunzione col tema dell’evento. Via via che si avvicinava il gran giorno, la sicurezza che mi aveva accompagnato nei mesi precedenti cominciava a venire meno. Mi aggiravo per le belle stanze dell’albergo pensando: “Ma davvero queste persone, tutti uomini e per di più ingegneri dall’aria così tecnica, entreranno in sala questa sera?” La cosa mi pareva altamente improbabile e l’ansia, la paura, iniziavano a crescere. Che figuraccia ci avrei fatto? Con i partecipanti, con Lucilla, con Claudio che mi aveva lasciato libera di fare quella follia?
Ecco come andò. All’ora X gli ingegneri, forse proprio perché tali e quindi precisi, fecero esattamente quello che sulle loro agende era scritto di fare: andarono a sedersi in sala teatro, dove li attendeva Lucilla. Fu un’esperienza bellissima. Per tutti. Un’ora di Grande bellezza, di elevazione dello spirito, di condivisione di sentimenti ed emozioni. Un successo.
Alla fine molti occhi lucidi, molte lacrime di gioia. Sì, perché quando la Bellezza ti tocca il cuore, non puoi fermare le lacrime. Ricordo un signore grande e grosso scosso dai singhiozzi che mi batteva la mano sulla spalla ringraziandomi per l’occasione unica che gli avevo offerto.
E Lucilla? Anche per lei era stata un’esperienza nuova, l’incontro con un mondo diverso da quello del teatro, con realtà diverse dalla sua. Fu solo la prima di tante altre volte, ma come
tale lasciò il segno. Ancora non molto tempo fa alcuni partecipanti mi dicevano di ricordare quel momento come uno dei momenti più alti nella storia della loro presenza agli eventi di Richmond Italia. Lo è stato anche per noi. Grazie a te Lucilla!
Due parole su Lucilla. Nata a Firenze, negli anni ’80 ha frequentato la Bottega di Vittorio Gassman, dove ha lavorato con Paolo Giuranna e Jeanne Moreau. Dal 1985 al 2002 ha collaborato con il Teatro Settimo, compagnia teatrale torinese diretta da Gabriele Vacis, partecipando alla creazione di quasi tutti gli spettacoli. Dal 2016 è la direttrice artistica del Nuovo teatro Faraggiana di Novara. Nel 2021 Rai 5 ha programmato la sua lettura dei 100 Canti della Divina Commedia di Dante. Accanto al lavoro in teatro si occupa di attività didattica e formazione per adulti e ragazzi. Ecco cosa scrive di sé.
Sono Lucilla Giagnoni e il mio mestiere è Fare Teatro. Chi sa oggi veramente che cosa è il Teatro? Forse nemmeno noi teatranti. Teatro in greco significa Vedere. Il Teatro è un laboratorio della Vita, è una lente di ingrandimento, di quella Vita che è fuori dal Teatro. Grazie a Richmond Italia, negli anni ho incontrato i rappresentanti delle più importanti aziende del nostro paese. Gente che fa, che produce e che nel Dna ha iscritto il desiderio di saper vedere: passato, presente, futuro. Con Richmond Italia ho sperimentato soddisfazioni grandi: scoprire fuori dagli spazi del Teatro quanto abbiamo da scambiarci e quanto possiamo essere di ispirazione gli uni con gli altri.
115
116
Paolo Tosti’s Eye
L’arte di ricordare la verità
La parola ‘ritratto’ viene dal latino traere , ovvero riprendere, rubare qualcosa di un volto per mostrarlo ad altri. Sia per me che lo scatto, sia per chi vedrà quella fotografia, il ritratto fotografico presuppone una lettura dei segni del volto più avanzata di qualsiasi altra forma di comunicazione, a prescindere dal fatto che sia realizzato con una fotocamera, un telefono o una videocamera.
Tredici anni fa, insieme a Richmond Italia ho iniziato a fare una sorta di esperimento, offrendo a tutti i partecipanti dei forum un ritratto fotografico che ognuno avrebbe potuto utilizzare come meglio credeva. Questo perché da fotografo ho sempre pensato che il potere più alto della fotografia è quello del ricordo, del fermare l’attimo e tramandarlo, mostrandolo agli altri.
Quando con Claudio Honegger ci siamo inventati questo progetto, era il periodo in cui stavano crescendo in maniera esponenziale i social media, e spesso come foto del proprio profilo i manager avevano fotografie realizzate in maniera a dir poco
inopportuna. Realizzare con le persone un piccolo servizio fotografico era un modo non solo per donare un buon ritratto con l’immagine del professionista, ma anche cercare di far capire quanto sia importante il valore di un’immagine per un utilizzo professionale.
Per me, realizzare ritratti è un modo per scoprire le persone attraverso una macchina fotografica. L’immagine fotografica ci differenzia dagli altri otto miliardi persone nel mondo grazie agli elementi che fanno del nostro volto un elemento di suggestione unico per chi lo osserva, come se il nostro ritratto rappresentasse la nostra biografia. Siamo sottoposti a un bombardamento incessante di immagini all’interno di un processo di fortissimo smembramento della realtà, e a volte succede che, anche inconsapevolmente, falsiamo quella stessa realtà che vorremmo ricordare, e dopo infiniti passaggi sugli schermi del pc o dello smartphone, ci accorgiamo che il ricordo originale è andato smarrito.
Andiamo avanti. E godiamoci l’arte del ritratto con la consapevolezza che ricordare il reale è importante, e che avere un’immagine fotografica che ci rappresenta per quello che siamo è utile per accettarsi e per mantenere vivo il ricordo, quello autentico.
Paolo Tosti, founder dell’agenzia di comunicazione Sedicistudio, da 13 anni racconta per immagini i forum di Richmond Italia, coordinando il lavoro di ripresa foto e video di un gruppo di lavoro di diverse persone. L’esperienza e il suo “occhio” di fotografo gli consentono di catturare quel momento così difficile da raccontare a parole a chi non è mai stato a un Richmond forum: l’atmosfera human2human
117
info@sedicistudio.com
Gli opening speaker dei forum di Richmond Italia sono persone speciali. Hanno alle spalle metodo, esperienza, cose da dire, da mostrare, da raccontare. Ma soprattutto hanno voglia di farlo e di condividere la propria visione del mondo. VOP Very Open People è un nuovo spazio fisso di Reach magazine dedicato alla loro passione e al loro spessore. Tirate fuori gli smartphone e scansionate il QR code: potrebbero sorprendervi più che degli effetti speciali.
SUDORE, FATICA E RESILIENZA
ALESSANDRO PANARO
I porti italiani sono resilienti
(…) I nostri porti in questo momento hanno mostrato una grande capacità di reazione e hanno continuato a investire. Li ha aiutati la loro capacità di movimentare tutte le tipologie merceologiche, cioè di essere multipurpose. I nostri porti sanno fare tutto. Sanno movimentare container, traffico energetico, traffico merci, passeggeri, crocieristi.
UMBERTO PELIZZARI
Il senso del limite è una palestra di vita
(…) È chiaro che nel tuo percorso non ci possono essere solo delle vittorie. Ci sono sicuramente anche delle sconfitte, dei momenti difficili. Però è lì che vedi il vincente. Di fronte a una sconfitta non cerchi degli alibi ma cerchi di capire cosa non è andato, e così diventa una lezione per la prova successiva.
Apneista detentore di record mondiali
Head of Service Maritime and Energy Centro Studi SRM Intesa Sanpaolo
Strategie, modelli di business, società e tendenze: tutte le risposte di cui hai bisogno per capire il marketing di oggi (e di domani) le trovi qui. Never forget, you have the power.
GUBBIO
11-13 GIUGNO 2023
You have the power.
Lavoriamo da sempre con uno spirito human2human e da sempre creiamo eventi di business matching, formazione e networking che liberano il potenziale dei partecipanti. Oggi più che mai, don’t forget you have the power.
120 Team Love Technology Innovation
Vision Changement Stories
Good ideas