Powered by IL BULLONE I B.Liver raccontano Richmond Italia MANAGERS OF THE FUTURE
Settembre 2021 Anno IV #05
MANAGERS OF THE FUTURE
REACH - MANAGERS OF THE FUTURE powered by IL BULLONE Richmond Italia Via Guglielmo Silva, 22 Milano 20149 info@richmonditalia.it richmonditalia.it @richmonditalia @richmond_italia IL BULLONE Viale Cassala, 30 Milano 20143 Ilbullone@fondazionenear.org ilbullone.org @ilbullonefondazione Il Bullone
REACH è stato ideato e realizzato dai B.Liver Settembre 2021 - Anno IV - Numero 05 In copertina: Diarietou Niang, illustrazione di Matteo Costa Concept: Il Bullone Art direction e grafica: Elisa Legramandi Supporto grafico: Antonella Ficarra Illustrazioni intervistati: Matteo Costa Illustrazioni opening e on-line speaker: Chiara Bosna Fotografie: Stefania Spadoni, Paolo Tosti Video: Davide Papagni, Sandra Riva Coordinamento editoriale: Eleonora Prinelli Redazione: Eleonora Prinelli, Eugenio Alberti, Maria Antonietta D’Onghia, Stefania Spadoni, Davide Papagni, Sandra Riva Editing: Eleonora Prinelli, Maria Antonietta D’Onghia, Stefania Spadoni Grazie a tutti i B.Liver che hanno partecipato: Alessandra Parrino, Alessia Franceschini, Alice Nebbia, Arianna Morelli, Chiara Malinverno, Debora Marchesi, Debora Zanni, Edoardo Hensemberger, Edoardo Pini, Eleonora Bianchi, Elisa Tomassoli, Fabio Valle, Giada De Marchi, Martina Dimastromatteo, Michele Tedone, Natalia Pedrioni, Oriana Gullone
Leggi il numeri precedenti di REACH su issuu.com/richmonditalia
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I B.Livers raccontano Richmond Italia
Luglio 2019 Anno II #02
00 Powered by B.LIVE I B.Livers raccontano Richmond Italia I B.Livers sono ragazzi che lottano contro la malattia e hanno deciso di dire sì, per andare oltre i propri limiti
Dicembre 2018 Anno I #01
La vita è troppo bella per avere paura LOG IN
Luglio 2018, Anno 1, numero 00
Powered by IL BULLONE I B.Liver raccontano Richmond Italia
I B.Livers raccontano Richmond Italia
I B.Livers sono ragazzi affetti da gravi patologie croniche
HUMAN 2 HUMAN MAG
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MANAGERS OF THE FUTURE
Gennaio 2021 Anno IV #04
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Claudio Honegger - Richmond Italia Amministratore unico
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Il Bullone
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Ernesto Galli Della Loggia Opening speaker
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Daniele Luzzi - NKE Automation HSE & Facilities manager
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Diarietou Niang - OneStock Business developer
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Chicco Testa Opening speaker
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Franco Francia - Inema Senior partner
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Marta Signore Opening speaker
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Marco Campagnano - Fit and Go CEO e Co-founder
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Paolo Aversa - Ally Consulting CEO
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Giovanna Alloro - Sappi Manager environment & safety
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Alla scoperta dei valori di Richmond Italia Responsabili nelle scelte - Sara Burro
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Paolo Barbatelli - Rold Chief sales & Innovation officer
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La mia anima ha fretta Opening Richmond Forum Luglio 2021
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Francesco Esposito - Johnny Pizza Take Uè Amministratore unico
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Mattia Bertasa - Electrolux Digital project manager
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Valeria Lazzaroli e Mariangela Rosano Opening speaker
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Augusto D'Urso - Gruppo Balletta Direttore risorse umane
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La marca in pillole Alberto Macciani e le sue analisi
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Massimo Trevisan Komatsu Italia Manufacturing Production senior manager
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Alla scoperta dei valori di Richmond Italia Raccontare la vita - Eugenio Alberti
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Federica Ronchi - Clearpay Country manager Italia
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Simone Fungipane - Tormalina Sales innovation manager
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Selia Teatini - Elica Senior buyer
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Cesare Landi Opening speaker
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Alla scoperta dei valori di Richmond Italia Agili nell'azione - Giulia La Rotonda
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Marco Molesti - Asso Werke Plant manager
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Chiara Raucci - Talkwalker Business developer
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Emanuele Cesari - Toyota Logistics solutions academy manager
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La Posta di Marina Marina Carnevale e i suoi pensieri liberi
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Cogli l'attimo - Paolo Tosti Eye Paolo Tosti
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How are you? Caro lettore, come ci sentiamo oggi, all’uscita da un tunnel che sembrava non dovesse più finire? Quante domande lasceremo senza risposta dietro di noi? A quali futuri pensiamo? Il futuro non è più quello di una volta, si diceva una volta. Non amo le frasi fatte, e penso di poter dire che il futuro dipende, come sempre è stato, da circostanze e potenze che vanno oltre il nostro raggio di influenza, ma anche da una robustissima dose di olio di gomito che mettiamo in tutto quello che facciamo noi oggi, qui, per modificare il domani. Interrogarsi sulla salute, sul come ci sentiamo e come si debbano sentire gli altri, è una cosa giusta e sana. Non bisogna vergognarsi. Salute e malattia sono profondamente intrecciate, così come lo sono crisi e ripresa, tempesta e sereno, vita e morte… Pensare alle condizioni del corpo è un processo che ci consente di conoscerci meglio dentro e di prendere confidenza con la nostra identità. Quindi è naturale che "How are you?" e "Who are you?" siano le due facce della stessa medaglia. (Basta prendere una lettera che chiude una parola e spostarla all’inizio della stessa parola). Chi siamo noi oggi? Siamo gli stessi di prima della pandemia? Ma nemmeno per sogno. Molte cose che erano latenti si sono come sbloccate, e molte altre cose, di cui avevamo percezione ma non consapevolezza, oggi sono diventate più chiare. Il quinto numero di Reach magazine, ricco di storie vere e intense, arriva in un momento delicato e affascinante: quello della ripartenza. Nemmeno il Covid è riuscito a fermare Reach. Le interviste sono state raccolte perlopiù in remoto, in ossequio ai tempi pandemici. Lo smalto e la grinta che emergono da molte di queste narrazioni mi colpiscono ogni volta. Raccontano di un Paese che quando è sotto pressione tira fuori il meglio. Di persone che non si sottraggono alle proprie responsabilità. Di dirigenti d’azienda capaci di ascoltare e di decidere tempestivamente, con sempre in serbo però una storia di vita sorprendente. Di una comunità, quella di Richmond Italia, che lavora tutto l’anno per far accadere esperienze che lasciano il segno. Auguro dunque a te, lettore curioso, una buona lettura. E a noi, che il progetto Reach continui a crescere, trovando sempre nuovi lettori e supporter, come – ne sono più che certo – si merita. Buona ripartenza.
Claudio Honegger Amministratore unico Richmond Italia chonegger@richmonditalia.it
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Siamo una fondazione no profit che attraverso il coinvolgimento e l’inclusione lavorativa di ragazzi che hanno vissuto o vivono ancora il percorso della malattia, promuove la responsabilità sociale di individui, organizzazioni e aziende. I ragazzi si chiamano B.Liver e la loro esperienza genera Il Bullone, un nuovo punto di vista che va oltre il pregiudizio e i tabù verso uno sviluppo sociale, ambientale ed economico sostenibile. Il Bullone è pensiero: un giornale, un sito e un canale social, i cui contenuti sono realizzati insieme a studenti, volontari e professionisti per pensare e far pensare. Il Bullone è azione: esperienze con i B.Liver, progetti di sensibilizzazione, lavoro in partnership con aziende.
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IL MANAGER DEL FUTURO È SU REACH!
Dal 2018 redigiamo Reach, il magazine human2human che racconta gli eventi business di Richmond Italia. Con un tono di voce fresco e giovane, raccontiamo una nuova idea di manager grazie ad articoli, interviste e contributi di coach professionisti, ospiti illustri e imprenditori che raccontano le proprie case history di successo.
Lo facciamo curandolo nei minimi dettagli: dalle interviste ai partecipanti, alla creazione dei contenuti editoriali e della grafica, sino allo sviluppo della versione cartacea e digitale. Ma soprattutto, lo facciamo attraverso l’incontro con i suoi partecipanti: le persone. Sì, perché le aziende sono fatte di persone prima di tutto, ed è lì che Il Bullone entra in gioco: per raccogliere spunti ed esempi che siano d’ispirazione per il manager del futuro, passando attraverso i temi legati al business, ma non solo.
Chiediamo ai partecipanti di raccontarci le proprie storie: storie di vita, storie di business, storie di “inciampi” che non li hanno fermati. Qualsiasi esse siano, sono storie che svelano, insegnano, ispirano. E sono storie straordinarie. A riprova del grande valore umano che caratterizza questo progetto di comunicazione sociale, abbiamo inserito a fianco di ogni storia manageriale un commento speciale: quello dei B.Liver, i ragazzi beneficiari della nostra fondazione. Ognuno di loro ha letto e commentato una storia, traendone ispirazione per il futuro e contribuendo con le proprie sensazioni alla riuscita di questo editoriale.
Reach è un magazine semestrale, al quale ci si può abbonare al costo di 100 euro l’anno, detraibili fiscalmente. Basta fare un bonifico a Fondazione Near Onlus, iban IT87B0521601614000000015390, indicando nella causale Donazione Reach 2021, nome, cognome e indirizzo per la spedizione. Abbonandoti fai la cosa giusta anche sul piano solidale: sostieni le attività sociali dedicate ai ragazzi del Bullone.
Abbonati a Reach e lasciati ispirare!
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Opening Speaker
Ernesto Galli Della Loggia
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rnesto Galli Della Loggia, storico, professore emerito alla Normale di Pisa ed editorialista del Corriere della Sera, ha inaugurato a Gubbio la prima edizione di Richmond Future Factory forum, dedicato ai temi Industry 4.0. È il secondo evento di Richmond Italia nel 2021 dopo tanti mesi di stop, e le emozioni sono palpabili in sala. Secondo Della Loggia, stiamo assistendo non alla fine del futuro, ma alla fine di una certa idea del fu-
turo nata alla fine del Settecento. Prima di allora non esisteva un’idea di futuro tout court, nessuno pensava che le cose avrebbero potuto cambiare in meglio o in peggio. Allora per la prima volta si registrò un aumento simultaneo dei consumi, dei redditi e delle persone in salute. Non era mai successo prima, la rottura col passato è stata enorme. Si cominciò a sospettare che si fosse innescato un meccanismo storico di miglioramento lento basato sulla tecnica e sulla scienza che avrebbe assicurato un progresso materiale inesorabile. E che avrebbe garantito alle persone
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di essere tutte un po’ più libere e tutte un po’ più uguali. È la narrazione liberale, poi adottata in seguito anche dai socialdemocratici, una visione sostanzialmente ottimistica dell’andamento della storia che produce felicità. E qui per storia si intende la nostra storia, la storia occidentale, una storia superiore a tutte le altre. Sarebbe in questo momento, secondo Della Loggia, ad essersi formata la grande spinta della cultura europea all’ottimismo ma anche alla volontà di sopraffazione, che ha portato a imporre questa visione
Quell’idea di futuro che ci scivola fra le mani La storia ci consegna la sensazione di un futuro radicalmente nuovo, mai visto prima, un futuro senza paragoni
al resto del mondo appropriandosi delle altre culture. Negli ultimi trenta o quarant'anni questa narrazione, che pone al centro il progresso tecnico-scientifico, è diventata il cuore della globalizzazione.
AlphaZero ha vinto grazie a una capacità creativa superiore! Ma oggi è una narrazione che non funziona più. O meglio, funziona così bene che rende sempre più problematica la visione ottimistica. Il fronte dell’innovazione oggi si muove principalmente su due settori, che lasciano intravedere un collegamento sempre più stretto fra loro: i robot e l’automazione, e l’intelligenza artificiale, che stanno per incontrarsi in una fase di sintonia con le tecnologie biologiche. I neuroscienziati sono sempre più vicini a comprendere il funzionamento del cervello umano e delle sue catene neuronali. Le nostre scelte in qualsiasi campo dipendono da miliardi di neuroni che calcolano in una frazione di secondo probabilità e alternative, e questo è esattamente il modello di funzionamento degli algoritmi informatici, che stanno facendo progressi enormi. Della Loggia racconta di esser rimasto colpito dalla notizia che risale al 7 dicembre 2017, quando il
programma AlphaZero di Google, grazie all’apprendimento automatico, che consente di capire l’esito delle proprie decisioni, partendo da zero in sole nove ore ha appreso il gioco degli scacchi raggiungendo una tale padronanza creativa da sconfiggere Stockfish, il software open source campione mondiale di scacchi in carica, capace di analizzare circa 70 milioni di posizioni al secondo. AlphaZero ha vinto grazie a una capacità creativa superiore!
In passato succedeva che le masse di disoccupati venivano riassorbite abbastanza facilmente, e persone con competenza medio-bassa acquisivano un’altra competenza medio-bassa. Gli algoritmi biochimici del cervello e quelli dell’intelligenza artificiale stanno disegnando un terreno d’incontro fra tecnologie biologiche e informatiche. Già oggi un algoritmo decide per quale lavoro siamo più adatti, ed è difficile contestare le sue decisioni. In futuro, ha detto Della Loggia, l’algoritmo ci consiglierà quali studi fare, quali cibi sono consigliabili dato il nostro stato di salute, e magari ci raccomanderà anche il partner sentimentale. Ma
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tutto ciò è compatibile con l’idea di essere umano che abbiamo da millenni? E poi, che tipo di società abbiamo in mente quando introduciamo massicciamente, come già succede in Cina, la tecnologia per il riconoscimento facciale che consente di sorvegliare le persone in ogni istante? O quando introduciamo la gravidanza fuori dal corpo femminile? Uno dei cuori di questo processo è l’automazione. Sono ormai molti i campi in cui le prestazioni e le competenze dell’intelligenza artificiale superano di gran lunga quelle umane. E saranno poche le attività e le professioni esenti dalla sostituzione degli esseri umani con le macchine. Ma non è sempre stato così? Da quanto è stato inventato il telaio automatico, il progresso ha sempre prodotto disoccupazione. Non sempre le cose apparentemente uguali lo sono veramente, e anzi, in questo caso sono radicalmente diverse. In passato succedeva che le masse di disoccupati venivano riassorbite abbastanza facilmente, e persone con competenza medio-bassa acquisivano un’altra competenza medio-bassa. Oggi gli operai che devono cambiare settore, devono fare un salto di know how. La tematica dell’educazione permanente va benissimo per i ministri, ma al momento sono pure chiacchiere.
Per la prima volta, l’innovazione tecnicoscientifica va a colpire non solo gli operai ma anche il ceto medio, per esempio il commerciante distrutto dall’e-commerce o gli impiegati. A questo punto Della Loggia ha portato il discorso sulla questione politica. Se è vero che la democrazia è quel regime che dà ai cittadini il diritto di esprimersi sulle scelte chiave che riguardano la loro vita, cosa succede quando il principale agente storico di trasformazione della loro vita – l’innovazione – sfugge a qualsiasi nostra volontà collettiva di decisione? Succede che la politica va sotto scacco, e del progresso tecnico-scientifico possono parlare solo gli addetti ai lavori: la conoscenza non è democratica, chi non ce l’ha non è abilitato a parlare. E allora si pone un problema vero di carattere democratico. L’antipolitica, ossia masse crescenti di elettori che non si sentono rappresentati, si spiega con il fatto che governi e partiti negli ultimi dieci o quindici anni sono stati sempre meno in grado di capire il progresso tecnico-scientifico, e dunque di indirizzarlo, progresso che però incide eccome sulla vita delle persone, per esempio creando disoccupazione.
Oggi nel mercato del lavoro assistiamo alla crescita dei servizi alla persona, sebbene nessuno di noi voglia fare questo tipo di lavori, sono lavori senza protezione e mal pagati. In passato il progresso tecnico-scientifico ha generato forti aumenti del Pil e ha consentito una distribuzione dei redditi. Un aumento abbastanza significativo di reddito per una parte abbastanza significativa della popolazione creava consenso. Oggi non è questo il caso, e soprattutto il progresso tecnico-scientifico non produce aumento del Pil. Per la prima volta, l’innovazione tecnico-scientifica va a colpire non solo gli operai ma anche il ceto medio, per esempio il commerciante distrutto dall’e-commerce o gli impiegati. Le persone si sentono sacrificabili, inutili e quindi covano un senso di rancore e disperazione, addebitando la responsabilità non alle macchine, come facevano i luddisti, ma alla classe politica. In democrazia si presume che i politici possano modificare le cose, e quindi la colpa sarebbe dei politici che non hanno pensato e deciso? Ma come avrebbero potuto? Io per primo non ci capisco niente, capiamo solo se qualcuno ci spiega le cose. Non possiamo essere nel cuore conoscitivo delle tecnologie di oggi. Fino al telaio e all’automobile si può fare, oltre non ci arriva nessuno.
Della Loggia ha proseguito ricordando il potere detenuto da organismi come Google e Facebook, che sono in grado di acquisire e incrociare una quantità di dati fuori scala in modo privatistico, aumentando ancora di più la loro conoscenza. Google sa molto più su di noi del Ministero degli Interni, e se Google dovesse staccare la spina, scatterebbe la paralisi totale. Cinque o sei persone detengono il dominio in maniera incontrollata e incontrollabile, senza nemmeno pagare le tasse. Sono extra legem, e possono contravvenire al primo obbligo posto dallo stato, che è quello fiscale.
Con il tramonto delle fabbriche raccontate nei film di Charlie Chaplin è finito il lavoro come momento di aggregazione e solidarietà. La protesta contro la politica stigmatizza l’impotenza dei parlamenti, dei governi e dei partiti nel dire una parola risolutiva circa l’uso delle tecnologie biologiche e informatiche, o su problemi chiave come algoritmi e controllo dei loro impieghi. D’altronde, che cosa si può fare, mettere ai voti la scienza? Un avvocato di Benevento dovrà dire agli scienziati cosa fare? In effetti è ridicolo. Lo statuto della politica e lo statuto del progresso rischiano di essere in rotta di collisione. Il progresso tecnico-scientifico, secondo Della Loggia, sta producendo un fenomeno inquietante: si sta allentando il legame sociale, ossia i fattori coesivi e di vincolo che tengono insieme la collettività, consentendo di riconoscersi in una storia condivisa, in una reciprocità di obblighi e soprattutto in un comune sentire. Allo scollamento della politica corrisponde lo scollamento del legame sociale. Il progresso tecnico-scientifico pone l’enfasi sull’individualismo, che caratterizza sempre più le nostre società e crea una condizione di vero e pro-
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prio isolamento, anche psicologico, innanzitutto nel lavoro. Con il tramonto delle fabbriche raccontate nei film di Charlie Chaplin è finito il lavoro come momento di aggregazione e solidarietà. Gli apologeti del presente dicono che è bello cambiare lavoro. Ma cambiare lavoro e reinventarsi due, tre quattro volte nella vita è una cosa infernale. Che senso del proprio io potrà avere uno che a 54 anni dovrà cambiare ambiente, colleghi di lavoro, e magari dovrà ripiegare su uno schermo di computer a casa? È difficile resistere a un’ondata di cambiamenti continui senza sentire disfarsi la propria identità, e con l’identità vacillano anche i rapporti familiari e sociali. Che razza di legami sociali potrà produrre un simile modo di lavorare?
Quando tutto si muove in un’unica direzione, bisognerebbe inventare un limite. Già oggi possiamo fare acquisti senza dover andare fisicamente in un negozio e incontrare la faccia di una commessa. Possiamo assistere a eventi come quello di oggi da remoto. Mangiare come al ristorante a casa. Individualità
da remoto! Si sta delineando una società in cui il legame sociale retrocede sullo sfondo, diventando impalpabile e privo di concretezza. Alle nostre società viene negato il tipico aspetto di legame sociale: il legame con il passato. Senza la presenza del passato non ci può essere legame sociale. Senza condivisione di cose accadute non c’è legame. Tutti i sistemi educativi occidentali sono in crisi perché l’istruzione è per l’appunto tecnico-scientifica, e da Pechino a Los Angeles è tutta uguale, non restituisce alcun senso del passato, alcuna identità sociale. Viene meno l’istruzione che racconta il passato e che tramanda ai giovani un retaggio. La perdita di autorità dei genitori è la perdita di autorità del passato. Una volta trasmettere il passato era motivo di prestigio, si ascoltavano i nonni, oggi tutto questo è azzerato tanto forte è il prestigio della dimensione tecnico-scientifica e tanto forte la sua proiezione nel futuro. Ciò che conta è ciò che si avvera nel futuro. Il futuro svaluta radicalmente il passato, la famiglia, l’istruzione. Ancora resiste la figura della madre per ragioni fisiologiche, ma presto scomparirà anche lei. Nella chiusura del suo intervento, Della Loggia ha posto il tema del li-
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mite, sostenendo che quanto tutto si muove in un’unica direzione, bisognerebbe inventare un limite, in questo caso un limite che argini l’idea di un progresso continuo autoalimentato dalle conoscenze tecnico-scientifiche. Bisognerebbe che si facesse chiarezza sul fatto che la scienza è una cosa e le sue applicazioni pratiche un’altra. Oggi questo legame dovrebbe essere messo in discussione. Anche se non si sa come e dove, e immaginare un limite si prospetta come un territorio sconosciuto, è arrivato il momento di farlo. Dovrebbe essere la sfida più importante in agenda, e riguarda innanzitutto chi ha competenze tecnico-scientifiche. Con temperature di cinquanta gradi e poli che si sciolgono, è ragionevole pensare che le persone avranno sempre più motivazioni per riflettere su questo limite e trovare le forze per attuarlo.
DANIELE LUZZI NKE Automation HSE & Facilities manager
“Finché c’è un essere umano nell’equazione, è probabile che accadrà un errore”
S
ono figlio di un costruttore edile, sono nato in mezzo a cantieri, progetti, impalcature, disegni, elmetti. Il cantiere l’ho vissuto sin da bambino: mio padre mi ci portava spesso, forse perché sapeva che così facendo mi avrebbe lasciato un forte imprinting che mi avrebbe spinto a seguire le sue orme. Mi ricordo ancora perfettamente di tutti gli odori che si sentivano. Già allora, da piccolo, nacque in me l’ambizione di progettare ciò che mio padre costruiva. Per la prima volta mi sono imbattuto nel tema della sicurezza sui luoghi di lavoro durante il mio percorso di studi di Ingegneria edile. Ho avuto subito modo di applicare sul campo ciò che avevo studiato quando fui assunto come assistente del Coordinatore della Sicurezza in un cantiere per la costruzione di un grande centro commerciale della provincia di Torino.
“Poi, in quell’anno, accadde un evento straordinario che ci segnò tutti ed ebbe impatto anche sulla mia decisione” Ho avuto il privilegio di lavorare fino al 2008 con mio padre, che al tempo guidava un’azienda con venticinque addetti tra dipendenti e
artigiani. La grande crisi dell’edilizia mi ha portato ad affrontare scelte complicate e sofferte. Alla fine decisi di lasciare l’azienda di famiglia e seguire un nuovo percorso professionale. Avevamo idee diverse, papà era restio al cambiamento, mentre io ero molto focalizzato su questo punto. Conflitti di questo tipo non sono certo una rarità nell’avvicendarsi delle generazioni in azienda. Oggi andiamo più d’accordo, lui ha capito che io dovevo andarmene per trovare la mia dimensione, così come è successo. Poi, in quell’anno, accadde un evento straordinario che ci segnò tutti ed ebbe impatto anche sulla mia decisione. L’11 aprile 2008 mio cugino Fabio di diciassette anni ebbe un grave incidente motociclistico a Moncalieri, e finì in coma. Sin dall’infanzia ero molto legato a Fabio, di nove anni più giovane di me, lo sentivo come un fratello minore. Dopo qualche mese ne uscì, ma con danni irreversibili e soprattutto su una sedie a rotelle. Nel tempo è riuscito a recuperare parte del deficit, ma si può immaginare al momento la portata di questo evento. Posso dire che ha cambiato il mio modo di vedere le cose, in assoluto. A quell’epoca ho frequentato a lungo l’ospedale CTO di Torino dove era ricoverato. Ho visto alcuni ragazzi riprendersi, altri no. In quel periodo ho capito che avrei potuto prendermi cura degli altri anche nel lavoro. Sempre in quel periodo, frequentai il corso di formazione organizzato dall’Ordine
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degli Ingegneri di Torino e moderato dall’architetto Paolo Dughera, necessario per esercitare il ruolo di Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione sul lavoro.
“Ikigai è quel sentimento che ti dà il gusto di alzarti ogni mattina e affrontare la vita, è la ragione per la quale vivere” Prima di allora, mi occupavo di sicurezza in maniera piuttosto accademica, preoccupandomi soprattutto di norme e conformità legislativa come criterio organizzativo. Dopo quel corso ho intuito che migliorare la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro non poteva essere un mero atto amministrativo, ma che per riuscire a dar forza a un cambiamento culturale bisognava dare importanza ai valori che accomunano l’uomo lavoratore in azienda e l’uomo padre di famiglia, ispirando le persone a cambiare per se stessi prima che per l’azienda, attraverso un percorso che motivasse le persone ad aver cura l’uno dell’altro. Bisognava interpretare la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro come uno strumento che desse la possibilità a ogni lavoratore di rientrare a casa tutte le sere dalla propria famiglia. Nella cultura giapponese esiste una bella definizione, Ikigai. È
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praticamente intraducibile nelle altre lingue senza una perifrasi. Ikigai è quel sentimento che ti dà il gusto di alzarti ogni mattina e affrontare la vita, la ragione per vivere. Il simbolo che si usa nel mondo tattoo è molto bello: quattro cerchi intrecciati l’uno nell’altro. Nel 2018 sono entrato in NKE Automation, un’azienda che si occupa di automazione industriale nel settore automotive, nell’ambito dell’erogazione fluidi, incollaggio cristalli e marcatura VIN. Oggi conta settanta dipendenti in Italia e oggi fa capo alla multinazionale tedesca SAT Sterling Holding. Il quartier generale si trova a Dägeling, a nord di Amburgo, e ha sedi in Cina, Stati Uniti e Brasile. La vera sfida del nostro lavoro non è solo gestire la sicurezza all’interno di aziende ben strutturate e con una buona cultura della sicurezza, ma garantire che tutta la catena dei subcontractor garantisca la conformità legislativa e rispetti le misure tecniche e operative prescritte dai piani operativi di sicurezza in tutte le fasi dell’installazione, anche nel caso di strutture piccole, molto agili ma per questo anche insofferenti a situazioni che a qualsiasi titolo richiedano rallentamenti, burocrazia, e in generale una riflessione più ampia che vada al di là di date di consegna e costi orari.
“Quello che ho appreso nel judo, ho cercato di applicarlo nel mio lavoro” Qual è la mia filosofia della sicurezza nei luoghi di lavoro? Dobbiamo tenere sempre a mente che l’essere umano è fallibile, cadere, inciampare o sbagliare nel nostro percorso può accadere in qualsiasi momento. A questo punto devo fare una piccola digressione. Fin da piccolissimo ho praticato judo, e da adolescente anche a livello agonistico. Nel 1997, all’età di quindici anni, sono stato vice campione italiano della categoria UISP-73kg. Allenarmi per garantire un buon livello di preparazione mi ha portato a fare molte rinunce, e alla fine la difficoltà di conciliare gli studi con i continui allenamenti mi ha portato ad abbandonare l’agonismo a soli 23 anni. La passione per questa nobile arte mi ha spinto a diventare istruttore e fondare un’associazione sportiva dilettantistica per trasferire ai bambini quello che avevo appreso ed elaborato nel tempo. La pratica del Judo, l’esperienza nella gare e nell’insegnamento oltre al mio ruolo di formatore nelle aziende, mi hanno dato lo stimolo a creare una via per portare i principi del Judo nella sicurezza sui luoghi di lavoro.
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Ho creato Judo for Health and Safety, un prodotto formativo promosso da EcoSafe, una società del settore della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro della quale ai tempi ero dipendente. Si tratta di un corso specifico per le persone che si occupano come me di sicurezza sul lavoro (preposti, dirigenti e addetti ai lavori). Il modulo minimo è di quattro ore. Il corso si svolge sul Tatami. Attraverso una via non convenzionale si incomincia a riflettere sui principi che accomunano Judo e salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, partendo dalla fallibilità dell’uomo e dalla necessità di imparare a cadere, minimizzare i danni e rialzarsi nel più breve tempo possibile. Un proverbio giapponese dice: Nana Korobi, Ya Oki (“Cadi 7 volte, rialzati 8”). Si parte imparando a cadere nel modo corretto e senza farsi male, fino a provare a fare un piccolo combattimento. Il Judo, che è un’evoluzione del Jujutsu, è anche conosciuto come la Via della Cedevolezza. Rispetto al Jujutsu ha sviluppato molto gli aspetti della salute e della sicurezza delle persone che lo praticano: Sei-Ryoku-Zen-Yo (“La mente e il corpo usare bene.”) e Ji-Ta-Kyo-Ei (“Insieme per progredire”). Nel Judo si è molto attenti alla sicurezza della pratica, e si applicano tecniche di controllo che hanno l’obiettivo di far crescere entrambe
le parti che si affrontano. Forse anche per questo il Judo è diventata l’arte marziale più diffusa al mondo, e la prima arte marziale a diventare disciplina olimpica nel 1962. Oggi è la quarta disciplina olimpica per numero di nazioni aderenti.
“All’inizio le persone sono rimaste zitte, tutte zitte, a lungo. Pensavo di non essermi fatto capire, o peggio” In questo progetto sono partito dalla visione del fondatore del Judo, Jigoro Kano, che nel Judo vedeva un mezzo per migliorare la persona sia sotto il profilo etico che sotto quello fisico. Il fine del Judo è sempre stato quello di superare la mera pratica della cedevolezza fino a giungere alla cultura della cedevolezza come approccio e stile di vita. Ho provato a fare lo stesso con la sicurezza nei luoghi di lavoro. Sono convinto di essere arrivato a risultati interessanti, per non dire sorprendenti, che applico volentieri alla mia attività di HSE manager. Mi ricordo la prima volta che proposi questo mio metodo così particolare. All’inizio le persone sono rimaste zitte, tutte zitte, a lungo. Pensavo di non essermi fatto capire, o peggio. E invece poi c’è stata una dimostrazione di stupore e di interesse straordinaria, come se avessi aiutato i partecipanti ad aprire gli occhi su qualcosa che sospettavano ma di cui non avevano evidenza.
“Il primo demone da combattere è la difficoltà a riconoscere il fatto che siamo tutti fallibili”
protezione dell’individuo. (In azienda bisogna essere formati e addestrati, bisogna conoscere i rischi e saperli gestire al meglio, in altre parole essere consapevoli dei pericoli che ci circondano.) Nelle “cicatrici” che però una caduta può lasciare si scoprono argomenti di riflessione su come si sarebbe potuto evitare di cadere. In fondo, il primo demone da combattere è la difficoltà a riconoscere il fatto che siamo tutti fallibili. Le nostre misure di mitigazione dei rischi cadono lì dentro, cercando ove possibile di evitare il rischio, o perlomeno di contenerne la probabilità di accadimento alla sfera dell’accettabilità. Questo processo permette al lavoratore di conoscere l’importanza delle misure di mitigazione del rischio al fine di coprire un errore umano, così come una “caduta” ben fatta permette a chi inciampa di rialzarsi nel più breve tempo possibile senza farsi male. I lavoratori arrivano a riflettere sull’importanza di rompere la propria zona di comfort e comprendere l’importanza del lavoro di squadra, insinuando una nuova cultura della sicurezza nelle aziende.
*Il commento dei
B.Liver*
L' uomo commette errori. Il primo passo per evitarli sta nel riconoscere che tutt i possiamo fallire. Una volta co mpreso il rischio di uno sbag lio lo si può prevenire. L'esperienz a è il primo passo per la conosc enza. Eleonora Bianchi
Nei miei corsi si lavora molto sul concetto di caduta, e sul saper cadere come elemento di prevenzione e
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DIARIETOU NIANG OneStock Business developer
“Orgogliosa di essere un’italiana senegalese”
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ono di origini senegalesi, quando avevo quattro mesi sono emigrata in Italia insieme alla mia famiglia; cresciuta in una piccola cittadina della provincia di Bergamo, da due anni sono basata a Parigi per studio e lavoro. Precedentemente ho vissuto a Bordeaux come studentessa Erasmus e dopo aver concluso questa esperienza ho deciso di rientrare a Milano per conseguire la laurea ed iniziare il mio percorso professionale, ma le mie aspettative sono state disattese. Entrare nel mondo del lavoro in Italia è stato molto difficile, sia per fattori sociali che economici, e dopo un paio di esperienze di stage ho deciso di ritornare in Francia, questa volta a Parigi. Lì ho scoperto una realtà lavorativa più favorevole, soprattutto per il contesto storico in cui viviamo; essere una ragazza straniera e nera in Francia è più semplice. “Io con quaranta euro compro una piantagione e tutti i neri che ci lavorano dentro”. Quando ho lavorato in Italia ho dovuto fare buon viso a cattivo gioco dopo aver ascoltato commenti razzisti come questo da parte di professionisti e colleghi in ufficio; e ogni volta che succedeva pensavo che forse non ero nel posto giusto. Un altro aspetto importante che mi ha allontanata dall’Italia era il fattore economico, guadagnavo troppo poco per poter sopravvivere. Mi piacerebbe fare diverse esperienze in Francia per poi rientrare in Italia con un
bagaglio professionale che mi permetterà di avere più forza contrattuale. L’Italia è la mia casa: io sono italiana, mi sento italiana, penso e sogno in italiano e anche quando torno in Senegal per tutti sono “l’italiana”. A Parigi sono entrata in contatto con il responsabile della start up OneStock perché cercavano qualcuno che parlasse italiano. Dopo tre colloqui mi hanno assunta e oggi lavoro per loro come business developer. Questo mondo mi attrae molto, quindi continuerò a percorrere questa strada con l’obiettivo di diventare direttore commerciale per diversi paesi e magari un giorno costituire la mia azienda. In questo campo ci sono capitata per caso: avevo iniziato un master in Marketing Comunicazione e Strategia Commerciale e cercavo un’azienda per poter continuare il mio percorso di studi. Nella vendita in generale c’è bisogno di un’attitudine all’ascolto per stare in contatto con persone diverse, ciascuna con il proprio carattere, il proprio bagaglio e le proprie problematiche. È necessario comprendere chi ti trovi davanti: io amo il contatto umano e il lavoro dinamico, mi piace comunicare con gli altri e non stare dietro ad un computer. Il mio collega Jerome, che è anche il mio manager, quando sbaglio me lo fa capire senza girarci intorno, ma allo stesso tempo mi ascolta e mi consiglia per migliorare il mio operato.
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Oltre al mio lavoro in azienda, ho creato insieme agli amici di università un’agenzia di marketing e comunicazione, Le Noire Agency, dedicata al mercato africano ed aziende afrodiscendenti. Sono molto legata alle mie origini e la missione di questa agenzia è proprio quella di dare visibilità alle diverse offerte provenienti dal continente africano.
“I sogni cambiano. Oggi voglio fare la differenza” Da piccola dicevo a tutti: “Io voglio fare la giornalista!”, ma dopo aver concluso uno stage con il corrispondente di un quotidiano di spicco in Francia ho capito che quel mondo non faceva per me, non era la mia strada. Il mio sogno è “fare la differenza”, sia a livello lavorativo, sia a livello umano e sociale. Quando si acquisisce un nuovo cliente per me è una grande soddisfazione perché sono io che prendo il primo contatto e organizzo il meeting. Se faccio una buona impressione e il cliente decide di darmi la sua fiducia attivando un progetto insieme, ecco, questo vuol dire fare la differenza. A livello sociale e umano invece mi piacerebbe fare la differenza per sciogliere i pregiudizi che riguardano l’immagine dello straniero o dei figli di immigrati. Cerco in tutti i modi di allontanarmi da questi
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preconcetti, e in alcuni casi questo può significare rinnegare la propria provenienza. Basta sguardi e battute, non voglio più faticare per dimostrare più degli altri di essere una persona in gamba, leale ed intelligente solo perché sono una ragazza nera. Io sono fiera della mia identità: sono una senegalese italiana, che è cresciuta, ha studiato e lavorato in Italia e che oggi vuole costruirsi una posizione. E sono fiduciosa di farcela. Quando ero piccola non ho avuto esempi di persone a cui ispirarmi, ma nella vita di un bambino è essenziale avere un punto di riferimento per poter pensare: “Se lei o lui ce l’hanno fatta con una storia simile alla mia, anche io ce la posso fare”. Invece non ho mai conosciuto in Italia un professore o un giornalista nero e non ho mai visto diventare medici o avvocati figli di immigrati, o perlomeno pochissimi rispetto alla percentuale di popolazione straniera in Italia. Due anni fa, durante il primo giorno di master, ci hanno chiesto chi fosse il nostro idolo. Tutte rispondevano Michelle Obama o Viola Davis, ma io non mi sono mai riconosciuta in loro perché sono afroamericane e hanno una storia diversa dalla mia. Io sono africana senegalese e mia madre mi ha ispirata molto, ma al di fuori della mia famiglia non ho idoli. Io vorrei poter essere d’ispirazione per altre persone, perché nonostante tutte le difficoltà dell’ essere figlia di immigrati, dell’essere cresciuta in un contesto dove non è sempre facile avere una storia diversa, un colore diverso, una cultura diversa, ce la sto mettendo tutta.
sono tutti entusiasti della sua determinazione e della sua maturità, ed è lei che mi ha dato forza quando mia mamma è mancata. Mi ricordo che qualche mese fa una sua amica in una chat ha scritto che voleva fare l’ avvocato e un compagno gli ha risposto: “Ma io non ho mai visto avvocati neri in Italia”. Questa cosa mi ha fatto arrabbiare, perché se dici una cosa così ad una bambina la scoraggi a credere in sè stessa, la porti a pensare che la discriminazione vincerà sempre su tutto il resto. Vorrei fare la differenza anche per mia sorella, vorrei trasmetterle fiducia e farle capire che potrà fare qualsiasi tipo di lavoro desideri con l’impegno e la perseveranza. Dopo aver tenuto la conferenza al forum di Richmond Italia le ho inviato la mia foto sul palco per mostrarle un esempio concreto della volontà individuale e per farla sentire orgogliosa di me e della nostra storia. Siamo una famiglia molto unita, e insieme ne abbiamo superate tante. Ci sono tanti giovani persi, senza una guida, di conseguenza avremmo bisogno di più esempi concreti e mentori per figli di immigrati di
“Crescere per diventare un veicolo di valore” Ho una sorella, di quattordici anni più piccola, che è venuta a vivere a Parigi con me dopo la morte di mia madre. Mia sorella è molto indipendente, ma vive con me perché ha bisogno di una figura femminile, è cresciuta molto in fretta. A scuola
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seconda generazione come me in Italia. Nella vita come in un gruppo di lavoro dev’esserci sempre qualcuno che creda in te. Bisogna essere ambiziosi, ma per questo è anche necessario avere una figura di riferimento, un leader positivo che ti dia la spinta per dare sempre di più. Per me fare la differenza sarà anche questo, dimostrare attraverso il mio lavoro che una ragazza nera e di origini africane può fare qualsiasi lavoro, proprio come tutti gli altri.
*Il commento dei
B.Liver*
Una storia che spin ge a sognare, a lottare e a comm uoversi: sognare un mondo giusto, lottare contro i preg iudizi e commuoversi nel vede re chi, con grinta e purezz a d'intenti, rende questi tragua rdi un po' più vicini og ni giorno. Natalia Pedrioni
Ivan Ortenzi. Opening speaker edizione 2020
SPINGIAMO LA LOGISTICA AUMENTATA
Grandi speaker. Incontri b2b. Sessioni di coaching. Networking informale. Due giorni e mezzo di full immersion rigorosamente dal vivo pensati per abbracciare l’innovazione senza timori. Per riflettere e condividere nuove visioni con partner e colleghi. Per liberare il proprio potenziale nelle partite che si stanno
RIMINI | 24-26 OTTOBRE 2021 | 26-28 OTTOBRE 2022
giocando oggi. Ci vediamo al Grand Hotel di Rimini.
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Opening Speaker
Chicco Testa
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hicco Testa è un nome noto nel mercato dell’energia in Italia: attivista, dirigente d’impresa, politico e scrittore, per sei anni è stato Presidente del Consiglio di amministrazione di Enel. A Gubbio, ha inaugurato la prima delle due edizioni del 2021 di Richmond Energy Business Forum con uno speech che interroga e invita a considerare i temi della transizione energetica in modo globale. Testa è partito dal piano dall’im-
pegno europeo a ridurre le emissioni di CO2 del 55% entro il 2030, “che vuol dire domani mattina”. A questo piano si accompagna l’obiettivo di eliminare la circolazione di auto a combustione entro il 2035, e di eliminare del tutto le emissioni di CO2 entro il 2050. Si tratta, secondo Testa, più di una volontà politica e una direzione di lavoro, piuttosto che di obiettivi realmente raggiungibili. Ha invitato a cogliere la portata geopolitica globale di questi temi e a sforzarsi di mettere a fuoco correttamente dimensioni e implicazioni, pena il rischio di banalizzare ogni rifles-
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sione e di portarsi dietro analisi sbagliate, che possono a loro volta innescare decisioni sbagliate con impatti economici molto negativi.
Se il PIL è lo zainetto che portiamo davanti, la CO2 è lo zainetto che portiamo sulle spalle. Nella sua guerra contro le emissioni di CO2, l’Europa è sola, anche se ha imboccato questa strada in modo molto deciso. In verità, meno del 9% delle emissioni di CO2 nel mondo proven-
Fare di più con meno Green economy, decoupling e innovazione tecnologica
gono dall’Europa. Su 9 miliardi di persone sulla Terra, 4 miliardi sono in Asia e 4 in Africa, e solo 1 fa capo a Europa e USA. Riassumiamo il problema. Siccome stiamo fronteggiando un problema climatico, le Nazioni Unite hanno commissionato diversi studi sull’effetto serra. Oggi sappiamo per certo che noi produciamo gas serra in quantità tali per cui vi è un aumento più che proporzionale dell’effetto serra intorno al nostro pianeta. In termini generali, l’effetto serra è benefico per il nostro pianeta, poiché trattiene il calore del sole. Ma è benefico se rimane entro certi limiti. Secondo gli scienziati che hanno condotto questi studi, sono le quantità di CO2 che abbiamo immesso in atmosfera a partire dalla Rivoluzione industriale a causare fenomeni come desertificazione, surriscaldamento e scioglimento dei ghiacciai, ossia le caratteristiche globali dell’effetto serra. La CO2 è una variabile delle attività economiche. Testa ha usato una metafora colorita: se il PIL è lo zainetto che portiamo davanti, la CO2 è lo zainetto che portiamo sulle spalle. Le emissioni continuano a crescere, nonostante gli sforzi. Nel 1960 abbiamo emesso 10 milioni di tonnellate di CO2, nel 2018 siamo arrivati a 37 milioni. C’è una correlazione molto forte fra attività economica, non solo industriale, ed emissioni CO2. La
Negli ultimi trent’anni abbiamo emesso la stessa quantità di CO2 che è stata prodotta dalla Rivoluzione industriale sino agli anni ’90 del secolo scorso.
cittadino indiano. È per questo che i cinesi non ci stanno ad essere definiti i grandi inquinatori del mondo. L’asimmetria non è difficile da spiegare: fabbriche, condizionatori d’aria, auto di grandi dimensioni, supercomputer… A questo punto, secondo Testa, si pone un serio problema di equità fra le diverse parti del mondo, e non c’è nulla di cui stupirsi se le parti non riescono a fare accordi. Da una parte c’è un Paese come la Cina, che vuole continuare a crescere, dall’altra ci sono USA e Europa, che si interrogano su come crescere senza continuare a far aumentare le emissioni. Le previsioni per l’economia dopo la fase Covid indicano una crescita del 6-7% in Usa, del 5% in Europa e dell’8% in Cina. Ma non è solo questo il punto.
L’analisi dei dati ci dice che nella produzione di CO2 Europa e USA sono stabili o leggermente in discesa, mentre Cina e India stanno salendo fortemente. Allo stato attuale, l’opinione dominante è che Cina e India siano i più grandi inquinatori. Ma Testa nutre qualche dubbio su questa versione. Sul fatto che un Paese con 1 miliardo di abitanti produca più emissioni di paesi più piccoli non si discute. Se però si prende in considerazione l’emissione di CO2 pro capite, allora il quadro cambia: ogni cittadino americano produce 16 tonnellate di CO2, contro l’1,8 del
La CO2 non è nociva, le piante ne hanno bisogno, il problema è l’accumulo. Ogni anno si registra un effetto accumulo dello stock, ossia una parte viene assorbita dagli oceani, dalle piante e in altri modi, ma quella che non è assorbita continua ad accumularsi. Di chi è la CO2 accumulata nel pianeta Terra? Il 50% si può ricondurre a Europa, Giappone e Stati Uniti insieme, a fronte del 17% degli abitanti. Negli ultimi trent’anni abbiamo emesso la stessa quantità di CO2 che è stata prodotta dalla Rivoluzione industriale sino agli anni ’90 del secolo scorso.
domanda che ci facciamo tutti è: siamo arrivati al picco? Mica tanto, risponde Testa. Nonostante la contrazione causata dal Covid, con aerei e navi ferme, traffico ridotto e industria in calo, sappiamo che nel 2021 abbiamo emesso ancora più CO2 e ci stiamo avviando verso i 100 milioni di barili/giorno di petrolio, destinati a crescere ancora nel 2022. Il primo dato che si registra, afferma Testa, è la grande differenza fra come pensiamo che vada il mondo e come invece va effettivamente.
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Appare chiara la differenza fra come ci piacerebbe che il mondo fosse e come il mondo va realmente, guidato sostanzialmente dal principio economico. E poi bisogna mettere in relazione, ha proseguito Testa, il dato della CO2 con il dato del pil. Quanta anidride carbonica viene prodotta per ogni dollaro di pil? Le quantità variano e ci sono criteri di efficienza diversa da area a area. La Francia è il Paese più virtuoso dato che impiega energia nucleare, 0,18 chilogrammo di CO2 per dollaro. Agli antipodi c’è la Russia, con 0,50 kg per dollaro perché estrae, petrolio, gas e carbone. A questo punto Testa ha introdotto il tema cruciale del suo intervento, il disaccoppiamento. Occorre disaccoppiare pil e crescita CO2. Per fare decoupling, il ruolo della tecnologia è imprescindibile. È come quando ci si preoccupa di quanti litri si possono percorrere con un motore. Occorre intervenire simultaneamente su aerodinamica, peso del motore, sistemi elettronici di controllo. Tutto questo è quello che si intende con la parola tecnologia. Dal 2010 al 2017 nel settore dell’energia abbiamo assistito a una bella impennata dell’incidenza delle rinnovabili, ma anche gas e petrolio crescono. Solo il carbone registra una lieve flessione. È evidente che più noi cresciamo, e più si accorcia il tempo a disposizione per correggere la situazione. Al tempo stesso, appare chiara la differenza fra come ci piacerebbe che il mondo fosse e come il mondo va realmente, guidato sostanzialmente dal principio economico. L’Africa sta crescendo a ritmi importanti, verrebbe da dire finalmente, sostiene Testa. Non si può andare a Nairobi e dire loro di smettere di crescere, forse i sacrifici dovrebbero toccare a noi. Ursula von der Leyen sta lavorando per inasprire ulteriormente il sistema di scambio delle emissioni
ETS. Ma le reazioni non mancano Nel 2021 la bolletta di gas e luce è cresciuta del 20% e il governo italiano è dovuto intervenire per ridurre gli oneri. Il movimento dei Gilet Jaunes in Francia si è scatenato, come è noto, per un modesto aumento del gasolio che serviva per finanziare proprio misure di contenimento della CO2. Allora la domanda è: ma la popolazione europea è pronta ad accettare una perdita di competitività fino a questo punto?
Nel caso in cui nel 2035 la rete elettrica non fosse pronta, pagheremmo lo scotto di aver fermato l’evoluzione del motore termico. Tornando al calo delle emissioni di Stati Uniti ed Europa, a cosa è dovuto? La Cina è la fabbrica del mondo. Acciaio, hardware, cemento... con la delocalizzazione abbiamo portato da loro il peggio delle produzioni inquinanti. Ma non è del tutto corretto dire che noi non produciamo più CO2, noi la reimportiamo, solo che non la vediamo più. Il sacco di cemento, la maglietta (ecc.) non ci sono più nel nostro bilancio nazionale, ma li ritroveremmo se considerassimo il flusso dei consumi. Chicco Testa ha ripetuto di non avere soluzioni alle immense sfide in atto, solo punti interro-
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gativi. In particolare, Testa si è interrogato sugli obiettivi formulati da Unione Europea e Agenzia Internazionale dell’Energia, organismo finanziato dall’OCSE: zero macchine a combustione nel 2035 e zero emissioni nel 2050. Un obiettivo che sembra impossibile da raggiungere, soprattutto se si pensa a città come Nuova Delhi, Lago, Città del Messico e Nairobi… In Africa l’energia elettrica è molto preziosa perché la rete elettrica è molto instabile, salta 4-5 volte al giorno. A Milano nel mese scorso si sono registrati dei mini black out per colpa dei condizionatori accesi simultaneamente. Non è l’energia che manca, ma la rete che non regge, come quando a casa salta la luce. Ecco, in Africa è lo stesso, solo su scala molto più estesa. Secondo Testa, non è pensabile in queste parti del mondo installare milioni di punti di ricarica per auto. Così come sembra irraggiungibile l’obiettivo UE di avere un punto di ricarica elettrica in autostrada ogni 60 chilometri. Oggi in autostrada gli automobilisti fanno il pieno in 3 minuti. Con un fast recharger, ci impiegherebbero 25 minuti. È un obiettivo realistico, si domanda Testa? Greta potrebbe dire che non è importante, che ci riusciremo più avanti. Nel frattempo, però, abbiamo smesso di fare qualsiasi ricerca sul motore a combustione, per esempio sullo standard Euro 7. Sui giornali abbiamo letto della Gkn che a Firenze ha licenzia-
to 200 operai nella fabbrica che produce sistemi di trasmissione per il motore termico. È stato incivile mandare un messaggio su Whatsapp per licenziarli, ma se un’azienda non fa margini, è ovvio che chiuda. In Europa si concentrano molte industrie automotive di eccellenza, e il motore termico è cambiato nei decenni in modo spettacolare. Secondo Testa, nel caso in cui nel 2035 la rete elettrica non fosse pronta, pagheremmo lo scotto di aver fermato l’evoluzione del motore termico. La multinazionale Shell ha subito una condanna da un tribunale olandese che la obbliga a ridurre le emissioni entro il 2030. La questione è ancora da dirimere, non ci sono leggi che impongono obblighi in questo senso. Anche Eni è attaccata ogni giorno perché produce gas e petrolio. Ma la vera domanda è: ma se i consumi continuano a crescere, chi andrà a soddisfare il fabbisogno di energia che ne deriva? Il petrolio, che prima del Covid era attestato sui 30 dollari al barile, ora è balzato a 75 dollari. L’Europa sta perdendo quote di mercato a vantaggio di Russia, Paesi Opec e Qatar, e questo vuol dire che stiamo trasferendo enormi quantità di ricchezza verso altri Paesi. Si parla di abbattere l’emissione di CO2 pro capite da 8 t a 0.5, uno scenario davvero difficile da immaginare con l’Africa che deve uscire dalla povertà e la Cina che continua a crescere.
L’agricoltura è diventata agile, intelligente, non sparge i concimi al buio ma si avvale di droni che rivelano il fabbisogno di ogni pianta e regolano l’irrigazione. Sull’altro fronte, ci sono le fonti rinnovabili e l’idrogeno. Secondo l’UE, in Italia dovremmo arrivare a produrre 7mila megawatt all’anno, quando oggi ne facciamo solo 1.000. In verità, non si riescono più a realizzare nuovi impianti perché la popolazione non li vuole più. Vogliono conservare i prati e
le campagne. Le pale eoliche non sono ben viste, e non c’è impianto eolico e fotovoltaico che non sia sottoposto a contestazioni durissime. I progressi che si sono fatti sin qui dipendono dal disaccoppiamento. Dopo la guerra eravamo 2 miliardi, oggi 9 miliardi, ma gli ettari coltivati sono gli stessi. L’agricoltura, da estensiva, è diventata intensiva. Nel 1945 si producevano 10 quintali di cereali per ettaro, oggi 60. L’agricoltura occupava il 50% degli italiani, oggi, con la produzione aumentata, meno del 5%. E questo grazie a immissione di energia, tecnologia e informazione. L’agricoltura è diventata agile, intelligente, non sparge i concimi al buio ma si avvale di droni che rivelano il fabbisogno di ogni pianta e regolano l’irrigazione, e poi fa ricorso a ingegneria genetica e biotecnologie. Consideriamo che le piante di oggi sono il risultato di secoli di incroci. Per esempio la vite italiana stava per morire, e si è salvata solo grazie all’innesto con la vite canadese. La vite è fragile, e infatti è uno dei più grandi consumatori di antiparassitari. Oggi possiamo migliorare le piante e fare in modo che abbiano meno bisogno di anticrittogamici nocivi. Anche questo è disaccoppiamento, ossia meno terra e più cibo. Nel 1945, su due miliardi di abitanti della Terra, 1,5 moriva
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di fame e gli altri non se la passavano troppo bene, ha riportato Testa. Anche da noi c’era un tasso di povertà alimentare largamente superiore al 50%. Oggi, su 7 miliardi, solo 1 miliardo di persone è classificato sotto la soglia di povertà.
I primi casi di intelligenza artificiale applicata sono il termostato e il navigatore. La strada maestra del disaccoppiamento è l’innovazione tecnologica: abbiamo bisogno di tecnologie sempre più efficienti, che consumino sempre meno energia e producano sempre meno CO2. E nell’innovazione tecnologica c’è anche l’innovazione dei materiali. Testa ha raccontato di come si è innamorato del grafene, una ‘sfoglia’ di strati praticamente senza spessore (1 milionesimo di millimetri!). Con un grammo di grafene si può ricoprire l’estensione di un campo di calcio. È più resistente dell’acciaio, è leggero, è un grande conduttore elettrico e al tempo stesso un isolante fantastico. Un industriale italiano sta studiando il modo di inserirlo nei blue jeans, per garantire il fresco d’estate e il caldo d’inverno. Di materiali ottenuti in laboratorio come questo ce ne sono diversi, prima non eravamo in grado di crearli e lavorarli. Grazie a loro avremo automobili, aerei e camion molto più leggeri e resistenti, con consumi di carbu-
rante inferiori. Nell’innovazione tecnologica rientra anche l’intelligenza artificiale, che aiuta a riorganizzare i processi produttivi e sociali con un enorme risparmio di tempo, risorse e ed energia. I primi casi di intelligenza artificiale applicata sono il termostato e il navigatore. Nel mondo ci sono 1 miliardo di automobili. Grazie al navigatore e anche alle sue funzioni predittive dl traffico, si possano risparmiare alcune ore di guida all’anno. Moltiplicando per 1 miliardo, parliamo di alcune decine di miliardi di ore di guida risparmiate, una quantità enorme. Il navigatore dà inoltre tutte le informazioni di contorno sullo spazio attraversato. Prima eravamo ciechi, oggi il navigatore ha migliorato le nostre risorse informative e organizzative. Il navigatore è dunque una bella metafora di quello che la tecnologia può fare in settori come l’agricoltura, in cui può determinare quale pianta manchi di azoto, quale di nitrati, e quale di acqua. La tecnologia genera precisione e consente di non procedere alla cieca: si pensi all’incredibile orizzonte rappresentato dalle smart cities.
Bisogna cambiare i sistemi produttivi con pazienza e tenacia, senza alimentare il catastrofismo a tutti i costi. Testa – dopo aver citato Romano Prodi, che in una recente intervista sosteneva che obiettivi di transizione green così drastici siano difficilmente percorribili e possano penalizzare l’Europa – ha evocato la fusione nucleare come alternativa che potrebbe risolvere molti problemi. Per arrivare a perfezionare questa tecnologia si calcola che ci vogliano altri 50 anni. Perché non farlo in 30 o in 25, chiamando a collaborare le grandi potenze industriali all’interno di una grande alleanza internazionale, come è stato fatto
per il vaccino? Le soluzioni non possono più essere pensate solo su scala europea, ma globale. L’agricoltura biologica, che costa il doppio, può forse funzionare in Europa, ma non in tutto il mondo. Testa ha sostenuto che bisogna cambiare i sistemi produttivi con pazienza e tenacia, senza alimentare il catastrofismo a tutti i costi. Che bisogna impegnarsi per trovare soluzioni su scala globale, senza chiudersi nello stretto orizzonte europeo. E ha sostenuto di preferire Obama a Greta. In un incontro con i giovani, Obama ha sostenuto che il mondo di oggi è il mondo migliore in cui poter nascere, il momento più felice dell’umanità. Ha invitato perciò a una certa concretezza. L’energia solare va bene, ma dopo le 5 del pomeriggio il sole tramonta, e allora occorre far entrare in funzione le centrali termiche. La Germania ha rinunciato al nucleare, ma facendo così ha aumentato il ricorso al carbone. Questo non significa che non bisogna andare verso la sostenibilità, solo che bisogna farlo nel modo giusto. Per esempio, non è pensabile di sostituire in un colpo solo 30 milioni di auto. Una certa parte del mondo ambientalista dice sì all’idrogeno ma solo se si fa con energie rinnovabili. In realtà l’idrogeno si fa anche col metano e con il sequestro di CO2. Si calcola che l’idrogeno verde costi 7 volte di più quello blu. Bisogna stare attenti a non cadere in un processo non efficiente, in cui si usa 100 di energia per produrre 70 di idrogeno. Il tema dello storage dell’energia fotovoltaica è importante e promettente, soprattutto nei Paesi arabi che dispongono di ampie superfici libere. Ma ci sono anche le centrali a pompaggio di aria compressa, e le centrali a gas, che negli ultimi sei anni sono passate da un’efficienza del 40% a un’efficienza del 60%. Gli ambientalisti si dichiarano ostili alle soluzioni Carbon Capture", ma non produrre CO2 è impossibile. Anche per fabbricare un’auto elettrica c’è bisogno di acciaio e bisogna estrarre
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litio e cobalto. Occorre percorrere tante strade insieme. In conclusione, Chicco Testa ha invitato a espandere l’orizzonte temporale dei cicli che prendiamo in considerazione, e a non pensare la natura come un potere buono. Per arrivare al punto in cui siamo oggi, che non è certo un giardino, la Terra ha impiegato 14 miliardi di anni. Per ben 5 volte ha registrato 5 estinzioni di massa, con il 90% delle specie è stato spazzato via. La visione seconda la quale Dio ci avrebbe dato un giardino e noi peccatori lo useremmo male non tiene, così come non tiene che è possibile salvare l’equilibrio ecologico consentendo alla specie umana di crescere e di star bene. In realtà la natura è priva di morale. E ce ne siamo accorti con il virus. I virus esistono da miliardi di anni, mentre noi abbiamo solo qualche centinaio di migliaio di anni. Senza di loro noi non esisteremmo. Se vogliamo guardare il mondo dal punto di vista della natura, sarebbe meglio che noi togliessimo il disturbo. Perciò, sarebbe più onesto parlare di ‘giusto egoismo’: gli slogan altruistici sono solo una delle tante ipocrisie di cui siamo rivestiti noi uomini moderni.
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COSE CHE SI IMPARANO
QUANDO CI SI FERMA Richmond Tips è un format di Richmond Italia nato nell’anno del lockdown. Abbiamo chiesto a speaker, coach, psicologi, trainer e consulenti nell’area Risorse umane di distillare un consiglio sul da farsi in un periodo difficile e sfidante come questo. Risultato? Più che pillole di saggezza, piccole leve per risollevare il mondo a partire da ciascuno di noi. Cerca tutte le Richmond Tips sul canale YouTube di Richmond Italia.
Gianluca Rocchi
Oggi il miglior riferimento potrebbe essere ascoltare le persone. (…) Voi mi chiederete, come si fa a essere un riferimento? Beh, la risposta potrebbe essere facile, anche se in realtà quando si pensa a se stessi non è che si è sempre convinti di essere proprio centrati in questo. In realtà, sarebbe far rispettare le regole, rispettarle ed essere un buon esempio. E talvolta, oggi, non lo siamo.
Bill Niada
La pandemia ci ha dato l’opportunità di fermarci e di “vedere”. (…) Io penso che la pandemia sia un’occasione, come le crisi, come i momenti in cui appunto tutto cambia, tutto si rivoluziona e tu sei costretto a scegliere, a pensare, a capire come trovare delle soluzioni per andare oltre e ritornare a una normalità che prima ci sembrava una cosa banale, scontata, brutta, una cosa da criticare.
FRANCO FRANCIA Inema Senior partner
“Gioisco per le vittorie e imparo dalle sconfitte”
L
a mia storia potrebbe essere quella di tanti: a Reggio Emilia un ingegnere meccanico laureatosi a Bologna non fa notizia. Però un ingegnere gestionale che gioca a pallavolo seriamente da quando ha tredici anni non si vede proprio tutti i giorni nemmeno dalle mie parti. Ho iniziato nel 1975 e all’apice della mia carriera sportiva sono arrivato ad allenarmi con una squadra di serie A1, anche se non ho mai messo piede in campo. Abbiamo iniziato allora in quattro amici, e da allora non abbiamo mai smesso. Ancora oggi ci alleniamo almeno due volte alla settimana. In questi anni la disciplina è molto cambiata. Sono cambiate le regole, in particolare il modello di punteggio, che oggi lascia spazio a un gioco più fisico e meno tecnico. Ai miei tempi era richiesto che la palla venisse giocata in maniera perfetta. Oggi si privilegia la spettacolarità del gioco e meno la tecnica. Io sono della vecchia scuola, resto convinto che negli sport senza contatto fisico, la tecnica debba prevalere.
“Questo ci consente di dire che la vittoria non è mai merito del singolo giocatore, così come la sconfitta non è mai colpa di uno solo”
In termini di traumi, siamo quasi a livelli da rugbisti: ho chiodi in entrambe le spalle e ho rotto il tendine del quadricipite. Per due volte i medici mi hanno imposto di smettere, e per due volte non li ho ascoltati. Perché, mi dico, una persona deve smettere di fare le cose che l’appassionano? Nella pallavolo ho un obiettivo: cerco di migliorarmi sempre. Ho la possibilità di esercitare una sana filosofia dello sport e della competizione, gioendo per le vittorie e imparando dalle sconfitte. Una sconfitta non è un dramma, è un materiale sui cui lavorare. Al momento ci capita di arrabbiarsi, addirittura ci scappa anche qualche litigio in campo. Ma poi ci rendiamo conto che anche da questo episodio abbiamo qualcosa da imparare. Che cosa? Per esempio come gestire l’invecchiamento, evitando alcuni livelli della competizione a cui non possiamo più arrivare in termini di prestazione fisica. Per capirci, quando sei giovane hai la massa muscolare. Io portavo la 42 di camicia e la 52 di pantaloni, oggi sono sceso a 39 di camicia e 48 di pantaloni. Ma i giocatori anziani suppliscono all’indebolimento fisiologico facendo leva sull’esperienza e ricorrendo a giochi psicologici più o meno sottili. La cosa più bella della pallavolo è riuscire a praticarla con uno spirito di squadra. E come squadra, posso assicurare che su diversi aspetti possiamo dare del filo da torcere ai giovani: e questo, perché ci siamo lasciati alle spalle
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ogni tipo di sconfitta. Bisogna sapersi evolvere e adattare alle nuove condizioni in cui ci si trova ad agire. A ragion veduta, posso affermare che nello sport vince chi si adatta. L’ultima cosa da fare, è essere convinti di essersi già adattati. È un processo senza fine. La pallavolo è una presenza costante nella mia vita. Per i casi della vita, il mio mentore nel mondo del lavoro è stato un ex giocatore di pallavolo, l’ingegner Roberto Casadio di Imola. L’avevo incontrato sui campi da gioco quando entrambi si giocava in serie C. In azienda era già partner. Mi ha insegnato a gestire le persone e i loro percorsi di crescita, e gli inevitabili conflitti che affiorano all’interno del team e nelle relazioni con i clienti. Con lui, complice lo sport, c’è stato subito un feeling naturale. Penso di poter dire che avessimo lo stesso dna sportivo. Nella nostra società di consulenza abbiamo portato alcuni elementi della competizione sportiva, utilizzandoli per così dire come basi filosofiche. Per esempio, incoraggiamo lo spirito di squadra a tutti i livelli. Questo ci consente di dire che la vittoria non è mai merito di uno solo, e la sconfitta non è mai solo colpa di uno solo. O per fare un altro esempio, teniamo molto al concetto di "allenamento", quindi siamo impegnati in un percorso di formazione interna strutturata praticamente permanente, che tiene conto anche della giovane età delle persone.
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“Il coach argentino aveva formulato la sua ricetta: impegno quotidiano, sacrificio e non porsi limiti rispetto a dove si può arrivare”
Della pallavolo mi hanno ispirato non solo le caratteristiche del gioco ma anche i suoi protagonisti. In particolare due, Karch Kiraly e Velasco. Karch Kiraly è per me il più grande giocatore di pallavolo della storia. Nel 2001 la Federazione mondiale lo ha eletto miglior giocatore di pallavolo del XX secolo, insieme all’italiano Lorenzo Bernardi. Ha vinto le Olimpiadi in due discipline, pallavolo e beach volley, e vi ha preso parte anche come allenatore della nazionale americana femminile. Era il migliore in ricezione e difesa, non faceva letteralmente mai cadere la palla. Un giorno un giornalista gli chiese: “Ma come fa a trovarsi sempre dove va la palla?” Kiraly rispose: “E perché dovrei andare dove non va?”. Da lui ho imparato a stare in campo e a gestire il team. L’insegnamento che ho tratto – e che ho cercato di applicare anche fuori dallo sport – è che devi farti trovare al posto giusto nel momento giusto con la competenza giusta, e sempre in modo armonico con i tuoi compagni di squadra. Nel 1995 ho avuto la possibilità di incontrarlo. Era il mito di tutti i pallavolisti che conoscevo. L’altra figura è un allenatore di origine argentina, Julio Velasco. A lui mi sono ispirato per capire come allenare gli altri. Velasco ha fatto la storia della pallavolo in Italia, che prima di lui non aveva mai vinto una competizione. Ai Giochi di Atlanta 1996, la nazionale maschile italiana di pallavolo più forte di tutti i tempi perse per un punto contro l’Olanda, mancando l’oro per un soffio, ma questo succedeva dopo i titoli europei, mondiali e in World League. Il coach argentino aveva formula-
to la sua ricetta: impegno quotidiano, sacrificio e non porsi limiti rispetto a dove si può arrivare. Ha avuto la fortuna di aver potuto lavorare con una generazione di fenomeni, ma non è solo questo: Velasco, oltre al fisico, allenava la mente. Era riuscito a dimostrare che si possono superare barriere erette da altri. Ho la fortuna di conoscerlo di persona, e lo considero un maestro di vita. È apprezzato anche in ambito aziendale, grazie a seminari e conferenze sempre molto efficaci su come motivare il proprio team partendo dalla dimensione del singolo.
“Prima di voi ci avevano già provato cinque società, fra cui alcune molto grandi. Voi siete stati gli unici a riuscirci” La pallavolo ha una forte tradizione in Emilia. Modena, Parma, Bologna e Ravenna sono squadre che hanno vinto tanti scudetti. Un aspetto affascinante è la componente del fair play verso l’avversario. Probabilmente è più sfumato che nel rugby, ma esiste. Intanto, la toccata della palla dentro/fuori non è sempre facilissima da individuare, quindi ci si abitua a una certa relatività del risultato. Non essendo sport di contatto, devi mantenere un atteggiamento di concentrazione e di rispetto nei confronti dell’avversario. Il comportamento degli atleti non è mai sopra le righe, l’ambiente è familiare. A quindici anni, alzarsi alle sette del mattino di domenica per andare a giocare a dieci chilometri da casa, è una bella scuola di vita. Che cosa ti insegna la pallavolo? Che senza squadra non puoi fare un passo. È lo sport di squadra per antonomasia, non può esistere gioco senza squadra, anche perché ogni azione deve necessaria-
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mente comprendere tre passaggi di palla. Non c’è spazio per azioni individuali come quelle di Michael Jordan o Messi. Lo sport è un aspetto fondamentale della mia vita. Ieri alle 20.30 ero a un torneo di beach volley riservato a giocatori dai diciotto ai sessant'anni. Tutto questo background è diventato un patrimonio che ho cercato di portare nel business. Verso i nostri clienti ci rapportiamo come se fossimo dalla stessa parte del campo: facciamo squadra. Diciamo sempre che per un progetto ben fatto servono un cliente e un consulente. Mi ricordo un episodio che risale al 1999. Per una multinazionale avevamo lavorato intensamente per cinque mesi per industrializzare un modello di retail innovativo per quei tempi, con strumenti evoluti come la simulazione. Dopo esser entrato in sintonia con il cliente, gli ho chiesto: “Ma perché avete scelto noi che siamo una società piccola, con trenta persone?” Lui mi rispose: “Credi di essere il primo? Prima di voi ci avevano già provato cinque società, fra cui alcune molto grandi. Voi siete stati gli unici a riuscirci.” Sì, ma per riuscirci occorre muoversi su un terreno di grande sintonia, per non dire di simbiosi. A noi interessano rapporti continuativi, e per costruire sintonia ci vuole tempo. Quando un cliente ti conferma la fiducia, al di là del mero contratto, per noi è festa grande. Si diventa partner. Come si sa, il mondo della consulenza è dominato dalle Big Four (o Big Seven, se si è di manica larga). Coprono tutti i settori, hanno competenze di advisor finanziario molto spinte, sono forti nei sistemi informativi e offrono soluzioni end-to-end in tutti i settori. Questo tipo di modello porta a sviluppare rapporti non continuativi con le aziende. Per noi è l’opposto. La nostra distintività è che siamo piccoli e lavoriamo per clienti molto più grandi di noi, sviluppando rapporti duraturi e lavorando fianco a fianco nella realizzazione. È sicuramente un mondo più faticoso.
“Dopo le crisi del 2007 e del 2010 me ne sono andato dall’affermata società di consulenza in cui mi ero formato e cresciuto perché ritenevo che servisse un approccio diverso post-crisi”
Entrare nelle aziende non è semplice. Al loro interno incontriamo una cultura conflittuale. Più sono grandi e più c’è conflitto, ed è abbastanza naturale. Noi cerchiamo di interagire in modo poroso a tutti i livelli, portando metodi e tempo (“Method and time”) e cercando di interagire a tutti i livelli, non solo con i vertici. Il mio capo storico diceva che è l’amministratore delegato ad aprirci le porte dell’azienda, ma sono il capo reparto e l’operaio a farci restare. Nel nostro mestiere, l’importante è far “toccare con mano” il risultato, allora tutte le tensioni tendono a sfumare. Se sono stato realmente d’aiuto nel conseguimento di un risultato, anche chi all’inizio mi aveva visto come un nemico, mi chiamerà per farsi aiutare. L’importante è rimanere consulenti e non cedere alla tentazione di pensare come dipendenti. Il business di Inema è aiutare le aziende a migliorare le proprie performance. Non ci limitiamo alla fase di sviluppo, ma seguiamo le imprese in tutte le fasi di implementazione e take-off di questi sistemi/progetti. Oggi in Inema lavorano trentacinque persone, tutte assai più giovani di me. Questa caratteristica rispecchia la discontinuità che abbiamo voluto imprimere all’azienda. Dopo le crisi del 2007 e del 2010 me ne sono andato dall’affermata società di consulenza in cui mi ero formato e cresciuto perché ritenevo che servisse un approccio diverso post-crisi. A distanza di dieci anni, mi dico che avevo visto giusto.
In Inema siamo organizzati in tre macro ambiti organizzativi. Il primo è Operations, in cui lavoriamo per esempio con i metodi di Lean Six Sigma. Questa concezione gestionale, che combina la filosofia Lean con il sistema della qualità, è per noi come un ambiente operativo, all’interno del quale sviluppiamo progetti e soluzioni tailor made. Il secondo è Project Management, che garantisce il controllo dei tempi e dei costi delle attività di trasformazione delle aziende. Il terzo è il Data Management. Per una società di piccole dimensioni come la nostra è un fatto distintivo l’aver sviluppato al proprio interno pratiche diverse nella gestione dei dati e della trasformazione digitale. Alcuni dei partner di Inema sono stati fra i promotori del capitolo italiano dell’associazione Data Management International, di cui dal 2018 sono Vice Presidente. A questa associazione fanno capo sessantamila persone nel mondo e oltre mille aziende. Ogni mese mettiamo a disposizione dei membri la condivisione delle best practice. Il capitolo italiano è una realtà singolare, perché è l’unica fondata da professionisti non di estrazione IT. In Italia abbiamo sviluppato una buona attività, andiamo per esempio a raccontare il Data Management nelle scuole secondarie e favoriamo in tutti i modi l’adesione di giovani studenti, non facendo pagare l’iscrizione. Proprio di recente, abbiamo avuto la possibilità di illustrare le attività della nostra Associazione al World Summit of the Information Society di Ginevra. Perché è importante acquisire consapevolezza sull’acquisizione, sulla gestione, e in definitiva, sull’etica dei dati? Perché i dati hanno una potenza incredibile, i dati condizionano la nostra vita. Da quando ci alziamo a quando andiamo a letto, tutta la giornata è guidata dai dati. Qualcuno misura il consumo dell’acqua della doccia. Qualcuno analizza i dati quando accendi il gas per il caffè. Qualcuno registra i tuoi sposta-
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menti per andare al lavoro, e così via. La mole di dati che si raccolgono è impressionante, e siamo solo agli inizi. Ci aspettano molte sfide nei prossimi anni. L’infodemia nel periodo del Covid ci ha per la prima volta fatto riflettere sui rischi di una circolazione dei dati senza governance. Comincia anche a farsi timidamente strada la consapevolezza di quanto sia importante una gestione etica dei dati, nella società, nelle aziende, nel privato. Con una gestione non corretta si possono causare grandi danni all’ambiente fisico e umano in cui viviamo.
*Il commento dei
B.Liver*
È veramente intere ssante scoprire come il mondo dello sport possa ispirare nuove strategie aziendali e addirittu ra rafforzare i rapporti tra collegh i, come in una vera e propria squadra. Fabio Valle
Park Hotel ai Cappuccini di Gubbio: storia e natura vibrano all’unisono UN EX MONASTERO TRASFORMATO IN UN LUOGO DI ACCOGLIENZA UNICO, IN CUI COMFORT E FUNZIONALITÀ SI INTRECCIANO ARMONIOSAMENTE CON LE ISTANZE DEL RACCOGLIMENTO, DELLA RIFLESSIONE, DEL BENESSERE E DELLA RIGENERAZIONE.
Nel 1631 Ulderico da Carpegna, vescovo di Gubbio, pone la prima pietra della chiesa dedicata a San Nicola di Bari. Tre anni dopo vengono acquistati i terreni per edificare il chiostro. Il 16 febbraio 1640 ventidue frati Cappuccini si insediano nel monastero. Nel 1866, il governo unitario proclama la soppressione degli ordini religiosi, sfrattando i frati dal convento e trasferendo la proprietà al Municipio di Gubbio, che nel 1878 vi apre una scuola agraria. Alla fine del 1800 la proprietà cade via via in abbandono, fino a diventare una cava di pietra per ristrutturare le case di Gubbio. Negli anni ’60 del secolo scorso iniziano i lavori di ristrutturazione su progetto degli architetti
Monaco e Luccichenti. E nel 1996 apre i battenti un albergo di prima categoria, con le linee della struttura architettonica perfettamente conservata. Nel 1987 la struttura viene rilevata dal Gruppo Financo, che ne avvia una seconda ristrutturazione in vista dei mondiali di calcio Italia ’90. Oggi l’albergo dà lustro alla città ed è un volano per lo sviluppo turistico del territorio. Il Park Hotel ai Cappuccini dispone di 92 camere fra quelle ricavate nella parte antica del monastero e quelle in stile contemporaneo nella parte del nuovo ampliamento. Ulteriori 10 camere sono disponibili nella settecentesca Villa Benveduti. Le lobby e gli ambienti comuni sono declinate con una straordinaria
IL PAESAGGIO UMBRO È UNA GEMMA CHE INCASTONA L’OPERA DELL’UOMO NEL CORSO DELLA NATURA, LASCIANDO LIBERA LA MENTE DI CERCARE NUOVE VIE DELLO SPIRITO, DELLA BELLEZZA E DELL’IMMAGINAZIONE. tessitura fra arte antica e arte contemporanea. Ai grandi camini in marmo, agli affreschi del ’400, alle tele rinascimentali e ai grandi arazzi fiamminghi fanno da contraltare gli affreschi dei saloni su cartoni di Giuseppe Capogrossi, le opere di Giulio Aristide Sartorio e la sculture di Arnaldo Pomodoro. Nel parco fanno mostra si sé la Fontana della Pace di E. Abbozzo e la Colonna del Viaggiatore di Arnaldo Pomodoro. L’avveniristico Parco Acque, firmato
dall’architetto Simone Micheli, si compone di due spazi: uno di libero accesso di 350 metri quadrati, con piscina, vasca baby, nuoto controcorrente e area idromassaggio, e un secondo più riservato, con vasca idromassaggi circolare, vasca idromassaggi a forma di arca che utilizza acqua addizionata con magnesio e potassio, e vasca per la talassoterapia. Intorno al borgo conventuale si sviluppa un grande parco con alberi secolari, un arometo e un magnifico
oliveto. Monasticum, la farmacia del convento, si ricollega all’antica tradizione monastica dell’hortus sanitatis: gli ospiti possono trovare prodotti creati dai monasteri dell’Umbria, dalla collezione di infusi ai rimedi e spiriti elaborati con antiche ricette come il nocino e il laurus.
On-line Speaker
Marta Signore
A
Marta Signore fanno capo due aree organizzative: Human resources e Facility management. Al primo Richmond forum dedicato alla gestione di spazi di lavoro, edifici e asset industriali, svoltosi on line nel mese di luglio 2021, Marta Signore ha portato il racconto di un caso decisamente interessante: come il trasloco nei nuovi spazi sia stata un’occasione preziosa per rinsaldare rapporti e identità, in un momento così delicato come quello della pandemia globale.
L’inaugurazione del nuovo spazio si era tenuta appena una settimana prima!
Le ragioni vanno cercate sia nell’evoluzione del business, sia nell’urgenza di trovare una nuova sede per il gruppo. Il gruppo Koelliker è un’azienda interamente italiana nata nel 1936 e molto attiva nel dopoguerra,
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conosciuta per l’importazione di marchi automotive britannici. Negli anni ’60 il salone Koelliker nella centralissima piazza San Babila è diventato il salotto della Milano che si poteva permettere determinati stili di vita. I marchi storici del gruppo sono Jaguar, Aston Martin, Mini Morris, Rover e Innocenti. Su questi marchi, l’azienda si è formata e ha imparato il mestiere. Poi, nel tempo, ha saputo riposizionarsi come talent scout capace di portare per la prima volta in Italia marchi internazionali come Seat, Chrysler, Mitsubishi e le coreane Hyundai, Kia
Sede nuova, vita nuova In Koelliker Group gestione degli spazi e gestione delle persone vanno all'unisono
e Ssang Yong. Oggi il gruppo offre servizi di trasporto e strutture logistiche e di stoccaggio anche ad altri marchi. La storia recente vede tre importanti novità: la scelta di impegnarsi in misura convinta nella mobilità elettrica con il progetto Kgen, che vede il debutto di ben cinque nuovi marchi in Italia: Karma, Seres, Maxus, Aiways e Weltmeister; la decisione di ricapitalizzare l’azienda e l’inaugurazione di una nuova sede a Milano. La coincidenza di questi cambiamenti ha segnato un cambio di passo, quasi un nuovo inizio. Le ragioni vanno cercate sia nell’evoluzione del business, sia nell’urgenza di trovare una nuova sede per il gruppo. E tutto questo è andato in scena durante i mesi della pandemia. Con l’adesione al modello della mobilità elettrica, l’azienda ha fatto proprio un nuovo modo di vivere l’auto. L’auto non è più solo un veicolo, ma diventa parte di un sistema più ampio e interconnesso della mobilità fondato sui servizi. Pensiamo alla possibilità di sostituire
le batterie o ricaricare le auto ferme, di offrire i test drive a casa e infine di lasciar libero il cliente di decidere se comprare o noleggiare a lungo termine. Oggi Koelliker si presenta come hub dell’auto elettrica di nuova generazione.
Il nostro intento può essere condensato in una frase: “far sentire le persone come a casa". La sede storica di Koelliker si trovava in zona Certosa. Era dignitosa ma non comparabile all’impatto d’immagine e funzionalità della sede nuova. Il trasferimento è avvenuto in un lasso di tempo estremamente ridotto. Affrontare un trasloco in piena pandemia avrebbe potuto essere fonte di preoccupazione. E invece in Koelliker nessuno si è spaventato. Anzi, si sono colte appieno le nuove opportunità, e come nel caso dell’elettrico, si è prima di tutto assorbito una visione nuova.
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Nei mesi precedenti si era passati dallo smart workplace allo smart working, che mette a rischio le capacità di relazione fra le persone. C’era quindi molto attesa per i nuovi spazi. D’altra parte, la nostra realtà non ha capacità di investimento come Microsoft o Google, e per l’automotive non è certo un periodo roseo. La struttura attuale si sviluppa quasi esclusivamente in ambienti open space. L’evento di inaugurazione ha avuto una carica simbolica molto forte, è durato tre giorni e ha coinciso con il lancio di auto nuove anche per i collaboratori. Le persone si sono trovate dopo dieci giorni di trasloco e smart working. Per la mia funzione, è stato un test importante per capire se le decisioni che avevano ispirato il nuovo spazio fossero corrette. Quali sono le leve del benessere? Come cambia la cultura del lavoro? Che leve abbiamo a disposizione per motivare le persone che vengono a lavorare? Il nostro intento può essere condensato in una frase: “Far sentire le
persone come a casa”. Dentro questo ‘sentire’ ci sono diverse aree che occorre presidiare. Bisogna garantire sicurezza e supportare l’esperienza di vita quotidiana. Bisogna facilitare le modalità del network e della condivisione. Bisogna essere digital in modo trasversale e a tutti i livelli. Bisogna infine coltivare il valore della trasparenza – in questo senso l’open space aiuta molto – e offrire un ambiente bello, con tutto ciò che questa parola può significare.
È straordinario osservare come le persone si impossessino dei progetti che abbiamo pensato per loro e li ‘abitino’ in modo attivo e personale. Per far sentire le persone incluse, il Facility manager deve affrontare una serie di criticità. La pandemia ha lasciato il segno, e alcune categorie di lavoratori, come le donne e i genitori, hanno avuto la sensazione di perdere terreno per il solo fatto di esser dovute restare a casa più di altri. Lavorando più tempo a casa, hanno dovuto sacrificare la propria presenza in sede. Nella nostra esperienza, abbiamo visto che in realtà si lavora meglio da casa, si è più produttivi. Ma la percezione delle persone è differente. Il nostro compito, in questo caso, è annullare la differenza fra
chi lavora da casa e chi lavora in sede. Dobbiamo creare lo stesso framework per tutti. L’ambiente deve essere bello, ossia gradevole. Devo aver la possibilità di bermi un caffè quando ne ho voglia, come faccio a casa. Su questo piano, la connettività gioca un ruolo importante, le persone devono essere facilitate nella presenza in sede. È straordinario osservare come le persone si impossessino dei progetti che abbiamo pensato per loro e li ‘abitino’ in modo attivo e personale. Il primo giorno nella sede nuova, due mie colleghe hanno subito trovato un luogo dove poter incontrarsi e parlare. La pandemia è stata un invito potente al back to basics e alla piramide di Maslow, e ci ha insegnato che la sicurezza è un’idea importante. E poi il quadro sta cambiando velocemente, penso che concetti come Work life balance siano quasi superati, non c’è una suddivisione netta fra vita e lavoro, c’è solo una vita quotidiana fatta di esperienze, lavorative e non, e il nostro compito di Facility manager è supportare i processi in questa chiave. Il valore delle infrastrutture digitali è cruciale, ma anche il valore della trasparenza è molto importante. È inutile fare proclami che poi nascondono il nulla. La scelta dell’open space è inequivocabile. Il momento del trasloco è stata una formidabile occasione di en-
Secondo una ricerca Randstad, ai primi due posti fra i criteri con i quali le persone valutano il posto di lavoro ci sono la Work life balance e l’atmosfera piacevole.
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gagement da parte dei colleghi. Dovevamo svuotare la sede che ha ospitato gli uffici Koelliker per quarant’anni, portando via gli arredi, le suppellettili, le cassettiere, le vetrinette, di tutto e di più… Lo smaltimento sarebbe costato una cifra, e non avevamo messo questa somma a budget. Allora, abbiamo deciso di regalare tutto ai dipendenti. Di fatto, le persone si sono organizzate, abbiamo nominato dei responsabili e organizzato dei turni per tenere aperti gli uffici. È stata una festa! Le persone arrivavano con la propria cassetta per portarsi via le cose. Abbiamo regalato interi arredi ad associazioni no profit, start up, famiglie. Persino la polizia postale è venuta a prendersi delle cassettiere! Queste giornate hanno alimentato un senso di appartenenza, una gratitudine che non avremmo mai raggiunto in altro modo. Le leve della motivazione a volte si nascondono dove meno ce le aspettiamo: dovremmo esserne più consapevoli. Secondo una ricerca Randstad sull’Employer branding e sulla employee loyalty, ai primi due posti fra i criteri con i quali le persone valutano il posto di lavoro ci sono la Work life balance e l’atmosfera piacevole. Il Covid ci ha insegnato che alcune cose che ritenevamo importanti non lo sono più tanto. Pensiamo ai viaggi di lavoro, un mondo fatto di voli, alloggi, noleggi auto, car sharing. Oggi il Business commuting non è all’ordine del giorno: è più importante il Business connecting. Che vuol dire pensare, per fare un esempio, alle sale per le web conference. Non sono, non possono essere sale riunioni qualsiasi e non dovrebbero sembrare dei magazzini di scope. O, per fare un altro esempio, pensare alle funzioni specifiche delle varie aree degli edifici. Ci possono essere aree condivise, ma allora dovranno essere contro bilanciate da aree dove ci si riesce a concentrare. Queste distinzioni affiorano con forza quando si parla di presenza in sede. Bisogna domandarsi, qual è il vero valore aggiunto della presenza in sede?
I giovani non pianificano la carriera. In compenso sono molto sensibili alla reputazione dell’azienda. Noi l’abbiamo fatto in modo informale. Nessuno ci ha detto “la fuga dai figli”, anche se avrebbe potuto. Quasi tutti hanno invece fatto riferimento al networking. Ossia, quella che io chiamo creatività non pianificabile. Se per parlare con un collega devo fissare una call o una chat, parliamo dell’ordine del giorno indicato nella convocazione. Se invece sono in sede e incrocio un collega, e poi ci mettiamo a chiacchierare, scatta qualcosa che non è pianificabile. Il grande cambiamento della cultura del lavoro a cui abbiamo assistito negli ultimi dieci anni va sicuramente in direzione di una maggiore autonomia e della responsabilità personale. Abbiamo superato o stiamo superando il tema del controllo degli accessi e del tempo di lavoro. In futuro arriveremo anche a prendere in considerazione le nuove generazioni che sono entrate nel mondo del lavoro, le quali danno importanza a cose diverse rispetto a quelle precedenti. I giovani non pianificano la carriera. In compen-
so sono molto sensibili alla reputazione dell’azienda. Il tema della Work life balance diventa Work life experience, un filo conduttore su cui il Facility manager può intervenire direttamente.
Ecco la nostra lesson to learning: la relazione fra le funzioni HR e Facility management è assolutamente necessaria. A proposito di Facility management, quando il mindset cambia in modo importante, non è facile avere a portata di mano il giusto supporto e le giuste competenze. Bisogna usare un po’ di immaginazione. Ciò che conta è la sponsorship da parte della Direzione generale. Il nostro ruolo è quello di alleato naturale tanto della Direzione generale quanto della Direzione delle Risorse umane. Insieme, possiamo mettere in campo tutte le risorse organizzative e le leve soft che ci servono. Insieme, possiamo decretare la fine del badge. Nella nuova sede avevamo il problema della timbratura. Ci troviamo in un compound con una guardiania in comune,
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che non accetta il nostro badge. Ci siamo arrovellati a lungo su come fare. Poi abbiamo trovato la soluzione. Semplice, abbiamo eliminato la timbratura. Abbiamo fatto tabula rasa. Ci siamo dotati di un’app che attiva in remoto il segnale di presenza, così siamo in grado di rilevare l’attività delle persone. L’HR riceve dal Facility management un supporto impagabile nella Employment retention: il brand che vendo come Employer non può prescindere dalla sede di lavoro e dalle modalità di lavoro, e quindi indirettamente anche dalla ricchezza di competenze presente nel Facility management team. Noi portiamo soluzioni smart, ambiente sicurezza e salute. La task force che abbiamo messo in piedi a febbraio scorso per far fronte all’emergenza Covid non poteva essere solo HR o solo Facility management. Ecco la nostra lesson to learning: la relazione fra queste due funzioni è assolutamente necessaria
MARCO CAMPAGNANO Fit and Go CEO e Co-founder
“Da piccolo avevo sette in condotta, oggi gestisco ottanta negozi”
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uando frequentavo la scuola ero pieno di idee e voglia di fare, non stavo mai fermo e la mia energia era difficile da contenere, infatti prendevo sempre sette in condotta. Ho creato la mia azienda nove anni fa: una rete nazionale con ottantuno centri attivi su tutto il territorio italiano e oltre centotredicimila clienti soddisfatti. Mio padre è stato un imprenditore e ha sempre consigliato a me e alle mie sorelle di non percorrere i suoi passi, sostenendo che non valesse la pena vivere sotto stress sette giorni su sette e così, nella prima parte della mia vita, ho seguito il suo suggerimento. Sono stato assunto come dipendente da una società di consulenza: sottostavo a regole molto rigide, entravo ogni mattina alle otto e trenta, lavoravo quattordici ore al giorno, ma nonostante tutto, essendo la mia prima esperienza lavorativa, questo tipo di impostazione lavorativa mi ha fornito strumenti indispensabili per la mia crescita. Successivamente ho lavorato per un’azienda che ha vinto più volte il “Great Place to Work”: potevo andare al lavoro senza giacca e cravatta, avevo orari flessibili, giocavo a ping pong e a biliardino e il clima era estremamente sereno, tutti davamo grande importanza ai momenti di confronto.
Come in quasi tutti gli aspetti della vita, bisogna trovare il giusto equilibrio fra le cose, ed essermi approcciato a due realtà lavorative così diametralmente opposte mi ha aiutato moltissimo a capire che “la verità sta nel mezzo”. Sono riuscito prima a disegnare e poi a costruire il mio percorso e il mio ideale approccio al lavoro, facendo tesoro delle mie esperienze e cogliendo il buono da ognuna, aggiungendo così un importante quid alla mia carriera.
“Sarò un buon padre? La risposta non c’è” Tre anni fa sono diventato papà per la prima volta, oggi ho due figli, un maschio e una femmina. Ogni volta che li guardo, la domanda che mi pongo è sempre la stessa “Riuscirò ad essere un buon padre?”, questo è ciò che mi sta più a cuore. Ho tratto tanti insegnamenti dagli errori che ho commesso nelle mie esperienze lavorative, e in alcuni casi, mi rendo conto che le nuove consapevolezze mi stanno aiutando nel percorso di crescita dei miei figli. Nel mio lavoro c’è stato un periodo in cui gestivo cento dipendenti e quando mi guardo indietro, riconosco di aver compiuto molti sbagli: delegavo poco, lavorando incessantemente anche per sedici ore in una giornata, rileggevo ogni e-mail che inviavano i miei colla-
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boratori, non lasciavo autonomia, controllavo tutto. Con il tempo, mi sono reso conto, però, che senza fiducia le persone non possono crescere. Credo che una sana relazione personale sia la base per il successo di una famiglia, così come di un’azienda, oggi infatti, punto sempre molto sul rapporto con i miei collaboratori, consolidando conoscenza, rispetto e stima reciproca. Noi esseri umani siamo in fondo semplici, a parità di condizioni, sceglieremo sempre la miglior relazione: in quale bar ci piace andare al mattino? Con estrema probabilità sceglieremo il luogo dove c’è sempre qualcuno ad accoglierci con un sorriso, che ci saluta chiamandoci per nome e che ci chiede se stiamo bene. Ho un grande sogno per i miei figli: vorrei che diventassero persone libere, autonome, responsabili ed in grado di scegliere, persone capaci di ragionare con la propria testa. Non posso ancora sapere che persone diventeranno i miei figli, sono ancora piccoli, ma spero che i traguardi ottenuti sul lavoro, grazie al mio cambio di rotta, possano essere raggiunti anche in famiglia. È importante creare un network solido, una rete per creare valore per me e per la società. È essenziale migliorare il mondo nelle piccole cose, un sorriso degli altri vale sempre la pena.
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"In famiglia e nel lavoro: diamo l’esempio e perdoniamo chi sbaglia" Credo che il miglior modo per insegnare qualcosa a qualcuno sia offrirgli un esempio da seguire. L’esempio, per sua natura, riporta un’esperienza diretta di qualcuno; tutto ciò che sappiamo di questo mondo, lo sappiamo solo grazie all’esperienza diretta delle cose, a qualcuno che, prima di noi, ha provato, sbagliato, capito e poi ha vinto. E sono sicuro che proprio questa esperienza, questa imitazione dell’altro, sia ingrediente virtuoso che dovrebbe essere primario in tutti gli aspetti della vita. Io adoro i cani, ma non li accarezzo mai e quando sono con mia figlia noto che lei non li accarezza, proprio come me: sono certo che lei prenda da esempio i miei comportamenti e li replichi, nel suo piccolo sta imparando il “come” delle cose attraverso di me e quindi so che dovrei trasmetterle sicurezza, approcciandomi per primo ai cani, di modo che lei si sentirà sicura nel farlo, a suo tempo. Nei rapporti di lavoro funziona esattamente allo stesso modo, il nostro comportamento è fondamentale; se chiedo puntualità,
devo arrivare in orario anch’io. Il tempo mi ha insegnato che tutti sono sostituibili e nessuno è indispensabile, all’inizio della mia carriera ero troppo flessibile e acccondiscendente, perché temevo di perdere le risorse in azienda, quindi non davo segnali significativi quando un dipendente si approfittava di qualche situazione oppure faceva ripetuti errori. Oggi, al contrario, sono più deciso e quando mi accorgo che in qualcuno manca il senso di responsabilità agisco di conseguenza. Anni fa feci un colloquio per diventare Direttore Generale, ma dopo aver superato quattro colloqui, scelsero l’altro candidato. Per migliorarmi chiesi ai responsabili perché ero stato escluso solo in dirittura d’arrivo. Mi risposero che avevo tutte le caratteristiche richieste da quella posizione, ma nel test per la gestione dei dipendenti mi ero dimostrato troppo permissivo, perdendo la possibilità di trasmettere a tutto il gruppo un messaggio educativo. Ad oggi, quando i miei figli sbagliano, cerco di contenerli dandogli dei limiti, e anche se piangono e mi rifiutano in quel momento, so che quell’azione un domani darà i suoi frutti e con il tempo darà valore alle loro abitudini. Ci sono tanti modi di sbagliare, quando l’errore è ripetuto, probabilmente la delega non è stata fatta in modo adeguato, biso-
gna capire se la persona possiede le giuste competenze per quello specifico mandato. Il libro “The One Minute Manager” racconta tre tecniche per realizzare cambiamenti duraturi nell’ambito del management. Un minuto di goal, un minuto di rimproveri, un minuto di lode. Il manager ha un minuto di tempo per trasmettere alla risorsa quale obiettivo andava raggiunto, contestualizzare il tipo di errore che è stato commesso e dedicare un minuto finale per ricreare l’autostima, valorizzando gli aspetti positivi. Più volte, quando ero giovane, mi ripetevano che, se qualcuno sbagliava, andava perdonato. Era necessario spiegargli bene l’errore e dedicargli del tempo. Quando rimprovero la mia bimba, lei si arrabbia, va via e mi dice che sono cattivo, io però resto fermo sui miei passi, torno da lei e gli rispiego l’errore. Anche sul lavoro ho imparato che quando qualcuno sbaglia dobbiamo facilitare le cose per creare valore, avvicinandoci per rinforzare la relazione con l’ascolto, lasciando da parte l’orgoglio.
*Il commento dei
B.Liver*
Leggendo questa st oria mi sono sentito desc ritto esattamente dalle su e parole. Attualmente ho un lavoro che mi piace e mi fa se ntire utile e responsabile. Sentirm i accolto dai colleghi e dai superio ri poi, mi fa dare sempre il 300%. Michele Tedone
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Emidio Morganti. Opening speaker Richmond Retail Business forum 2020
REINVENTIAMO IL GIOCO
Grandi speaker. Incontri b2b. Sessioni di coaching. Networking informale. Due giorni e mezzo di full immersion rigorosamente dal vivo pensati per abbracciare l’innovazione senza timori. Per riflettere e condividere nuove visioni con partner e colleghi. Per liberare il proprio potenziale nelle partite che si stanno
RIMINI | 26-28 SETTEMBRE 2021 | 8-10 MAGGIO 2022
giocando oggi. Ci vediamo al Grand Hotel di Rimini.
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IL MERCATO CHIEDE VISIONE, STRUMENTI E NUOVI MARKETPLACE.
ENERGIA
E-COMMERCE & RETAIL
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RICHMOND ENERGY BUSINESS FORUM Spring - Hybrid
RICHMOND E-COMMERCE FORUM International on-line
RICHMOND SUPPLY CHAIN FORUM International on-line
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RICHMOND E-COMMERCE FORUM Spring - Hybrid
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RICHMOND HUMAN RESOURCES FORUM Hybrid
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RICHMOND MOTIVATION & LEARNING FORUM On-line
RICHMOND FACILITY MANAGEMENT On-line
RICHMOND DIGITAL COMMUNICATION FORUM International on-line RICHMOND MARKETING FORUM Hybrid
RICHMOND ITALIA RISPONDE ESPANDENDO SETTORI, MODALITÀ, CONFINI.
INFORMATION TECHNOLOGY
FINANZA AZIENDALE
RICHMOND HSE FORUM International on-line
RICHMOND IT DIRECTOR FORUM International on-line
RICHMOND FINANCE DIRECTOR FORUM Hybrid
RICHMOND HSE FORUM Spring - Hybrid
RICHMOND CYBER RESILIENCE FORUM International on-line
RICHMOND HSE FORUM Autumn - Hybrid
RICHMOND CYBER RESILIENCE FORUM Hybrid
RICHMOND FINANCE DIGITAL TRANFORMATION FORUM On-line
SAFETY
RICHMOND RISK MANAGEMENT FORUM On-line RICHMOND IT DIRECTOR FORUM Hybrid
INDUSTRY 4.0
SICUREZZA
RICHMOND FUTURE FACTORY FORUM International on-line
RICHMOND SECURITY DIRECTOR FORUM Hybrid
RICHMOND FUTURE FACTORY FORUM Hybrid
PAOLO AVERSA Ally Consulting CEO
“I coraggiosi normalmente hanno cuore”
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artiamo dalla fine, che in realtà è stato il mio nuovo inizio: il primo agosto del 2019 ho costituito Ally Consulting. Precedentemente ero socio in un'altra azienda, ma come accade nel mondo del lavoro non sempre le visioni e gli obiettivi iniziali che ti portano a fondare una società vengono poi condivisi nel viaggio che si decide di intraprendere insieme. Quando ho realizzato che il mio modello di business e di gestione delle relazioni tra proprietà e collaboratori non era più in linea con il mio modo di essere e pensare, ho preso la decisione irrevocabile di staccarmi da quella realtà.
pri figli. Anche io ho un figlio di sedici anni che ha cambiato completamente il mio modo di vedere le cose e di approcciarmi in tutti i rapporti, anche in quelli professionali. Quando è nato ero già un imprenditore e avevo la fortuna di poter gestire il mio tempo, mi ero dato come obiettivo quello di essere sempre presente, partecipare ad ogni "prima volta" di mio figlio: il suo primo giorno di scuola o il suo primo torneo di tennis. Quindi se tutto questo vale per me, deve valere anche per i miei dipendenti e per chi lavora nella mia azienda, perché dal punto di vista qualitativo la loro vita ne può solo beneficiare.
Oggi performo meglio di prima e mi diverto. Dopo la mia dipartita undici persone mi hanno seguito nella nuova avventura lavorativa, e questa per me è stata la soddisfazione più grande ! Ho dipendenti che lavorano con me da trent’anni, conosco la loro vita e viceversa, tra noi c’è un rapporto umano e personale. Sono imprenditore dal 2003 e mi sono reso conto nel corso del tempo di essermi circondato di persone di buon senso, acquisendo la capacità di riconoscere i valori che mi fanno stare bene. Oggi nella mia azienda è vietato lavorare dopo le diciotto, il sabato e la domenica, perché ognuno di noi ha una propria vita, ha i pro-
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“Human, prima di tutto” Il claim della mia azienda è “Inspired by Human”. Human sono le persone: sono io, i miei dipendenti, i miei clienti, non sono i prodotti che vendiamo, non sono i software, non è l’intelligenza artificiale; il valore della mia azienda sono le persone. Io ho il dovere di garantire che nella mia società chiunque sia trattato con rispetto per lavorare con serenità ed entusiasmo, i miei dipendenti devono prendersi cura di loro stessi e di riflesso avere cura della qualità
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del loro lavoro, devono essere felici di entrare in azienda a prescindere dal loro know-how. Mi sono laureato in ingegneria, facoltà scelta da mio padre. Lui mi ha cresciuto come un soldato perfetto e performante ed io ho esaudito tutti i suoi desideri, ma per farlo non ho dato il giusto peso alla relazione con gli altri : ero molto impostato e seguivo il mio copione per raggiungere il traguardo. Il fatto di essere cresciuto a Napoli però mi ha permesso di assaporare e vivere fin da piccolo la spontaneità di un popolo che ha il talento innato di esprimere in maniera chiara e schietta i propri sentimenti. Con il tempo e con l’esperienza ho imparato anche io a sviluppare la mia sfera emotiva. La razionalità non mi è mai mancata e mi è servita a prendere decisioni importanti, ma la differenza è che oggi, oltre alla testa, uso il cuore e l’istinto per muovermi nel mondo.
“Vincere sempre è una noia bestiale”
Quando un dipendente non riesce a portare a termine un progetto bisogna metterlo nelle condizioni di dire qual è la difficoltà che ha riscontrato. Io conosco il loro valore professionale, perché lo costruiamo insieme con la formazione; ma se il problema è legato alla sfera personale, si può intervenire grazie al dialogo e all’ascolto. La relazione in un contesto lavorativo è tutto : ho avuto un mentore d’eccezione durante la mia prima esperienza lavorativa, che poi è diventato anche il mio migliore amico e mio testimone di nozze, una persona straordinaria. Era mio socio e abbiamo lavorato insieme fino al 2013, poi lui ha deciso di lasciare l’azienda. In quel momento ho provato molta paura e, in tutta franchezza, ho avuto la forte tentazione di abbandonare anch’io la nave. Poi ho pensato ai miei dipendenti e ho capito che quell’azienda era anche la mia e che non potevo mollare. Così ho ripreso in mano la mia vita lavorativa e, grazie a questo grande cambiamento, ho trasformato anche me stesso : ho scoperto lati di me che non conoscevo e ho iniziato a scegliere facendomi guidare anche dalle emozioni. Dopo questa
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esperienza ho capito che un momento di crisi può diventare un’opportunità evolutiva. Ho fatto molti errori ma ho anche acquisito più consapevolezza e tutto questo alla fine mi ha permesso di creare ciò che avevo in mente, costituendo Ally Consulting. Non bisogna avere paura di sbagliare, d’altronde vincere sempre è una noia bestiale !
*Il commento dei
B.Liver*
Ho la stessa eco in testa da mezz'ora: vorrei fosse il mio capo e vorrei anch'io essere un capo così. Le cose cambiano solo cambiandole, e lui l'h a fatto. Da donna e malata cronica, profondamente graz ie! Oriana Gullone
GIOVANNA ALLORO Sappi Manager environment & safety
“Il sacrificio è meno di quel che sembra, se viene da te”
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i occupo di ambiente, sicurezza e salute nei luoghi di lavoro dal 2003. Iniziai con il classico stage universitario curriculare in uno studio di consulenza. Poi rallentai gli studi per lavorare part time da loro: ci rimasi cinque anni e nel frattempo conclusi l'università in Scienze ambientali. Nello studio ero la più giovane e l’unica donna in un ambiente molto maschile ed ingegneristico. Quella fu un’esperienza bellissima sia a livello di relazioni che di crescita professionale. Imparai presto il mestiere e fui subito coinvolta in tutti i processi. Rappresentò per me un grande vantaggio e un punto a favore: feci molti passi avanti in poco tempo. L’unico neo fu quando un giorno il responsabile mi chiamò nel suo ufficio e mi disse che nonostante fossi pronta a gestire alcuni clienti da sola, il fatto di essere una giovane donna non me lo consentiva, perché rischiavo di perdere credibilità. Mi disse: “Non ho clienti pronti ad averti come consulente”. Da quel momento iniziai ad elaborare la condizione che mi guidò per il resto della vita: scegliere di lavorare per aziende dove non debba scendere a compromessi.
“La mia prima regola nel lavoro e nella vita: mai scendere a compromessi"
In seguito, iniziai a lavorare in una azienda farmaceutica, sempre in ambito HSE e lì maturai l'esigenza di conseguire la magistrale. Tutti mi chiamavano Dottoressa, titolo che formalmente avevo con la mia laurea triennale, tuttavia non me lo sentivo davvero addosso senza la specialistica. Era una questione di sostanza. Così, nonostante avessi già un lavoro avviato, decisi di iscrivermi alla magistrale in Scienze ambientali. Durante i nove anni in cui lavorai nell'ambiente farmaceutico terminai la specialistica, feci un master di primo livello in Scienze tecniche della prevenzione nei luoghi di lavoro, mi sposai e nel 2015 diventai mamma. A livello formativo non mi sono mai fermata, cercando sempre di essere coerente con il mio lavoro. Quando mia figlia aveva un anno, infatti, mi iscrissi nuovamente in università, questa volta in Ingegneria della sicurezza civile ed industriale, percorso che ho completato lo scorso dicembre. Spesso le persone mi chiedono come faccio a fare tutto. La verità è che il sacrificio è meno di quel che sembra, quando arriva da te e credi in ciò che fai. Tre anni fa invece, dopo l’esperienza in ambito chimico farmaceutico, decisi di cambiare lavoro: volevo approcciarmi ad un processo produttivo più complesso. E Sappi, l’azienda di cui oggi sono l’HSE manager, ha tutta la complessità che cercavo: è molto sfidante a livello professionale. Sappi produce carta per l'ambito alimentare, il settore etichette, tabacco e fashion
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(trasferimento immagine per sublimazione su tessuti). Si tratta di una multinazionale sudafricana presente anche in Nordamerica ed Europa. Fui assunta nel 2018 con l'obiettivo di migliorare le prestazioni di sicurezza e salute dei due stabilimenti italiani appena acquistati dall’impresa. Sappi è un'azienda storica, ed essendo una multinazionale ha un approccio molto safety first. Tra le prime disposizioni da introdurre come nuova policy vi era l'obbligo di usare il corrimano mentre si fanno le scale. Rispettare questa regola fu una vera e propria forzatura anche per me, almeno per i primi sei mesi. Per abituarmi iniziai a tenermi al corrimano dappertutto: a lavoro, a casa, al centro commerciale… trasferendo questa idea anche alla mia famiglia.
“La mia bimba aveva interiorizzato l'esempio che le avevo dato" All'epoca vivevamo al secondo piano senza ascensore e mia figlia Anna, di appena due anni, stava imparando a fare le scale da sola. Continuavo a dirle di tenersi al corrimano, finché un giorno mi resi conto che iniziò a farlo da sola nel momento in cui io stessa mi abituai a compiere quell’azione. Pensai: “E’ da tanto che non le raccomando di tenersi, eppure lo sta facendo comunque". Dopo circa sei mesi, fu lei
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a iniziare a dirmi di tenermi al corrimano ogni volta che mi dimenticavo. Mia figlia arrivò al punto di assicurarsi che io lo usassi, poiché ormai aveva interiorizzato l'esempio che le avevo dato. In quel momento realizzai che la stessa cosa accade in azienda quando i leader danno il buon esempio. Spesso faccio un parallelismo tra la vita lavorativa e quella privata per trasmettere l'importanza della sicurezza ai dipendenti. Perché allacciarsi le cinture in auto e non farlo su un carrello elevatore? Il comportamento sicuro che applico fuori, lo porto anche all'interno dello stabilimento. Di nuovo, è questione di sostanza: non riesco a lavorare sulla sicurezza solo perché va fatto, ma perché ci credo. La parte che amo di più di questo lavoro è prendermi cura delle 250 persone che lavorano in azienda e fare in modo che a loro volta si prendano cura dei colleghi, in un processo che si autoalimenta. Proprio come ha fatto la mia bambina con me. Non dobbiamo dimenticare che l'H-
SE manager di fatto si trova sul campo, sempre. Nonostante la nostra qualifica sia quella del manager, il nostro compito è stare là dove lavorano le persone, con le scarpe antinfortunistiche ai piedi. Amo relazionarmi con tutti, dall'amministratore delegato al neoassunto, perché questi diversi approcci relazionali mi arricchiscono e mi permettono di portare questo spirito anche a casa.
“Auguro a mia figlia di credere nelle proprie capacità e guardare sempre avanti” Ad esempio, raramente dico a mia figlia: "Fai così perché lo dico io". Posso andare avanti ore a discutere con Anna, perché voglio che lei capisca qual è il motivo di una determinata raccomandazione. Non amo imporre regole dall’alto, né ai colleghi, né alla mia bambina di cinque anni. Può essere faticoso, ma poi le soddisfazioni arrivano. Alla festa dei diplomi della scuola
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materna di mia figlia è stata consegnata una valigetta simbolica ad ogni bambino con ciò che si porteranno con sé in futuro. A mia figlia hanno assegnato la parola "Insegnamenti". Spero che avermi sempre visto studiare e lavorare full time, nonostante questo abbia sottratto del tempo anche a lei, possa essere d’ispirazione per la sua crescita. L'esempio più bello che spero di aver dato ad Anna è proprio questo: la capacità di poter fare ciò che vuole nella vita. Se ci crederà, potrà prendersi tutto.
*Il commento dei
B.Liver*
Quando si parla di sfera privata e sfera lavorativa, di fficilmente le si associa. Invece è davvero stimolante leggere la quotidianità in un’ottica produttiv a e propositiva anche su l lavoro. Martina Dimastrom atteo
Alla scoperta dei valori di Richmond Italia Sei. Responsabili nelle scelte. Più che una miniera da spremere, l’umanità è un orto da coltivare. E io, ho saputo esercitare integrità e senso della comunità? Ho saputo trasferire il mio sapere alle nuove generazioni? Ho saputo creare un clima migliore di quello che ho trovato in azienda, nella società, nel territorio, pensando anche ai soggetti meno avvantaggiati?
1. Crescere insieme. 2. Crescere dentro. 3. Vincere e perdere. 4. Raccontare la vita. 5. Agili nell’azione. 6. Responsabili nelle scelte. 48
“In equilibrio tra impegno e paura. Decidere è una questione di responsabilità”
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esponsabili nelle scelte’ è forse il valore che più mi corrisponde tra quelli che dipingono l’identità di Richmond Italia. E devo dire che fin da piccola ho sempre subito il fascino e l’importanza della responsabilità. C’è però un episodio che vorrei raccontarvi. Anni fa ho deciso di fare forse la più grande follia per amore che avessi mai fatto: mi sono trasferita negli Stati Uniti, precisamente a Baltimore per ricominciare una nuova vita con l’amore della mia vita!
Non è stato facile, anzi molte lacrime sono state versate ma ricordo ancora di aver detto: essere liberi di scegliere è meraviglioso ma comporta delle responsabilità! Ecco queste parole fanno tuttora parte della mia vita, non soltanto come donna e madre ma anche come manager di Richmond Italia in cui svolgo da ormai due anni il ruolo di Delegate Coordinator. Saper scegliere non è facile ed essere responsabili di scegliere ancora meno ma siamo un team molto affiatato, ci aiutiamo gli uni con gli altri e siamo sempre pronti a condividere successi ed imprevisti! Sento la responsabilità delle scelte che faccio ogni giorno ma sento anche l’appoggio ed il supporto di tutto il team Richmond. Essere responsabile per me significa essere in equilibrio su un filo, proprio come un funambolo, tra impegno e paura di sbagliare. Solo così si possono affrontare le sfide!
Sara Burro Delegates coordinator Richmond Italia
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PAOLO BARBATELLI Rold Chief Sales & Innovation Officer
“La vita come un tappeto elastico: è quando sei a terra che devi spingere di più per andare verso l'alto”
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ono un manager industriale e lavoro in ambito tecnologico. Vivo di grandi passioni: per la tecnologia, la musica, lo sport ed il motociclismo. Nella vita ho dovuto affrontare un’esperienza particolarmente sfidante perché, circa quindici anni fa, mi fu diagnosticata una di quelle malattie che speri di non avere mai. E invece affrontai quel percorso di discesa agli inferi e ritorno, forse sottovalutandolo anche un pochino e uscendone per miracolo. Da quel momento cambiai totalmente visione e approccio alla vita. Oggi, a quasi cinquantasette anni, ragiono spesso sul concetto di restituzione: dopo aver accumulato tante competenze, relazioni ed abilità comincio a pensare di essermi salvato per un motivo. Un motivo che non sia solo la famiglia e l’azienda, alle quali mi dedico costantemente, ma anche quello di migliorarmi ogni giorno di più per restituire tutto il possibile al mondo che mi circonda.
lattia fu come scoprire, nel modo più brutale e scioccante, l’esistenza della Kryptonite. In quel momento scelsi di affrontarla in modo sfacciato, prendendomene gioco: per me guarire era semplicemente un progetto da portare a termine, proprio come se fossi sul lavoro. Non erano ammessi altri termini: guarire e tornare a vivere meglio di prima, sempre a “gas aperto”, come amiamo dire tra appassionati motociclisti. A volte, gli oncologi che mi seguivano mi consideravano un folle. Loro erano glaciali, come giusto
“Per me guarire era semplicemente un progetto da portare a termine” All’età di quarant’anni anni ero un marito, un padre ed un manager con un percorso professionale ben avviato: vivevo una sorta di “sindrome da Superman”. Quando mi venne diagnosticata la ma-
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essere nella loro posizione, e mi prospettavano spesso una situazione addirittura peggiore di quella che era, allenandomi ad accettare il classico worst case scenario. Io, invece, partivo dal presupposto che sarei dovuto uscire da quella esperienza più forte di prima, sia fisicamente che mentalmente. In un certo senso fu così: da allora ci fu un’escalation nella mia carriera. Feci un salto nel buio, passando dal settore informatico a quello manifatturiero e mi rimisi in gioco. Il coraggio di fare certi passaggi lo trovai grazie a quel pizzico di follia che mi diede la sin-
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drome del sopravvissuto. Mi sentivo come un Highlander, che dopo avercela fatta si chiedeva perché avesse perso molti dei suoi compagni di avventura e se ci fosse uno scopo in tutto questo. E qui entra in gioco la restituzione: se sei al mondo è perché hai qualcosa da raccontare e da regalare. Personalmente ho cercato di migliorare quello che mi stava intorno. Ho iniziato a lavorare e vivere con uno stile diverso, pragmatico, più performante e diretto.
“Il coraggio di fare certe scelte lo trovai grazie a quel pizzico di follia che mi diede la sindrome del sopravvissuto” Io non ci avevo mai creduto, ma è documentato in un sacco di libri: dopo che una persona passa quattro mesi della propria vita in una camera stagna, ne esce cambiato. Questo si riflette nella capacità di coinvolgere gli altri e generare performance e seguito, diventando catalizzatore di una serie di cose belle, che poi si riflettono anche nelle proprie passioni. Ho avuto l’immensa fortuna di conoscere personalmente gli idoli che rappresentano per me le passioni più grandi: Bill Gates per l’informatica e la tecnologia, Giacomo Agostini per il motociclismo e Patrick Djivas della PFM per la musica, come molti altri in ambito sportivo. Ma la fortuna va aiutata, avendo il fegato di uscire dalla propria comfort zone e di buttarsi a capofitto in nuovi contesti e avventure. Per questo credo che la vita sia un continuum, in cui le passioni, gli affetti e le attività professionali convivono assieme, senza una netta distinzione.
Lo stesso vale per il settore in cui lavoro, la technology for humans, ossia la tecnologia per le human appliances, o come amo definirle io, gli elettrodomestici usati dalle persone. I prodotti della nostra azienda si trovano all'interno di dispositivi usati da tutti nelle proprie case. La tecnologia, anche la più avanzata digitalmente, ha sempre un volto umano e diretto e non è avulsa dal mondo analogico. Anche nel lavoro c'è questa deontologia di fondo: spesso si guarda al proprio ecosistema di business solo da un punto di vista contabile o finanziario; mentre, costruendo rapporti empatici, si possono scoprire passioni comuni e ci si possono scambiare idee e visioni. In questo modo ci si può migliorare non solo come lavoratori, ma anche e soprattutto come persone. Per questo abbiamo recentemente deciso di fondare una Academy in azienda: un'iniziativa formativa a tempo pieno, affinché "non si giochino solo le partite", ma ci si continui ad allenare per migliorarsi sempre di più. Sebbene la mia sia una vita frenetica e complessa, mi regala grandi soddisfazioni grazie a questo equilibrio. Passando attraverso delle porte strette, come è capitato a me, si impara a sfruttare ancora di più il proprio talento per il meglio. La
“La voglia di rivalsa nasce lì, quando sei a terra, non quando sei un figo e tutto funziona”
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voglia di rivalsa nasce lì, quando sei a terra, non quando ti senti un gran figo e tutto funziona. La vita è un tappeto elastico, che ti manda a volare in aria solo quando si comprime sotto al tuo peso. La chiave è avere sempre fame di emozioni e dedicare loro tempo ed esperienza, il resto viene da sé.
*Il commento dei
B.Liver*
Questa storia è d'isp irazione per ognuno di noi, perché ci insegna a trovare la luce anche nei momenti bui de lla nostra vita, e che talvolta segu ire il proprio cuore è la scelta m igliore che si possa fare. Elisa Tomassoli
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L’anima non ha tempo da perdere I Richmond forum di luglio 2021 si sono aperti con la lettura di una poesia che fa riflettere su come "navigare" il corso della vita.
È stata un’idea di Claudio Honegger. Il tema era: come ritorniamo sul palco dei forum di luglio, dopo uno stop difficile protrattosi per diversi mesi, con tutto il carico di aspettative e desiderio di rincontrarsi ma anche di timori non ancora scioltisi del tutto sul tema Covvid-19? L’ispirazione è venuta come lui stesso ha raccontato sul palco in apertura degli eventi, dal discorso di Capodanno dell’attore Natalino Balasso. In questi anni, Balasso è riuscito a consolidare un format che suona quasi come controcanto al discorso del Presidente della Repubblica. È spesso un discorso impegnato, che spinge fuori dal comfort delle autoconvinzioni. Nell’ultimo discorso (Capodanno 2021) Balasso ha letto una poesia di Mário De Andrade del 1940 dal titolo La mia anima ha fretta. Sono versi incantati e universali, profetici se si pensa il tempo in cui sono stati composti, e ci fanno riflettere su come dobbiamo usare lo stock del tempo della vita con maggiore responsabilità e intensità. Ha una deriva leggermente malinconica, come tutti gli inviti a capitalizzare la saggezza della vita. Nel contesto di oggi, suona come una riflessione profonda su come affrontare il “ritorno” alla vita dopo la pandemia. Non è detto che tutto debba essere ripristinato come prima. Anzi. La poesia girava da tempo sul web, e poi anche altri attori ne hanno letto una versione, fra queste molto bella quella di Enrico Montesano. La poesia è stata recitata sul palco a turno dagli attori Claudia Fofi e Federico Giubilei. Alla chitarra, che giocava con la voce narrante, si sono avvicendati nelle varie date Paolo Ceccarelli e Francesco Fagiani. Ecco la versione ripresa da Balasso e dagli attori sul palco dei Richmond business forum (nella pagina a fianco invece, una versione più lunga, non ci è dato sapere quale è stata scritta per prima dal poeta). La mia anima ha fretta Ho contato i miei anni, e ho scoperto che ho meno tempo da vivere da qui in poi rispetto a quelli che ho vissuto fino ad ora. Mi sento come quel bambino che ha vinto un pacchetto di dolci: i primi li ha mangiati con piacere, ma quando ha compreso che ne erano rimasti pochi, ha cominciato a gustarli intensamente. Non ho più tempo per riunioni interminabili, dove vengono discussi statuti, regole, procedure e regolamenti interni, sapendo che nulla sarà raggiunto. Non ho più tempo per sostenere persone assurde che, nonostante la loro età cronologica, non sono cresciute. Il mio tempo è troppo breve, voglio l’essenza. La mia anima ha fretta. Non ho più molti dolci nel pacchetto. Voglio vivere accanto a persone umane, molto umane, che sappiano ridere dei propri errori, che non siano gonfiate dai propri trionfi, che si assumano le proprie responsabilità. Così si difende la dignità umana, e si va verso la dignità e l’onestà. Voglio circondarmi di persone che sanno come toccare i cuori, di persone a cui i duri colpi della vita hanno insegnato a crescere con tocchi soavi dell’anima. Sì, sono di fretta. Ho fretta di vivere con l’intensità che solo la maturità sa dare. Non intendo sprecare nessuno dei dolci rimasti. Sono sicuro che saranno squisiti, molto più di quelli mangiati finora. Il mio obiettivo è quello di raggiungere la fine soddisfatto, in pace con i miei cari e la mia coscienza. Abbiamo due vite, e la seconda inizia quando ti rendi conto che ne hai solo una. Ma chi è Mário De Andrade? In Italia è conosciuto per un volume edito da Adelphi, Macunaíma. È una storia mitologica in cui il giovane eroe nato nella foresta brasiliana è in realtà un “eroe senza carattere”, pigro, indolente e non sempre specchiato. Il testo incrocia l’irruente fantasia dello scrittore con materiali del folclore degli indios del Brasile. Simbolismo e realismo magico sostengono la narrazione, eppure il libro è considerato uno dei testi fondativi del Modernismo Brasiliano, di cui lo stesso De Andrade è stato uno dei fondatori nel tentativo di emancipare il suo Paese dal ruolo di “colonia” culturale dell’Europa. De Andrade è nato a San Paolo nel 1893 ed è morto nel 1945. Oltre a scrivere poesie e racconti, è stato critico d’arte e letteratura , musicologo, insegnante di
pianoforte, ma soprattutto è stato un instancabile organizzatore culturale. È lui uno dei motori della Semana de Arte Moderna, che si è tenuta nel 1922 e ha influenzato in modo eclatante la cultura brasiliana. È stato amico di Giuseppe Ungaretti. Nel 1927 ha compiuto un lungo viaggio risalendo il Rio delle Amazzoni. È un viaggio di ricerca e autoconoscenza, con sullo sfondo lo scenario maestoso e affascinante della natura primordiale che comincia ad essere sfruttata dall’uomo. De Andrade compila un diario semiserio in cui registra tutto – incontri, natura, tramonti, albe, cibo, discorsi, scherzi, compagni di viaggio e locali – con l’ironia di un intellettuale snob e la passione di un viaggiatore innamorato. Ne verrà fuori un libro postumo, Il turista apprendista – Viaggio per il Rio delle Amazzoni fino al Perù, per il Rio Madeira fino alla Bolivia via Marajó fino a dire basta, pubblicato in Italia dalla Biblioteca del Vascello. Nel libro troviamo descrizioni superbe della natura e di alcuni personaggi, accostando questo viaggio sul fiume al senso della vita, viene da azzardare un’ipotesi. La vita è un alternarsi di momenti intensi e felici con altri momenti difficili e vuoti, in cui il senso del procedere si smarrisce. Anche in viaggio succede così, con una differenza però. In viaggio quasi sempre la meta è definita. Nella vita, la meta è dare un senso al procedere stesso, anche quando non si sa dove andare?
Minha alma está em brisa (La mia anima ha fretta) Ho contato i miei anni, e ho scoperto che ho meno tempo da vivere da ora in avanti, rispetto a quanto ho vissuto finora. Mi sento come quel bimbo al quale regalano un pacchetto di dolci: i primi li mangia con piacere, ma quando si accorge che gliene rimangono pochi, comincia a gustarli intensamente. Non ho più tempo per riunioni interminabili, in cui si discutono statuti, leggi, procedimenti e regolamenti interni, sapendo che alla fine non si concluderà nulla. Non ho più tempo per sopportare persone assurde che, oltre che per l’età anagrafica, non sono cresciute per nessun altro aspetto. Non ho più tempo da perdere per sciocchezze. Non voglio partecipare a riunioni in cui sfilano solo "ego" gonfiati. Ora non sopporto i manipolatori, gli arrivisti né gli approfittatori. Mi disturbano gli invidiosi, che cercano di discreditare i più capaci, per appropriarsi del loro talento e dei loro risultati. Detesto, se ne sono testimone, gli effetti che genera la lotta per un incarico importante. Le persone non discutono sui contenuti, ma solo sui titoli. Ho poco tempo per discutere di beni materiali o posizioni sociali. Amo l’essenziale, perché la mia anima ora ha fretta. Non ho più molti dolci nel pacchetto. Adesso, così solo, voglio vivere in mezzo a esseri umani molto sensibili. Gente che sappia amare e burlarsi dell’ingenuo e dei suoi errori. Gente molto sicura di sé stessa, che non si vanti dei suoi lussi e delle sue ricchezze. Gente che non si consideri eletta anzitempo. Gente che non sfugga alle sue responsabilità. Gente molto sincera, che difenda la dignità umana. Con gente che desideri solo vivere con onestà e rettitudine. Perché solo l’essenziale è ciò che fa sì che la vita valga la pena di essere vissuta. Voglio circondarmi di gente che sappia arrivare al cuore delle altre persone. Gente alla quale i duri colpi della vita abbiano insegnato a crescere con dolci carezze nell’anima. Sì, ho fretta di vivere con quella intensità che solo la maturità ci può dare. Non intendo sprecare neanche un solo dolce di quelli che ora mi restano nel pacchetto. Sono sicuro che saranno squisiti, molto di più di quelli che ho mangiato finora. Il mio obiettivo, alla fine, è andar via soddisfatto e in pace con i miei cari e la mia coscienza. Abbiamo due vite, e la seconda inizia quando ti rendi conto che ne hai solo una. Mário De Andrade (1940) 55
FRANCESCO ESPOSITO Johnny Pizza Take Uè Amministratore unico
“La vita è una questione di decisioni. Se vuoi cambiare, prendi una decisione e crea un’abitudine”
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on è facile cambiare e soprattutto non è facile decidere di cambiare, eppure l’anno prossimo compio cinquanta anni e ho deciso di fermarmi e cambiare. Di prendere del tempo per me stesso, per capire e ridefinire il mio percorso. Ero Direttore Vendite Italia da tredici anni nella Pianoforte Holding per il brand Carpisa ed ero in una zona di totale comfort, tranquillità e stabilità economica e con tutti i benefit possibili. Prendere la decisione di rinunciare a tutto questo e cambiare, è durissima. Non è stato facile, lo ammetto, e moltissime persone, la mia stessa famiglia, erano preoccupate per questa decisione, perché i loro pensieri erano focalizzati sul fatto che arrivati ad una certa età ricollocarsi è complicato. Io però avevo bisogno di cercare nuovi stimoli e trovare un nuovo equilibrio tra il lavoro e la vita personale. Abbandonare è una scelta che si fa consapevolmente sulla base delle opzioni disponibili; se vi rendete conto di trovarvi in un vicolo cieco quando potreste investire altrimenti le vostre risorse, mollare tutto e cambiare è una scelta non solo ragionevole, ma anche intelligente.
“Mai rinunciare troppo alla propria vita personale”
Mi ero accorto che stavo rinunciando a troppe cose, avevo messo da parte la mia vita personale e lavoravo per un brand che aveva delle idee e delle policy aziendali oramai molto impostate, articolate e distanti dalle mie logiche manageriali. Avevo voglia di crescere, fare ancora un passo avanti con la consapevolezza di poter dare un contributo determinante. Questo però lì dov’ero non poteva accadere, il contesto era cambiato e l’azienda continuava a spostarsi verso un modello in cui non mi rispecchiavo. Ecco il perché della mia scelta. Mi sono fermato, ho preso un anno sabbatico e poi sono ripartito super carico. Ho cambiato settore, studiando nuove dinamiche e nuove possibilità offerte dal mercato; sono atterrato in una esplorazione convinta della ristorazione in chiave franchising, un ambito che mi ha sempre stimolato. Non è stato facile e la pandemia di Covid 19 con tutte le sue conseguenze non ha certo aiutato, ma nella disgrazia di quello che è accaduto, credo che per me e tante altre persone, ci sia stato tempo per una sana introspezione che facesse capire cosa volere veramente. Per me è stato un momento fondamentale, una svolta. Non ho dovuto giustificare a nessuno questo mio stop se non a me stesso e questo perché ho deciso di ripartire con un progetto imprenditoriale mio, dove le mie energie fossero tutte dedicate a un percorso personale. Mi sono affiancato una persona esperta che già conosceva il mondo del food e
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gli ho spiegato qual era la mia idea, la mia personale rivoluzione che volevo mettere in atto in questo settore: semplificare il modello di business e renderlo accessibile a tutti con un metodo innovativo. Ho viaggiato molto e osservato la concorrenza, volevo fare meglio. Per farlo ho studiato e mi sono documentato molto: così è nato Johnny Take Ue’ nel format pizza in pala. Ho creduto tanto in questa visione anche perché non volevo assolutamente tornare a lavorare in azienda; non rinnego il mio passato, tutte le ore di lavoro spese in azienda mi hanno fatto diventare una persona migliore, più forte, con tante nuove competenze e un grande network al quale appoggiarmi. È stato fantastico e ne sono grato, ma c’è un tempo per ogni cosa e devi saper abbracciare il cambiamento. È cambiata la mia prospettiva: da Direttore Commerciale di una azienda privata (questo sarebbe stato il mio prossimo step lavorativo), a Direttore Commerciale della mia azienda e ora eccomi qui, felice.
“Fare spazio intorno e dentro di sé, essere liberi di pensare” Sto imparando a riassaporare la mia libertà mi sveglio e organizzo le mie giornate, la mia morning routine, senza la pressione di dover giustificare a qualcuno ogni
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mio movimento. Questa è la vita che voglio condurre. Chiaramente i livelli di stress ci sono sempre, anzi a volte essendo imprenditori di sé stessi è anche peggio, però so che sto facendo una cosa per me. Ho utilizzato la “pausa” della pandemia per progettare il futuro e darmi un nuovo slancio. Bisogna cercare di prendere il meglio dalle cose e agire con perseveranza, imparando a liberare spazio, eliminando tutti gli strati superflui che si sono accumulati negli anni per tornare a un fulcro di senso, rimettere ogni cosa al proprio posto e ricominciare con rinnovata consapevolezza. Fare spazio intorno e dentro di sé permette di fare chiarezza ridando alla vita una prospettiva tridimensionale, cioè facendo le cose in maniera diversa, senza appiattirsi e avendo sempre una terza dimensione che è quella della visione, dell’ambizione di fare cose belle, una possibilità per ampliare lo sguardo e potersi muovere in maniera differente. Non mi accontento di essere reattivo e rispondere alle richieste altrui, voglio essere proattivo, agire ancor prima della richiesta ed essere sempre un passo avanti, ma per poterlo fare bisogna avere spazio. Con lo spazio arriva il silenzio che a sua volta favorisce l’ascolto della propria voce e questo ti permette di essere libero di pensare.
“Con gentilezza e un pizzico di rischio puoi andare ovunque e divertirti” Ho rivisto amici di vecchia data e incontrato imprenditori importanti, ho incontrato tanta gente nuova che aveva bei progetti e che aveva soprattutto tanta voglia di sperimentare: questo mi ha aiutato molto. Tutti i vecchi meccanismi aziendali mi stavano inquinando la mente, troppa burocrazia, troppi passaggi, poca fattività. Avevo bisogno di tornare a decidere. Non mi divertivo più, la complessità di certi tipi di
aziende può arrivare a soffocarti, quello che poi è stato il mio crash. Ho mantenuto ottimi rapporti con i miei ex colleghi: molti di loro mi hanno scritto mail di commiato dal valore indelebile e forse un giorno le raccoglierò tutte e ci farò un libro. Questi legami forti mi danno soddisfazioni enormi e mi riempiono umanamente, oltre che come professionista. La mia vita personale è cambiata dopo questa scelta, ho riconquistato semplici libertà come il poter portare a cena i miei genitori in un giorno infrasettimanale, piuttosto che prendermi del tempo per me stesso e coccolarmi con un massaggio al viso. Prima mi sentivo in colpa, mi sembrava di sottrarre tempo al lavoro, oggi so che volersi bene è propedeutico ed utile al proprio modo di lavorare parché aiuta a farlo meglio. Un’altra cosa fondamentale per me è l’approccio al rischio: oggi viviamo soffocati da controindicazioni. Bisogna invece assumersi il rischio ed agire, per me l’adrenalina e l’emozione della scoperta sono importantissime. Faccio davvero tante cose nella mia vita, ho un’attività imprenditoriale con delle mie società che gestiscono negozi in franchising, faccio consulenza e coaching, mi invitano a parlare in master universitari. Nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile se non mi fossi lanciato. Ho aperto un negozio in piena pandemia, con le persone che mi davano del pazzo e mi consigliavano di non farlo, ma la mia risposta era “è una opportunità, vedrai”. Ho imparato tante cose, ma una è determinante per la crescita: la gentilezza. Un leader gentile ottiene trenta volte in più le cose che può ottenere un leader prepotente e gerarchico che vuole solo comandare. Con la gentilezza si può arrivare ovunque ed ottenere dagli altri risultati sorprendenti rispetto all’utilizzo di un approccio autoritario. Alcune aziende si stanno impoverendo perché il capitale umano non è valorizzato, le risorse non possono essere numeri ma devono sentirsi artefici di
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un progetto. Noi non ci rendiamo conto dello straordinario potere della gentilezza, ma per me è fondamentale nel lavoro e nella vita. Dicono che la grandezza sia il viaggio e non la destinazione ed io oggi voglio godermi questo viaggio. Un consiglio? Abbracciate il rischio, abbracciate il cambiamento, abbracciate il fallimento e soprattutto divertitevi.
*Il commento dei
B.Liver*
Cambiamento. Spesso sono gli eventi nel percorso di vita a imporcelo, con esiti inaspettati. Il segreto è accoglie re e accettare il cambiam ento, per dare un senso alla nostra vita e a quella altrui. Alice Nebbia
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UNA QUESTIONE
DI PUNTI DI VISTA Richmond Tips è un format di Richmond Italia nato nell’anno del lockdown. Abbiamo chiesto a speaker, coach, psicologi, trainer e consulenti nell’area Risorse umane di distillare un consiglio sul da farsi in un periodo difficile e sfidante come questo. Risultato? Più che pillole di saggezza, piccole leve per risollevare il mondo a partire da ciascuno di noi. Cerca tutte le Richmond Tips sul canale YouTube di Richmond Italia.
Roberto Bonzio overview effect
L’ è quando capiamo che siamo parte di un tutt’uno in cui muri e barriere non contano, e questo tutt’uno ci rende responsabili del futuro. (…) Steward Brand, un pioniere della controcultura, è considerato anche l’anello di congiunzione fra la controcultura e la tecnologia: è lui l’autore della pubblicazione ‘Catalogo della terra intera’, che negli anni ’60 rappresentava in pratica una sorta di internet della conoscenza su carta.
Francesco Ferrara
La resilienza non è on/off, non si nasce resilienti, è un processo di apprendimento. (…) Ma allo stesso tempo è un incontro con il nostro lato oscuro, con quelle parti di noi che ci rendono meno potenti, meno capaci di affrontare le situazioni, con quelle abitudini che ci portano a dire no, non ce la faccio, non ci riesco. Essere resilienti diventa quindi una sfida alle nostre modalità e alle nostre convinzioni limitanti.
MATTIA BERTASA Electrolux Digital project manager
“La vita è una questione di scelte, anche sbagliate”
L
a mia carriera è iniziata con una scelta, quella dei miei studi universitari: ingegneria dell’automazione. La scoprii quasi per caso a un Open Day, sapendo a malapena di cosa si trattasse; mi intrigò in quanto crocevia tra diversi temi, da connettere e far funzionare in sincronia. Questo senso di varietà mi rispecchia molto: nutro vari interessi, anche decisamente differenti. Così, al termine dei cinque anni di studi ho sperimentato nuovamente, scegliendo di lavorare in un campo totalmente diverso. Ecco la mia scelta: cambiare strada. Ed è bellissimo! Sono stato assunto in Electrolux quasi per caso, grazie a una combinazione improbabile di opportunità e scelte inaspettate, forse anche poco razionali. Ma grazie a queste ho potuto intraprendere un percorso a dir poco fortunato, ricco di esperienze, conoscenze e innovazione.
to… Ecco, se dovessi condividere un consiglio direi: divertitevi a lavorare, ogni giorno. È la ricetta più semplice per risultati eccellenti! Il lancio di Electrolux Innovation Factory ha segnato uno dei periodi più belli e impegnativi della mia vita. Il progetto era unico nel suo genere: un acceleratore di innovazione, focalizzato su progetti collaborativi e “mindset change”. Ho avuto l’opportunità di lavorare con professionisti e persone eccezionali; non solo tecnici, ma anche creativi come Carlo Zoratti, uomo dalla sensibilità non comune e direttore creativo per Jovanotti, tra gli altri meriti.
“Seguire la strada che più ci appartiene e non aver paura di cambiare, divertendosi” Ho una foto divertente, scattata durante una conferenza sui “wearable devices” negli USA; ho sempre praticato lo sci di fondo e, mentre indossavo un esoscheletro a supporto delle gambe, il mio capo mi incitò a usarlo per sciare. Lascio immaginare a voi il risulta-
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Guardando indietro, però, è ora facile riconoscere quanto l’entusiasmo del seguire un progetto così energico abbia avuto un peso sul lato personale. Viaggiando tutte le settimane, ero costantemente lontano da casa e sempre più disconnesso dalla mia compagna di allora, finendo per travasare sempre più le mie energie nel progetto. E mentre questo accadeva, non l’ho percepito. Ero totalmente assorbito in un momento per me felice, al punto da non essere in grado di ascoltare e percepire che per chi mi stava accanto non valeva lo stesso. Molto probabilmente sarebbe andata ugualmente così, ma sicura-
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mente buona parte di questa rottura fu dovuta alla mia incapacità di ascoltare, per ribilanciare l’attenzione tra lavoro e affetti. Diversamente, sul lavoro vi sono costantemente momenti e situazioni difficili da gestire, ma più che vere cadute ho accumulato occasioni per imparare.
“Imparare ad ascoltare e comprendere l’altro” L’entusiasmo verso i progetti era per me un’enorme calamita e io ne venivo attratto drasticamente, diventando così monodirezionale e perdendo il punto di vista della persona che mi stava accanto. Quella rottura mi ha lasciato un insegnamento enorme a livello personale, che mi ha cambiato anche in ambito professionale. Oggi cerco di osservare e comprendere i punti di vista altrui, anche delle persone con cui le relazioni sono più difficoltose; è un grande sforzo, ma necessario per risolvere situazioni complesse mantenendo un tocco umano. È un continuo lavoro su sé stessi, per imparare a fare un passo in-
dietro quando bisogna superare le difficoltà, per smussare le incompatibilità e raggiungere il risultato evitando processi distruttivi. In breve, credo vi sia una grande contaminazione tra le esperienze private e lavorative: entrambe contribuiscono a formarci e, se lo desideriamo, a migliorarci.
“Uscire dalla propria comfort zone, attraverso le difficoltà, grazie allo sport” Ho sempre praticato sci di fondo, uno sport molto umile, estremamente duro e spesso disprezzato, ovviamente senza l’aiuto di esoscheletri! Questo mi ha formato profondamente e mi ha abituato ad affrontare le difficoltà. Tutt’ora conservo e utilizzo nella mia vita la filosofia di questo sport; è stata un’ottima base per formare il mio carattere, anche in ambito lavorativo. Una costante, direi. Se invece devo trovare un momento di stacco fondamentale nella mia vita è stato quando ho iniziato a lavorare. Da Bergamasco e appassionato di mezzi veloci, sin da piccolo ho sempre ammirato
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dall’autostrada quel lungo chilometro rosso con il marchio Brembo ben esposto, chiedendomi se mai avrei potuto arrivarci. Mai avrei pensato di declinarne l’offerta per intraprendere una strada differente; mi convinse la visione di un team, di un’azienda che voleva trasformarsi, innovarsi. Così la creatività è entrata sempre più nella mia vita. Una conversione, questa, possibile grazie alle opportunità e alla rapidità nel coglierle. Al desiderio di esprimermi ed evolvermi, sentendomi pienamente libero di farlo.
*Il commento dei
B.Liver*
Cambiare fa paura, ma spesso ci porta a scoprire stra de meravigliose che non avremmo immaginato. Siamo tu tti alla ricerca della scelta più giusta , ma le conclusioni si traggono alla fine, e alla fine non esiston o scelte sbagliate. Edoardo Hensembe rger
Gad Lerner. Opening Speaker edizione 2020
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e colleghi. Per liberare il proprio potenziale nelle partite che si stanno giocando oggi. Ci vediamo al Grand Hotel di Rimini.
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On-line Speakers
Valeria Lazzaroli e Mariangela Rosano
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aleria Lazzaroli, a capo dello spinoff universitario Arisk, insieme alla ricercatrice Mariangela Rosano del Politecnico di Torino, hanno animato la prima edizione di Richmond Risk Manager Forum on-line parlando di un argomento sotto i riflettori: l’intelligenza artificiale. Lazzaroli è partita dalla constatazione di una grande espansione delle applicazioni di artificial intelligence in diversi settori, e dell’importanza di conoscere opportunità e rischi dell’impatto dell'AI nelle at-
tività di un Risk manager. In questa valutazione la tecnologia viene trattata come se fosse un essere umano, con competenze tipiche delle persone. Forse questo non aiuta a comprendere il cambiamento radicale sia del quotidiano che del lavoro a cui stiamo andando incontro. La tecnologia AI, a prescindere dal fatto che disponiamo di molti più dati che in passato, ha spazi di sviluppo quasi illimitati.
Nel 2010 arriva la vera rivoluzione del deep learning.
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Intorno all’AI ci sono dei pregiudizi sul piano etico e dell’uguaglianza dei diritti. La preoccupazione è che l’essere umano, demandando alla macchina la valutazione, possa discriminare a priori. Se verrà gestita in modo adeguato e con principi ferrei, secondo Lazzaroli, non diventerà una black box. Anche perché quella umana è la miglior forma possibile in assoluto di intelligenza, ed è poco replicabile: al limite si può imitarla, come succede con il deep learning. Come si definisce l’apprendimento automatico? Come metodologia per implementazione di algoritmo e
Le macchine che pensano come noi Come l'AI sta entrando nel mondo del Risk management
modelli statistici senza istruzioni esplicite alle macchine ma attraverso l’esperienza. Il deep learning è un sottocampo dell’apprendimento automatico che riguarda gli algoritmi ispirati alla natura e alla struttura del cervello. Questa metodologia imita le reti neurali del cervello che si attivano nei processi decisionali. Il vero passo avanti dell’AI è l’elaborazione del linguaggio umano, sia parlato che del testo. Di AI se ne parla dal 1950, quando Alan Turing misurava l’abilità delle macchine. Allora ci fu un eccessivo ottimismo. Nel 1980 ci fu un boom, seguito però da un secondo inverno. È nel 2010 che arriva la vera rivoluzione del deep learning, supportata dalla potenza dei computer di oggi e dalla loro capacità di raccolta dati. I dati di milioni di dispositivi interconnessi vengono incrociati e generano un’enorme massa di dati, che chiamiamo big data. I dati sono la chiave che spiegano il boom dell’AI. Se non c’è il dato, non c’è nemmeno l’AI. Se i dati non sono tanti e non sono buoni, non c’è l’AI. Che cosa si intende per buoni? Si chiamano le cinque V e sono state definite le chiavi dei Big Data: Volume, Velocity, Variety, Veracity and Value. Soddisfatte queste condizioni, l’algoritmo può lavorare bene. In particolare sono le prime due a determinare l’ecosistema, il vo-
lume e la velocità. Quando un’organizzazione o un’azienda hanno accesso ai dati, devono dotarsi di infrastrutture e assetti idonei per l’AI. In altre parole, non ha senso introdurre AI in un’azienda non ancora digitalizzata.
I rischi si assumono non basandosi sul sesto senso, bensì su approcci sistematici e sui dati. In tema di analisi di risk management, è indispensabile disporre di una modellazione di processi che rispondano a una serie di domande. Che cosa è successo? Che cosa succederà? Come facciamo a farlo succedere? Quali domande dobbiamo farci? E anche, l’AI può diventare essa stessa area di rischio da studiare? La risposta è sì, comporta alcuni rischi. Avendo un impatto nella governance, nella cultura, nella strategia, nella performance, nella review, nell’informazione e nella comunicazione, va studiata e valutata. Ma quali sono i rischi principali dell’AI? Sostanzialmente due: i rischi ambientali e l’aspetto strategico legato alla governance. L’AI inquina poiché richiede un dispendio di energia elettrica importante. Il possesso di una mole enorme di dati rende responsabili dell’uso analitico che se ne vuole generare. In parallelo, si pone il
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tema della discrezionalità. Se si fa decidere una macchina, si rinuncia alla discrezionalità umana delle decisioni. L’AI può aiutare molto l’imprenditore, ma può anche deviare il suo lavoro. E poi ci sono i rischi operativi e quelli legati alla violazione dei dati. La presenza di persone esperte che conoscono il linguaggio dell'AI è garanzia di poter rettificare i fattori di rischio. L’AI è prima di tutto un data mining. Si passa all’AI quando l’azienda è pronta per un certo tipo di logica. I benefici per il Risk manager sono quattro. Migliorare la gestione dei dati (data processing). Migliorare l’efficienza (improving efficiency). Lavorare in tempo reale ed essere predittivi (real time and predictive). Essere d’aiuto nelle decisioni (business decision). Aumento dei consigli preventivi per contenere i rischi, tempi di risposta più rapidi e miglioramento dei processi decisionali si osservano in tutti i settori. Vale la regola che il board dell’azienda deve sposare questa visione. Ma qual è il vero vantaggio dell’AI? Che i rischi si assumono non basandosi sul sesto senso o sulla ‘pancia’, che spesso non funzionano, ma su decisioni legate ad approcci sistematici e ai dati. approcci sistematici e basati sui dati. Gli algoritmi sono addestrati a compiere operazioni definite e pensate strategicamente, in am-
bienti digitalizzati e con adeguati assetti organizzativi. Grazie all’AI, il Risk manager potrà intervenire in modo più incisivo.
Per capire la rischiosità dell’impresa, occorre avere sempre più una visione olistica di sistema. Mariangela Rosano ha proseguito, ricordando che la tecnologia informatica sta rivoluzionando i modi di interagire uomo-macchina e macchina-macchina. Le definizioni dell'AI non sono univoche ma resta come fattore distintivo la vicinanza e la somiglianza ai modelli di comportamento umano. Attività onerose e ripetitive affidate alla macchina possono aiutare il Risk manager, in particolare le sue capacità predittive in tempo reale. Come si è visto, i big data possono essere visti come un capitale improduttivo che grazie all’aumento del potere computazionale diventa produttivo. Allora si affermano modelli data driven, e i dati fanno da volano nei processi. L’area che trae maggior beneficio dall’AI è l’analisi predittiva, in cui si impiegano tecniche di progressione lineare. Si impostano i data set e i dati di input, e si rilevano pattern con un punteggio predittivo. Le aziende stanno riconoscendo l’utilità dell’AI grazie soprattutto alle analisi in anticipo sulle performance aziendali. La raccolta dei dati può essere affetta
da rumori, errori o dati mancanti. Per questo ogni volta che si è fatta un’analisi occorre ripulire il data set per analisi successive. Si chiama “maledizione della dimensionalità”. Per esempio, nelle analisi sui feature, grandi quantità di feature da analizzare fanno aumentare esponenzialità e problemi di gestione. In questi casi, occorre selezionare solo le feature migliori. Quando si lavora con l’AI, occorre sapersi orientare fra i diversi modelli: alberi decisionali/Random forest, SVM Support Vector Machine, Reti neurali, XGBoost ecc. Un tema molto attuale è la Business interruption. Nel 2021 la Banca d’Italia ha dato una nuova definizione di default, che è andata a modificare anche il codice civile.
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Per capire la rischiosità dell’impresa, occorre avere sempre più una visione olistica di sistema. Gli strumenti statistici tradizionali sono accurati ma non vanno oltre i dodici mesi e sono molto dipendenti dal mercato di riferimento, non funzionano bene su grandi serie di dati o in caso di dati mancanti. Inoltre, hanno dimostrato scarsa capacità di adattarsi a cambi nello stato dell’economia: la teoria del valor medio rende difficile comprendere relazioni complesse. L’applicazione dell'AI e del machine learning possono ovviare a questo e offrire un overlooking a sessanta mesi, anche se offrono minore trasparenza perché associati a black book. Il modello Random forest è arrivato a fornire previsioni all’88%, ed è il più trasparente rispetto a come prende decisioni. Una ricerca ex ante/ex post con utilizzo di analisi predittiva forward looking commissionata dalla Regione Piemonte sulla resilienza su un campione di 329 aziende ha consentito di mettere a fuoco l’entità oggettiva dei rischi e delle necessarie azioni proattive per aumentare la resilienza dal 30% a oltre il 60%.
AUGUSTO D'URSO Gruppo Balletta Direttore risorse umane
“Cambiare gioco e adattarsi alle circostanze: cosa mi ha insegnato lo sport”
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Fin da piccolo il calcio fu la mia grande passione. Vi giocavo anche piuttosto bene: a otto anni ero già nei pulcini del Napoli. Purtroppo però, un giorno avvertì un forte dolore alle ginocchia durante una partita e rimasi completamente bloccato. Si pensava a terribili malattie, mentre dopo vari accertamenti si scoprì che il problema era legato allo sviluppo precoce e alla calcificazione delle ossa. A dodici anni ero già alto un metro e settantacinque. Non potei più calciare il pallone e smisi di giocare. Tuttavia, dopo qualche tempo trovai una nuova passione. All'epoca mio padre prendeva lezioni di tennis, io lo accompagnavo e facevo il raccattapalle. Il suo maestro un giorno mi invitò a giocare, mettendomi la racchetta in mano. Riuscì a fare alcuni buoni tiri, così mi disse: “Perché non inizi a giocare?”. Nonostante la mia precedente esperienza non fosse andata a buon fine, mio padre mi incitò a lanciarmi in questo nuovo sport e così iniziò la mia avventura con il tennis. Essendo già molto alto, per me era semplice vincere contro con i bambini della mia stessa età.
"Ho incamerato una bella serie di sconfitte, fino a quando per necessità ho cambiato il mio modo di giocare, adattandomi alle circostanze" A diciasette anni mi rimisi in sesto con due tornei internazionali: ovviamente persi la prima partita, ma feci comunque le qualificazioni. In seguito, anche mia sorella iniziò a giocare a tennis e io mi dedicai a fare da sparring e coach. Con l'inizio degli studi universitari lasciai tutto, finché a venticinque anni non mi ritrovai di nuovo in campo assieme a dei ragazzi appena conosciuti a Sharm El Sheik. Da quel momento ripresi con il tennis, facendo il capitano e allenando i ragazzi più giovani.
A quindici anni, però, cambiò tutto di nuovo: gli avversari diventarono alti come me e iniziai a perdere. Non riuscendo più a vincere una partita, nel corso del tempo imparai a adattarmi: capii che dovevo tirare meno forte e trovare delle alternative.
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Questa attività, che porto avanti tutt’oggi, continua a riservarmi emozioni fortissime, specialmente quando riesco a trasmettere a un ragazzino didodici anni in difficoltà che la partita finisce solo quando stringi la mano all'avversario. Mai mollare: questa è la cosa più importante.
"Il mio allenamento nel tennis è stata la mia formazione nel lavoro" L’esperienza sportiva per me è stata rivelatoria: mi ha portato a scoprire il valore dell’allenamento e della perseveranza. Nel corso del tempo ho applicato le metodologie sportive anche in ufficio, facendo della formazione sul lavoro, il mio allenamento nel tennis. Durante la mia carriera professio-
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nale ho preso delle decisioni che mi hanno portato fuori dalla zona di comfort, ma alle quali sono grato, poiché mi hanno reso il professionista che sono oggi. Una di queste fu nel 2001: dopo tre anni di esperienza in Cid Software Studio, dove mi stavo facendo strada tra tante difficoltà, ricevetti da mio padre la proposta di entrare a far parte della sua azienda. Sarebbe stato l’inizio di un percorso che mi avrebbe portato nel tempo a diventarne il legale rappresentante.
"Scelsi di fare la gavetta e di fortificarmi" Nonostante la proposta fosse allettante, scelsi di fare la gavetta e fortificarmi in un’impresa dove non avessi un canale preferenziale. Continuai il mio percorso fino a diventare il responsabile delle risorse umane in Cid Software Studio. Nel 2012 invece pensai che per costruire una figura professionale più completa occorresse cambiare settore, così decisi di “fare un passo indietro” ed accettare la posizione di HR controller in Gruppo Balletta, mettendomi in gioco in un contesto completamente diverso. Gruppo Balletta è una holding che controlla sei società in ambito retail e due industrie, una sulla lavorazione delle carni e un’altra sulla detergenza industriale. Il gruppo si occupa di amministrazione, finanza e
controllo per tutte le società, che operano principalmente nell’ambito food, arredamento e abbigliamento. Per forza di cose devi saperti adattare: abbiamo target di collaboratori completamente diversi. Per stare vicino a tutti, e soprattutto al business, devi cambiare approccio a seconda del tuo interlocutore.
“Oggi lavoro con le persone e con loro ho imparato ad ascoltare e dare i giusti feedback" Fu così che ricominciai a studiare e formarmi per capirne il business, conoscere i lavoratori e ritagliarmi in punta di piedi il mio spazio. Questa esperienza fu particolarmente interessante per me perché mi insegnò a lavorare con le persone, anziché i numeri. Per ricoprire questo ruolo, infatti, ci vuole equilibrio e un grande spirito di adattamento, proprio come nello sport. Dopo un mese in Gruppo Balletta io “mi tolsi la cravatta" allo scopo di essere più vicino alle persone e far sì che loro si fidassero di me. Nel 2016 fui promosso a direttore delle risorse umane del gruppo, ruolo che tutt’oggi rivesto. Sono particolarmente grato al mio team dell’ufficio risorse umane, perché ha reso la mia vita lavorativa più appassionante e motivante. Lavorando con le persone ho im-
parato ad ascoltare e dare i giusti feedback. Il confronto con il team è quotidiano e puntiamo molto sul concetto di “squadra”. In azienda ripeto sempre che “Io sono il più bravo a sbagliare”: ammettere i propri errori in prima persona porta il team a sentirsi più responsabile e soprattutto, più coinvolto. Trasferire la passione poi, è il modo migliore per coinvolgere le persone, che si tratti dei miei colleghi o dei bambini ai quali insegno a giocare a tennis. Il punto è far si che ognuno possa mettere la propria impronta nel progetto e sentirsi utile. I risultati arriveranno da sé. A volte la diffidenza regna sovrana in tanti aspetti della nostra vita, ma se ci concediamo al massimo anche gli altri si apriranno con noi. Ho avuto modo di appurarlo nell'ambito lavorativo, dove è bene avere equilibrio e non alimentare le polemiche. C’è sempre un perché se qualcuno non riesce a rendere al 100%, non siamo tutti uguali. Ricordo ancora con affetto ciò che mi disse la mia professoressa di fisica dell’università: “Ognuno ha i propri tempi, ma tutti ci possono riuscire”. Ai miei allievi di tennis o ai miei collaboratori cerco di trasmettere proprio questo.
*Il commento dei
B.Liver*
Nello sport come ne lla vita per ottenere risulta ti è necessario un allenamento cost ante. Questa storia permet te di vedere ciò che si può cost ruire in ogni ambito con costanza , disciplina e lavoro di squadra. Alessandra Parrino
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Alberto Macciani e le sue analisi. alberto.macciani@icloud.com
La moneta digitale cambierà il mondo? Dopo vent’anni di lavoro nel largo consumo per la multinazionale Unilever, il mio percorso professionale mi ha portato a occuparmi di un mondo totalmente diverso, il Fintech e la moneta digitale. Ho pensato molto a cosa potesse accomunare questi mondi all’apparenza così diversi, e in effetti ci sono delle radici comuni interessanti, legate al ruolo “trasformativo” che ciascuna industria ha avuto nel suo momento storico di massimo sviluppo. Unilever è un gigante del largo consumo, ed è interessante vedere quante somiglianze si possano trovare fra l’impatto dei detersivi nel dopoguerra e ciò che sta accadendo oggi nel Fintech. Possiamo dire che il Fintech è il nuovo detersivo? Battute a parte, ho deciso di lavorare per Paysend (azienda globale di pagamenti digitali nata nel 2017) con una visio-
ne precisa: importare il modello di crescita del largo consumo in un nuovo settore dominato dalla tecnologia. Partiamo da un assunto di base. La tecnologia è preziosa quando aiuta a risolvere un problema vero, e proprio questo è il motore di una marca di successo: la capacità di identificare un problema, e di costruire una soluzione che sia unica e distintiva. Una marca è infatti un sistema di valori, in cui la tecnologia del prodotto è solo uno dei valori messi in sequenza. Esistono un valore funzionale, un valore emotivo e, molto importante, un valore sociale. I detersivi avevano creato una rivoluzione nella vita delle persone, riducendo il tempo che le donne dedicavano ai lavori di pulizia di tutti i giorni e fornendo una gigantesca spinta all’uguaglianza di genere. William Lever, il fondatore di Unilever, era figlio di un droghiere di Manchester. Ebbe l’idea di creare la saponetta ma soprattutto di posizionarla come un oggetto di rivoluzione sociale. Con il suo prodotto non prometteva soltanto di rimuovere lo sporco, ma anche di “rendere la pulizia quotidiana” diminuendo il carico di lavoro per le donne. Bisogna ricordare che nella metà del XIX secolo morivano più donne facendo il bucato che uomini in miniera a causa dei prodotti estremamente aggressivi utilizzati nei lavori di casa pesanti. William Lever por70
tava avanti la sua battaglia contro le condizioni di semi schiavitù di milioni di donne. Costruì un impero del sapone basato su tre pilastri: un prodotto di qualità, una fabbrica efficiente e una comunicazione convincente. Tutti e tre questi fattori sono determinanti, allora come oggi, nella creazione di una marca di successo. Stiamo attraversando, oggi, una delle più grandi crisi di sempre, ma anche una fase di grandi opportunità, e sta a noi cercare di non lasciarcele sfuggire. La moneta digitale può essere un potente motore di crescita sociale ed economica. Con l’esplosione del mercato dei pagamenti digitali, che vale trilioni di dollari e cresce a un ritmo del 30% l’anno, possiamo ragionevolmente aspettarci che il Fintech sia destinato a diventare una delle forze trainanti dell’economia mondiale. Ma allargando l’angolo della riflessione, sappiamo che il processo avrà un esito positivo solo se saremo in grado di rendere questa crescita sostenibile e inclusiva. Nei prossimi anni dovremo affrontare tre grandi sfide. Prima sfida: il tema dei dati, il sacro Graal del mondo digitale. Infatti, anche se già oggi trilioni di punti dati generano un flusso di informazioni straordinario, dobbiamo essere consapevoli del pregiudizio che le macchine possono suscitare. Il
numero di crediti deteriorati durante la crisi finanziaria del 2009 è raddoppiato rispetto ai livelli pre-crisi. La pandemia ha accelerato il processo a livelli sbalorditivi. Alla fine del 2020 gli Stati Uniti hanno dovuto contabilizzare quasi 128 miliardi di dollari di crediti deteriorati rispetto ai 95 di fine 2019, mentre l’Europa ha dovuto far fronte a un’ondata di 401 miliardi di euro di nuovi prestiti in rosso. Nel corso del 2021 questi numeri si tradurranno in una pressione non indifferente sulle banche. Nello stesso tempo, gli attuali metodi di recupero crediti sono in gran parte guidati da operatori umani. Gli sforzi dei call center non sono sempre efficaci, visto che le persone contattate al telefono si disorientano e addirittura restano sconvolte, influenzando il comportamento e le decisioni degli stessi operatori. Gli algoritmi possono essere utilizzati per valutare e identificare rapidamente i modelli comportamentali di questi clienti in base alle chiamate precedenti e ai dati emotivi osservati durante una chiamata. Ciò consente di velocizzare la fase di assegnazione delle telefonate agli operatori del Servizio clienti, e soprattutto di abbinare cliente e operatore in base alle loro attitudini e reazioni distintive. Seconda sfida: il ruolo della fiducia e della regolamentazione. Nell’a-
dozione della moneta digitale, la fiducia è l’elemento catalizzatore. Ma proprio questo è il punto: la maggior parte dei clienti, soprattutto in età avanzata, non riesce a dare fiducia. Quasi 7 baby boomer su 10 hanno detto che preferirebbero usare contanti o una carta per saldare una fattura di 1.000 dollari, mentre solo 1 su 10 di loro ha dichiarato che vorrebbe usare il telefono. Lo stesso vale per le cripto valute, che hanno iniziato a perdere la prospettiva sinistra che le caratterizzava agli occhi della maggioranza delle persone, stanno diventando una norma quotidiana in molti contesti e si apprestano a diventare un’alternativa vera alle monete tradizionali, purché regolamentate in modo efficace. Istruzione e regolamentazione saranno fondamentali per garantire che l’adozione avvenga in modo rapido e corretto. In questo passaggio, la comunicazione è fondamentale per educare i consumatori alla sperimentazione e all’uso della moneta digitale. E può affiancare con efficacia le risorse tecnologiche applicando modelli basati sulle best practice dei consumi di massa. Terza sfida: il ruolo della Brand purpose. Il denaro, come il sangue, collega le diverse funzioni del corpo assicurando che lavorino tutte correttamente. È una potente forza di connessione, e la sua effi-
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cienza è fondamentale per il lavoro del corpo del mondo. Efficienza del denaro significa efficienza del mondo, ma questo non può accadere semplicemente da un punto di vista finanziario, deve esserlo anche da un punto di vista economico e sociale. Il denaro deve essere utilizzato per l’unità delle persone, abbassando le barriere, creando connessioni, sostenendo l’imprenditorialità e la lotta alla povertà. Nel mondo ci sono 300 milioni di lavoratori stranieri che vivono lontano dalle loro famiglie e lavorano solo per mandare soldi a casa. Queste persone devono essere sostenute. In un sistema tradizionale cash-to-cash possono perdere fino a un’ora di tempo e oltre il 7% del loro denaro per completare la transazione. Con la moneta digitale possono farlo istantaneamente, e con un costo del 2%. In ultima analisi, il mondo può crescere solo se i benefici economici e sociali vanno di comune accordo e sono condivisi fra le persone. La moneta digitale è un nuovo modo di democratizzare la ricchezza e può davvero avere un impatto globale come la saponetta che William Lever inventò nel 1850 per cambiare il mondo. Pagare e inviare denaro istantaneamente in tutto il mondo potrà diventare realtà molto prima di quanto pensiamo.
MASSIMO TREVISAN Komatsu Italia Manufacturing Production senior manager
“Chiamale, se vuoi, coincidenze”
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ualcuno le chiama “ c o i n c i d e n z e ”. Qualcuno “corsi e ricorsi della vita”. In effetti, a guardare la mia vita un po’ da vicino, pare di intravedere un copione preciso. Fino a vent’anni ero un ragazzo estroverso, vorrei dire esplosivo. Poi, a ventun'anni, è intervenuto un fatto che mi ha cambiato per sempre: mio padre è morto all’improvviso per un aneurisma cardiaco. Mi sono venuti a chiamare: “Vieni, Massimo, tuo padre sta morendo”. Mi è morto fra le braccia. Quel momento è sempre vivo nella mia memoria, non posso dimenticarlo. Io vengo da una famiglia umile di agricoltori di Lozzo Atestino, in Veneto. Sono stato tirato su a pane e valori, valori veri come il rispetto, il lavoro, la serietà. Di soldi non ne giravano tanti, ahimé, in compenso ho ricevuto in dote un telaio robusto e adeguato con le istruzioni per l’uso della vita.
“Da lì, ho allargato la mia curiosità allo zen e alla ricerca dell’equilibrio e del benessere interiore” Era il lontano 1980 e avevo sedici anni quando ho iniziato a lavorare come apprendista in una fabbrica metalmeccanica. Ho imparato a saldare, a verniciare e a stare sulle macchine utensili. Dopo sei
anni, in un momento di crisi finanziaria dell’azienda che non riusciva a pagare gli stipendi, ho trovato un nuovo posto di lavoro. Purtroppo la mia felicità è stata offuscata dalla perdita di mio padre, avvenuta esattamente una settimana dopo. Nei due-tre anni successivi ho attraversato un periodo piuttosto duro. Io sono il terzo di quattro fratelli, e rispetto ai due più grandi mi sono sempre sentito un po’ come un figlio unico: diverso, indipendente, certamente più chiuso di loro. Non riuscivo ad aprirmi e così ho imparato subito ad affrontare i problemi in prima persona. Fu allora che mi sono avvicinato alla filosofia orientale, un ambito che assecondava la mia introspezione. Ho letto molto. Sono partito da Siddharta di Hermann Hesse, un libro che fra l’altro ho riletto proprio di recente. Mi ha stregato, lo percepivo come un punto di orientamento: si sa come sono i giovani, hanno bisogno di avere dei riferimenti, specialmente se positivi. Da lì, ho allargato la mia curiosità allo zen e alla ricerca dell’equilibrio e del benessere interiore. Ma certamente non mi sono staccato dalla realtà. In fabbrica iniziavo alle sette del mattino, e lavoravo per dieci ore. Quando l’azienda chiedeva straordinari, non ero il tipo da fare passi indietro. Nel 1986 ero entrato come saldatore nell’azienda in cui lavoro ancora oggi, Komatsu; solo che allora si chiamava Fai. L’azienda era flo-
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rida, i volumi aumentavano e le opportunità di crescita non mancavano. Dopo un anno sono passato al reparto montaggio in uno stabilimento nuovo. Lì ho iniziato il mio percorso di crescita professionale che, grazie anche ai tanti corsi di formazione, mi ha permesso di diventare quello che sono ora. E questo senza abbandonare il mio percorso di crescita personale, leggendo molto e ascoltando tanta musica.
“La tradizione industriale giapponese ha sempre dato molta importanza alla crescita delle persone nel loro contesto lavorativo” Sono in pochi, credo, a volere che il proprio figlio o la propria figlia facciano gli operai in fabbrica. Eppure nei luoghi di lavoro la figura dell’operaio è cambiata molto. Oggi gli operai governano macchine molto complesse, hanno nozioni di informatica e dispongono di competenze molto robuste. La tradizione industriale giapponese ha sempre dato molta importanza alla crescita delle persone nel loro contesto lavorativo. Lo chiamano Gemba, ed è il luogo in cui si costruisce il vero valore dell’azienda. E un’altra nozione teorico-pratica che viene
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dal Paese del Sol Levante, il Kaizen (che significa miglioramento continuo), prescrive alle persone che progettano le macchine di parlare con le persone che usano le macchine, perché loro sanno dove si annidano i problemi. La qualità non la fa chi controlla, ma chi lavora. E lo stesso vale per la sicurezza: non la fa chi controlla, ma chi lavora.
“Mi ha insegnato ad analizzare le priorità, a usare i sette strumenti della Qualità, e infine mi ha promosso team leader” All’interno delle aziende, i percorsi diventano interessanti quando si “incrociano” figure che ti danno la cosa più preziosa che si possa dare: la fiducia. Io, nella mia parabola professionale, devo molto a due persone. Posso dire che mi hanno formato a livello manageriale, consentendomi di arrivare dove sono ora. La prima è l’ingegnere Claudio Gallana. Nel 2000 lui era Direttore di Produzione, mentre io ero Capolinea. Lui ha
applicato in modo convinto la visione giapponese della fabbrica, e godeva il pieno appoggio dei capi giapponesi. Con lui si è instaurato subito un buon rapporto, mi ricordo che si passava molto tempo a discutere insieme dei processi di produzione, li si analizzava, si cercava di capire come migliorarli. Gallana è stato per me un vero mentore. Mi ha insegnato ad analizzare le priorità, a usare i sette strumenti della Qualità (diagramma di Pareto, Carte di controllo, istogrammi ecc.), e infine mi ha promosso team leader. Allora la fabbrica era un luogo di sperimentazione, e lo era già da parecchio tempo, bisogna tenere presente che in Italia si è cominciato a parlare di just in time almeno dagli anni ’80. Gallana era una persona squisita, oltre che innegabilmente bravo nella professione. Nel 2005 ha lasciato l’azienda, ma ancora oggi ci sentiamo regolarmente.
“Lui ti portava ad andare in profondità nei problemi, capitava che ti tenesse lì quattro ore di fila per sviscerare un errore”
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La seconda persona importante sul mio cammino è stata Kenichi Furuse, Vice Presidente con la delega alle Operations. Con lui all’inizio è stato più difficile instaurare un rapporto di fiducia, ci è voluto tempo. All’inizio avvertivamo reciprocamente come una resistenza. Lui mi sembrava un samurai dagli occhi di ghiaccio. Se devo pensare oggi alla cosa più importante che mi ha insegnato è che l’errore esiste, chi dice che non sbaglia mai dice una bugia. La cosa importante dopo un errore è fermarsi e chiedersi che cosa è accaduto, chiedersi perché è accaduto e soprattutto fare in modo che non accada più. Furuse è stato un vero maestro, mi ha insegnato molto, e se oggi sono un dirigente per buona parte è merito suo. Lui ti portava ad andare in profondità nei problemi, capitava che ti tenesse lì quattro ore di fila per sviscerare un errore. Aveva un modo di farsi capire molto efficace, come se parlasse a dei bambini. Usava spesso il metodo dei cinque Why. Insomma, sembrava più un coach che un capo. Dopo un po’ ho capito la ragione della sua apparente freddezza: non si fidava di nessuno, a prescindere! Il rapporto fiduciario fra noi ha co-
minciato a crearsi quando lui ha iniziato a selezionare persone del mio staff e a spostarle in altri reparti. Mi diceva così: “Tu hai il lago dei pesci d’oro.” Voleva dire che riuscivo meglio di altri a formare le persone e renderle autonome ed efficaci, con una visione coerente a quella dell’azienda. Nella mentalità giapponese, l’allineamento con il pensiero del gruppo è molto importante. Il collettivo viene prima dell’individuo. Quando sono andato in Giappone per la prima volta nel 2006, le persone indossavano le mascherine sul volto. Io pensavo che fosse per l’inquinamento, ma i miei colleghi giapponesi mi hanno detto era per per proteggere gli altri dai propri germi. È una questione di rispetto del prossimo, che noi occidentali abbiamo realmente compreso solo ora durante la pandemia del Covid-19. Komatsu produce macchine per la movimentazione della terra. Ha sessantaduemila dipendenti e siti produttivi sparsi in tutto il mondo. Io sono molto legato all’azienda, penso di aver acquisito una mentalità giapponese e non mi pesa l’idea di non cambiare posto di lavoro. Gioca prima di tutto il fattore riconoscenza per aver creduto in me. Ma probabilmente anche il fattore comodità, visto che la mia sede di lavoro è a un chilometro da casa. Al lavoro ho ricevuto molti insegnamenti, ho coltivato il rispetto delle persone e del lavoro stesso, ma soprattutto ho ritrovato quel pensiero orientale che già avevo amato da giovane e a cui ero arrivato da solo. Un incastro perfetto. Me lo ripeto spesso, che incredibile coincidenza, sembra che i miei fattori astrali si siano messi d’accordo!
“Le giornate volano, gli stimoli sono tanti. È lo stesso passo di intensità che avvertivo in gioventù” Nello stabilimento Komatsu di Este ci lavorano circa seicento persone,
è la principale realtà industriale del territorio. Edifici e capannoni hanno fatto il loro tempo, si era pensato a un nuovo insediamento, ma proprio per l’attaccamento che esiste nella cultura industriale giapponese alle identità del territorio, si è deciso di restare. Grazie alle competenze acquisite nel corso del tempo, ogni anno tengo un ciclo di dieci lezioni presso l’ITIS di Este, in cui illustro a grandi linee i principi della Lean Manufacturing. Anche questo è un segno di attenzione al contesto umano in cui operiamo. Komatsu è un’azienda viva, in costante mutamento. Il miglioramento continuo è un pensiero assorbito in tutte le fibre dell’organizzazione. Lavorarci è piacevole perché il management giapponese ama fare un passo indietro: interpreta il suo ruolo più come quello di advisor, non c’è l’intenzione di annullare l’identità italiana. C’è invece l’intenzione di mantenere alto il livello della competizione. Le giornate volano, gli stimoli sono tanti. È lo stesso passo di intensità che avvertivo in gioventù. Quando torno dal lavoro, ho la mia raccolta di seimila cd, i miei libri, i miei concerti di musica classica da organizzare e i miei quadri da dipingere. In famiglia
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mi prendono in giro perché, a fronte della mia raccolta sterminata di CD, ascolto quasi sempre i Pink Floyd. Si ribellano, dicono che è una mania assurda, che sono rimasto bloccato nel mio passato e levano gli occhi al cielo. Nessuno è perfetto, ai gusti musicali non si comanda. Beh, mi dico, tutti questi stimoli saranno pure serviti a qualcosa se mia figlia Anja Leda Trevisan ha pubblicato Ada brucia, il suo romanzo d’esordio. Con questo libro, a soli 22 anni, quest’anno ha vinto il Premio Opera Prima della Fondazione Mondadori.
*Il commento dei
B.Liver*
"Gli stimoli sono tant i". È proprio vero che stimoli e fiducia sono ciò che porta a dare il massimo di noi stessi: in ogni ambito si po ssono fare passi da gigant e, crescere al meglio e arricchirs i. Alessia Franceschini
ALLA RICERCA DEL PROFONDO
Deep Purple (2019)
Allucinations (2018)
Mirror (2020)
Durante l’intervista a Massimo Trevisan siamo entrati in contatto con un’ulteriore dimensione parallela alla professione: la pittura! Abbiamo deciso di condividere con i lettori di Reach una piccola galleria di immagini per ricordare a tutti noi che sempre di più la linea di demarcazione cruciale non sarà fra vita lavorativa e tempo libero ma fra vita attiva e vita passiva, fisicamente e mentalmente sedentaria. I lavori sono acrilici su tela, sono firmati con lo pseudonimo Max de Laroska, e hanno un loro mercato. Bravo Massimo, la ricerca del bello e l’amore della conoscenza non hanno confini.
Freedom (2020)
Agio/Disagio (2018)
The dark side of me P2 (2018)
Parallel Lines (2020)
Eclipse (2019)
The dark side of me P3 (2018)
The other side of freedom (2020) Sinapsi (2019)
Alla scoperta dei valori di Richmond Italia Quattro. Raccontare la vita. La vita vera è uno strumento di comunicazione potentissimo, che semina valore e innesca reazioni positive. Basta avere il coraggio di raccontarla senza mistificazioni, filtri o manipolazioni.
1. Crescere insieme. 2. Crescere dentro. 3. Vincere e perdere. 4. Raccontare la vita. 5. Agili nell’azione. 6. Responsabili nelle scelte. 78
“La sincerità non stufa mai. All’inizio può sembrare meno scintillante degli effetti di Photoshop, ma sul lungo periodo crea relazione vera, consenso vero”
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icordate la scena cult al fast food di Un giorno di ordinaria follia (1993) in cui Michael Dougals ordina un hamburger e poi commenta la differenza fra ciò che ha ricevuto e ciò che è pubblicizzato sopra le casse? “Voltatevi, guardate lì. Quello bello gonfio, pieno di salsa, alto otto centimetri. Ora, guardate questa insignificante, squallida cosa. Qualcuno sa dirmi in che somiglia alla foto? C’è nessuno? Non c’è proprio nessuno?” Il silenzio nella sala è assordante, anche perché l’eroe ha in mano una mitraglietta. La scena è la fotografia perfetta del gap che corre fra l’immagine comunicata e l’immagine reale nei mercati evoluti, una sorta di doping a cui siamo assuefatti. Secondo gli apocalittici è un disastro. Secondo gli integrati, è il normale paesaggio contemporaneo, all’interno del quale ci muoviamo armati di vigorosi anticorpi, e sempre secondo loro una pubblicità overpromising si rivolterebbe in primis, contro gli stessi brand che la propinano. Poi è arrivato il web, e nulla è stato più come prima. Navighiamo dentro un oceano narrativo creato direttamente dalle persone. Le persone usano filtri fluo per apparire più giovani, come i leader politici, e mettono in luce gli aspetti più accattivanti del corpo e del fisico. Si è sempre fatto, come nella moda, come nei curricula. Però sulla scena ha fatto irruzione anche un altro registro: la poetica del reale senza sofisticazione, un certo registro rough, non eccessivamente curato. A me la scoperta del linguaggio dell’autenticità piace perché raffredda l’onda lunga degli anni ’80, in cui tutto doveva essere elettrizzante, coi lustrini, pompato, aspirazionale e riusciva artefatto. L’autentico – come il genuino nel cibo – è di per sé un valore. Per questo mi sta così a cuore il valore ‘Raccontare la vita’. A che pro truccare la vita quando è già di suo così sorprendente e irrorata di senso e fantasia? Ero alle medie, e durante le vacanze dovevo fare una ricerca di geografia sul Brasile. Incollai una foto dello stadio Lenin di Mosca scrivendo sotto che era lo stadio di San Paolo. Mio padre se ne accorse e disse che non potevo. “Perché, tanto non se ne accorgerà nessuno?” gli chiesi io. Lui non seppe darmi una risposta. Ma poi ci sono arrivato da solo.
Eugenio Alberti Responsabile comunicazione Richmond Italia
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FEDERICA RONCHI Clearpay Country manager Italia
“Non si vince da soli”
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ono il country manager di Clearpay Italia, una branch italiana del gruppo Afterpay attiva nel settore fintech. Iniziai a lavorare nell'azienda che Afterpay acquisì un anno fa, Pagantis, quando mi proposero di lanciare una start up fintech in Italia. Mi spronava molto l’idea di lavorare in una start up così come in un nuovo settore tecnologico, e vedevo in Pagantis la possibilità di unire le mie due esperienze lavorative precedenti: Monclick ed eBay. La prima fu la più formativa e l’azienda in cui lavorai per dodici anni come General Manager. Questa società la creai dal nulla quando lavoravo ancora per Esprinet (grande distributore di prodotti tecnologici) e l’azienda decise di aprire una nuova business unit per rifornire di prodotti tecnologici il mercato dell'utenza finale. Così si decise di iniziare un progetto che portò alla nascita di Monclick. All'epoca mi occupavo dei progetti speciali in Esprinet e rispondevo al Country Manager. Da lì nacque l’idea di creare un'azienda con un nuovo conto economico e un nuovo team: una grande sfida per gli anni 2000, che avevano appena iniziato a conoscere l'e-commerce. C'era pochissima concorrenza ma il mondo non era ancora pronto ad acquistare online come fa oggi, a vent’anni di distanza. Ricordo ancora le parole del country manager, che mi disse: "Federica, stai passando dalla sicurezza di
un'astronave alla precarietà di una zattera in mare aperto che dovrà affrontare gli tsunami. Te la senti?". Io accettai immediatamente, perché amo le sfide di valore. L'esperienza di Monclick fu eccezionale: partii da sola, occupandomi di tutte le selezioni insieme all’HR, e negli anni l'azienda crebbe esponenzialmente fino a diventare uno dei leader dell'elettronica di consumo in Italia, con più di sessanta dipendenti. Ero davvero orgogliosa di questo progetto, così come del mio team di lavoro. Negli anni però l’azienda fu venduta a un altro gruppo e infine acquisita da Unieuro. Allora compresi che le dinamiche aziendali sarebbero cambiate, dal momento che Unieuro è una società molto "negozio-centrica", concentrata più sull'offline che sull'online. Non vedevo più la possibilità di sviluppare i tratti distintivi di Monclick, così un anno dopo la lasciai, sebbene con grande dispiacere. Fu allora che feci un passo fuori dalla mia zona di comfort e accettai di lavorare per eBay.
“Monclick è stata un secondo figlio per me, l'ho cresciuta come una creatura” In questa grande multinazionale imparai ad affrontare nuove sfide, come relazionarmi con team multiculturali in tutto il mondo ed
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influenzare le decisioni con una logica di autorevolezza, anziché di autorità. Fu molto interessante ed istruttivo, ma in eBay trovai un’azienda grande, complessa e spesso molto lenta nell’approcciare un mercato in continua e rapida evoluzione. Sentivo di non riuscire ad esprimere le mie potenzialità al massimo. La proposta di Pagantis fu quindi la congiunzione tra l'esperienza di una start up come Monclick e quella di una realtà internazionale come eBay. Cercai di fondere tutto ciò che avevo imparato, intraprendendo la strada che mi portò alla mia attuale esperienza in Clearpay. Oggi credo fortemente che non si possa vincere da soli, soprattutto in mercati complessi, dove il one-man business non funziona. Il team è vincente quando le persone che ne fanno parte si sentono ingaggiate, se credono nel progetto e decidono di percorrere un tratto di strada insieme. Io ripongo grande fiducia nella squadra perché ognuno la arricchisce con il proprio bagaglio di esperienze professionali e personali. Quando seleziono le risorse preferisco scegliere una persona con meno hard skills, ma un potenziale interiore più ampio. Qualcuno che abbia voglia di aprirsi, condividere le proprie esperienze, lavorare al progetto rispettando il proprio ruolo ma dando spazio alla creatività: mettendo sé stesso e gli altri nella condizione di lavorare al meglio.
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“Sono il tuo porto sicuro. Vai e fai le tue esperienze, io sono qui” Non sono sempre stata sicura di me stessa. La sicurezza di oggi nasce da un po’ di anni sulle spalle e da un lungo lavoro di autocritica. Ciò che mi rende forte per certo è la mia famiglia. In primis quella di origine, che mi ha sempre sostenuto lasciandomi libera di scegliere e talvolta anche di sbagliare. Pur facendo un passo indietro se necessario, ma standomi sempre al fianco quando ne ho avuto bisogno. E poi c’è la famiglia che ho costruito io stessa: un figlio fantastico e un marito che crede in me e mi sostiene nel lavoro e a casa. È una persona forte che riesce a valorizzare i pregi del mio carattere senza competitività. Buona parte del mio equilibrio viene da lui, che con la sua tenacia, costanza e perseveranza mi fa sentire che il porto sicuro c'è, è lì, ed è casa. Ci sono stati anche momenti difficili, che mi hanno fatto riflettere. La nascita di mio figlio Edoardo fu un'esperienza incredibile, non pensavo nemmeno di avere un tale vortice di emozioni dentro. Rappresentò un momento cruciale nella mia vita, grazie al quale ho realizzato che il lavoro è estremamente importante, ma che la prospettiva è un'altra: la crescita di mio figlio. Si tratta di un'esperienza quotidiana nella quale cerco di fare ciò che i miei genitori hanno fatto con me: lasciarlo libero di vivere le sue esperienze pur vedendo che sta inciampando, restandogli accanto e assicurandomi che lui ne esca più forte.
molto toccati perché pensavamo che quello che stava succedendo non fosse corretto e che stessero violentando un'azienda che avevamo costruito su altri valori. Poi l'elaborazione di questa situazione ci portò a metterci di nuovo in discussione e sperimentare la nostra competenza in altri contesti. Da questo momento difficile entrambi, sebbene per strade diverse, siamo ripartiti e oggi possiamo dire di essere cresciuti tanto.
“Non sono mai voluta diventare un uomo sul lavoro. Ho messo a servizio dell'azienda i tratti caratteristici del mio essere donna” Mi piace essere accogliente e apprezzo che una donna mostri questa accoglienza. Ho vissuto tanti anni in un ambiente estremamente maschile dove non è stato facile districarmi in quanto giovane donna ai vertici. Tuttavia, ho sempre cercato di farlo senza diventare “un uomo” sul lavoro, ma valorizzando i tratti caratteristici del mio essere. Questo si riflette
Dal punto di vista professionale, invece, lasciare Monclick non fu facile, perché la consideravo “la mia creatura” fatta di persone eccezionali. Ricordo che proprio una di queste persone lasciò Monclick nello stesso momento, e un giorno mi disse: “È come elaborare un lutto”. In effetti era vero, eravamo
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anche nel mio operato: cerco di essere attenta a cogliere i segnali “dal basso” favorendo la condivisione delle scelte; provo a mettermi “al servizio” del team, in modo da supportarlo nelle situazioni più complesse; quando faccio un colloquio a una persona mi concentro nell’individuare la sua motivazione e come potrebbe funzionare al meglio all’interno del delicato ecosistema aziendale. Per questo cerco sempre di premiare la collaborazione e minare la nascita di muri al suo interno. Ai miei collaboratori ricordo ogni giorno che siamo un'azienda commerciale, competitiva e che vuole vincere, ma che il "nemico" è là fuori. Non dobbiamo investire il nostro tempo a guardarci le spalle, bensì a mirare l'obiettivo. Questo è il mio mantra.
*Il commento dei
B.Liver*
Collaborare, credere nei propri valori e mettersi se mpre in gioco, ma soprattutto, al se rvizio delle proprie passioni. Le parole e le esperienze di Federic a Ronchi sono fonte di ispira zione. Debora Zanni
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KEEP CALM AND CARRY ON
Richmond Tips è un format di Richmond Italia nato nell’anno del lockdown. Abbiamo chiesto a speaker, coach, psicologi, trainer e consulenti nell’area Risorse umane di distillare un consiglio sul da farsi in un periodo difficile e sfidante come questo. Risultato? Più che pillole di saggezza, piccole leve per risollevare il mondo a partire da ciascuno di noi. Cerca tutte le Richmond Tips sul canale YouTube di Richmond Italia.
Marcello Savi
Le persone più intelligenti che io abbia mai conosciuto erano dotate di grande senso dell’umorismo. (…) Ma perché non ci prendiamo un tot di minuti al giorno dedicati alla risata? Ci capita casualmente e troppo, troppo raramente. Perché non dedichiamo dieci minuti a guardare dei video divertenti su facebook, i neonati che ridono (ognuno poi ha il suo senso dell’umorismo), o dei film con Boldi e De Sica o una stand-up comedy di Ricky Gervais?
Andrea Giocondi
Aiutiamoci per superare di slancio, emotivamente ed energicamente, la chiusura. (…) Il sistema circolatorio vanta oltre 100.000 km fra arterie, vene e capillari, vale a dire due volte e mezzo il giro del mondo. La maggior parte di loro portano nutrienti e ossigeno al nostro cervello. Potremmo parlare dei piedi, l’unico segmento corporeo che riesce a correre, camminare e sprintare come nessun altro animale al mondo.
SIMONE FUNGIPANE Tormalina Sales innovation manager
“Se riconsiderassimo le esperienze negative e le trasformassimo in positive?”
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soli diciannove anni ho avviato un’attività in proprio. Era un negozio di abbigliamento sportivo specializzato in calcio e rugby. Per iniziare quest’avventura ho fatto moltissimi investimenti a livello economico, che mi sono portato dietro fino a poco tempo fa, continuando a pagare le spese. Il risultato non fu buonissimo. Un grande store aprì a cinquanta metri dal mio piccolo negozio e io non riuscii ad essere concorrenziale. E` stata un’esperienza economicamente negativa, ma mi ha permesso di iniziare a conoscere il rapporto che si instaura con le persone, clienti e fornitori nell’ambito della vendita e soprattutto le dinamiche della gestione di un'azienda. Quindi seppur in mezzo alle difficoltà che mi ha fatto attraversare, la inserisco fra le esperienze positive della mia vita, perché mi ha insegnato molto e mi ha permesso di crescere professionalmente. Ho dei ricordi molto lucidi di quel periodo e li utilizzo per essere ben presente e focalizzato sul lavoro e nel ruolo che ricopro oggi. Quest’esperienza mi è tornata utile nel tempo, anche quando ho cambiato gli interlocutori con i quali mi interfacciavo. È stato un percorso che mi ha portato dal cliente finale nel mondo dell’abbigliamento, passando per la ristorazione, fino ad arrivare al dialogo coi manager di aziende multinazionali e amministratori delegati di grandi aziende. Un lungo viaggio di crescita costellato di molte tappe.
Se ripenso a come tutto questo è iniziato… Avevo appena terminato la scuola e mi aveva assunto un’azienda molto ambita con un ottimo stipendio a tempo indeterminato. Poteva sembrare il punto d’arrivo a cui ambiscono molti, potevo fermarmi lì, era un ottimo risultato per un ragazzo di vent’anni. Ma io volevo di più. Il calcio è
sempre stata una mia grande passione, così mi sono detto che potevo provare ad aprire un’attività mia che trattasse articoli sportivi legati al calcio. Questo progetto era così fortemente legato a questa passione, che forse l’errore più grande fu quello di approcciarmi a quest’esperienza come se fosse un gioco e non un lavoro.
Oggi io e la mia compagna stiamo avviando una startup dedicata al benessere del cane, un’altra mia grande passione, anzi nostra. Sicuramente tutto quello che ho imparato dai miei errori precedenti è oggi un bagaglio prezioso,
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vorando nell’ambito del turismo e viaggiando molto. Stavo bene, ma decisi comunque di cambiare direzione per rimanere più vicino alla mia compagna. Roma non mi offriva la possibilità di lavorare in quell’ambito e così sono tornato al mio piccolo paese e, ad essere onesti, non voglio spostarmi più. Il turismo è il settore per il quale ho studiato e se mi facessero un’offerta oggi per tornare a lavorare nell’ambito, anche a condizioni meno vantaggiose, accetterei con passione. Se ci penso però, non ho cambiato il mio modo di approcciarmi alle persone. Quando facevo il consulente di viaggi, ascoltavo molto le persone e i loro bisogni, non mi limitavo a lasciare degli opuscoli, ma cercavo di proporre il viaggio adatto a quelle specifiche persone. Oggi con Tormalina mi sento di agire nello stesso modo, di consigliare e cercare di indirizzare verso la migliore soluzione i nostri clienti, aiutarli a soddisfare nel migliore modo possibile i loro specifici bisogni. Questa volta non si tratta di un viaggio, ma magari di un sistema informatico adeguato, o comunque la soluzione tecnologica più adatta alle loro esigenze. Questo mio approccio lavorativo ha fatto sì che moltissimi dei miei clienti diventassero degli amici. Il rapporto di fiducia che si crea è molto bello e mi dà una grande soddisfazione personale oltre che lavorativa.
“Nuovi progetti e una nuova consapevolezza”
che mi fa muovere con una nuova consapevolezza e mi fa cercare nuove certezze. Non faremo quindi tutto da soli, ma lanceremo un crowdfunding per raccogliere i fondi necessari. Di sicuro non rinuncerò mai alla parte di me che mi spinge a intraprendere nuove progettualità sull’onda del-
le mie passioni, ma farlo in maniera consapevole e ragionata è quello che mi ha insegnato il fallimento iniziale. Questa nuova startup parte da un amore grande che abbiamo per gli animali e per i cani e dal pensiero che la relazione con loro possa educare moltissimo e tornare utile per tante altre cose della vita, anche per prepararsi ad avere un figlio, ad esempio. Negli anni centrali della mia carriera mi sono trasferito a Roma e lì sono rimasto per nove anni, la-
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*Il commento dei
B.Liver*
Il coraggio di fare scelte inizialmente scomod e e difficili, ma che possano port arti ad una vita appagante e pi ena di passione per ciò ch e fai. Si vive una volta so la, quindi viviamo al m assimo con ciò che possiam o! Edoardo Pini
Carlo Cottarelli. Opening Speaker edizione 2020
FACCIAMO IL PUNTO
Grandi speaker. Incontri b2b. Sessioni di coaching. Networking informale. Due giorni e mezzo di full immersion rigorosamente dal vivo pensati per abbracciare l’innovazione senza timori. Per riflettere e condividere nuove visioni con partner e colleghi. Per liberare il proprio potenziale nelle partite che si stanno
RIMINI |19-21 SETTEMBRE 2021 | 18-20 SETTEMBRE 2022
giocando oggi. Ci vediamo al Grand Hotel di Rimini.
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SELIA TEATINI Elica Senior buyer
“Lettere o numeri?”
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io padre era laureato in filosofia e faceva il preside: ha sempre desiderato che io studiassi le materie umanistiche, per questo motivo dopo le superiori mi iscrissi alla Facoltà di Lettere ad Urbino. Ma questa esperienza non durò molto, un giorno ricevetti una proposta di lavoro e decisi di lasciare gli studi per rendermi indipendente. Ho sempre pensato che la mia vita sarebbe ruotata intorno ad Alessandro Manzoni, invece oggi faccio quadrare i conti, controllo i budget, elaboro strategie. I numeri non sono mai gli stessi, mentre la poesia dopo averla studiata ed elaborata, pur se meravigliosa, resta sempre uguale. Con i numeri mi diverto, cambiano sempre, il mio lavoro non conosce la monotonia. Da ragazza ero un vulcano in eruzione, non avrei mai immaginato di rimanere nella mia città, di mettere su famiglia e di lavorare in un’azienda che conta. Nel 2016 all’interno del dipartimento nel quale lavoravo mi è stata affidata una mansione diversa. Da un giorno all’altro ho cambiato assetto: abituata ad un lavoro operativo e manuale, mi sono trovata a gestire un ruolo manageriale e ringrazio la mia azienda per la fiducia che mi è stata concessa, anche perché ad oggi sono ancora
qui e il sistema funziona.
“Il mio istinto ha sbagliato. Ma grazie ad esso la mia vita è cambiata, in meglio” In tutte le relazioni interpersonali, il tema della “forma” è la chiave. La sostanza in una forma sbagliata non insegna. Tutte le esperienze della vita privata si intersecano con quelle delle vita lavorativa, questo è inevitabile e necessario. Per spiegare questa affermazione mi soffermo su un aneddoto che ha davvero cambiato la mia vita: ero giovane ed inesperta, alla mia prima esperienza lavorativa, e mi trovai in mezzo ad una violenta discussione tra uno dei manager della mia azienda e un mio caro collega. Quest'ultimo fu aggredito verbalmente, subì un attacco diretto anche sul piano personale. Io reagii, presi le difese del mio collega, ed istintivamente ribattei al mio capo perché il suo comportamento andava contro i miei principi. Il giorno dopo scrissi la mia lettera di dimissioni e mi licenziai, nonostante avessi già una famiglia da mantenere. Avevo un’età in cui i principi contavano di più dello stipendio e della posizione, così quando andai via uscii a testa alta pensando di aver fatto una gran cosa. Tuttavia, dopo qualche tempo rimisi in discus-
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sione tutto e capii che è inutile e controproducente manifestare la propria opinione nel modo sbagliato, non è vero che la ragione è sempre ragione. La mia ragione era diventata torto. Persi il mio lavoro e i miei colleghi, fu molto dura. Questo è stato il punto di partenza del mio cambiamento, da lì ho preteso sia da me, sia dai miei figli il rispetto per gli altri e l’utilizzo di una forma educata per esprimere un proprio punto di vista, perché quando si è calmi e pacati si rinforzano le proprie capacità personali e professionali; si diventa più autorevoli. Sembra banale ma negli anni questo modo di pensare mi ha dato tante soddisfazioni e ho ottenuto buoni risultati e molto rispetto, sia al lavoro che in famiglia. Dimostrare professionalità a prescindere dal ruolo e assumere un atteggiamento positivo, chiaro e lineare è una scelta vincente. Nella vita si può sbagliare per rincorrere un ideale, ma reagendo istintivamente all’epoca non diedi valore al mio pensiero e fui incoerente. Negli anni quella esperienza mi ha insegnato tanto anche per formare i più giovani quando svolgevo il ruolo di tutor. Chi vuol far valere un suo pensiero deve dimostrarsi maturo, e cioè captare il modo giusto di comportarsi in base alla situazione, sia per gestire una famiglia, sia un gruppo di lavoro.
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L’assertività apre un mondo nei rapporti professionali e lavorativi, lasciando posto a tante altre cose della vita: l’amore, la sintonia, la complicità.
“Diamo valore al tempo. Rispettiamo i silenzi” Usare la forma corretta per comunicare è un lavoro costante, capire chi hai davanti, comprendere le situazioni. Ho imparato ad adottare la tecnica del pensiero positivo anche in famiglia, dove si discute spesso per il modo con il quale si dicono le cose, e non per ciò che vorremmo comunicare. È la cosa più difficile da imparare ed insegnare. Rispettare i silenzi e dare valore al tempo sono altri due ingredienti fondamentali nella relazione con l’altro. Nel mio lavoro i numeri richiedono un’analisi, quest’ultima non può essere sempre immediata, a volte a fronte di una domanda l’altra persona ha bisogno di qualche minuto in più per rispondere, e il rispetto di quel silenzio è fondamentale. Se il tuo silenzio non viene rispettato, la tua mente non lavora liberamente e il risultato non c’è, o non è quello atteso, quindi controproducente. È giusto fermarsi. Invadere gli spazi o bloccare le attività di un’altra persona non è mai efficace e crea solo frustrazione. Bisogna rispettare il proprio tempo e quello degli altri. A volte si può prendere una mezza giornata di ferie anche dalla propria famiglia, è un atto prezioso per sé stessi e per gli altri poter dire: “Oggi non ci sono per nessuno”.
*Il commento dei
B.Liver*
Selia è riuscita a viv ere la sua vita lavorativa rispett ando le sue passioni e i suoi sogni. La comunicazione è sempre importante, non solo per esprimerci, ma anche per cond ividere con gli altri quello che si im para lungo il cammino! Giada De Marchi
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On-line Speaker
Cesare Landi
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Molta acqua è fluita sotto i ponti alle spalle di Cesare Landi, oggi Logistics director in casa Fendi. Durante le sessioni del forum dedicato alla logistica del magazzino, ha raccontato un territorio, quello della logistica nel settore del lusso, estremamente particolare rispetto ad altri settori consumer. Ragionare su come le aziende affrontano sfide anche molto diverse dalle nostre e conoscere le loro best practice aiuta a mettere
a fuoco potenzialità e criticità di un settore in costante evoluzione.
Alla logistica si chiede di essere agile, flessibile e garantire la business continuity. Fendi distribuisce prodotti di lusso in tutto il mondo. Il mercato del lusso è una realtà molto specifica, i suoi canali distributivi sono difficilmente comparabili a quelli di altri settori. I prodotti sono ad alto valore, i volumi sono bassi, c’è poca profondità negli ordini e alta
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variabilità per differenti categorie di prodotto. È un sistema molto autoreferenziale. Nel mercato coesistono alcuni colossi nati nei primi anni 2000 con un tessuto di medie e piccole aziende padronali. Fendi fa parte del gruppo LVHM (Loro Piana, Louis Vuitton, Christian Dior, Givenchy, Kenzo…), che compete con il gruppo Kering (Gucci, Saint Laurent, Balenciaga, Bottega Veneta…) e con grandi maison storiche come Ferragamo, Cucinelli, Hermès e Chanel. Da vent’anni il settore registra una crescita senza sosta. In questa cre-
Logistica e lusso, un binomio interessante Il caso Fendi: presenza globale e fattore umano
scita, hanno acquisito peso temi come l’omnistock e l’e-commerce. Quest’ultimo ha conosciuto una forte accelerazione nel periodo della pandemia. Le sfide principali sono l’automazione e la sostenibilità. Alla logistica si chiede di essere agile, flessibile e garantire la business continuity. I grandi centri logistici integrati dei colossi sono fortemente automatizzati. Nel polo logistico Kering di Trecate, in provincia di Novara, ci sono centinaia di migliaia di metri quadrati di magazzino, con automazione molto spinta e 900 addetti. Nei piccoli gruppi l’automazione è più soft. Eppure, sostiene Landi, il fattore sostanziale dell’efficienza della supply chain del lusso rimane quello umano. Per dare qualità, occorre poter contare sulla crescita delle persone, e questo vuol dire fidelizzarle all’azienda.
Da un paio d’anni a questa parte si ricorre sempre più all’intelligenza artificiale per fare simulazione di lancio di prodotti prima di andare in produzione. Nell’ultimo decennio il lusso si è confrontato con una serie di sfide strategiche, fra le quali lo spostamento dell’asse del mercato da Ovest a Est, con un crescente trasferimento di fatturato verso la Cina. Oggi, grazie all’e-commerce e so-
prattutto all’esplosione del mercato interno cinese nell’ultimo anno, il 30-40% del fatturato del lusso è generato dalla Cina. E questo, nonostante il protezionismo sull’import molto forte. In parallelo, anche gli Stati Uniti sono ritornati a essere vitali e a crescere, da lì partono molti ordini on-line, dato che gli americani hanno potuto viaggiare meno con la pandemia. In generale, l’e-commerce è il grande fattore di novità nel settore del lusso. Volatilità della domanda, imprevedibilità, difficoltà di pianificazione rendono difficile applicare i metodi del passato ai flussi logistici, in particolare per i prodotti che vengono comprati sei mesi prima del lancio negli store. Bisogna considerare che molti brand hanno una distribuzione diretta. Da un paio d’anni a questa parte si ricorre sempre più all’intelligenza artificiale per fare simulazione di lancio di prodotti prima di andare in produzione. In questo scenario di grande cambiamento, le figure della logistica stanno assumendo un ruolo sempre più importante all’interno delle aziende. La logistica sta passando da un ruolo di servizio a funzione strategica. E poter gestire direttamente la logistica è riconosciuto oggi dalle maison come un asset strategico: la tendenza è oggi invertita rispetto al passato, e si tende a passare dall’outsourcing all’insourcing.
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Quando si fà molta pubblicità al ‘fare sostenibile’, questo non significa automaticamente che ci sia maggiore sostenibilità. La logistica, se allarghiamo il campo visivo anche oltre il settore moda, è sotto i riflettori. L’emergenza pandemia su scala globale ha evidenziato la fragilità del sistema, in particolare la carenza di spazi per il trasporto e le difficoltà di coprire l’ultimo miglio. L’attuazione degli schemi progettati può essere più difficile del previsto, soprattutto quando si innescano reazioni a catena, come quelle per l’incidente navale del canale di Suez nell’estate del 2021, che ha fatto quadruplicare i costi per il trasporto dei container. Durante la pandemia, parte dei flussi via nave si è trasferita sul volo aereo, con un forte impatto sulla capacità di assorbire la domanda di trasporto. Su questa difficoltà, si inserisce la crescente sensibilità ai temi della sostenibilità. Landi ha espresso un certo scetticismo sui proclami delle aziende. Quando si fà molta pubblicità al ‘fare sostenibile’, questo non significa automaticamente che ci sia maggiore sostenibilità. In molti casi fra il dire e il fare non c’è corrispondenza. E poi non è sempre facile capire come e dove si ge-
neri la sostenibilità. Per esempio, non è detto che spedire via nave un mese prima con rischio dell’invenduto sia più sostenibile che spedire all’ultimo minuto via aerea senza rischio di giacenze, dato che per distruggere le giacenze di magazzino si genera CO2. Secondo Landi, la Sostenibilità ha due, tre, quattro facce.
Come si può pensare di avere prodotti per i quali occorrono quattro mesi di produzione, che restano in vendita solo due o tre mesi? La pandemia ha influito sui modelli distributivi del lusso, che ora tendono a mutualizzare lo stock. In sostanza, si passa da uno stock centralizzato a uno stock decentralizzato, e si fanno crescere i local warehouse. Si è visto che per garantire business continuity bisogna delocalizzare la logistica. Regionalizzazione vs. centralizzazione! Si fanno avanti modelli ibridi: alcuni prodotti vengono mandati direttamente ai negozi, in particolare quelli seasonal, mentre i prodotti permanent vanno ai local warehouse. Sapendo comunque che, se il business dovesse esplodere, occorrerà spedire direttamente ai negozi. Bisogna considerare che nella moda i tempi di produzione
sono molto lunghi rispetto ad altri settori. Durante la pandemia, Armani ha lanciato il tema del prodotto usae-getta e di un eccesso di offerta con novità ogni mese. Come si può pensare di avere prodotti per i quali occorrono quattro mesi di produzione, che restano in vendita solo due o tre mesi? La moda si muove con largo anticipo: tutti andiamo a comprare l’invernale ai primi di luglio. Bisognerebbe invece allungare le vendite durante la stagione di utilizzo del prodotto. In Fendi, fino a poco tempo fa l’80% dei prodotti era di tipo permanent con leap time di consegna molto allungato (il bauletto Louis Vuitton è un tipico esempio permanent, salvo qualche miglioria da settant’anni viene fatto nello stesso modo). Negli anni 2014 e 2015, siamo passati ad avere solo il 10% di prodotti permanent. Un cambiamento enorme. In quanto tempo le case italiane consegnano nei negozi? Mediamente in dieci giorni, siamo i peggiori sul mercato. Ci sono produttori in Asia, Medio Oriente e Stati Uniti che arrivano direttamente al negozio cinese in cinque o sei giorni. Dispongono di sistemi forti, che necessitano di grandi investimenti, inarrivabili per molte aziende italiane. Il mo-
dello ibrido è una buona soluzione intermedia, perché consente di gestire una giacenza nei local warehousing di cinque pezzi per ordini settimanali, più una copertura per eventuali picchi di vendita (safety stock). Fendi non si può permettere un mese e mezzo di transito sugli ordini seasonal, perché tutti i giorni di questo periodo sono considerati giorni persi per la vendita. Un tema che appassiona la comunità professionale della logistica è la discussione su magazzino automatico vs. magazzino manuale. Bisogna considerare che il costo di picking può raggiungere fino al 55% delle spese di funzionamento totale del magazzino. Un magazzino completamente automatico può assorbire moltissime attività umane, come per esempio il controllo qualità. In termini di ritorno dell’investimento, c’è sicuramente vantaggio dal punto di vista dell’ottimizzazione dello spazio, però bisogna considerare le elevate spese di manutenzione. Nel lusso esistono prodotti che non possono essere gestiti da un magazzino automatico o con gli shuttle, per esempio i capi appesi.
Nel lusso ci si muove considerando gli ordini del giorno prima. Un piccolo ritardo delle produzioni può compromettere la pianificazione. Su cinquanta magazzini nel lusso, personalmente visitati da Landi, solo due possono essere definiti veramente automatizzati, e comunque solo al 50%. Una casa del lusso non potrà mai avere un magazzino come quello di Amazon, i robot mobili sono adatti solo a chi è specializzato nell’e-commerce. Si è valutato che al di sotto dei cinque o sei milioni di pezzi non ha senso investire sul magazzino automatico. Nella logistica – eccetto per le aziende che hanno un monoprodotto monosize – la componente manuale è imprescindibile. Il settore ricorda un po’ il pianeta Terra, definito da qualcuno “un sistema dinamico in
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costante non equilibrio”. Nel lusso ci si muove considerando gli ordini del giorno prima, e basta un piccolo ritardo delle produzioni rispetto al lancio per compromettere la pianificazione. È molto, molto difficile pianificare, come invece è richiesto nel magazzino automatico, che ha piani settimanali e mensili molto rigidi. Ecco perché la presenza di persone è insostituibile. Insostituibile sì, ma a certe condizioni. Occorrono persone con alcune caratteristiche mirate.
Se tutti migliorano, l’azienda ha dei margini di miglioramento importanti. C’è un win-win fra persone e azienda. Nel 1987, i militari americani proposero per la prima volta la definizione di ambienti VUCA (Volatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity). Si applicava a supply chain che sembrano non tollerare procedure e strutture fisse. La pandemia ha reso questa definizione terribilmente attuale. Che fare in un mondo WUCA? Occorre che le persone mettano in campo tutte quelle cose che solo l’essere umano può dare. Per esempio, essere resilienti e mostrare spirito di adattamento al cambiamento. Per esempio, avere agilità nei movimenti e cambiare posizione in scioltezza fino a trovare la posizione del corpo più efficiente all’interno del magazzino. Per esempio, essere flessibili negli orari di lavoro, con orari e ferie non standardizzabili (su questo in Fendi è stato fatto un grande lavoro). A fronte di accordi semplici e diretti, l’80% della forza lavoro del magazzino lavora il mese di agosto. Fendi investe sull’aggiornamento e sulla formazione delle persone, preparandole a svolgere più mansioni, in modo da poterle spostare dall’e-picking all’e-ecommerce e viceversa. Le persone ricevono istruzioni semplici e concise, e questo è un bene, soprattutto quando si proviene da altre mansioni. Il tema dell’ingaggio individuale è fondamentale. Le persone sono
come i bambini, se qualcuno non si prende cura di loro non si sentiranno mai ingaggiate. Se si chiede alle persone di lavorare anche in agosto, è chiaro che anche la relazione aziende-persona dovrà cambiare. Il panorama nel mondo moda è abbastanza discontinuo, ci sono aziende più strutturate, con una gestione avanzata delle risorse umane, e altre meno. La formazione gioca un ruolo importante. E anche la consulenza, in particolare quegli interventi che portano dentro il magazzino una visione e un modo di lavorare differenti. Formazione ed engagement mettono al centro la persona, ma bisogna capirsi bene: occorre attivare tutti, non solo i coordinatori o il team leader. Se tutti migliorano, allora l’azienda ha dei margini di miglioramento importanti su produttività e costi. C’è un win-win fra persone e azienda. In Fendi si fanno riunioni in magazzino. Nelle aziende metalmeccaniche sono routine, ma nel mondo logistico non sono una cosa comune, e sono anche difficili da gestire. Così, la piramide è stata rovesciata. I problemi arrivano dal basso e vengono fuori in riunione. Il lavoro del magazziniere si è evoluto nel tempo. Oggi non possono stare in magazzino persone che non abbiano una formazione adeguata. Occorre diversificare profili, e occorre de-
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legare molto. I team leader devono essere persone molto formate, meglio se ingegneri gestionali o equivalenti. L’attività fisica esiste, ma è sempre più ridotta e non presenta grandi margini di miglioramento. La logistica è un asset. I brand associano sempre di più a questo asset attività come l’after sales, le riparazioni, la compliance dei prodotti, l’order management e il customer service. Per chi ci lavora, questo significa che il magazzino può diventare un passaggio interessante in un’ottica di carriera futura. Landi ha raccontato che diverse persone che hanno lavorato con lui oggi sono cresciute e lavorano nella supply chain, alcune sono addirittura andate nello sviluppo dei prodotti. In chiusura, Landi ha riportato due citazioni: “Tutto quello che è vivo cresce e si adatta, la macchina no” e “Le persone non fanno resistenza al cambiamento, ma all’essere cambiate”. Sono rispettivamente di due esperti di organizational learning, l’antropologa Tamsin Woolley-Barker e l’ingegnere aerospaziale Peter Senge.
Alla scoperta dei valori di Richmond Italia Cinque. Agili nell'azione. Esiste il tempo della riflessione, e quello dell’esecuzione. Sul campo, occorre sentire la pressione del tempo, sviluppare tempi di reazione adeguati, essere agili nell’azione senza dimenticare la visione.
1. Crescere insieme. 2. Crescere dentro. 3. Vincere e perdere. 4. Raccontare la vita. 5. Agili nell’azione. 6. Responsabili nelle scelte. 96
“Essere ‘agili nell’azione’ per me, vuol dire essere creativi, pensare in modo inusuale e trovare soluzioni veloci”
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un valore che sento molto sulla mia pelle, non solo in riferimento al lavoro. Ma vi faccio un esempio di questo valore applicato in Richmond. Il nostro format è praticamente lo stesso da quasi 30 anni: ma avendo a disposizione un team agile nelle azioni, qualsiasi situazione viene affrontata con una grande apertura mentale, siamo sempre pronti a metterci in discussione, in modo da poter migliorare sempre. È proprio questo modo di fare, unito allo scambio di esperienze e conoscenze tra chi come me lavora da tantissimi anni in Richmond e le persone che invece sono arrivate da poco, che ci ha permesso di “surfare” l’onda del tempo ed essere sempre contemporanei. Il risultato pratico sono dei bei progetti, nati anche da periodi difficili, ad esempio i nostri eventi on-line che hanno visto la luce in piena pandemia. Ovviamente i momenti di riflessione nella vita e nel lavoro sono importanti per fare bilanci, rivedere, migliorare, ma un po' per il mio DNA siculo (in siciliano manca il tempo futuro dei verbi e ogni proposizione riguardante un’azione futura viene costruita al presente) e un po’ per esperienza ho imparato che non serve progettare troppo a lungo termine. Bisogna focalizzarsi su cosa è importante adesso, su cosa serve davvero in quel momento ed essere pronti, veloci e agili appunto nell’accoglierlo. Tutto cambia, noi cambiamo, e la vita, quest’anno più che mai, abbiamo visto come ci metta davanti cose a cui non avremmo mai pensato. I miei progetti iniziali di vita sono stati plasmati delle cose che mi accadevano… Ho iniziato l’università a Milano convinta che sarebbe stata solo una parentesi e che presto me ne sarei tornata in Sicilia e invece sono ancora qui, con in più un marito che, per non smentirmi, ho sposato in modo super agile (in pochissimi mesi) e un piccolo biondino che parla già con accento milanese.
Paola Signorino Communication manager Richmond Italia
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MARCO MOLESTI Asso Werke Plant manager
“Il futuro è fatto di Persone 4.0”
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o sempre avuto la passione per i motori, fin da piccolo. Ho studiato ingegneria meccanica e nel 2004 ho avuto la fortuna di fare uno stage in Ferrari, a Maranello. Ho lavorato nella gestione sportiva di Formula 1 per sei mesi: il sogno di chiunque sia appassionato di motori. In Ferrari, nonostante sia una delle aziende più prestigiose al mondo, conobbi persone estremamente disponibili e umili, alle quali devo tanto per quello che mi hanno insegnato. Grazie a quell’esperienza, sperimentando il top a livello mondiale, capii cos'era l'eccellenza e cosa volevo fare nella vita. Mi aiutò molto a trovare la mia dimensione, anche nel posto di lavoro dove
sono oggi. Inoltre, imparai che stando fuori casa si riscoprono i valori di dove si è nati.
“Stando lontani da casa si riscoprono i valori di dove si è nati” Una volta finiti gli studi in ingegneria meccanica tutti vogliono fare i progettisti e costruire “l'astronave che va su Marte”. Il problema è che solo uno su un milione inventa l'astronave: gli altri fanno un'altra serie di lavori. E in alcuni casi si vive male questo tipo di disillusione. Nel 2006 feci un colloquio in un'azienda dove cercavo di propormi
come progettista e il responsabile del personale, molto onestamente, mi disse: “Un responsabile di produzione è una figura molto più rivendibile e con un maggior potere contrattuale rispetto ad un progettista, in quanto trasversale a diversi tipi di produzioni”. Questa riflessione fu per me rivelatoria e oggi sono grato alla persona che quel giorno mi permise di acquisire questa consapevolezza. Quel colloquio cambiò profondamente il mio modo di pensare ed approcciarmi al lavoro. Dopo pochi giorni fui chiamato dall'azienda per la quale lavoro tutt’oggi, dove accettai il ruolo come responsabile di pianificazione di due reparti, cosa che probabilmente non avrei fatto senza la presa di coscienza del colloquio precedente. Feci la gavetta fino ad essere promosso dirigente: non mi sarei mai immaginato che potesse succedere. Mio padre per trent'anni ha lavorato nell'ufficio del personale di una grande azienda dove si occupava delle buste paga dei dirigenti. Così, quando diedi la buona notizia a casa, la gioia era ai massimi livelli. Fu la mia passione per le auto che mi spinse a intraprendere questo percorso, e la Ferrari ovviamente ricoprì un ruolo fondamentale in tutto ciò. Non c'era pausa caffè nella quale non uscissi fuori dallo stabilimento per ammirare le monoposto correre nel circuito men-
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tre i miei colleghi, abituati da anni a quello spettacolo, non lo facevano quasi mai. Tranne una volta: ricordo che una mattina del 2004 arrivai in azienda e notai che nessuno (su ben quaranta dipendenti del mio reparto) era alla scrivania. Uscii all’esterno e vidi che tutti erano attaccati alla rete del circuito, come dei bambini, ad osservare una macchina correre sulla pista. Ero molto sorpreso e pensai: “Ma come, non se lo fila mai nessuno il circuito, che succede oggi?”. Così chiedo informazioni a uno di loro che mi risponde: "Hai visto chi è il pilota dentro all'auto?". Era Valentino Rossi.
“Sono le persone normali a rendere l'azienda un leader di settore” Oggi parliamo di “Industria 4.0”, mentre secondo me si dovrebbe parlare di “Persone 4.0”. Sono appena uscito da una conferenza dove dicevano che l’era del 4.0 è quasi finita e si andrà verso la 5.0, incentrata sulle persone. Sono d’accordo: se viene fatto un miglioramento in azienda, è la persona che lo suggerisce, non la macchina. Per questo è fondamentale lavorare per tirare fuori il meglio dalle risorse umane motivandole continuamente.
“La costanza e la motivazione: elementi fondamentali per crescere” Con il tempo, poi, si impara a stare in azienda nel modo migliore per sé stessi. Io trassi insegnamento da una piccola “caduta” che affrontai a lavoro qualche tempo fa. Era un periodo particolare per l'impresa e i nervi erano tesi. Un giorno litigai con il direttore generale, che mi disse: "Non mi piace il modo in cui lavori". Io risposi che se avesse trovato una risorsa mi-
gliore di me mi sarei messo da parte, e così feci. Passai a ricoprire un ruolo minore, ma ripartii con lo stesso entusiasmo di prima. Fu come se avessi cambiato lavoro, eppure ero sempre nella stessa azienda. Mi rimisi a lavorare a testa bassa e mi appassionai a quel ruolo, ripartendo da zero con ancor più tenacia. I miei superiori percepirono questa nuova energia, il che mi fece salire di grado fino a diventare dirigente. Grazie al mio passato, posso osservare l'azienda a 360° e capirne tutte le dinamiche e sfumature, non potrei desiderare di meglio.
“Veronica, che è medico, mi aiuta a riportare l'attenzione sulle priorità della vita” A volte, tuttavia, è importante fermarsi e riflettere su quelle che sono le priorità della vita. Ho la fortuna di conoscere da vent'anni Veronica, che mi aiuta a concentrarmi nel lavoro ma anche a fare
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questo passaggio. Quando torno a casa e le racconto i problemi che abbiamo in azienda lei, che è ginecologa, mi dice: "Ma che problemi sono questi?". Lei, che ha la vita tra le mani, mi aiuta a riportare l'attenzione su ciò che ha davvero valore. Il lavoro ci stressa, ci preoccupa e ci inghiottisce, questo capita a tutti. Si arriva a casa e ci si sfoga, ma se il tuo partner fa il medico e quel giorno ha salvato una vita, ti fa ritornare con i piedi per terra e ti aiuta a dare il giusto peso alle cose.
*Il commento dei
B.Liver*
Fiducia in sé stessi, capacità di ascolto e motivazion e sono i segreti del successo nella vita e nel lavoro. Marco ne è consapevole, come dimostra la su a storia ricca di sfide stimol anti e progetti grandiosi. Chiara Malinverno
CHIARA RAUCCI Talkwalker Business developer
“A piccoli passi dall’estero all’Italia”
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l mio racconto parte da un viaggio. Dopo gli studi in economia in Italia decisi di terminare il mio percorso all’estero e partire per un master a San Francisco in International Business che mi aprì le porte per lavorare in numerose aziende americane. Sono stata benissimo e lo rifarei altre centomila volte, ma ero pur sempre dall’altra parte del mondo e sentivo forte la necessità di riavvicinarmi a casa per non perdere pezzi importanti della mia vita privata. Dopo una serie di curricula inviati sono approdata a Talkwalker e mi sono trasferita in Lussemburgo. Prima di diventare Account Executive ero Analyst e questo comportava passare intere giornate in solitudine con il mio laptop, lo stress era altissimo e non facevo altro che controllare l’orologio per vedere quanto mancava alla fine. Ho impiegato un po’ di tempo per comprendere che ero insoddisfatta in quel ruolo e quale fosse la direzione giusta da prendere. Ho scelto di ascoltarmi e seguire la strada che più rispecchiasse la mia personalità. Mi piace il contatto con le persone e poter creare relazioni anche al di là del business sia all’interno dell’azienda coi colleghi che all’esterno verso i clienti. Ed è quello che faccio ora con i nostri clienti, cerco di migliorare le loro attività e così facendo porto un valore aggiunto all’azienda.
Una delle scelte possibili per il master era tutta italiana, ma sono stata scartata per due soli punti. Mi sono fermata e mi sono detta che non potevo accettare questo risultato senza provare altro. Così ho aperto lo sguardo verso fuori e sono partita, con la consapevolezza che avrei potuto fare meglio. Questa primissima sconfitta, mi ha spinto ad andare oltre e mi ha dato il coraggio di immaginare di poter ambire a qualcosa di più grande e diverso, rispetto a quello che avevo progettato inizialmente. Sono una persona molto diretta, ho ben a fuoco ciò che voglio, ho degli obiettivi chiari sia a livello professionale che personale e in un modo o nell’altro li devo raggiungere. Il mio percorso è iniziato lontano dalla mia città Santa Maria Capua Vetere, ma con determinazione sono passata da San Francisco al Lussemburgo e ora intravedo all’orizzonte la possibilità di spostarmi sulla sede di Milano rientrando in patria e avvicinandomi alla mia famiglia.
“Se in Italia ti dicono NO, non arrenderti, prova altrove”
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“Il mio obiettivo personale è riavvicinarmi alla mia famiglia” Paesi come il nostro non ce ne sono! Io, poi, sono molta legata ai miei affetti e ho sempre saputo che avrei voluto costruire la mia futura famiglia accanto a quella di origine, per questo l’esperienza americana è avvenuta quando ero molto giovane in prossimità dei miei studi universitari. Ho sempre ammirato mio padre e la passione che lui mette nel suo lavoro. E` architetto ma lavora nel mondo del commerciale con un retailer di arredamento che ha costruito completamente da zero. Questo mi ha sempre spinto ad andare oltre e a sfidare me stessa, perché anche io volevo cavarmela da sola. E` stata la mia grande motivazione ed il mio punto fermo.
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Avrei potuto appoggiarmi a lui, dopo gli studi, lavorare nell’impresa di famiglia, ma ho scelto di camminare con le mie gambe e affrontare tutte le sfide, soprattutto all’estero dove è più forte questa consapevolezza. Tornare a casa ora non è tornare indietro, ma arricchire di nuove esperienze e consapevolezze il mio paese, magari provando a ridurre il gap che al sud è davvero elevato. Spero di riuscire a superare tutti i blocchi e le difficoltà che incontrerò e a realizzare quest’ulteriore obiettivo. Io non mi arrendo, vado avanti. La passione per quello che fai, fa si che il lavoro e gli sforzi ti pesino meno e raggiungere gli obiettivi vedendo che i miei clienti sono soddisfatti perché il mio aiuto porta valore alla loro attività e la migliora, ecco tutto questo mi torna indietro e mi da grande carica e motivazione.
“Amicizia e collaborazione: un rapporto aperto e produttivo” Tutto parte dalla famiglia per me, ma se penso al luogo dove lavoro vorrei poter creare dei legami anche lì. Nel luogo di lavoro ideale i colleghi sono anche amici e questa complicità aiuta anche l’azienda a produrre di più, rendendo il clima è più rilassato. Da piccola ero una bimba molto introversa, ma col tempo, e sicuramente l’esperienza all’estero è stata determinante, ho imparato ad aprirmi e a intessere relazioni anche sul luogo di lavoro, uscendo dalla mia comfort zone. Appena posso vado a trovare gli amici del master sparsi per il mondo, l’ambiente internazionale di quell’esperienza mi ha aiutato a creare un network incredibile e questo è importantissimo.
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*Il commento dei
B.Liver*
Penso che nella vita sia importante essere am biziosi e battersi per realizzar e i propri sogni. Chi crede in sé stesso è in grado di realizzare qualcosa di grande nonostante le circostanze. Debora Marchesi
EMANUELE CESARI Toyota Logistics solutions academy manager
“Lavoro e famiglia, alla ricerca di un nuovo equilibrio”
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ome spesso accade, intrapresi il mio percorso in Toyota per puro caso. Dopo la laurea in ingegneria elettronica, infatti, avevo iniziato a lavorare in un ambito che non era inerente ai miei studi, e dopo qualche tempo decisi di candidarmi in Toyota nel settore di ricerca e sviluppo per dare finalmente valore alla mia laurea. Feci il colloquio e mi assunsero, ma scoprii ben presto che mi avrebbero assegnato ad un compartimento diverso, il service. Sarà stato il destino... continuai a lavorare in un ruolo che non era quello per cui avevo studiato, ma imparai ad applicarvi il mio approccio ingegneristico. Fu un cambiamento importante: mi ritrovai in un settore che non conoscevo, turbato dal fatto che in realtà volevo fare il tecnico. Pian piano però, entrando in contatto con il mondo del service e iniziando ad occuparmi dell'approccio Toyota nei vari progetti, mi sentii sempre più ingaggiato. Per imparare a fare il mio lavoro iniziai a partecipare a diversi convegni e dare vita ai primi progetti senza dirlo subito all'amministratore delegato, poiché i tempi non erano ancora maturi in azienda. Toyota, un monolite da un milione di dipendenti, riconobbe la consulenza come un business vero e proprio solo nel 2014. Per cui noi dal 2009 al 2013 siamo stati i primi al mondo ad offrire questi servizi. Non era mai stato fatto
prima: questa per me fu una sfida importante, perché in quegli anni costruimmo i binari sui quali sarebbe passato il treno della nostra progettualità. In questi tredici anni di vita e carriera ho capito che a me piacciono di più le sfide nelle quali devo costruire qualcosa piuttosto che governarla.
“Mi sento un costruttore di binari, piuttosto che l'autista del treno” Feci la stessa cosa con la formazione. Nel 2006, quando Toyota non vendeva ancora progetti formativi, i nostri clienti nel dipartimento service iniziavano a richiederli, così organizzai i primi corsi di formazione all’insaputa dei miei superiori. Il primo anno feci circa quarantamila euro di fatturato, che arrivò presto a raggiungere il milione. Sono grato di lavorare in Toyota perché mi sento sempre in un contesto da start up, che mi dà tantissima libertà per sperimentare. Nel 2007 però ci fu un aneddoto che mi segnò molto: io e un mio collega non ricevemmo il premio di fine anno. Nella lettera che ci inviarono c'era scritto: "Sarete pagati se diventerete inutili per l'organizzazione". Non capii subito cosa volesse dire, tant’è che iniziai a inviare il curriculum in altre realtà. In seguito, compresi che dovevo imparare a delegare, perché ero troppo accentratore: pensavo di far prima a
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fare tutto io, piuttosto che spiegarlo a qualcun’altro. Ma così facendo rappresentavo un vincolo alla crescita di chi lavorava con me. Da quel momento non tornai più indietro e imparai a riporre più fiducia nei miei colleghi. Oggi non riuscirei più a lavorare tutto il giorno dietro ad una scrivania: nonostante sia un manager che gestisce persone vivo fuori dall'ufficio. Preferisco fare le riunioni al ristorante o al bar, dove sono nati veri e propri progetti e dove io e i miei clienti abbiamo gestito moltissime attività. Per non parlare delle belle amicizie che si instaurano con i collaboratori in questo modo, dal momento che tutto diventa più informale. Ti arricchisci tanto come persona e alla fine offri di più anche all’azienda. Sono stati dieci anni di vita tremendamente belli, anche se li ho vissuti “in una lavatrice”, perché ho scoperto che si possono trovare grandi amici sul lavoro e insieme fare cose impensabili. In questo gioca un ruolo fondamentale avere un amministratore delegato che ti lascia la possibilità di sperimentare e talvolta anche di sbagliare, in un’ottica di crescita.
“Di giorno lavoravo, la sera accudivo il piccolo e due volte alla settimana ero fuori casa per il master”
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Affrontai un momento complesso quando nacque mio figlio: avevo da poco iniziato un master in logistica e al contempo stavo gestendo un business molto importante in azienda, il noleggio in leasing dei carri elevatori. Dopo un anno di grandi fatiche, capii che non ero la persona adatta e ne parlai con l'amministratore delegato. Di certo ho commesso qualche errore in quel periodo: di giorno lavoravo, la sera accudivo il piccolo, e due o tre volte alla settimana ero fuori casa per il master… Ricordo che una sera d'inverno ero sotto al piumino e lavoravo con il computer sulle gambe quando mi addormentai, stremato dalla giornata. Ad un certo punto il PC iniziò a mandare strani segnali d'allarme poiché si stava surriscaldando troppo con il calore del piumino e dovetti metterlo fuori dalla finestra mezz'ora per farlo raffreddare.
“Gioco a tennis per tenere vivo il corpo e stare con mio figlio”
“Per la prima volta mi resi conto che a casa mi aspettava la cosa più preziosa di cui prendermi cura: la mia famiglia” La nascita di mio figlio cambiò tutto: in quel momento dovetti affrontare e superare molte paure. Me ne resi conto quando, una settimana dopo la sua nascita, dovetti mettermi in macchina per andare da un cliente a 500 chilometri di distanza da casa. Per la prima volta pensai che la macchina fosse un mezzo pericoloso e che io dovevo tornare a casa da mio figlio. Ho dovuto convivere con questo timore per molti mesi: la mia priorità era tornare dalla mia famiglia a fine giornata. Fu in quel periodo difficile che capii di non essere molto presente “mentalmente” nella gestione del business e che era giunto il momento di rallentare. Oggi sono grato a mio figlio per avermi aiutato a raggiungere questa consapevolezza.
Quando nacque mio figlio, quindi, avevo trentanove anni e una vita estremamente stressante: piena di lavoro, progetti e clienti. Mi resi conto che volevo esserci per lui il più a lungo possibile e che per farlo dovevo iniziare a tenermi in forma. Così, una mattina di quattro anni fa, iniziò la mia avventura con il tennis. D’allora non ho mai saltato un solo allenamento e partecipo sempre a partite e tornei, coinvolgendo anche la mia famiglia. Qualche anno fa organizzai una settimana di ferie nelle Marche in un posto molto carino che proposi a mia moglie. Mentre preparavamo le valige lei mi chiese perché mi stessi portando dietro la racchetta e io le dissi una piccola bugia: "così, tanto per averla con me". In realtà il posto lo avevo scelto proprio per i suoi campi da tennis. Questo sport è diventato la chiave per staccare dal lavoro e mantenermi vivace nella vita con mio figlio: rappresenta per me una seconda giovinezza.
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*Il commento dei
B.Liver*
Emanuele predilige co struire binari piuttosto che essere l'autista del treno. Su quei bin ari lui ha costruito un lavoro che gli lascia libertà di sperimenta re. Arianna Morelli
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Marina Carnevale e i suoi pensieri liberi. mcarnevale@richmonditalia.it
Al lavoro come Noè Mi sono sempre piaciuti i ricordi. Da piccola mi immergevo in quelli di mia nonna. Lei amava raccontare e io amavo ascoltare e i suoi ricordi personali erano per me tanto interessanti ed emozionanti quanto le fiabe, che conosceva in gran numero. Ancora oggi i ricordi fanno parte della mia vita. Non per rimpiangere, ma per trarne insegnamento, motivo di riflessione e di crescita. Anche nella mia lunga vita professionale i ricordi rivestono un ruolo importante. Essere stata presente alla nascita di una nuova impresa, anche nel suo significato avventuroso, mi permette oggi di sentirmi parte della sua storia e nei momenti più difficili i ricordi possono servire a darmi forza.
Di recente mi è bastato ricevere una mail per tornare al 2012. Mittente: un’azienda di legnami a cui mi rivolsi per un acquisto inusuale per una come me, che mette insieme persone e programma conferenze. Quintali di assi di legno: lunghe, venate, profumate. E molto pensanti. Al Richmond Marketing forum di quell’anno avevo invitato Francesco Arecco: personaggio eclettico, avvocato sui generis che alla professione giuridica affianca quella di scultore e artista, fondatore del movimento di Resilienza italiana. Insieme avevamo pensato di proporre ai Direttori marketing un laboratorio per la costruzione di un’opera collettiva. Un laboratorio di team building, nel vero senso della parola ‘building’ e allo stesso tempo un momento di creazione collettiva. Fu un’esperienza unica, che i partecipanti all’evento apprezzarono molto: costruimmo insieme un’arca, non per Noè, ma per noi. Francesco, con il phisique du role dell’avvocato, alto, bello, in pantaloncini e armato di chiodi, martellava tranquillo, silenzioso, inchiodando asse dopo asse. Il suo amico critico d’arte spiegava le ragioni di quell’azione e tutti noi, rapiti, ammiravamo e ascoltavamo. Io mi godevo la scena un po’ in disparte. Ma poi,
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che emozione entrare in quell’arca! Due o tre gruppi di persone si sono succeduti all’opera, che cresceva adagiata nel giardino del Park Hotel ai Cappuccini di Gubbio. Purtroppo qualche tempo dopo si dovette farla demolire, ma l’esperienza resta nel cuore di chi l’ha vissuta. Qualche mese dopo proposi lo stesso laboratorio ai Direttori Risorse Umane iscritti al nostro evento. Lo scelsero in 5! Decisi che non valeva la pena fare un altro ordine di legname e partire con una nuova costruzione, ma mi è sempre rimasta la curiosità di sapere perché così pochi fossero desiderosi di partecipare. Forse non se la sentivano di affrontare il momento del recruiting degli animali nell’arca? Ho chiesto a Francesco che cosa si ricorda di quei giorni. “Fu un bell’esempio di lavoro collettivo a una barca rovesciata. Tutti su una stessa barca. Una barca per salvarci da noi stessi. Era il 2012 e, ripensandoci, l’esperienza fu profetica. Nell’ultimo decennio sono risultati evidenti i problemi ambientali, economici e sociali che allora si potevano solo intravedere. Oggi però abbiamo gli strumenti per evitare il peggio ed essere resilienti davvero.”
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LA FORMULA PERFETTA PER FARE I NUMERI SENZA SMETTERE DI ESSERE PERSONE
Tutti i Richmond business forum mettono al centro il fattore umano. Un fattore che per inerzia capita di anteporre ai numeri. Eppure è l’energia più potente che conosciamo. Può scatenare incredibili reazioni a catena, trasformando un astratto business plan in progetti destinati a durare. Per questo definiamo i nostri eventi ‘human2human’. Perché creano nel tempo autentiche business communities. E perché, in quasi trent’anni di attività, abbiamo dimostrato che i risultati migliori nascono dal desiderio di incontrarsi, di ascoltarsi e di conoscersi. Come persone, innanzitutto. Cyber security • Digital communication • E-commerce • Energy • Finance •
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