Il riciclo strategico. Memorie della Grande Guerra e stratificazioni del paesaggio veneto contempora

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Il riciclo strategico

Il riciclo strategico è il trentunesimo volume della collana Re-cycle Italy. La collana restituisce intenzioni, risultati ed eventi dell’omonimo programma triennale di ricerca – finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – che vede coinvolti oltre un centinaio di studiosi dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggio, in undici università italiane. Obiettivo del progetto Re-cycle Italy è l’esplorazione e la definizione di nuovi cicli di vita per quegli spazi, quegli elementi, quei brani della città e del territorio che hanno perso senso, uso o attenzione. Di fonte alla straordinaria e capillare diffusione di tracce lasciate dalla Grande guerra nel territorio del Triveneto, l’approfondimento parte dal rilevarne la sostanziale fragilità, dovuta non solo all’opera del tempo che ha causato inesorabilmente il disgregarsi strutture di cemento e ferro realizzate per resistere all’urto di artiglierie potentissime, ma dovuta soprattutto al venire meno di quelle trame di relazioni fisiche, visive e simboliche che tenevano insieme campi di battaglia, retrovie e, in seguito, luoghi della memoria. Ripercorrere le storie di alcuni di quei legami, prestando particolare attenzione ai tracciati infrastrutturali trasformati o dismessi, costituisce l’occasione per esplorarne di nuovi con le attuali modalità di attraversamento di un territorio caratterizzato da un’apparentemente inestricabile stratificazione.

isbn

IL RICICLO STRATEGICO MEMORIE DELLA GRANDE GUERRA E STRATIFICAZIONI DEL PAESAGGIO VENETO CONTEMPORANEO

978-88-548-9654-3

Aracne

euro 16,00

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IL RICICLO STRATEGICO MEMORIE DELLA GRANDE GUERRA E STRATIFICAZIONI DEL PAESAGGIO VENETO CONTEMPORANEO ANDREA IORIO


Progetto grafico di Sara Marini e Sissi Cesira Roselli Copyright © MMXVI Gioacchino Onorati editore S.r.l. - unipersonale www.gioacchinoonoratieditore.it info@gioacchinoonoratieditore.it via Sotto le mura, 54 00020 Canterano (RM) (06) 93781065 ISBN 978–88–548–9654–3 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: Settembre 2016


PRIN 2013/2016 PROGETTI DI RICERCA DI INTERESSE NAZIONALE Area scientifico-disciplinare 08: Ingegneria civile e Architettura 100%

Unità di Ricerca Università Iuav di Venezia Università degli Studi di Trento Politecnico di Milano Politecnico di Torino Università degli Studi di Genova Università degli Studi di Roma "La Sapienza" Università degli Studi di Napoli "Federico II" Università degli Studi di Palermo Università degli Studi "Mediterranea" di Reggio Calabria Università degli Studi "G. d’Annunzio" Chieti-Pescara Università degli Studi di Camerino


Il riciclo strategico rielabora alcuni temi delinati all'interno di un assegno di ricerca intitolato Re-cycle Italy. Riciclare paesaggi, interpretare memorie: esperienze di riciclo strategico (SSD: ICAR 14 - ICAR 15) svolto tra 2013 e 2014 presso l'Università Iuav di Venezia, all’interno delle attività del Prin Re-Cycle Italy, sotto la direzione scientifica e lo sguardo strategico del prof. Alberto Ferlenga. Un ruolo più che attivo nell’indirizzare il percorso e nell’offrire occasioni di approfondimento ha avuto la prof. Fernanda De Maio, coordinatrice dell’unità di ricerca Architettura, archeologia e paesaggi: Teatri di guerra del Dipartimento di Culture del progetto. Per l'utile contributo nell'elaborazione delle mappe, infine, un particolare ringraziamento va a Elisa Petriccioli, Alessandro De Savi e Leonardo Spagnolo.


INDICE

TERRITORI E MEMORIE Introduzioni Recuperi Alberto Ferlenga La Grande guerra ai tempi dell'etĂ incerta Fernanda De Maio

p. 9 17

IL RICICLO STRATEGICO Fortificazioni fragili Un territorio da riconquistare Cicli e ricicli

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Tracce e tracciati La preparazione del territorio alla guerra Grande guerra costruttrice Distruzioni e ricostruzioni Ritorni Stratificazioni e compresenze

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Materiali e immaginari

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RICOGNIZIONI La ex ferrovia Rocchette-Asiago

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Infrastrutture della memoria Alberto Doncato

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Resti di trincee sullo Zebio


RECUPERI Alberto Ferlenga

Nessun luogo in cui la storia e l’uomo abbiano avuto una lunga frequentazione può essere ricondotto a un’unica immagine senza perdere il senso più profondo di sé e le mille sfaccettature che catturano gli occhi e la mente di chi lo percorre. Frutto di un continuo scambio tra epoche, spazi, usi, ogni paesaggio di questo tipo è sempre il risultato dell’intrecciarsi di più paesaggi, ognuno dei quali ha lasciato sul terreno indizi, contaminati dalle successive trasformazioni ed erosi dal tempo. Eppure, quella che ci viene presentata – specie in un’epoca in cui alle percezioni educate dalle frequentazioni lente si è sostituita l’impressione sintetica provocata dalle visite veloci e dai media – è, spesso, un’unica immagine. Qualunque sia la diversità di cui un luogo è portatore, il fruitore contemporaneo – turista, viaggiatore o residente che sia – indotto allo sguardo in superficie, tende a riportarla a pochi modelli, generici e stereotipati: la montagna, la campagna, il mare. Oppure, a una serie di sotto-modelli culturalmente più complessi, ma non meno superficiali, come quelli che vorrebbero circoscrivere in pochi tratti una presunta mediterraneità, uno stile rurale, una storia urbana, semplificando le relazioni che fanno di ogni luogo un fatto unico e al tempo stesso universale. Che ciò accada è forse inevitabile; se la nostra vista, la nostra 9


conoscenza, la nostra memoria fossero troppo dettagliate ed esatte ci toglierebbero ogni piacere, costringendoci all’atroce 'infermità' di Elias, protagonista di Le voci del mondo di Robert Schneider, musicista sublime ossessionato dalla possibilità rara di percepire ogni suono emesso dalla natura. Ma un conto è accettare la necessaria sintesi che ogni sguardo attivo richiede, un conto è eliminare ogni anfratto, ogni spigolo, ogni spessore di una crosta delle cose che, da sempre, contiene solo le proiezioni alla luce del loro lato più vero e nascosto. Questo testo rimanda alla necessità di considerare le differenze che ogni luogo esprime come patrimonio fondamentale per la sua esistenza e alla possibilità di farle esprimere, di renderle evidenti, anche quando tendono a scomparire, attraverso apposite azioni analitiche e progettuali. Tendere all’esaurimento di significati e differenze è, infatti, il peggiore dei rischi che un paesaggio possa correre. Inevitabile in casi di decadimento economico o sociale, forti trasformazioni ecc. questo processo involutivo porta una città o un territorio, nel novero indifferenziato dei luoghi comuni o nel limbo grigio di quelli non compresi; in definitiva, ha come esito il suo spegnimento, per mancanza di attenzioni e conoscenze, o il suo trasformarsi in museo. Mantenere viva la percezione delle differenze che sempre covano sotto le immagini stereotipate o le abitudini visive significa, invece, mantenere vivo un paesaggio, orientare la sua conservazione o la sua trasformazione verso un uso attivo, coerente con la sua storia e la sua natura, rendere quella rigenerazione, di cui spesso parliamo, non uno slogan, ma un percorso di sopravvivenza e sviluppo, dentro al quale gli aspetti funzionali possiedono un'importanza solo parziale. Da qualche tempo, con gli studenti dello Iuav di Venezia, ci occupiamo di un territorio particolare: l’Altopiano di Asiago. Un territorio dotato di caratteristiche geografiche e storiche ben definite, legate a un susseguirsi lento di condizioni che si sono intrecciate nei secoli: quella naturale di altopiano, quella storica di luogo di confine, la singolarità linguistica, le speciali consuetudini amministrative. Poi, all’improvviso, nel novecento, una vicenda, sviluppatasi in fondo per soli quattro anni, sconvolge totalmente il suo equilibrio così come la vita dei suoi abitanti. La Grande guerra ha avuto qui uno dei suoi teatri più cruenti e stabili. Dopo il suo passaggio nulla è stato più come prima. Non lo è stato neppure per l’insieme del territorio, più vasto dell’Altopiano, ma in fin dei conti concentrato in quattro regioni, in cui il conflitto si è dispiegato in 10


Italia. È la geografia, prima di tutto, ad aver subito un cambiamento. La natura tagliente e franosa delle Dolomiti è stata esasperata da tonnellate di esplosivo pigiate sotto le montagne nel corso della “guerra di mina”, la porosità dei territori carsici è stata accentuata da milioni di bombe che hanno contribuito a confondere tra loro doline e crateri; monti e colli sono stati striati dagli infiniti corrugamenti delle trincee che hanno moltiplicato i solchi scavati dalle acque. E, ancora, massici montuosi come la Marmolada o il Grappa sono stati scavati da chilometri di gallerie che hanno ampliato a dismisura la profondità oscura di grotte e miniere. Innumerevoli paesi sono stati ridotti in macerie da cannoneggiamenti e bombardamenti aerei, prove generali di un’altra guerra che sarebbe scoppiata solo vent’anni dopo e avrebbe portato ad ancor più tragiche conseguenze le 'innovazioni' distruttive sperimentate nella prima. Trattandosi del primo grande conflitto del novecento fu anche inevitabile che i segni del suo passaggio costituissero una tragica anteprima di modernità, rivelatasi all’improvviso agli occhi di milioni di contadini-soldati di uno stato giovane e ancora in gran parte arretrato. La luce elettrica, inesistente nelle case nella maggior parte del territorio nazionale, illuminava, durante la guerra, non solo rifugi, ma intere montagne e valli, lanciata da giganteschi proiettori per stanare il nemico. Il telefono, di là da venire come strumento domestico, univa costantemente comandi e truppe in linea. Le automobili e gli aeroplani, opportunamente adeguati alle necessità militari, si moltiplicavano e venivano condotti da piloti famosi come Marinetti o D’Annunzio. Ma anche la fotografia, la cinematografia, la topografia ricevevano uno straordinario impulso dalle esigenze della comunicazione e della rappresentazione, che ne acceleravano i progressi perfezionando gli apparecchi di ripresa, inventando la ripresa aerea, la foto di gruppo, il reportage. Nel campo più specifico degli strumenti bellici, i cannoni raggiunsero potenze e gittate mai viste prima, i primi traballanti carri armati fecero la loro comparsa nei pianeggianti campi di battaglia del nord Europa, si raffinarono mitragliatrici, lanciafiamme, gas e altri strumenti di distruzione di massa mentre la cartografia, l’arte del camouflage, l’ottica, non solo restituivano o interpretavano territori con una precisione inedita, ma, facendolo, contribuivano anche alla loro trasformazione. Rilevare il paesaggio con strumenti nuovi e sfruttarne le caratteristiche per proteggere fortificazioni o magazzini aveva come conseguenza il tracciamento di percorsi fisici – strade, sentieri, gallerie 11


–, ma inaugurava anche modalità di osservazione – verso certi panorami o certi punti salienti – che avrebbero portato a un diverso uso e a una diversa percezione del territorio. A guerra finita questa enorme mole di operazioni ebbe un peso nella transizione del paese, e soprattutto dei suoi abitanti, da una condizione di arretratezza a una di modernità. Degli acquedotti costruiti per migliaia di chilometri, delle reti ferroviarie ed elettriche, delle teleferiche, non si ebbe, nell’immediato, la possibilità di trarre vantaggio se non come materiali di reimpiego. Troppo breve era stato il tempo di tregua tra le due guerre e troppo forti le necessità immediate della ripresa. Ma dopo la Seconda guerra mondiale il processo di ricostruzione, in Italia, produsse un unico e grandioso Dopoguerra che ha caratterizzato nel segno dello sviluppo i primi decenni del secondo novecento. In questo clima anche l’Altopiano ha cercato un nuovo destino e fatto le sue prove di modernizzazione. Poteva contare, come il Veneto o il Friuli, sulle infrastrutture lasciate dagli eserciti e sui danni, in fondo limitati, provocati dal secondo conflitto. Ma se in altri luoghi del Veneto la rete infrastrutturale militare ha costituito una delle spiegazioni della particolare "diffusione" con cui il territorio si è sviluppato, nelle aree elevate e di margine, come quelle montane, il percorso è stato più complesso. Le tracce della Grande guerra costituivano una presenza troppo forte per essere ignorate e al tempo stesso erano troppo diffuse per essere riutilizzate – se non come materiali – da una popolazione ormai ridotta di numero e impoverita.Su di esse, più che un uso razionale, si stenderà la falsificazione retorica e omologante di sacrari, ossari, mausolei traghettata e diffusa da una nuova forma di turismo, a metà tra la gita familiare e il raduno, inaugurato con le guide intitolate Sui campi di battaglia del TCI edite a partire dal 1927. A sua volta, su queste basi si innesterà, a ricordi più sfumati, il turismo della villeggiatura montana e delle attività sciistiche, destinato tuttavia a entrare presto in crisi anche grazie alle ferite inferte al territorio da un'urbanizzazione incontrollata e dall’evolversi dei cambiamenti climatici che hanno fatto di questa sfida turistica di mezza montagna una battaglia prematuramente perduta. Oggi l’Altopiano di Asiago vive una condizione in qualche modo sospesa, tra le conseguenze di uno sviluppo edilizio di cui appare chiara l’insostenibilità, l’abbandono di impianti sciistici e strutture a essi collegate, la riduzione dei pascoli e delle attività agricole, il timido sviluppo di attività produttive 12


prevalentemente agro-alimentari e il ritorno, recentissimo, sotto i riflettori grazie alle manifestazioni del Centenario. Potrebbe trattarsi di una condizione propizia per l’apertura di una nuova stagione ma è importante che in questo momento di passaggio si rifletta sul passato e sul presente se si vuol portare il territorio verso una nuova evidenza e valorizzazione. Fornire un contributo a questa riflessione è stato l’obiettivo del nostro lavoro, partendo dall’impatto di una guerra che indubbiamente ha costituito per l’Altopiano l’evento più importante dell’ultimo secolo. Una guerra che malgrado abbia comportato uno sconvolgimento totale di ogni presenza fisica, mutando geografia, botanica, storia, edilizia, vite umane e animali; malgrado abbia spezzato, forse per sempre, l’equilibrio che secoli di storia avevano attribuito a questi luoghi, ha anche regalato loro una nuova identità. I caratteri oggi più peculiari sono una geografia e una storia frammentate che, lavorando in stretta connessione, hanno attribuito a molte località miti e narrazioni proprie dentro la più vasta vicenda del conflitto. I campi di battaglia hanno assunto una individualità differenziata, le montagne, dall’ Ortigara allo Zebio, dal Pasubio al Grappa, hanno dato origine a leggende, epopee specifiche, hanno generato un’epica che travalica la loro appartenenza al contesto specifico. Grazie anche al potere moltiplicatore di canzoni, libri e monumenti, i nomi di cime e pianori insanguinati si sono fatti conoscere, autonomamente, nella toponomastica nazionale, insieme a quelli di re, generali ed eroi di quella guerra. Una piccola geografia e una storia limitata si sono dilatate a scala nazionale sovrapponendosi a quelle, note ai pochi abitanti, che l’Altopiano aveva elaborato nel corso di secoli e che oggi appaiono, a loro volta, a rischio di estinzione. Lo spegnimento dei significati e dei ricordi interessa ogni epoca; quello stesso tempo che forma le memorie le livella, piallandone le emergenze visibili. Da decenni sull’Altopiano è in atto un rivolgimento – al ribasso potremmo dire – che cancella tracce e relazioni, antiche e meno antiche, per restituire un’immagine da luogo montano simile a tanti altri, immagine che può anche apparire naturale agli occhi di chi non sappia quanto poco di naturale esista in un territorio antropizzato, tanto più se la guerra vi ha svolto il suo lavoro. Di fronte all’affermarsi di questo processo di annullamento o esaurimento la domanda da porsi è se sia possibile un riutilizzo delle molte tracce ancora presenti che eviti l’oblio o 13


le semplificazioni simmetriche della retorica bellica e della riconciliazione naturalistica, per restituire un’immagine più vitale e complessa. È possibile, in altri termini, che componendo in modo diverso il rapporto tra storie, significati e vicende, si possa contribuire alla costruzione di un nuovo destino per questo territorio per molti versi straordinario? Come molti altri luoghi segnati dalla Grande guerra, l’Altopiano di Asiago è stato per lunghi anni teatro dell’epopea dei “recuperanti”, magistralmente descritta dalle parole di Mario Rigoni Stern e dalle immagini cinematografiche di Ermanno Olmi. Il senso di questa vicenda, che ha sostenuto a lungo l’economia delle genti del luogo con il suo carico di amputazioni e tragedie, si è da tempo esaurito e il ronzio dei metal-detector riporta attualmente alla luce solo le ultime briciole dell’esplosione bellica, a uso di villeggianti e collezionisti. Ma ciò che c’è da recuperare è molto di più. Se quattro anni di conflitto possono sembrare un’inezia nella storia millenaria di un luogo, le modifiche che la Grande guerra ha arrecato da queste parti non sono inferiori, per peso e numero, alle trasformazioni che normalmente si determinano in secoli di storia. Basti pensare come alle relazioni stabili e consolidate tra i pochi abitanti e il loro habitat si siano pesantemente intrecciate quelle determinate dalle esigenze di sopravvivenza, dalla cultura e dalle emozioni di milioni di soldati passati e caduti da queste parti. Come, per poco più di un migliaio di giorni, questo luogo sia stato, per presenze umane e per varietà di culture, equiparabile a una grande metropoli del mondo. E come questo abbia fatto sì che la sua natura non sia più solo quella determinata dalle sue origini e dai suoi miti successivi, ma anche quella che ha trasportato la sua conoscenza a migliaia di chilometri di distanza attraverso racconti, lettere, immagini. Dunque non solo la geografia si è dilatata da queste parti ma anche una cultura che, lentamente, si è distaccata da luoghi fisici per vivere una vita propria, prima nei ricordi e poi nelle rievocazioni storiografiche. Indubbiamente ciò ha determinato un grande peso che grava sulla vita delle comunità che qui sono insediate. Ed è comprensibile che luoghi e abitanti abbiano a un certo punto voluto dimenticare ciò di cui erano stati tragico scenario per tornare ad assomigliare a molti altri paesaggi simili del nostro arco alpino. Ma è possibile recuperare 'normalità' senza per questo perdere una straordinarietà involontariamente conquistata? Rimettere in relazione ordinario e straordinario, storia e geografia, vite individuali e collettive, 14


usi quotidiani ed eventi eccezionali, può essere il compito di una nuova stagione di progetti che reinventi ciò che il tempo passato aveva collocato nella gelida casella della rievocazione celebrativa. Per esempio, l’Altopiano, che possiede vari piccoli depositi di reperti bellici, avrebbe la necessità di un vero museo. Di un luogo in cui le testimonianze materiali della guerra si leghino alla molteplicità di problematiche che essa ha generato; in cui la realtà dei fatti si liberi dalle incrostazioni di vario genere che ne hanno impedito la conoscenza; in cui la geografia, il clima, la botanica, le emozioni non siano un 'fuori', ma costituiscano parte fondamentale di una nuova narrazione. Un museo di questo tipo può essere un importante catalizzatore di nuove relazioni. Purché non limiti la sua azione all’edificio che lo contiene e si leghi strettamente a decine di percorsi, reali e metaforici, che da esso si diramino e che offrano conoscenza, accoglienza e un uso contemporaneo del territorio. Purché si ponga come il centro di una rete. Da riciclare, nei territori che furono teatro di guerra, oggi ci sono i significati esauriti che sacrari, sentieri della pace, rovine, musei all’aperto, non riescono più a rinnovare. E non c’è altro modo per farlo se nonlegandoli a significati e temi attuali. Interventi paesaggistici e architettonici possono essere d’aiuto in tutto ciò, ma è un complesso di azioni basate su una diversa comunicazione che può sperare di rinnovare le ragioni per cui un luogo torni a essere attrattivo a partire da un'individualità ricostruita. L’Europa centrale ha saputo produrre in questo ambito significative esperienze da cui è possibile partire; recuperi di fortificazioni, musei innovativi, paesaggi resi parlanti a un pubblico contemporaneo, hanno estratto – dalle pianure della Somme alle coste della Normandia – i siti delle più sanguinose battaglie delle due guerre dalla fissità dei memoriali grazie alla dinamicità di visite consapevoli e istruttive e di usi attuali, coniugando significati antichi e presenti, forme del passato e della contemporaneità. Anche a partire da ciò molti paesaggi che sull’Altopiano si sono sovrapposti e annullati allo steso tempo possono ritrovare forme di dialogo che insieme restituiscano una rappresentazione comprensibile di un territorio che sotto l’immagine di superficie cela la straordinaria ricchezza delle sue molte identità. Ciò che oggi può costituire, in una nuova stagione di “recuperi”, il materiale di base per una valorizzazione economica, culturale e sociale in sintonia con il tempo presente.

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Trincee inerbate e tracciati recenti sulle Melette di Gallio


LA GRANDE GUERRA AI TEMPI DELL'ETÀ INCERTA Fernanda De Maio

Il passato è un paese straniero, lì tutto si svolge in modo diverso (L.P. Hartley, L’età incerta)

Il punto è questo. Cicli e ricicli come corsi e ricorsi non si ripetono mai esattamente uguali a se stessi. Altrimenti non avrebbe senso la ricerca storica o tutta quella ricerca a cui lo studio presentato in questo volume si raccorda. E quando anche il passato che indaghiamo fosse proprio lo stesso di quello percorso, battuto e narrato da chi ci ha preceduto – e così non è – siamo noi, i ricercatori, a essere diversi da chi ci ha preceduto e a manipolare in modo diverso i documenti e le informazioni. L’attuale contesto geopolitico e antropico condiziona le tracce del passato e ci impone di riscrivere una storia differente, anche quella di una vicenda così delicata come quella della Grande guerra e dei suoi campi di battaglia. Costruire una diversa narrazione dell’evento è proprio ciò che pertiene, tra gli altri, al campo dell’architettura. D’altra parte, tanto più all’approssimarsi di una ricorrenza come quella del centenario, in cui un proliferare di studi sta invadendo edicole, librerie, siti web, musei e i luoghi che furono teatro 17


di battaglie campali, ha senso comprendere se davvero il lavoro svolto aggiunga un tassello alla attuale narrazione di quell’evento e in quale direzione: semplicemente commemorativa o intrisa di una visione futura. Tra le montagne e le colline del Triveneto, nel lontano '15-'18 si è svolta la partita finale di un sogno risorgimentale, sovrapponendosi ad altri destini europei. Per questo le "montagne eroiche"1 sono anche italiane. Di più: sono un pezzo di territorio nazionale molto ben identificabile e, in questo lungo periodo di commemorazione del centenario, rappresentano, all’interno come all’esterno del nostro paese, il dato concreto più evidente attraverso cui raccontare il momento che fu. Lo aveva ben compreso il grande comunicatore del fascismo nostrano, il quale affidò a ingegneri e architetti l’onere e l’onore di elevare la corona alpina orientale – attraverso l’architettura monumentale di sacrari e cimiteri di guerra – a simbolo del sacrificio eroico di tutti gli italiani. Quell’operazione d’immagine e di costruzione mitopoietica del paesaggio oggi non è più possibile non solo perché il passato è sempre e comunque un paese straniero, ma anche perché stiamo, davvero, vivendo un’età incerta e diversi motivi di ordine etico, sociale ed economico, nonché la distanza temporale dagli eventi stessi, richiedono nuove descrizioni e nuovi progetti. Proverò a riassumere alcuni di questi motivi, i più salienti, per provare ad argomentare il cambio di atteggiamento che è alla base della ricerca di Andrea Iorio, un atteggiamento condiviso con tutti gli architetti e gli studiosi con cui in questi anni ci siamo confrontati o che abbiamo coinvolto nelle ricerche poste in essere con il piccolo presidio Iuav che coordino, l'unità di ricerca Architettura, archeologia e paesaggi: teatri di guerra. 1. Abbiamo tutti compreso che la Grande guerra è l’inizio di una violenza globale, insita nell'idea stessa di modernità con cui il novecento si è confrontato. Una modernità tecnologica che senza troppe esitazioni stiamo trasferendo, con sempre maggiore intensità e pervasività, nelle guerre contemporanee, opponendo a questa solo la paranoica ossessione di una sicurezza totale impossibile a prodursi. 2. Gli studi storici, non meno delle arti visive, hanno messo in evidenza che a partire dalla Grande guerra tutti, non solo gli 1.

M. Armiero, Le montagne della patria, Einaudi, Torino 2013, p. 93.

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eserciti o gli stati maggiori, sono coinvolti nelle guerre, non solo come vittime, ma anche come potenziali fomentatori. Per cui non più solo le montagne e le gole, i fiumi e i guadi, gli orizzonti marini e le spiagge, ma anche le città del mondo sono teatri di guerra. La Grande guerra, insomma, è prodromica a quella forma di "guerra totale" generalizzata su cui sembra essersi assestata la condizione contemporanea. 3. La Grande guerra, infine, è il simbolo più evidente di una sproporzione che genera disuguaglianza, una disuguaglianza che dalla sfera individuale si trasferisce a quella collettiva. L’immane sforzo bellico ha conseguenze economiche e sociali pesantissime: da allora a oggi i governi del mondo sono sempre più impegnati a spendere in sofisticati armamenti, piuttosto che a colmare i gap tra le diverse parti del mondo. La difesa viene prima di questioni essenziali quali alimentazione, ecologia, salute, ecc. Questo il paradigma di fondo del pensiero olistico contemporaneo. D’altra parte un’intelligenza sempre più acuta presiede all’organizzazione della macchina bellica del secolo breve, come già era avvenuto nei secoli passati, al punto che i trattati di settore a volte s’intitolano “l’arte della guerra”. L’occasione di questo centenario bellico, la cui durata in Europa è di cinque anni e in Italia di quattro, è stata dunque affrontata in questa ricerca a partire da una riflessione: i progetti di attrezzature dello spazio fisico per la difesa e l’attacco non sono solo un pesante fardello per l’umanità, ma hanno spesso anche l’inconsapevole capacità di generare e svelare nuove potenzialità per i territori. Potenzialità che l’instabile memoria umana in parte insabbia e in parte fa riaffiorare, in modi talvolta imprevedibili. Dare ordine a questa instabilità di segni banali (infrastrutture e retrovie in particolare) in una cornice contemporanea è l’obiettivo del progetto di ricerca Il riciclo strategico. Memorie della grande guerra e stratificazioni del paesaggio veneto contemporaneo, così come del progetto architettonico della tesi di laurea che conclude il volume. Descrivere in modo preciso, attraverso mappe e disegni, le tracce di ferrovie e camminamenti, trincee e gallerie, ponti e funivie e prendere atto che quelle tracce, in gran parte, sono servite poi ai territori per sviluppare il loro assetto conseguente agli eventi bellici 19


è un’operazione raffinata e utile per immaginare il futuro, soprattutto quando si scopre che gli assetti bellici hanno prodotto poi – e il caso delle "montagne eroiche" italiane ne è spesso un esempio lampante – fruizioni e nuove architetture di tutt’altro tipo, le quali hanno accompagnato la riappropriazione dei territori da parte delle comunità locali nell’opera di ricostruzione dei centri abitati. L’esperienza della bellezza sublime e terribile del paesaggio di alta quota, per esempio, che fecero gli italiani giunti da tutto lo stivale per prendere parte alle sanguinose battaglie della Grande guerra, unita alle istruzioni e alle guide prodotte dal Cai e dal Touring Club per diffondere il valore dei luoghi alpini, fu sicuramente alla base della successiva fruizione della montagna legata al tempo libero e ad alcuni degli sport che qui si praticano, dallo sci e all’alpinismo. Il conflitto, in altre parole, ha introdotto accanto alle ingenti trasformazioni infrastrutturali, di cui si dà conto in questo volume, anche quella scoperta del paesaggio alpino che non si percepisce solo nella immobilità di una postazione di trincea, ma anche nell’atto del trasferimento da una vetta alla successiva, con quegli espedienti e mezzi con cui poi, dagli anni venti fino a oggi, ci si sposta per praticare lo sci alpino e i suoi derivati, ormai divenuti sport di massa. La modernità dell’architettura lungo l’arco alpino, d’altra parte, dopo le bombe e gli incendi dei boschi, dopo gli sventramenti delle mine, per stanare gli eserciti e gli armamenti stivati nelle gallerie scavate nelle montagne o usate per la costruzione dei sacrari fascisti, costituisce una delle declinazioni migliori di uno dei periodi più brillanti dell'architettura italiana: architetti del calibro di Carlo Mollino, tra Piemonte e Val d’Aosta, e di Edoardo Gellner nel Triveneto rappresentano figure cruciali, capaci di cercare e mettere a punto nuove tipologie e nuove forme per l’insediamento in alta quota. La montagna, d'altra parte, proprio a partire dagli anni del boom economico era divenuta meta privilegiata di tutti gli italiani: qui ritrovavano non solo un’aria salubre e ricca di ossigeno, ma il senso del prezzo pagato per raggiungere la loro identità nazionale. In altre parole, il luogo in cui si è fatta l’Italia all’inizio del secolo scorso è senza dubbio il Veneto. Ma questo dato, vero, concreto e simbolicamente rilevante, è ancora determinante, oltre che in se stesso, per posizionare il Veneto rispetto all’Europa e al mondo 20


odierno nel X X I secolo? Se si scorre l’elenco dei bandi europei dedicati all’eredità delle guerre europee, e in particolare alla Prima e alla Seconda Guerra mondiale, si scopre che la risposta è affermativa. Eppure il nodo della questione è sempre lo stesso: basta il ricordo di un evento descritto prevalentemente in termini di lutto e distruzione per riattivare economie locali che languono o spazi che attendono di essere riassorbiti in momenti di vita attiva? Può lo sguardo e la ricerca di un architetto attento alla storia, ma non succube di questa, tracciare la mappa di un progetto che amplia il concetto di museo trasferendolo dalla sfera turistica a quella della quotidianità della vita affinché la bellezza non sia solo un concetto rapsodico ma costante nel tempo di ciascun individuo? Questo libro è l’esito di una ricerca seria e attenta svolta su aspetti precisi di una parte di territorio veneto, la quale tra le righe come nei meandri più profondi del suo percorso anela a offrire un contributo in questo senso.

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FORTIFICAZIONI FRAGILI

Forti arroccati sulle vette, solchi zigzaganti che rincorrono i versanti, crateri che punteggiano i pascoli, misteriosi spazi ipogei seminascosti nella boscaglia. E ancora cippi, piccoli cimiteri, giganteschi sacrari. La quantità e la varietà di tracce che la Grande guerra ha lasciato depositate sul suolo veneto è davvero sorprendente. L’incontro con quei resti, intenzionale o fortuito, è fenomeno frequente nell’esperienza quotidiana del territorio, sia solo il passaggio veloce a fianco di un bunker ricoperto dalla vegetazione lungo una statale o lo sguardo distratto a una delle innumerevoli lapidi affisse a chiese e municipi per ricordare i concittadini caduti. Ben più sorprendente, tuttavia, è il fatto che nonostante la capillare diffusione questa moltitudine di segni sia generalmente percepita come una congerie di luoghi o manufatti singoli, solo a fatica collocabili in un sistema più ampio. Luoghi o manufatti che, anche quando individualmente caratterizzati per le dimensioni notevoli o per la memoria ancora vivida delle vicende leggendarie di cui sono stati teatro, difficilmente riescono a sortire da una circoscritta condizione puntuale, mentre sembra tenerli insieme, spesso, soltanto un generico riferimento alla Grande guerra. Se quantità e diffusione, i due aspetti che prima di altri connotano le tracce oggi superstiti, sono indizi della pervasività che quella vicenda ha avuto 25


nei confronti del territorio, anche solo in termini di dimensioni spaziali, d’altro canto un secolo è bastato per vedere le ‘vestigia’ di quell’enorme conflitto in grande parte sepolte sotto le stratificazioni, antropiche oltre che naturali, che il novecento ha velocemente affastellato. E ciò che oggi ancora affiora, cui si aggiunge quanto è stato recentemente scavato secondo un sentire che sembra progressivamente avvicinarsi all’archeologia, costituisce un patrimonio – di rovine per lo più – che pone non pochi problemi dal punto di vista del suo mantenimento, oltre che da quello della leggibilità del suo significato per il territorio. Il processo di disgregazione dell’articolato sistema di segni bellici, di quelli che non erano già stati distrutti dalle artiglierie, iniziò alla conclusione del conflitto, quando il venir meno delle necessità militari – ciò valse soprattutto per il Veneto, dove il confine si era sensibilmente allontanato – diede l’avvio a un processo di smobilitazione e abbandono di campi di battaglia e retrovie, per restituirli alle sempre più pressanti esigenze di una vita civile che stentava a ripartire. Luoghi dove in poco tempo erano stati ammassati centinaia di migliaia di soldati si svuotavano altrettanto velocemente. Una moltitudine di strutture fortificate, macchine belliche costruite sulla base di precisi calcoli balistici e altrettanto faticosi sforzi umani, cessavano improvvisamente di funzionare. Ma soprattutto andava via via dissolvendosi quella fitta trama di relazioni – fisiche e visive – che aveva strutturato tanto la miriade di postazioni disposte lungo il fronte, quanto i suoi rapporti con il territorio retrostante. E a partire da quel momento strutture costruite per reggere l’urto dell’artiglieria nemica, fatte di cemento, ferro e roccia, hanno iniziato a dimostrare la loro fragilità: una volta circoscritte e isolate, allentatisi i legami che le tenevano insieme, si è palesata la loro natura ordinaria, di manufatti abbastanza ripetitivi, il più delle volte poco spettacolari, che passavano in secondo piano rispetto a narrazioni mitiche di gesta eroiche. Sarebbe oggi impossibile comprendere quella vasta moltitudine di tracce, riattivarne la capacità di intrecciare memoria storica e storia dei luoghi, o anche semplicemente riconoscerne il fascino, senza attraversare una complessa stratificazione di temi, scale e tempi, tenendo insieme fortificazioni e infrastrutture, piccole postazioni e strategie a tutto fronte, giorni di battaglia e secoli di trasformazione del territorio. In altre parole, se la Grande guerra fu davvero una “guerra totale”, lo fu nella misura in cui aveva coinvolto – e continuò a influenzare negli anni a venire – un 26


contesto fisico, spaziale e temporale, ma anche e soprattutto culturale, fatto di storie e immagini, assai più ampio e profondo del solo fronte di combattimento. Un territorio da riconquistare Il contesto di ricerca all’interno del quale la presente investigazione è nata, tuttavia, poneva una serie di questioni che chiedevano di tenere una distanza critica dal tema storico specifico, per almeno due ragioni. La prima riguarda il fatto che, al di là del punto di partenza da cui ci si avvicina, l’oggetto ultimo del ragionare per Recycle Italy sono le possibilità operative sul territorio contemporaneo, considerato nei suoi aspetti di complessità e di crisi. In altre parole, sulle delimitazioni di carattere geografico, tipologico o storiografico prevaleva la necessità di costruire insiemi a partire da una più generale condizione di attuale fragilità, di incongruenza rispetto alle pratiche e alle dinamiche che strutturano o si profilano nel territorio. Si trattava in un certo senso di differire le considerazioni unicamente rivolte a dare risalto alle specificità, che indubbiamente esistono all’interno del vasto patrimonio oggi dismesso, vuoto o sottoutilizzato, e che andavano indagate seguendo un percorso parallelo, per provare ad allargare sperimentalmente il campo visivo: come se sullo stesso piano potessero stare vecchi manufatti industriali e bunker, aree produttive dismesse e campi di battaglia, strade militari e nuovi tracciati delineati dalle trasformazioni in atto e dalle attuali modalità di fruire il territorio. Tentare sortite dal tema bellico doveva servire, dunque, a indagare le opportunità offerte – o anche i problemi aggiunti – dall’intersecare memorie storiche e sensibilità attuali, al fine di proporre strategie di manipolazione e rigenerazione di territori fragili, disseminati di segni ormai silenziosi, interpretando la marginalità e la debolezza stessa degli usi. Sull’importanza di considerazioni di natura strategica di fronte a un ‘territorio della crisi’, si potrebbero richiamare alcune parole del gen. Enrico Caviglia, una delle figure principali nel corso del conflitto. «La strategia è sveglia e attiva quando le forze non saturano lo spazio»1. Si tratta di una definizione apparentemente semplice, eppure significativa, del concetto di strategia. Uno stato di necessità, derivato dalla penuria delle risorse convenzionali: è in questa condizione che la strategia si rende 1.

E. Caviglia, Le tre battaglie del Piave, Mondadori, Milano 1935, p. 70.

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essenziale. Non è più la forza convenzionale a essere sufficiente, non sono gli strumenti bellici specifici quali gli armamenti, le fortificazioni, le truppe – che pertengono semmai alla tattica – a poter essere impegnati. Ciò che l’imprevedibilità dello svolgimento di una guerra comporta è, inevitabilmente, la continua instabilità del contesto, il continuo venir meno delle tassonomie di volta in volta fissate. Dove solo la capacità di sollevare il proprio punto di vista a un livello strategico permette di affrontare una complessità apparentemente ineludibile. Non è un caso che considerazioni analoghe a quelle riportate per descrivere l’imprevedibile mutevolezza del contesto durante un conflitto possano facilmente essere usate per raccontare, oggi, una certa difficoltà a leggere e interpretare l’instabile complessità del mondo contemporaneo. Ciò è tanto più percepibile in un particolare contesto storico e geografico, quello del nordest italiano raggiunto da una lunga crisi – che non è semplicemente crisi economica –, laddove una serie di paradigmi interpretativi, complessivamente raccolti attorno a un’idea di sviluppo progressivo e presumibilmente lineare del territorio, hanno raggiunto un punto di impasse, dimostrando tutta la loro fragilità, tutta la difficoltà a confrontarsi con assetti mutati e in continuo assestamento. Comprendere ed esercitare uno sguardo strategico, allora, è in primo luogo necessità contemporanea. E lo stesso termine strategia, che a partire dal titolo del presente quaderno declina la posizione sostenuta nei confronti del tema Recycle, individua in questo frangente oggetto e strumento del ragionare. L’oggetto, naturalmente, si riferisce alla diffusa moltitudine di manufatti, da molto tempo ormai privi di uso, il cui ciclo di vita si è esaurito con la conclusione conflitto – sebbene a volte l’origine vada arretrata almeno nella seconda metà del X IX secolo. Si tratta, come già anticipato, di tracce a cui in seguito si è affiancata una sempre crescente quantità di altri segni dismessi, principalmente di carattere produttivo e industriale – capannoni, ma anche infrastrutture e aree logistiche – che arrivano da un arresto o quanto meno da una flessione di cicli economici e produttivi più recenti. A fronte delle evidenti differenze tipologiche e funzionali, tuttavia, è possibile tracciare alcune considerazioni che prendono in considerazione le affinità tra i due mondi. La prima rileva la sostanziale intermittenza dei processi di trasformazione che hanno interessato il Veneto in epoca recente. O quantomeno la presenza di una serie di momenti di accelerazione 28


produttiva nelle modificazioni del territorio, di balzi in avanti – se di progresso si è trattato –, che riportano in regione alcune delle principali stagioni della storia italiana del novecento: il passaggio massiccio della Grande guerra, le bonifiche agrarie, ancora intrecciate all’eredità bellica, ma anche legate alla crisi economica tra i due conflitti mondiali, i primi grandi insediamenti industriali degli anni venti e trenta e i grandi manufatti dello sviluppo infrastrutturale ed energetico del Dopoguerra, fino alla proliferazione, negli ultimi trent’anni del secolo, di strutture produttive di piccola scala, rappresentate nell’immaginario collettivo dal tipo ‘casa a capannone’. Proprio quest’ultimo aspetto, inoltre, richiama un secondo livello di relazioni tra la moltitudine di tracce della Grande guerra e altre tracce oggi abbandonate: l’alto grado di urbanizzazione diffusa che dalla costa sale fino le pendici delle Prealpi, attraverso contesti geografici pur diversi, uniformando il ‘paesaggio di superficie’, trae origine dall’eredità consistente che la guerra ha lasciato nelle sue retrovie. La recente fortuna economica del nordest si è poggiata su una densità infrastrutturale – e i tracciati costruiti per alimentare il fronte ne costituivano parte sostanziale –, che aveva ben pochi confronti e che dava vita a un contesto dove frammentazione, ridotte dimensioni del singolo nodo e diffusione permettevano un’agilità produttiva peculiare. La fortuna di questo sistema, tuttavia, ha visto anche la progressiva saturazione delle sue maglie: su uno sfondo rurale sempre più evanescente, frutto di un lento e minuto lavoro di costruzione e manutenzione continua del paesaggio – il paesaggio prevalente almeno fino al conflitto –, nell’attuale percezione del territorio si è sovrapposto un nuovo strato di urbanizzazione, via via più opaco, fatto di segni prevalentemente discontinui, ma ossessivamente diffusi. Il concetto di strategia, inoltre, individua anche uno strumento interpretativo utile ad affrontare in modo realistico una vasta congerie di tracce – in questo caso il riferimento è limitatamente a quelle belliche – nei confronti delle quali, per evidenti ragioni economiche e temporali, non è possibile immaginare un intervento risolutivo unitario o uniforme. Se la questione non è aggredibile in modo frontale, al contrario è possibile avvicinarlesi seguendo percorsi indiretti, partendo dalla lettura e riattivazione di segni, memorie e occasioni locali, ma soprattutto tenendo insieme materiali e immaginari. Dalla propaganda precedente e contemporanea al conflitto fino al lungo processo di costruzione del suo 29


mito, infatti, la Grande guerra non produsse solo una serie di azioni fisiche sul territorio, ma fu anche, attraverso una straordinaria produttività artistica e letteraria, trasformazione del mondo mentale. Per molti segni la cui natura appare esclusivamente bellica, spesso, la mera ricostruzione delle ragioni strettamente funzionali non è sufficiente a comprenderne il significato e l’influenza a seguire, che emergono invece aprendo a legami con contesti culturali, politici ed economici apparentemente estranei al mondo militare. È utile, per esempio, nel guardare alla moltitudine di interventi di trasformazione del suolo – scavi, movimenti di terra, massicciate –, la cui ragione era essenzialmente fortificatoria o logistica, richiamare la lunga tradizione di modifiche del territorio alpino e appenninico – terrazzamenti, dissodamenti, muri a secco – condotta per ragioni agricole spesso dagli stessi stati della popolazione contadina che poi vennero reclutati dall’autorità militare, «popolazioni esperte, quasi fin dalla nascita, nell'arte del terrazziere»2. Così come sarebbe difficile isolare i processi di progettazione e realizzazione di molte infrastrutture che servivano ad approvvigionare le prime linee dal complicato intreccio con le dinamiche di sviluppo dell’Italia industriale tra X IX e X X secolo. O ancora, la grande varietà di mezzi di locomozione messi a punto durante il conflitto, che esploravano mondi fino a quel momento conosciuti prevalentemente attraverso la letteratura, come il cielo e gli abissi, o che sperimentavano nuovi ibridi come l’auto-cannone, sembra trovare un contrappunto ideale nella ricchezza del contesto scientifico e fantascientifico otto- e novecentesco, quando una straordinaria stagione di invenzioni tecnologiche, a volte al limite dell’assurdo, trovava numerosi punti di tangenza con contemporanee e altrettanto avanguardistiche sperimentazioni artistiche. O infine, alcune delle leggendarie imprese condotte su cime e versanti apparentemente inespugnabili sembrano molto più conquiste sportive, dovute a una pregressa esperienza alpinistica dei protagonisti, che vere e proprie azioni tattiche.

2. R. Kipling, La guerra nelle montagne, Impressioni del fronte italiano, Risorgimento, Milano 1917, p. 8. Più avanti prosegue: “Ciò che l’ascia è per il Canadese, ciò che il bambù è per l’Indiano, ciò che il blocco di neve ghiacciata è per l’Esquimese, la pietra e la calce sono per l’Italiano” (p. 8), e poi: "tale è il nostro ambiente; e i nostri soldati vi si sono assuefatti. Essi sono abituati a trasportare carichi su e giù per il monte; sono avvezzi, fin dall’infanzia, a maneggiar roba, cinghie, arnesi, bestie, e pietre" (p. 38).

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Cicli e ricicli Nel ripensare il territorio contemporaneo a partire da uno dei periodi che più profondamente lo ha modificato, dunque, più che proporre un'indagine volta alla sistematizzazione e alla sintesi, operazione che probabilmente pertiene più alla storiografia, si è preferito rileggere, partendo dagli studi già condotti e talvolta avanzando alcune ipotesi, le questioni di confine tra ambiti tematici molteplici, con la consapevolezza che non sarebbe stata ragionevole una pretesa di esaustività, ma perseguendo comunque un obiettivo determinato: esplorare una stratificazione per far riemergere una ricchezza troppo spesso frammentata in ambiti separati. Se infatti il tema Recycle non si poneva tanto o soltanto l’obiettivo della perimetrazione di un territorio, quello delle dismissioni, ma già nella sua intitolazione avanzava una connotazione metodologica, la declinazione che se ne è data è tutta rivolta a sostenere il valore strategico di un riciclo “diagonale”: «tentarel'unione, attraverso necessarie scorciatoie, dei numerosi luoghi di una periferia smisuratamente estesa… nella quale si accresce continuamente il rischio che ciascuno si riduca a scavare nel suo settore come una talpa cieca e ostinata»3. Nella lettura e nella gestione del territorio contemporaneo tendono troppo spesso a prevalere suddivisioni rassicuranti tra competenze specialistiche, dimenticando che al contrario la costruzione del paesaggio si fonda proprio sulle compresenze e si arricchisce delle complessità e delle contraddizioni che sole permettono un vitale divenire: solo lavorando sui margini incerti delle memorie si può tentare di aggirare le aporie, delineando strategie di progressiva e continua trasformazione del mondo, a partire dall'attivazione di nessi tra cose apparentemente slegate. «Poiché la memoria di una società si sfalda lentamente lungo i bordi che segnano i suoi confini… essa non smette mai di trasformarsi»4.

3. R. Caillois, L'occhio della Medusa. L'uomo, l'animale, la maschera, Raffaello Cortina Editore, Milano 1998, p. 7. 4. M. Halbwachs, La memoria collettiva, Unicopli, Milano 1987, p. 92.

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Tracce della Grande guerra in Veneto mappate dal Masterplan Regione Veneto per le Celebrazioni del Centenario (2013) in relazione alle fluttuazioni del fronte


TRACCE E TRACCIATI

Una costatazione abbastanza semplice, in certa misura spaesante, è all'origine di questa prima sezione. A fronte del complesso sistema che fu la grande retrovia allestita nel Veneto durante il conflitto, una trama densa e coesa, intrecciata su necessità funzionali ben precise, la percezione prevalente, oggi, è piuttosto quella di una semplice lista, pur "vertiginosa", di tracce sostanzialmente circoscritte e isolate. La rete, in cento anni, si è disgregata, trasformandosi in una miriade di punti. Nello stesso arco di tempo, però, alcuni tracciati sono andati fissandosi nel disegno del territorio, mentre altri passavano in secondo piano. A partire dal faticoso processo di ricostruzione e riavvio delle attività del mondo civile, passando per la crescita industriale, la progressiva dispersione urbana, lo sviluppo delle reti del tempo libero – turistiche ed escursionistiche –, fino allo sviluppo delle comunicazioni transnazionali, molte delle direttrici su cui la Grande guerra aveva insistito sono state assunte e metabolizzate nel nuovo territorio nazionale. Un lento processo di stratificazione ha visto l'abbandono di alcune linee, mentre molte altre diventavano irrinunciabili, semplicemente riconoscendo quanto la loro funzione logistica in tempo di guerra potesse essere trasferita con grande efficienza anche a usi civili e commerciali. 33


La preparazione del territorio alla guerra Per provare a penetrare la stratificazione di trame perdute, una prima chiave di lettura è fornita dal lungo processo di strutturazione bellica del territorio italiano unificato, un processo in cui il contributo militare non è limitato alle sole competenze in merito al rilievo dell'esistente, come la topografia1, ma ha ridisegnato insediamenti e tracciato grandi direttrici, condizionando in modo profondo e diffuso le dinamiche di sviluppo del territorio a venire, oltre che la storia di molte città2. Sebbene il presente capitolo sia focalizzato sul processo di fortificazione della regione nordorientale, ripercorrere quelle vicende – e i diversi studi sull'argomento3 – significa seguire un percorso non sempre lineare: da un lato numerose sono le interferenze tra morfologia della regione, evoluzione del quadro logistico, considerazioni di natura geopolitica, ma anche condizioni socioeconomiche e memorie di passate campagne militari; dall'altro il campo visivo richiede un continuo movimento orizzontale, tra saliente trentino e pianura isontina, e, nella direzione trasversale, tra linea di frontiera e reti retrostanti. È proprio tale stratificazione di punti di vista e di modi di concepire il territorio, d'altra parte, a costituire l'oggetto principale del nostro interesse. 1. Ammesso che la cartografia non sia essa stessa operazione culturale di costruzione, e non solo restituzione, del mondo. A riguardo si veda F. Farinelli, La cartografia della campagna nel novecento, in L. Gambi, L. Bollati (a cura di), Storia d’Italia, VI , Atlante, Einaudi, Torino 1976, pp. 627-54. 2. A riguardo si ricordano: A. Fara, La metropoli difesa. Architettura militare dell'ottocento nelle città capitali d'Italia, Sme-Ufficio storico, Roma 1985; Ministero per i Beni culturali e ambientali, Esercito e città dall'Unità agli anni trenta, atti del convegno (Spoleto, 11-14 maggio 1988), Pubblicazioni degli archivi di stato, Roma 1989; M. Savorra, G. Zucconi (a cura di), Spazi e cultura militare nella città dell'ottocento, numero monografico di «Città e storia», IV , 2009, 2. D'altra parte va osservato come la letteratura si sia rivolta prevalentemente ai rapporti tra ingegneria militare e storia delle città, mentre interessanti prospettive di ricerca si aprono anche nel valutare l'influenza che la diffusa infrastrutturazione militare ha esercitato nei confronti di quel tipo di urbanizzazione minuta, dispersa e policentrica che nel novecento ha progressivamente rivestito la pianura veneta e friulana. 3. A riguardo si farà principalmente riferimento a: L'Esercito italiano nella Grande guerra, I , Le forze belligeranti, Sme-Ufficio storico, Roma 1927; M. Ascoli, F. Russo, La difesa dell'arco alpino. 1861-1940, Sme-Ufficio storico, Roma 1999; F. Cappellano, I piani di guerra italiani contro l'Austria-Ungheria, in N. Labanca (a cura di), Dizionario storico della Prima guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2014, pp. 26-34; M. Mazzetti, I piani di guerra contro l'Austria dal 1866 alla Prima guerra mondiale, in L'esercito italiano dall'Unità alla Grande guerra 1861-1918, Sme-Ufficio storico, Roma 1980, pp. 159-77; M. Ruffo, L'Italia nella Triplice alleanza. I piani operativi dello Sm verso l'Austria-Ungheria dal 1885 al 1915, Sme-Ufficio storico, Roma 1998.

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Fortificazioni permanenti e studi operativi La discussione sul rafforzamento del confine settentrionale era stata avviata già nei primi anni postunitari con l'insediamento, nel 1862, della Commissione permanente per la difesa generale dello Stato, presieduta dal principe Eugenio di Savoia-Carignano4. L'elaborazione di un primo Piano generale di difesa dell'Italia, tuttavia, quasi ultimato nel 1866, dovette essere rivista in modo sostanziale in seguito all'annessione del Veneto e alla presa di Roma, fino alla presentazione della relazione ufficiale al Ministero della Guerra – ministro il gen. Cesare RicottiMagnani – avvenuta soltanto il 2 agosto 1871. Una vasta campagna di ricognizione, che non si limitava al rilievo delle sole opere fortificatorie, ma considerava anche il quadro infrastrutturale, era stata condotta sul territorio nazionale5 in un momento cruciale di passaggio nell'assetto territoriale, e quindi nella situazione difensiva e fortificatoria, dello Stato. Il nuovo confine vedeva una condizione di gran lunga migliorata rispetto al 1859 non solo in termini di superficie nazionale riunita, ma anche per la fine del pericoloso controllo austriaco sulla valle del Po e sul Quadrilatero. Di contro, tuttavia, la frontiera terrestre, lunga oltre 1000 chilometri, presentava diverse ragioni di vulnerabilità, in particolare nel settore austriaco: il confine del 1866, che era stato fissato richiamando le demarcazioni risalenti ai tempi della Repubblica di Venezia e che all'epoca fu spesso definito "iniquo"6, era disposto per la maggior parte sulle creste montane, ma l'Austria-Ungheria controllava ancora la displuviale alpina7 e parte del versante italiano; inoltre la linea presentava in centro un profondo cuneo, il cosiddetto saliente trentino, pericolosamente insinuato tra Lombardia e Veneto e distante nel suo vertice solo 30 km da Verona, che posizione geografica e conformazione orografica rendevano un punto di controllo minaccioso sulla pianura veneta e che in caso di sfondamento avrebbe permesso facilmente di 4. Istituita con R.d. 23 gennaio 1862. 5. A riguardo va ricordata la figura di Luigi Federico Menabrea: A. Fara, Luigi Federico Menabrea (1809-1896). Scienza, ingegneria e architettura militare dal Regno di Sardegna al Regno d'Italia, Olschki, Firenze 2011, in particolare il capitolo Città e territori dello Stato unitario italiano. I piani difensivi generali tra il 1864 e il 1871, pp. 93-120. 6. Cfr., per esempio, I. Flores, La guerra in alta montagna, Corbaccio, Milano 1934, p. 23. 7. Fu questo frequente argomento di 'dimostrazioni geografiche' dell'iniquità del confine stabilito nel 1866. Su un uso interventista della geografia negli anni precedenti la Grande guerra si veda M. Rossi, Atlante della nostra guerra. Geografia e cartografia della persuasione, «Geostorie», 2015 (in corso di pubblicazione).

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tagliare fuori la pianura friulana. Numerosi valichi, inoltre, traversavano la barriera alpina, suggerendo possibili direttrici di attacco secondo le rotabili – alcune di origine antica – che ricalcavano i principali solchi vallivi. Venti chilometri di frontiera aperta, infine, lungo Judrio e Isonzo, concludevano la lunga linea, raccordando Alpi orientali e Adriatico. Il poderoso piano presentato, che prevedeva 97 piazzeforti in tutta Italia, fu presto suddiviso in due piani distinti, uno completo e uno ridotto, palesando, fatto più o meno previsto8, la rilevanza di un avversario interno da non sottovalutare: la difficoltà, in anni segnati dalla questione del disavanzo del bilancio nazionale9, di destinare considerevoli disponibilità economiche alla costruzione di fortificazioni oltre che alla gestione dell'esercito. Va precisato che lo stato unitario non solo necessitava di nuove opere – in questo frangente la corrugata morfologia alpina più che favorire, rendeva spesso assai onerosa la costruzione –, ma anche aveva ereditato dall'Austria un patrimonio di fortificazioni rivolte a sud e a ovest, in parte obsolete, in parte inutilizzabili, in parte, anche se tecnicamente capovolgibili, da distruggere per ragioni strategiche10. La dilazione al 1871, però, non interpretava solo lo spostamento della linea di confine e le implicazioni sulle difese permanenti, ma si calava in unquadro di rapporti politici internazionali mutati: l’occupazione del Regno Pontificio e la presa di Roma, oltre che il mancato intervento italiano in aiuto francese nella guerra franco-prussiana, avevano assai deteriorato i rapporti tra i due confinanti11, al punto da far ritenere prioritario il rafforzamento delle difese lungo il tratto alpino occidentale, mettendo in secondo piano il pericolo proveniente dal tradizionale nemico austriaco. Al contrario, fu paradossalmente proprio avvicinandosi al 1882, anno di stipula del patto della Triplice alleanza, che si iniziarono a studiare punti di radunata dell'esercito che, dalla zona Piacenza-Stradella stabilita dal gen. Ricotti nel 1870, progressivamente avanzavano verso la frontiera friulana. Già nel 1880 era stata nominata una Commissione 8. Opposte valutazioni, in evidentemente polemica, compaiono in W. Musizza, Le fortificazioni del Cadore, Ribis, Gorizia 1985, p. 33 e M. Ascoli, F. Russo, cit., p. 82. 9. Una situazione, per di più, per certi versi peggiorata di fronte all'opinione pubblica in seguito alla poco gloriosa campagna del 1866. Cfr. F. Minniti, Esercito e politica da Porta Pia alla Triplice alleanza, in L'Esercito italiano dall'Unità alla Grande guerra, cit., p. 91. 10. Cfr. M. Ascoli, F. Russo, cit., p. 74. 11. A simbolico monito di tale tensione una nave da guerra francese stazionava di fronte al porto di Civitavecchia, qualora il Papa avesse voluto lasciare la penisola.

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per lo studio della frontiera a nord-est12, ma un programma più ampio fu avviato negli anni 1881-84 dal nuovo ministro della guerra, ten. gen. Emilio Ferrero. Nel 1885 i lavori furono proseguiti dal ten. gen. Enrico Cosenz, appena nominato capo di stato maggiore, coadiuvato dal ten. col. Ettore Viganò, ripetutamente inviato in ricognizione, fino all'elaborazione dello Studio circa la difesa e l’offensiva a nord-est. Si trattava del primo studio che, prendendo in considerazione la possibilità di operazioni sul fronte orientale, analizzava organicamente le condizioni generali nell'ipotesi di un attacco sia italiano che austriaco – in questo secondo caso prevedendo un corpo speciale già dislocato con compito di presa di contatto e frenaggio di eventuali unità nemiche avanzate. La stima dei tempi necessari alla radunata, inoltre, permetteva di prevedere che il nemico non sarebbe stato in grado di condurre un attacco consistente sul Piave prima che lo schieramento italiano fosse completato. Nelle ultime tre sezioni, infine, erano valutate le modalità di passaggio dalla difensiva alla controffensiva, l'ipotesi di una ritirata13 in caso di rovescio sul Piave e, di contro, le direttrici per condurre un'offensiva verso est con obiettivo Vienna. Le ragioni dell'ambiguo atteggiamento tenuto verso la nuova alleata, in effetti, oltre che fondato sulla questione aperta dell'irredentismo, trovava conferma nell'attività di fortificazione del confine meridionale che l'Austria continuava a condurre almeno dal 1860 e che aveva visto la costruzione di tagliate stradali e opere di fiancheggiamento sempre più a ridosso della frontiera. L'evoluzione delle fortificazioni permanenti in seguito alle guerre napoleoniche, d'altra parte, aveva visto l'emergere di due nuovi concetti strettamente legati: sistema e distanza. Il primo aveva determinato l'abbandono dell'idea di punto fortificato isolato o di città cinta da mura, preferendo invece insiemi di opere in mutua relazione (in primo luogo balistica), a controllare regioni o vie di transito: era il principio sotteso alla costruzione dei campi trincerati, composti da una serie di forti staccati disposti opportunamente attorno all'oggetto da difendere, che obbligavano il nemico a distribuire maggiori forze in attacco. La seconda 12. La Commissione, nominata il 13 ottobre 1880, sotto la presidenza del gen. Pianell, concluse una prima fase di lavori il 2 novembre, per proseguire sotto la presidenza del gen. Mezzacapo. Il 20 dicembre fu presentata una proposta di schieramento difensivo più avanzato rispetto al 1871, con una prima linea attestata sul Piave, una seconda sull'Adige e una terza su Po-Mincio. 13. Sulle linee Mestre-Cittadella-Bassano, poi Berici-Euganei-Dolo e infine Adige.

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questione si legava all'evoluzione tecnologica degli armamenti, laddove un notevole incremento di gittata, precisione e potenza delle artiglierie induceva ad aumentare la distanza delle fortificazioni dall'obiettivo da salvaguardare e ad approssimarle piuttosto ai confini. Il piano Cosenz, da parte sua, riconosceva a questo tipo di fortificazione permanente un fondamentale compito ostativo all'azione avversaria e la capacità, impegnando relativamente poche truppe, di garantire appoggio e libertà operativa per mettere in atto piani offensivi che guardavano con più sicurezza verso est. Se il piano del gen. Ricotti prevedeva una linea di copertura in caso di ritirata sull'Adige, eventualmente sostenuta sul Mincio, cioè in posizione abbastanza arretrata, Cosenz stabiliva che per avanzare la radunata sul Piave era necessaria una solida copertura già sulle montagne, essendo il teatro veneto esposto a ovest, a nord e parzialmente anche a est, il che significava che unità eventualmente dirette in Friuli avrebbero volto le spalle al Trentino. Oltre alla costruzione di tre teste di ponte sul Piave – Ponte della Priula, Ponte di Piave e San Donà –, venivano programmati una serie di interventi, da realizzare in due periodi consecutivi, che prevedevano una serie di postazioni direttamente attestate in prossimità del confine, a sbarramento delle principali rotabili di fondovalle, e il rafforzamento di possibili linee di attestamento in caso di invasione, spesso attraverso la riconfigurazione di piazzeforti esistenti. Tali indirizzi diedero l'avvio negli anni successivi a un lungo processo fortificatorio, non certo unitario, segnato da successive revisioni, tra cui nel 1889 i lavori della Commissione speciale presieduta dal principe di Napoli, le sedute della Commissioni per la difesa dello Stato del 1899 e 1900, il viaggio di stato maggiore del 190414, sotto la direzione del nuovo capo di stato maggiore, ten. gen. Tancredi Saletta (dal 1896), fino al piano del 1909, elaborato dal nuovo capo di stato maggiore, ten. gen. Alberto Pollio (dal 1909), che spostavano progressivamente l'attenzione a oriente. La linea dell'Adige veniva considerata sempre più insostenibile per territorio – e quindi soldi investiti in fortificazioni e infrastrutture – cui si sarebbe dovuto rinunciare; al contrario il programma fortificatorio si espandeva via via in Friuli, in modo da permettere una radunata sul Piave e uno schieramento sul Tagliamento, che dal 1909 veniva concepito come prima linea difensiva, basata però sull'impiego correlato di truppe mobili. Un sostanziale rallentamento nei lavori di costruzione, tuttavia, si verificò 14. Cfr. M. Ruffo, cit., pp. 97-ss. e Documento 10, pp. 237-45.

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sul finire del secolo e fu soltanto con il piano del 1904, ancora una volta nonostante il rinnovo nel 1902 della Triplice alleanza, che riprese la cosiddetta "seconda stagione fortificatoria"15, più intensa della prima, ma soprattutto diversa per caratteristiche. Se la necessità di maggiore robustezza aveva visto l’introduzione di materiali quali calcestruzzo e ferro e l’eliminazione delle masse coprenti in terra, è particolarmente interessante – anche come punto di vista sull'architettura tout court – quanto sosteneva il gen. Enrico Rocchi nel suo studio su Le fonti storiche dell'architettura militare: «anziché nelle grandi masse di calcestruzzo e di metallo l’architettura militare deve oggidì, come sempre, rinvenire il modo di soddisfare alle esigenze della difesa, colla forma e colla disposizione più conveniente delle opere»16. Fu proprio Rocchi, seguendo la scuola dei "forti corazzati" delineata dal gen. Brialmont, a stabilire la teoria e i modelli prevalenti in Italia: al «principio della massa che […] contiene in sé il germe della precarietà» – perché usa la forza e non l'astuzia –, venivano opposti i concetti di resistenza indiretta e occultamento del bersaglio, che si traducevano in riduzione dimensionale delle strutture, restringimento dei corpi di fabbrica, predilezione per rilievi minimi e profilo defilato. Sempre più assimilati a macchine, studiabili in astratto e replicabili, i forti si riducevano a elementari banchi di calcestruzzo completamente interrati, mentre assumevano maggiore varietà sistemazioni complementari fatte di terrazzamenti, muri di contenimento, tunnel, opere «occultate in pieghe del terreno od in caverne». Il controllo del suolo acquistava un peso sempre maggiore man mano che la mimetizzazione si dimostrava questione cruciale, in difesa e in attacco. E mentre «la fortificazione assurge a vera arte nell'adattamento delle proprie forme al terreno», è la sezione, e non più la pianta, a rivelarsi lo strumento fondamentale con cui si concepiscono le architetture militari. Se molte delle opere di interdizione realizzate soltanto pochi anni prima risultavano, secondo le nuove teorie, obsolete, esse vennero comunque mantenute e per quanto possibile irrobustite, a comporre così sistemi disposti sostanzialmente da due linee, una più avanzata a carattere attivo e una seconda di più semplice sbarramento passivo. Ma la sostanziale disomogeneità delle opere di parte italiana, dovuta all'assenza di un 15. Che ancora interessò l'intero confine alpino, anche quello italo-francese. 16. Qui e oltre: E. Rocchi, Le fonti storiche dell'architettura militare, Officina Poligrafica Editrice, Roma 1908, pp. 489-91.

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Sistemi di difese permanenti italiane e austriache realizzati al 1915 in rapporto alle possibili direttrici di attacco



disegno coerente, era tanto più evidente nel confronto con la situazione dell’avversario che, oltre a procedere con un certo anticipo, aveva disposto di un maggiore sostegno economico. Già a partire dal 1897, e poi sotto la guida del gen. Franz Conrad von Hötzendorf, capo di stato maggiore dal 1906, l’Austria-Ungheria si era dotata di un sistema di fortificazioni che, se nello specifico vedeva l'uso dei materiali e degli armamenti più aggiornati, era complessivamente concepito su un criterio di razionalizzazione degli sforzi in rapporto alla situazione geografica: le fortificazioni si concentravano laddove l'orografia ne assecondava il funzionamento, quindi negli sbarramenti dei fasci stradali che risalivano valle dell'Inn, Giudicarie, Brennero, valle del Piave, Pontebba e nella realizzazione del grande campo trincerato di Trento, mentre la frontiera aperta isontina era servita da una rete ferroviaria ben organizzata, preferendo in quel tipo di condizione puntare sull'uso di forze mobili. Alle soglie del conflitto, quando era ormai intuibile che l'Italia si sarebbe schierata con le forze dell'Intesa, ed era dunque necessario tradurre in piani operativi quelli che fino ad allora erano stati solo studi teorici, le sostanziali differenze tra i due sistemi di fortificazioni risultavano ben chiare al nuovo capo di stato maggiore italiano, ten. gen. Luigi Cadorna (dal luglio 1914)17. Da un lato il sistema austro-ungarico, completo, pressoché inespugnabile per robustezza delle opere corazzate e completato nella pianura orientale da opere semipermanenti e campali su più linee, le cui potenzialità offensive o dall'alto Adige o dall'Isonzo avrebbero permesso comunque di minacciare le spalle delle truppe avversarie schierate nell'altro settore. Dall'altro il sistema italiano, costruito su posizioni meno favorevoli, ancora incompleto18, vulnerabile in più punti, ma soprattutto dal carattere quasi esclusivamente difensivo.

Reti infrastrutturali Alla situazione poco favorevole dal punto di vista fortificatorio si aggiungeva la memoria della campagna del 1859, quando le ferrovie 17. Cfr. L'esercito italiano nelle Grande guerra, cit., pp. 150-2 e L. Cadorna, La guerra alla fronte italiana. Fino all'arresto sulla linea del Piave e del Grappa (24 maggio 1915-9 novembre 1917), Treves, Milano 1921, pp. 20-21. 18. Nell’estate del 1914 tredici opere erano ancora in costruzione e molte di quelle già ultimate necessitavano integrazioni. In una sorta di corsa contro il tempo vennero installate batterie d’appoggio e vennero realizzate opere campali e di trinceramento. Scoppiata la guerra, si decise di spostare molte bocche da fuoco dalla frontiera occidentale a quella orientale. Il 6 dicembre 1914 tutte le opere, tranne tre, erano pronte ad aprire il fuoco.

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avevano svolto un ruolo di primaria importanza, e, più recentemente, l'esperienza della guerra franco-prussiana, che aveva dimostrato quanto la rapidità di mobilitazione e radunata costituissero fattori decisivi nello svolgimento dei conflitti. Negli anni postunitari diversi provvedimenti, come quello preso dal gen. Mezzacapo nel 1877, provarono a dislocare preventivamente alcune forze al nord al fine di rendere più efficiente l'eventuale passaggio a uno stato di guerra. Ma la questione cui i piani dedicavano sempre maggiore attenzione era l'organizzazione delle reti infrastrutturali. E dalla Seconda guerra di indipendenza almeno, nella progettazione delle comunicazioni nazionali le valutazioni di ordine militare andarono acquisendo un peso sempre più rilevante rispetto alle istanze di natura commerciale o geografica. A riguardo si può rilevare come, frutto di «un'incessante rivoluzione dei trasporti [che] ci ha abituato a considerare sempre meno decisivi i confini, le distanze, le montagne, i fiumi, gli oceani»19, emergesse una diversa concezione del territorio rispetto a quella sottesa dagli studi fortificatori: alla fisica concretezza della morfologia l'analisi delle reti opponeva una visione più astratta, che, secondo principi 'idraulici', rileggeva lo spazio in termini di flussi, portata delle linee e tempi di attraversamento. Era soprattutto la rete ferroviaria20, per portata il sistema più idoneo allo spostamento dei grandi numeri che si affacciavano sulla scena – quattro le armate contemplate dai piani italiani, circa tre milioni e mezzo i mobilitati nella guerra franco-prussiana –, a costituire la nervatura strutturale cui le considerazioni operative facevano principale riferimento. Il piano Cosenz, per primo, nel valutare l’ipotesi di un'offensiva da parte austriaca aveva già segnalato come l'avversario potesse contare su una migliore organizzazione: ben sei binari conducevano al confine – quattro impiegabili tra Tarvisio e Monfalcone, uno per la valle della Drava e uno che scendeva in Trentino – contro i tre da parte italiana, più favorevoli 19. S. Finardi, C. Tombola, Il sistema mondiale dei trasporti. L'economia mondo nel X X secolo, il Mulino, Bologna 1995, p. 23. 20. Per gli studi a riguardo si farà riferimento a: O. Bovio, Le ferrovie italiane nella Prima guerra mondiale, in Studi storico militari 1986, Sme-Ufficio storico, Roma 1987, pp. 209-34; A. Crispo, Le ferrovie italiane. Storia politica ed economica, Giuffrè, Milano 1940; A. Giuntini, Azione dello stato e politiche ferroviarie in Europa durante il X X secolo. Il caso dell'Italia, «Revista de Historia Actual», 2007, V, 5, pp. 73-88; P. Lanino, Le ferrovie italiane nella guerra italiana 1915-1918, supplemento a «Rivista tecnica delle ferrovie italiane», 1928, VI , 4; S. Maggi, Le ferrovie, il Mulino, Bologna 2003; Id., Storia dei trasporti in Italia, il Mulino, Bologna 2005.

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Linee ferroviarie al 24 maggio 1915 e linee disponibili per la radunata



limitatamente al teatro trentino-tirolese, ma dei quali solo due utilizzabili nell'ipotesi di una radunata sul Piave e solo uno che proseguiva verso la frontiera orientale. Il razionale processo fortificatorio perseguito dall'Austria-Ungheria fino allo scoppio del conflitto, inoltre, non trascurò il complementare potenziamento della rete ferroviaria: nel primo decennio del novecento furono realizzate, verso l'Isonzo, le linee dei Tauri (Schwarzach-Spittal), delle Caravanche (Villach-Jesenice) e di Wochein (Jesenice-Trieste), mentre nel saliente trentino furono costruite due ferrovie a scartamento ridotto, la Trento-Malè21, che saliva verso il Tonale, e la rete che collegava Rovereto con le opere dell'alto Garda. Da parte italiana la riduzione dei tempi di mobilitazione e radunata divenne un topos ricorrente negli studi che seguirono il piano Cosenz. Il viaggio di stato maggiore del 1904, in particolare, era corredato da una serie di studi speciali, tra i quali uno comparativo sulle reti ferroviarie contrapposte22. L'Austria-Ungheria si apprestava ad avere sette linee, di cui sei utilizzabili per una radunata tra Villach-Tarvisio e basso Isonzo23, che nel complesso erano organizzate in modo da permettere un'efficiente ripartizione delle forze tra Friuli e Tirolo. L'Esercito italiano, invece, poteva contare su sei binari indipendenti diretti al confine – Tirano, Brescia, Verona, Belluno, Udine e San Giorgio di Nogaro –, dei quali solo tre portavano a stazioni a est dell'Adige e solo due a est del Tagliamento; per di più le tratte VeronaVicenza e Monselice-Padova segnavano due strozzature inevitabili per accedere al Veneto, dove l'unica stazione regolatrice era quella di Mestre. Lo studio si concludeva indicando i provvedimenti necessari ad aumentare la capacità della rete e soprattutto a permettere una radunata in tempi analoghi a quelli cui la rete austriaca stava tendendo. Va ricordato che in quegli stessi anni, chiudendo un aspro dibattito che si protraeva da tempo, si verificò un passaggio importante nelle comunicazioni ferroviarie italiane con la nazionalizzazione – quasi completa – della rete. Il provvedimento, preso nel 1905, nasceva dall'esigenza di sanare un sistema gestito da molteplici compagnie e alle cui deficienze corrispondeva un livello di traffici merci e di trasporti passeggeri tra i più ridotti in Europa. La scarsa funzionalità con cui la nuova direzione di Ferrovie italiane affidata a Riccardo Bianchi dovette 21. In seguito ampliata anche nella tratta Dermulo-Fondo-passo della Mendola. 22. Estratto pubblicato in M. Ruffo, cit., Documento 11, pp. 247-54. 23. Nel conteggio delle sei va contemplata anche la linea che proseguirebbe verso Fortezza.

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confrontarsi derivava in primo luogo dalla frammentazione stessa secondo cui la rete era stata progettata e realizzata, laddove ristrettezze economiche contingenti avevano determinato una notevole presenza di tratti a forte pendenza e soprattutto la scarsità di doppi binari, cui si aggiungevano una certa debolezza dell'armamento, la disorganizzazione di molti impianti di stazione e infine la vetustà ed eterogeneità del materiale rotabile. La riorganizzazione e il potenziamento del sistema, inoltre, erano ostacolati da un'industria delle costruzioni ferroviarie poco sviluppata, anche nonostante alcuni provvedimenti atti a favorirla nei confronti delle società estere presi già verso fine ottocento. Negli anni che seguirono, dunque, il territorio e in particolare l'aspetto della mobilità furono oggetto di interessi molteplici, che si intrecciarono in modo spesso difficile da districare. In generale si possono individuare due diversi indirizzi secondo cui lo stato maggiore influenzò i processi di infrastrutturazione del territorio. Da un lato vanno segnalati casi di opposizione al riammodernamento o alla nuova costruzione di tracciati, soprattutto strade, che, giungendo troppo a ridosso del confine, potevano essere utili per lo schieramento, ma potevano altresì favorire il nemico nell'aggirare le opere fortificatorie presenti o in un'eventuale penetrazione24. Molto più spesso, però, le valutazioni militari e le esigenze commerciali e civili convergevano sulla necessità di potenziamento infrastrutturale della penisola. Per quanto riguarda le ferrovie, nei dieci anni che precedettero l'entrata in guerra, vennero realizzati circa 1700 km di nuove linee. E con una certa urgenza venne avviata anche una serie di lavori per mettere le linee in condizione di reggere un traffico in crescita, con interventi sull'armamento – consolidamento di molte linee e rafforzamento di ponti metallici –, costruzione di doppi binari – con una media di 87 km all'anno dal 1905 e un'impennata a 189 km di nuovo impianto nell'esercizio finanziario 1914-1525 –, la riorganizzazione di molte stazioni e delle aree di scarico, iniziando a separare i servizi merci da quelli passeggeri, l'ampliamento del parco rotabile. Tali operazioni, tuttavia, seppur consistenti non modificarono nella sostanza la struttura complessiva della rete nazionale, che rimaneva suddivisa in senso longitudinale lungo i litorali tirrenico e adriatico, con 24. È, per esempio, il caso della viabilità nella riva occidentale del Garda. Cfr. M. Ruffo, cit., p. 110 e n. 31. Ma una situazione analoga si presentò anche con il primo progetto per la linea ferroviaria Piovene Rocchette-Asiago. Cfr. avanti il capitolo relativo. 25. Dati da P. Lanino, cit., p. 9.

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scarsi collegamenti trasversali. La linea adriatica, per di più, risultava poco affidabile in caso di conflitto in quanto eccessivamente esposta al tiro nemico dal mare – cosa che effettivamente avvenne –, obbligando a spostare l'accesso alla zona delle operazioni attraverso i valichi transappenninici delle linee Firenze-Bologna e Firenze-Faenza, le quali, a loro volta, erano a binario semplice e con elevate pendenze, limitando così la portata dei treni. Numerosi, infine, erano i punti deboli, come la presenza di soli sei ponti sul medio e basso corso del Po – Piacenza, Cremona, Casalmaggiore, Borgoforte, Ostiglia e Pontelagoscuro –, ma anche la frequenza di opere ingegneristiche dovute all'orografia – viadotti, ponti, gallerie –, che si offrivano quale facile bersaglio. A fronte di questa situazione il periodo di non belligeranza consentì un'utile dilazione, che permise di ovviare ad alcuni problemi, laddove numerose unità furono avvicinate alla frontiera fin dalla primavera del 1915, alleggerendo così la mobilitazione e la radunata ufficiali, che risultarono comunque notevolmente superiori alle previsioni. Grande guerra costruttrice Con lo scoppio del conflitto e poi durante il suo svolgimento il territorio italiano fu oggetto di una serie di provvedimenti che non ne modificarono solo l'assetto fisico, ma anche concezione e percezione. La prima delle questioni che possono essere richiamate riguarda proprio l'introduzione di una delimitazione immateriale, di natura giuridica, dello spazio26: a partire dal 22 maggio 1915, con una serie di decreti reali, una cospicua porzione di suolo italiano, disposta prevalentemente – ma non soltanto – lungo il confine nordorientale, venne progressivamente sottratta alla vita civile e dichiarata in “istato di guerra”27. Al tempo di guerra si affiancava il concetto di spazio 26. A riguardo si vedano: N. Labanca, Zona di guerra, in M. Isnenghi, D. Ceschin (a cura di), Gli italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie, dal Risorgimento ai nostri giorni, III , La Grande guerra: dall'intervento alla vittoria mutilata, Utet, Torino 2008, pp. 606-19; C. Latini, Una giustizia “d’eccezione”. Specialità della giurisdizione militare e sua estensione durante la Prima guerra mondiale, «DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile», 2006, 5-6, pp. 67-85; G. Procacci, La giustizia militare e la società civile nel primo conflitto mondiale, in N. Labanca, P.P. Rivello, Fonti e problemi per la storia della giustizia militare, Giappichelli, Torino 2004, pp. 188-215; Ead., La società come una caserma. La svolta repressiva degli anni di guerra, «Contemporanea», 2005, 3, pp. 423-46. 27. I provvedimenti legislativi che decretarono le "zone di guerra" furono: R.d. 20 maggio 1915, n. 795, che decretava in stato di difesa e resistenza (tramutato due giorni dopo in stato di guerra) le piazzeforti marittime di Spezia, Maddalena, Taranto, Brindisi e Venezia e le fortezze di Vado, Monte Argentario, Gaeta e Messina; R.d. 22 maggio 1915, n. 703,

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Territorio italiano dichiarato "zona di guerra"


di guerra: uno spazio altro, rispetto alla normalità e alla norma civile, che prevedeva una delega permanente del potere legislativo all’autorità militare28. A fianco dei provvedimenti presi su scala nazionale dall'esecutivo a limitazione delle libertà individuali e collettive, nelle "zone di guerra" le necessità di salute pubblica si estesero in modo pervasivo ai diversi aspetti della vita civile, con implicazioni anche molto concrete sull'uso fisico del territorio: dagli aspetti legati a pubblica sicurezza, amministrazione della giustizia, controllo dell'opinione pubblica e repressione del dissenso, i bandi e le ordinanze militari regolamentarono anche, in città, attività commerciali e consumi e, nel mondo rurale, pratiche agricole e silvo-pastorali. Un aspetto significativo è quello delle limitazioni alle libertà di spostamento, definite dai bandi del 17 giugno, 31 luglio e 1 ottobre 1915: la questione della mobilità nel territorio, sotto forma di inibizione di quella civile a favore di servizi e truppe, si affermava come strategica proprio mentre gli eserciti schierati si immobilizzavano nella guerra di posizione. Con lo stabilizzarsi del fronte, inoltre, la cosiddetta “zona di guerra” venne a sua volta suddivisa in una “zona di operazioni”, a ridosso delle prime linee, e una retrostante “zona delle retrovie”, mobile, ma molto più profonda, dallo spessore variabile tra i 10 e i 40 km, sempre più strutturata dall'insediamento e dallo sviluppo dei servizi necessari al funzionamento dei combattimenti29. All'intensa militarizzazione del territorio, dunque, corrispose la territorializzazione di truppe e servizi e l'insediamento, inizialmente connotato da un certo grado di improvvisazione, di una nuova e numerosa popolazione: non solo di soldati, ma anche una moltitudine di per le province frontaliere di Sondrio, Brescia, Verona, Vicenza, Belluno e Udine, quelle immediatamente retrostanti di Venezia, Treviso, Padova, Ferrara e Mantova, i comuni costieri e le isole dell’Adriatico; R.d. 25 maggio 1915, n. 766, per Bologna, Ravenna e Forlì; R.d. 15 luglio 1915, n. 1104, per Rovigo, Cremona e Piacenza; R.d. 14 settembre 1917, n. 1511, per Messina e Reggio Calabria; R.d. 16 settembre 1917, n. 1483, per Alessandria, Genova e Torino (città non direttamente interessate da combattimenti, ma in prima linea rispetto a un nuovo fronte interno, che si era venuto ad aprire con l’esplosione di violente agitazioni della classe lavoratrice); R.d. 1 dicembre 1917, n. 1925, per Bergamo, Como, Milano, Modena, Novara, Parma, Pavia e Reggio Emilia (in seguito a Caporetto). "Zone di guerra" erano inoltre dichiarati i territori occupati nel corso del conflitto, per la maggioranza nel primo "sbalzo offensivo" del 1915. 28. Secondo quanto previsto dall’art. 251 del Codice penale dell’esercito (L. 28 novembre 1869, n. 5366, entrato in vigore il 15 febbraio 1870). 29. La distinzione venne fissata con ordinanza del Comando supremo in data 31 luglio 1915. Sorse poi una terza zona, più arretrata, a disposizione dell'intendenza generale. Cfr. G. Liuzzi, I servizi logistici nella guerra, Corbaccio, Milano 1934, pp. 92-4.

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civili impegnati nelle attività dell'indotto bellico, un meccanismo stringente e imprevisto che andava dalla produzione dei materiali di consumo necessari all’approvvigionamento alla costruzione stessa del fronte30. Una tale invasione determinò, nelle prime linee, un processo di urbanizzazione di zone montane, fino a quel momento ancora poco abitate, da parte di migliaia di uomini, con cifre confrontabili con quelle di una grande città: basti pensare che i circa 400.000 effettivi impegnati da entrambe le parti nella sola battaglia dell'Ortigara erano pari alla popolazione residente a Torino al censimento del 1911, quando l'intero Altopiano non superava i 35.000 abitanti. Nelle retrovie, al contempo, centri abitati e paesaggio rurale si trasformavano per accogliere le truppe a riposo, i servizi logistici e sanitari, dando l'avvio a una dispersione insediativa e a una stratificazione di riusi destinata a intensificarsi nel corso del secolo successivo: ville usate come ospedali, cascine come sedi di comandi, campi invasi da tendopoli, depositi "a terra" e aeroporti. E al brulicare di uomini – e donne e minori –, di mezzi e di animali, non fu da meno l'enorme quantità di materiali continuamente movimentati. Materiali strettamente bellici come armi e soprattutto munizioni, il cui trasporto raggiunse nel giugno del 1918 la percentuale straordinaria del 22,5% di tutti i trasporti logistici, ma anche generi ordinari come cibo, vestiti e posta. E soprattutto tonnellate di materiali da costruzione, che servirono a realizzare – e a integrare continuamente – i luoghi per ospitare quella moltitudine di persone e materiali: opere difensive, strutture logistiche, di comando o sanitarie e, per chiudere il circolo vizioso, chilometri e chilometri di infrastrutture. Contro le previsioni dei vari stati maggiori che, prima del conflitto, concentrati nell'organizzazione di mobilitazione e radunata, avevano stimato come meno impegnativi i successivi trasporti logistici e operativi, la guerra di posizione dimostrò ben presto il contrario. Notevoli sforzi dovettero essere profusi, per tutta la durata del conflitto, nel potenziamento e nella manutenzione delle comunicazioni, a costruire una rete densa e capillare, caratterizzata da una complessa intermodalità tra sistemi di trasporto diversificati in rapporto a tipo di territorio da attraversare, 30. Una vivida e articolata descrizione dei territori di retrovia fatta in tempo di guerra è, per esempio, in Silpha, Le arterie della guerra, «La lettura. Rivista mensile del Corriere della sera», 1917, 3, pp. 234-40. Su lavori e lavoratori nelle retrovie si vedano: M. Ermacora, Guerra e genti di retrovia, in M. Isnenghi, D. Ceschin, cit., pp. 656-61; Id., Cantieri di guerra. Il lavoro dei civili nelle retrovie del fronte italiano (1915-1918), il Mulino, Bologna 2005.

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Nuove linee ferroviarie realizzate nel corso del conflitto



distanze, portata, costi e tempi di realizzazione31. Per quanto riguarda la rete ferroviaria, che costituì senza dubbio la principale ossatura portante dell'intero sistema e il cui intensivo impiego ne fece uno dei 'luoghi' della Grande guerra che con più forza si sono impressi nella memoria collettiva, gli interventi furono in proporzione relativamente contenuti, in ragione di una penuria di materie prime e di un'insufficienza dell'industria ferroviaria, conseguenti alla riduzione delle importazioni e al contemporaneo impegno nella produzione di materiale bellico. A ogni modo i lavori eseguiti, cui si affiancava analogo sforzo per aumentare il materiale rotabile, videro la costruzione di 1200 km di nuove tratte – non tutte completate entro il 1918 –, il raddoppio di binari per oltre 1000 km – cioè pari a quanto era stato realizzato nei dieci anni precedenti –, l'ampliamento di molte stazioni, l'apertura di nuove basi per i contingenti stranieri, la costruzione e la riparazione di ponti, oltre 100 km di nuovi binari per ricovero treni e scalo merci, 16 km di piani caricatori, 2611 scambi – recuperandone da linee secondarie del Meridione –, a cui va aggiunta una moltitudine di strutture complementari, come servizi sanitari e impianti idrici. La rete ferroviaria, tuttavia, pur fondamentale sulle lunghe percorrenze, aveva alcune limitazioni nelle possibilità di impiego, rimanendo piuttosto lontana, come distanza e come quota, dal fronte. Il raccordo nelle zone intermedie tra testate ferroviarie e stabilimenti di prima linea, così come i sempre più rapidi trasporti necessari in campo tattico e in generale le comunicazioni nella retrovie, furono garantiti dall'integrazione con una serie di altre reti. Il potenziamento della rete viabilistica, proseguendo un lento e discontinuo processo avviato negli anni postunitari e legato soprattutto allo sviluppo delle vie rotabili minori32, subì un notevole incremento, supportato anche dalla prima diffusione su vasta scala del mezzo automobilistico: il parco autoveicoli italiano, in soli quattro anni, passò da 400 a 2500 autovetture e da 3400 a 28.000 tra autocarri, autobus e autoambulanze, modificando non solo le modalità dei trasporti locali di distribuzione, ma anche i criteri adottati in campo tattico e logistico riguardo distanze, dislocazione e funzionamento dei servizi33. Se però «i trasporti dipendono dalle potenzialità 31. A riguardo si vedano: F. Botti, La logistica dell'Esercito italiano, II e III , Sme-Ufficio storico, Roma 1991; O. Bovio, cit.; M. Ermacora, Cantieri…, cit., pp. 84-9; P. Lanino, cit.; G. Liuzzi, cit.; Ministero dei lavori pubblici, L'opera del Genio civile nella guerra nazionale 19151918, Stabilimento poligrafico per l'amministrazione della guerra, Roma 1922. 32. Cfr. S. Maggi, Storia…, cit., pp. 79-ss. 33. Cfr. F. Botti, cit., p. 416.

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delle strade più che dai mezzi»34, alla manutenzione e al miglioramento della rete esistente - circa 10.000 km di strade risistemate nelle retrovie – si affiancò un'intensa attività di nuove costruzioni, soprattutto concentrate nel settore montano, per un totale di 3200 km di camionabili, 1200 km di carrarecce e 1000 km di mulattiere: cifre che diventano ancora più eloquenti se confrontate con i circa 1000 km di carreggiabili e 1300 km di strade poderali realizzati nei cinquant'anni precedenti. Diretta derivazione delle ferrovie ordinarie erano poi le ferrovie da campo a scartamento ridotto, che facilità e velocità di messa in opera – una modesta preparazione del terreno e il semplice montaggio di tratti prefabbricati leggeri permettevano di realizzare oltre 300 metri al giorno – rendeva quanto mai utili per il trasferimento di materiali, anche piuttosto pesanti, fino alla zona dei magazzini avanzati. Nel corso del conflitto l'Ufficio décauville appositamente costituito mise in esercizio circa 130 km di linee stabili e circa 800 di provvisorie, in parte distrutte in seguito alla ritirata sul Piave, ma ben presto reintegrate da nuove linee. Considerato inoltre che il fronte era per circa due terzi arroccato ad altitudini che superavano i 2000 metri, dove a fatica si arrampicavano gli uomini e risultava impossibile realizzare strade di accesso, si impose un massiccio impiego di teleferiche, sostenuto dall'istituzione di una compagnia di teleferisti presso ogni armata. Va segnalato a margine come la diffusione di questo trasporto sopraelevato dal suolo, sostanzialmente immune al problema della neve che in molte zone di combattimento incideva per quasi la metà dell'anno, si confrontasse, oltre che con la pura geometria orografica, anche con la concretezza climatica del territorio, spesso citata come terzo esercito schierato35. Una nota a parte va infine dedicata alla realizzazione di una rete di canali navigabili che dalla Lombardia arrivava fino alla laguna di Venezia e di qui lungo la "litoranea veneta" raggiungeva l'Isonzo36. Pensata con l'intento 34. G. Liuzzi, cit., p. 419. 35. A riguardo si veda anche la pagina che Liuzzi dedica alle slitte, in ivi, p. 150. 36. A riguardo si vedano: L'opera del Genio civile…, cit., pp. 105-53; G. Artesi, P. Gaspari, La litoranea veneta da Grado a Venezia durante la guerra mondiale, in Guida ai luoghi della Grande guerra nella provincia di Udine, Gaspari, Udine 2012, pp. 44-51; G. D'Amico, L'utilizzazione delle vie d'acqua interne per i trasporti militari durante la guerra, «Rivista di artiglieria e genio», 1924, 6, pp. 367-8; M. Ermacora, Cantieri…, cit., pp. 89-92; Magistrato alle acque per le provincie venete e di Mantova, Opere marittime e di navigazione interna. Principali lavori eseguiti nell'ultimo decennio, Società anonima veneziana industrie grafiche, Venezia 1921.

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Rete di navigazione interna e litoranea realizzata tra il 1915 e il 1918



di scaricare la pressione cui erano sottoposte le ferrovie, evitando però i pericoli della navigazione in Adriatico, la realizzazione della rete richiese una consistente mole di lavori, che trasformarono profondamente l'assetto della navigazione interna nel nord Italia: nuovi tagli, dragaggi, rettifiche, interventi sulle sponde e ripristino dei canali che già attraversavano le lagune costiere. Nel 1903 era già stata presentata una prima proposta di interventi37, ma la possibilità che quelle vie potessero tornare utili all'invasore per aggirare il sistema di fortificazioni iniziate lungo il Tagliamento ne aveva escluso la costruzione, che venne invece avviata a guerra iniziata per far affluire i rifornimenti al fronte isontino. A configurarsi fu un sistema complesso e ramificato, che arrivava a tergo della III armata (Palazzato), collegandosi alla vasta rete décauville del settore Isonzo; che penetrava all'interno della pianura tra Tagliamento e Sile fino a raggiungere le principali stazioni della rete ferroviaria ordinaria; che infine, a sud della laguna di Venezia, si collegava alla rete fluviale padana attraverso l'apertura di un nuovo canale lungo oltre 20 chilometri. La lunghezza dei tempi di navigazione, che li rendeva poco adatti, come inizialmente pensato, allo sgombero dei feriti, era però compensata dal tonnellaggio, che permise di sollevare le ferrovie dal trasporto di materiali ingombranti come ghiaia, cemento, foraggi e paglia. L'aspetto più interessante rispetto ai temi della presente ricerca, tuttavia, deriva dal fatto che questa 'nuova' rete navigabile in realtà insistesse su un sistema di comunicazioni di lunga tradizione: descritto già da Cassiodoro38, le prime attestazioni di uso militare di una via interna risalgono con ogni probabilità alla metà del VI secolo durante le campagne bizantine di Narsete contro Goti e Franchi39, ma fu durante la Repubblica di Venezia che i canali navigabili videro il maggiore sviluppo come sistema articolato in stretto rapporto con il disegno del territorio delle gronde lagunari e delle basse pianure costiere – argini, valli, bacini. Già nel settecento, però, molti di quei canali si erano imboniti e all'inizio del novecento si presentavano in molti casi come semplici tracce da riscavare. Il loro riuso costituisce soltanto una delle occasioni in cui le esigenze di una guerra modernissima, tecnologicamente avanzata, portarono a recuperare segni antichi, il più delle volte già interessati da usi militari, a proseguire una lenta, ma inesauribile, stratificazione del territorio. 37. Ministero dei lavori pubblici, Atti della commissione per lo studio della navigazione interna nella valle del Po, Tipografia della Camera dei deputati, Roma 1903. 38. Cassiodoro, Variae, XII, 24. 39. Cr. G. Ravegnani, Bisanzio e Venezia, il Mulino, Bologna 2006, pp. 17-8.

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Distruzioni e ricostruzioni Le clausole previste dall'armistizio firmato il 3 novembre a villa Giusti prevedevano, oltre al completo abbandono da parte dell'esercito austroungarico di tutti i territori occupati durante la guerra, l'avanzamento del confine italiano a comprendere, a nord ovest, il saliente trentino fino a Brennero e valle Aurina, riallacciandosi, poco oltre Dobbiaco, alla vecchia linea di frontiera, e, verso est – ma qui aprendo a una querelle destinata a durare –, le Alpi Giulie e l'Istria fino a Volosca, per poi seguire l'ex confine imperiale della Dalmazia lungo la costa orientale dell'Adriatico. Ma vittoria ed espansione territoriale – "tradite" e "mutilate" – non impedirono che l'atmosfera del primo dopoguerra in Italia si caricasse di forti tensioni40, in cui è faticoso dipanare l'intreccio tra i timori di un sovvertimento dell'equilibrio sociale – legati alla questione del confine orientale, ma anche al diffondersi di istanze politiche che guardavano all'esperienza russa o comunque nate dalla frustrazione delle aspettative di una guerra rigeneratrice – e i problemi materiali di un ritorno alla vita civile in un territorio profondamente compromesso dagli eventi. Il pesante tributo pagato dalla popolazione durante quattro anni di sforzo bellico in termini umani ed economici e poi, concluso il conflitto, la penuria di generi di prima necessità, la svalutazione della moneta e l'impennata del debito interno, condizioni queste sostanzialmente diffuse nell'intero paese, si calavano nel Triveneto in un'ambientazione desolante, dove le estese distruzioni sembravano rendere assai remote le prospettive di ripresa. Mentre iniziava, non senza una certa resistenza da parte militare, il reintegro delle autorità civili41, a gestire una situazione che continuava a essere d'emergenza era l'esercito, l'unica istituzione ad avere consistenti mezzi e personale a disposizione. Molte truppe rimasero quindi insediate 40. A riguardo si vedano: E. Brunetta, Dalla grande guerra alla Repubblica, in S. Lanaro (a cura di), Storia d'Italia, Le regioni dall'Unità a oggi, Il Veneto, Einaudi, Torino 1984, in part. pp. 913-34; M. Ermacora, Guerra…, cit.; V. Gallinari, L'Esercito italiano nel primo dopoguerra. 1919-1920, Sme-Ufficio storico, Roma 1980; M. Mondini, Smilitarizzare, smobilitare, normalizzare: società militare e società civile nel dopoguerra, in P. Del Negro, N. Labanca, A. Staderini (a cura di), Militarizzazione e nazionalizzazione nella storia d’Italia, Unicopli, Milano 2006, pp. 179-96. 41. Le prefetture di Udine, Belluno e Treviso, provincie già italiane, ripresero le funzioni secondo accordi presi nell'ottobre 1918, ma ancora con le limitazioni previste per le "zone di guerra", mentre per i territori di nuova acquisizione furono nominati dei governatori militari: il gen. Guglielmo Pecori-Giraldi per il Trentino, il gen. Carlo Petitti di Roreto per la Venezia-Giulia e l'amm. Enrico Millo per la Dalmazia fino alle isole curzolane.

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in un territorio che fu presto attraversato anche da migrazioni di centinaia di migliaia di altri soggetti: le classi più anziane dell'esercito italiano e parte degli "operai borghesi" che andavano in congedo, prigionieri austroungarici detenuti in campi di concentramento sovraffollati in attesa di smistamento, ex prigionieri italiani che, crollato l'Impero, tornavano in modo incontrollato, sfollati dalle zone dei combattimenti e profughi dalle terre occupate nel 1917 che tentavano di rientrare a casa. Il perdurare di una condizione di sovrappopolamento rendeva massiccio e urgente un ampio spettro di attività, per l'espletamento delle quali il ripristino delle vie di comunicazione costituiva un passaggio obbligato: dai rifornimenti di viveri e di combustibili per il riscaldamento a una minima gestione dei pericoli sanitari, dalla costruzione di baraccamenti per i civili al riavvio delle attività agricole per la produzione dei generi alimentari. Tale situazione di caotica emergenza, per di più, aveva luogo in un paesaggio quasi desertificato. Le ricognizioni condotte in quegli anni, volte a quantificare le esigenze della ricostruzione o a glorificarne i meriti42, testimoniano un salto di scala impressionante nell'impatto che la guerra aveva avuto sul territorio rispetto a quanto mai accaduto: un milione e mezzo di ettari compromessi dall'invasione nemica, più di 2000 i centri abitati distrutti o danneggiati oltre il 95%, con la necessità di ricostruire oltre 32 milioni di metri cubi tra case, chiese, scuole, municipi e ospedali43. E a fianco delle prevedibili distruzioni compiute dalle artiglierie, gravava l'entità dei danni 'indotti', dovuti all'insediamento di due eserciti ipertrofici. Scavi di trincee, gallerie e altri interventi sul suolo scendevano in lunghi filamenti dalle montagne in pianura, fino a traforare gli argini del Piave, accompagnati da inestricabili reticolati di filo spinato. Nella provincia di Vicenza l'ingombro di letti di fiumi e torrenti con 42. A riguardo si vedano: Comando supremo del R. Esercito, L'Esercito per la rinascita delle Terre liberate, Stabilimento tipo-litografico militare, Bologna 1919, voll. Il ripristino della viabilità, Il ripristino delle arginature dei fiumi del Veneto dalla Piave al Tagliamento, L'opera nell'agricoltura; Commissariato per la riparazione dei danni di guerra, Le ricostruzioni nelle terre liberate, Libreria dello Stato, Roma 1924; A. De Stefani, L'azione dello stato italiano per le opere pubbliche (1862-1924), Libreria dello stato, Roma 1925; Istituto federale di credito per il risorgimento delle Venezie, Ricostruzione delle terre danneggiate. Appunti e date, Ferrari, Venezia 1927; S. Trentin, La restaurazione delle terre liberate in Italia e l'opera dell'Istituto federale di credito per il risorgimento delle Venezie, Zanichelli, Bologna 1923. 43. Dati da S. Trentin, cit. Riguardo distruzione e ricostruzione dei centri urbani, in rapporto alla teoria del restauro, si veda: G.P. Treccani, Tracce della Grande guerra. Architetture e restauri nella ricorrenza del centenario, «ArcHistoR», 2014, I, 1, pp. 135-79; Id., Monumenti e centri storici nella stagione della Grande guerra, Franco Angeli, Milano 2015.

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materiali di scavo proveniente dalle costruzioni di strade e gallerie aveva provocato alluvioni e straripamenti. Le vie di comunicazione avevano subito una forte usura per l'intenso traffico e la mancata manutenzione. Incendi ed esplosioni, dolosi o meno, erano partiti da depositi di munizioni e stabilimenti industriali per distruggere i luoghi circostanti. Molte fonti erano state devastate e molte acque potabili inquinate. Lo sforzo bellico, inoltre, aveva richiesto un pesante prelievo di risorse materiali nelle retrovie e l'abbandono dei terreni agricoli vicini alle zone di operazioni. I boschi erano stati più sfruttati per esigenze logistiche e come risorse energetiche di quanto danneggiati dalle operazioni militari44. Lo spostamento del fronte sul Piave, infine, aveva peggiorato una realtà economica e sanitaria già difficile, laddove la distruzione dei pochi impianti idrovori esistenti e l’allagamento dei fondi litoranei a scopo di difesa avevano riazzerato bruscamente i fragili risultati ottenuti faticosamente dai primi tentativi di bonifica agraria: e con l’acqua era tornata anche la malaria, che aveva colpito in primo luogo gli eserciti stessi. Le prime attività di ricostruzione furono svolte dall'esercito, sotto la direzione del Comando generale del genio, affiancato da organi locali come per esempio il Magistrato alle acque per quanto riguardava il ripristino dei molti argini compromessi, non solo lungo il Piave. L'impiego di migliaia di "operai borghesi" venne proseguito per ragioni politiche non secondarie: l'esplosione, nel primo dopoguerra, di agitazioni legate al problema della disoccupazione trovavano forte appiglio in un Veneto, la cui popolazione era per circa la metà di contadini e il cui suolo agricolo era stato dimezzato dalle operazioni belliche45. Il lento passaggio della gestione dei lavori all'autorità civile, intanto, avveniva gradualmente: all'inizio del 1919 era stato istituito il Ministero delle terre liberate dal nemico46, con il compito 44. Sui boschi come «"spie" della radicalizzazione dello sforzo bellico» si veda: M. Ermacora, Lo sfruttamento delle risorse forestali in Italia durante il primo conflitto mondiale, «Venetica», 2009, XXIII, 20, pp. 53-75. Più in generale sul tema del "paesaggio violato" si veda: M. Armiero, Le montagne della patria. Natura e nazione nella storia d'Italia. Secoli X IX e X X , Einaudi, Torino 2013, in part. pp. 105-12. 45. A riguardo si veda: Società rurale e Resistenza nelle Venezie, atti del convegno (Belluno, 24-26 ottobre 1975), Feltrinelli, Milano 1978, in part. i contributi di A. Ventura, La società rurale veneta dal fascismo alla Resistenza, pp. 11-70, e B. Bianchi, Il fascismo nelle campagne veneziane (1929-1940), pp. 71-108 46. Istituito con R.d. 19 gennaio 1919, n. 41, subentrò all'Alto commissariato per i profughi di guerra, istituito con D.lgt. 18 novembre 1917, n. 1897, modificato con D.lgt. 11 agosto 1918, n. 1179. Faceva capo direttamente alla presidenza del consiglio. La sede era a Treviso, presso villa Manfrin (detta Margherita). Difficoltà burocratiche, ritardi e scandali nella gestione,

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Distruzioni rilevate al termine del conflitto



Lavori di ripristino delle reti infrastrutturali eseguiti dall'esercito nell'immediato dopoguerra



di coordinare le amministrazioni pubbliche nell'opera di ricostruzione, mentre nel giugno dello stesso anno veniva creato il Comitato governativo per la riparazione dei danni di guerra nelle regioni venete47, soppresso già nell'aprile dell'anno successivo per fargli succedere un più autonomo ed esteso Commissariato per la riparazione dei danni di guerra nelle regioni venete e finitime48. Le attività via vie previste andavano dalle costruzioni di strutture provvisorie per il ricovero delle popolazioni ancora senzatetto alla messa in sicurezza delle strutture pericolanti, fino all'esecuzione dei piani regolatori degli abitati distrutti e alla ricostruzione di opere ingegneristiche e di interesse pubblico. Nel 1922 era possibile contare quasi 15.000 baracche e oltre 68.000 case ripristinate da Genio militare, Magistrato alle acque, Comitato e Commissariato, e poi la ricostruzione di 532 chiese, 159 municipi, 366 edifici scolastici, 55 edifici sanitari, 228 ponti, e il ripristino di 758.000 km di strade49. Va segnalato, tuttavia, come il pesante rapporto tra limitate disponibilità economiche e notevole entità dei lavori da eseguire avesse indotto a effettuare puntuali indagini sulla corrispondenza – in termini dimensionali, di portata, ecc. – tra le richieste di ricostruzione e le caratteristiche dei manufatti precedenti al conflitto, mentre per i piani regolatori le migliorie dovevano limitarsi a questioni di tipo igienico o viabilistico50. Le scrupolose verifiche, tuttavia, che secondo una tendenza purtroppo frequente nella storia del territorio rispondevano a un criterio di emergenza più che a una visione progettuale, con gli inutili sprechi evitarono alcune opportunità di sviluppo, ricostruendo una condizione prebellica ormai perduta, che contrastava con la nuova e cospicua eredità di infrastrutture militari. caratterizzarono la breve vita del Ministero, soppresso con R.d. 25 febbraio 1923, n. 391, e i suoi servizi devoluti ai Ministeri di finanze, interno, industria, agricoltura e lavoro. 47. Istituito con D.lgt. 8 giugno 1919, n. 925, art. 7. Il territorio di competenza era però limitato (art. 8) alle provincie già invase (Belluno, Treviso, Udine, Venezia, Vicenza) cui venne aggiunta Brescia. Il Comitato operava «sotto la diretta dipendenza del Ministero per le Terre liberate». L'effettivo passaggio della gestione dei lavori all'autorità civile, tuttavia, non fu immediato: dal 26 luglio le Direzioni militari non potevano più intraprendere nuovi lavori, mentre la cessazione di ogni attività da parte del Genio militare veniva fissata il 31 agosto, a eccezione delle ricostruzioni di edifici pubblici, prorogate al 31 ottobre, e le bonifiche dei proiettili, che durò ben più a lungo. Di fatto, comunque, le Direzioni lavori del Genio militare continuarono a lavorare fino al febbraio 1920. Cfr. Le ricostruzioni…, cit., pp. 8-10. 48. Istituito con R.d.l. 18 aprile 1920, n. 523. La competenza territoriale si estendeva anche alle provincie di Ferrara, Mantova, Padova, Rovigo e Verona. 49. Dati da Le ricostruzioni… Il volume contempla anche numerose altre categorie come canoniche, strutture per il bestiame, impianti industriali, opere pie, campanili (e campane). 50. Cfr. ivi, pp. 18-20 e 182-3.

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Ritorni Ragioni simboliche, oltre che economiche, rendevano delicati e intrecciati la gestione del processo di restituzione del territorio alla vita civile e il parallelo percorso di costruzione della memoria e dei luoghi fisici a essa dedicati51. Anche una volta avviate le ricostruzioni degli abitati e le bonifiche dei campi, vaste e numerose erano le aree, soprattutto in Veneto, a cui rimaneva difficile accostarsi: dalle salme che saturavano molti piccoli cimiteri e dai cadaveri insepolti che si potevano ancora incontrare in montagna, fino ai resti delle strutture difensive che attraversavano il territorio, i numerosi segni della morte e il vivo ricordo delle sofferenze di trincea rendevano, nella percezione di reduci e congiunti in lutto, molti luoghi monumenti essi stessi, il cui smantellamento era impensabile. L'immediato dopoguerra fu caratterizzato altresì da un'indecisa sospensione della politica rispetto al dare forma e spazi a una ritualità nazionale unitaria, mentre iniziali elaborazioni della memoria emergevano puntualmente per iniziative prevalentemente spontanee e disomogenee, promosse da una molteplicità di "comunità in lutto". A tale stagione, per altro, vanno riferite le prime declinazioni secondo cui la memoria si è calata nel territorio nazionale: la collocazione, a partire dal 1919, ma proseguendo per tutti gli anni venti, di una miriade di piccoli monumenti, 51. A riguardo si vedano: M. Carraro, La prima guerra mondiale: monumenti commemorativi e scenari urbani, in M. Giuffré, F. Mangone, S. Pace, O. Selvafolta (a cura di), L’architettura della memoria in Italia. Cimiteri, monumenti e città. 1750-1939, Milano 2007, pp. 349-55; Ead., M. Savorra (a cura di), Pietre ignee cadute dal cielo. I monumenti della Grande guerra, Ateneo Veneto, Venezia 2014; A. Gibelli, La Grande guerra degli italiani. 1915-1918, Rizzoli, Milano 1998, pp. 317-92; M. Isnenghi, L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, Mondadori, Milano 1994, pp. 301-10; M. Mondini, La costruzione monumentale della memoria di guerra in Veneto. Attori, linguaggio, legittimazione, conflitti, in H. Kuprian, O. Überegger (a cura di), Der Erste Weltkrieg im Alpenraum. Erfahrung, Deutung, Erinnerung/La Grande Guerra nell'arco alpino. Esperienze e memoria, Wagner, Innsbruck 2006, pp. 413-25; Id., Le sentinelle della memoria. I monumenti ai caduti e la costruzione della rimembranza nell’Italia nord orientale (1919-1939), «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», 2006, X L, pp. 273-93; Id., G. Schwarz, Dalla guerra alla pace. Retoriche e pratiche della smobilitazione nell'Italia del novecento, Cierre edizioni, Verona 2007, pp. 47-69; Id., La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare 1914-18, il Mulino, Bologna 2014, pp. 31556; R. Monteleone, P. Sarasini, I monumenti italiani ai caduti della Grande guerra, in D. Leoni, C. Zadra (a cura di), La Grande guerra. Esperienza, memoria, immagini, il Mulino, Bologna 1986, pp. 631-62; D. Pisani, La memoria di pietra. Le testimonianze monumentali della Grande Guerra in Veneto, in Il Veneto tra le due guerre: 1918-1940, on-line, http:// circe.iuav.it/Venetotra2guerre/01/home.html (ultima consultazione agosto 2016); B. Tobia, Dal Milite ignoto al nazionalismo monumentale fascista, in W. Barberis (a cura di), Storia d’Italia, Annali, X VIII , Guerra e pace, Einaudi, Torino 2002, pp. 593-642.

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statue, lapidi, che in modo capillare, e sostanzialmente uniforme da sud a nord, hanno popolato municipi, vie, piazze e chiese, diventando una costante di sfondo nel paesaggio urbano italiano; nel 1921 il viaggio del "milite ignoto" che in treno – mezzo di trasporto ormai simbolo dell'unità nazionale – percorse con riconciliante lentezza il tragitto da Aquileia a Roma, dal vecchio fronte al centro dello Stato, accompagnato da madri in nero a evocare una dimensione universalmente familiare del lutto; l'istituzione, nel 1922, delle "zone sacre"52, la cui impervia collocazione, tuttavia, sostanzialmente esterna al mondo antropizzato, rivelava un atteggiamento poco incline a confrontarsi frontalmente con la difficile riconversione di un territorio conteso tra ricordi e agricoltura; l'istituzione, nello stesso anno, come prima iniziativa fascista, e la realizzazione, entro il 1923, di almeno 5700 tra parchi e viali della Rimembranza, che con intento didattico e sotto vesti pacificamente urbane costruivano luoghi di silenziosa riunificazione, dove tanti erano gli alberi quanti i caduti per la Patria, tuttavia mettendo surrettiziamente a dimora anche le "vittime fasciste"53. Gli anni successivi, caratterizzati dall'affermazione del nuovo regime, videro il progressivo prevalere di un indirizzo più unitario – seppur parziale come punto di vista – che focalizzava i propri intenti celebrativi non tanto sulla vicenda bellica, fino ad allora identificata nel fante, che tuttavia portava con sé l'evocazione poco eroica di fango e sofferenza, quanto sulla gloriosa conclusione, la Vittoria, e sul popolo, schierato, che l'aveva ottenuta. Con il Programma generale per la sistemazione definitiva delle sepolture militari italiane presentato dal gen. Giovanni Faracovi, commissario straordinario per le onoranze ai caduti, nel 1928 veniva delineato54 un piano ambizioso che prevedeva la riunificazione delle innumerevoli salme, ancora disperse in cimiteri provvisori55, all'interno di monumentali sacrari militari. Pur in una notevole varietà di realizzazioni, che rimandano a condizioni progettuali e a riferimenti architettonici diversi, e che tra l'altro videro il progressivo snellimento delle procedure di assegnazione degli incarichi 52. Istituite con R.d. 29 ottobre 1922, n. 1386, erano: Pasubio, Grappa, Sabotino e San Michele. A queste si aggiunsero solo successivamente, con L. 26 luglio 1967, n. 534, anche Cengio, Ortigara e Casteldante (Rovereto) e, con L. 5 dicembre 1975, n. 719, la Marmolada. 53. Ministero della pubblica istruzione, circolare Ai RR. Provveditori agli Studi, 13 febbraio 1923, sottoscritta dal sottosegretario D. Lupi, cit. in Id. (a cura di), La riforma Gentile e la nuova anima della scuola, Mondadori, Milano 1924, pp. 230-1. 54. E approvato dal Ministero della guerra e dal capo del governo. 55. Per la locazione dei quali era previsto un canone in scadenza nel 1930.

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e due passaggi di consegne fino alla gestione, dal 1935, da parte del gen. Ugo Cei, ricorrono tuttavia alcune modalità insediative e soprattutto una comune e spiccata tendenza a intrecciare relazioni a distanza. Secondo un principio inverso alla polverizzazione e alla dispersione sul territorio italiano di piccoli monumenti autonomi, i grandi sacrari basavano sulla loro ubicazione nei più importanti centri lungo le tre linee del fronte (Isonzo, Piave e montana), ma ancor più sul principio stesso del grande concentramento di salme, una nuova capacità attrattiva a scala nazionale. Al contempo l'espressiva grandezza, misura palese della perpetuità del segno, stabiliva con il paesaggio circostante un deciso rapporto, innanzi tutto visivo: dimensioni calcolate sul fuori scala e collocazioni per lo più dominanti rendevano i sacrari inevitabilmente visibili anche da lontano56. Altrettanto nella direzione inversa molteplici erano le declinazioni secondo cui lo sguardo era invitato a spaziare sui teatri di guerra: fornici a inquadrare vedute, basamenti come grandi terrazze a belvedere, frecce sui parapetti a indicare cime e campi di battaglia. Per di più, a fronte di una progressiva rarefazione degli apparati scultorei, particolarmente evidente nei sacrari più famosi di Greppi e Castiglioni57, assumono importanza compositiva elementi architettonici tradizionalmente ausiliari come viali, scalinate, basamenti e terrazzamenti che, sovradimensionati fino a divenire essi stessi monumento, si dimostrano efficaci strumenti per orientare lo sguardo verso e attorno al sacrario. Tale trama di relazioni, spesso oscurata nei giudizi successivi dal retorico gigantismo, andava a sovrapporsi a un territorio dove il quotidiano e il "sacro" continuavano a stratificarsi58, dove le ferite della guerra, ancora leggibili, venivano via via ricolmate per fare tornare campi e pascoli, mentre si fissavano nell'immaginario collettivo i nomi di luoghi leggendari. Per altri versi, al processo di costruzione della memoria della Grande guerra, che segna uno dei passaggi fondativi attraverso cui la giovane identità italiana si è formata un'immagine del proprio corpo territoriale, può essere ricondotto anche lo spostamento concettuale da un fronte inteso come sistema coerente e interrelato con le retrovie all'idea di 56. Un rapporto a distanza che nel caso del Grappa, per esempio, era ribattuto dalla statua del gen. Giardino a Bassano, orientata a guardare verso i campi di battaglia e il sacrario. 57. E che aveva un chiaro precedente nel progetto di Baroni per il Monumento al fante. Cfr. M. Savorra, Da ossari a sacrari. Il monumento al fante e le retoriche della Grande guerra, in M. Carraro, M. Savorra, cit., pp. 25-53. 58. «Nel reciproco implicarsi di natura e cultura, geografia e storia». M. Isnenghi, Alle origini del 18 aprile. Miti, riti, mass media, «Rivista di storia contemporanea», 2007, VI , 2, p. 211.

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Monumenti e percorsi della memoria



una collezione di luoghi mitici individualmente isolati. Già durante lo svolgimento del conflitto l’esaltazione di vicende esemplari, di eroismo o di tragedia, aveva visto una serie di campi di battaglia tristemente famosi diventare protagonisti di reportage e canzoni, e poi di racconti e monumenti, in un processo di mitizzazione che, rispetto alla generica universalità della figura del fante59, selezionava precise aree geografiche, al tempo semisconosciute, ma che in questo modo «fuori[uscivano] di repente dall'anonimato, per accamparsi al centro della scena»60. E non solo, in loco, le delimitazioni delle aree “sacre alla patria”, così come gli innumerevoli monumenti, dai cippi ai sacrari, condensavano puntualmente la memoria collettiva, ma anche, nel resto d'Italia, massi dell’Ortigara venivano trasportati e collocati nelle piazze di molti centri urbani, nuove intestazioni delle strade ricostruivano in ogni città una sorta di carta geografica della guerra fatta per luoghi notevoli61, cartoline e illustrazioni codificavano contesti in un solo dettaglio – tra tutti il profilo del Salto del Granatiere. Veri e simbolici 'pezzi di geografia' divenivano i veicoli di un fitto battage destinato a fissare toponimi, pur nella sostanziale indeterminatezza del sistema complessivo e dei mutui rapporti bellici. Negli stessi anni in cui migliaia di uomini erano impegnati nel riappianare le ferite di territori sfigurati dalla guerra e altri nella costruzione di monumenti che ne ricordassero il passaggio, un terzo tipo di soggetti attraversava quegli stessi luoghi: si tratta di un insieme invero eterogeneo, fatto inizialmente di reduci e familiari dei caduti, cuiprogressivamente si aggiunsero associazioni di civili, scolaresche, fino ai gruppi del dopolavoro fascista, che iniziarono a ripopolare i campi di battaglia, i piccoli cimiteri nei boschi e poi i luoghi celebrativi man mano più ufficiali. Pur con alcune differenze, il turismo sui luoghi della Grande guerra62 ha rappresentato una sorta di complementare prosecuzione dei modi 59. Le specificazioni per la componente umana riguarderanno semmai alcuni corpi militari. 60. M. Isnenghi, I luoghi della cultura, in S. Lanaro, cit., p. 390. Si veda anche: A. Ferlenga, Topografia leggendaria della Grande guerra, in M. Bergamo, A. Iorio (a cura di), Strategie della memoria. Architettura e paesaggi di guerra, Aracne, Roma 2014, pp. 14-25. 61. Si potrebbe osservare come la Grande guerra, in quanto guerra di massa, sia la prima a lasciare nomi di luoghi più che di personaggi: basterebbe confrontare il vicino Risorgimento, con Garibaldi o Cavour odonimi ancora molto più frequenti di Solferino o Custoza. A riguardo si veda: S. Raffaelli, I nomi delle vie, in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Simboli e miti dell'Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 217-42. 62. A riguardo si vedano: M. Armiero, cit., pp. 93-104; L. Di Mauro, L'Italia e le guide turistiche dall'Unità a oggi, in C. De Seta (a cura di), Storia d'Italia, Annali, V , Il paesaggio, Einaudi, Torino 1982, pp. 362-428.

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di trasmissione della memoria, secondo alcuni tratti salienti. In primo luogo questa nuova forma di frequentazione, che inizialmente aveva più i caratteri del pellegrinaggio spontaneo, ben presto poté diffondersi sul territorio attraverso una rete sempre più fitta e sempre più strutturata di itinerari, sia per una promozione statale verso iniziative patriottiche unificanti, ma soprattutto in ragione del sostegno 'logistico' fornito da un'istituzione consolidata come il Touring club italiano. La collana Sui campi di battaglia, pubblicata a partire dal 192763 per poi proseguire negli anni trenta, era espressamente volta a condurre questa nuova forma di 'conquista', che esplorava un territorio punteggiato di resti, alcuni già avviati a divenire rovine64. Ma ben più che semplici descrizioni del mondo fisico, quei volumi si rivelarono soprattutto efficace strumento didattico, sul quale si formò un nuovo modo di guardare a quella parte del territorio italiano: «vere e proprie istruzioni per l'uso del paesaggio in chiave politica e culturale […] a formare un'unità indissolubile di storia e natura»65. In secondo luogo, se è vero che fino al 1915 i luoghi in cui si combatterà erano pressoché sconosciuti alla maggioranza della popolazione italiana, da molti anni quelle aree erano però già frequentate, soprattutto nella stagione estiva, da escursionisti e appassionati di alpinismo. «Più in là, a occidente, vengono le Dolomiti, sulle quali i turisti eran soliti di fare ascensioni, descrivendole poi sui libri. Anche lì combattiamo»66. E non pochi furono, tra l'altro, gli ex turisti che nel 1915 si trovarono a fare ritorno sulle amate vette in veste di guide o di ufficiali, al comando di truppe composte da contadini che ben poco conoscevano fuori del loro paese d’origine. In seguito al conflitto, invece, l’arco alpino orientale era ormai famoso e quando, soprattutto nel secondo dopoguerra, la ripresa economica innescò un processo di trasformazione di ampie fasce della popolazione in classe piccolo borghese, desiderosa di usufruire di tutti i benefici della nuova condizione, la villeggiatura in montagna ebbe 63. Una prima guida post bellica era uscita già nel 1920, con un volume dedicato a Le Tre Venezie pubblicato all'interno della collana delle Guide d'Italia del Tci. Cfr. Isnenghi, I luoghi della cultura, cit., pp. 390-3. 64. Molti forti, per esempio, erano stati dismessi con R.d. 12 agosto 1927, n. 1882. 65. M. Armiero, cit., p. 98. 66. R. Kipling, cit., p. 6. Più avanti: «Anticamente su Cortina furono scritti romanzi in quantità. Le montagne poco frequentate intorno ad essa servivano mirabilmente da sfondo per racconti d’amore e per avventure alpinistiche. Adesso l’amore è scomparso da questo immane bacino delle Dolomiti, e l’alpinismo viene compiuto da plotoni di soldati con lo scopo di uccidere e non da individui che danno conferenze nei Clubs Alpini» (p. 36). In generale in tutto il reportage i confronti tra passato turistico e attualità bellica sono frequenti.

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una fortuna straordinaria: i nuovi visitatori, alla ricerca della natura incontaminata della montagna, trovarono un paesaggio fatto di pascoli e boschi, che 'normalmente' era punteggiato da resti bellici. E fu in un certo senso 'con naturalezza' che i villeggianti che iniziavano a conoscere questo nuovo territorio si sono abituati a incontrare nei loro percorsi trincee, forti o resti di baraccamenti. I rapporti tra mondo militare e prime esperienze turistiche, d'altra parte, non iniziarono dal nulla a guerra conclusa, ma avevano visto prime velate schermaglie già negli anni di preparazione al conflitto. Per quanto riguarda il ruolo di un'istituzione come quella del Tci, in particolare, va rilevato come la sua presenza nelle terre dell'irredentismo fosse piuttosto delicata, soprattutto per quanto riguarda le ricognizioni sulle montagne tirolesi, tanto che l'Austria «inibì con le pene dello spionaggio le informazioni per le nostre Carte»67. Ma se fino al 24 maggio 1915 gli sviluppi del Tci erano dovuti rimanere, «ad arte, contenuti nei più rigorosi limiti legali»68, con lo scoppio della guerra la «Rivista mensile» diede alle stampe una serie di articoli intitolati Varcando l'iniquo confine, dove la descrizione geografica dei luoghi di combattimento si faceva infine apertamente schierata. Nel novembre 1916, inoltre, il Tci promise ai suoi soci un "dono prezioso" piuttosto inconsueto per quei tempi: due carte topografiche in scala 1:50.000 del fronte compreso tra le sorgenti dell'Isonzo e Trieste. Finalmente avrebbero avuto un 'volto' definito i «bollettini del Comando supremo», che troppo spesso «rimangono muti per il gran pubblico, al quale parlano di nomi sconosciuti, di "quote" che invano si cercano sulle poche carte che ora circolano, di forme speciali di terreno che hanno nomi propri e che da quelle non appaiono»69. Nell'articolo di presentazione, tra l'altro, il segretario generale Luigi Vittorio Bertarelli dichiarava come in tale operazione fossero stati «incoraggiati e cordialmente aiutati» addirittura dal Comando supremo, in particolare attraverso la mediazione del gen. Carlo Porro, che dal 1915 1l 1918 era anche vicepresidente della Società geografica italiana. L'operazione, seppure sospesa appena prima della pubblicazione per ragioni di di opportunità militare, fu recuperata e ampliata già nel marzo 67. Editoriale, «Rivista mensile del Tci», 1915, XXI, 6, p. 361. 68. Ibid. Va ricordato tuttavia che alcuni articoli, come per esempio quello intitolato Vie garibaldine nel Trentino (1915, XXI, 4, pp. 231-9), ben poco celavano le fantasie irredentistiche. 69. L.V. Bertarelli, Un dono prezioso ai soci del Touring, «Rivista mensile del Tci», 1916, XXII, 11, pp. 583-6.

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dell'anno successivo, con l'uscita della Grande carta della guerra alla fronte italiana, suddivisa in 24 fogli a scala 1:100.000 e costruita sulla base di tipi forniti direttamente dall'Istituto geografico militare, che coprivano ora l'intero svolgimento del fronte. «L'abitudine di sforzarsi a leggere le carte geografiche ed anche la capacità effettiva di penetrarne bene il significato hanno fatto, come tante altre cose, passi giganteschi sotto la sferza della guerra»70: l'individuazione dello strumento cartografico, cioè di uno strumento fortemente costruito, simbolico e per nulla immediato, quale supporto essenziale alla conoscenza del territorio trovava ragione in un mutamento culturale nel modo di concepire – e rappresentare – il mondo che proprio la guerra aveva accelerato. In questo processo il turismo aveva svolto un fondamentale ruolo catalizzatore: da quel momento in poi le carte geografiche non furono più solo un supporto fornito ai comandanti degli eserciti, ma divennero un oggetto di uso civile, iniziando a diffondersi nelle case – e nelle automobili – degli italiani. A completare il quadro, d'altra parte, va aggiunto che l'intreccio di legami non si esauriva in una sola direzione 'discendente', che vedeva il Tci recepire e dare forma da lontano a ciò che le vicende militari producevano, ridisegnando carte o, in seguito, ricalcando itinerari turistici sulle vecchie mulattiere militari, ma si svolgeva anche nella direzione opposta, laddove il turismo rappresentava un modo valido di sperimentare tecniche per appropriarsi di luoghi non conosciuti71. Da tempo, per esempio, il Tci aveva iniziato un'attività di 'infrastrutturazione leggera' del territorio italiano attraverso la collocazione di indicazioni stradali e segnali di regolamentazione del traffico. È interessante ricordare che tra i vari impedimenti posti dall'autorità austriaca allo sviluppo del Tci in territorio d'oltralpe fosse citata anche la rimozione di tali cartelli72, pericolosamente 70. Ivi, p. 586. 71. Sul difficile orientamento nella pianura veneta basti ricordare le descrizioni militari austriache di fine ottocento: «Il terreno è cosparso di case isolate e fattorie che unitamente alla quasi sempre fitta copertura arborea […] impediscono estremamente la visuale panoramica e l'orientamento» (p. 17), più avanti: «L'orientamento nel bassopiano è molto difficile per il suo carattere completamente omogeneo. Gli unici punti di orientamento visibili da lontano sono i campanili delle numerose chiese […] Le segnalazioni stradali presso i crocevia sono assenti. I nomi delle località non sono riportati su cartelli», concludendo infine: «Pertanto all'occorrenza saranno di grande aiuto le guide» (p. 34). P. Moro (a cura di), Il piano di attacco austriaco contro Venezia, Marsilio, Venezia 2001, che riporta la traduzione italiana di Fortificatorische Detailbeschreibung von Venedig-Mestre (mit 36 Beilagen), Kaiserlich-königliche Hof- und Staatsdruckerei, Wien 1900. 72. Editoriale, «Rivista mensile del Tci», 1915, XXI, 6, p. 361.

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utili in caso di invasione – turistica o militare, poco cambia. Al contempo la segnaletica costituiva un nuovo ed efficace strumento di organizzazione, fisica e mentale, del mondo, utile agli escursionisti e poco dopo a truppe e servizi foresti che dovevano orientarsi celermente nei congestionati territori delle retrovie. Un sistema a tal punto irrinunciabile da essere citato a modello ancora nel 1924, cioè dopo l'esperienza di guerra, nelle Norme per la circolazione stradale militare e per l'organizzazione degli itinerari emanate dal Ministero della guerra, che inaspettatamente iniziavano: «Per i segnali e le targhe occorrenti per mettere in rilievo le accidentalità delle strade, a segnalare distanze chilometriche, a regolare velocità di transito, ecc. valgono come modelli le segnalazioni adoperate dal Touring Club Italiano»73. Stratificazioni e compresenze Attraverso una consistente opera di infrastrutturazione la Grande guerra non ha solo rimodellato la superficie del territorio, ma ne ha influenzato profondamente le dinamiche di attraversamento e utilizzo per un lungo tempo a venire. Oggi l'ambito forse non più evidente, ma sicuramente più esteso e duraturo di sovrapposizione tra i mondi bellico e turistico rimane ancora quello dei tracciati infrastrutturali. Oltre a quello delle strade militari dove un tempo si incolonnavano autocarri e salmerie e dove oggi salgono auto e torpedoni, assai elevato è anche il numero di sentieri alpinistici, sportivi o di semplice passeggiata che ricalcano vie aperte da soldati e "operai borghesi" per raggiungere postazioni arroccate o mulattiere usate per rifornire le prime linee. Si tratta, in effetti, di una forma di stratificazione poco evidente, spesso inconsapevole da parte di chi la pratica, ma che proprio in ragione della superficiale marginalità serba ancora occasioni di interesse progettuale. La fitta trama infrastrutturale costituisce uno straordinario patrimonio di 'reperti storici' – probabilmente il repertorio più completo pervenutoci da quella vicenda – che possiede tuttavia un carattere di atipicità rispetto ad altre classi di segni, più immediatamente riconducibili alla guerra, come forti, trincee e monumenti, già da molto tempo fissati nella memoria collettiva. D'altra parte proprio il concetto di memoria, al di sotto del quale tutto sembra trovare accordo, presenta un certo grado di ambiguità, almeno tra un'idea di tutela conservativa mirata 73. Ministero della guerra, Norme per l'organizzazione e il funzionamento dei Servizi in guerra, 1924, all. 1 e 2. Riportato in F. Botti, cit., III , p. 792.

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e una che vede nella trasformazione il passaggio imprescindibile per attivare nuovi cicli di vita per un territorio considerato nel suo complesso. Va osservato che molte delle infrastrutture militari sono arrivate a noi proprio perché non sono state riconosciute come oggetto di memoria: in quanto elementi funzionali si sono 'mimetizzate' sullo sfondo, sono state tenute in esercizio, trasformate e in qualche modo preservate. Al contrario, una memoria in altri casi declinata come processo di museificazione pone oggi, a fronte di un numero assai vasto di tracce, problemi di manutenzione di non poco conto. Allo stesso tempo, infrastrutture considerate spesso solo distrattamente spiccano invece per alcuni tratti spettacolari, come ponti, gallerie, tornanti: azzardando un'inversione analoga a quella compiuta da alcune avanguardie, che dichiaravano la guerra non tragedia, ma occasione, anche in questi casi la perdita del valore d'uso permette di focalizzare lo sguardo verso una serie di manufatti per certi versi affascinanti, costruendo legami verso altre grandiose opere successive, come dighe, centrali o viadotti, appartenenti a una fortunata – seppure controversa – stagione dell'ingegneria italiana e già divenute meta di turismi più o meno specializzati. In generale, le vecchie infrastrutture militari costituiscono un patrimonio che si rende prezioso oggi, in un momento cioè in cui non solo la ricorrenza del centenario vede convergere attenzioni dal mondo scientifico ed economico, ma soprattutto prendono corpo scenari e politiche di ripensamento del territorio costruiti proprio sulla presenza di molteplici e rinnovate modalità di frequentazione. Mai come in questi tempi, d'altra parte, l’offerta turistica sembra articolarsi, più che sulle mete o sul genere di mete – arte, storia, natura, sport per lungo tempo sono stati settori specializzati e separati –, sulle modalità di spostamento e sulla costruzione del percorso stesso, lungo cui la varietà di punti inanellati è considerata ricchezza e non dispersività. Per altri versi, ormai da tempo è possibile rilevare una progressiva stratificazione, sotto l'ampia categoria del turismo, tra percorsi di tipo naturalistico, escursionistico o sportivo e itinerari legati alla visita dei teatri di guerra: una tale condizione richiede tuttavia che vengano resi leggibili o costruiti alcuni nessi, districando e intrecciando, al fine di evitare che i resti del passato rimangano soltanto un suggestivo scenario. Diverse sono effettivamente le forme di interrelazione che già sono venute a verificarsi. Da un lato si potrebbero citare casi come una gara ciclistica intitolata 100 km dei forti, piste da sci nordico che ricalcano mulattiere, fino al sito web 77


strafexpedition.it, che non rimanda a una pagina di argomento storico, ma a quella di una marcia podistica che si svolge annualmente sull'Altopiano di Asiago – inspiegabilmente a settembre, data l'intitolazione. Si tratta di casi in cui su percorsi della memoria si sono sovrapposti altri itinerari, a prima vista del tutto estranei e di genere sicuramente meno austero, ma in cui nuove attività si insediano e stabiliscono la propria riconoscibilità a partire da un richiamo, pur spesso generico, al contesto storico oltre che geografico in cui sono calati. Un processo in un certo senso inverso sembra altresì avere interessato negli ultimi anni musei e istituzioni tradizionalmente focalizzati sulla vicenda storica: dall'affermarsi di filoni espositivi dedicati al coinvolgimento della popolazione civile e quindi del contesto geografico, che ampliano inevitabilmente lo sguardo alla vita nel territorio prima e dopo il conflitto, alla vera e propria sortita delle esposizioni dagli edifici per proiettarsi verso esperienze di musei all'aperto, l'offerta e le forme narrative si sono ampliate attraverso la ricerca di un radicamento territoriale inteso in un'accezione più ampia del solo riferimento agli anni di guerra74. Due questioni, insite nel termine ecomuseo sovente richiamato, offrono inoltre spunti per prefigurare nuovi scenari. Da un lato l'idea di musealizzazione del territorio, per la quale il tradizionale carattere di delimitazione, utile all'inquadramento tematico, ma pericolosamente decontestualizzante, va invece stemperato nell'intreccio di diversificate compresenze, dove per esempio l'attività sportiva potrebbe offrire interessanti opportunità per rendere nuovamente evidenti assetti storici. Dall'altro, il richiamo all'ambiente, che implica la necessità di un confronto anche con le pratiche attuali e le inevitabili modificazioni che esse comportano, dove per esempio la gestione del bosco o l'apertura di piste sciistiche potrebbero permettere di recuperare le antiche trame visive tra postazioni di fuoco e feritoie. Il riciclo delle reti e dei tracciati storici che attraversano gran parte del territorio, tra memoria e loisir, possono dunque configurarsi come occasioni di riconoscimento e di consolidamento delle comunità, in un rinnovato rapporto con il territorio, dove trasformare e prendersi cura non costituiscono concetti necessariamente oppositivi.

74. Cfr. M. Passarin, La memoria e il paesaggio. I musei della Grande guerra in Veneto e l'Ecomuseo della Grande guerra sulle Prealpi, in L. Bregantin (a cura di), La Grande guerra in Veneto, numero monografico di «Notiziario bibliografico», 2014, 69, pp. 75-6.

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Truppe austriache durante un'esondazione del Piave (17 giugno 1918), E. Tito, Le mondine (1885, coll. privata), ufficiale appostato al riparo di un argine. Collage


MATERIALI E IMMAGINARI

La prima guerra fu davvero mondiale non perché vi partecipò tutto il mondo, ma perché fu il mondo stesso a essere cambiato. Parafrasando l'arguta inversione che il protagonista de La Cripta dei Cappuccini di Joseph Roth usa per descrivere la perdita del proprio mondo culturale, si potrebbe, per inverso, richiamare anche la profonda influenza che gli eventi bellici esercitarono sul mondo a venire e sui modi in cui esso verrà concepito e rappresentato. Molteplici e non sempre evidenti furono i canali di questa influenza, la cui prima insorgenza risale alla pressoché immediata presa di coscienza dell'aspetto e delle peculiarità che la guerra appena iniziata andava manifestando attraverso il suo quotidiano resoconto, quasi in presa diretta, diffuso a grande scala da giornali e riviste. Mai prima alcuna guerra aveva assunto fattezze così nitide nell'immaginario collettivo, così immediatamente riconoscibili, come riuscì, già a breve distanza dal suo inizio, la Grande guerra. Basterebbe considerare, d'altra parte, come una serie di suoi spazi, immortalati da innumerevoli racconti e immagini – trincea, terra di nessuno, prima linea – siano ben presto entrati a far parte del vocabolario civile quali metafore relative agli aspetti più disparati della vita quotidiana. Uno dei principali fattori per comprendere tale pervasività va senza dubbio individuato nello stretto rapporto che, fin dal suo inizio, 81


la guerra instaurò con i diversi mezzi di comunicazione e in particolare con quelli in cui un apparato iconografico sempre più predominante permetteva di raggiungere con immediatezza un pubblico sempre più vasto. Senza dubbio le rappresentazioni di battaglie sono un tema figurativo assai praticato, almeno dalle origini della nostra letteratura; ma mai prima alcuna guerra aveva avuto tante rappresentazioni nelle varie arti figurative e soprattutto era stata raffigurata in così tanti dei suoi diversi aspetti – i soldati che partono, la vita nelle retrovie, i reduci. In altre parole, fin dal suo inizio la Grande guerra è stata anche e soprattutto immagine. In questo senso la massificata diffusione di nuovi mezzi della rappresentazione, come la fotografia e il cinema, che proprio durante gli anni del conflitto furono investiti da uno sviluppo straordinario, ne costituì a un tempo effetto e causa. Le molteplici rappresentazioni che venivano prodotte, e che continuarono a proliferare negli anni successivi, costituirono così il fondamentale veicolo di 'traslazione della realtà': dal fronte, cui la popolazione non aveva evidentemente accesso, all'intera nazione, entrando così nell'immaginario collettivo e partecipando in modo precipuo alla costruzione dell'immagine mentale e in seguito alla costruzione e trasmissione della memoria di quella vicenda. Va precisato, naturalmente, che anche tecniche di rappresentazione che possono apparire oggettive, come la fotografia, sono pur sempre frutto di un'operazione di costruzione. Una mediazione avveniva inevitabilmente al momento dello scatto, nella composizione dell'inquadratura, dove talora possono essere intravisti richiami, pur inconsapevoli, alla pittura di vedute e di ritratto di fine ottocento. Ma un'attenta cernita avveniva anche a monte, nelle indicazioni fornite agli operatori militari su cosa e come riprendere, e a valle, come per esempio nel controllo esercitato dalla censura su lettere, cartoline, foto e disegni spediti dai soldati. Il processo di 'traslazione della realtà' e, in questo spostamento, della sua cristallizzazione in immagini trova nel corso del conflitto molteplici filtri, prima di tutto di tipo mentale. Evidente è la fortuna critica di un paradigma interpretativo basato su un'idea di incommensurabile alterità di quella guerra rispetto a ogni altra guerra precedente: un'alterità che si manifesta come intensificazione, grande, mondiale, totale. In questo senso quello che furono trincea e mitragliatrice da un punto di vista operativo, lo furono i numeri – sempre declinati almeno in migliaia – nella costruzione del mito: sarebbe assai difficile trovare un solo articolo, racconto o 82


ricostruzione che non abbia insistito sull'immagine della moltitudine, dove l'affastellamento, sia esso di uomini, mezzi o materiali, diviene lo schema compositivo ricorrente per costruire vertiginose liste. L'apocalissi rivela, attraverso innumerevoli frammenti di visione, un «dramma, la cui mole occuperebbe, secondo misure terrestri, circa dieci serate»1. Il salto di scala, d'altra parte, si concretizzava in una straordinaria accelerazione produttiva, dettata dall'inedita e dirompente massività di richieste che una guerra tanto grande da essere totale poneva, dal «soverchiante significato della materia»2. Uno dei risvolti più interessanti, tuttavia, sta probabilmente nel fatto che le energie delle nazioni impegnate nel conflitto si indirizzarono verso una strada costellata di innumerevoli innovazioni tecnologiche, dove la libertà di sperimentazione costituiva una sorta di extrema ratio di fronte al carattere inaspettato e spiazzante della nuova situazione. Una sperimentazione in cui non a caso i risvolti figurativi e simbolici assumevano un ruolo primario, talvolta predominante sull'effettiva efficacia: corazze contro mitragliatrici, mazze ferrate per i combattimenti corpo a corpo nella nuova guerra di trincea, che recuperavano suggestioni arcaizzanti per conferire un valore terrorifico aggiunto a dispositivi costruiti per far fronte alla tecnologia moderna. L'occhio, vedente o visionario, è uno dei destinatari principali dei nuovi ritrovati, anche in veste attiva. Lo straordinario sviluppo di strumenti per la visione, infatti, può essere ricondotto proprio a un'originaria difficoltà dello sguardo sui campi di battaglia. Già nelle prime linee il rapporto tra uomini e mondo si pone sempre su un piano di 'vista mediata'. Una grande quantità di feritoie, punti di osservazione e postazioni mimetizzate si rincorrevano lungo il fronte: la necessità di spiare le mosse del nemico, pianificare la battaglia, prendere la mira, era il problema principale per i soldati in trincea, che all’inverso dovevano prestare massima attenzione a non essere visti, spiati, presi di mira. L'ansia di conoscere ciò che stava appena fuori dalle postazioni riparate non poteva mai essere appagata: alla cieca partivano all’assalto migliaia di uomini, sotto i colpi delle artiglierie che, appostate nelle retrovie, sparavano a loro volta alla cieca, basandosi solo sulle indicazioni di tiro ricevute. Ma ancora, oltre ai filtri ottici, tra luoghi reali ed eserciti si interponevano altrettanti diaframmi della rappresentazione: una grande quantità di carte geografiche serviva 1. K. Kraus, Gli ultimi giorni dell'umanità, Adelphi, Milano 1996, p. 9. 2. E. Jünger, Scritti politici e di guerra, Libreria editrice goriziana, Gorizia 2003, I , p. 15.

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a leggere il territorio, comprenderne l’orografia, guidare le operazioni di attacco; lunghissimi panorami permettevano di scrutare al sicuro i versanti opposti alla ricerca delle postazioni nemiche; e piantine improvvisate servivano a orientarsi anche nel proprio labirintico intrico di trincee, tunnel e percorsi di arroccamento, continuamente costruiti, distrutti e ricostruiti. Da posizioni remote, nelle sale dei comandi, grandi carte geografiche permettevano a Cadorna e ai suoi generali di guardare l’intero dispiegamento del fronte, ma non permettevano altresì di vedere con precisione la natura dei luoghi, che dovevano essere controllati da osservatori mimetizzati, attraverso la mediazione di binocoli. E anche negli anni che seguirono il conflitto sono stati ancora strumenti della visione come le cineprese, spesso molto simili a certi sofisticati dispositivi di mira, a permettere di ricostruire l’immagine della Grande guerra sul grande schermo, a renderla vivida e mantenerla viva a distanza nel tempo. Ancora oggi, infine, analoghi strumenti, come carte geografiche, binocoli, guide e fotocamere indirizzano e condizionano lo sguardo degli escursionisti che tornano ad avvicinarsi ai teatri di guerra. Se durante il conflitto gli innumerevoli filtri interposti tra il desiderio di lasciar spaziare lo sguardo e l’impossibilità di farlo apertamente obbligarono a tracciare inestricabili geometrie visive tra punti il più possibile invisibili, ma collocati con attenta precisione, oggi, che tali costrizioni sono venute meno, una inversa eppure analoga difficoltà visiva affatica l'occhio impegnato nel tentativo di leggere trame ormai evanescenti. Una difficoltà, innanzi tutto, a individuare: l’arroccamento, la mimetizzazione, la costruzione ipogea, molteplici furono le tecniche adottate in tempo di guerra per rendere difficile l’avvistamento da parte nemica delle proprie postazioni. La prossimità, letterale e fenomenica, con la dimensione più materica della terra caratterizzava d'altra parte sia gli sguardi radenti dei soldati acquattati al suolo che il camuffamento delle uniformi, testimoniato anche nelle rappresentazioni dalla progressiva desaturazione delle tinte sgargianti in colori terrigni. In cento anni la roccia frantumata dalle bombe e il cemento disgregato dagli agenti atmosferici sono arrivati sempre più a confondersi. Le tecniche costruttive e le distruzioni, così come l’erosione del tempo e il ritorno dei prati hanno uniformato opere artificiali e opera di natura. Difficile, oggi, è ricongiungere i frammenti emergenti, ricostruire, guardando un manufatto diroccato, il sistema fortificato cui apparteneva, il territorio 84


verso cui era puntato e le retrovie che lo rifornivano. Ma anche, lasciando spaziare lo sguardo a scala più vasta, difficile è comprendere, guardando un campo di battaglia ormai vuoto, gli effetti sortiti sulle altre parti del fronte, i continui spostamenti di truppe e materiali tra i vari settori. Su tutto ciò, infine, la riappropriazione del territorio da parte dei suoi abitanti, che sulle vecchie linee hanno depositato nuove recinzioni, confini e strade, induce oggi ad attraversare e percepire quei luoghi secondo percorsi e punti di vista impensabili allora. Ricostruire e affastellare le molteplici forme della distanza, tuttavia, non serve a indurre soltanto un iniziale senso di spaesamento, ma intende contrapporvi l'individuazione di temi progettuali e allestitivi utili a pensare nuovi itinerari museografici, o meglio 'ecomuseografici', attraverso i paesaggi della memoria. Tra ricordo e memoria, d'altra parte, esiste uno scarto analogo a quello tra territorio e paesaggio, laddove il primo dei due termini fa riferimento a una presenza fisica data, oggettiva, ma non per questo automaticamente evidente, mentre tanto la memoria quanto il paesaggio esistono solo come frutto di una costruzione, di un’interpretazione selettiva, che stabilisce punti di vista e riallaccia legami. Nella costruzione del paesaggio, in altri termini, è fondamentale il sovvertimento, pur attento e consapevole, delle delimitazioni tra ambiti, tempi e forme narrative, al fine di penetrare dentro o sotto la forma cristallizzata delle cose, inventando – cioè recuperando – relazioni tra materiali e immaginari. «– Alt! Ferma là! Non vedi niente? – Ma cosa c'è da vedere? Sassi e buche – Prima regola: imparare a vedere! Io snaso a distanza tutto quello che c'è sotto terra. Questi occhi qua vedono dappertutto, anche sotto i sassi. Ah, caro mio, quando sarai stato su queste montagne tanti anni come me, imparerai anche tu a vedere come vedo io»3. Un difficile esercizio di messa a fuoco, di scarto laterale dello sguardo e della mente, si rendono necessari per poter vedere attraverso il tempo, le scale, le stratificazioni.

3. E. Olmi, I recuperanti, 1970.

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L’EX LINEA FERROVIARIA PIOVENE ROCCHETTEASIAGO*

I rapporti che legano molte delle grandi infrastrutture divenute famose durante il conflitto e i contesti locali in cui insistono sono spesso più intrecciati di quanto si possa presumere. Una storia caratterizzata dalla stratificazione di interessi e questioni è quella del gruppo di linee ferroviarie sorte tra Schio, Thiene e Arsiero e che saliva fino ad Asiago1. Fino alla metà dell’ottocento tutta la zona dell’Altopiano si trovava in una condizione di sostanziale isolamento, collegata alla pianura soltanto da quattro vie piuttosto impervie: una ripida mulattiera che scendeva a Cogollo del Cengio, dove diventava carrareccia, e tre lunghissime scalinate * La presente ricerca, oggetto di un intervento al ciclo di seminari Nella ricerca organizzato dal Dipartimento di Culture del progetto dell'Università Iuav di Venezia nel maggio 2014, compare anche nel saggio Memorie della Grande guerra e stratificazioni del territorio, in V. Ferrario, M. Roversi Monaco (a cura di), Nella ricerca. Paesaggio e trasformazioni del territorio, Iuav Dipartimento di Culture del progetto & Giavedoni editore, Venezia-Pordenone 2015. 1. A riguardo si vedano: G. Gasparella, G. Chiericato, Ferrovia a cremagliera RocchetteAsiago. La più ardita d’Italia, Edizioni Bonomo, Asiago 1995; G. Chiericato, A tutto vapore. Ferrovie e tramvie nel Veneto dal 1866 al 1900, Edizioni Bonomo, Asiago 2013; G. Chiericato, F. Segalla, I treni delle lane. Ferrovie tra la Val Leogra e la Val d’Astico, Edizioni Bonomo, Asiago 1995; G.L. Fontana, I Rossi, il Cai e l’altipiano. Strategie e realizzazioni per l’integrazione montagna-pianura, in Storia dell’Altipiano dei Sette Comuni, Accademia Olimpica, Neri Pozza, Vicenza 1996, vol. II, pp. 315-48.

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(Calà del Sasso, 4444 gradini, Piovega di Sopra, 4480 gradini, e Piovega di Sotto, 5680 gradini). La particolare sezione di queste ultime, caratterizzate dall'affiancamento di fasce lastricate leggermente concave, consentiva il trascinamento dei carichi, principalmente di legname e pietra, che stabilivano i principali rapporti commerciali con la pianura. Anche la costruzione nel 1854 della Grande strada carrozzabile del Costo, che risaliva il ripido versante sud-occidentale, non cambiò sostanzialmente la facilità né la velocità dei collegamenti, che superavano anche in discesa le cinque ore. Nel frattempo, giù in pianura, i territori adiacenti alle pendici dell’Altopiano stavano da tempo attraversando un periodo piuttosto speciale: nella seconda metà dell’ottocento la zona compresa tra Schio e Valdagno aveva visto, parallelamente al progressivo calo produttivo del comparto agricolo, un consistente sviluppo dell’industria manifatturiera nel settore tessile. In particolare quella del Lanificio Rossi costituisce una vicenda che ha avuto per diversi aspetti un’influenza importante sulla trasformazione di quelle aree: non solo alla crescita economica era seguita una generica espansione dei principali centri urbani, ma va anche ricordato come nelle idee dello stesso proprietario, Alessandro Rossi, lo sviluppo industriale andasse accompagnato con la cura del contesto territoriale, sia da un punto di vista sociale – celebre è la realizzazione del quartiere operaio di Schio – che infrastrutturale. Fu attraverso un’attività politica svolta con determinazione, come deputato e poi come senatore, che Rossi riuscì a dare l’avvio, nel 1875, alla costruzione di un primo gruppo di linee ferroviarie che collegavano Vicenza con Schio e di qui, seguendo il margine settentrionale della pianura, proseguivano verso ovest costeggiando il monte Summano e il Novegno e verso est insinuandosi nella valle dell’Astico fino ad Arsiero: una rete locale, che collegava gli opifici Lanerossi di Dueville, Marano, Pievebelvicino, Torrebelvicino, Schio e Rocchette, ma pensata per mettere a sistema anche altri punti nodali della zona, come il mattonificio di Villaverla o il nodo viabilistico di Motta. Già dal 1882 l’idea di una diramazione che salisse in Altopiano era stata sollevata e nel 1884 fu presentato il primo progetto: la tratta che già arrivava ad Arsiero sarebbe proseguita nella Val d’Astico fino a Pedescala e di qui la risalita sarebbe avvenuta lungo la Val d’Assa, passando per Castelletto, Rotzo e Roana2. La lunghezza di quel percorso, disegnato per una ferrovia a semplice aderenza, oltre al veto posto dall'autorità militare per ragioni di 2. Su un tracciato analogo venne costruita nel 1898 la Strada del Piovan.

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eccessiva prossimità al confine, contribuì a far studiare un tracciato diverso, più diretto sebbene più arduo: la seconda ipotesi, che seguiva la cosiddetta Via Barricata, spostava la risalita tra Cogollo e Cesuna, in prossimità della carrozzabile, per poi proseguire senza particolari pendenze fino ad Asiago. Le notevoli difficoltà dovute alla risalita del versante del Costo, e il conseguente impegno economico richiesto, determinarono il lungo protrarsi dell’elaborazione del progetto, fino all’approvazione governativa e l’avvio dei lavori nel 1907. Il 25 novembre 1909 la linea era completa e venne progressivamente messa in esercizio, dapprima in via provvisoria solo per passeggeri, successivamente aprendola anche al trasporto merci dal novembre 1910. Partendo da Rocchette il treno entrava in una lunga galleria di oltre 90 metri, la cui uscita immetteva direttamente nell’alto viadotto a traliccio che superava l’Astico: un’unica gigantesca travata semiparabolica rovescia, sospesa a 70 metri di altezza, in quel momento la più grande opera del genere nelle ferrovie italiane. Dalla stazione di Cogollo iniziava la scalata del Costo, con una cremagliera tipo Strub lunga quasi 6 chilometri a scartamento ridotto di 950 millimetri: caratteristiche entrambe pensate in previsione di un collegamento con analoghe linee da parte austriaca che tuttavia lo scoppio del conflitto rese impensabile3. La risalita, che attraversava sei gallerie a tornante, per una lunghezza complessiva di 1150 metri, superava un dislivello di circa 700 metri in meno di 6 chilometri e una pendenza massima del 12,5%. Inoltre dovettero essere previste molte opere accessorie, in particolare sottopassi, ponti minori e tratti in trincea, in ragione di una prescrizione governativa secondo cui la linea ferroviaria avrebbe dovuto funzionare in modo del tutto indipendente da quella stradale, evitando incroci a raso e passaggi a livello. Consistenti opere di completamento furono inoltre rese necessarie dagli alti consumi del treno: ogni risalita la locomotiva consumava 5 quintali di carbone e 4 metri cubi d’acqua, motivo per cui vennero predisposti, oltre ai magazzini di carbone nelle stazioni di testa di Rocchette e Asiago, ben cinque serbatoi d’acqua distribuiti lungo il tragitto, il maggiore dei quali era la grande cisterna interrata di Campiello, che aveva una capacità di 500 metri cubi. La difficoltà dell’intera opera, che richiese la realizzazione di manufatti di particolare complessità ingegneristica, non può essere spiegata solo 3. D’altra parte anche l’ingegnere chiamato da Rossi nel 1884 per redigere la prima variante del secondo progetto era l’austriaco Ferdinand Schacke di Graz.

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sulla base di esigenze di sviluppo dei traffici locali. Piuttosto essa apre a una serie di questioni comuni anche a molte altre infrastrutture costruite per fini militari in quegli stessi anni. In primo luogo va rilevato che fu proprio il valore strategico della Val d’Astico, individuata come una delle principali direttrici di attacco nell’eventualità di un conflitto con l’AustriaUngheria, a far scartare la prima ipotesi di tracciato, che arrivava troppo pericolosamente vicino al confine. Ma se in quel caso le autorità militari si erano dimostrate poco disponibili alla discussione, rispetto alla seconda ipotesi l’atteggiamento fu diverso: la nuova collocazione sul versante del Costo anziché lungo la Val d’Assa, non solo era decisamente più lontana, ma soprattutto si trovava al riparo da un eventuale tiro nemico, rendendo dunque la linea utilizzabile anche in caso di cannoneggiamenti. L’opportunità strategica di questa posizione poté essere effettivamente misurata in seguito alla Strafexpedition, quando gli austro-ungarici si affacciarono sulla pianura veneta dai monti Priaforà, Cengio e Paù: il treno, che non poteva più arrivare a Campiello, riusciva comunque a salire tutta la cremagliera per scaricare rincalzi e materiali. Tra questi il più pesante furono le migliaia di litri d’acqua che si resero necessari una volta che l’acquedotto di Asiago venne messo fuori uso. D’altra parte, una linea ferroviaria che risalisse in Altopiano avrebbe aperto una fondamentale via di trasporto pesante sia per la spedizione dei materiali da costruzione che poi per l’approvvigionamento della linea difensiva che si andava realizzando negli stessi anni. Nell’estate del 1915, addirittura, venne progettato un nuovo tronco che staccandosi a sud di Asiago avrebbe dovuto costeggiare la Val d’Assa: questa linea avrebbe dovuto supportare i forti italiani impegnati nelle dispendiose offensive contro lo sbarramento austriaco sugli Altopiani di Lavarone e Folgaria. I lavori, che avevano già visto la realizzazione di gran parte dei rilevati e delle trincee per la piattaforma, oltre all’accumulo della ghiaia per le massicciate, furono però interrotti bruscamente nel maggio del 1916. Per comprendere il ruolo della linea Rocchette-Asiago durante la guerra è utile richiamare la carente situazione infrastrutturale italiana, cui si è già fatto riferimento, che durante lo svolgimento del conflitto venne sottoposta a una pressione eccezionale. Si potrebbe ricordare come, per esempio, ad aggravare la rotta italiana di fronte alla Strafexpedition vi fu l’inadeguato tamponamento da parte dei rinforzi, dovuto a un imbottigliamento di treni che si verificò lungo le linee Verona-Vicenza, Padova-Vicenza e Vicenza92


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Schio. «Per un periodo di 8-10 giorni (durante l’offensiva austriaca) si ebbero in sosta a Vicenza normalmente da 6 a 9 treni in attesa del proseguimento, soste che si ripercuotevano sulle linee affluenti a Vicenza, traducendosi in ritardi che per parecchi treni raggiungevano le 10 ore»: con queste parole il colonnello Clemente Challiol descriveva la situazione venutasi a creare nel maggio 19164. Già in ottobre egli presentava alla I Armata una relazione tecnica sulla necessità di un incremento della rete ferroviaria vicentina in relazione all’urgenza della situazione militare. Sulla base delle indicazioni riportate, tra l’inverno e la primavera del 1917 il Comitato supremo fece realizzare in grande velocità importanti interventi: il raddoppio del binario della linea Vicenza-Schio, il raccordo tra le linee Vicenza-Schio, VicenzaTreviso e Vicenza-Padova senza passare per la stazione di Vicenza, la costruzione di una nuova stazione a Marano e l’ampliamento di quelle di Dueville, Thiene e Schio. Anche una nuova linea Vicenza-Malo-Schio era in programma, ma non fu mai approvata. Inoltre, sulla linea ThieneRocchette, all’altezza di Chiuppano, cioè nell’ultima superficie di pianura che si insinuava nella Val d’Astico, vennero costruiti dei tronchi ciechi, una serie di mezzelune disposte a raggiera, che mimetizzate nella vegetazione ospitavano artiglierie ferroviarie. Il transito dei pesanti convogli che trasportavano cannoni e munizioni, inoltre, richiesero lavori di rafforzamento delle massicciate e soprattutto dei ponti lungo le varie linee. A servire il fronte in Altopiano, inoltre, durante il corso del conflitto venne costruita anche una piccola rete ferroviaria a scartamento ridotto: una linea correva lungo il margine meridionale del massiccio, collegando Thiene con Marsan, un sobborgo tra Marostica e Bassano del Grappa, mentre un secondo asse andava da Dueville fino a Calvene, dove erano collocati enormi depositi di munizioni. Le diverse reti, strade, ferrovie, décauville, che circondavano il versante meridionale dell’Altopiano e oggi appaiono sistemi frammentari, in larga parte scomparsi o dismessi, erano negli anni della guerra razionalmente integrati tra loro: da Marsan passava la strada che collegava Bassano a Conco, mentre da Calvene nel 1917 fu aperta la cosiddetta Strada della Salvezza dell’Altopiano, che saliva a Granezza sul monte Corno e fu usata per il trasferimento in Altopiano delle truppe alleate5, rivelandosi di vitale importanza nei momenti più critici dopo il novembre 4. Citato in G. De Mori, Vicenza nella guerra 1915-1918, Giacomo Rumor editore, Vicenza 1931. 5. A Calvene si era stabilito un comando britannico e l’ospedale militare, le truppe invece venivano acquartierate a Granezza, in prossimità della cosiddetta “linea marginale”.

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1917. Lo stesso ingegnere Doglioni di Belluno, che aveva progettato questa strada, nei mesi successivi seguì la costruzione anche delle vie che dal vicino monte Cavalletto portavano a Caltrano e a Cesuna e che servirono, oltre che al trasporto dei soldati, anche a quello di migliaia di “operai borghesi” impegnati dall’autunno del 1916 nella costruzione delle nuove linee difensive di ripiegamento volute da Cadorna, nell’eventualità di una nuova offensiva austro-ungarica sull’Altopiano: trincee, camminamenti, appostamenti, ricoveri e piazzole per le artiglierie componevano la “linea marginale” (monte Corno-cima Fonte-Foraoro-Paù), la “linea delle colline”, la “linea di Lusiana” (Conco-Vittarolo-Campana-Mare-Calvenemonte Grumo) e la “linea del Leogra”. Sull’Altopiano, come altrove nelle montagne italiane, gli anni che precedettero il conflitto videro la dismissione di boschi, pascoli e alpeggi, delle vecchie vie e dei sentieri, mentre al loro posto sorgevano forti, trincee, bunker, collegati da mulattiere, strade e ferrovie. Tuttavia, le relazioni che si stabilirono tra i nuovi manufatti di prima linea e le infrastrutture sorte alle loro spalle non sono semplicemente funzionali. Le difficoltà costruttive dettate dalla lotta contro orografie difficili – la risalita di ripidi versanti, lo scavo di gallerie e la costruzione di rilevati – vanno spiegate ricordando le trasformazioni dei sistemi di fortificazione permanente avvenute sul finire del secolo, quando all’aumento di potenza e precisione delle artiglierie aveva fatto seguito una corsa alle postazioni più elevate. Per raggiungerle, costruirle e trasportarvi i pesanti obici, si rese necessario realizzare gallerie, massicciate, tornanti e viadotti. È interessante osservare come tra queste opere infrastrutturali e le fortificazioni a monte si stabilisca una sorta di analogia formale, laddove le stesse tecniche di scavo e modellazione del terreno venivano impiegate, quasi contemporaneamente, sulle vette e sui versanti. La fase di infrastrutturazione bellica, tuttavia, non esaurì la propria influenza semplicemente con l’apertura di nuovi collegamenti, ma inaugurò nuove forme di sviluppo, rivelandosi, per esempio, uno straordinario banco di prova per la lunga stagione a venire di realizzazioni infrastrutturali nelle zone montane: i viadotti autostradali, le centrali idroelettriche e le dighe che nel secondo dopoguerra, in una stagione particolarmente feconda per l’ingegneria italiana, trasformeranno radicalmente il corrugato territorio alpino saranno spesso realizzate da grandi imprese edili che avevano iniziato la propria attività proprio con commesse militari6. 6. Cfr. M. Ermacora, Cantieri…, cit., pp. 27-28.

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Oltre al complicato rapporto tra interessi locali ed esigenze militari che sta all’origine di molte infrastrutture legate alla Grande guerra, una stratificazione di usi, abbandoni e riusi caratterizza altrettanto sovente la loro storia. Il forzato processo di antropizzazione che investì molti luoghi lungo il confine italo-austriaco ha modificato per sempre le dinamiche di utilizzo del territorio, non solo come supporto a un’espansione industriale, ma dando sensibile impulso al turismo, che ebbe ruolo fondamentale nel processo di ricostruzione postbellica. Una volta conclusa la guerra, la ferrovia Rocchette-Asiago, che era servita a trasportare munizioni, artiglierie e soldati, si rivelò perfettamente adeguata anche al trasporto di materiali commerciali – prevalentemente legname e pietra, ma anche straordinarie quantità di materiali ferrosi raccolte dai "recuperanti" – e di escursionisti e sciatori che salivano in Altopiano d’estate e d’inverno. Se in un primo tempo la linea fu impiegata principalmente per la dismissione dei campi di battaglia, riportando a valle tonnellate di ferro destinato alle fonderie, e per la ricostruzione dei centri abitati, già nel 1922 il numero di treni passeggeri superava quello dei treni merci. Sul finire dell’ottocento il settore ricettivo in Altopiano aveva iniziato a muovere i primi passi, ma fu tuttavia soltanto nel dopoguerra che quei territori, che dovevano ricostruire la propria identità oltre che le proprie case, si inventarono come luoghi di turismo. E a sua volta fu la nuova immagine di ambiente montano incontaminato presentata ai turisti che contribuì alla ripresa e alla diffusione ben oltre i livelli precedenti di molte delle produzioni agro-silvo-pastorali locali. Tuttavia, se la linea ferroviaria ebbe ruolo determinante nell’affermazione di un’immagine di vacanze e riposo in Altopiano, il veloce prevalere del trasporto su gomma fu paradossalmente causa della sua dismissione: quel “trenino” a vapore, che oggi suscita sentimenti di nostalgico rimpianto, con i suoi 10 km/h nel tratto a cremagliera7 e il fastidio dei fumi in galleria8, era sempre meno competitivo in un periodo di boom automobilistico come il secondo dopoguerra. D’altra parte, ancora una volta furono vicende belliche a svolgere un ruolo decisivo nel destino di quel gruppo di linee. Se durante il secondo conflitto queste ferrovie non furono più direttamente impegnate in prima linea, subirono ugualmente gravi perdite in quanto infrastruttura militare strategica. La situazione si aggravò decisamente quando i tedeschi 7. Leggenda vuole che fosse usanza diffusa tra i giovani scendere e risalire dal treno 'in corsa' durante la salita per raccogliere narcisi da offrire alla propria bella. 8. Nel 1933 venne predisposto un progetto per l’elettrificazione della tratta, ma gli ingenti costi ne impedirono la realizzazione.

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decisero di costruire un sistema di opere fortificate in Altopiano: i treni che trasportavano materiali da costruzione e gli operai della Todt furono frequente bersaglio di bombardamenti alleati e azioni di sabotaggio da parte dei partigiani. Il caso più eclatante fu la distruzione del viadotto sul Posina, lungo la tratta Rocchette-Arsiero. La ricostruzione postbellica avvenne parallelamente al processo di motorizzazione degli italiani, che gravi effetti ebbe sulle aziende di trasporti pubblici in generale. Così fu anche per la linea Torrebelvicino-Schio-Rocchette, il cui tratto occidentale era stato chiuso già nel 1925 e che fu definitivamente soppressa nel 1949. Nel 1958 l’ultimo treno salì da Rocchette ad Asiago, anche se il costoso smantellamento della linea non avvenne per lungo tempo: il traliccio del ponte sull’Astico, ormai in cattive condizioni, venne demolito solo nel 1966 e solo nel 1977 i binari vennero effettivamente rimossi. Nel 1964, intanto, la soppressione anche della tratta Thiene-Rocchette-Arsiero aveva chiuso definitivamente la storia di questo gruppo di ferrovie. Al giorno d’oggi, la dismissione della linea non ha ancora visto un suo coerente riutilizzo. Mentre sono stati riconvertiti quasi tutti gli edifici di caselli e stazioni, risulta frammentato e di più difficile riciclo il tracciato della linea ferrata: la parte più pianeggiante, tra Campiello e Asiago, è divenuto una non meglio definita pista ciclabile e strada per passeggiate, utilizzata in periodo invernale come pista per lo sci nordico. Il tratto della risalita, invece, quello più spettacolare, ma anche di più difficile fruizione, rimane frammentato tra proprietà private e gallerie in stato di degrado, spesso anche strutturale. L’abbandono del vecchio tracciato ha lasciato in sospeso una serie di luoghi, cui corrispondono altrettante potenzialità: nell’ipotesi di un suo riciclo come itinerario escursionistico, le stratificazioni che la storia ha depositato offrono indubbiamente molteplici occasioni per costruire un percorso fatto dell’intreccio di diversi racconti. Partendo da Rocchette, il primo incontro è quello con lo stabilimento dismesso della Lanerossi, collocato in un luogo straordinario lungo le rive del torrente Astico: da quella posizione ribassata rispetto al centro abitato svaniscono i rumori del traffico contemporaneo, mentre la vista è isolata dai i ripidi versanti completamente ricoperti di vegetazione, in cima ai quali dominano il nuovo viadotto della strada provinciale e la rovina del vecchio ponte ferroviario. Il suggestivo rapporto che storia industriale e 97


storia infrastrutturale intrattengono, come anche la posizione di testata rispetto all’intero itinerario, fanno facilmente immaginare quel manufatto in rovina diventare un centro accoglienza ed espositivo, dove il racconto è accompagnato dalla possibilità di costruire una serie di viste sulle tracce materiali di quelle vicende. Appena oltrepassata la rovina del vecchio viadotto, laddove il tracciato emerge nella pianura della Val d’Astico e incrocia la nuova provinciale verso Cogollo, la vista si apre improvvisamente. Di fronte si eleva imponente il Costo, sul quale è possibile leggere lo zigzagare dei tornanti che lo risalgono: il più nitido è il segno della provinciale, mentre della vecchia carrozzabile sono riconoscibili solo brevi tratti; la linea della ferrovia, invece, è ricostruibile solo congiungendo mentalmente gli edifici dei caselli, che spuntano isolati e apparentemente casuali nella vegetazione, ma la cui collocazione individua in realtà alcuni punti notevoli dell’orografia del versante. Spostando a sinistra lo sguardo, il monte Cimone chiude sullo sfondo la valle, mentre più vicina spunta tra gli alberi la piccola chiesa longobarda di Cogollo: raggiungibile con una breve deviazione tra campi e siepi, il manufatto non presenta caratteri in sé straordinari, ma è interessante l’attenta collocazione in cima a un leggero rilievo, dal quale è possibile emergere al di sopra del livello della vegetazione di fondovalle. Poco oltre, alle pendici del monte Summano, svetta lo sperone roccioso su cui sorge il castello di Meda, che in epoca medievale assieme ai castelli di Velo e di Pion-Sangiorgio costruiva un sistema di fortificazioni dominante sull’imbocco della valle; divenuto in seguito un eremo, il colle venne attrezzato nuovamente durante la Prima guerra mondiale come postazione di artiglieria. Superato l’abitato di Cogollo inizia la risalita del versante, che ben presto raggiunge una quota tale da permettere di leggere chiaramente tutta la conformazione orografica della zona. Con il carattere a prima vista ordinario del percorso, poco più di un sentiero tra gli alberi, contrasta la potenza degli interventi di modellazione del terreno: tratti in rilevato e poi in trincea, strette gallerie, possenti muri di contenimento. Come già accennato, una relazione di analogia tecnica e formale avvicina le opere realizzate per la ferrovia e le fortificazioni arroccate sulle cime delle montagne. Quasi a inconscia conferma anche una relazione visiva si stabilisce tra le gallerie a tornante del Costo e le gallerie a strapiombo sul monte Cengio. Come cannocchiali puntati su inquadrature fisse, che 98


isolano particolari del paesaggio, quei tunnel oggi bui e vuoti sembrano disponibili ad allestimenti tematici, dalla memoria dei grandi cantieri bellici alla rilettura dei sistemi di punti strategici a controllo del territorio. Infine, una volta raggiunta la sommità dell’Altopiano, la compresenza di percorsi escursionistico-sportivi sul sedime della vecchia ferrovia sembra dimostrare che un suo riuso non presenta sostanziali problemi. Tuttavia questo vale soprattutto per i tratti di linea che corrono tra pascoli e boschi, mentre rimangono generalmente irrisolti i nodi in corrispondenza dei centri urbani. Ciò è evidente in modo particolare passando davanti alle vecchie stazioni che, anche se riconvertite al loro interno, ben poco dialogano con lo spazio circostante: soprattutto, attraversando oggi i grandi e spesso vuoti parcheggi che le circondano, colpisce come sia venuta meno quell’articolazione, probabilmente anche caotica, che caratterizzava una volta quei piazzali, dove tra affastellamenti di legname, armi e valigie erano passati emigranti, soldati e turisti. La ricostruzione delle vicende storiche o anche il semplice ripercorrere tracciato fisico della vecchia linea offrono numerosi spunti per aperture a temi e luoghi diversi, per costruire relazioni molteplici: relazioni fisiche, quando effettivamente il percorso attraversa o raggiunge con deviazioni luoghi precisi; oppure relazioni di tipo narrativo, che possono essere stabilite sia con l’uso di dispositivi tradizionali di tipo grafico (pannelli), ma soprattutto attraverso la risistemazione di alcuni passaggi; o infine relazioni di tipo visivo, ancora una volta strettamente legate a interventi architettonici più o meno puntuali. Si tratta di immaginare un itinerario lineare, scandito però da una serie di “sezioni trasversali”, capaci di attrarre nello spazio del percorso una serie luoghi più o meno vicini attraverso il racconto delle storie che li accomunano. Nell’ottica di una fruizione contemporanea diversa del territorio, caratterizzata da un’offerta turistica diffusa, ma anche da una riattivazione della memoria storica dei luoghi, che provi a rileggere la Grande guerra non solo nella sua componente strettamente bellica, ma per le sue relazioni intessute con il territorio, il rapporto, anche conflittuale, ma sicuramente suggestivo, che quel tracciato istituiva con il paesaggio costituisce senza dubbio una straordinaria ricchezza.

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L’Altopiano sembra fatto apposta, come misura di scala e morfologia, per proporsi come un mondo a sé: microe macrocosmo, né troppo piccolo né troppo grande, lo spazio altopianese si presta ad accogliere e poi trattenere un concentrato di vita di guerra. (Mario Isnenghi, L’«isola della memoria»)


INFRASTRUTTURE DELLA MEMORIA* Alberto Doncato

La pianura vicentina fino all’Altopiano di Asiago dal comando militare italiano di villa Giusti a Vicenza: è questa la vista che meglio ritrae uno dei principali teatri di guerra delle Prealpi. Lo sguardo verso il fronte lontano. Davanti, la pianura: oggi diffusamente urbanizzata, allora attraversata da un'altrettanto densa rete infrastrutturale, logistica e di servizio, che dalle retrovie saliva ai campi di battaglia. A più di cento anni di distanza le tracce che rimangono di quel conflitto consistono prevalentemente in segni ridotti e isolati sul territorio, laconici campi di battaglia, solchi semiricoperti di trincee. Ciò che però sfugge all’occhio di chi oggi torna a percorrere quei luoghi divenuti di vacanza è il sistema infrastrutturale, realizzato per muovere e sostenere le truppe, ma ancora usato, seppur inconsapevolmente, da eserciti di escursionisti; una rete che durante la guerra fungeva da spina dorsale dall'esercito schierato in Altopiano, permetteva i collegamenti, lo spostamento di truppe, armamenti e vettovaglie. E i numeri che raccontano le * Il presente contributo riprende alcune parti dall'omonima tesi di laurea in architettura, relatore prof. Alberto Ferlenga, correlatore Andrea Iorio, sostenuta nel luglio 2015 presso l'Università Iuav di Venezia. Le ricognizioni preliminari e gli indirizzi progettuali sono stati elaborati in relazione alle ricerche presentata in questo volume.

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infrastrutture realizzate appena prima e soprattutto durante il conflitto sono impressionanti: 1200 km di nuove linee ferroviarie, 2500 teleferiche, 100 km di rete acquifera e più di 1500 km di rotabili, con una straordinaria concentrazione sull’Altopiano di Asiago, che lo rese una delle zone montane a maggior densità stradale del mondo. L’Altopiano è un luogo particolare, un contesto contenuto e circoscritto, che fu teatro di avvenimenti e temi chiave di un intero conflitto. Dallo storico Mario Isnenghi è definito «isola della memoria», che «la natura […] ha dotato di netti e riconoscibili orli e perimetri. Come un’isola a mille metri. La natura e la storia, sempre intrecciate: i boschi, i campi, le greggi, tutto è lavoro umano»1. Sulla carta geografica è ancora più leggibile: un massiccio compatto, compreso tra le valli dei fiumi Astico e Brenta, che si erge come una grande terrazza, delimitata da aspre scarpate e affacciata a più di 1000 metri d'altezza sulla pianura veneta. Al suo interno racchiude un microcosmo, rivolto verso la conca centrale, dalla quale si dirama una successione di vallate, circondate da una corona di cime montuose tra i 1500 e i 2000 metri. Le dimensioni contenute del contesto sembrano contrastare con l'enormità degli avvenimenti che vi si svolsero, lasciando un numero estremamente alto e diffuso di resti: un patrimonio di tracce, manufatti e infrastrutture che, ancora a cento anni di distanza, permette di intravedere sotto l'immagine di luogo pacificato le cicatrici del passato assetto bellico, il brulicante avvicendarsi di uomini e mezzi, l'assordante e incessante martellare delle artiglierie. Il progetto, intitolato Infrastrutture della memoria, si costruisce su un disegno complessivo che prevede la costruzione di un nuovo museo dedicato alla Grande guerra collocato ad Asiago ai piedi del Sacrario del Leiten, in posizione sostanzialmente baricentrica, e da quattro grandi itinerari storico-turistico che si dipartono per l'Altopiano. Il museo è pensato per raccogliere una selezione di alcuni dei materiali già presenti nei molti piccoli musei dedicati al conflitto presenti nell'intorno, accompagnandoli però con una serie di sezioni tematiche volte, più che alla semplice esposizione di documenti o reperti, alla spiegazione dei modi secondo cui la guerra si è insediata e si è mossa sul territorio, modificandolo in profondità. Di qui i quattro itinerari, intitolati ai quattro anni di guerra, inanellano i luoghi in cui svolsero le principali vicende, 1. M. Isnenghi, L'«isola della memoria», in V. Corà, M. Passarin (a cura di), Guerra sull'Altopiano, Cierre edizioni, Verona 2014, p. 3.

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Infrastrutture militari, italiane a austriache, realizzate in Altopiano al 1918

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richiamando di volta in volta una serie di temi che permettono di allargare il racconto e incrociare questioni più ampie. La suddivisione in itinerari, inoltre, permette di pensare a una loro realizzazione per parti successive nel tempo, cercando così di ovviare ai problemi che un intervento unitario porrebbe. Il principio secondo cui i percorsi sono costruiti è quello del riuso di tracciati esistenti, per lo più ricalcando e dando nuova evidenza alle infrastrutture realizzate e utilizzate dai due eserciti nel corso del conflitto. A tal fine l’attuale rete di strade, mulattiere e sentieri è stata oggetto di un confronto puntuale, basato su una preventiva attività di mappatura, che ha permesso di rintracciare le linee belliche, ma che si è anche potuta confrontare con i tracciati oggi attivi. In questo senso, l'aspetto che è stato ritenuto fondamentale per la realizzabilità e soprattutto per la sostenibilità futura della nuova rete di percorsi è la sua integrazione con le attività turistiche esistenti: l’Ecomuseo della Grande guerra, la rete deisentieri del Cai, itinerari naturalistici e manifestazioni sportive (mountain bike, trekking, corse podistiche, parapendio, arrampicata sportiva) o ancora l’offerta didattica per le scuole, gli itinerari legati alle tradizioni altopianesi o alla promozione del settore gastronomico. Dal punto di vista tecnico i percorsi sono pensati in modo da essere fruibili per un pubblico differenziato, ma sufficientemente vasto. La lunghezza è compresa tra i 40 e i 50 chilometri, con tempi medi di percorrenza che si attestano sui 2-4 giorni, a seconda che vengano affrontati in mountain bike o a piedi. Criterio fondamentale per il loro tracciamento, inoltre, è stato lo studio dell’altimetria, al fine di mantenersi all'interno di quote comprese tra i 1200 e i 2000 metri, cioè nella media rispetto ai percorsi ciclabili già presenti in Altopiano. Il museo di Asiago non esaurisce il suo ruolo come semplice esposizione, ma costituisce il punto informativo, logistico e di partenza (postazione di bike-sharing e capolinea di un sistema di bus navetta) per un sistema di visita attrezzato in modo minuto e diffuso nel territorio: piccoli volumi, realizzati con strutture in acciaio e rivestimento in legno e autosufficienti dal punto di vista energetico, vengono aggregati a costruire una serie di aree ricettive, collocate in punti strategici lungo gli itinerari, in modo da scandire i tempi di percorrenza e favorire l'intermodalità. In tal senso la presenza di molteplici punti di accesso agli itinerari, oltre che di attrezzature di sostegno agli escursionisti, è volta a garantire una fruibilità diversificata sulla base di esperienza e disponibilità di tempo. 104


Schema complessivo del sistema di visita in relazione alle principali vicende del conflitto e vista di un 'appostamento visivo'

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1915

Una delle vicende che, seppur circoscritta nel tempo, è rimasta più impressa nella memoria collettiva, e che sicuramente ha lasciato alcune delle rovine più affascinanti, è quella legata alla cosiddetta "guerra dei forti". Se le famose batterie corazzate, collocate sulle principali vette, si scambiarono i colpi di potenti artiglierie per poche settimane, arrivando ben presto a un punto di stallo, la trama di traiettorie visive e balistiche che inaugurarono era però destinata a proseguire e a infittirsi anche con lo stabilizzarsi della guerra di posizione. Il primo itinerario prende simbolicamente le mosse da forte Verena, in ricordo del colpo di cannone che diede inizio ufficialmente alla guerra, per proseguire verso il Portule. Qui un punto di belvedere, attrezzato con un pannello informativo semitrasparente, permette di rileggere la rete di infrastrutture realizzata all'epoca del conflitto, con 106


l'intento di esplicare il ruolo del Portule quale chiave di volta per il controllo della zona nord degli altopiani. Ridiscendendo al Vezzena, raccontato da Fritz Weber in Tappe della disfatta, dove sono visitabili le rovine dei forti Vezzena e Verle, l'itinerario procede verso sud percorrendo il campo di battaglia di col Basson e monte Costesin, i primi luoghi montani della storia a ospitare scontri in cui furono utilizzate trincee. Una breve deviazione permette di raggiungere il forte austro-ungarico Luserna, sulle pendici dell’Altopiano, mentre la conclusione dell'itinerario avviene in corrispondenza del forte Campolongo, recentemente restaurato, testimonianza del primo attacco portato dagli austro-ungarici con i famigerati mortai Skoda da 305 e per questo individuato come luogo simbolico per il passaggio dalla "guerra dei forti" alla successiva "guerra di trincea". 1916

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La vicenda più famosa del secondo anno di guerra sull'Altopiano è indubbiamente la Strafexpedition, la grande offensiva in seguito alla quale gli austro-ungarici riuscirono a penetrare a fondo nell'Altopiano, fino ad affacciarsi sulla pianura veneta. L’itinerario ripercorre le fasi principali dell’offensiva tra maggio e giugno, quando le truppe imperiali avanzarono fino al limite sud dell’Altopiano, raggiungendo il monte Cengio, ultimo baluardo della difesa italiana. La sistemazione del piazzale dei Granatieri, punto di contatto tra i percorsi carrabili e ciclabili e l'accesso alla famosa mulattiera di arroccamento, prevede la collocazione di strutture espositive legate all'illustrazione del complesso sistema insediativo e infrastrutturale realizzato in seguito dagli italiani, con la possibilità di allargare il discorso e lo sguardo alle reti che raggiungevano l'Altopiano dalla pianura veneta. La successiva discesa raggiunge la strada del Costo vecchio, fino a immettersi nel tracciato della cosiddetta Vaca Mora, la ex ferrovia a cremagliera che saliva da Piovene Rocchette ad Asiago e che durante la guerra costituì la linea fondamentale per la movimentazione delle truppe e il rifornimento delle prime linee. L'itinerario prosegue verso i monti Lemerle e Zovetto, dove l’avanzata austriaca venne fermata definitivamente, mentre l’anello si conclude con la visita al campo di Granezza, centro logistico italiano di raccordo con la pianura, e alle trincee del monte Corno. 1917 Anno chiave della guerra sugli altipiani, il 1917 rimane tristemente famoso per alcune devastanti battaglie: bloccata l'offensiva del 1916 prima di riuscire a scendere nella pianura, l'esercito austro-ungarico si era ritirato su posizioni più favorevoli, controllando sostanzialmente il quadrante nord-ovest dell'Altopiano. Al fine di riconquistare il terreno perduto, ma anche come simbolica rivincita, l'esercito italiano fu impegnato in alcune delle offensive più potenti e più dispendiose in termini di vite umane dell'intero conflitto: tra tutte rimangono tristemente famose le vicende che si svolsero sui versanti di Zebio e Ortigara. Il percorso, che si snoda sulla cresta montana che conduce a cima Portule, accompagna la visita alle batterie dei monti Mosciagh e Meatta fino a giungere al caposaldo del monte. La discesa avviene sulla Erzherzog Eugen Straße, strada di 6 km di lunghezza costruita da 1300 soldati austro-ungarici in soli 32 giorni. Il percorso raggiunge quindi Campo Gallina, principale accampamento 108


austro-ungarico sull’Altopiano, che ospitò fino a 25.000 soldati tra il 1916 e il 1917. Oltrepassato monte Forno si giunge sul sito piĂš famoso della zona, compreso tra il monte Ortigara, cima della Caldiera e monte Lozze, dove si possono visitare i famosi campi di battaglia ormai silenziosi, ma il cui suolo fatto di rocce sminuzzate e frammenti di ferro rievoca sotto i passi il fragore delle cannonate. L’itinerario prosegue poi verso la Piana di Marcesina e si conclude raggiungendo il monte Zebio, raccontato da Lussu in Un anno sull'Altopiano, e collegandosi alle recenti e frequentate sistemazioni di alcune trincee austriache e di alcune strutture di retrovia appartenenti alla rete dell'Ecomuseo altopianese.

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1918

L’itinerario del 1918 si riferisce all'ultimo, ma non meno impegnativo, anno di guerra, dalla disperata offensiva austro-ungarica verso la valle del Brenta fino ai giorni che seguirono la battaglia di Vittorio Veneto e che videro la discesa dell'esercito italiano dall'Altopiano verso Trento. Il percorso, che si snoda in direzione dei monti appena a nord-est di Asiago, conduce inizialmente sul monte Longara, per proseguire verso le Melette e monte Fior, teatro tra gennaio e giugno 1918 di violenti scontri. Quest’area, caratterizzata da paesaggi di notevole bellezza, presenta ancora centinaia di metri di trincee semisepolte: la realizzazione anche in questo caso di un 'appostamento visivo' realizzato con la collocazione di 110


un panorama storico intende rendere nuovamente leggibili, sotto i pascoli ripristinati dagli abitanti in seguito alla guerra, gli intricati reticoli di trincee, seconde linee, teleferiche e mulattiere realizzati dai due eserciti. Il percorso ridiscende verso la vallata del Brenta, fondamentale punto di raccordo per il rifornimento del margine est dell’Altopiano e risale verso la località detta dei Tre Monti, col del Rosso, col d'Ecchele e monte Valbella, teatro nel giugno 1918 della più grande battaglia d’artiglieria campale della Prima guerra mondiale e prima offensiva italiana dopo la disfatta di Caporetto, per concludersi infine nei pressi del monte Echar, dove viene collocato l'ultimo 'appostamento visivo'. L’Austria-Ungheria, ormai allo stremo delle risorse, tentò l’ultimo grande assalto il 15 giugno del 1918, ma il fronte dell’Altopiano resistette all’urto, anche grazie all’aiuto di truppe francesi e inglesi: i Tre Monti divennero di nuovo italiani dopo il vittorioso contrattacco del 30 giugno, in cui gli austriaci persero quasi 2000 prigionieri. La guerra era ormai sulla via della fine. La compresenza di terribili memorie, sepolte sotto un sottile strato d'erba, e l'idilliaco paesaggio montano adatto a un tranquillo escursionismo vacanziero fanno dell'Altopiano un luogo più denso e più riccamente contraddittorio di quanto una certa sua immagine sembrerebbe voler indicare: proprio in tale complessità la rete di itinerari Infrastrutture della memoria ha inteso leggere un'occasione straordinaria, tanto più nella ricorrenza del Centenario, di condurre un'esplorazione progettuale che concepisca il preservare una memoria come la riattivazione dei legami con il territorio che ne è stato teatro, dove il racconto del passato si confronti con le attuali modalità di vivere e fruire quei luoghi.

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Finito di stampare nel mese di settembre del 2016 dalla tipografia «la Cromografica S.r.l.» 00156 Roma – via Tiburtina, 912 per conto della «Gioacchino Onorati editore S.r.l. – unipersonale» di Canterano (RM)



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Il riciclo strategico

Il riciclo strategico è il trentunesimo volume della collana Re-cycle Italy. La collana restituisce intenzioni, risultati ed eventi dell’omonimo programma triennale di ricerca – finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – che vede coinvolti oltre un centinaio di studiosi dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggio, in undici università italiane. Obiettivo del progetto Re-cycle Italy è l’esplorazione e la definizione di nuovi cicli di vita per quegli spazi, quegli elementi, quei brani della città e del territorio che hanno perso senso, uso o attenzione. Di fonte alla straordinaria e capillare diffusione di tracce lasciate dalla Grande guerra nel territorio del Triveneto, l’approfondimento parte dal rilevarne la sostanziale fragilità, dovuta non solo all’opera del tempo che ha causato inesorabilmente il disgregarsi strutture di cemento e ferro realizzate per resistere all’urto di artiglierie potentissime, ma dovuta soprattutto al venire meno di quelle trame di relazioni fisiche, visive e simboliche che tenevano insieme campi di battaglia, retrovie e, in seguito, luoghi della memoria. Ripercorrere le storie di alcuni di quei legami, prestando particolare attenzione ai tracciati infrastrutturali trasformati o dismessi, costituisce l’occasione per esplorarne di nuovi con le attuali modalità di attraversamento di un territorio caratterizzato da un’apparentemente inestricabile stratificazione.

isbn

IL RICICLO STRATEGICO MEMORIE DELLA GRANDE GUERRA E STRATIFICAZIONI DEL PAESAGGIO VENETO CONTEMPORANEO

978-88-548-9654-3

Aracne

euro 16,00

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