A distanza di tempo le cose sembrano facili
Caro lettore,il futuro è sempre più presente, ed è giusto farsene carico, affrontarlo a viso aperto. Questo per due motivi. Uno è noto. Se tu non ti occupi di lui, sarà lui ad occuparsi di te, e non è detto che lo faccia indossando i guanti. Il secondo, altrettanto importante ma meno intuitivo, è che uno stile di management che includa il tempo lungo, genera dei vantaggi subito, molto prima che questo futuro accada. Sì, parlando con decine di manager durante i nostri forum, mi sono accorto che effettivamente una visione che metta in discussione il “come abbiamo sempre fat to” fa bene a tante cose. Fa bene alla sostenibilità, ossia al pensare non solo agli obiettivi e ai processi ma anche al costo di questi obiettivi e di questi processi nel budget delle risorse con sumate. Fa bene all’efficientamento, perché lo sguardo si aguzza e si intravedono, nelle pieghe del già visto, strade nuove, opportunità che stavano lì sotto il naso e di cui nessuno si curava. E infine fa bene al nostro umore, perché starsene con le mani in mano mentre si addensano le nubi della tempesta non è proprio terapeutico.
La nostra campagna di comunicazione “Se vuoi capire il futuro, prima devi immaginarlo” vuol dire proprio questo. Che bisogna metterci la testa e non avere paura della complessità. In tendiamoci, manager e imprenditori lo hanno sempre fatto, e quelli che lo hanno fatto di più sono quelli che sono arrivati più lontano. Solo che oggi l’accelerazione di tutto rende il futuro un orizzonte più vicino, più avvolgente… Il tempo di parlarne, ed è già li che ti aspetta. Non c’è quasi scarto fra presente e futuro, e noi dobbiamo farcene una ragione. E dobbiamo anche prepararci al fatto che i fuori programma, i fattori non prevedibili, aumenteranno, e accanto alle strategie e ai piani, dovremo anche imparare a muoverci improvvisando. D’altronde, quando ci si avventura nell’ignoto, un pochino si improvvisa sempre.
Penso al 1994, l’anno in cui era nata Richmond Italia. Ere geologiche indietro nel tempo. Quell’anno si inaugurava il tunnel della Manica, e l’Inghilterra sembrava più vicina. Morivano due miti come Ayrton Senna e Gian Maria Volonté. Mandela diventava Presidente del Sudafrica e Berlusconi scendeva in campo… E la prima “nave del marketing”, una Costa Crociere che avevamo affittato, salpava da Genova carica di direttori marketing che discutevano di futuro. Per tanti anni quella nave avrebbe influenzato il marketing italiano. Poi sono arrivati gli altri forum, fino alla soglia psicologica di 20. Quando moltiplichi per 20 un prodotto, puoi dire che hai una gamma di prodotti, non solo delle varianti. Avremmo potuto prevedere tutto ciò? No. Abbiamo solo guardato al futuro come fanno tutti coloro che hanno il gusto della sfida: abbia mo mixato il cuore e la testa.
Claudio HoneggerAmministratore unico Richmond Italia
Chi è Il Bullone?
Il Bullone è una fondazione no profit che attraverso il coinvolgimento e l’inclusione lavorativa di ragazzi che hanno vissuto o vivono ancora il percorso della malattia, promuove la responsabilità sociale di individui, organizzazioni e aziende. I ragazzi si chia mano B.Liver e la loro esperienza genera Il Bullone, un nuovo punto di vista che va oltre il pregiudizio e i tabù verso uno sviluppo sociale, ambientale ed economico sostenibile
Il Bullone è pensiero: un giornale, un sito e i canali social, i cui contenuti sono realizzati insieme a stu denti, volontari e professionisti per pensare e far pensare.
Il Bullone è azione: esperienze con i B.Liver, pro getti di sensibilizzazione, lavoro in partnership con le aziende.
Interviste pazzesche
Negli anni Il Bullone ha dato vita a inchieste e inter viste esclusive, durante le quali i B.Liver si sono confrontati con grandi personaggi del panorama nazionale e internazionale su temi come la pace, la sostenibilità, la cura e la lotta alle discriminazioni. Tra alcune delle conversazioni più emozionanti, quella con Nicolai Lilin, scrittore russo, di origine siberiana, che ha conquistato la fama internazionale con il best seller Educazione Siberiana. Con lui abbiamo parlato di letteratura, ma soprattutto di guerra e di come la cultura russa sia così diversa da quella occidentale.
Il Bullone Jewel
Il nostro simbolo racconta di un’energia che ci unisce e ci fa andare oltre. Oltre la malattia, oltre i pregiudizi, oltre le apparenze, consapevoli che in questo percorso corriamo insieme.
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Giornalismo sociale
Il Bullone ha ricevuto il riconosci mento dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia che infrange le regole e per ottantaquattro giornalisti del Bullone (anche per chi da sempre lo fa come volontario) ha rilasciato i tesserini di gior nalista pubblicista ad honorem per l’im pegno sociale e la sensibilizzazione che ognuno di noi, sia chi percepisce uno sti pendio, sia chi no, ha messo in ogni sin gola parola degli articoli che ha scritto. Ci sono anche quattro tesserini speciali rea lizzati per Eleonora Papagni, Alessandro Mangogna, Leonardo Ghilardi e Andrea Balconi che, chissà, forse continuano a scrivere da sopra le nuvole con la pas sione che sempre li ha accompagnati quando lavoravano con noi.
Premio Montale
Quest’anno Il Bullone ha vinto il Premio Montale nella Sezione Milano e il Senso Civico.
Il Bullone Edizioni
La start up del Bullone, una casa editrice che dà voce alle storie di vita che cir colano attorno alla nostra Fondazione, nella speranza di ispirare la trasformazione di una società che riparta dai bisogni reali delle persone. Un luogo che parla, che acco glie, che insegna, che riflette. Una casa editrice nuova, con cui proviamo a costruire una nuova educazione attraverso la voce dei ragazzi.
IMPARIAMO DALL’ESPERIENZA
Grandi speaker. Incontri b2b. Sessioni di coaching. Networking informale. Due giorni e mezzo di full immersion rigorosamente dal vivo pensati per affrontare il mercato con nuove strategie. Per riflettere e condividere nuove visioni con partner e colleghi. Per liberare il proprio potenziale nelle partite che si stanno giocando oggi. Ci vediamo al Grand Hotel di Rimini.
UN
PER CAPIRE IL FUTURO
A ciascuna storia o contributo realizzati per questo numero è stato associato un simbolo che fa parte di un alfabeto visivo creato da Richmond Italia a supporto della campagna di comunicazione in corso e incentrata sull’importanza di prefigurare il futuro. Se le icone misteriose ti hanno incuriosito, qui sotto trovi i significati di ciascuna di loro.
LA PARTECIPAZIONE
Non stare a guardare, sentirsi coinvolti e responsabili del futuro
L’EQUILIBRIO
Mirare a un futuro sostenibile, la sintesi fra essere e avere
LA CONSAPEVOLEZZA
Aprire gli occhi, saper guardare, essere vigili
IL CAMBIAMENTO
Aver coraggio, saper rischiare uscire dall’area di comfort
LA FIDUCIA
L’ottimismo, la voglia del fare, l’intraprendenza, lo sguardo aperto
L’EMPATIA
Human2human, l’incontro, lo scambio, il lato umano del business
LA COMPLESSITÀ
Sapersi orientare, risolvere i problemi, non temere il labirinto
L’IMMAGINAZIONE
Una, cento, mille idee che germogliano
LA CRESCITA
Il movimento, andare avanti, raggiungere gli obiettivi
IL RISPETTO
Il vero bene comune è trattare gli altri come vorresti essere trattato tu
IL PENSIERO GENERATIVO
Assecondare connessioni, lasciarsi andare alle intuizioni, ascoltare
LA PROGETTAZIONE
La forza dell’ingegno, la dignità della ragione, la fiducia nella tecnica
Paola Guerra
Il sisma dell’Aquila mi ha insegnato l’importanza delle persone al centro dell’emergenza
Perché una ragazza che studia in Bocconi si inna mora della sicurezza? Parliamo della fine degli anni Ottanta. Volevo fare psicologia ma mio padre, facente parte della quinta generazione di militari in famiglia, mi consigliò invece giu risprudenza o economia. Quest’ultima mi sem brava la meno peggio, così andai in Bocconi, dove ebbi la fortuna di appassionarmi a mate rie aperte all’umanesimo, come Organizzazione aziendale e così via. In generale però, sentivo che non era il mio.
Al quarto anno iniziai a frequentare un corso che aveva un titolo curioso: Protezione delle risorse aziendali. Seguii il mio intuito e mi innamorai di questa materia multidisciplinare, la prima in Italia in tale ambito. Riguardava infatti l’economia, l’organizzazione, ma anche il diritto, la sociologia e la criminologia. Era un corso innovativo che arrivava direttamente dagli Stati Uniti: una nuova sfida dalla quale mi sentivo attratta senza neanche sapere il perché. Dopo la tesi rimasi a lavorare in Bocconi, al centro S.P.A.C.E., che stava per Security and Protection Against Crime and Emergencies. Insegnai lì fino al 2008, e visto che non mi pia ceva spiegare nulla che non avessi sperimen tato, in parallelo mi facevo coinvolgere in vari progetti di consulenza e all’Assessorato alla
sicurezza del Comune a Milano. Avevo voglia di crescere e imparare, ed ero convinta di poter affrontare qualunque cosa.
Le prime esperienze sono state dure ma anche molto formative. Dopotutto la vita non è fatta solo di successi: la prima azienda di consulenza per la quale ho lavorato, ad esempio, fallì da un giorno con l’altro. La stessa Bocconi nel 2008 chiuse il Centro studi a causa della crisi finan ziaria. Per questo bisogna sempre continuare a chiedersi che cosa si vuole davvero dal proprio lavoro. Perché il lavoro non esaurisce la tua per sona, è un’esperienza e come tale può anche incontrare fallimenti. Le porte chiuse sono state l’inizio di un percorso per la comprensione del mio valore, a prescindere dai marchi che rap presentavo. Posto che sono grata a tutte le grandi aziende per cui ho lavorato e dalle quali ho imparato tanto, in quel momento dovevo decidere che cosa fare di questi diciott’anni di esperienza professionale. In quel caso fu importantissimo l’apporto di mio marito, che mi ha incoraggiato a iniziare la mia avventura professionale.
Presi la decisione in occasione del terremoto dell’Aquila, ad aprile del 2009. La mattina dopo il sisma tutti i telegiornali trasmettevano
immagini tremende, di paura e distruzione. Sentii una chiamata: dovevo andare là ad aiutare, dovevo mettere a disposizione la mia esperienza. Così io e mio marito Alberto partimmo per l’A bruzzo. Per prima cosa raggruppammo una serie di amici e conoscenti della security intorno ad un tavolo, a Bologna, per capire insieme come aiu tare. Nei momenti di crisi, infatti, il nostro primo grande compito è quello di fermarsi, centrarsi e confrontarsi con gli altri.
Lì ci voleva anche il coraggio però, e quello senz’altro me l’ha insegnato Alberto. Non cono scevamo nessuno all’Aquila, eppure grazie al passaparola siamo riusciti a creare una rete di aiuto e abbiamo iniziato a lavorare scegliendo come base una piccola località che si trova tra l’Aquila e Sulmona, San Lorenzo di Beffi. Lì mi resi conto che non ero “Paola Guerra, la pro fessoressa della Bocconi”, ero Paola Guerra e basta.
L’educazione alla sicurezza è un percorso lun ghissimo, che bisognerebbe iniziare fin da piccoli, prevedendo varie simulazioni all’anno, con scenari diversi. La paura è un meccani smo fisiologico che è normale percepire nel corso di un’emergenza. Il problema è quando non si riesce a governarla e diventa panico. Durante le crisi, infatti, il caos avviene perché non c’è consapevolezza: si muore perché non si sa gestire la paura, come nel caso della proiezione della finale di Champion League in piazza San Carlo a Torino o del concerto di Sfera Ebbasta a Corinaldo, dove nel fuggi fuggi alcune persone sono state schiacciate dalla calca. All’Aquila invece c’è chi è morto perché, pur uscendo di casa, si è messo dalla parte del muro sbagliata. È normale non capire più niente, però non bisogna restare vittime della propria condizione fisica ed emotiva.
L’effetto della crisi pandemica, ad esempio
IN QUEL POSTO, DOVE TUTTO È STATO DISTRUTTO NEL GIRO
Per mesi e mesi, assieme a centinaia di colle ghi e amici manager da tutta Italia abbiamo trascorso le nottate a progettare i business plan e capire cosa fare. Ad un certo punto fu chiaro che l’Aquila era una città universitaria, così pensammo di istituire un centro studi. In quel posto, dove tutto è stato distrutto nel giro di venti secondi e dove le persone sono morte in casa perché non avevano mai fatto un’esercitazione, capii che tutto quello che avevo studiato non era mai stato applicato. Decidemmo quindi di dedicare il centro alla gestione dei rischi e dell’emergenza. Creammo da zero una società che partì con le attività di formazione e ricerca. Si chiama Scuola Internazionale Etica e Sicurezza, perché la sicurezza si costruisce con l’etica dei com portamenti umani. Fu un’esperienza unica, grazie alla quale mi rimisi completamente in discussione. Ero andata là ad aiutare, invece fu l’Aquila ad aiutarmi a capire quanto sia fondamentale la preparazione delle persone al centro di un’emergenza. Certo, servono processi, procedure e manuali, ma quello che fa la differenza sono le persone, la loro capa cità di percepire i pericoli e il sapersi compor tare di conseguenza. Perché la verità è che le emergenze non sono eventi straordinari, accadono più spesso di quanto si pensi.
– dal punto di vista emotivo ed esecutivo del cervello – durerà per dieci anni. Abbiamo vissuto uno stress potentissimo, per cui dob biamo iniziare a guardarci tutti con più gen tilezza, pazienza e cura. L’attuale momento storico ci offre l’opportunità di ritornare all’umanesimo, partendo dalle persone. Se voltiamo pagina troppo in fretta, infatti, non avremo imparato niente.
Dobbiamo anche abbandonare l’illusione che gli eventi inattesi non capitino mai a noi. Quando mio marito è mancato, poco prima della pande mia, presi la decisione di trasferirmi a vivere al mare: era tempo di smettere di vivere di sogni futuri e realizzarli nel presente. D’allora, infatti, cerco di assecondare il più possibile le mie intu izioni e rimettermi in gioco. Per questo motivo, a cinquant’anni e nel mezzo della pandemia, mi sono reiscritta all’università in Psicologia cogni tiva applicata: volevo approfondire come reagi sce il nostro cervello durante un’emergenza.
Non bisogna avere paura del cambiamento, l’importante è che ci sia una coerenza fra ciò che si pensa, si dice e si fa. E poi, il sorriso degli occhi e del cuore deve restare sempre acceso, perché senza di esso non si può dire di aver vis suto la vita.
DI VENTI SECONDI E DOVE LE PERSONE SONO MORTE IN CASA PERCHÉ NON AVEVANO MAI FATTO UN’ESERCITAZIONE, CAPII CHE TUTTO QUELLO CHE AVEVO STUDIATO NON ERA MAI STATO APPLICATOLa storia di Paola
Alan Girard
IT manager NITAL
Essere un buon tecnico fa di te un buon leader?
Alan è sempre stato un pigro. Questo è quello che penso quando mi guardo indietro, ai tempi dell’infanzia. Non avevo molta voglia di andare a scuola. Il mio motto era “Il sei è un risultato meraviglioso, perché sforzarsi di prendere di più?”. Il minimo indispensabile è stata la cultura su cui ho costruito l’inizio del mio percorso, in effetti. Certo, oggi è facile parlare. A tredici anni, invece, non sai davvero cosa ti aspetta. Alla fine delle medie le mie maestre mi consigliarono di fare il liceo scientifico tecnologico, e così feci. Ricordo che mia zia mi disse: “Sei sicuro? Guarda che dopo il liceo devi andare all’univer sità”, ma io non me ne preoccupai, a quell’età gli anni durano secoli; chi ci pensa, realmente, al proprio futuro? Anche al liceo continuavo a pun tare sempre e solo al sei, e ci arrivavo a fatica, soprattutto nelle materie matematiche. Tuttavia, me la cavai e arrivai al quinto anno, quando ancora una volta dovetti decidere che fare del mio futuro. Fino ad allora avevo sempre vissuto con mia zia in un piccolo paesino di campagna e l’idea di trasferirmi a Torino per proseguire gli studi mi terrorizzava. Inoltre, non sapevo come addentrarmi nell’intricato percorso a ostacoli che era per me la ricerca dell’università, gli open day e i test d’ingresso. Mia zia mi donava tutto il suo affetto ma non sapeva aiutarmi con le que stioni logistiche. Così il tempo passava e mentre i miei compagni collezionavano test d’ingresso e iscrizioni in università, io restavo in balia di me stesso. Stavo a casa a non fare niente, con mia
zia che mi dava dello scansafatiche e mi esortava a trovare una soluzione.
Un giorno suonò il telefono: era un’agenzia d’in formatica che mi proponeva di seguire un corso. Accettai. Sebbene non sia stato molto utile a livello didattico, questa esperienza mi permise di fare uno stage in una piccola software house e approcciarmi al mondo del lavoro. Il primo giorno dissero a me e a un altro stagista che avrebbero assunto solo uno dei due. Dovevamo affiancarci ai due programmatori senior che ci avrebbero formato: da un lato una ragazza gentile e molto carina; dall’altro un burbero anziano dall’odore non proprio gradevole. Io ovviamente finii con lui. La prima cosa che mi disse fu: “Facciamo così: per metà giornata io tengo il mouse e tu la tastiera, e viceversa per l’altra metà”. Pensai che fosse completamente pazzo. Invece questo metodo folle mi insegnò a lavorare e iniziò così il mio percorso. Dopo varie esperienze arrivai in Nital, dove lavoro da dieci anni e da cinque sono responsabile del mio gruppo.
Nel mondo dell’IT il lavoro duro ripaga sempre. E più diventi bravo, più ti trasformi in un punto di riferimento per gli altri. Fatto sta che all’improv viso diventai il manager di coloro che fino a un giorno prima erano stati i miei colleghi. All’inizio ebbi naturalmente molte difficoltà nell’approc ciare questo mio nuovo ruolo, e non nascondo di averne tutt’ora: è proprio quando iniziamo ad
essere troppo sicuri di noi stessi che commet tiamo gli errori più gravi. Ho lavorato per almeno dieci aziende diverse nella mia vita e gran parte di queste non avevano la più pallida idea di come gestire le persone. Spesso c’è la tendenza a confondere una promozione con una gratifi cazione: il fatto che io fossi un grande tecnico non faceva di me un grande leader. Vari studi stimano che entro il 2025 il 75% delle qualità richieste dai top manager saranno tutte soft skill. Vuol dire che non sarà più richiesto a un mana ger di saper fare le cose, bensì di saper gestire le persone Se ci pensiamo bene, è già così. La for bice si sta allargando sempre di più. Da un lato la scuola di pensiero di Elon Musk, per il quale un leader deve sempre essere tecnicamente molto superiore ai propri dipendenti. Dall’altro stiamo assistendo alla crescente generazione della lea dership gentile. Ma siamo proprio sicuri che sia la gentilezza il punto chiave di una leadership efficace? Per me la leadership deve assumere caratteristiche diverse a seconda delle circo stanze. Non c’è cosa più difficile del riuscire a
Una volta, durante un colloquio di lavoro mi chiesero quale fosse il mio mentore. Solo oggi mi rendo conto di quanto fu rivelatoria questa domanda. Ho avuto tanti capi (da cui sono scap pato la maggior parte delle volte) ma nessuno di loro potrei mai definirlo mentore. E se anche il mio team pensasse questo di me? Nonostante non volessi diventare il capo dal quale ero sempre scappato, nei primi tempi penso di esserlo stato: lavoravo tanto e non delegavo abbastanza. Le cose cambiano, invece, quando smetti di lavorare per te stesso e inizi a lavorare per gli altri. È quello che fa la differenza, ma ci vuole tempo per capirlo.
Come si impara a fare il leader quindi? Conscio di non poter gestire quel cambiamento improv viso da solo, chiesi aiuto ad una psicologa, curio samente la stessa che mi aveva fatto la domanda sul mentore al colloquio, tempo prima. Da un anno faccio tre ore di coaching ogni quindici giorni e ogni tanto coinvolgo anche il team. Talvolta si tratta di una master class dove imparo
CHIEDERE AIUTO È STATA LA SCELTA MIGLIORE CHE IO ABBIA FATTO NEGLI ULTIMI DUE ANNI
governare gli stati d’animo di chi lavora con noi. Le persone sono complesse, c’è chi lavora bene se viene provocato e chi invece ha bisogno di una parola di conforto in più; c’è chi ha bisogno di parole dure e chi invece dinnanzi a queste si abbatte. Il principio a cui io mi ispiro è la coe renza; dovremmo sempre sforzarci di gestire i colleghi sulla base delle loro caratteristiche e necessità.
Proprio per questi motivi la promozione delle persone dovrebbe avvenire secondo criteri diversi. Altrimenti rischi di perdere un tecnico capace a fronte di un manager mediocre, che nella maggior parte delle ipotesi continuerà a fare il tecnico, e non il capo. Come fai ad essere il capo di persone che fino al giorno prima erano i tuoi colleghi? Ma soprattutto, come si fa il “capo”? Queste sono state le ragioni delle ansie che ho dovuto affrontare negli ultimi cinque anni. Tuttavia, questa è stata anche l’esperienza che mi ha portato fin qui oggi.
Si dice che la gente scappi dai leader incapaci e non dalle aziende in sé. Ci sono tante verità dietro a frasi di questo tipo, però dobbiamo stare attenti a non generalizzare. Ciascuno di noi ha la propria storia ed è motivato da cose che potrebbero essere completamente differenti rispetto a quelle del suo compagno di scrivania.
come dare un feedback nel migliore dei modi, altre volte somiglia più a una seduta psicolo gica. Eppure, chiedere aiuto è stata la scelta migliore che io abbia fatto negli ultimi due anni. Siamo abituati a non parlare mai con noi stessi, invece è rivelatorio. Non è da prendere alla leggera però, è un percorso lungo e impe gnativo, che devi voler fare per davvero. Così ho cambiato completamente metodo d’agire. E ancora non ho la certezza che sia la strada giusta, bisognerebbe chiederlo a chi lavora con me. Nel mio piccolo, cerco di portare ogni giorno in ufficio la migliore versione di me stesso, evi tando di fermarmi all’apparenza o di cadere nella trappola della generalizzazione.
“Quello lì non ha voglia di lavorare”. Quante volte abbiamo sentito in azienda frasi come questa? Come se la voglia di lavorare fosse un atto di fede. Ma qualcuno si è mai assicurato che le aspettative sulle persone siano adeguate? Quando affidi un compito, sei sicuro di essere stato chiaro? Molte persone potrebbero dare molto di più se le si mettesse nella condizione di farlo. È fondamentale chiedersi il perché delle cose e non limitarsi a guardarle esclusivamente dal proprio punto di vista. Questo è quello che cerco di fare quotidianamente e che spero un giorno possa diventare fonte di ispirazione per chi mi circonda.
Mark Camilleri
Head of international expansion PARCELLAB
Parlare quattro lingue mi aiuta a cogliere i talenti nascosti delle persone
Mi chiamo Mark Camilleri e, come si può intu ire dal mio nome, ho origini diverse: inglesi, maltesi e francesi. Mia madre è per metà inglese e per metà francese, mio padre invece è di Malta. Sono nato in Francia, ma i primi anni della mia infanzia li ho passati a Londra prima di trasferirci a Milano. Ho vissuto tanto tempo in Italia ma in una sorta di bolla fran cese-inglese, perché ho frequentato la scuola francese e poi ho continuato i miei studi inter nazionali in Bocconi.
Dopo la laurea triennale in International Economics Management and Finance, ho cominciato a lavorare in aziende come Groupon, Rocket Internet e LVMH. Fino a maggio 2022 ho lavorato a Londra in ParcelLab, un’azienda tecnologica tedesca dove mi occupavo delle strategie di ven dita su diversi mercati europei. Lì ho messo a frutto quello che ho studiato in passato, oltre alle quattro lingue che parlo fluente mente grazie alla mia provenienza: l’italiano, l’inglese, lo spagnolo e il francese. Ho iniziato a lavorare in ParcelLab all’inizio di una vera e propria espansione della company: erano passati da cinquanta a duecento persone, e
ne avrebbero assunte altre cento nel corso dell’anno. ParselLab è una soluzione che aiuta gli e-commerce a migliorare l’esperienza post-vendita, impattando concretamente sull’esperienza del brand e quindi sulla per cezione che i clienti hanno di quest’ultimo. Di fatto, li assiste nell’interazione con il consu matore, affinché l’esperienza di acquisto sia ottimale.
Nella vita, come sul lavoro, sono il risultato delle mie diverse origini. L’apertura mentale arriva certamente da lì. Quando parli varie lingue hai modo di confrontarti con persone molto diverse le une dalle altre, e attraverso queste conversazioni puoi osservare le varie dinamiche sociali che ti circondano. Tutto ciò ti rende una persona socialmente più saggia e ti permette di assorbire molte più informa zioni, verbali e comportamentali. Ti rende più consapevole su come gestire le “sfumature di diversità” in maniera rilevante, anche sul lavoro.
Da un punto di vista personale, ho sempre pensato che per andare d’accordo in modo profondo con una persona sia necessario
capirsi bene. Nelle relazioni amorose osservo tanto questa cosa: se nella coppia si parla la stessa lingua va bene, ma se ci sono delle limi tazioni linguistiche diventa più difficile. Non dico che non ci sia una connessione, però ci sono tante cose che si perdono in transla tion. Per esempio, se hai un senso dell’umo rismo che ti rende brillante in italiano, ma non riesci a trasmettere questa tua particola rità in inglese, l’altra persona non potrà mai comprenderti fino in fondo. Il valore aggiunto che cerco di portare sul lavoro sta anche in questo: sfruttare la mia conoscenza linguistica per cogliere il talento delle persone, a prescin dere da quale lingua parlino, e comunicarlo ai miei superiori affinché possano crescere.
La lingua e il modo di comunicare rappresen tano la lente attraverso la quale le persone
stato il corpo ad allertarmi e dirmi che non era sostenibile andare avanti così. Iniziai a soffrire di attacchi di panico: un segno che dovevo sistemare qualcosa nella mia vita.
Per cercare di stare meglio iniziai a fare vari esercizi di yoga e respirazione, a mangiare meglio e prendermi più cura della mia salute fisica e mentale. Anche se in quel momento non la vedevo così, oggi sono sicuro che tutte queste cose abbiano avuto un impatto posi tivo su di me. Tuttavia, la realtà è che ci vuole tempo e disciplina per risanare corpo e spi rito. Anche parlarne è stato fondamentale, infatti una cosa che mi sono ripromesso per il futuro è non fingere mai più di essere una per sona dura ed invincibile. In primis, nessuno lo è. E poi, più ne parliamo e più sconfiggiamo lo stigma legato alle malattie psicofisiche nella
“analizzano” gli altri. Il filtro linguistico può avere un’influenza positiva o negativa sulle persone, anche sulla base di alcuni condi zionamenti inconsapevoli. Oggi è l’inglese a svolgere questo ruolo in maggior misura. Capita, ad esempio, che l’accento britan nico venga percepito come più sofisticato e quindi “più intelligente” di quello americano. Questa è una realtà che, se ne sei consape vole, puoi sfruttare a tuo vantaggio. In caso contrario, invece, potresti diventare tu stesso vittima di una discriminazione culturale.
Oggi siamo tutti molto più interconnessi di prima, anche sul lavoro. Per facilitare lo scam bio di informazioni abbiamo bisogno di stan dardizzare alcune cose, e la lingua è una di queste. Tuttavia, è inevitabile perdere qual che sfumatura del discorso traducendolo in un’altra lingua.
È importante, però, parlare la stessa lingua anche con sé stessi: con la propria mente e il proprio corpo. L’ho sperimentato in prima persona qualche anno fa, quando ho vis suto una sorta di burnout da lavoro. Stavo seguendo un progetto al quale ero particolar mente appassionato, ma che nel tempo mi ha portato a non stare bene psicologicamente. Ero abituato a fare degli orari assurdi in ufficio ed ero diventato asociale. Dopo un anno, è
nostra società. Decisi di prendermi una pausa, spiegando che dovevo fare un passo indietro. Non ero completamente sganciato dall’ope ratività, ma ero molto meno coinvolto. Così ho potuto ricaricare un po’ le batterie, come una Ferrari che fa pitstop per tornare in pista più performante di prima. Non la vedo come una cosa negativa, ma come una pausa necessaria per riprendere a correre meglio sul lungo ter mine e senza ripetere gli stessi errori.
Prima di questo evento non riuscivo a capire le persone che vengono sopraffatte dallo stress o che percepiscono certi eventi in modo tra volgente. E questa esperienza, per quanto non tornerei mai indietro, mi ha lasciato qualcosa di positivo. Oggi provo un senso di empatia e connessione con perfetti sconosciuti che con dividono il mio stesso vissuto. Questa sensi bilità mi permette di ascoltare meglio gli altri e di comportarmi di conseguenza con chi si trova in difficoltà, sviluppando solidarietà ed umanità.
Solo dopo che vivi queste esperienze ti rendi conto dell’estrema fragilità del nostro corpo e della nostra mente. Ci vuole tempo per riprendersi. Dopo tutto, la vita è come una maratona: per andare lontano, devi andarci piano. Questo è ciò che la mia storia mi ha insegnato.
È IMPORTANTE PARLARE LA STESSA LINGUA ANCHE CON SÉ STESSI: CON LA PROPRIA MENTE E IL PROPRIO CORPO. L’HO SPERIMENTATO IN PRIMA PERSONA QUALCHE ANNO FA, QUANDO HO VISSUTO UNA SORTA DI BURNOUT DA LAVORO
ANDIAMO IN PROFONDITÀ
Grandi speaker. Incontri b2b. Sessioni di coaching. Networking informale. Due giorni e mezzo di full immersion rigorosamente dal vivo pensati per affrontare il mercato con nuove strategie. Per riflettere e condividere nuove visioni con partner e colleghi. Per liberare il proprio potenziale nelle partite che si stanno giocando oggi. Ci vediamo al Grand Hotel di Rimini.
Gli opening speaker dei forum di Richmond Italia sono persone speciali. Hanno alle spalle metodo, esperienza, cose da dire, da mostrare, da raccontare. Ma soprattutto hanno voglia di farlo e di condividere la propria visione del mondo. VOP Very Open People è un nuovo spazio fisso di Reach magazine dedicato alla loro passione e al loro spes sore. Tirate fuori gli smartphone e scansionate il QR code: potrebbero sorprendervi più che degli effetti speciali.
NASCE VOP, VERY OPEN PEOPLE
STEFANO ZAMAGNI
Professore di Economia politica Università di Bologna
(…) Il ruolo del manager è ancora concepito in ter mini funzionalistici: abbiamo gli input, dobbiamo combinarli per ottenere l’output. Qual è invece il modello del nuovo management? La presa in considerazione della persona umana. È facile dare ordini alle macchine, è molto più difficile coordi nare le persone. Le persone sono libere, hanno una testa e hanno una visione del mondo.
JACOPO SEBASTIO
Founder e CEO Velasca
(…) Una startup deve avere flessibilità e amore per il cambiamento, quindi la capacità di ridefi nire ogni volta un concetto diverso di normalità. Naturalmente a questo si devono unire compe tenze analitiche improntate sulle capacità relazio nali. Un consiglio? Pianificare sul lungo termine ma concentrarsi molto anche sul breve termine.
nell’azione è un bel valore per un’azienda, ma per me è vero anche funzio nalmente, dato mi occupo di supporto alle Operation e IT. Nel mio lavoro sono continuamente sollecitato a trovare soluzioni fattibili in tempi fattibili. L’agili tà diventa una precondizione, un valore trasversale, ed è sinonimo di velocità. Sono due parole che viaggiano affiancate. Risolvere problemi per gli altri è una bella cosa, ma farlo in velocità dà veramente soddisfazione.
Partiamo dal fatto che ho una vocazione a stare dietro le quinte e a mettere gli altri nelle con dizioni di fare bene il proprio lavoro. Ora, in questo processo di ricerca delle soluzioni, capi ta di trovare degli ostacoli, soprattutto quando pezzi della soluzione non fanno capo a te ma richiedono l’intervento di altri. Cosa succede quando trovi una persona che non condivide il tuo senso di urgenza? Io cerco di spronarla, cerco di farle comprendere l’importanza del suo intervento. Se non riesco con le buone, mi tocca fare una cosa un po’ antipatica, devo fare “escalation” andando dai capi di questa persona, ma lo faccio senza indugi, nella speranza di risolvere in corsa.
Io nasco come amministrativo in IBM ma poi mi sono appassionato alla programmazione, ho iniziato a studiare da solo Basic, il linguaggio di programmazione che si usava allora sui Personal Computer, e poi sono diventato programmatore analista/sistemista. Allora non era difficile appassionarsi, era il periodo epico della grande sfida fra Personal Computer IBM e Macintosh Apple, e sui primi non esistevano ancora il mouse e la funzione Copia e Incolla! Poi ho continuato per quindici anni in HP, prima di approdare a Richmond Italia. Sia in IBM che in HP ho giocato tanto a calcio con i colleghi a livello amatoriale. La partitella a calcetto del mercoledì sera, in 5 o in 7, era una tradizione. Giocavo a centro campo e costruivo gli assist per gli attaccanti, ma poi avevo anche il senso del goal. Che cosa accomuna queste due cose? Il riconoscere le opportunità, il fuori programma. E comunque lo sguardo fisso sull’obiettivo finale, che è sempre di squadra. Un giorno sono riuscito a coronare il sogno di molti calciatori: ho segnato con una rovesciata volante!
Massimiliano Oldani IT e Operation manager Richmond Italia
La mia massima soddisfazione è risolvere i problemi degli altri
Federico Lucia
Chief risk officer, safety and business continuity manager
CSI PIEMONTE
Il lavoro che faccio oggi è il frutto di quello che mi porto dietro dal passato: ciò che ho vissuto e appreso da bambino. Sono nato nel 1983 ad Alba. Mio padre era carabiniere e operava nel nucleo investigativo. Lavorava sempre in bor ghese, al punto che un giorno gli chiesi se fosse davvero un carabiniere. Lui si mise la divisa per dimostrarmi che era vero, anche se non la indos sava da così tanto tempo che gli andava corta.
Il suo era un lavoro abbastanza duro, opera tivo e pericoloso. Eravamo spesso oggetto di attenzioni indesiderate, dal momento che ha arrestato parecchi criminali durante la sua carriera. Quando ero piccolo non mi rendevo conto di cosa implicasse davvero il suo lavoro. Nell’innocenza dell’infanzia, non comprendevo l’entità delle minacce che subivamo, mentre altre volte ho assistito a delle scene forti, come un arresto in diretta mentre mi stava accompa gnando a scuola.
Questa è stata la mia infanzia, per cui sono cre sciuto con un forte senso di attaccamento ai valori della giustizia. All’età di sei anni ho iniziato a fare arti marziali: prima Judo, poi Aikijujitsu. Fu mio padre a incoraggiarmi a iniziare questo tipo di disciplina per farmi acquisire sicurezza e imparare a difendermi. Eravamo consapevoli, tutto sommato, di vivere in un contesto in cui poteva esserci bisogno di farlo. Pratico arti mar ziali ancora oggi, come istruttore di Krav Maga insegno difesa personale ad Asti e a Torino. Sono docente federale della Accademia Italiana di Krav Maga, per la quale seguo il Nord Ovest.
Tutto ciò l’ho riportato anche sul lavoro, quasi inconsapevolmente. Oggi mi occupo sempre di sicurezza, anche se sotto un’altra veste. Dopo il diploma come perito informatico ho iniziato Scienze Informatiche in università e nel mentre ho voluto seguire le orme paterne: volevo indossare la divisa e incarnare quei valori che mi sono stati trasmessi, ed è per questo che ho intrapreso il concorso per entrare come sot tufficiale nella Guardia di Finanza. In seguito, trovai un’opportunità al CSI Piemonte a Torino, dove lavoro tutt’ora. Lavoravo già quando mi sono laureato in Informatica Giuridica, in par ticolare nell’ambito della digital forensics, le investigazioni informatiche. Mi sono poi spe cializzato sul tema della criminalità informatica seguendo diversi master e un corso di alta spe cializzazione a Milano. Ho portato avanti quindi due percorsi paralleli: da una parte safety e security in CSI e dall’altra il percorso degli studi universitari. Ho messo insieme quella che era la mia esperienza del passato e quello che ho studiato per sviluppare una concezione di sicu rezza a tutto tondo: dalla tutela delle persone a quella dell’azienda stessa. Per questa ragione sono anche impegnato come formatore per la Protezione Civile e collaboro come docente a master universitari.
Sul lavoro mi dicono tutti che sono un ottimi sta, nonostante mi occupi di tematiche piut tosto delicate. Sono stato nominato Safety & business continuity manager a gennaio 2020, poco prima dello scoppio della pandemia e, più recentemente, Chief risk officer. Tuttavia,
Mio padre, carabiniere investigativo, mi ha trasmesso il valore della sicurezza
l’abbiamo gestita bene: non è mai nato un focolaio in azienda. In quell’occasione abbiamo anche supportato la Pubblica Amministrazione ad affrontare la crisi, attraverso la digitalizza zione di molti processi, compresa la gestione di tamponi, vaccinazioni e remote working. E di tutto questo ci è stato riconosciuto il merito. Sono stato messo alla prova in quel periodo, e certamente c’è qualcosa che mi sono portato dietro da quella esperienza: non arrendersi mai, perché nulla è irrisolvibile. Questo spirito me l’ha trasmesso mio padre, che detestava pian gersi addosso. Per via del lavoro che faceva, più di una volta abbiamo rischiato di perderlo anzitempo. Anche quando il livello di stress era altissimo, mio papà aveva sempre energia e grinta da spendere. Questo mi ha forgiato molto e in seguito l’ho portato nel mio lavoro. Per me è difficile pensare che di fronte a un problema non ci sia una soluzione, e questa è stata la percezione che ho avuto anche con
stress – mentre vieni minacciato, sei stanco o senti dolore – il cervello non collabora se non ti trovi nella giusta condizione mentale. Questo si vede anche durante le situazioni critiche: mi è capitato di vedere persone paralizzate dalla paura durante un’emergenza. Idem per la stanchezza: in un contesto di pari fisicità, alle namento e tecnica, vince chi ha più determina zione e chi sa dominare meglio questi fattori. Lo stesso vale per il dolore: è inevitabile farsi male durante una colluttazione. Saper “incas sare” è tanto importante quanto applicare la tecnica. Questi insegnamenti li porto anche nella gestione delle crisi aziendali sul lavoro, dove è necessario restare lucidi e concentrati.
Il dolore e la stanchezza li abbiamo conosciuti bene con il Covid19, quando abbiamo lavorato notte e giorno, sette giorni su sette, per gestire l’emergenza. Si cade ma ci si rialza: questo è il tema della resilienza organizzativa. L’onda d’urto
la pandemia nel 2020. L’abbiamo affrontata in modo realista ed efficace. L’altro grande inse gnamento che porto nell’attività di crisis mana gement deriva dall’esperienza nelle arti marziali dove, nonostante le cadute, ci si rialza sempre. Le persone possono avere motivi diversi per seguire il mio corso: c’è chi è appassionato e chi invece ha un’esigenza di protezione, come chi riceve minacce domestiche, chi subisce vio lenza, chi viene bullizzato, chi ne ha bisogno a livello professionale. Per questo ci tengo a personalizzare l’insegnamento a seconda delle esigenze.
Tuttavia, ai miei allievi ribadisco sempre che da me non si impara una tecnica (per quella ci sono centinaia di video su Youtube) ma una condizione mentale. Il 70% delle aggres sioni potrebbero essere evitate adottando i giusti comportamenti preventivi: da come si cammina per strada a come ci si relaziona con il mondo circostante. Per questo motivo dò molta importanza all’aspetto comporta mentale e psicologico. Nella difesa personale conoscere la tecnica è importante, ma tutto sommato è la cosa minore. Quando sei in una situazione di pericolo devi dominare tre fattori: paura, dolore e stanchezza. Puoi conoscere la tecnica alla perfezione, ma quando sei sotto
arriva, stravolgendo l’ambiente che ci circonda, ma da lì è possibile ricostruire e rinforzarsi per l’onda d’urto successiva, facendo tesoro dell’e sperienza maturata. Mentre scrivo, in Europa c’è la guerra. Il mondo di domani non sarà sicu ramente come il mondo prima di questa inva sione; però il mondo di domani, finito questo dramma, non è condannato necessariamente a essere un posto peggiore in cui vivere. Dipende esclusivamente da noi.
Anche questo senso di resilienza l’ho eredi tato da mio padre, che indubbiamente è stato il mio mentore di vita, anche se me ne sono reso pienamente conto solo quando è man cato. È successo nel 2016, pochi mesi dopo la nascita di mio figlio. Ho avuto la sensazione, infatti, che abbia tenuto duro per vederlo nascere, poiché l’ultima uscita che ha fatto è stata per venire a trovarlo in ospedale, poi si è lasciato andare. A mia volta, io cerco di tra smettere a mio figlio Lorenzo i valori che mi ha insegnato mio papà, e cerco di fare le sue veci sul modo di affrontare la vita: con sicu rezza, ottimismo e senza piangersi addosso. Lorenzo è molto ricettivo, nonostante abbia appena sei anni: ha un forte attaccamento alla famiglia ed è molto protettivo nei con fronti di chi ama. La tradizione andrà avanti.
QUESTO SPIRITO ME L’HA TRASMESSO MIO PADRE, CHE DETESTAVA PIANGERSI ADDOSSO. PER VIA DEL LAVORO CHE FACEVA, PIÙ DI UNA VOLTA ABBIAMO RISCHIATO DI PERDERLO PRIMA DEL TEMPO
Mariagrazia Berra
Enterprise account executive ELASTIC
I numeri mi svelano il mondo
Quando mi sono laureata, le aziende ti cerca vano ancora. Questa è la differenza sostanziale rispetto ad oggi. I recruiter consultavano la lista dei laureati nelle materie che interessavano loro e attingevano direttamente da lì per capire chi assumere. Il sistema funzionava. Dopo gli studi universitari in matematica ho trovato lavoro rapidamente e mi sono trasferita a Padova, dove abitavo nel centro storico. Ho vissuto la città non da universitaria, ma da adulta: con i primi stipendi mi iscrivevo ai corsi di inglese e andavo a sentire i concerti di violino, strumento per il quale nutro una grande passione e che ho suonato per qualche tempo. Più tardi ho incon trato una persona e ho scelto di spostarmi fuori dalla città. Oggi vivo in mezzo alle campagne, circondata dai monti, dove scappo per rigene rarmi appena posso.
Una volta laureata pensavo che mi sarebbe pia ciuto restare nel mondo accademico. Credevo che con la laurea in matematica in un indirizzo statistico- economico potessi essere adatta a percorrere quella strada. Invece mi chiamarono in un’azienda di consulenza e così iniziai a lavo rare. Man mano mi sono spostata sempre più verso il mondo commerciale, fino ad arrivare in Elastic, dove lavoro attualmente. Qui sono una commerciale atipica, nel senso che principal mente mi prendo cura dei clienti: devo capire se hanno bisogno di qualcosa e soddisfare le
loro esigenze come se fossero le mie. Elastic è una multinazionale americana che si definisce una search company: offriamo una soluzione software che i nostri clienti pos sono utilizzare per trarre valore dai propri dati aziendali. Con questa tecnologia l’azienda può fare tutto ciò che riguarda la ricerca veloce all’interno dei data. Nel mondo bancario, ad esempio, permette di visualizzare movimenti di denaro che risalgono a dieci anni fa, anziché quelli degli ultimi tre mesi. Garantisce quindi la gestione di una grandissima mole di dati e una rapida ricerca fra quest’ultimi. Un po’ alla volta ci siamo spostati anche nell’ambito del monito raggio dei sistemi piuttosto che delle infrastrut ture, sino a toccare la security e la cybersecurity: la threat detection, l’anomaly detection e ciò che solitamente è in mano ai CISO o ai SOC.
A volte mi chiedono se non mi senta io stessa un numero, lavorando in una multinazionale. In realtà quelle americane sono molto meritocrati che e il valore che tu porti, in base a quello che è il tuo profilo e compito, viene riconosciuto. Non c’è preclusione: se sei una persona valida che sa fare il proprio lavoro puoi essere ricono sciuto e fare una differenza. Tra l’altro, in Italia noi non siamo tanti, quindi non ho la percezione della grande multinazionale sovrastrutturata.
Il bello delle aziende internazionali è potersi
La storia di Mariagrazia
interfacciare con persone che hanno culture e approcci totalmente diversi dai tuoi. Questo è un valore insostituibile. Ovviamente non è tutto rose e fiori, perché le multinazionali, soprat tutto quando sono piccole e stanno crescendo, ti tolgono tanto da un punto di vista di tempo e impegno personale. Insomma, ti danno e ti chiedono molto.
Tuttavia, non sento di aver rinunciato a qualcosa per il lavoro. Più che altro, direi che ho fatto una scelta. Oggi, se faccio un bilancio della mia vita, non ho rimpianti. Tutto il mio percorso si è basato su scelte e non rinunce. Forse l’unica cosa che ho sacrificato è stata il nuoto, quando avevo quattordici anni e mi avevano proposto di fare agonismo e dovetti dire di no. Le altre sono sempre state scelte: ho scelto di dedi care molto del mio tempo al lavoro, ho scelto di viaggiare molto e investire i miei sforzi per crescere. In una multinazionale questa cosa ti
difficile organizzare gli spostamenti, e diedi la priorità allo studio. Tuttavia, il nuoto resta una mia grande passione. Quando entro in vasca ci sono soltanto io, l’acqua e i miei pensieri.
Mentre sul lavoro sono una persona molto socievole ed estroversa, nella vita privata amo la solitudine. Può sembrare strano, eppure adoro il silenzio, specialmente quando sono in cima alla montagna e osservo il paesaggio di fronte a me. In alcuni momenti ci fa bene cercare la solitudine, perché solo in quel caso capiamo se siamo sulla strada giusta. La frene sia della socialità, per quanto possa essere un valore aggiunto, non sempre ci aiuta a riflettere su quale direzione stia prendendo la nostra vita. Tanto alla fine siamo noi a doverci guardare allo specchio e ritrovare noi stessi.
L’altra passione che mi accompagna da sempre e che ha indirizzato le mie scelte di vita è la
viene permessa e la fai cercando di bilanciare l’equilibrio tra vita privata e lavoro, il che non è sempre facile. Io l’ho fatto dedicandomi alle mie passioni fuori dall’ufficio: correre, giocare a tennis e camminare in montagna.
Si tratta di tre attività completamente diverse, che sfrutto in momenti diversi della mia gior nata per far fronte a varie esigenze. La corsa mi libera del tutto, mi ci dedico la sera per lasciar andare la giornata. Quando corro, chiudo con il mondo, non ascolto neanche la musica. È un momento solo per me. Amo farlo nelle zone in cui vivo ma anche in montagna, dove la corsa si unisce a un’altra grande passione. Io sono di Valdobbiadene, perciò, quando vedo le cime dei monti mi sento a casa. Fra dieci anni vorrei vivere in un posto dove apro le finestre e vedo le Dolomiti. Lì so che mi rigenero, infatti tutti gli anni passo almeno una settimana di vacanza a camminare per i sentieri di montagna.
La stessa sensazione di libertà me la dà anche il nuoto. Ho imparato a nuotare a cinque anni, quando andavo in piscina insieme ai miei tre fratelli (siamo tutti nati a un anno di distanza l’uno dall’altra). I nostri genitori ci facevano fare questo sport perché era salutare ed eco nomico. Quando però mi proposero di fare agonismo dovetti rinunciarvi perché era troppo
matematica. È una questione di forma mentis. La matematica non la devi capire e non la devi imparare a memoria, è qualcosa che o ce l’hai o non ce l’hai. È pura logica. Io non avrei mai potuto fare diritto, lettere o storia, però non ho fatto fatica a studiare matematica. La capivo, era qualcosa che mi veniva in automatico.
Ho fatto anche ripetizioni ad alcuni ragazzi per tanti anni, ma non avrei mai potuto insegnare a scuola. Per me l’insegnante ha un’enorme responsabilità nei confronti degli studenti: può davvero cambiare la vita di una persona perché può farle amare oppure odiare una materia. Secondo me fare il professore o la professo ressa è una missione: te la devi sentire dentro, come per il medico o l’infermiere, altrimenti non funziona.
Oggi lavoro nel commerciale e qualcuno potrebbe chiedersi cosa me ne sia fatta della matematica. Invece questa disciplina mi ha sempre accompagnato e mi aiuta tutt’oggi nella metodologia, nella logica, nel pen siero… Mi permette di visualizzare tutto. Sono molto basica da questo punto di vista: per me i numeri sono numeri, non mi nascondono niente. Il trucco è essere oggettivi. Lavorare sul presente senza rimpianti, percorrere la strada e fare meglio che si può.
IN ALCUNI MOMENTI CI FA BENE CERCARE LA SOLITUDINE, PERCHÉ SOLO IN QUEL CASO CAPIAMO SE SIAMO SULLA STRADA GIUSTA. LA FRENESIA DELLA SOCIALITÀ, PER QUANTO POSSA ESSERE UN VALORE AGGIUNTO, NON SEMPRE CI AIUTA A RIFLETTERE SU QUALE DIREZIONE STIA PRENDENDO LA NOSTRA VITA
Massimo Lucidi
Direttore editoriale
THE MAP REPORT
Sono diventato ambientalista leggendo Topolino
Napoletano, cattolico, giornalista e curioso del mondo, da un anno dirigo The Map Report, un giornale nato dal progetto UNESCO Citizen Platform che racconta la sostenibilità ambientale nella società contemporanea.
Fu la lettura di Topolino a farmi diventare ambien talista fin dalla tenera età. Fra le sue pagine, vi era una rubrica dedicata all’ecologia con storie pro venienti da tutto il mondo. Ho fatto tante cose nella mia vita e sono stato socio di diverse realtà, ma la mia primissima tessera fu quella di Amici di Topolino. Da piccolo ero uno di quei bambini per bene con i calzoncini corti che si occupa vano di pulire i parchi e le spiagge. Quello era il mio obiettivo. Mia madre ricorda che quando vedevo qualcuno buttare una cartaccia per terra esordivo candidamente: “Signore, guardi che le è caduta la carta”. Ecco, oggi fondamentalmente faccio lo stesso lavoro, sebbene in forma diversa.
Mi piace ancora definirmi uno studente che si impegna nel sociale, una giovane marmotta, un ambientalista della prima ora che si ritrova in un mondo dove tante intuizioni che avevamo da ragazzi purtroppo si rivelano vere. La storia è diventata una storia di complessità. Negli ultimi 40 anni ho osservato che all’opinione pubblica mondiale è mancata la consapevolezza dei per corsi che stavamo seguendo. Quando parlo di mondo è bene specificare che il mio punto di riferimento è l’Occidente e quindi l’opinione pubblica adulta e libera. Governare la com plessità significa prima di tutto governare l’Oc cidente e poi confrontarsi con le altre aree del mondo.
I temi della sostenibilità ambientale, sociale ed economica vanno affrontati in modo globale, perché la sostenibilità è un discorso complesso che non si può banalizzare ma che si può misu rare. Le nostre azioni devono essere misurate per verificare che portino a risultati tangibili.
Le battaglie che facevo da ragazzo per togliere i rifiuti dalle spiagge erano una cosa molto bella, ma insufficiente. La battaglia non può conoscere confini – terra, aria, acqua – sono tutti aspetti di che cosa? Di quel lifestyle e di quel mood produttivo per cui la sosteni bilità deve essere assolutamente ambientale ed economica allo stesso tempo. In questo senso amo il termine “transizione”, perché si ricollega a quel magma di complessità di cui parlavo prima. In ciascun settore economico si calano diversi modelli di transizione, per cui qualcuno è più evoluto e qualcuno è più lento. Tutto sommato, se diciamo alle persone di consumare meno gli dobbiamo dare anche gli strumenti per farlo; se gli chiediamo di fare la raccolta differenziata poi gliela dobbiamo spiegare chiaramente. Ci sono cose che si possono fare tranquillamente e altre che dob biamo mettere sul piatto della bilancia. Alludo ai temi forti della nostra produzione indu striale: anche se tutto l’Occidente passasse al metodo green non risolveremmo comunque la questione ambientale, semplicemente perché i newcomer – come l’India o la Cina, ma anche la stessa Russia – continuerebbero a fare estra zione. Iniziamo noi in Occidente: come lo è già la nostra libertà, anche la nostra sostenibilità prima o poi diventerà un valore socialmente
desiderabile. È il Valore della Partecipazione, espressione di una comunità umana che va sempre costruita e migliorata a qualunque lati tudine del pianeta.
L’economia, da estrattiva a generativa, la si deve costruire insieme con un nuovo ordine globale nel quale ognuno di noi si riferisce a un’area geopolitica. Noi occidentali saremo assieme a coloro che hanno scelto questo modello di corresponsabilità e di consape volezza, per quanto sappiamo di non essere perfetti. Il mondo stesso non lo è. Però è un mondo che si deve confrontare anche con la Cina, capitalista per produzione, e autoritaria per quelle che sono le libertà degli abitanti. Ecco che allora non esiste un modello di riferi mento, bensì dei modelli di transizione, anche nel linguaggio delle libertà e delle democrazie. Quello che però a noi interessa in Occidente è la partecipazione, questa è la sfida. Che ci piac ciano o meno le nuove leve dell’ambientalismo
sono degli hashtag, delle mode, delle sintesi. Dovrebbero invece diventare delle parole da vocabolario che richiedono un uso con sapevole. Non è possibile che con il digitale, dunque, tutto il sapere precedente diventi vecchio e non si usi più. Perché se noi non insegniamo ai bambini a contare e ci limitiamo all’uso della calcolatrice, in futuro vivremo in una società fatta di persone che mangiano il pesce ma che non sanno pescare. Perché la crescita di un uomo e di una società avviene per gradi. Perché i modelli di apprendimento e di comportamento umano non potranno mai rispondere al mero algoritmo. Perché la vita non è solo questione di interesse economico: nell’umano agire ci sono delle scelte che si fanno in nome di una passione.
Quali sono le sfide del futuro? Sicuramente la costruzione di un’economia della cono scenza con sempre maggiore partecipazione e consapevolezza. Poi ci sono i temi del
– vedi Greta Thunberg – portano un bel contri buto. Saranno veicolate? Saranno mainstream? Ebbene, saranno quel che saranno, però hanno posto un problema, che è quello della parteci pazione e dell’inclusione.
Io personalmente preferisco prendere come modelli di inclusione i piccoli protagonisti. Se infatti elencassimo i vari casi di partecipa zione a livello locale, troveremmo dei nuovi modelli di riferimento da mutuare in altre parti del mondo. Per questo motivo le cose belle vanno raccontate, e in questo senso i social dovrebbero essere utilizzati molto meglio di quello che si fa. Meno algoritmi e più ricerca della formula del together : dovrebbe esistere un algoritmo sociale che consenta un maggior grado di libertà. Questo è il mio personale auspicio rispetto al tema della digitalizzazione. Chi beneficia di più della cultura digitale, il gio vane o l’anziano? Verrebbe da dire il giovane, mentre in realtà è l’anziano che vive meglio con il digitale, poiché quest’ultimo gli rende la vita più comoda. Il giovane, invece, usando il digi tale rivendica dei gradi di libertà.
L’economia della conoscenza (espressione coniata dall’economista Peter Drucker e che si riferisce all’utilizzo delle informazioni per gene rare valore – ndr), il digitale, la sostenibilità
digitale e della sostenibilità. Ma la grande missione che soggiace a tutto ciò è il rapporto uomo-macchina.
Tutto passa dalla capacità di calcolo, e quindi dall’assunzione di responsabilità. La macchina deve servire l’uomo. Perché se un domani quella macchina potrà prendere delle decisioni in piena autonomia, assisteremo alle peggiori scene di quei film di fantascienza dove le mac chine prendono il sopravvento sull’umanità. Io voglio vivere in una società che gioisca quando si vince uno scudetto, che pianga per Alfredino nel pozzo, che preghi Dio (qualun que esso sia) e che nel rapporto con l’altro vada alla ricerca del proprio sé. Voglio una società umana.
Tutto ciò che vi ho raccontato non solo è frutto di una mia intuizione, bensì di una stratifica zione di concetti portati da vari ambientalisti della prima ora, come Grazia Francescato, politica ed attivista che proprio cinquant’anni fa ha partecipato alla Conferenza dell’ONU sull’Ambiente di Stoccolma o Ermete Realacci, padre nobile dell’ambientalismo e Presidente onorario di Legambiente. Loro sono alcune delle mie fonti di ispirazione più importanti, nella vita e nel lavoro.
IO VOGLIO VIVERE IN UNA SOCIETÀ CHE GIOISCA QUANDO SI VINCE UNO SCUDETTO, CHE PIANGA PER ALFREDINO NEL POZZO, CHE PREGHI DIO (QUALUNQUE ESSO SIA) E CHE NEL RAPPORTO CON L’ALTRO VADA ALLA RICERCA DEL PROPRIO SÉ. VOGLIO UNA SOCIETÀ UMANALa storia di Massimo
illimity e la relazione fra brand e clienti di nuova generazione
LO STRAORDINARIO CASO DELLA COMMUNITY
VAI OLTRE LA FORMA , CRESCIUTA INTORNO
ALL’IDEA DI REALIZZARE INSIEME CIÒ
CHE MANCAVA SUL MERCATO.
In preparazione dell’edizione 2022 di Richmond Digital communication forum, abbiamo intervistato uno dei relatori. Si chiama Giuseppe Montella, dal 2020 insegna Business Design al Politecnico di Milano e sul biglietto da visita ha scritto Head of Digital Strategy and Design di illimity. Sounds good. A Rimini ha tenuto una relazione sul “viaggio memorabile”, la promessa che sta alla base del lavoro di chi disegna prodotti e servizi che fanno sentire uniche le persone.
Napoletano d’origine e milanese d’adozione (di sé dice “51% creatività napo letana e 49% focalizzazione milanese”), posato ma pronto a sorprendere l’in terlocutore con il guizzo di un pensiero veloce. La sua carriera lo ha portato ad approfondire piuttosto che esplorare: ha trascorso 13 anni in Vodafone occu pandosi di strategia di innovazione, nuovi prodotti e canali digitali. Nel 2018 è entrato in illimity per fare disruptive innovation attraverso il coinvolgimento dei clienti e la prototipazione di nuove esperienze. Un percorso professionale di spessore e baciato dalla buona sorte (“mi sono trovato al posto giusto nel momento giusto”), che gli ha consentito di essere in prima linea in luoghi in cui l’innovazione si è fatta davvero, osservando e traendo insegnamento da situazioni straordinarie. Ecco che cosa ci ha raccontato.
Disruptive è una parola affascinante ma anche rischiosa. Fa pensare al fat to che ciò che si è accumulato e stratificato nel tempo debba essere modi ficato. Mentre il passato è un punto importante da cui partire, per liberare nuovo potenziale...
Un tema – il potenziale – che nel mestiere di designer è un po’ il Sacro Graal. Come rabdomanti, infatti, cerchiamo giacimenti di potenziale ed energie che avevamo ma che erano sopite, o energie nuove che si incontrano nella con taminazione fra saperi, persone e business. Sbloccare il potenziale – posso confermare – è il purpose di illimity, la sua ragion d’essere. Mi riferisco in prima battuta al potenziale della nostra community: persone con cui abbiamo imma ginato e disegnato soluzioni adatte ai loro bisogni, e soluzioni che spesso si sono mosse lontano dalla scintilla originale, e a loro volta hanno fatto nascere altri bisogni e ulteriori spunti di ricerca.
Quindi, se dico potenziale, lei risponde community?
Sul target private e famiglie, la nostra community Vai Oltre la Forma è nata nel 2018, prima della banca stessa. E quello che abbiamo imparato interagendo con una community che è cresciuta e si è consolidata nel tempo e ci ha aiutato a mettere il cliente al centro del nostro modo di fare innovazione. Ma per tor nare alla sua domanda, se lei dice potenziale, io dico mindset.
GIUSEPPE MONTELLA
Head
Vuole dirmi che senza una sintonizzazione preli minare non accade nulla?
Voglio solo dire che è difficile fare innovazione se tutti gli attori coinvolti non hanno già assimilato un approccio che contiene l’idea di sbloccare il poten ziale dei singoli individui, e in seconda battuta dei processi. Io chiamo questa predisposizione “uma nizzazione del digitale”. Ci sono tipologie di com muniters in Vai Oltre la Forma che di fronte alle sfide quotidiane manifestano un grado di curiosità e di progettualità più elevati. Sono individui che non si stancano di provare e riprovare, sono alla ricerca di qualcosa. In un mondo di servizi indifferenziati e “commodizzati” come è quello bancario, dominato da realtà molto solide, persone come queste, con cui si scambiano opinioni, consigli, passaparola, sono preziose. A febbraio 2022 abbiamo lanciato b-ilty, la piattaforma bancaria pensata per le piccole e medie imprese e nata dal coinvolgimento e dall’a scolto di più di mille imprenditori.
Quando si ha la fortuna di avere un “orto” come questo, come bisogna curarlo?
Il mio percorso è atipico, io arrivo al design dalla strategia e dal business. Nei territori del business ho imparato l’importanza di mettere il cliente al centro del progetto. Più facile a dirsi che a farsi. Il mio la voro è trovare l’equilibrio fra desiderio e necessità, fra soddisfazione del cliente e sostenibilità finanzia ria. Occuparsi solo di uno dei due poli è limitante, perché tende a semplificare troppo la realtà. Oggi si tende a confondere il canale con la sostanza, a pensare che i social media siano sinonimo di com munity. Non è così. Il canale è solo uno strumen to. Un brand che vuole essere futuro deve costruire relazioni e valore per i suoi clienti presenti e futuri. Io credo fermamente nel passaparola e so quanto efficace possa essere. Negli anni, confesso che in certi momenti ho sofferto per un eccesso di orienta mento agli obiettivi di breve termine, a discapito di una creazione di valore con tempi ‘naturali’.
Ci vuole tempo per fare e soprattutto tempo per imparare. Dove e come imparano le aziende a creare community?
Prendono spunto dai migliori. Imparano dai brand di successo che hanno saputo mettere in piedi veri e propri sistemi digitali di loyalty, nei quali l’utente è invogliato a partecipare, a usare i servizi e anche a dire le cose che non vanno bene in una logica co struttiva. Ci hanno educato aziende come Amazon, che mettono al primo posto la customer obsession e che lavorano alla gestione degli errori del servizio in modo che il cliente si senta in cima alla lista delle priorità. Le aziende sbagliano, e questo non è un problema. Le aziende brave sono quelle che trasfor mano la gestione dell’errore in un’opportunità per rinsaldare il legame.
I clienti delle aziende migliori sono dunque quelli che sono messi nelle condizioni di vivere espe rienze, e non di essere trattati come numeri. Si chiama customer experience, giusto? Esatto, e nella mia visione è un passaggio cruciale. La customer experience va al di là dei canali. Noi siamo “digital first” ma non “digital only” e voglia mo umanizzare il digitale a tutti livelli, persone, small
business e corporate. In questo approccio, la cu stomer experience è fondamentale. Io la definisco come quel viaggio che un’impresa, una famiglia o un individuo compiono insieme al brand. Non dobbia mo costruire la Cappella Sistina. Certe volte basta poco per colorare questo viaggio rendendolo flui do e piacevole. È importante semplificare al massi mo l’experience di onboarding, dare il welcome ai clienti in modo da farli sentire speciali e ben accolti, permettendogli di scoprire tutte le potenzialità del la piattaforma e tutti i canali di assistenza umana. Stiamo attraversando una fase storica di grande in teresse, con parole d’ordine nuove come transizione digitale, sostenibilità, climate change. C’è bisogno di fiducia, e la customer experience è prima di tutto un motore che genera il valore della fiducia. Noi non abbiamo l’ambizione di sapere già cosa vogliamo fare. Ma sappiamo come vogliamo farlo, questo sì: facendo leva sulla fiducia.
Ci racconti come è nata la community di illimity? illimity si è subito posta come banca di nuovo para digma. Quando è nata la prima scintilla della com munity Vai Oltre la Forma, sono rimasto sorpreso. Nella mia più rosea previsione non mi immaginavo che ci potesse essere un numero così elevato di per sone interessate a ragionare insieme sui nostri pro dotti, al di là del reward che si dà in questi casi per il tempo dedicato alla survey. 40.000 persone sono rimaste legate alla “causa” a tal punto, che hanno continuato a partecipare alla discussione anche quando il reward è venuto meno. C’era entusiasmo, c’era voglia di dare idee, di condividere esperienze, c’era bisogno anche di raccontarsi in un periodo dif ficile come quello del Covid. Oggi una community ce l’hanno più o meno tutti. Ma dare un potere reale a questa community e metterla nelle condizioni di influenzare la roadmap dello sviluppo del business, come abbiamo fatto noi, è un caso raro. Per me la community è un gruppo di clienti fidati che dice sempre la verità e probabilmente parla bene di noi, un gruppo che ha trovato qualcosa che non stava cercando e ha deciso di restare, diventando il moto re di qualcosa di nuovo. Oggi, quando abbiamo un dubbio, interpelliamo la community. È diventato per noi un mindset culturale.
Innovazione, una bella parola, la si sente pronun ciare dappertutto. La dite anche voi?
Nella maggior parte dei casi l’innovazione è auto riferita e autoproclamata, ma poi si scontra con un mercato che non riconosce l’innovazione. Spesso le organizzazioni credono di fare innovazione. Ma sia mo sicuri che ci sia un valore nuovo per i clienti? Le slide sono bellissime, ma poi? Io sono fiero del me todo che applichiamo quando vogliamo prototipare idee innovative. Ogni idea, sul piano teorico, può essere buona, oggi non è difficile raccogliere idee. Il segreto è testarle in modo veloce e attendibile pri ma del lancio. Ora stiamo lavorando al lancio di una piattaforma per le imprese e stiamo costruendo una community di imprenditori, un gruppo crescente di persone che formano un panel che ascoltiamo e a cui sottoponiamo idee. Abbiamo lanciato, proprio come Facebook qualche anno fa, una versione beta che permettesse a un numero di clienti seleziona to e limitato di sperimentare in anteprima il nostro
b-ilty: il primo Business Store Digitale. Grazie ai fe edback degli utenti è nato il primo ecosistema di servizi, prodotti ed esperienze finanziarie per le PMI italiane. Stiamo ragionando su come inserire nello store di trimestre in trimestre la rosa di soluzioni per l’azienda in una logica di release continua e di Try & Buy: prova i prodotti per tre mesi, e se non ti con vincono, amici come prima. E tutto questo partendo da un insight semplice: l’imprenditore è un essere umano, adora Spotify, adora Netflix, perché una banca non potrebbe avere un modello di fruizione analogo?
Qual è il modello di business di b-ilty?
Ogni anno, senza variare il canone di accesso, b-il ty accrescerà la propria offerta grazie a partnership con associazioni e altri soggetti e grazie alla logica di subscription fee. Il digitale semplifica operazioni che in filiale chiedevano ore di tempo. Ma da solo non basta. Resta la questione del riferimento umano in azienda. Noi stiamo lavorando a una rete smart, che scalerà a seconda dei volumi, e che non vuole fer marsi solo alla vendita ma guarda anche alla gestio ne. Obiettivo ultimo è un approccio personalizzato combinato a un linguaggio digitale bello, semplice, intuitivo, veloce, e al tempo stesso umano, presen te, empatico, competente. La combinazione sembra scontata, ma non lo è affatto. illimity è una banca che viene scoperta da chi ha una maggiore propen sione al digital e all’innovazione. Ci siamo accorti che in Italia esiste un tessuto imprenditoriale molto vitale di circa 1 milione di imprese che fatturano fra i 2 e i 10 milioni di euro. Per loro abbiamo creato un Business Store Digitale che va oltre il semplice concetto di banca per le imprese: ogni imprenditore può scegliere i migliori prodotti e servizi finanziari per la crescita dell’azienda.
Lei ha parlato di banca credibile. Ma che cosa fa illimity per essere credibile come incubatore di community?
Alla nostra community retail abbiamo dato le chiavi dell’evoluzione della nostra App. Ai nostri imprendi tori stiamo dando centralità per costruire una piat taforma veramente utile alle PMI. Un segno concre to di stima, e così facendo la rendiamo imbattibile. La partecipazione attiva passa dal livello consultivo a quello decisionale. Nel futuro vedo sempre più Dao (Decentralized autonomous organization), sem pre più decisioni decentralizzate, sempre più block chain diffuse e sempre più community che prendo no il potere. Dovremo uscire per sempre dall’effetto “assemblea di condominio” che porta a rimandare le decisioni all’infinito, e diventare consapevoli del fatto che anche le decisioni hanno un costo di ge stione.
Possiamo conoscere i numeri della vostra com munity?
Abbiamo superato i 40.000 iscritti con un livello crescente di partecipazione. Chi vuole provare si iscriva, così potrà diventare un membro della nostra community e supportarci nei nostri futuri progetti.
Intervista a cura di Richmond Digital communication forum 2022
Carmen Palumbo
Country Sales manager Italy
WITHSECURE
Sono una donna e amo l’informatica, è tempo di sfatare il mito
Ho iniziato il mio percorso lavorativo senza essere laureata. Ero appena uscita dalle scuole superiori con il diploma di perito azien dale in lingue estere e non avevo idea di cosa mi aspettasse là fuori. Era il 1990. Un giorno risposi ad un semplice annuncio sul giornale: un lavoro in un system integrator italiano molto famoso nell’ambito dell’ICT (Information and Communication Technology, ndr ). Io non sapevo nemmeno cosa fosse, però accettai e iniziai a lavorare al centralino, che fu per me una grande gavetta. Arrivando da un approc cio alla vita ancora scolastico, il solo fatto di spostarmi da Seregno a Milano è stato per me un cambiamento epocale. Occuparmi del cen tralino mi ha permesso di conoscere l’organiz zazione aziendale: lì ho imparato l’importanza di tutti i vari reparti all’interno di un’azienda, dal marketing al commerciale e all’ufficio tec nico. Fu in quel momento che iniziai a capire davvero cosa volessi fare. Il marketing, che iniziava a essere sempre più rilevante all’in terno del system integrator, mi incuriosivaa tal punto che decisi di frequentare un corso serale per capirne il funzionamento. Dopo qualche tempo mi candidai per quella figura e l’azienda mi permise di provarci. A partire da quel momento, con tanta curiosità e con un pizzico fortuna, è iniziato il mio viaggio nel mondo del marketing. Dopo sette anni, lasciai il mio primo lavoro e iniziai a lavorare per altre aziende, sempre in ambito ICT.
Sono arrivata nel mondo della Cyber secu rity ormai dieci anni fa, e riconosco che sia un
ambiente particolare, prettamente maschile. Le donne le incontri per lo più nei reparti mar keting, anche se oggi iniziano a ricoprire anche ruoli tecnici. Io stessa ho percorso tutta la mia carriera nel marketing, in ogni ordine e grado. L’azienda dove lavoro oggi, WithSecure, è basata in Finlandia, un paese che dà molto valore al genere femminile. Il che non vuol dire favorire le donne, bensì dare loro pari oppor tunità per intraprendere la propria carriera. Questo è lo stesso motivo per cui non amo le quote rosa: noi dobbiamo essere valutate per quello che sappiamo fare e non in quanto donne. Tuttavia, dobbiamo essere messe nelle stesse condizioni di un uomo.
I finlandesi mi hanno dato l’opportunità di fare un grande cambiamento. Sono passata da avere ruoli decennali in ambito marketing a quello di Country sales manager, il che vuol dire fare commerciale, gestire un team e rap presentare la filiale italiana di una multinazio nale senza fare tappe intermedie (l’Account manager, ad esempio, che mi avrebbe per messo di avvicinarmi alle vendite). All’inizio ci misi un po’ a decidermi, ma poi pensai: “Why not? È un’occasione pazzesca”. Iniziai, con tutta la buona volontà, a gennaio del 2020. In pratica ho dovuto ingranare e costruire un nuovo team di lavoro in pieno lockdown. Sono stati due anni molto intensi, ma desso che finalmente possiamo vederci ed interagire è ancora più bello. Non è stato facile, soprat tutto perché le prime volte in cui mi approc ciavo al mio ruolo in un mondo così maschile
percepivo un certo disagio. È capitato di sen tirmi dire frasi come: “Mi passi il collega uomo che decide?”. Fortunatamente riuscii a man tenere la calma e comunicare loro che ero io quella che decideva.
Gestire un team in un ambiente molto maschile non è facile, perché si deve ancora entrare nell’ottica di che cosa sia effettivamente nor male. C’è ancora tanto da fare, tuttavia devo ammettere che pensavo peggio ed ero pronta a combattere ancora di più. L’altro giorno, ad un evento di lavoro, un collega che mi cono sce da anni mi ha detto: “Carmen, hai infranto tre tabù nel giro di un anno”. È vero, sono una donna, non laureata, che è stata promossa da un ruolo marketing a quello di Country sales manager nel giro di pochissimo tempo. Avrei sempre voluto laurearmi, ma una volta che si inizia a lavorare è difficile tornare
professioniste nell’ambito del Clusit, l’Asso ciazione per la Sicurezza Informatica in Italia, nata dall’idea di Cinzia Ercolano, CEO di Astrea. Con lei abbiamo pensato di costruire questa associazione per rappresentare tutte le professionalità all’interno del mondo della Cyber security e far capire che le donne ci sono, anche se non hanno ruoli molto visibili. Cerchiamo di sensibilizzare le persone sull’im portanza della Cyber sicurezza attraverso gli incontri nelle scuole e nelle università, e lo fac ciamo partendo dal punto di vista femminile. All’interno di Women for security ho trovato molte persone che rappresentano per me delle fonti di ispirazione, fra cui Anna Vaccarelli del CNR. Lei è ingegnere e ci ha raccontato che quando ha iniziato a lavorare in quest’am bito, negli anni Novanta, era davvero dura. C’erano pochissime donne. Da allora abbiamo fatto tanta strada, ma questo non toglie che
indietro. Fortunatamente sono una persona molto curiosa e questo mi ha portato a seguire tanti corsi di approfondimento e studiare anche da sola. La laurea però è una cosa che oggi consiglio a tutti di fare, perché il mondo non è più quello degli anni Novanta.
In trent’anni di vita lavorativa ho sempre intrecciato l’aspetto personale a quello pro fessionale: tanti dei miei amici di oggi erano i miei colleghi di quando iniziai a lavorare. Ho sempre amato la mia professione perché mi dava l’occasione di viaggiare e vedere posti meravigliosi. Due trasferte soprattutto mi sono rimaste nel cuore. La prima fu quella in Israele, di cui avevo un’immagine molto stereotipata al tempo e di cui mi sono dovuta ricredere: ho scoperto un mondo pieno di vita. La seconda invece fu a Johannesburg, in Sudafrica, che rappresentò un’esperienza molto difficile e pericolosa, specialmente per una donna sola, ma anche una lezione di vita. In ogni ambito sociale la differenza dettata dal colore della pelle era ben visibile. Eppure, se non fosse stato per la mia professione, lì non ci sarei mai capitata e non avrei assorbito gli insegnamenti di vita preziosi che mi sono portata a casa.
Il lavoro permette di fare rete. Da qualche tempo faccio parte di Women for secu rity, un’associazione nata da un nucleo di
si debba continuare a fare sistema tra donne. Nulla nel mio percorso aziendale mi ha mai pesato. Quando mi sono diplomata sapevo solo che volevo viaggiare e usare l’inglese. È stato un caso che l’azienda di Milano mi abbia subito presa a lavorare dopo la risposta all’an nuncio sul giornale. L’unica cosa che ho scelto davvero di fare, e che mi ha portato dove sono oggi, è stata quella di imparare e tenermi sempre aggiornata. L’ho fatto perché volevo crescere, ma non perché volessi necessaria mente fare carriera. Volevo trovare un lavoro che mi divertisse e per il quale svegliarmi con tenta la mattina, così ho cercato di imparare a fare un po’ di tutto. Infatti, le volte in cui mi è capitato di alzarmi dal letto senza motiva zione ho cambiato strada, perché voleva dire che non mi stavo più divertendo. Ognuno deve fare quello che si sente. Io, forse incon sapevolmente, mi sono sempre buttata in altro quando sentivo che non stavo più bene: a volte è andata bene, altre volte meno. Ma in ogni caso ho imparato qualcosa. Tutto diventa un bagaglio prezioso per il futuro.
Adesso quello che mi piacerebbe fare è dare entusiasmo alle nuove leve, specialmente attraverso Women for security. Alle mie gio vani nipoti dico sempre di non spaventarsi, di “avere fame” e di credere in quello che fanno. Poi, ovvio, un pizzico di fortuna aiuta sempre.
LE PRIME VOLTE IN CUI MI APPROCCIAVO AL MIO RUOLO IN UN MONDO COSÌ MASCHILE PERCEPIVO UN CERTO DISAGIO. È CAPITATO DI SENTIRMI DIRE FRASI COME: “MI PASSI IL COLLEGA UOMO CHE DECIDE?”
Giulia Margutti
Marketplace store coordinator GOLDEN GOOSE
Dalle Lettere Classiche all’e-commerce: andare controcorrente è possibile
Da due anni lavoro per Golden Goose in qualità di Marketplace store coordinator. Sono stata assunta con l’obiettivo di sviluppare (lancio ed espansione) il canale Marketplace Direct to Customer, che prima esisteva solo in modalità wholesale.
Oggi, grazie all’integrazione dei sistemi, con alcuni partner siamo addirittura arrivati ad avere un servizio del tutto analogo a un B2C: la merce rimane nel nostro magazzino e, tramite l’inte grazione del nostro backend con quello dei partner, siamo in grado di spedire la merce al cliente finale. Nel dettaglio, mi occupo di pro gettazione e coordinamento strategico-com merciale di Marketplace a livello worldwide. Gestisco direttamente i Marketplaces EMEA, USA, JP (nelle attività di buying, budgeting e forecasting, reporting, catalog & stock mana gement, merchandising, organic marketing, IT development) e fornisco consulenza strate gica per le regioni Cina e Corea. Inoltre, sono responsabile dello studio e sviluppo di nuove partnership commerciali con Marketplace wor dlwide di potenziale interesse per il brand.
Questo è ciò che faccio attualmente in Golden Goose. Come esperienza pregressa vengo da quasi quattro anni di E-commerce store mana gement in due agenzie e-partner diverse, per le quali ho gestito tre brand del settore Fashion e Lux. Ho lavorato due anni in The Level Group per i brand Casadei e Coccinelle, poi in FiloBlu per Pinko e prima ancora in Privalia, che è stato il mio primo approccio all’e-commerce. Prima di entrare nel mondo della moda ho fatto espe rienza nel campo editoriale, dal momento che mi sono laureata in Lettere classiche alla laurea triennale e poi in Scienze dell’Antichità alla spe cialistica. Quando ho iniziato l’università il mio
desiderio era insegnare o fare ricerca, ma cre scendo mi sono resa conto che non mi avrebbe soddisfatto dal punto di vista lavorativo. Così ho fatto un Master in Economia e da lì è iniziato il mio reale percorso nel mondo del lavoro.
Questi due anni di pandemia mi hanno portato a riflettere molto sul presente e sul futuro e nei primi mesi del 2020 ho cambiato lavoro tre volte. L’ho fatto in maniera pensata, cogliendo preziose occasioni, perché il mondo dell’e-com merce è velocissimo e devi imparare a tenerti in equilibrio una volta che intraprendi questa strada: allora può darti veramente tanto. Ciò su cui ho riflettuto di più è stato il mio percorso, che mi avrebbe potuto portare da qualunque altra parte e che invece ho modellato sulla base della mia volontà, libera da pressioni esterne a me stessa. Disattendere le aspettative della società e andare contro quello che sembra il naturale flusso delle cose è possibile e libera torio. Se fai Lettere classiche, dopo la laurea la gente si aspetta che tu faccia l’insegnante al liceo. Ma se hai un desiderio o un sogno diverso che ti farebbe svegliare felice la mat tina, perché non perseguirlo al di là di tutto il resto?
Così oggi lavoro nell’e-commerce a livello worldwide, mi rapporto con tutto il mondo e non ho orari ben definiti. Tuttavia non mi pesa, perché ho trovato una professione che amo e che unisce tante passioni: la strategia, la consu lenza, i numeri e la collaborazione continua con i vari player e partner.
La vita corre veloce – questi due anni ce l’hanno dimostrato – per cui è meglio essere sinceri con sé stessi e ammettere che, se vogliamo, pos siamo scegliere una strada non convenzionale,
se è quella che ci fa stare bene. Se tornassi indietro nel tempo, farei le stesse identiche scelte che mi hanno portato dove sono oggi. Se c’è una cosa che la pandemia spero ci abbia insegnato, è proprio che i vecchi paradigmi sono ormai superati.
Ho avuto la grande fortuna di avere dei geni tori che mi hanno sempre supportata, perché sapevano che qualsiasi cosa avessi fatto ci avrei messo impegno e l’avrei portata a ter mine nel miglior modo possibile. Anche se ricorderò sempre il commento di mio padre quando mi sono iscritta a Lettere classiche: “Sicura di non volerla fare come seconda laurea? Prima potresti fare Economia”. Io ovviamente non l’ho ascoltato e ho proseguito per la mia strada. In seguito, mi sarei iscritta comunque ad un Master in International Business, ma arrivandoci con i miei tempi. Per me è stata un’evoluzione naturale, guidata
Se dovessi dare un consiglio alla versione più giovane di me stessa le direi: “Prenditela di meno e sii meno dura con te stessa. Vai bene così!”. Con il tempo ho imparato ad ammorbi dirmi un po’ e ho fatto una piacevole scoperta: rendevo più di prima, nello studio come nella performance. Senza la pretesa di dover eccel lere per forza in tutto quello che facevo, avevo imparato ad approcciarmi alle cose in modo nuovo ed incredibilmente più efficiente. Anche l’emozione è una lama a doppio taglio: è una cosa bella perché significa che tieni tanto a quello che stai facendo, però a volte può ten derti una trappola e farti performare di meno. Bisogna imparare a controllarla di volta in volta e sfruttarla a proprio vantaggio, lo noto anche quando vengo ai forum di Richmond Italia.
Dopo essermi accorta che rischiava di farmi perdere un po’ di lucidità, ho imparato a gestire l’emozione. O forse, crescendo, era
dalla maturità di capire che quello che per me era una grande passione – le Lettere classiche – non mi avrebbe condotto al pieno soddisfa cimento delle mie aspirazioni. Al contrario di quello che i più ritengono, penso che la cul tura umanistica in ambito lavorativo orienti l’interpretazione dei big data e permetta di avere una prospettiva più ampia, libera e cre ativa, aiutando ad analizzare la realtà, immagi nando strade alternative e trovando soluzione a problemi complessi, grazie all’approccio cri tico e alla visione laterale a cui sono abituati gli umanisti.
Il Master che ho frequentato aveva un approc cio molto pragmatico e mi ha permesso di fare uno stage di tre mesi prima di diplo marmi e intraprendere la mia carriera. Quello che mi spiace è che quando si inizia a lavorare il curriculum scolastico finisca sempre di più nel dimenticatoio. Io però continuo ad essere fiera del mio percorso di studi classici e il con siglio che dò sempre ai più giovani è che non esistono regole scritte su quale strada intra prendere. Bisogna avere il coraggio di pensare fuori dagli schemi e ammettere che cambiare idea in corso d’opera non sia un fallimento o qualcosa di cui vergognarsi, anzi: può diven tare un grandissimo valore aggiunto.
normale che andasse così. Quando ti abitui a fare determinate cose, iniziano a sembrarti più semplici. Oggi mi rendo conto, ad esempio, che mi piace parlare di quello che faccio e che mi viene naturale, perché amo il mio lavoro e sono arrivata a un punto della vita in cui mi sento soddisfatta.
Certo, ci sarebbero tante altre passioni che porterei avanti oltre al lavoro, perché sono una persona curiosissima e ogni cosa attrae la mia attenzione. Ma, il tempo è poco. Una cosa che ho fatto solo per me stessa negli ultimi anni però c’è stata: il corso da sommelier. Avevo iniziato anni fa con dei corsi amatoriali del Comune di Milano, in seguito ho deciso di investire tempo e denaro nel corso professio nale. Mi sono diplomata a novembre 2021 con FIS, la Federazione Italiana Sommelier. Negli ultimi tempi, dato che dovevamo recuperare i mesi persi a causa del Covid, frequentavo il corso tre sere a settimana e studiavo di notte per prepararmi all’esame. Una follia per me, che sono sempre stata molto metodica nello studio. Eppure, è stata una bellissima esperienza, grazie alla quale ho conosciuto delle persone magnifiche. L’ho fatto solo per passione e ne conserverò sempre un dolce ricordo.
NON ESISTONO REGOLE SCRITTE SU QUALE STRADA INTRAPRENDERE. BISOGNA AVERE IL CORAGGIO DI PENSARE FUORI DAGLI SCHEMI E AMMETTERE CHE CAMBIARE IDEA IN CORSO D’OPERA NON SIA UN FALLIMENTO O QUALCOSA DI CUI VERGOGNARSI, ANZI: PUÒ DIVENTARE UN GRANDISSIMO VALORE AGGIUNTO
Elisa Moi
Emea manager
PETRONAS LUBRICANTS
Allinearsi alle dimostrazioni di potere è sempre controproducente
Fino all’estate del 2022 ho ricoperto il ruolo di ICT Emea manager di Petronas, un’azienda che si occupa di produrre olio per l’industria e l’automotive, sia come primo riempimento sia come olio di manutenzione. Io sono una donna degli applicativi, nasco come consulente Sap e poi da lì man mano sono riuscita ad ampliare il perimetro della mia mansione fino a diventare ICT manager.
Il mio avvicinamento al mondo dell’informatica è iniziato durante le superiori, quando ero la classica studentessa brillante che si applicava poco. Scelsi ragioneria, perché non ero certa di voler andare all’università e volevo assicurarmi di fare una scuola che mi desse modo di lavo rare dopo il diploma. I primi due anni erano focalizzati sulle lingue (che ho amato, perché avevo interesse a viaggiare), dopo di che dovevo decidere se proseguire con quell’indi rizzo o con un’altra specializzazione a scelta tra un corso classico e un corso informatico. Scelsi quest’ultimo. Pensai che sulle lingue me la sarei cavata anche da sola, mentre non sapevo nulla di informatica, che sapevo che sarebbe stata protagonista nel futuro.
In seguito, mi iscrissi alla facoltà di Economia e per un periodo dimenticai il mondo tecnolo gico, finché non mi fu proposto di fare un trai ning e diventare consulente SAP. È stato quasi un caso, o forse no. Penso che le opportunità ce le creiamo noi stessi quando vogliamo qual cosa. La formazione è stata fondamentale per il mio percorso, ed è quello che auspico anche alle altre persone: che si formino e sviluppino curiosità verso le nuove tecnologie e la realtà che le circonda.
Dopo l’università iniziai a lavorare come con sulente SAP nell’ambito finanziario. La mia attività principale era il modulo della gestione materiali: mi occupavo di training e manuali, e raccoglievo tutti i requisiti affinché gli svilup patori sviluppassero quello che era necessa rio. In seguito, mi resi conto che avrei voluto spostarmi in una struttura più orizzontale, dove poter osservare i processi e lo sviluppo dei flussi di lavoro. Grazie a un ex-collega che mi suggerì un posto in un’altra società, feci una serie di colloqui e riuscì ad entrare. Visto che ero particolarmente brava a gestire le persone, iniziarono ad affidarmi tutta l’area IT.
Feci ciò che in gergo tecnico si chiama gover nance, definendo i processi e le linee guida che i colleghi dovevano seguire. Conoscere i processi che compongono l’azienda è stata la parte più interessante, perché mi sono accorta che benché le applicazioni come SAP siano molto importanti, arrivano dopo rispetto al requisito dell’utente. È fondamentale andare oltre l’applicativo: le soluzioni con l’IT si tro vano sempre, ma il punto è fare la cosa giusta che serve all’utente.
Da allora, tutte le volte che ho cambiato lavoro l’ho fatto per cercare di ampliare i miei orizzonti. In Petronas gestivo un’attività a livello cross di cui si possono studiare tutte le funzioni, ed è quello che mi piace di più. Il generale, il mio lavoro è bello perché non è mai statico. Ogni giorno si presenta una sfida diversa, alcune purtroppo sono sempre ricorrenti, mentre altre cambiano di continuo. E la formazione continua ad esserci perché è
in grado di determinate cose, o crediamo che l’ambito, la carriera, l’azienda non siano quelli giusti per noi, quando invece avremmo tutte le capacità per ricoprire quella posizione o quel ruolo.
Un altro comportamento che noto di fre quente fra le donne e che cerco io stessa di evitare è simulare il modo di lavorare degli uomini. Noi siamo importanti e necessarie in azienda proprio per il diverso punto di vista che possiamo portare, quindi è fondamen tale preservarlo. Invece, quando cerchiamo di allinearci alle dimostrazioni di potere degli uomini perdiamo il valore aggiunto che una donna può portare nel team. Il potere non si dimostra con la forza, bensì con saggezza ed empatia. Il mio augurio è che le donne capiscano di poter intraprendere qualsiasi tipo di carriera, da quella informatica a quella di amministratore delegato, senza nascon dere il proprio “essere donna”, le proprie
necessaria. Credo che sia così in quasi tutte le carriere, ma sicuramente nell’IT lo è ancora di più negli ultimi anni.
Pur essendo una donna che lavora in un ambiente tendenzialmente maschile, ho avuto fortuna. Anche quando gestivo un gruppo di circa dieci di uomini, e sebbene alcuni fossero più senior di me, la collaborazione, la fiducia e il supporto non sono mai mancati.
Tuttavia, so che il gender gap esiste. Da due anni sono diventata mamma di una bimba e in questo periodo sto cercando di leggere e informarmi proprio per essere preparata a crescerla con una particolare attenzione su questi temi. Mi sono chiesta, per esempio, se sia giusto avere le quote rosa. Non ho una risposta precisa, ma penso che se nel mondo le donne sono persino più degli uomini, allora è bene che ci sia almeno una donna capace di svolgere il lavoro per il quale sto cercando una posizione. Basta avere la voglia di tro varla, specialmente oggi, in cui tutto è un po’ più facile perché si può lavorare anche da remoto. È importante che le donne stimolino sé stesse a varcare alcune “soglie psicologi che” nel mondo professionale. Spesso, infatti, ci poniamo dei limiti e pensiamo di non essere
caratteristiche e i propri difetti. Nel tempo gli uomini hanno raggiunto posizioni di potere non perché fossero perfetti, ma semplice mente perché pensavano di potercela fare. Le donne dovrebbero fare lo stesso.
In linea generale si pensa che gli ambiti scien tifici ed informatici siano più adatti agli uomini. Crescendo le bambine arrivano a pensare che quelle materie non facciano per loro, come se fosse una battaglia persa in partenza. Invece le donne dimostrano di poter eccellere in svariati campi, tanto quanto i propri colleghi maschi. Basti pensare a Samantha Cristoforetti, prima donna italiana negli equipaggi dell’Agen zia Spaziale Europea o a Katherine Johnson, Dorothy Vaughn e Mary Jackson, le tre donne statunitensi che nel corso del 1961 hanno contribuito in modo straordinario alla riuscita delle missioni della NASA, tra cui l’Apollo 11 (vicenda peraltro raccontata magistralmente nel film Il diritto di contare del 2016).
Tornando alla mia bambina, farò il possibile perché lei si senta all’altezza di qualsiasi per corso deciderà di intraprendere, anche se diverso dal mio. Perché no, potrebbe essere l’occasione per accrescere le competenze dell’intera famiglia.
NEL TEMPO GLI UOMINI HANNO RAGGIUNTO POSIZIONI DI POTERE, NON PERCHÉ FOSSERO PERFETTI, MA SEMPLICEMENTE PERCHÉ PENSAVANO DI POTERCELA FARE. LE DONNE DOVREBBERO FARE LO STESSO
DIVENTIAMO SOSTENIBILI
Grandi speaker. Incontri b2b. Sessioni di coaching. Networking informale. Due giorni e mezzo di full immersion rigorosamente dal vivo pensati per affrontare il mercato con nuove strategie. Per riflettere e condividere nuove visioni con partner e colle ghi. Per liberare il proprio potenziale nelle partite che si stanno giocando oggi. Ci vediamo al Grand Hotel di Rimini.
COSA SONO GLI ESG E PERCHÉ SONO COSÌ IMPORTANTI?
A cura di Eleonora Prinelli
Oggi, quando decidiamo di inve stire in un soggetto, non possiamo più valutarlo solo dal punto di vi sta delle sue performance finan ziarie. Vi sono altri aspetti, legati all’ambiente, alla società e all’am ministrazione delle aziende, che devono guidare le nostre scelte. Si chiamano ESG - Environmental, Social and Governance, i tre fattori fondamentali per misurare la soste nibilità di un investimento.
Il primo criterio, quello ambientale, si riferisce al modo in cui l’azienda si rapporta alla salvaguardia ambien tale. Indaga quindi l’impronta am bientale del soggetto: se la sua at tività è strutturalmente dipendente dai combustibili fossili, se smaltisce correttamente i rifiuti, se è coinvolta nella deforestazione e via dicendo.
Il secondo fattore è quello sociale, che analizza le condizioni di lavoro dei dipendenti dell’impresa. Inclu sione e rispetto della diversity, così come la salvaguardia di corretti rapporti interpersonali e l’atten zione alla sicurezza e alla salute sul luogo di lavoro, svolgono un ruolo fondamentale in questo ambito. Infine, la governance osserva come
viene amministrata l’azienda, po nendo una particolare attenzione alla remunerazione dei dirigenti (che non deve essere sproporzio nata rispetto a quella degli altri di pendenti) e a pratiche fiscali, al fine di verificare che l’impresa non sia coinvolta in scandali legati alla cor ruzione o all’elusione del fisco.
L’analisi ESG sta diventando quin di il caposaldo dell’Investimento sostenibile e responsabile (Sustai nable and Responsible Investing, SRI), e considerare non solo il modo di operare delle aziende nella so cietà, ma anche come questo influ isca sulle loro performance future.
Da tempo Il Bullone affronta te matiche legate alla sostenibilità e all’etica delle aziende attraverso approfondimenti, interviste e in chieste sul mondo imprenditoriale realizzate dai beneficiari del proget to – ragazzi con patologie croniche – e dai volontari della redazione. Inclusione, ambiente, formazione, sensibilizzazione sono solo alcuni degli aspetti che hanno indagato e valorizzato nei propri editoria li, consapevoli della loro rilevanza nella gestione aziendale.
Per questo motivo Reach magazine ha deciso di dedicare agli ESG una nuova rubrica e ospitare un artico lo del Bullone che parli di queste tematiche. Pensiamo, infatti, che dalla contaminazione di testate diverse possano nascere nuove occasioni di riflessione e scambio intellettuale.
Nelle prossime pagine riportiamo l’intervista a Roberta Zivolo, im prenditrice che nel 1981 ha fonda to, insieme a Bruno Dei, Progetto 2000 Group. L’azienda milanese, che opera nel settore dell’Informa tion Technology, è cresciuta negli anni e l’85% dei suoi dipendenti è donna. In questi 40 anni Roberta Zivolo ha incentivato la maternità all’interno dell’impresa, garanten do alle sue collaboratrici il posto di lavoro al rientro dalla gravidan za. Nel corso del tempo questa politica ha portato alla nascita di molti bambini da parte delle col laboratrici di Progetto 2000 Group (l’intervista riportata nelle prossi me pagine risale a giugno 2021, ad oggi – luglio 2022 – i bambini nati sono arrivati a quota 130, ndr).
Direttore artistico di un festival di cortometraggi e filmmaker, ha lavorato come attore teatrale durante gli anni dell’università a Bologna. Ama il giorno più lungo dell’anno e l’illusione di avere tutto il tempo.
L’articolo del Bullone che ospitiamo nelle prossime due pagine è stato scritto da Odoardo Maggioni
Roberta Zivolo (Milano) imprenditrice, nel 1981 fonda insieme a Bruno Dei, Progetto 2000 Group azienda rosa milanese del settore dell'Information Technology. Dopo un percorso di 40 anni basato sull’umanizzazione dell’azienda, coinvolgendo 80 collaboratrici in un grande progetto di autotrasformazione. La sua determinazione ha permesso di traghettarla in entità a valore sociale trasformandola in SOCIETÀ BENEFIT. Nel 2010 ha ricevuto da Ugo Biggeri il 1° Premio Organizzazioni Valore Sociale. In 40 anni ha incitato e sostenuto le collaboratrici a essere generose verso la maternità garantendo loro il posto di lavoro al rientro in azienda. Sono 127 i bambini nati ad oggi.
Intervista con Roberta Zivolo, imprenditrice milanese che la rivista americana Forbes ha messo tra le cento donne prota
Rompere lo schema
Le relazioni umane sono priorità
Stare sul mercato con equità
di Odoardo Maggioni, B.Liver«Rispettare
i diritti fa si che sì rispettino i doveri».
È un’affermazione im mediata, ma, nella sua semplicità, potentissima.
Roberta Zivolo infonde
una certa serenità nel suo racconto. Imprenditrice di successo, fonda nel 1981 Progetto 2000 Group, un’a zienda rosa milanese che è cresciuta negli anni e che ad oggi conta 80 dipendenti di cui l’85% sono don ne. «Io non li chiamo dipendenti ma collaboratori». La sua storia lavorativa inizia, all’età di sedici anni, in un centro meccanografico dove lavora come ap prendista, continuando a studiare alle scuole serali, dove capisce immediatamente quanto un ambiente lavorativo possa essere malsano, soprattutto per una donna, a causa dei massacranti turni di lavoro ed estenuanti straordinari. Apre la sua prima azienda a vent’anni riscontrando alcune difficoltà che la porteranno a diventare responsabile di settore per l’azienda Tobaco. Ancora una volta rinnova il suo impegno imprenditoriale e comincia così lo svilup po di Progetto 2000 Group: «Quando facevo pubbli care l’inserzione per assumere, rispondevano solo donne. E ancora oggi sono donne e quello che ho fatto è una cosa che nessun imprenditore si sogne rebbe mai di fare, ovvero incentivare la maternità. Dicevo a tutte, quando andavano in ferie: “andate via in due, marito e moglie, ma tornate in tre”. Ne gli anni sono nati 127 bambini». Malgrado i bilanci dell’azienda siano stati risicati, specialmente a causa dei costi elevati delle maternità e della mancanza di fondi da parte dello Stato italiano per una tale misura, l’azienda è sempre andata avanti lo stesso. «Non avevo interesse solo per il profitto, ho cercato di calmierare le due cose: abbiamo superato ostaco li enormi grazie all’elevata professionalità dei miei manager e dei miei collaboratori e siamo ancora in sieme, non ho turnover. A Medjugorie ho capito la differenza tra il “lavoro giusto” e il “lavoro decente”, che significa consentire alle persone di esprimere il proprio potenziale e la propria fioritura umana. La grande sfida che dopo la pandemia tutti dobbiamo affrontare, è quella di trovare i modi, che esistono, di tenere in armonia le due dimensioni, perché per noi imprenditori è importante offrire il “lavoro giu sto”, ma che sia anche “lavoro decente”. Quello che piace a me, lo metto in azienda: in orario lavorativo andiamo insieme alle mostre d’arte, c’è una pale stra interna e la possibilità di avere un massaggio di medicina tradizionale cinese, spremute di arance biodinamiche gratis, fonte di vitamina C per raffor zare il sistema immunitario, etc». Roberta Zivolo mi comunica al telefono tutta la sua felicità per questa dinamica aziendale che l’ha portata a creare una fa miglia molto allargata. Le chiedo se questo modello di business sia sostenibile. «Dovrebbe essere la nor malità», risponde candidamente. «Gli imprenditori devono capire che hanno a che fare con degli esseri umani e non con dei robot che per far funzionare al meglio stanno riempiendo le città di antenne 5G che noi esseri umani non sappiamo ancora che con seguenze ne pagheremo. In molte aziende, ancora oggi, se sei una donna, alla firma del contratto di assunzione devi firmare anche una lettera di dimis sioni: se rimani incinta, fuori! Papa Francesco ha
denunciato la situazione italiana delle culle vuote e dell’aumento della vecchiaia». Ascolto con stupore la riflessione riguardo a ciò che vuole dire andar bene per un’azienda. «Bene per me è sapere che le mie collaboratrici possono essere felici di avere dei bam bini. Bene per me è sapere che se andiamo a una mostra d’arte ci nutriamo insieme della bellezza. La mia azienda non produce margini del 35%, come insegnano alla Bocconi, ma ho 80 collaboratori che possono avere figli e andare in pensione senza l’o steoporosi, grazie ai massaggi Tuina». Nel 2019 la Fondazione Marisa Bellisario premia Roberta Zivo lo con la «Mela d’oro» e Banca Intesa San Paolo consegna il premio «Women Value Company» a Progetto 2000 Group come azienda che si distingue nell’applicazione di politiche di valorizzazione del lavoro femminile e Roberta Zivolo viene ricevuta al Quirinale dal presidente Sergio Mattarella. Per questo riconoscimento viene inserita nella classifica di Forbes fra le 100 donne italiane di successo in
Italia nel 2019, oltre a scienziate, professioniste, im prenditrici, manager, sportive, tutte contraddistinte da percorsi e progetti vincenti. Continuo chieden dole se questo modo di fare impresa può diventare la normalità. «Deve diventare la normalità! Basta taylorismo! Il sistema è crollato. Le grandi univer sità che si occupano di economia devono iniziare a far uscire idee nuove basate sui diritti umani e non solo sul profitto. E il Covid-19 ne è la riprova». Ri guardo la condizione attuale delle donne in Italia, Roberta Zivolo è molto positiva: «È un momento di grande fermento questo per le donne. È il mo mento in cui le donne possono sfondare il soffitto di cristallo e grazie al cielo iniziamo a proporre le nostre idee, ad usare l’equilibrio fra emisfero destro e sinistro del cervello, fra creatività e razionalità, molto meglio degli uomini che sono sempre troppo razionali». Aggiunge che le donne devono iniziare a far rete, e non nascondersi, perché le donne sono elementi validissimi anche nel business. Oltre al ri spetto dei diritti degli esseri umani, Roberta Zivolo porta la conversazione verso il rispetto per la Terra. Da sempre attenta alla questione ecologica, rimase molto colpita, già ai tempi di Barack Obama, dal tema dell’ecosostenibilità. «Ti dichiaro con molto dispiacere che io, nel corso della mia vita, per igno ranza, ho consumato questo pianeta inutilmente. Un giorno chiesi a mio marito: “noi da grandi cosa faremo per recuperare questo malfatto?”. La matti na seguente passammo davanti al monastero delle Montalve a Firenze che era abbandonato. Tutto il patrimonio, di proprietà dell’Università di Firenze acquisito dallo scioglimento della Congregazione delle Montalve, era all’asta. La residenza estiva delle monache si trovava a San Cresci in Valcava, vici no a Borgo San Lorenzo. Ho sentito dentro di me che dovevo andare in questo posto e quando ci sono arrivata sono rimasta talmente meravigliata che ho
❞ Ho spinto le mie collaboratrici alla maternità, sono nati 127 bambini
Contenuto a cura della redazione de Il Bullone.
Il Bullone è il mensile realizzato dai B.liver - ragazzi che vivono il percorso della malattia - insieme a volontari e professionisti del settore. L’ Ordine dei Giornalisti della Lombardia ha conferito il tesserino di giornalista pubblicista ad honorem a 84 ragazzi, riconoscendo il valore del giornalismo sociale svolto dalla testata.
del profitto
Il Bullone in inglese
Roberta Zivolo
mio stile di vita».
cambiare
fronte alla meraviglia dei cavalli allo stato brado,
dei caprioli,
stavano
sorgenti presenti
alberi
657
cultivar
maturava
terreni
More humanity for workers
Roberta
Zivolo, is a succesful business wo man, who funded Progetto 2000 Group in 1981, a Milan based company that has grown over the years and that today has 80 employees, of which 75 are women. «I don’t call them em ployees, but co-workers» says Mrs Zivolo. «In the beginning when I posted ads with job of fers, I received applications from women only. I hired them and I also promoted matherhood: something that no entrepreneur would ever dream of doing. I was telling them: go away in two but return in three! In 30 years 127 kids were born». Despite slim profits, due to the high costs of motherhood and the lack of funds of the Italian State, the company has ste adly grown. «I wasn’t interested in profit only. Form me it was more importantant creating a productive human working enviroment. To ghether we have overcome some many hurdles, and we are still toghether. What I like, I put in the company: we go to exibit during working hours, there’s a gym and the possibility to have a massage of traditional Chinese medicine».
di Silvia Cappellini, B.Liverboschi incolti
San Cresci,
insediati 12.000 metri quadrati di fabbricati, Roberta ha avu to una lampante rivelazione: il mostro che è la città.
avvelenati dalle città, beviamo diossina pre sente nelle sorgenti sotto le città, respiriamo polveri sottili che sono cardiotossiche, mangiamo chimica a causa delle coltivazioni intensive dei prodotti che acquistiamo nei supermercati, così avvelenati siamo diventati cattivi e insensibili da non riuscire nean
Ecovillaggio San Cresci Sostenibilità e armonia
L ’Ecovillaggio San Cresci è un progetto ideato da Roberta Zivolo e Bruno Dei con l’obiettivo di creare un centro del ben vivere in totale armonia con la natura: un borgo che si ripopola e una comunità che punta alla sostenibilità e all’autosufficienza. Il progetto si sviluppa nel Mugello, 35 km fuori Fi renze, presso Borgo San Lorenzo e nasce per ospi tare 300-400 persone offrendo loro di poter final mente ben vivere in una quotidianità responsabile, autonoma, libera e basata sulla condivisione.
La tenuta si sviluppa su 657 ettari con 8 case co loniche e una villa medicea, Villa la Quiete, un complesso architettonico di grande valore artistico culturale che sarà ristrutturato secondo le tecniche sostenibili della bioedilizia.
www.sancresci.eu
che a tendere la mano al nostro vicino di casa». Poi mi spiega con entusiasmo il suo progetto di aprire a San Cresci un ecovillaggio: «Ho disegnato il ca lendario della vita di un essere umano. Ho messo al centro l’uomo e mi sono chiesta qual è il ben vi vere per l’essere umano? Dalla nascita alla morte si potrà vivere questo ecovillaggio. Ci sarà un centro di medicina olistica, scuole all’avanguardia, la casa della migliore età, il cibo che proviene da agricoltu ra biologica e naturale a metro zero, l’acqua dalle sorgenti; l’energia proverrà da pannelli fotovoltaici e il riscaldamento da impianti geotermici. Ci sarà, inoltre, un brand che permetterà ai residenti di la vorare nell’ecovillaggio, perché oltre al lavoro, l’uo mo ha bisogno del tempo libero per vivere». L’otium senecano deve essere al centro di una vita sana: il tempo libero e il dialogo fra generazioni sono alla base della socialità dell’uomo. Si dice a Firenze che vale più un vecchio in un canto (vicino al camino) che un giovane in un campo.
«A sessantasette anni ho capito che godere vuol dire avere il tempo per dedicarsi ai propri progetti. L’ozio non è il padre dei vizi». Infine le chiedo se sia possi bile che il rispetto della natura e il riavvicinamento a uno stile di vita sostenibile possano diventare la normalità, o saranno appannaggio solo di un esiguo numero di persone benestanti: «Mi auguro che di venti la normalità. Sennò povero pianeta e povera umanità. Vogliamo che sia un progetto da prendere come esempio per le generazioni future, sia in Italia che in Europa, per la ripopolazione dei numerosi borghi rurali ora abbandonati che hanno sempre dato da vivere e mangiare bene a chi li ha abitati. Sta per essere pubblicato il libro della mia biografia, La nuova Eva salverà il mondo, edito dalla casa editri ce Chronos, presso la quale potrete prenotarlo. Vi invito a venire al Centro San Cresci, sarò felice di potervi conoscere e continuare a crescere insieme».
Il Bullone in cinese
goniste dell'Italia al femminile. Sta realizzando il sogno di costruire un villaggio di lavoro e di solidarietà, puntando sulla sostenibilità e sul benessere dei dipendenti
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Un for mat di evento che non ha mai smesso di attrar re le punte avanzate dei mercati di riferimento
Paolo Cerioni
Responsabile commerciale GRUPPO MARENGO
Imparare a vendere te stesso con serietà e onestà, per riuscire a vendere un prodotto
Il mio ruolo in azienda è quello di gestire i con tatti con tutti gli agenti e i segnalatori; sono quindi il riferimento commerciale per i miei colleghi del reparto tecnico. Quando sono entrato a far parte del Gruppo Marengo anni fa non c’era una figura che fosse prettamente commerciale, ma essendo l’azienda cresciuta in maniera importante negli ultimi anni, c’era la necessità di una figura che coordinasse e implementasse il lavoro di agenti e segnala tori. Prima di far parte del Gruppo Marengo ho lavorato per diverse aziende come agente di commercio. Una delle ultime è stata CENTRICA, una multinazionale Inglese con sede a Milano che si occupa di cogenerazione, ed è grazie a clienti comuni che ho conosciuto il Gruppo Marengo, una realtà più piccola, ma con basi molto solide. Quando ho dovuto scegliere fra le due mi sono trovato davanti a un bivio e ho dovuto prendere una decisione importante. Ad oggi posso dire di essere felice di aver preso la decisione di entrare a far parte di una realtà imprenditoriale seria, concreta e con una forte spinta nel settore dell’innova zione. Sono sempre stata una persona proat tiva verso il cambiamento e in questa azienda ho trovato le motivazioni giuste.
Il mio primo lavoro come commerciale è stato in WURTH, un’importante azienda tedesca, ed è stata un’esperienza che mi ha insegnato davvero molto, ho lavorato undici anni come commerciale ricoprendo diversi incarichi. Ai tempi l’azienda offriva moltissimi corsi di
formazione, tutti molto incentrati sull’impor tanza delle relazioni con i clienti. Gli insegna menti della vecchia scuola di WURTH sono qualcosa che ancora oggi mi porto dietro nel lavoro che faccio. Dopo questa esperienza sono entrato in un’azienda di prodotti chimici che aveva interesse nel creare una divisione dedicata all’automotive, e qui sono rimasto circa sette anni. L’esperienza successiva è stata nel settore meccanico dove sono rimasto per altri otto anni. Era un’azienda molto florida che però ha affrontato un cambio generazio nale che ne ha modificato l’assetto. Il fonda tore, che aveva creato l’azienda dal nulla, ha passato le redini al figlio, il quale ha stravolto l’assetto commerciale rovinando l’equilibrio che si era costruito negli anni tra agente e cliente, creando problemi economici e com merciali e questo ha portato me e altri colle ghi a lasciare l’azienda. Abbandonare non è mai facile. Non è facile perché costruisci qual cosa nel tempo, soprattutto legami, non solo lavorativi ma anche di amicizia o per lo meno di collaborazione, e si crea un rapporto pro fessionale che è allo stesso tempo anche un rapporto personale e profondamente umano e diventa più difficile decidere di andare via. Ma per quanto difficile possa essere, alla fine lo fai, per esigenze obiettive, perché se non credi più nell’azienda per cui lavori non credi più nel lavoro che fai.
Ho sempre pensato che per poter vendere si debba credere veramente nel prodotto e
nell’azienda. Trasmettere fiducia e serietà sono gli elementi fondamentali in una tratta tiva. Se mancano questi elementi fondamen tali difficilmente riesci a costruire un rapporto duraturo e costruttivo nel tempo. Per me è questa la cosa più importante, quello che mi dà più soddisfazione e mi consente di trovare il piacere nel mio lavoro. Nelle varie aziende per cui ho lavorato è sempre stato questo il mio approccio a prescindere dal prodotto che proponevo. Una collaborazione che ricordo con piacere è stata quella con un’azienda di Reggio Emilia che si occupava di energie rin novabili. Questo settore mi aveva da sempre molto interessato, e anche se non avevo grandi conoscenze, ho avuto la possibilità di formarmi e di lavorare con un team di persone molto preparate e con il titolare. Mi hanno trasmesso nozioni e informazioni importanti derivate dalla loro esperienza. L’azienda si è evoluta dal fotovoltaico alla cogenerazione
i miei clienti di questa spiacevole situazione. Ritengo che anche esperienze negative come queste se affrontate con onestà e serietà portino insegnamenti utili e aiutino a costru ire carattere e motivazione. Quando mi sono presentato al Gruppo Marengo sono stato assunto anche per tutte queste caratteristiche relazionali che ho saputo costruire nel tempo superando ostacoli come questo.
Ho cercato di trasmettere ai miei figli i valori fondamentali che ho imparato dal mio per corso lavorativo: la serietà, la correttezza e il rapporto umano, valori che crescono e si consolidano con il tempo. Molto importante è anche riconoscere la serietà e l’affidabi lità delle aziende e delle persone che diano spazio a questi valori, valori che ho trovato nell’azienda e nel gruppo di persone con cui lavoro. Mio figlio più grande, dopo un percorso universitario come ingegnere, ha
tramite biogas. Era davvero molto interes sante l’idea di produrre energia da uno scarto organico. Trovo sia un concetto bellissimo perché produci energia e allo stesso tempo riduci le emissioni inquinanti. Questa iniziativa purtroppo è durata solo cinque anni, dopo diché sono finiti gli incentivi e l’azienda che aveva fatto investimenti troppo elevati e forse non troppo mirati ha dovuto chiudere.
È a questo punto che il mio percorso lavo rativo incrocia CENTRICA prima e Gruppo Marengo poi. Sono realtà molto differenti ma che operano nello stesso settore. Diventare Responsabile commerciale del Gruppo Marengo è stato per me un grande onore e una nuova e importante sfida. Lo stimolo di esperienze nuove sono il motore di questo lavoro. Non sempre però le nuove esperienze sono positive e in passato ho purtroppo avuto modo di imbattermi in un’azienda che in apparenza sembrava seria e corretta, ma in realtà era una grande impalcatura creata per truffare. Millantavano un progetto di cogenerazione a biomassa dedicato alla piro gassificazione, cioè la produzione di un gas chiamato Singas attraverso gli scarti del legno. Progetto affascinante e molto interessante ma la macchina costruita non funzionava. Non appena mi sono reso conto di questa situa zione ho abbandonato l’azienda e informato
optato per un’attività di relazioni commer ciali in Nike. Il più piccolo ora lavora in una fonderia come progettista, anche lui pur non essendo un commerciale deve intratte nere rapporti con fornitori e clienti. Ci con frontiamo continuamente e ci scambiamo le reciproche esperienze perché “non si smette mai di imparare! La formazione, l’informa zione, la curiosità sono secondo me le cose più importanti per crescere nel lavoro e anche nella vita. Il carattere di una persona è molto importante per riuscire in questo lavoro, ma la volontà e la voglia di riuscire sono gli elementi indispensabili. Il mio percorso è stato come un volano che nel tempo acquista velocità e dimestichezza. Ho imparato che prima di vendere il prodotto devo vendere me stesso: è fondamentale. L’approccio con il cliente si definisce nei primi dieci secondi, quelli in cui lui conosce te prima del prodotto. Quando vai da un cliente è come se tu dovessi entrare in un luogo attraverso una serranda che si sta chiudendo e hai circa 10 secondi prima che questa porta si chiuda completamente. È lì che devi “vendere” te stesso, e solo dopo il cliente sarà disposto a comprare il tuo pro dotto. E` questo che negli anni ho cercato di valorizzare e perseguire sempre. La promessa va mantenuta sempre, avendo il coraggio di dire la verità senza paura di perdere i clienti, altrimenti tutto ti si rivolterà contro.
LA PROMESSA VA MANTENUTA SEMPRE, AVENDO IL CORAGGIO DI DIRE LA VERITÀ SENZA PAURA DI PERDERE I CLIENTI, ALTRIMENTI TUTTO TI SI RIVOLTERÀ CONTRO
Luca Altieri
VP marketing IBM technology Europe and Middle East Africa IBM
L’ars tecnica al servizio dell’essere umano
Ho 51 anni, sono un padre, un compagno e un ex marito. Oltre a due figli meravigliosi, Francesco e Alessandro, condivido la mia esperienza di vita con Anna, la mia compa gna. La mia ex moglie Giorgia, dopo la sepa razione, si è trasformata in un’amica fedele e oggi abbiamo un bellissimo rapporto. Sono una persona solare e amo stare con gli altri. In verità, amo l’essere umano, in tutte le sue sfaccettature. Sono curioso e cerco di impa rare da tutto ciò che mi circonda, persino dalle scritte sui muri – che mi fermo sempre a leggere – e dalle quali ogni tanto prendo ispi razione per le mie attività di marketing.
Ho tre hobby che mi accompagnano al di fuori del lavoro. In primis, una passione sfre nata per gli orologi meccanici e manuali. Penso siano la dimostrazione tangibile dell’in telligenza umana. In un oggetto di quaranta millimetri siamo riusciti a misurare ciò che per definizione è immisurabile: il tempo. Lo abbiamo ricreato, grazie alle capacità dell’es sere umano, in una dimensione misurabile. Amo anche scrivere, perché attraverso la poesia e la narrativa riesco a esternare quello che ho dentro e questo mi fa stare bene. Non mi definirei uno scrittore, lo faccio solo per me stesso. Infine, sono molto appassionato di moto e quando posso guido in solitaria la mia Harley Davidson, che mi fa sentire uno spirito libero.
Mi ritengo una persona fortunata, che nella vita ha dato tanto ma che ha anche ricevuto molte gioie. Mi piace definirmi “la persona del Bar Amati”: nasco a Monza nel 1970 in una famiglia umile e passo la mia giovinezza con gli amici al bar di quartiere, il Bar Amati, per l’appunto. È lì che sono cresciuto. In quel posto ho cono sciuto una poliedricità di figure, che nel tempo hanno preso strade diverse. Io mi ritengo for tunato perché, a differenza di altri, ho potuto studiare. Ho fatto il liceo scientifico e poi l’uni versità Bocconi, mantenendomi grazie al mio lavoro e all’aiuto della famiglia. E poi, ancora, ho avuto la fortuna di essere assunto in IBM. Qui ho incontrato dei manager illuminati, che hanno intravisto le mie potenzialità e mi hanno permesso di ricoprire ruoli diversi e crescere, arrivando oggi a venticinque anni di lavoro.
Nel tempo ho svolto moltissime mansioni, par tendo dall’Operation e passando attraverso lo sviluppo del canale elettronico, l’assistenza al Country general manager, il COO e il CMO, fino a diventare Vice president marketing a livello europeo. Un percorso davvero diversifi cato, che mi ha permesso di conoscere tutte le varie divisioni della company. Questo è capitato in parte perché ho dato tanto all’a zienda, e in parte perché ho incontrato delle persone che hanno voluto investire su di me. E non capita a tutti. Quando il mio superiore mi ha proposto di fare il CMO, un ruolo che non
avevo mai ricoperto in vita mia, ero sbalordito. Mi disse che sarei stato in grado di farlo benis simo, quando io ancora non lo credevo possi bile. Il mio capo aveva visto in me quello che io ancora non riuscivo a vedere. Ho accet tato, dando inizio a cinque anni di lavoro stu pendi, in cui abbiamo rivoluzionato l’azienda e ho dato libero sfogo alla mia creatività.
Con un ruolo di grande responsabilità è dif ficile ritagliarsi il tempo e lo spazio per la vita personale. Di fatto, questo è il motivo per cui ho un ex moglie. Solo con il tempo si impara a bilanciare gli equilibri. Nella fase iniziale della mia carriera volevo cre scere. Volevo farlo per me, non lo nego, e per la mia famiglia. A trent’anni avevo già una moglie e un figlio. A trentatré è arrivato il secondo mentre frequentavo un master di specializzazione. La situazione a casa ini ziava a deteriorarsi. Ebbi anche due infarti in quel periodo, uno a quarant’anni e l’altro
Bisogna ammettere che gli strumenti digi tali di oggi non aiutano a farci godere il pre sente. Dopo venticinque anni in IBM ho capito che per me la tecnologia è uno strumento e, in quanto tale, deve essere usato per aiutare l’umanità. Non dobbiamo innovare solo per il gusto di creare qualcosa di nuovo sul mercato. Dobbiamo farlo con lo scopo di servire prima di tutto l’individuo. Poi l’azienda. Poi la società. Lo dice anche l’antica etimologia della parola: ars tecnica, l’arte tecnologica. Quest’ultima è lavorazione, è espressione dell’individuo e deve servire un fine utile alla società. Con questo spirito, IBM ha deciso di collaborare con l’ospedale Bambin Gesù di Roma, met tendo a disposizione l’intelligenza artificiale per aiutare i medici nei processi di ricerca. Analizzare miliardi di pubblicazioni tecnicoscientifiche emesse ogni giorno ed estrapolare i dati di milioni di pazienti è complesso. Ed è in ambiti come questi che lo strumento digi tale deve venire in aiuto. In un’ora l’intelligenza
a quarantotto, il giorno di Natale. In quelle occasioni ti accorgi che nella vita devi rimo dulare spazi e tempi. Quando il matrimonio finì fu dura vedere sgretolarsi quello che ave vamo creato. Tuttavia, con il tempo ho impa rato a vedere le cose da un’altra prospettiva. La famiglia si è trasformata e si è allargata. Il bello della vita è che guardandola nel modo giusto, tutto si bilancia. Il punto è cogliere il meglio anche dagli avvenimenti più brutti. Oggi ho una compagna che mi vuole bene, un’ex moglie che è diventata un’amica e due figli che adoro.
Dopo aver avuto il primo infarto ero impa ziente di tornare a lavorare perché avevo paura che fermandomi avrei “perso il treno”. Ovviamente era una preoccupazione inutile: in azienda credevano in me e mi avrebbero dato tutto il tempo di cui avevo bisogno, e così è stato. Non mi sono mai sentito Superman, ma veder vacillare la mia salute a quarant’anni mi fece sentire estremamente vulnerabile e decisi di farmi aiutare da uno psicologo. Dopo il secondo infarto iniziai a lavorare su me stesso facendo anche medita zione e mindfulness. Lo scopo è concentrarmi di più sul qui ed ora, anziché su quello che è successo in passato o sulle angosce future.
artificiale è in grado di interpolare una miriade di informazioni derivanti da cartelle cliniche, pubblicazioni e referti medici. In ultima ana lisi, di aiutare nella cura e nella diagnosi di una malattia.
Serve un approccio etico alla tecnologia. E in tal senso, l’uomo deve restare al centro. Io amo l’essere umano. Per questo mi piace chiamare l’intelligenza artificiale intelligenza aumentata. L’intelligenza in quanto tale può essere solo dell’individuo. L’intelligenza artifi ciale è uno strumento che potenzia le nostre capacità. Per questo si tratta di un’intelligenza aumentata. Sul timore che entro il 2030 le mac chine pensino come gli esseri umani e possano dominarci il dibattito è aperto. Sono domande lecite. E io dico, continuiamo a farcele queste domande. Perché sarà ciò che ci aiuterà ad evi tare che questa cosa accada. Una delle grandi differenze tra uomo e macchina risiede proprio nel fatto che l’uomo si faccia delle domande. L’intelligenza artificiale è bravissima a darci le risposte poiché noi umani la istruiamo a farlo, ma non si chiede mai il perché. Allora sta a noi guardare al futuro nel modo giusto, con la giusta dose di timore e speranza. Ssenza dimenticarci, da esseri umani, di goderci il presente.
DOPO AVER AVUTO IL PRIMO INFARTO ERO IMPAZIENTE DI TORNARE A LAVORARE PERCHÉ AVEVO PAURA CHE FERMANDOMI AVREI “PERSO IL TRENO”. OVVIAMENTE ERA UNA PREOCCUPAZIONE INUTILE: IN AZIENDA CREDEVANO IN ME E MI AVREBBERO DATO TUTTO IL TEMPO DI CUI AVEVO BISOGNO, E COSÌ È STATO
Paola Serena
Co-founder & GM DESIGN ITALYDal volontariato all’e-commerce, il valore di essere imprenditrice sociale
Mi piace definirmi imprenditrice sociale. Tutto ciò che faccio ha l’obiettivo di generare un cambiamento e di migliorare la vita delle per sone e dell’ambiente che mi circondano. Se in gioventù ero più idealista, oggi ho una buona dose di pragmatismo e ho capito l’importanza anche delle piccole cose purché fatte bene.
Per più di quindici anni ho lavorato nel terzo set tore con un approccio imprenditoriale convinta che, con i mezzi giusti, sia possibile risolvere molti problemi evitando situazioni di stallo e precarietà. Ho conosciuto il mondo del volon tariato a quindici anni, assistendo una ragazza cerebrolesa tre pomeriggi a settimana. Non ho avuto bisogno di una spinta o di una motiva zione esterna a me stessa per fare quello che facevo: convinta che l’esistenza, senza portare un contributo nella vita degli altri, non avesse senso.
Ho seguito diversi progetti di imprenditoria sociale, soprattutto a Roma, dove ho vissuto per qualche anno. In particolare, ho ope rato in una casa-famiglia che ospitava donne di diversa estrazione sociale coinvolgendole nella creazione di un catering multietnico. Questo progetto ha funzionato bene finché era gestito con una mentalità imprenditoriale, anziché assistenziale. Purtroppo queste pro gettualità falliscono nel momento in cui ciò che si fa è teso a gratificare sé stessi piuttosto che a emancipare gli altri. E invece solo così i progetti possono avere successo e produrre un fatturato con cui pagare gli stipendi degli operatori. Non esiste un’attività del terzo
settore che funzioni interamente di donazioni e tempo “regalato” dai professionisti. Si devono portare competenze in modo organizzato e queste competenze vanno valorizzate anche a livello economico. Per me l’essenza dell’im prenditoria sociale è permettere ai tuoi bene ficiari di emanciparsi grazie al tuo aiuto. Si può applicare questo approccio anche in un’attività non propriamente sociale. Il benessere dei dipendenti, i loro compensi, l’ascolto delle esi genze impattano sulla società e sull’economia creando valore.
Design Italy è nata con l’idea di portare pic cole realtà manufatturiere italiane ad aprirsi su nuovi mercati nel mondo dell’arredamento. A loro diamo quel supporto tecnologico o con sulenziale che permette di farsi notare al di fuori del proprio territorio e alle volte persino dell’Italia. Così facendo consentiamo loro di far conoscere i prodotti su mercati che altrimenti non avrebbero modo di approcciare, per man canza di forza lavoro o di competenze digitali.
L’abbiamo fondata tre anni fa io e mio marito Roberto Ferrari e nel creare il catalogo e-com merce abbiamo scelto il settore che più ci pia ceva: il design contemporaneo, che per noi rappresenta al meglio l’eccellenza italiana nel mondo dell’arredo, non solo per la capacità di produrre oggetti belli e di qualità, ma anche per il processo di progettazione.
Digitalizzare le imprese in modo profittevole non è una cosa semplice, al contrario di quanto si dica, altrimenti non avremmo raccolto
centotrenta aziende sul nostro portale. Non basta comprare un dominio su Aruba e inserirvi delle informazioni per digitalizzarsi. Servono delle competenze specifiche che vanno appli cate con cura, come per qualsiasi tipo di atti vità imprenditoriale.
Ora la nostra attività è a Milano, dove viviamo, ma io sono nata a Napoli anche se non ci vivo da quasi trent’anni. Sono stata a Roma e poi a Londra, seguendo mio marito che si era trasfe rito per lavoro; poi siamo stati a Ginevra prima di tornare in Italia, di nuovo a Roma.
Nella maggior parte dei casi sono le donne a seguire i propri mariti in giro per il mondo, quasi mai il contrario. Per andare a Londra con mio marito ho lasciato un lavoro che mi piaceva moltissimo, ma l’ho fatto per amore e per Londra stessa, dove avevo in mente di svi luppare un progetto. Poi sono nate le mie due figlie e mi sono dedicata alla famiglia.
Purtroppo il mondo del lavoro offre ancora più opportunità agli uomini che alle donne, anche se qualche piccolo cambiamento è in atto.
In Design Italy l’80% del team è donna. Mio marito a volte mi dice bonariamente: “Ci sono troppe donne in azienda” e io gli rispondo: “Secondo me non abbastanza”.
Non credo esistano ricette di vita, ma sicura mente è fondamentale l’indipendenza econo mica e psicologica delle donne. Va benissimo essere moglie e madre, a patto che questo ci soddisfi. Anche io ho avuto un periodo dove ho fatto la mamma e basta, e l’ho trovato comunque gratificante, l’importante è non farsi influenzare dalla società e dalle persone che si amano. Se non si è consapevoli di ciò che si vuole ci si fa imbrigliare dalle regole e si hanno sempre dei rimpianti.
Viviamo in una società che è ancora troppo per meata di vecchi modelli culturali. Alle donne è affidata la cura dei figli, degli anziani, dei malati ma la società, e di conseguenza loro stesse, tendono a nascondere il proprio dolore, anche fisico, la stanchezza, poco riconosciuta anche sul lavoro. Le donne non si lamentano abba stanza e spesso il dolore viene riconosciuto come un valore, invece non lo è per niente.
I B.Liver sono adolescenti e giovani adulti che hanno incontrato lungo il percorso una diagnosi di malattia grave o cronica e che, attraverso le attività del Bullone, contribuiscono a cambiare la percezione e la narrazione della malattia alle quali siamo abituati. Con loro parliamo di cur riculum vitae, legge 104 e lavoro. Perché la vera diversity passa attraverso l’inclusione spontanea di categorie protette in azienda, assunte non per fare numero, bensì per il loro grande valore aggiunto.
Chi è Antonio Ferrazzano, ci racconti la tua storia?
Sono un ragazzo di ventidue anni, ho origini pugliesi ma vivo e lavoro a Milano. All’età di sei anni ho iniziato ad avere alcuni problemi di salute: mi sentivo sempre stanco e faticavo a mantenere l’equilibrio mentre cam minavo o giocavo con i miei compagni di scuola. I miei genitori capirono che c’era qualcosa che non andava e mi portarono all’Istituto dei Tumori di Milano, dove mi è stato diagnosticato un tumore al cervelletto e dove poco dopo fui operato d’urgenza. L’intervento com promise molte delle mie capacità psicomotorie. Non ero più in grado di parlare, camminare e respirare li beramente. Oltre alle cure destinate a contrastare la malattia dovetti sottopormi a diverse terapie riabilitati ve di neuropsicologia, logopedia, psicoterapia, psico motricità e fisioterapia. Grazie all’impegno che misi in queste cure, nel tempo tornai a muovermi autonoma mente e vidi un miglioramento anche nell’uso del lin guaggio. Pian piano ripresi a vivere andando a scuola e riempiendo le mie giornate con il calcio, l’oratorio, la fisioterapia e le attività presso la redazione del Bullone. Inoltre, da circa un anno lavoro presso un punto ritiro dell’Alveare che dice Sì!
Di cosa si occupa l’Alveare che dice Sì!? E in cosa consiste la tua mansione?
ANTONIO FERRAZZANO
Intervista a cura di Eleonora Prinelli foto di Stefania Spadoni
Si tratta di un network che mette in relazione produtto ri locali e consumatori al fine di incentivare il consumo di prodotti biologici e a chilometro zero. I clienti fanno la spesa on-line e una volta alla settimana la ritirano in uno dei vari punti ritiro sparsi per il territorio. Io mi occupo di gestire gli ordini e contattare i produttori, e un pomeriggio alla settimana lavoro al punto di di stribuzione. Prima arrivano i produttori a consegnare i prodotti, che noi impacchettiamo e prepariamo per la
consegna. Poi accogliamo i clienti che vengono a riti rare la spesa. Possiamo anche consegnare a domicilio, ma la maggior parte delle persone preferisce venire qui perché si crea un’occasione di relazione e convivia lità, come in una grande famiglia.
Ci racconti come hai iniziato a fare questo lavoro? Dopo le cure ho iniziato a sottopormi a delle sedute di osteopatia per dei problemi alla schiena. Così nel 2014 ho conosciuto Roberta, la mia osteopata. Le ho rac contato la mia storia e nel tempo siamo entrati in con fidenza. Dopo il diploma sono rimasto fermo due anni perché non trovavo lavoro, poi il Covid ha peggiorato ulteriormente la situazione. Circa un anno fa, Roberta, che aveva preso a cuore la mia situazione, mi ha pro posto di lavorare al punto ritiro che avrebbe istituito apposta per me presso lo studio di specialisti nel quale opera, lo Studio Hope. D’allora mi sono appassionato sempre più a questa mansione, soprattutto per l’aspet to relazionale: lavorare a contatto con le persone mi dà tanto. Inoltre, Roberta ha pensato ad un lavoro che venisse incontro alle mie esigenze di salute, in cui non dovessi fare sforzi con la schiena, camminare o stare molto in piedi. Qui posso stare seduto per la maggior parte del tempo e posso gestire parte del lavoro anche da casa. Quando hai vissuto un’esperienza di malattia come la mia devi imparare a misurare le tue capacità, ed è fondamentale che il lavoro sia calibrato su di loro.
Quanto è stato importante per te intraprendere questa nuova strada?
Mi ha cambiato la vita. Lavorare ed essere indipen dente mi aiuta tantissimo e mi fa sentire realizzato. Se penso che quando ero malato non riuscivo più a fare molte cose, tra cui scrivere, e oggi invece sono qui a parlare con voi del mio lavoro, mi sento davvero felice.
Certo, ho dovuto faticare molto per migliorare la mia situazione, altrimenti non sarei qui. Ci vuole molta forza di volontà: se ti butti giù alla prima difficoltà e passi le giornate sul divano (come ho fatto io per alcuni anni dopo la scuola) non ne esci fuori. Il lavoro è stato lo strumento che mi ha permesso di combattere la tristez za e uscire di casa. Il fatto di relazionarmi con le per sone è stato fondamentale per la mia crescita. Prima mi esprimevo male e non usavo la giusta terminologia, pian piano ho imparato a fare anche questo. L’Alveare che dice Sì! è stata una bella scoperta in tutti i sensi. Da quando lavoro qui ho cambiato la mia alimentazione: ora mangio meglio e prediligo prodotti salutari che mi fanno stare bene.
C’è stato un momento in cui ti sei sentito particolar mente soddisfatto del tuo lavoro?
Sì, c’è stato un episodio in particolare che mi ha aiutato a superare un momento di difficoltà. Ero preoccupato di non riuscire a portare termine la procedura con uno dei produttori quando una cliente al punto ritiro mi ha confidato che, nonostante ne avesse un altro sotto casa, preferiva venire da me perché ero più gentile. Quel complimento mi ha fatto sentire subito meglio e mi ha dato la carica per affrontare diversamente le problematiche sul lavoro.
Secondo te perché hanno scelto proprio la parola “alveare” per questo servizio?
Personalmente mi piace pensare all’Alveare che dice Sì! come un luogo accogliente fatto di piccoli produt tori che, proprio come le api, vanno in giro per la città a distribuire il proprio “nettare”. Un posto dove si può comprare qualcosa di buono e conoscere nuove realtà. E dove ci si può sentire a casa.
Alessio Setaro
LEROY MERLINLa barca a vela, una palestra per la cybersecurity
Amo portare sul lavoro gli insegnamenti che mi offre il mondo dello sport, al quale sono molto appassionato. Che sia individuale o di squadra, infatti, qualsiasi attività che preveda una sfida mi permette di imparare qualcosa di nuovo su me stesso e sul mondo che mi cir conda. Mi piace anche affrontare le sconfitte, consapevole di poterle trasformare pian piano in vittorie o in modelli di apprendimento.
Di recente ho pubblicato un articolo su Linkedin che illustra il parallelismo tra la cybersecurity e la barca a vela. Vi chiederete cosa unisca due ambiti così lontani, eppure ci sono moltissimi punti di connessione. Io sono istruttore di vela sportiva e ho fatto lo skipper per diversi anni. La gestione delle persone e delle situazioni emergenziali in barca a vela è l’elemento fon dante affinché l’uscita abbia esito positivo. In quanto skipper io ero responsabile dell’incolu mità della barca e di coloro che erano a bordo. E proprio come nella cybersecurity, il mio ruolo era quello di proteggerli.
In vela ho appreso moltissimo sulla gestione dei gruppi. Ogni volta che intraprendi un nuovo viaggio, su una barca che non è tua e con persone che non conosci, devi fare veloce mente un assesment per capire se puoi lasciare il porto e fino a che punto puoi assumerti dei rischi. Inoltre, devi gestire delle persone che
sono lì per divertirsi, ma in una situazione potenzialmente piena di pericoli: un guscio di plastica galleggiante in mezzo a un elemento che non puoi controllare, il mare. Eppure, è importante che chi sta a bordo non abbia questa percezione. Lo skipper deve prendere decisioni rapide, saper dire di no, cercare di mediare gli estremi per creare l’armonia a bordo e dare la giusta attenzione a ciascun membro dell’equipaggio. In barca, infatti, il malessere si trasmette molto più rapidamente del benessere: è fondamentale che ognuno si senta parte integrante del gruppo, con un ruolo e una funzione precisi. Per questo motivo a volte è necessario persino prendere delle decisioni drastiche e sbarcare alcune persone. Tutto ciò offre spunti di riflessione importanti anche sul mondo del lavoro e sulla strategia migliore da attuare con il proprio team. Proprio come i controllori di volo, che gestiscono le emergenze con estrema calma e formalità, così deve fare il responsabile di un gruppo in caso di attacchi cibernetici.
Ricordo bene quando feci il mio primo ormeg gio da skipper sull’isola croata di Curzola, con una barca di quattordici metri. Sembrava tutto calmo, ma una volta arrivati davanti al porto si alzò un gran vento di traverso al porto (l’incubo di tutti i marinai di vela). Di solito l’ormeggio coinvolge più persone, ma non le conoscevo
bene e non volevo metterle in pericolo, così decisi di gestirlo da solo. Mentre ci stavamo avvicinando al porto gli altri membri dell’equi paggio decisero di mettere la musica di Maria Callas… In quella situazione estrema, al limite fra il dramma e il ridicolo, ripetevo nella mia testa tutti i passaggi della manovra, mante nendo la calma e il sorriso davanti agli altri. A un certo punto mi ritrovai ormeggiato con l’e quipaggio e gli addetti del porto che mi face vano i complimenti. In quel momento concitato pensai che aggiungere tensione all’equipaggio avrebbe complicato le cose sia a me che a loro. Questo è fondamentale anche nella gestione di un cyberattacco in azienda, soprattutto all’i nizio della crisi, quando non c’è ancora un’or ganizzazione ben definita. In quegli istanti si prendono le decisioni che possono salvare il business, oppure quelle che possono compro metterlo definitivamente.
esperienze al di fuori del lavoro. Io ho scelto di farlo con lo sport, sin da prima della nascita di mio figlio, quando partecipavo alle gare di endurance, come la Spartan race. Si tratta di gare sulla lunga distanza, in cui è necessario centellinare l’energia per correre, per esempio, cento chilometri con quaranta ostacoli. Quelle sono gare dove non partecipi per vincere ma per misurare il tuo livello. Devi gestire il sole, il caldo, i calli che ti si aprono sulle mani e tro vare soluzioni alternative lungo il percorso. Paradossalmente, tutto ciò alla fine si traduce in un benessere fisico e mentale incredibile. Sport diversi offrono anche diversi insegna menti. Di recente sono stato a Malaga per seguire un corso di padel, altra mia grande passione degli ultimi tempi. In quell’occasione ho avuto modo di confrontarmi con un istrut tore che fa questo mestiere da trentadue anni.
Alle Baleari, in un’altra occasione, evitai lo scontro con un’imbarcazione quando ebbi l’in tuizione di spostare i parabordi e far reggere tutti alle cime durante l’ormeggio. Quello fu un esempio di risposta proattiva: prendere delle decisioni sulla base di ciò che prevedi possa accadere. Può sembrare un eccesso di zelo, ma è ciò che fa la differenza in caso emergenziale.
Le mie formazioni di vela si sono sempre basate sul metodo induttivo, che io amo particolar mente e che applico anche sul lavoro. Consiste nell’indurre all’errore l’allievo in un ambiente controllato, al fine di farlo crescere. Lo utiliz zano anche la scuola velica francese e quella neozelandese, secondo le quali non esiste un solo modo per fare qualcosa, ma ne esistono tanti per scoprire cosa non si può fare. Il trucco sta nel provarci. Se ci si riesce si è trovato un metodo, altrimenti vuol dire che quella cosa non poteva funzionare. La pigrizia è il nemico del capitano: in barca si devono anticipare più mosse possibili e creare un piano, anche se poi potresti non aver bisogno di applicarlo. Si deve sgombrare il campo da quello che è noto per concentrarsi sull’ignoto, così quando sarà il momento l’energia mentale sarà libera di occu parsi dell’imprevisto.
Vale sempre la pena di arricchire le proprie
Dopo dieci minuti di gioco one-to-one, mi ha detto che facevo un errore: cercavo di preve dere troppo quello che avrebbe fatto la pallina. Imparai quindi che quello che funzionava in vela o nella cybersicurezza non poteva funzio nare nel padel. Non avevo ancora un bagaglio di esperienza tale da permettermi di preve dere davvero quello che sarebbe successo, quindi non aveva senso giocare in modalità preventiva. Prima dovevo concedermi il lusso di aspettare, osservare e sbagliare. L’istruttore mi disse: “Se giochi sempre in modalità pre visionale, magari salvi la partita, ma non hai imparato niente”.
Anche con i miei collaboratori junior cerco di seguire un metodo che permetta loro di sba gliare e che stimoli il confronto tra noi. Il più delle volte, imparo qualcosa di nuovo io stesso, perché guardo le cose da un nuovo punto di vista insieme a loro. Poter sbagliare è un lusso ma è fondamentale, perché è l’unico modo per acquisire insegnamenti di valore. Se hai la for tuna di lavorare in un’azienda che ti concede questo lusso ovviamente è un grande vantag gio. Altrimenti, puoi sempre costruirti un baga glio di esperienze all’esterno, dove non c’è l’esigenza di performance richiesta dal lavoro e dove puoi permetterti di sbagliare.
L’ISTRUTTORE MI DISSE: “SE GIOCHI SEMPRE IN MODALITÀ PREVISIONALE, MAGARI SALVI LA PARTITA, MA NON HAI IMPARATO NIENTE”La storia di Alessio
Direct sales officer SOCOMEC
Angelo La Bruna Sport, musica, vita: tutto è fonte d’ispirazione
A lavoro mi piace definirmi al servizio di clienti, collaboratori, prodotti e possibili problemati che ad essi collegate. Sono molto flessibile nel rapporto con gli altri, mi considero un buon amico e sono pronto ad aiutare nel momento del bisogno. Il problema è quando le decisioni riguardano me, a quel punto vado in crisi. Sono un bravo consigliere degli altri ma un pessimo consigliere di me stesso. Riconosco di essere incline ai vizi. Mi rendo conto che nella vita di tutti i giorni potrei fare a meno di alcuni di questi, ma allo stesso tempo non ho nessuna intenzione di privarmene. Il lavoro va sempre affrontato in maniera seria e respon sabile ma è anche giusto sapersi divertire. Le mie tre parole sono infatti: motivazione, divertimento e amore. Se fai un lavoro che ti motiva, cambia il colore della tua giornata e anche quello della tua professione. Alla fine, l’80% della nostra vita la passiamo lavorando.
Ho un carattere decisamente impulsivo, e questa cosa non sempre è facile da inserire in un contesto professionale. Tuttavia, lavo rando tanto su di me nel corso del tempo
sono riuscito a maturare sia dal punto di vista lavorativo che personale. Potrebbe sembrare banale, ma contare fino a dieci aiuta davvero. E nonostante talvolta non riesca ancora a gestire il mio istinto esuberante, sono miglio rato molto.
Una parte fondamentale del mio lavoro risiede nella comunicazione e nel modo di relazionarmi con le altre persone. Vivo di rap porti, quindi il linguaggio è fondamentale. È necessario anche imparare a trasformarlo, a seconda di chi si ha davanti: ingegneri, instal latori e addetti alla manutenzione o ammini stratori delegati. Io stesso ho capito come farlo nel tempo, coniugando l’esperienza allo studio. Ci sono volte in cui la fortuna ti cade dal cielo, ma più di frequente bisogna conqui starsi il proprio spazio e ruolo. Prima di tutto è necessario studiare e prepararsi tanto, fare esperienza, essere capace ad ascoltare, impa rare da chi ne sa di più e, soprattutto, lavorare con i migliori. Vale in ufficio come nello sport: se vuoi diventare bravo in quello che fai devi sfidare chi è migliore di te.
Chi ha fatto sport a livello agonistico sa cosa vuol dire lavorare tanto. In passato mi sono dedicato sia al calcio che al pugilato. In entrambi i casi, se sfidi solo qualcuno che sei sicuro di battere non impari mai. Penso valga per tutti gli sport, ma il pugilato rappresenta la metafora perfetta: per un round di tre minuti è necessario allenarsi un mese intero. E una volta sul ring non sai comunque se vincerai, perché magari chi ti trovi di fronte si è allenato per molto più tempo di te. Per raggiungere un obiettivo, non importa quanto grande, dovrai sempre fare un gran lavoro di prepa razione. Nello sport ci sono molti esempi di campioni che per raggiungere un obiettivo sono stati disposti a sacrificare tanto. Uno dei miei idoli è Muhammad Ali, che rinunciò a un titolo mondiale pur di non andare in guerra a combattere per qualcosa in cui non credeva e contro qualcuno che in fin dei conti non gli aveva fatto nulla di male.
per me. Così, quando ci fu l’occasione, decisi di lasciare l’azienda per andare a fare un’e sperienza proprio nel commerciale, al fine di dimostrare a me stesso che ero in grado di ricoprire quella mansione. Con il tempo capii che in effetti me la cavavo bene. Il mio spi rito di iniziativa fu premiato: la stessa azienda che avevo lasciato mi richiamò per fare ciò che a quel punto era in linea con le mie caratteristiche.
In buona sostanza, pensavo che lavorare senza motivazione non avesse senso. E dunque feci delle scelte che mi hanno permesso di ritrovare il giusto stimolo e affrontare delle esperienze che mi hanno riportato proprio qui, nell’azienda dove mi trovo tutt’ora. A posteriori capisco le perplessità di chi non mi permise di fare ciò che avrei voluto fin dall’i nizio. Rileggendo la situazione con cognizione di causa, penso che tutto sommato il mio
VALE IN UFFICIO COME NELLO SPORT:
SE VUOI DIVENTARE BRAVO IN QUELLO CHE FAI DEVI SFIDARE CHI È MIGLIORE DI TE
Traggo ispirazione anche dalla musica, la colonna sonora che ha accompagnato ogni attimo della mia vita. Appena ho un secondo devo ascoltare qualcosa: rock and roll soprat tutto. E poi gli insegnamenti arrivano dalla vita stessa, specialmente quando ti pone davanti a delle difficoltà. Tutti noi viviamo esperienze che lasciano il segno, da un’infanzia vissuta non esattamente con l’età che si dovrebbe avere, a situazioni sfidanti in cui la vita è come se ti dicesse: “Bene, adesso fammi vedere come te la cavi!”. Quando succedono cose di questo genere, o lasci che la tormenta ti porti via oppure provi a reagire. Io sto cercando di farlo, senza arrabbiarmi o fare a pugni con il mondo, ma tentando di viverla al meglio per quanto possibile.
All’inizio della mia carriera c’è stata qualche incertezza. Cominciai come tecnico interno a Socomec (l’azienda dove lavoro ancora oggi), il che fu un vantaggio, perché mi consentì di crearmi un consistente bagaglio di abilità pratiche. Dopo qualche tempo mi resi conto che quel ruolo mi andava stretto e mi sentivo più adatto al commerciale, a contatto con il cliente. Tuttavia, l’amministratore delegato di allora pensava non avessi abbastanza espe rienza. Questa cosa, nonostante quel ruolo lo sentissi profondamente mio, fu vincolante
superiore avesse ragione: dovevo mettermi alla prova per capire di cosa fossi capace. Così dimostrai a me stesso e all’azienda che effetti vamente ero in grado di ricoprire il ruolo che ho oggi.
Penso sia troppo semplicistico affermare che se qualcosa ci fa stare male sia giusto pren dere un’altra strada. Non è così semplice, né sul lavoro, né nella vita privata. Uscire dalla propria comfort zone e andare a fare qualcosa per cui non si è portati ci frustra il doppio. Lo stesso vale per le relazioni di coppia, c’è chi resta assieme per il bene dei figli o perché non ha il coraggio di abbandonare un “porto sicuro”. Non mi sento di condannare questa visione. La vita, il lavoro e le relazioni umane sono molto più complesse di quanto sembri. C’è una bellissima frase tratta dal monologo di Ivan Benassi, interpretato da Stefano Accorsi nel film Radio Freccia, che dice: “Credo che la voglia di scappare da un paese con ventimila abitanti vuol dire che hai voglia di scappare da te stesso. E credo che da te non ci scappi neanche se sei Eddy Merckx”. Possiamo arrabbiarci e andare contro ciò che pensiamo non faccia per noi, ma alla fine facciamo fatica a lasciare ciò che è parte di noi. Solo con il tempo possiamo ascoltarci e capire cosa vogliamo veramente.
Gli opening speaker dei forum di Richmond Italia sono persone speciali. Hanno alle spalle metodo, esperienza, cose da dire, da mostrare, da raccontare. Ma soprattutto hanno voglia di farlo e di condividere la propria visione del mondo. VOP Very Open People è un nuovo spazio fisso di Reach magazine dedicato alla loro passione e al loro spes sore. Tirate fuori gli smartphone e scansionate il QR code: potrebbero sorprendervi più che degli effetti speciali.
LA CURIOSITÀ SALVERÀ IL MONDO
MAURO PORCINI Chief Design officer PepsiCo(…) Una delle caratteristiche principali per ogni innovatore, imprenditore e ogni persona che voglia fare qualcosa di rilevante nel mondo è sicuramente la curiosità. Questa capacità di osservare la realtà che ci circonda con quegli occhi costantemente sorpresi, con gli occhi del bambino, del fanciullo.
IVANO RUSSO Direttore generale Confetra(…) La sostenibilità è uno degli architravi intorno al quale costruire il rilancio della logistica italiana, insieme alla transizione digitale. Sostenibilità vuol dire tante cose, vuol dire emissioni, soste nibilità sociale, ambientale, economica. C’è biso gno anche di una cultura dei consumi che aiuti una logistica sostenibile.
TASSONOMIA PORTAMI VIA?
Dal greco taxis (ordinamento) e nomos (rego la), una tassonomia è un elenco di attività che segue un razionale per il loro inserimento. È un po’ come far parte di un club esclusivo. Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. Solitamente, la partecipazione a questo “club esclusivo” porta dei van taggi, se non altro di immagine e di relazione. Lo scorso 2 febbraio, la Commissione europea, dopo una gestazione piuttosto lunga e complessa, ha varato la cosiddetta tassonomia degli investimenti verdi. Una lista di attività che, secondo quanto scritto dalla stessa Commissione nel comunicato stampa di presentazione, “intende guidare gli investimenti dei privati verso attività che sono necessarie per il raggiungimento della neutralità climatica”. Se la gestazione è stata lunga, il parto della tassonomia ha comportato un travaglio lungo e pieno di conseguenze per il futuro. Francia e Germania, infatti, hanno chiesto con grande insistenza l’inserimento degli investimenti nel nucleare e nel gas naturale all’interno dell’elenco. Non sorprendentemente, ci sono riuscite. Oggi, quindi, certi investimenti nelle tecnologie legate al nucleare e al gas naturale vengono considerati atti a contribuire alla neutralità climatica. Sul nucleare si è già scritto su queste colonne: certamente le centrali non emettono climalteranti ma pongono grandi problemi per il trattamento delle
scorie; le tecnologie legate al gas naturale pongono il problema dello stoccaggio dell’anidride carbonica, prodotta nel processo di combustione del metano. Essa può essere conservata in appositi depositi in superficie ovvero iniettata nel sottosuolo. Non è difficile immaginare cosa potrebbe succedere in caso di guasto ad un deposito di stoccaggio o di movimento tellurico del sottosuolo.
Comunque, sono ormai chiare le regole per entrare nel club esclusivo degli investimenti verdi, la cui tessera di appartenenza comporta il vantaggio di poterli classificare come ESG, acronimo di Environmental, Social and Governance. Quello degli investimenti ESG è un tema relativamente nuovo. L’idea di base è che si vadano a premiare le aziende che investono maggiormente nei tre pilastri: ambiente (da cui l’importanza di essere nel club della tassonomia), sociale (inclusione e neutralità di genere) e trasparenza nei meccanismi di comando. Più un’azienda investe in ESG, più sarà gradita ai consumatori e agli investitori professionali.
Il mantra per i prossimi anni sarà
I flussi di investimenti ESG sono in grande crescita: si parla di più di 35 trilioni di dollari all’inizio del 2020, con un incremento del 15% rispetto al biennio 2018-2020 e del 55% se si considera il quadriennio 2016-2020. Certamente la pandemia non avrà contribuito ad un grande sviluppo negli ultimi due anni (così c ome, purtroppo, i recenti sviluppi bellici in Ucraina) ma la tendenza è ormai chiara e ben definita. Il mantra degli investitori e dei consumatori per i prossimi anni sarà “più ESG per tutti”.
Quindi, ammodernare una vecchia centrale nucleare ovvero incrementare la produzione di energia per mezzo del gas naturale sarà considerata attività sostenibile e molti investitori (soprattutto del segmento “retail”, quelli non professionali e che non hanno una specifica formazione sul tema) sosterranno, in perfetta buona fede, attività che, se
ESG per tutti”
IL PUNTO DI MICHELE RUSSO
correttamente informati, potrebbero non gradire. Il tutto a scapito della volontà di investire, ad esempio, nelle rinnovabili vere e proprie. Parimenti, molte aziende potrebbero presentarsi ai propri consumatori come “ESG compliant” o “ESG friendly”, pur investendo solamente nel gas naturale e nel nucleare; estremizzando il paradosso, le aziende maggiormente attente all’ambiente potrebbero essere quelle che fanno il 100% dei propri investimenti nel nucleare e nel gas naturale.
Un cedimento da parte della Commissione europea?
Considerazioni di business per il nucleare (la tassonomia permette “modificazioni e miglioramenti alle centrali esistenti fino al 2040”, in un panorama in cui le centrali francesi hanno necessità di enormi investimenti per il prolungamento della loro vita utile)? Considerazioni geopolitiche per il gas (la Germania ha bloccato la certificazione del gasdotto North Stream 2 dalla Russia solo dopo l’invasione dell’Ucraina)?
Probabilmente, la risposta corretta è un misto delle tre considerazioni, nessuna delle quali sembra appartenere ad una logica di salvaguardia dell’ambiente.
Con quel pizzico di ironia che talvolta caratterizza le vicende umane, solamente venti giorni dopo, l’adozione della tassonomia, il Parlamento italiano
approvava in via definitiva, con una maggioranza superiore ai due terzi dei suoi componenti e, quindi, senza necessità di referendum confermativo, una legge costituzionale che modificava gli articoli 9 e 41 della Carta, stabilendo principi di tutela dell’ambiente e degli animali.
In particolare, l’articolo 9 introduce la tutela anche dell’interesse delle future generazioni ed il 41 aggiunge ai già noti limiti all’iniziativa economica (contrasto con utilità sociale, sicurezza e libertà) anche quelli di salute ed ambiente. Non una novità per le Costituzioni europee: quelle scritte nell’immediato dopoguerra non prevedevano alcun riferimento all’ambiente al contrario di quelle più recenti (Spagna, 1978); molte delle “vecchie” sono state, però, modificate (Olanda 1983, Germania 1994 e Francia 2005).
Modifiche forse inutili se la tassonomia della Commissione non pone i paletti giusti. Insomma, cara tassonomia, non portarci via il sogno e non farci sorprendere dalla nostalgia di quello che non c’è stato mai…
MICHELE RUSSO ha ricoperto ruoli dirigenziali in diverse aziende industriali ed è stato senior banker della filiale italiana di una primaria banca internazionale. Attualmente è partner della società di consulenza Epta Prime.
Contenuto a cura della redazione di The Map Report. The Map Report è un magazine di Media Trade Company dedicato ai temi della sostenibilità, della responsabilità sociale e dell’innovazione. Si articola in un periodico cartaceo, un website di informazione quotidiana e un palinsesto tv visibile sul canale 513 di Sky.
Enrico Maresca
CISO ITALO
Quando puoi contare solo su te stesso le soddisfazioni sono più grandi
Il mio percorso è iniziato con un po’ di diffi coltà, perché mio padre ci ha lasciati quando io avevo dodici anni e mio fratello nove. A diciott’anni mi hanno mandato a fare il militare e da allora ho sempre lavorato per permet termi gli studi universitari in Ingegneria infor matica: un po’ facendo panini al McDonald’s, un po’ suonando come bassista in varie band. Questo sicuramente mi ha rafforzato molto. Ho imparato ad affrontare le difficoltà e a interfacciarmi con le persone più disparate. Vivendo a Napoli non era sempre facile, ho avuto amici che si sono trovati in brutte situa zioni. Molti anni della mia vita li ho passati così: lavorare-studiare-lavorare, rinunciando molto alla vita sociale.
Tutto questo fin quando non mi sono trasfe rito a Roma a ventotto anni e ho iniziato i primi lavori come sistemista junior. Mi è sempre pia ciuta la sicurezza informatica e il mio primo lavoro serio in questo settore fu con Almaviva: gestivo la piattaforma antivirus, antispam e i certificati digitali. Lavorai con loro per sei anni, nei quali mi resi conto di aver appreso molto
a livello tecnico e di essere “skillato”. Quando arrivò un’opportunità da Milano decisi che era giunto il momento di provare con la carriera manageriale.
Uno dei primi messaggi che mi sento di lan ciare è proprio questo: non essere statici. Abbandonare la propria comfort zone è l’u nico modo per crescere adeguatamente. Non bisogna dimostrare nulla, ovviamente non si tratta di una gara, ma se si vuole crescere nel proprio lavoro è un passaggio necessario. Bisogna imparare dalle difficoltà insomma. Quando mi sono trasferito ero già grandicello e non è stato facile, per fortuna sono stato aiutato molto dai colleghi. Banalmente non sapevo fare una presentazione e avevo dif ficoltà ad interfacciarmi con un manager più senior. Avendo sempre fatto il tecnico non ero preparato a questo genere di cose. Ho dovuto imparare a trasmettere i messaggi in un certo modo e a dialogare con i vari livelli del business.
A 36 anni (e non capita a tutti) mi è stata
offerta l’opportunità incredibile di lavorare per Italo come capo della sicurezza informatica. Di solito sono ruoli che non affidano a persone giovani, invece per mia fortuna ho ricevuto molto aiuto e molta stima, anche da chi all’ini zio era un po’ restio.
La sicurezza nel mondo IT può spaventare perché viene vista più come un ostacolo che come un aiuto, invece è il contrario. Ci sono persone che da subito iniziano a collaborare bene, altre che hanno bisogno di un po’ di tempo, altri che invece per partito preso deci dono di fare ostracismo. Con il mio team è andata bene. Alla fine, il messaggio impor tante credo sia imparare a non abbattersi nei periodi più bui. Ci sono stati momenti difficili nella mia vita, come quando non avevo i soldi per pagarmi l’università. Tuttavia, se ti dimo stri volenteroso, le condizioni di partenza non contano. Certo ci vuole un pizzico di fortuna, come in tutte le cose, ma si dice anche che la
di lavorare proprio lì. L’importante è fare ciò che piace, ognuno ha ambizioni diverse e va bene così.
Io, dopo aver fatto il tecnico, sentivo l’esigenza di gestire un team e di trasmettere quello che avevo imparato. Quando ero agli inizi della mia carriera, infatti, avrei voluto ricevere una mano per imparare ad andare più veloce. Il nostro settore è molto meritocratico, molto più di altri, perché la competenza è tutto. È un ambito in forte espansione, che guarda al futuro, all’intelligenza artificiale, al machine learning. Ci sono molti campi stimolanti, detto questo, ci si ferma dove si preferisce. La car riera non deve essere una malattia…
Mio padre era capo programmatore della Guardia di Finanza, pertanto io a cinque anni programmavo già in GW-Basic. È stato lui a trasmettermi questa passione. Da circa un anno insegno presso accademie e università
fortuna aiuti gli audaci, no? Se credi in quello che fai, alla fine arrivi al risultato. Però devi essere disposto a sacrificare delle cose: io stu diavo di notte, alle sei del mattino mi alzavo e andavo a lavorare. Nessuno ti regala niente.
Inoltre, in un settore come il mio bisogna sapersi prendere le proprie responsabilità. Gli incidenti capitano, ma quando si tratta di sicurezza informatica e tu sei il responsabile, la colpa la puoi dare a chi vuoi ma torna sempre a te. L’incidente può capitare a tutti, ma lo si può rendere più improbabile. Noi in Italo lavo riamo proprio a questo: rendere il più difficile possibile attaccare i nostri sistemi. Se poi ti puntano c’è poco da fare, l’hacker pagato ha tutto il tempo del mondo per bucare il sistema.
Sul lavoro e nella vita serve essere resilienti. Sarà raro avere una mano tesa che ti aiuta, bisogna lavorare sodo. Io vengo da una zona di Napoli ahimé fin troppo conosciuta per via di Gomorra. Non sono mai stato ricco, anzi, ho vissuto in difficoltà economica per molti anni. A Napoli ci tornerei anche molto volen tieri, ma non ci sono opportunità, così come nel Sud in generale. Le grandi aziende hanno le proprie sedi principalmente a Milano e a Roma. Tuttavia, non è fondamentale cercare
private in corsi che spaziano dallo studio dei Framework e degli Standard di settore fino all’analisi delle tecnologie di Cyber Security.
C’è tanto bisogno di fare formazione ai giovani sul rispetto dei dati e sulla privacy. I ragazzi giocano in internet e vivono sui social, ma non sanno a cosa si espongano e quali rischi corrano. Le foto e i video possono fare il giro del web. Vanno istruiti dalle elementari, fin da quando hanno in mano il primo smartphone. Altrimenti, è come dar loro una macchina senza che sappiano guidare: è normale che facciano gli incidenti. Per questo bisogna inse gnare loro ad usare questo strumento in modo responsabile.
Ci tengo molto ai giovani e penso sia fonda mentale dare loro dei consigli, come quello di imparare a incanalare l’energia giusta nelle cose. Bisogna dire loro che nella vita è nor male commettere errori ma l’importante è avere dei buoni valori. Che bisogna sapersi fermare e ragionare su quello che si è fatto e si sta facendo. Bisogna saper essere autocritici in modo costruttivo, senza buttarsi giù. Anzi, forse è proprio questa la chiave, non solo nel lavoro ma nella vita in generale. È l’unico modo per prendere decisioni in modo intelligente.
CI SONO STATI MOMENTI DIFFICILI NELLA MIA VITA, COME QUANDO NON AVEVO I SOLDI PER PAGARMI L’UNIVERSITÀ STATALE. TUTTAVIA, SE TI DIMOSTRI VOLENTEROSO, LE CONDIZIONI DI PARTENZA NON CONTANOLa storia di Enrico
Alla scoperta della Festa dei Ceri, una festa antichissima che gode di ottima salute
La Festa dei Ceri, che qui vediamo nelle belle immagini di Paolo Tosti relative alla prima corsa dopo la pausa forzata per il Covid, tenutasi il 15 maggio 2022, è una delle più antiche in Italia ed è sentita da tutti gli eugubini. La sua origine pesca nella devozione per il vescovo Ubaldo Baldassini, morto il 16 maggio 1160.
Da allora, ogni 15 maggio, giorno della vigilia del lutto, i cittadini di Gubbio sfilavano portando ciascuno un candelotto di cera per le vie della città, fino al Monte Ingino, dove riposa il corpo del santo nella basilica che porta il suo nome. I candelotti di cera, offerti dalle corporazioni di Arti e Mestieri, divennero nel tempo tanto consistenti da renderne difficoltoso il trasporto e furono sostituiti verso
la fine del ‘500 con tre strutture di legno che nella loro forma originaria, sono arrivate fino ai nostri giorni. Qualcuno vede nella festa gli echi della festa pagana in onore di Cerere, dea delle messi.
I ceri sono tre enormi strutture in legno formate da due prismi ottago nali sovrapposti. La forma ricorda una clessidra, con una strozzatura centrale. La parte visibile del cero è costituita da tavolette in abete, fissate su una struttura centrale di olmo, mentre altre parti sono in faggio e in quercia. Sulle sommità vengono agganciate le tre piccole statue che rappresentano i Santi Protettori delle Corporazioni, Sant’Ubaldo per i muratori, San Giorgio per i
UNA TRADIZIONE MILLENARIA CHE OGNI ANNO SI RINNOVA, FRA DEVOZIONE, VIRTÙ CIVICHE E ORGOGLIO STORICO: LA CITTÀ NON È FATTA SOLO DI MURA E DI CASE, MA DI PARTECIPAZIONE A EVENTI COMUNITARI RADICATI ATTRAVERSO LE GENERAZIONI
commercianti e Sant’Antonio per i contadini. I ceri vengono assemblati solo in occasione della festa.
I protagonisti della festa sono i cera ioli, e ceraiolo può essere ogni citta dino di Gubbio di nascita o di diritto diventato. Per un eugubino, nella propria vita, è un motivo d’orgoglio poter portare il cero durante la corsa. L’appartenenza al Cero era in origine legata al tipo di mestiere e si traman dava di padre in figlio. Oggi la scelta del Cero è libera ma in realtà molto condizionata dalle tradizioni di fami glia, specialmente di quelle paterne sui figli maschi, futuri ceraioli. Quanti siano i ceraioli in ogni corsa è difficile dirlo, perché, oltre agli schemi tattici e alle tradizioni dei “casati” ceraioli,
molto è legato all’improvvisazione e alle necessità della corsa.
La corsa è fremente, impetuosa, una marea umana che si snoda nervosa fra i vicoli medievali. Capitani, alfiere e trombettiere a cavallo precedono al galoppo i Ceri. I Capitani dell’anno precedente danno il via. La folla esulta, irrompe in un grido corale, compatto, “Via ch’eccoli”. I Ceri oscillano paurosamente, sfiorando e spesso toccando mura e finestre. Con grande abilità e anni di esperienza i ceraioli si danno il cambio in corsa; riescono a prevenire incidenti gravi, pur scivolando e spesso cadendo, soprattutto in caso di pioggia. Il percorso che coprono i Ceri è di circa 4 chilometri e 300 metri. Esistono
alcune regole non scritte, ma irremo vibili: l’ordine della corsa è S. Ubaldo, S. Giorgio, S. Antonio. I Ceri non possono superarsi, e se un Cero cade, il Cero o i Ceri che seguono devono aspettare. Il Cero si ferma solo alle soste stabilite. I Ceri devono cor rere alla massima velocità possibile. L’obiettivo della festa è strettamente legato alla celebrazione del Patrono S. Ubaldo, questo è un tributo che anche gli altri due Ceri riconoscono. L’imperativo di ogni ceraiolo è quello di contribuire al successo della corsa e al rispetto delle regole. Fare una bella figura, evitare “pendute”, cadute e distacchi, avere una corsa spedita, superare le possibili difficoltà, sono i punti fermi della filosofia del ceraiolo.
LA FESTA DEI CERI È IL VERO TESORO DI GUBBIO, CAPACE DI RINSALDARE LO SPIRITO DELLA COMUNITÀ. UNO SPETTACOLO “SOCIALE” CHE LASCIA A BOCCA APERTA I FORESTIERI, LEGGERMENTE INVIDIOSI PER UNA PASSIONE COSÌ VISCERALE E COINVOLGENTE
Profit MEETS no profit
Collaborazioni fuori dal comune: Il Bullone e Tonki
“Sono sognatrice e viaggiatrice. Ricordo che da piccola volevo fare mille mestieri diversi, sperimentare il più possibile. Adesso ho uno sguardo più concreto e un punto di arrivo più definito. Però la voglia di sperimentare e cambiare è sempre lì, più forte che mai. Ed è la forza trainante che mi spinge a non fermarmi mai”.
Le storie migliori fioriscono dagli incontri più fortuiti. Le collaborazioni nate sotto la stella dei forum di Richmond Italia, tra la realtà sociale autrice di questo magazine, Il Bullone, e le aziende che partecipano agli eventi, sono preziose e meritano di essere raccontate. Costruire un ponte virtuoso tra mondo profit e no-profit è possibile!
I momenti che portano alle collaborazioni più inaspettate sono come piccole scintille. Scintil le che noi stessi, con azioni e forza di volontà, trasformiamo da piccole intuizioni in realtà con crete.
Abbiamo conosciuto Ruggero Frigoli, CEO di Tonki, nell’autunno del 2019 all’E-commerce forum di Richmond Italia, quando lo abbiamo intervistato per Reach. In quell’occasione ci ha raccontato di come la sua azienda sia nata da una storia d’amore: il viaggio in Inghilterra per raggiungere Alessandra, la sua ragazza, segnò l’inizio di tutto. Tra le varie peripezie di quell’av ventura low cost, Ruggero dovette ricorrere all’autostop, scrivendo la sua destinazione su un pezzo di cartone. Una volta raggiunta Alessan dra, le avrebbe regalato quel cartello improvvi sato e lei lo avrebbe utilizzato come cornice per una fotografia. Così è nato Tonki, l’e-commerce che vende cornici realizzate con fogli di cartone.
Al Bullone ci siamo innamorati di questa storia e dei valori del brand, così ci siamo chiesti se po
tessimo fare qualcosa assieme. Poco dopo è ar rivata la pandemia, con tutte le difficoltà che ha comportato e che conosciamo bene, ma questo non ci ha impedito di portare avanti una colla borazione che coinvolgesse la distribuzione del giornale scritto dai B.Liver, i ragazzi beneficiari della fondazione.
Per tutto il mese di settembre 2020, infatti, co loro che hanno acquistato un prodotto Tonki hanno ricevuto in omaggio una copia del giorna le, permettendoci di dare voce al nostro proget to sociale e raggiungere nuovi bacini di utenti. Così facendo, ben 1500 persone hanno ricevuto a casa una copia del Bullone assieme alla propria cornice Tonki.
A volte basta un piccolo gesto per fare la diffe renza e iniziare a costruire, un mattone alla vol ta, un ponte tra il mondo profit e no profit. La storia di Tonki ci ricorda come dietro a piccole azioni si nascondano possibilità inaspettate e momenti speciali, che vale la pena incorniciare. E noi lo abbiamo fatto.
Alessandro Franzese
CEO THE PAACThe PAAC è nata prendendo ispirazione da una scena di vita quotidiana. Stavo aspettando la mia ragazza mentre si preparava per uscire. Era lì, davanti a due armadi pieni zeppi di vestiti, quando pronunciò la fatidica frase: “Non ho niente da mettermi”. Un classico, soprattutto per le donne, ma anche per gli uomini. Questo episodio mi ha fatto riflettere sul nostro biso gno dinamico di esprimerci attraverso ciò che indossiamo. È un do desiderio che cambia nel tempo a seconda di come ci sentiamo, e l’abbigliamento è uno dei modi più imme diati che ci permette di esaudirlo. Non pos siamo rispondere a un bisogno dinamico con un guardaroba statico, dobbiamo reinventarlo e renderlo al passo delle esigenze dell’utente.
Questo bisogno il mercato l’ha risolto tradi zionalmente con il fast fashion: sessantotto capi l’anno acquistati in media da un utente, la seconda industria più inquinante al mondo e un capo usato in media solo sette volte. Non esisteva un servizio pensato a risolvere il pro blema, ma solo un metodo classico di acqui sto e utilizzo. Così ho ideato un servizio di abbigliamento dove l’utente potesse avere un guardaroba illimitato a noleggio, con una frazione, da una parte, del costo e, dall’altra, dell’impatto ambientale. Il parallelismo che
faccio sempre è quello con Netflix: offriamo un servizio di “utilizzo” nel mondo della moda.
Ebbi l’idea mentre andavo ancora in università e, in seguito, mi formai nell’ottica di dare vita a un progetto imprenditoriale. Lavorai prima all’estero e in varie startup, poi per un fondo di investimento svizzero tra Sudafrica, Filippine ed Inghilterra, e nel mentre continuai a studiare in giro per il mondo. Successivamente cercai di fare tesoro di tutte queste esperienze e delle capa cità che mi avevano lasciato, per imparare ad approcciare i problemi da prospettive diverse.
The PAAC è una piccola realtà nata durante lo scoppio della pandemia di Covid19, il che non è stato facile. Il servizio offre un grande valore aggiunto: un guardaroba da ventimila euro a cento euro al mese. Il che è molto interessante, se lo puoi usare. Ovviamente il periodo del lockdown non era il più propi zio al fine di coinvolgere gli investitori e por tarli a credere nel progetto. Per questo i primi mesi sono stati una vera e propria sfida. Basti pensare che siamo nati in smart working, una cosa quasi impensabile un po’ di tempo fa.
Tuttavia ce l’abbiamo fatta, perché la forza del progetto risiede specialmente nell’offerta
“Non ho niente da mettermi”, l’intuizione che ha dato vita alla mia startup
di una soluzione alternativa a quella del fast fashion. Spesso le persone non si rendono conto dell’impatto devastante che le loro scelte possono avere sull’ambiente. Per quanto sia comodo e conveniente comprare un prodotto a dieci euro, esiste una ragione per cui deter minati brand ne costano duecento. Non parlo del luxury, bensì dell’affordable luxury, cioè di un prodotto di buona qualità che ti permetta di usufruirne più a lungo rispetto a un capo estre mamente economico, ma di qualità inferiore, e prodotto senza rispettare le politiche del lavoro. Ognuno di noi può fare qualcosa, nel pro prio piccolo, per migliorare la situazione. Aprirsi a nuove soluzioni di consumo può essere un esempio per ridurre lo spreco di acqua e le emissioni di CO2 senza biso gno di fare scelte drastiche, come quella di non acquistare più capi d’abbigliamento.
È importante prenderci cura dell’ambiente e dell’ecosistema, ma non ci possiamo annullare. Abbiamo bisogno di esprimere la nostra indi vidualità indossando i capi che ci fanno sentire bene. Attraverso di essi trasmettiamo i nostri sentimenti, il nostro status symbol e tanto altro.
limitante per colui che lo deve concepire.
Ci sono alcuni brand che si stanno discostando dall’utilizzo del pellame, mentre altri – incen trati sulla sostenibilità – preferiscono usarlo certificandone l’origine. Di fatto, il pellame non è altro che un rifiuto speciale del manzo che viene consumato ogni giorno in grandi quan tità nel mondo. Anziché smaltirlo (affrontando anche costi ingenti), perché non utilizzarlo per la produzione dei capi e ridare vita a questi scarti preziosi? Il tema è veramente ampio e dipende da come ripensiamo il modo di consu mare: possiamo comprare meglio, oppure non comprare proprio, bensì usare ciò che ci serve e ci piace. Così facendo, soddisfiamo il bisogno di esprimere la nostra personalità staccandoci dall’idea di possedere un oggetto materiale.
La resistenza al cambiamento c’è, è naturale. Eppure, il Covid19 ci ha mostrato che è pos sibile cambiare le proprie abitudini, basti pen sare all’efficacia dimostrata dello smart working in questi anni. The PAAC è nata in smart wor king e oggi lavoriamo da posti diversi d’Ita lia: abbiamo la sede a Caserta, una parte del
Non possiamo limitarci a non comprare più. Esiste anche la possibilità di comprare l’usato, ma effettivamente il bisogno di base con cui è nato il fast fashion è: “Vorrei cambiare più spesso”. Da lì sono partito per progettare la mia startup e cercare di rendere il mondo fashion un po’ più sostenibile. Tuttavia, cambiare il modo di pensare e di agire delle persone non è scontato. È una delle cose più difficili da fare, approcciarsi a qualcosa che oramai è una rou tine per la popolazione.
Anche la sostenibilità va guardata attraverso uno sguardo più ampio oggi. Esiste un libro interessante su questo tema che si chiama Fashionopolis di Dana Thomas. Il capo comple tamente sostenibile non esiste. La produzione di cotone biologico, ad esempio, prevede un consumo di acqua sproporzionatamente mag giore rispetto al cotone tradizionale. Cos’è davvero sostenibile, quindi? I capi biodegrada bili, d’altro canto, sono oggetti estremamente sperimentali: per permetterne il riciclo devono essere mono-materiale, ma come è possibile esprimere la potenzialità di un capo con un unico materiale? È quasi impossibile, nonché
team a Napoli, una parte in Emilia-Romagna, un’altra in Piemonte e in Lazio.
Mi rendo conto che tali cambiamenti richie dono uno sforzo di immaginazione ed imme desimazione, cosa che l’essere umano rifugge per natura. Una volta strutturata una routine, perché distruggerla? Tuttavia, a volte c’è biso gno di stravolgere la regola per fare un passo più ampio in avanti. Una spinta verso la soste nibilità è necessaria, perché con le nostre scelte possiamo avere un impatto su milioni di persone nei paesi in via di sviluppo e sul pianeta stesso.
In fase di pre-lancio della startup – quando abbiamo iniziato la raccolta fondi (a febbraio 2020) – penso di aver ricevuto almeno un cen tinaio di no da parte degli investitori che avevo contattato. Capita, ma non bisogna buttarsi giù. Si deve osare, scommetterci sopra e cre derci fino in fondo. Ci vorrà ancora tempo prima che tutti cambino il proprio modo di vivere la moda. Tuttavia noi crediamo che l’utilizzo di un capo sganciato dal suo possesso mate riale possa davvero essere una nuova alterna tiva per il bene dei consumatori e del pianeta.
SODDISFIAMO IL BISOGNO DI ESPRIMERE LA NOSTRA PERSONALITÀ STACCANDOCI DALL’IDEA DI POSSEDERE UN OGGETTO MATERIALELa storia di Alessandro
senza rischio.
conseguirla.
tutta.
è farsi inibire
passare la mano.
e perdere, non vincere o perdere. Una lettera che cambia il senso ad una frase: la “o” implicitamente esclude una delle due opzioni, o si vince o si perde; la “e”, invece, dà più libertà di respiro e più libertà d’azione. Uno dei valori più im portanti che mi hanno insegnato è quello di puntare sempre in alto, ma raggiun gere quell’ “alto” significa puntare a qualcosa di unico e personale. Non si tratta di arrivare per primi alla vetta, non si tratta di una gara, non si tratta di mettersi in competizione con gli altri, ma di continuare a osare e continuare a superare i propri limiti.
Il mio “più in alto”, da quando ho memoria, è sempre stato il raggiungimento della realizzazio ne personale, una realizzazione che include più aspetti della vita, una realizzazione completa: l’essere soddisfatta di me stessa. L’inizio di questa scalata non è stato facile, a ogni gradino con quistato corrispondevano due gradini persi, vincere e perdere costantemente.
Recentemente ho conquistato uno dei gradini a cui puntavo da molto tempo, il raggiungimento della laurea. Quel gradino è stato anche il mio trampolino di lancio per entrare nel mondo del lavoro e per aggiungere un tassello a quel puzzle che raffigura la persona che disegno mental mente e a cui punto sin da quando sono bambina. La soddisfazione di quel giorno racchiudeva tanti sforzi vissuti singolarmente, ma tanti sforzi vissuti anche in gruppo. Vincere e perdere significa anche questo, significa affrontare da soli le difficoltà, ma saperle anche condividere; questo è quello che sto imparando e questo è quello che sto cercando di mettere in atto a livello lavorativo in Richmond. Ogni evento di Richmond Italia racchiude il lavoro di tante persone che nel loro singolo aggiungono valore al risultato, un risultato che rappresenta la voglia comune di puntare alla vetta.
Vincere per me significa sentirsi al posto giusto, sentirsi a posto con se stessi e con gli altri. Perdere fa parte della vittoria, significa averci provato realmente.
Carlotta Palazzini Operation managerProvo a essere soddisfatta di me stessa, un gradino dopo l’altro
Gli opening speaker dei forum di Richmond Italia sono persone speciali. Hanno alle spalle metodo, esperienza, cose da dire, da mostrare, da raccontare. Ma soprattutto hanno voglia di farlo e di condividere la propria visione del mondo. VOP Very Open People è un nuovo spazio fisso di Reach magazine dedicato alla loro passione e al loro spes sore. Tirate fuori gli smartphone e scansionate il QR code: potrebbero sorprendervi più che degli effetti speciali.
FUTURO, VOCE DEL VERBO REINVENTARE
PAOLO IABICHINO
Creative director, board advisor e autore
(…) Il futuro della comunicazione deve essere reinventato partendo da degli assunti di base, che sono quelli di fare in modo che il nostro mestiere sia un mestiere elettivo, che serva a bonificare l’immaginario collettivo, che serva a creare dei patti di relazione fra persone e brand.
VERONICA DE ROMANIS
Professore di Politica economica europea Stanford University e Luiss di Roma
(…) Bisogna spendere bene, bisogna spendere presto, bisogna spendere in maniera onesta, per riprendere le parole del premier Mario Draghi. E bisogna ovviamente fare le riforme, è vent’anni che lo diciamo. Non lo abbiamo mai fatto, ma questa è un’occasione che non possiamo per dere. Senza le riforme sarà difficile trasformare il nostro sistema produttivo.
Emanuele Mazzia Piciot
Responsabile Ufficio tecnico e manutenzione ZEGNA BARUFFA LANE BORGOSESIA
Il rigore, il rispetto e la fiducia nel gruppo, la lezione di vita degli Alpini
Nella mia carriera aziendale c’è stato un note vole salto di qualità, perché sono passato da semplice elettricista manutentore a Energy manager e Responsabile della manutenzione e dell’Ufficio tecnico.
All’inizio vedevo l’azienda in cui lavoro come un mondo enorme e difficile, dove la mia principale paura era quella di non riuscire a inserirmi nel gruppo di lavoro. Inizialmente mi avevano chiesto di fare il tagliateste, cosa che mi mise estremamente in difficoltà. In realtà non si trattava di licenziamenti ma solo di ricol locamenti all’interno dell’azienda, mansione per la quale feci un grande lavoro one-to-one con ogni dipendente del gruppo per capire le rispettive capacità e necessità. Così si può dire che sia stato io stesso accompagnato e aiutato a collocarmi in questo nuovo posto grazie alle persone, che ho trovato estremamente aperte e collaborative. Pian piano sono cresciuto e sono diventato responsabile di tutta la parte manutentiva. Penso che la Direzione mi abbia dato fiducia perché sia dentro che fuori dal lavoro sono sempre stato molto trasparente: io sono sempre io. Non sono né ingegnere né laureato, sono un semplice perito industriale. Ho trovato molto bello che abbiano creduto in me a prescindere dal titolo di studio. E poi questa mansione era il mio sogno.
In azienda come nella vita privata mi butto a capofitto nelle cose e ho diverse passioni.
Sono un Alpino, Capogruppo nel mio paese e Consigliere Sezionale della Sezione Alpini di Biella. Inoltre sono un musicista, suono da quando avevo sei anni. Ho fatto parte di varie band dei generi più disparati: rock, jazz e classica. Queste esperienze di vita mi hanno portato a capire più volte l’importanza del gruppo, e per questo mi preoccupo sempre che le dinamiche con le altre persone siano delle migliori. E poi io amo stare in mezzo alla gente. Quello è il fulcro: mi piace collaborare, e forse per questo vengo collocato in ruoli decisionali e organizzativi.
Che si tratti della gestione delle manuten zioni in azienda o dei compleanni a sorpresa per mia moglie – il mio pilastro – non mi tiro mai indietro. La festa che le ho organizzato l’anno scorso è stata un successo (eravamo in centotrenta amici) e l’ho organizzata in quat tro giorni. Tutto questo amore per la convi vialità, l’amicizia e il divertimento lo riporto anche sul lavoro. Nel mio ufficio la serietà è quasi vietata, ma allo stesso tempo c’è anche una grande sinergia nel gruppo. Si conoscono le debolezze e i punti di forza dell’altro e ci si aiuta vicendevolmente nel portare avanti obiettivi, progetti, sfide quotidiane.
Il mio compito al lavoro è programmare le risoluzioni. Risolvere i problemi lo si fa tutti insieme, con l’aiuto di ingegneri, consulenti, amici. Così facendo ho trovato le persone
che mi hanno fatto crescere ulteriormente in diversi settori: dall’edilizia e antincendio all’i draulica, dalla chimica alla depurazione delle acque e alla gestione di grandi cantieri, con la progettazione meccanica, elettrica e software. Tutte queste competenze mi sono tornate utili anche nel privato: per verificare la sicurezza nelle sedi degli Alpini, piuttosto che al Comune di Biella. In quei contesti sto collaborando da vicino con le varie associazioni ed enti locali per dare nuovi servizi alla popolazione.
Come dicevo, anche la musica ha un ruolo fondamentale nella mia vita. Suono diversi strumenti ma il trombone è il mio preferito, dato che lo suonavo anche quando facevo il servizio militare. All’epoca ero mazziere, ossia dirigevo i miei compagni nella Fanfara Alpina Taurinense dell’esercito. A volte ancora oggi mi chiamano per prestare servizio ai nostri raduni, concerti e rassegne musicali in giro per l’Italia. In queste occasioni inizio a suonare
continuiamo a restare per lo più nell’ombra, perché non comunichiamo abbastanza il nostro lavoro.
Forse solo oggi l’opinione pubblica inizia a conoscerci un po’ di più, complice il fatto che il Generale Figliuolo sia stato Commissario stra ordinario per l’emergenza Covid. Purtroppo il cappello dell’Alpino spesso viene associato allo stereotipo del montanaro che fa solo festa. In realtà, la maggior parte di noi è sempre in giro per l’Italia ad aiutare la popolazione.
Il corpo degli Alpini ha istituito anche Anffas, l’Associazione nazionale per le famiglie di per sone con disabilità intellettiva e/o relazionale. Negli anni Ottanta abbiamo realizzato una struttura (che tutt’ora manteniamo) per ragazzi e persone diversamente abili. Al suo interno si svolgono diverse attività, come artigianato, coltura di orti didattici e addestramento di ani mali dedicati alla pet therapy.
il sabato mattina e smetto solo la domenica sera con grande passione e senza mai sentire stanchezza, sempre con il sorriso sulle labbra.
L’esperienza militare mi ha forgiato, trasmet tendomi l’importanza del rigore, del rispetto e – di nuovo – del gruppo. Nel reggimento e soprattutto nella Fanfara si andava a casa una volta ogni tanto, ma tutti assieme. Là ho stretto dei legami fortissimi. Una volta termi nata la leva obbligatoria mi sono iscritto all’As sociazione Nazionale degli Alpini, che è nata con lo scopo di ricordare i nostri Alpini caduti nelle guerre e oggi vive per prestare il servi zio di protezione civile e di aiuto alle popo lazioni dopo disastri naturali, per coordinare operazioni di ordine pubblico o per aiutare le amministrazioni locali nell’organizzazione di feste, manifestazioni e sagre. In questi anni di pandemia ci siamo occupati degli hotspot per tamponi e vaccini. Là dove c’è bisogno di aiuto, conforto o manovalanza noi ci siamo sempre e ci rimbocchiamo le maniche finché non finisce l’emergenza. Esiste un documento, chiamato Libro Verde, che elenca tutte le ore e il denaro messi a disposizione dagli Alpini alla comunità che viene consegnato ai sin daci delle città dove operiamo. In realtà, noi
Abbiamo anche un monumento itinerante: una penna alta diciotto metri che viene por tata in ogni città ospitante i nostri raduni per ricordare il valore degli Alpini e comunicare un simbolo di unione. Sul monumento sono riportati i nomi di tutte le regioni d’Italia, scritti in grossi fasci di alluminio che si inter secano l’uno con l’altro. Al momento sto lavo rando affinché tra un paio d’anni l’Adunata Nazionale possa arrivare a Biella, la mia città.
Questa dedizione la porto anche sul lavoro, dove a volte perdo la cognizione del tempo e mi dimentico di mangiare. Alcuni mi ripren dono, dicendo che dò troppo all’azienda. In effetti, io non lo faccio per ottenere qual cosa, ma solo per me stesso. È anche vero che ci vuole un balance tra vita personale e lavoro, per questo cerco di non sacrificare mai il tempo che dedico alla mia famiglia o alle mie passioni. D’altra parte dormo poco, poiché da qualche parte il tempo lo si deve pur trovare…
Le difficoltà, così come le soddisfazioni, fanno parte della vita. Ma se le si accoglie con il sor riso diventano semplici passi che contribui scono a costruire la nostra crescita.
IL CAPPELLO DELL’ALPINO SPESSO VIENE ASSOCIATO ALLO STEREOTIPO DEL MONTANARO CHE FA SOLO FESTA. IN REALTÀ, LA MAGGIOR PARTE DI NOI È SEMPRE IN GIRO PER L’ITALIA AD AIUTARE LA POPOLAZIONE
Roberto Fiorentini
manager
Suono il pianoforte per ascoltare me stesso
Ho iniziato a studiare pianoforte a sette anni con un insegnante di musica, partendo dal solfeggio, la teoria musicale, i tempi, le bat tute, le note e gli intervalli. Facevo un’ora di musica presso l’insegnate e poi mi esercitavo a casa su un pianoforte verticale che avevano acquistato i miei genitori. Dopo una serie di passaggi molto didattici ho iniziato gli studi classici: Chopin, Mozart, le sonate…
Questa passione è nata come nascono le cose, naturalmente. Un giorno, da bambino, sono rimasto incantato dal suono del pianoforte. Lo noto tutt’oggi tra i più piccoli. Ce ne sono alcuni che restano indifferenti alla musica, altri che invece ne sono profondamente attratti. Si tratta di una forma istintiva di innamoramento. Qualcuno si innamora del pianoforte, qualcun altro del violino o di altri strumenti. Nasce in modo spontaneo e naturale.
Tuttavia, nella musica, come nella vita, i risul tati possono risultare difficili da mantenere nel tempo. Così studiai pianoforte per cinque anni finché non persi lo stimolo e abbandonai per un po’ lo strumento, continuando a suo nare solo come autodidatta. Nella didattica musicale, di solito, la disciplina e la teoria sono molto pressanti e stressano l’allievo. Questo fa sì che la persona se ne allontani perché, anziché essere un piacere, la musica diventa
frustrazione, paura e angoscia, anche là dove c’è un grande talento. In tanti si allontanano perché alcuni percorsi sono veramente diffi cili, pieni di regole e teorie, e si concentrano più sull’esercizio delle mani, che su un risultato sonoro veramente appagante per l’anima.
Questo rischio esiste dentro e fuori dal mondo musicale: soffoca i talenti perché l’approccio al talento è sbagliato. Quando il talento è rico nosciuto, infatti, non c’è bisogno di dimostrare la propria bravura o capacità. Essa si manife sta e riconosce naturalmente. Se l’esibizione di un brano musicale è sentita, e il musicista suona con vero trasporto, questo sentimento si trasmette anche a chi lo ascolta. Un conto è suonare un brano asetticamente, così come è scritto sullo spartito; un conto è suonarlo per il piacere dell’ascolto. Quando si suona così, non c’è bisogno di fare molto altro per tra sportare il pubblico nella stessa dimensione musicale. È un fatto di vibrazione e assonanza quasi fisica: questi oggetti iniziano a vibrare insieme perché sono in armonia tra loro. Si tratta di una delle esperienze più appaganti che io conosca.
È stato Valerio Silvestro – docente nonché affermato pianista jazzista di fama interna zionale – a farmi riscoprire il piacere di suo nare il pianoforte. Valerio Silvestro, con la sua
didattica musicale, ha rappresentato per me un vero e proprio mentore. Mi ha insegnato a trasformare la passione che sentivo dentro attraverso delle capacità che ancora non sapevo di possedere. Quando qualcosa piace e si sente nel profondo vale più di qualsiasi altra cosa. Se il tuo orecchio sente un suono che trasmette piacere, allora quel suono è perfetto. La regola è suonare quello che ti piace ascoltare, che poi si traduce in piacevo lezza anche per gli altri. Attraverso una serie di regole puoi impostare e armonizzare qual siasi tipo di brano in maniera autentica. Ho scoperto, nel tempo, che questo si traduce in un’efficienza incredibile, dal punto di vista pia nistico, in termini di velocità, creatività e sod disfazione. Tuttavia, per me la musica resta un ambito privato: suono per ascoltare me stesso.
Ciò che mi ha insegnato il pianoforte l’ho osser vato anche in ambito lavorativo: mi sono reso conto che quando le persone sono stimolate a
quello che gli riesce facile fare. Quando vedo che una persona ha un talento naturale per qualcosa nello specifico, cerco di indirizzarla e concentrarla su quell’attività. Così facendo non c’è bisogno di controllare i collaboratori, ma è sufficiente assegnare loro gli obiettivi e verificarne il raggiungimento. Di regola le per sone vanno ben oltre quello che gli si chiede. Concentrare la propria attenzione su aspetti specifici, senza divergere troppo, è infatti estremamente efficace. Se si vuole andare in profondità nelle cose, bisogna scavare sempre nello stesso punto, diceva un famoso jazzista. Una volta sviscerata la sostanza di ciò che si sta facendo, rimane come un patrimonio costante, che non si perderà mai.
Una cosa che spesso cerco di fare nel mio lavoro è risollevare l’immagine distorta che si ha del customer care e dei call center in gene rale. Esistono realtà, come la nostra, in cui l’o peratore ha specifiche competenze tecniche,
realizzare degli obiettivi utilizzando il proprio talento naturale, ottengono risultati incredibili. Risultati che a loro volta portano a una con dizione di grande felicità a catena sull’intera organizzazione.
Io mi occupo di salute, ambiente e sicurezza in Comdata, azienda leader di settore nel custo mer care che lavora con i grandi player delle telecomunicazioni, dell’energia e dell’ambito bancario. Solo in Italia conta 11.000 lavora tori, quindi ho a che fare quotidianamente con molte persone e ho la possibilità di tra durre positivamente la mia esperienza musi cale all’interno dell’organizzazione. Ascolto le persone per capire quale sia la loro naturale inclinazione sul lavoro. Non si tratta necessa riamente di trovare ciò che piace loro, bensì
informatiche, relazionali e di problem solving, ed è in continua formazione. Credo che sia giusto riconoscere la preparazione di questi lavoratori e l’importanza del lavoro che svol gono, che, peraltro, lo stesso governo ha con siderato essenziale durante la pandemia.
Penso che sia fondamentale umanizzare sempre e non giudicare le persone prima del tempo. Fiducia è la parola chiave che muove tutto, economia compresa. Se si crea un clima di fiducia reciproca in azienda, si riducono l’an goscia e lo stress e ci si sente più al sicuro. L’ho notato con l’avvio della pandemia: in quel periodo drammatico c’è stata una solidarietà incredibile nel trovare le soluzioni più rapide ed efficaci, in un clima di fiducia. La fiducia innanzitutto.
VALERIO SILVESTRO, CON LA SUA DIDATTICA MUSICALE, HA RAPPRESENTATO PER ME UN VERO E PROPRIO MENTORE. MI HA INSEGNATO A TRASFORMARE LA PASSIONE CHE SENTIVO DENTRO ATTRAVERSO DELLE CAPACITÀ CHE ANCORA NON SAPEVO DI POSSEDERE
VALORIZZIAMO
DIFFERENZA
Grandi speaker. Incontri b2b. Sessioni di coaching. Networking informale. Due giorni e mezzo di full immersion rigorosamente dal vivo pensati per affrontare il mercato con nuove strategie.
riflettere e condividere nuove visioni con partner e colleghi. Per liberare il proprio potenziale nelle partite che si stanno giocando oggi. Ci vediamo al Grand Hotel di Rimini.
Giuseppe Carrella. Opening speaker edizione Spring 2022THE BOOKMASTER
Rubrica a cura di Eugenio AlbertiStorie che sollevano il mondo
Il calciatore Garrincha. Il chitarrista Django Reinhardt. Il wrestler Maurice Tillet. Il com positore Ludwig van Beethoven. Il cantante Scatman John. L’artista Frida Kahlo. Il pianista Michel Petrucciani. Il pittore Henri de ToulouseLautrec. Il ballerino Valentin le Désossé. L’attore Marty Feldman. Il violinista Niccolò Paganini. Il principe Antonio de Curtis, in arte Totò. Il guer riero Egil Skallagrimsson. Tutti straordinari per sonaggi della storia, del cinema, della musica, dell’arte e dello sport, e tutti con qualcosa in comune: un’ombra di partenza che si chiama diagnosi, e che ha influenzato il loro cammino rendendo le loro vite formidabili. In alcuni casi le diagnosi sono state poste dopo, via via che la scienza ha messo a fuoco patologia ed effetti, piccoli casi di storia della medicina insomma. In altri, i diretti interessati si sono letteralmente reinventati mettendo a valore la loro meno mazione, la loro non-ordinarietà. Alcune storie sono note, altre meno. Tutte ci fanno riflettere su quanto l’animo umano sia una forza vigorosa capace di spostare i cursori del destino. Alla prima lettura di queste vite, raccontate sotto forma di acquerelli precisi e leggeri e con un agile apparato di risorse bibliografiche e web bografiche per chi volesse approfondire le vicende dei singoli personaggi, la sensazione è che i nostri eroi siano formidabili nonostante le patologie con cui si sono trovati a confrontarsi. Ma la tesi del libro è invece più coraggiosa: loro sono diventati grandi anche grazie alla malat tia e alle singolari abilità che ne sono scaturite, malattie che chiudendo alcune strade in realtà ne hanno aperte altre. Il titolo dei singoli capi toli è sempre un aggettivo che, come formi dabili, contiene la parola abili: Incontrallabili, Rinnovabili, Misurabili, Adorabili, Inossidabili, Inafferrabili… Nella prefazione di Alessandro Carvani Minetti leggiamo: “Ognuna della stra ordinarie abilità di questi Formidabili, dalla testa d’acciaio di Egil il Vichingo alle agilissima
dita di Paganini, dall’orecchio della mente di Beethoven al micidiale e sghembo passo di Garrincha, è il risultato di un lungo, faticosis simo e doloroso, spesso tragico processo, che parte dall’accettazione delle proprie mal formazioni o menomazioni, prosegue con un incessante prova delle proprie capacità, e non finisce mai”. E ancora “In questi uomini, dera gliati dallo standard per un accidente della sorte, c’è una spinta irriducibile non a essere normo-qualcosa ma semplicemente a essere uomini straordinari. Soffrendo, cadendo, anzi precipitando, ma restando fedeli al proprio sogno. Essere formidabili non è questione di saper rimontare uno svantaggio, piuttosto di mettere in campo tutte le nostre capacità per fare di noi stessi il tipo di uomo che vogliamo essere. Qualunque sia la nostra peculiare abilità, insomma, per dirla con Gene Wilder nel film che rese mondiale il genio di Marty Feldman: Si-può-fare”. A queste parole fanno eco quelle di Totò, il nostro campione nazio nale, la maschera del cinema che ha saputo perfettamente incarnare il vitalismo, l’inventiva e il talento di un Paese che stava ripartendo dopo la guerra: “Ogni limite ha una pazienza”.
Andrea Bellati, FormidabiliStorie di gente straordinaria, Blonk 2022, 142 pagg. 14 euro
Andrea Bellati racconta vite di persone che hanno sovvertito i pronostici
Un sorriso vale più di mille parole
Paolo Tosti’s Eye
Il sorriso, e con esso l’umorismo, è una interpretazione del reale che rende la nostra realtà una condizione da vivere con i suoi inesorabili stati di sofferenza e tri stezza, nervosismi e sbalzi di umore.
L’umorismo ci aiuta ad alleviare il peso dell’esistenza, appropriandoci sempre più della consapevolezza del bello, dell’essere persone al centro di una vita da vivere.
È chiaro che se la vita è la nostra vera opera d’arte, è altrettanto vero che la vita è sì una cosa seria, ma da prendere come fosse una “sbirichinata”, un gioco insomma. E crede temi, giocare è una cosa seria non solo per i bambini.
Solo un paradosso può spiegare in profon dità la natura di un’esperienza così ricca come quella della vita, di cui siamo prota gonisti e spettatori, per invitarci a trovare il giusto equilibrio.
Maestri di vita se ne incontrano ovunque, a volte fotografandoli, a volta inaspettata mente, a volte sono adulti e a volte bam bini, che vivono pienamente un gioco in cui vivono una realtà di un attimo dove l’importante è giocare a fondo la propria parte, recitarla bene con passione. Senza dimenticare che quello è solo il ruolo che si sta momentaneamente giocando, e che la propria vera identità è un’altra.
Sono sempre di più nella vita quotidiana le persone che tendono a prendere la vita, le situazioni e le persone con eccessiva
serietà. E tendono a vivere la vita in maniera più tragica. Per liberarsi dovrebbero col tivare un atteggiamento, più sciolto, più sereno, più impersonale.
Spesso si tratta di capire che riuscire a stac carsi dalla commedia umana e vedere le cose da un’altra angolazione senza neces sariamente parteciparvi troppo emotiva mente, permette di considerare la propria vita come un’opera da vivere in un teatro, così ecco che la vita va recitata senza iden tificarsi troppo nel personaggio che si interpreta.
Perché alla fine la nostra identità non va ricercata nell’abito che portiamo o nel biglietto da visita che mostriamo o nel conto in banca, e spesso la nostra vita, quella più intima e personale, si svela agli altri se permettiamo di aprirci allo spensie rato sorriso.
Quel sorriso che vive di leggerezza e si libera tra emozioni, affetti, sogni e desi deri, quell’intelligente sorriso che invita alla riflessione al non prendersi troppo sul serio per una riga fuori posto per un sogno non realizzato, per una gara non vinta o per un successo mancato.
Insomma, quella forma di sorriso, di umo rismo e di naturale bellezza spontanea che si rivela curativa e che aiuta a ridare giuste proporzioni ai diversi aspetti della realtà, a non prendendosi troppo sul serio, dato che il vero individuo libero spesso sorride di se stesso.
Paolo Tosti, founder dell’agenzia di comunicazione Sedicistudio, da 14 anni racconta per immagini i forum di Richmond Italia, coordinando il lavoro di ripresa foto e video di un gruppo di lavoro di diverse persone. L’esperienza e il suo “occhio” di fotografo gli consentono di catturare quel momento così dif ficile da raccontare a parole a chi non è mai stato a un Richmond forum: l’atmosfera human2human
Immaginare il futuro è molto di più che un gioco. Richiede una forma di ascolto di ciò che accade intorno, ed è già un primo passo per mettere in discussione il dato di realtà, aprendo il cantiere del mondo di domani (e questo vale sia nel privato che nel business). Le persone che si interrogano sul futuro hanno una marcia in più: hanno imparato a muoversi con agilità in un set che cambia di continuo, e per questo sono meno timorose. Perciò, non stare a guardare: prendi l’iniziativa e scegli il tuo prossimo Richmond forum.