Emilio Salgari
I misteri della giungla nera


IL MULINO A VENTO
Per volare con la fantasia
IL MULINO A VENTO
IL MULINO A VENTO
Collana di narrativa per ragazzi
Coordinamento di redazione: Emanuele Ramini
Team grafico: Enzo Bocchini
2019
Raffaello Libri S.p.A. Via dell’Industria, 21 60037 - Monte San Vito (AN) www.grupporaffaello.it - info@grupporaffaello.it www.ilmulinoavento.it - info@ilmulinoavento.it
Printed in Italy
I Edizione 2019
Ristampa:

www.facebook.com/GruppoRaffaello
È assolutamente vietata la riproduzione totale o parziale di questo libro senza il permesso scritto dei titolari del copyright.
Emilio Salgari
I misteri della giungla nera
Adattamento di Tommaso Viglione

Illustrazione di copertina
Erika De Pieri
Tremal–Naik
Lasera del 16 maggio del 1855, un fuoco enorme arse nelle Sunderbunds meridionali, isole paurose in cui nessuno aveva il coraggio di avventurarsi. Si trovavano vicino al fangoso fiume Mangal, che si stacca dal Gange e va a gettarsi nel golfo del Bengala. Quel chiarore spiccò vivamente sul cielo blu e illuminò una capanna di bambù, ai piedi della quale dormiva un indiano. Aveva un fisico atletico e muscoloso, segno di una forza e di un’agilità superiore a qualsiasi altro essere umano. Era un bengalese, giovane, dalla pelle giallastra e lucida, i bei lineamenti, le labbra carnose e i denti bianchi e luminosi; il suo naso era ben tornito e la fronte spaziosa. A una semplice vista, quell’uomo esprimeva una energia rara e un coraggio straordinario. In quel momento dormiva, ma di un sonno agitato. Dalle sue labbra uscivano parole tronche e frasi bizzarre, pronunciate con un tono di voce dolce e appassionato. – Eccola – diceva egli sorridendo. – Il sole tramonta e scende sotto i bambù... Perché non ti mostri? Che ti ho fatto io di male? Non è questo il luogo giusto? Appari a me, ti prego. Io soffro, soffro tanto e ho bisogno di rivederti. Ah, eccola, eccola! Ecco i suoi occhi azzurri
che mi guardano, le sue labbra sorridono... Oh, come è divino quel sorriso! Mia celeste visione, perché rimani in silenzio davanti a me? Perché mi guardi così e non mi parli? Non temere: sono Tremal–Naik, il cacciatore di serpenti della giungla nera... Parla, lascia che io oda la tua sublime dolce voce... Il sole tramonta, le tenebre calano come corvi sui bambù... non sparire, non sparire, non lo voglio! Ti prego, non sparire!
L’indiano emise un grido di dolore e sulla sua faccia si dipinse una viva angoscia.
A quel grido, dalla capanna uscì, correndo, un secondo indiano.
Era Kammamuri.
– Povero padrone – mormorò egli, guardando con dolcezza l’addormentato. – Chi sa quale terribile sogno turba il suo sonno. – Padrone, padrone… Cos’hai?
– Soffro, caro Kammamuri, soffro – rispose egli con vivida rabbia.
– Che dolore ti affligge? Dimmi pure…
– È l’immagine di una donna…
– Ma dove l’hai vista? – domandò il servo. – Nella giungla vivono solo tigri…
– L’ho vista una sera in cui cercavo serpenti – disse Tremal–Naik con voce triste. – Ero vicino a un ruscello e l’ho vista: era la donna più bella che si possa immaginare! Aveva occhi neri, denti bianchissimi, pelle abbronzata
e capelli castani sciolti sulle spalle; profumava e il suo odore era inebriante. Quella donna mi guardò, emise un gemito lungo, straziante, poi scomparve. Io mi sentii incapace di muovermi e rimasi là, con le braccia tese, trasognato. Quando mi riscossi, incominciai a cercarla, ma era giunta la notte e non vidi né udii più nulla.
– E chi era mai quella creatura fantastica? – chiese il servo.
– Non lo so, Kammamuri, non lo so. Questo mi tormenta. Ma credi… era bellissima.
– E da quella volta non l’hai vista più?
– Sì, l’ho vista molte altre volte. La sera successiva, alla stessa ora. Ero sempre sulle rive del ruscello. La luna era alta e quella creatura fantastica riapparve davanti a me.
– Chi sei? – gli chiesi.
– Mi chiamo Ada – mi rispose.
Poi sparì emettendo lo stesso lamento. Mi sembrò che fosse stata inghiottita dalla terra. Rimasi impietrito, senza parole.
La vidi per dieci volte di seguito; alla stessa ora appariva davanti ai miei occhi, mi fissava in silenzio, poi scompariva, sempre senza rumore. Una volta le feci un cenno, ma non si mosse; un’altra volta aprii la bocca per parlare, ma ella mi fece segno di tacere.
– E tu non hai mai provato a seguirla?
– No… perché quella donna mi incuteva timore. L’ultima volta che l’ho vista è stato quindici giorni fa: mi è apparsa vestita di seta rossa e mi ha guardato più a lungo del solito. La sera seguente, l’ho attesa ma non è venuta. Ho provato a chiamarla ma non mi ha risposto. E da allora, non l’ho più vista.
– Tu, padrone, ami quella visione.
– Sì, l’amo! Anche se non sono sicuro di sapere cosa significhi la parola “amore”.
L’isola misteriosa
Lenote acute del misterioso ramsinga strapparono il cacciatore di serpenti dalle sue meditazioni. Si volse e guardò verso la giungla, sulla quale si spandeva allora una fitta nebbia, carica di miasmi velenosi. Avvicinandosi bruscamente ad Aghur, gli disse:
– Dove pensi che gli abitanti dell’isola di Raimangal abbiano le loro capanne?
– Non lo so, ma direi che ogni notte si radunano sotto la fosca ombra del banian sacro.
– Va bene – disse Tremal–Naik. – Kammamuri, prendi i remi.
– Cosa vuoi fare, padrone? – chiese il maharatto.
– Voglio raggiungere il banian.
– No, no padrone! – gridarono insieme i due indiani.
– Perché?
– Ti uccideranno come hanno ucciso il povero Hurti.
– Il cacciatore di serpenti non ha mai avuto paura e mai l’avrà! Al canotto, Kammamuri! Partiamo!
Il suo tono di voce non ammetteva replica.
– … questa notte io saprò chi sono quegli esseri misteriosi che mi hanno dichiarato guerra e soprattutto chi è colei che mi ha stregato il cuore.
Kammamuri prese un paio di remi e si diresse verso la riva. Tremal–Naik entrò nella capanna, staccò da un chiodo una pistola con la canna cesellata, afferrò una gran fiasca di polvere e si legò alla cintura un lungo coltello. Poi raggiunse Kammamuri, che lo attendeva presso un piccolo battello. I due salparono e presero il largo, remando lentamente e in silenzio.
Dopo più di mezz’ora di navigazione, si sentì il suono di un ramsinga proveniente dalla riva destra, ma così vicino da far pensare che il suonatore si trovasse a un centinaio di passi di distanza. Era una melodia allegra. – Chi è? – mormorò Tremal–Naik.
Subito dopo, un secondo ramsinga rispose al primo, ma a una distanza maggiore, intonando in questo caso una melodia malinconica.
Perché mai quei due strumenti suonavano musiche così diverse? Era forse un segnale? Kammamuri lo temeva.
– Padrone, ho paura che siamo stati scoperti.
– Può essere – rispose Tremal–Naik, che ascoltava attentamente.
Il maharatto riprese i remi facendo avanzare il battello. In breve arrivarono in un punto in cui il fiume si stringeva come un collo di bottiglia. Davanti ai loro occhi apparvero molte luci che illuminavano in modo strano la nera superficie del fiume.
– Siamo arrivato al cimitero galleggiante – disse Tremal–Naik. – Fra dieci minuti arriveremo al banian.
Poco dopo infatti l’imbarcazione raggiunse la stretta del fiume e sboccò in una specie di bacino, sul quale si intrecciavano i lunghi rami di colossali tamarindi. Quindi, comparve dinanzi al loro sguardo un ampio bacino, completamente vuoto, diviso a metà da una lingua di terra, sulla quale spiccava un enorme e straordinario albero.
– Il banian! – disse Tremal–Naik.
La barca, trasportata dalla corrente che si faceva sentire leggermente, si diresse, girando su se stessa, verso la punta settentrionale dell’isola Raimangal, terra degli esseri misteriosi che avevano assassinato il povero Hurti. Tremal–Naik ogni tanto alzava la testa attento a non farsi scoprire e controllava le rive, per nulla rassicurato da quel silenzio.
Si diresse poi verso la sponda, afferrò l’imbarcazione e con una violenta scossa la rovesciò e la fece calare a picco.
– Nessuno deve scoprire che siamo arrivati qui. Cambiarono la polvere alle carabine e alle pistole, per essere sicuri che funzionassero, e si diressero verso il banian, la cui mole si ergeva spavalda nella fitta tenebra.
La vergine della pagoda
Ilbanian sotto il quale i due indiani stavano per passare la notte era uno dei più giganteschi, ricco di più di seicento colonne e con un tronco grossissimo.
Tremal–Naik e Kammamuri si sedettero a ridosso dell’albero, uno vicino l’altro, con la carabina montata, posata sulle ginocchia.
Passarono due ore lunghe come due secoli, durante le quali nessun rumore ruppe il silenzio che regnava sotto la fitta ombra dell’enorme pianta.
– Kammamuri – disse egli, – bisogna che ci dividiamo. Io devo andare nella pagoda.
– Oh! Non farlo, padrone!
– Non cambierò mai idea. Nella pagoda si nasconde la donna che mi ha stregato.
– E se ti uccidono?
– Vorrà dire che morirò vicino a lei e sarà una morte felice.
Kammamuri emise un profondo respiro che sembrava un lamento.
Tremal–Naik si mise la carabina ad armacollo, diede un ultimo sguardo intorno e si allontanò rapidamente e in silenzio.
Non poteva sapere quanto era lunga la strada percorsa, ma quando si fermò, egli si trovava a duecento passi da una stupenda pagoda, che si innalzava sulla riva di un ampio stagno circondato da colossali rovine.
– La pagoda! – esclamò.
Gettò un rapido sguardo intorno.
Si trovava in una specie di grande radura dell’estensione di oltre mezzo miglio, completamente sgombra di cespugli e bambù.
“Sono perduto! Se non trovo un nascondiglio, fra cinque minuti mi piomberanno addosso quei terribili uomini e mi strangoleranno”.
Ebbe per un istante l’idea di ritornare indietro e di raggiungere la giungla per nascondersi, ma vi erano più di ottocento metri da percorrere, un tempo sufficiente per essere raggiunto dagli inseguitori.
“E se salissi lassù” mormorò egli, guardando la sommità della pagoda. “Perché no?”
Con una rapidità sorprendente salì su una colonna e di là si slanciò sulle pareti del tempio.
In modo strano, incomprensibile e misterioso, man mano che saliva si sentiva il cuore battere precipitosamente, il corpo acquistare una forza straordinaria. Si sentiva come attirato da una forza irresistibile verso la punta della pagoda, al contatto di quelle fredde pietre provava delle sensazioni nuove e indicibili.
Erano circa le due del mattino, quando giunse alla cupola. Con sua sorpresa si trovò incerto al di sopra di una larga apertura, profonda e nera quanto un pozzo.
Lasciò la cupola e si aggrappò a un sostegno guardando giù, ma non vide che buio; aguzzò l’udito ma il più profondo silenzio regnava sotto di lui. Fu colpito nel vedere una corda abbastanza grossa, formata di un’erba lucente e molto flessibile, annodata alla sbarra e che scendeva giù nell’apertura. L’afferrò e con tutte le sue forze la tirò a sé: si accorse subito che alla estremità era attaccato un oggetto molto pesante che, alla trazione, ondeggiò tintinnando.
“Deve essere una lampada”. Ad un tratto si batté la fronte. “Ora mi ricordo! Ho sentito uomini che parlavano di una pagoda e di una vergine che veglia...”
Si fermò e portò tutte e due le mani al cuore che batteva con una forza straordinaria. Provò allora un’emozione pari a quella che aveva sentito nelle sere in cui si trovava dinanzi alla strana visione della donna.
Immediatamente afferrò quella corda e si mise a scendere nelle tenebre, pur ignorando ancora dove lo conducesse e ciò che lo attendeva laggiù. Pochi minuti dopo i suoi piedi battevano su di un oggetto arrotondato.
Stava per chinarsi a vedere cos’era, quando un cigolio, simile a quello di una porta che gira sui cardini, giunse ai suoi orecchi.
Guardò sotto di sé e gli sembrò di intravvedere, fra le tenebre, un’ombra che si muoveva, ma senza produrre alcun tipo di rumore. Con una mano estrasse la pistola, deciso a vendere cara la vita se fosse stato scoperto. Attese immobile come una statua di marmo.
Un sospiro profondo giunse fino a lui; quel sospiro lo impressionò in un modo nuovo, misterioso. Gli sembrò che gli avessero dato una pugnalata in cuore.
L’ombra si era fermata daventi a una massa nera.
– Eccomi, terribile Dio! – esclamò una voce di donna che lo sconvolse sino in fondo al cuore, mentre, pieno di meraviglia, udì una materia liquida precipitare sul suolo e sentì spandersi per l’aria un profumo soave. – Ti odio! – esclamò la stessa voce – Ti odio, spaventosa divinità che mi hai condannato a una sofferenza senza fine dopo avermi distrutto tutto ciò che avevo sulla terra. Assassini, possiate essere maledetti!
Seguì uno scoppio di pianto.
Quell’essere misterioso aveva lanciato una maledizione sugli uomini che aveva chiamato assassini.
Tremal–Naik per la seconda volta tremò in tutte le membra. Per un istante ebbe pure l’idea di lasciarsi cadere nel vuoto ma una qualche incertezza lo frenò. Del resto era troppo tardi: l’ombra si era allontanata scomparendo nelle tenebre e poco dopo udì il cigolio della porta che si schiudeva.
“Non potrò dunque svelare questo mistero?” mormorò Tremal–Naik, quasi con rabbia. “Chi sono questi mostri che chiedono vittime sacrificali? Io voglio vedere quella donna, le voglio parlare e tutto si chiarirà. Non so, ma una voce dal cuore mi dice che questa donna io l’ho vista altre volte e ha fatto palpitare il mio cuore. Una voce mi dice che questa donna è...”.
Si arrestò con affanno, quasi spaventato. Un rossore gli coprì il volto e lo inondò di sudore.
“E se fosse la mia visione?” esclamò con voce tremante. “Quando mi arrampicavo sul tempio ero commosso, adesso che sono quaggiù tremo. Se fosse vero?”
Si lasciò scivolare e posò i piedi su di un oggetto duro che diede il suono particolare dei corpi metallici.
Si chinò, appoggiò le mani su quella massa di bronzo e scese giù, finché toccò terra. I suoi piedi scivolavano su di una superficie liscia e umidiccia.
Verso le quattro, il sole si levò improvvisamente sull’orizzonte, illuminando la grande palla di bronzo che svettava sulla cupola della pagoda, e dall’ampia apertura scese un fascio di luce.
Poco dopo Tremal–Naik udì un leggero cigolio: di fronte a lui, sulla soglia di una porta dorata, c’era una fanciulla di incredibile bellezza, che però aveva dipinto sul volto un angoscioso terrore. La sua figura era graziosa e di forme superbamente eleganti.
Aveva i lineamenti di una purezza antica, animati dalla luminosa espressione della donna anglo–indiana. La pelle era rosea, morbida come quella di una bambina, gli occhi grandi, neri e scintillanti come diamanti; il naso diritto che nulla aveva di indiano, le labbra sottili, color del corallo, aperte a un malinconico sorriso che lasciava scorgere due file di denti di abbagliante bianchezza; una ricca capigliatura di un castano cupo, fuligginoso, separata sulla fronte da un mazzetto di grosse perle, era raccolta in nodi e intrecciata con fiori dal soave profumo.
– Ada, Ada! L’apparizione della giungla! – esclamò egli. Non fu capace di dire altro, rimase in silenzio, affannato, scosso a contemplare quella stupenda creatura che continuava a fissarlo con profondo terrore. A un tratto quella fanciulla fece un passo avanti lasciando cadere a terra l’ampio sari di seta che la ricopriva.
Un fascio di luce abbagliante l’avvolse, togliendola alla vista dell’uomo, che fu costretto a chiudere gli occhi.
Quella fanciulla era coperta letteralmente d’oro e di pietre preziose d’inestimabile valore.
– La visione! La visione! – ripeté per la seconda volta Tremal–Naik, tendendo le braccia verso di lei! – Oh! quanto è bella!...
La giovane si guardò intorno con timore e portò un dito sulle labbra, come per invitarlo a tacere. Poi camminò dritta verso di lui.
17
– Sventurato! – disse ella con terrore. – Cosa sei venuto a fare qui? Quale pazzia ti ha condotto in questo luogo orribile?
Il cacciatore di serpenti, senza volerlo, era caduto in ginocchio tendendo le mani verso di lei che indietreggiò con maggiore spavento.
– Non toccarmi! – disse, con un filo di voce. Tremal–Naik aveva emesso un sospiro:
– Sei bella! – esclamò con passione.
– Taci, Tremal–Naik!
– Sei bella!... – ripeté il selvaggio figlio della giungla. Ella gli pose un dito sulle labbra.
– Se non vuoi danneggiarmi, non fare rumore – disse la giovanetta con dolce rimprovero. – Tu non conosci i terribili pericoli che ci minacciano.
– Io sono Tremal–Naik! Chi è quest’uomo che ti minaccia? Dimmelo ed io, il cacciatore di serpenti, ti giuro che domani costui non sarà più sulla faccia della terra!
– Non parlare così, Tremal–Naik!
– Perché?
– Taci! taci! – ripeté la fanciulla tra i singhiozzi, nascondendosi il volto fra le mani.
– Non posso tacere, fiore luminoso della giungla! –esclamò Tremal–Naik con maggior passione. – Quando tu sei scomparsa è stato come se qualcosa si sia staccato dal mio cuore. Ero come perso. Davanti agli occhi
mi compariva di continuo la tua visione, nelle vene mi scorreva più rapido il sangue e le fiamme mi salivano in volto e più su fino al cervello. Come se mi avessi stregato!
– Tremal–Naik! – mormorò con ansia la fanciulla.
– Quella notte non dormii – proseguì il cacciatore di serpenti. – Ero tutto accaldato e fremevo per rivederti. Perché? Io lo ignoravo e non sapevo spiegarmi come ciò fosse possibile. Era la prima volta in vita mia che provavo una tale emozione. Passarono quindici giorni. Tutte le sere, al tramonto, io ti rivedevo e mi sentivo felice di fronte a te; mi pareva di essere trasportato in un altro mondo, mi pareva di essere diventato un altro uomo. Tu non mi parlavi, ma mi guardavi e per me era di più di quanto sperassi; era come se quei tuoi sguardi mi parlassero e mi dicevano che tu...
Si fermò ansante, guardando la fanciulla che teneva il volto nascosto fra le mani.
– Ah! – esclamò egli con dolore. – Tu dunque non vuoi che parli.
La fanciulla si scosse e lo fissò, con occhi umidi.
– Perché parlare – balbettò, – quando tra noi c’è un abisso? Perché, infelice, sei venuto qui a far rinascere nel mio cuore una speranza inutile? Non sai tu che questo luogo è maledetto, vietato soprattutto a colui che io amo?
– “Che io amo”! – esclamò Tremal–Naik, con gioia. Ripeti, ripeti questa parola, splendido fiore della giungla!
19
È vero che tu mi ami? È vero dunque che tu venivi ogni sera perché mi amavi?
– Non farmi morire, Tremal–Naik – esclamò la fanciulla disperata.
– Morire! Perché? Qual pericolo ti minaccia? Non sono qui io a difenderti? Che importa se questo luogo è maledetto? Che importa se fra noi due c’è un abisso? Io sono forte, per te distruggerei questo tempio e sconfiggerei quell’orribile mostro che tu sei costretta ad adorare.
– Come sai questo? Chi te l’ha detto?
– T’ho vista questa notte.
– Allora questa notte eri qui?
– Sì, ero qui, anzi lassù aggrappato a quella lampada, proprio sopra di te.
– Ma chi ti ha portato qui?
– Il destino.
– Ah! disgraziato, sei perduto! – esclamò la fanciulla con disperazione.
Tremal–Naik si slanciò verso di lei.
– Ma dimmi, qual è questo mistero? – chiese con rabbia, appena trattenuta. – Perché tanto terrore? Io lo voglio sapere, o Ada, io lo voglio!
– Non interrogarmi, Tremal–Naik.
– Perché?
– Ah! Se tu sapessi qual terribile destino pesa su me!
– Ma io sono forte.
– A che serve la forza contro questi uomini?
– Mi batterò in ogni modo contro di loro.
– Ti spezzeranno come un giovane bambù. Sono forti, Tremal–Naik, e tremendi! Nulla resiste a loro: né le flotte, né gli eserciti. Tutto cade dinanzi a loro.
– Ma chi sono mai?
– Non posso dirlo.
– E se te lo ordinassi?
– Rifiuterei.
– Dunque tu... diffidi di me! – esclamò Tremal–Naik.
– Tremal–Naik! Tremal–Naik! – mormorò l’infelice giovane, con accento straziante.
Il cacciatore di serpenti si torse le braccia.
– Tremal–Naik – proseguì la fanciulla, – una condanna pesa su di me, una condanna terribile, spaventosa, che finirà solo quando morirò. Io ti ho amato, valoroso figlio della giungla, ti amo ancora, ma…
– Ah! Tu mi ami! – esclamò il cacciatore di serpenti.
– Sì, ti amo, Tremal–Naik.
– Giuralo su quel mostro che ci sta vicino.
– Lo giuro! – disse la giovanetta, tendendo la mano verso la statua di bronzo.
– Giura che tu sarai mia sposa!
Uno spasimo stravolse il viso della fanciulla.
– Tremal–Naik – mormorò con voce addolorata, –sarò tua sposa se questo sarà possibile!
– Ah! Ho forse un rivale.
– No, e non ci sarà mai qualcuno tanto coraggioso da fissare il suo sguardo su di me. Appartengo alla morte.
Tremal–Naik aveva fatto due passi indietro colle mani sulla testa.
– Alla morte? – esclamò.
– Sì, Tremal–Naik, appartengo alla morte. Il giorno in cui un uomo poserà le sue mani su di me, la scure dei vendicatori spezzerà la mia vita.
– Ma forse sto sognando?
– No, sei sveglio e io sono la donna che ti ama.
– Ah, tremendo mistero!
– Sì, tremendo mistero, Tremal–Naik. Tra noi c’è una tale lontananza che nessuno sarà capace di colmare... Una fatalità! Ma che cosa ho mai fatto io per essere così disgraziata? Quale orrendo delitto ho commesso per essere così maledetta?
Uno scoppio di pianto soffocò la sua voce e il suo volto si bagnò di lagrime.
Tremal–Naik emise un urlo bestiale.
– Che posso fare per te? – chiese egli, commosso.
– Questo tuo pianto mi fa male. Dimmi che devo fare, comanda e io ti ubbidirò come uno schiavo. Vuoi che io ti porti via da questo luogo? Io lo farò, anche se dovessi lasciarci la vita!
– Oh! no, no! – esclamò la giovane, spaventata. – Sarebbe la morte per entrambi.
– Allora, vuoi che io me ne vada? Senti, io ti amo, ma se la tua sopravvivenza richiedesse la nostra definitiva separazione, io abbandonerò l’amore che ho nel mio cuore. Sarà una pena eterna, sarà un martirio continuo per me, ma lo farò. Parla, cosa devo fare?
La giovane taceva e singhiozzava.
Tremal–Naik la abbracciò dolcemente e stava per parlare, quando da fuori echeggiò l’acuta nota del ramsinga.
– Fuggi! Fuggi, Tremal–Naik! – esclamò la giovane, fuori di sé per il terrore. – Fuggi o siamo perduti!
– Maledetta tromba! – urlò Tremal–Naik.
– Stanno arrivando – proseguì la giovane con voce spezzata. – Se ci trovano, ci sacrificheranno alla loro spaventosa divinità. Fuggi! Fuggi!
– Non sarà mai!
– Allora tu vuoi farmi morire!
– Io ti difenderò!
– No, fuggi! Fuggi o sarà la fine!
Tremal–Naik per tutta risposta raccolse da terra la carabina e la caricò.
La giovane comprese che quell’uomo era irremovibile.
– Abbi pietà di me! – ella disse con angoscia. – Stanno arrivando!
– Ebbene, io li aspetterò – rispose Tremal–Naik. – Il
primo uomo che oserà alzare la sua mano su di te, giuro sul mio dio che lo ammazzo come una tigre della giungla.
– Allora, giacché sei irremovibile, coraggioso figlio della giungla, questa sera, alla mezzanotte, io ritornerò da te. E si realizzerà il nostro destino e forse... fuggiremo.
– Il tuo nome?
– Ada Corishant.
– Ada Corishant! Quanto è bello questo nome! Va’, nobile creatura, ti aspetto a mezzanotte!
Nel frattempo era giunto il capo della setta; parlava a un altro uomo.
– Raduna una cinquantina degli uomini più forti e disponili intorno alla pagoda. Quell’uomo non deve sfuggirci!
– C’è un uomo nella pagoda?
– Sì, Tremal–Naik, il cacciatore di serpenti della giungla nera. Vai adesso, ma a mezzanotte torna qui.
E così fu: a mezzanotte l’indiano si ritrovò circondato da moltissimi strangolatori. Provò a difendersi ma i nemici erano troppi e così alla fine fu costretto ad arrendersi.
Gli legarono le braccia con due corde, percuotendolo violentemente e lo gettarono a terra.
Egli gettò un urlo terribile. Gli indiani in un attimo gli furono sopra come un branco di cani attorno al cinghiale,
e, nonostante la sua forte resistenza, venne solidamente legato e ridotto all’impotenza.
– Aiuto! aiuto! – rantolò egli.
– A morte! A morte! – gridarono gli indiani.
Con uno sforzo enorme spezzò le due corde, ma nuovi lacci lo strinsero, e così fortemente che la pelle divenne nera.
Suyodhana, che aveva assistito impassibile a quella disperata lotta di un uomo solo contro ventidue, gli si avvicinò e lo contemplò con gioia diabolica.
Non potendo fare altro, Tremal–Naik gli sputò.
Questi allora afferrò con mano ferma il suo pugnale e lo sollevò sul prigioniero che lo guardava con disprezzo.
– Figli miei – disse l’indiano, – che pena merita quest’uomo?
– La morte! – risposero gl’indiani.
– E morte sia!
La lama del vendicatore penetrò nel petto di Tremal–Naik e gli spense la voce. L’uomo sbarrò gli occhi, li chiuse, uno spasimo violento gli contrasse tutto il corpo, che poi si irrigidì. Un rivolo di sangue caldo scorreva sulle sue vesti, disperdendosi per le pietre.
Ad un cenno due indiani sollevarono l’infelice corpo di Tremal–Naik.
– Gettatelo nella giungla in pasto alle tigri – concluse il terribile uomo. – Così muoiono gli empi!
Kammamuri
Dopo
che si erano separati, Kammamuri si era diretto verso il fiume, cercando di seguire le tracce dell’indiano che lo precedeva. Come era possibile ritornare alla capanna sapendo che il padrone si trovava nella giungla maledetta, dove i nemici pullulavano come i bambù? Gli sembrava una cosa di una estrema gravità, quasi un delitto.
Non aveva ancor percorso mezzo miglio, quando decise di ritornare indietro.
Percorse dunque, correndo, più di un miglio inoltrandosi nella giungla e cercando di mantenere una strada diretta per giungere alla riva del fiume e di là aspettare il ritorno del padrone che non voleva abbandonare. Era la mezzanotte, quando si trovò sul limitare di una foresta di palme da cocco.
Si arrampicò su un albero e dormì per molte ore, fino alla sera successiva. Allora attraversò il bosco e rientrò nella giungla girando verso il sud e continuò a marciare così fino a mezzanotte, fermandosi di quando in quando a esaminare il terreno con il desiderio di trovare traccia del padrone. Senza più speranza di scoprire qualche indizio, stava per cercare un albero su cui aspettare l’arri-
vo dell’alba, quando due spari, tirati a poca distanza l’un dall’altro, lo colpirono.
– Il padrone! – gridò. – Questa volta non mi sfugge più!
Interrotte le sue ricerche, corse verso il sud, e mezz’ora dopo giunse in un’ampia radura, in mezzo alla quale si ergeva una grandiosa pagoda.
Due uomini erano usciti all’aperto e si dirigevano verso la giungla, portando una terza persona che sembrava morta.
Si allontanò nascondendosi dentro un cespuglio, per poter vedere senza essere scoperto.
I due portatori erano due indiani e attraversarono rapidamente la radura, fermandosi presso i bambù. Poi fecero oscillare il cadavere e lo lanciarono nella giungla.
Kammamuri assistette alla scena. Aspettò che i due indiani fossero lontani, poi uscì dal nascondiglio e spinto da una forte curiosità, s’avvicinò al cadavere. Un urlo strozzato gli uscì dalle labbra.
– Il padrone! – esclamò.
Era il cadavere di Tremal–Naik. Aveva gli occhi chiusi, la faccia orribilmente alterata. Un pugnale era conficcato in mezzo al suo petto sino al manico. Le vesti erano tutte intrise del sangue che usciva ancora dalla profonda ferita.
Appoggiò le mani sul suo corpo e trasalì come se fosse
stato toccato da una scarica elettrica. Gli era sembrato di sentire il battito del cuore.
Avvicinò l’orecchio e ascoltò trattenendo il respiro.
Non si era sbagliato: Tremal–Naik non era ancora morto; il cuore, seppure debolmente, batteva.
– Forse non è stato ferito a morte – mormorò, tremando per l’emozione. – Calma, Kammamuri, cerchiamo di soccorrerlo subito.
Con precauzione svestì Tremal–Naik. Il pugnale gli era stato immerso fra la sesta e la settima costola, in direzione del cuore, ma senza averlo toccato. La ferita era terribile, ma forse non era mortale; Kammamuri iniziò a curare lo sventurato amico.
Afferrò l’arma con delicatezza e lentamente, senza scosse, la estrasse dalla ferita: ne sgorgò un getto di sangue caldo e rosso. Era buon segno.
– Guarirà – disse il maharatto.
Strappò un pezzo di stoffa e fermò l’emorragia che poteva essere fatale per il ferito. Ora bisognava cercare un po’ di acqua e alcune foglie di youma da spremere sulla piaga, per affrettare la cicatrizzazione.
Poi con tutte le sue forze, sollevò il corpo fra le braccia più delicatamente possibile e si allontanò barcollando, dirigendosi verso il fiume.
Percorse più d’un miglio e si fermò sulle rive d’uno stagno d’acqua purissima.
Depose il ferito su di un fitto strato d’erbe e applicò sulla sanguinosa piaga delle pezzuole bagnate. A quel contatto un debole sospiro, che parve un gemito represso, uscì dalle labbra di Tremal–Naik.
Il ferito agitò le mani ed aprì gli occhi che roteavano in un cerchio sanguigno, fissandoli su Kammamuri.
– Stai calmo, padrone. Ora troverò io alcune erbe che ti faranno molto bene, e fra quattro o cinque giorni abbandoneremo questi luoghi e ti porterò alla capanna per guarirti del tutto.
Lo tenne completamente immobile, poi si allontanò strisciando.
Non corse molto e trovò alcune pianticelle di youma , il cui succo è un balsamo prezioso per le ferite. Ne raccolse parecchia e tornò dal ferito.
Tremal–Naik era tranquillo, un buon segno. Si mise vicino la carabina e le pistole per essere pronto a servirsene, masticò le erbe, malgrado la loro insopportabile amarezza e le applicò sulla piaga.
– Ecco, così va bene – disse tenendogli le mani. – Domani il padrone starà meglio e potremo abbandonare questo luogo che non mi sembra molto sicuro. Gli indiani fra poche ore si recheranno nella giungla e non trovando il cadavere, si metteranno senza dubbio alla sua ricerca.
Incontro con Manciadi
Ilgiorno successivo furono raggiunti da Aghur, l’altro servitore di Tremal–Naik, il quale non vedendoli tornare, aveva deciso di partire per cercarli.
– Allora – chiese ansioso Aghur, guardando con l’occhio atterrito il padrone. – Cosa gli è accaduto?
– L’hanno pugnalato.
Aghur non volle saperne di più. Estrasse il coltellaccio, tagliò sei o sette rami, lì legò con solide corde e sopra quella rozza barella sparse alcune bracciate di foglie. Kammamuri sollevò lentamente il padrone che non si era ancora rinvenuto, e ve lo stese sopra.
I due indiani sollevarono la barella e si misero in marcia preceduti da un cane, percorrendo uno stretto sentiero aperto nel mezzo della giungla.
In quindici minuti giunsero al fiume, sul quale galleggiava il canotto, subito si mossero a tanta velocità dirigendosi verso il cimitero galleggiante.
A oriente cominciava ad albeggiare, quando il canotto giunse alle sponde della giungla.
Kammamuri e Aghur si affrettarono a sbarcare e portarono il padrone nella capanna, adagiandolo su di una comoda amaca.
– Esamina la ferita, Aghur – disse Kammamuri.
Il bengalese levò la fascia e guardò attentamente il petto del povero Tremal–Naik. Una ruga si disegnò sulla sua fronte.
– È grave – disse. – Il pugnale è entrato quasi certamente fino all’impugnatura.
– Guarirà?
– Lo spero.
La giornata passò senza incidenti. Quando la notte scese sulla silenziosa giungla, Aghur montò per primo la guardia, al di fuori della capanna, armato fino ai denti. A mezzanotte nessun indiano era comparso, né sul fiume, né sulla giungla.
D’improvviso però si udì un grido:
– Aiuto! Aiuto!
– Kammamuri! – esclamò Aghur. – Qualcuno sta affogando. Non possiamo lasciarlo annegare. Accorriamo, presto!
– Non sappiamo chi sia.
– Non importa: alla riva!
– Prepariamo le armi e stiamo attenti! Non si sa mai cosa può accadere!
I due indiani si slanciarono verso la riva e guardarono sul fiume che sembrava nero come d’inchiostro.
– Vedi nulla? – chiese Kammamuri ad Aghur, che aveva diretto lo sguardo alla corrente.
– Sì, mi pare di scorgere laggiù qualche cosa che va alla deriva.
– Forse un uomo?
– Si direbbe più il tronco di un albero. A un tratto si sentì una voce.
– Salvatemi!
– Olà! – gridò Kammamuri. – Chi chiama?
– È un naufrago, disse il maharatto.
– Potete raggiungere la riva? – chiese Aghur al naufrago.
Un gemito fu la risposta che ottenne. Non vi era da esitare, quel naufrago si trovava agli estremi e poteva annegare da un momento all’altro. I due indiani balzarono nel canotto e si diressero rapidamente verso di lui. Ben presto si accorsero che l’oggetto nero che andava alla deriva era il tronco di un albero, a cui era aggrappato un uomo. In pochi istanti lo raggiunsero allungando le mani al naufrago, che le afferrò con la forza della disperazione.
I due indiani si chinarono su di lui osservandolo con curiosità. Aveva le caratteristiche di un bengalese, di statura inferiore alla media, di colorito assai oscuro, estremamente magro ma con i muscoli assai sviluppati, indizio di una forza non comune. Aveva la faccia qua e là contusa e la tunica, strettamente chiusa al corpo, macchiata di sangue.
– Sei ferito? – gli domandò Kammamuri.
Quell’uomo lo fissò attentamente con due occhi che mandavano strani riflessi.
– Penso di sì – mormorò poi.
– Hai la veste insanguinata. Lasciami vedere
– Non è nulla – disse, mettendosi le mani sul petto, come se avesse paura di mostrarlo. – Ho battuto la testa su quel tronco d’albero.
– Da dove vieni?
– Da Calcutta.
– E ti chiami?
– Manciadi. Sono un povero indiano e mi mantengo con la caccia. Un capitano dell’esercito mi ha promesso cento rupie per una pelle di tigre, e sono venuto qui sperando di soddisfarlo.
– Continua…
– Ieri sera approdai alla riva opposta del Mangal e mi nascosi nella giungla; due ore dopo mi si slanciarono addosso alcuni uomini e mi sentii stringere il collo da un laccio...
– Erano quelli di Raimangal – disse Kammamuri. –Tu dunque sei cacciatore.
– Sì, e sono molto abile.
– Vuoi venire con noi?
Un lampo strano brillò negli occhi del bengalese.
– Non chiedo di meglio – si affrettò a dire. – Sono solo al mondo.
– Va bene, sei dei nostri. Domani mattina ti presenterò al padrone.
I due indiani ricominciarono a navigare e ricondussero il canotto nella piccola insenatura. Legato il canotto, raggiunsero la capanna, dinanzi alla quale vegliava la tigre.
– Fermati qui che vado dal padrone.
– Dal padrone! È qui forse? – chiese il bengalese.
– Sì.
– Ancora vivo!
– Dimmi… – esclamò il maharatto sorpreso. – Perché ti mostri meravigliato?
Il bengalese trasalì e parve confuso.
– Come sai che è ferito, per farmi tale domanda? – replicò Kammamuri.
– Sei stato tu a dirmi che era stato ferito?
– Io?
– Mi sembra.
– Non mi ricordo.
– Eppure non posso averlo udito dire che da te o dal tuo compagno.
– Sarà…
Kammamuri e Aghur rientrarono nella capanna; Tremal–Naik dormiva profondamente.
– Non vale la pena svegliarlo – borbottò Kammamuri, volgendosi ad Aghur.
– Lo presenteremo domani – disse quest’ultimo. – Che impressione hai avuto su quel Manciadi?
– Ha l’aspetto d’un buon uomo e ho tutte le ragioni per credere che ci sarà di grande aiuto.
– Lo credo anche io.
– Lo controlleremo fino a domani.
Aghur prese una ciotola di riso e la porse a Manciadi, il quale si mise a mangiare con voracità. Raccomandatogli di fare buona guardia e di dare l’allarme se avesse scorto qualche pericolo, rientrò di fretta, chiudendo, per precauzione, la porta.
Appena scomparso, Manciadi si alzò con una velocità sorprendente. I suoi occhi si erano illuminati e sulle sue labbra comparve un sorriso satanico.
Si accostò alla capanna e vi appoggiò l’orecchio, ascoltando con grande attenzione. Rimase così per vari minuti, poi partì rapido come una freccia fermandosi mezzo miglio più lontano.
Accostò le dita alle labbra ed emise un fischio acuto. Immediatamente al sud si alzò un punto rossastro fendendo il buio e scoppiò spandendo una luce brillante che subito si spense con una sorda detonazione.
Altre due volte il fischio risuonò, poi nella giungla tutto tornò silenzio e mistero.
Lo strangolatore
Erano trascorsi venti giorni e Tremal–Naik guariva rapidamente. La ferita si era ormai rimarginata e lui poteva alzarsi. Però, mentre riacquistava le forze, l’indiano diventava sempre più cupo e inquieto. I suoi compagni lo vedevano a volte con la testa nascosta tra le mani e le guance umide, come se avesse pianto. Parlava soltanto di rado, non raccontava il terribile dolore che lo consumava e talvolta veniva assalito da improvvisi accessi di rabbia.
Kammamuri e Aghur cercavano in ogni modo di farlo parlare, volevano capire la causa di quegli scatti di ira che minacciavano di riaprire la ferita non ancora cicatrizzata e si chiedevano chi mai poteva essere la donna di cui pronunciava il nome nei suoi deliri e nei suoi sonni, quel nome che era il suo incubo, il suo tormento.
A volte anche Manciadi il bengalese cercava di capire il mistero, ma ciò accadeva assai di rado. Sembrava invece che quell’uomo evitasse di trovarsi vicino al ferito, come se temesse qualche cosa.
Non entrava nella sua stanza se non quando era addormentato, ma quasi con ribrezzo. Preferiva andare per la giungla in cerca di selvaggina, raccogliere legna e
attingere acqua. Stranamente, ogni qual volta che udiva il padrone invocare Ada, egli veniva assalito da un tremore straordinario e la sua faccia, di solito tranquilla, si alterava improvvisamente cambiando persino di colore. Altro particolare misterioso è che mano a mano che Tremal–Naik migliorava, anziché gioire, diventava tetro e nervoso.
Il mattino del ventunesimo giorno, nella capanna accadde un fatto che doveva avere conseguenze nefaste: Kammamuri si era alzato al primo sorgere del sole. Visto che Tremal–Naik dormiva profondamente, si diresse verso la porta per svegliare Manciadi che riposava al di fuori. Levò la spranga e spinse l’uscio ma con sua grande sorpresa questo non s’aprì: c’era al di fuori qualche cosa che creava impedimento.
– Manciadi! – gridò il maharatto.
Nessuno rispose.
Nella sua mente nacque il sospetto che al poveretto fosse toccata qualche disgrazia, che i nemici lo avessero strangolato o che le tigri della giugla lo avessero sbranato.
Accostò un occhio alla fessura della porta e capì che l’oggetto che le impediva d’aprirsi era un corpo umano. Guardando con maggiore attenzione, riconobbe in lui Manciadi.
Il maharatto appoggiò una spalla alla porta e fece for-
za respingendo Manciadi. Aperto un varco, i due indiani si slanciarono fuori. Il povero bengalese era sdraiato bocconi e pareva morto, quantunque non si vedesse sul suo corpo nessuna ferita.
Kammamuri gli pose una mano sul petto e sentì che il cuore ancora batteva.
– È svenuto – disse.
Lo fecero rinvenire.
– Cosa ti è accaduto – gli chiese Kammamuri.
– Siete voi! – esclamò affannosamente il bengalese.
– Che paura che ho avuto! Credevo di essere stato ammazzato sul colpo!
– Ma cosa hai visto? Chi ha cercato di ucciderti? Degli uomini forse?
– Uomini? Era un elefante!
– Un elefante?! – esclamarono i due indiani. – Un elefante qui?
– Ma sì, era un elefante enorme, con una proboscide mostruosa e due zanne lunghissime.
– E si è avvicinato a te? – chiese Aghur.
– Sì, e per poco non mi ha schiacciato la testa. Io dormivo, quando fui svegliato da un potente soffio; aprii gli occhi e vidi sopra di me la gigantesca testa della bestia. Ho cercato di alzarmi per fuggire, ma la proboscide mi è caduta addosso, bloccandomi a terra.
– E poi? – chiese Kammamuri con ansietà.
– Poi non ricordo più nulla. Il colpo è stato così forte che sono svenuto.
– Che ora era?
– Non lo so, perché dormivo.
– È strano – disse il maharatto. – E Punthy non si è accorto di nulla.
– Cosa facciamo? – chiese Aghur, lanciando uno sguardo ansioso verso la giungla.
– Lasciamo in pace il bestione – rispose Kammamuri.
– Però ritornerà – si affrettò a dire Manciadi, – e distruggerà la capanna...
– È vero – disse Aghur. – E se lo inseguissimo?
– E perché no? Abbiamo delle buone carabine.
– Io sono pronto ad aiutarvi – rispose Manciadi.
– Ma non possiamo lasciare solo il padrone, anche se ormai è guarito – osservò Kammamuri. – Voi sapete che un pericolo ci minaccia sempre.
– Tu rimarrai qui e e noi andremo a caccia – incalzò Aghur.
– Con un vicino così pericoloso, non si può vivere tranquilli.
– Se avete così tanto coraggio, vi lascio libertà.
– Così va bene! – esclamò Aghur. – Lascia fare a noi, e vedrai che prima di mezzogiorno l’animale sarà morto.
Andò a prendere nella capanna due carabine di grosso calibro e ne diede una al bengalese che la caricò con
grande attenzione, con un’asta di piombo.
Così entrarono nella giugla: Aghur era allegro e chiacchierava; il bengalese, invece, era diventato scuro in volto e spesso si fermava a guardare il compagno che lo precedeva di pochi passi.
I due indiani affrettarono il passo, malgrado il sole che li bruciava e gli ostacoli che ingombravano il sentiero.
Un’ora dopo giunsero in un boschetto.
– Cammina, Aghur, e guardati ben d’attorno. Sai dove si trova uno stagno?
– Qui vicino.
– Andiamo.
Aghur ubbidì, sebbene tutto ciò gli sembrasse assai strano. Prese un sentiero appena visibile e guidò il compagno sulle rive di un piccolo stagno circondato da ammassi di pietre scolpite in modo grossolano.
– Tu resta qui – gli disse il bengalese. – Io batto il bosco e scovo l’elefante, poiché deve essere nascosto qui.
Si mise sotto il braccio la carabina e si allontanò senza aggiungere altro. Appena fu certo di non essere né visto, né udito, si mise a correre velocemente e si fermò ai piedi di un palmizio, sul cui tronco si vedeva rozzamente inciso l’emblema misterioso degl’indiani di Raimangal.
– Attenti! – disse. – Questo bosco sarà la sua tomba.
Si alzò per tutta la sua statura ed emise un fischio. Rispose un segnale uguale e qualche minuto dopo, nel-
lo spazio fra due cespugli, apparve la pericolosa figura di Suyodhana. Egli incrociò le braccia sul petto, tatuato con il serpente dalla testa di donna, e fissò Manciadi con uno sguardo penetrante come la punta di una spilla.
– Figlio delle sacre acque del Gange, sii il benvenuto –disse il bengalese, inchinandosi a terra.
– Ebbene? – chiese brevemente Suyodhana.
– Tremal–Naik è vivo.
Suyodhana divenne ancora più scuro in volto e si conficcò le unghie nella pelle.
– Forse ho sbagliato il colpo? – ringhiò egli. – Eppure il pugnale vendicatore gli ha trafitto il petto!
Chinò il capo e si immerse nei pensieri.
– Manciadi – disse dopo qualche tempo, – quell’uomo deve morire.
– Comanda, figlio delle sacre acque del Gange.
– La vergine della sacra pagoda è stata profondamente colpita dagli occhi di quell’uomo. La sventurata ancora lo ama e non smetterà di amarlo finché egli sarà vivo.
– Devo strangolarlo? Ho il mio laccio.
– Una cosa alla volta. Hai portato a termine ciò che ti ho ordinato?
– Sì, figlio delle sacre acque del Gange. Aghur mi aspetta presso lo stagno.
– Bene, tu lo ucciderai.
– E poi? – chiese.
– Poi tornerai alla capanna e racconterai a Kammamuri che Aghur è stato assassinato. Ti crederà e correrà a cercarlo. Il seguito lo capisci da solo. Vai!
Manciadi si piegò di nuovo fino a terra e si allontanò.
Attraversò lentamente il bosco e arrivò allo stagno, sulla cui riva stava sdraiato, con la carabina sulle ginocchia, la futura vittima.
– Hai trovato l’elefante? – gli chiese Aghur.
– Non ancora, ma ho scoperto le sue tracce – disse l’assassino guardandolo con due occhi che mandavano lampi mortali. Poi sciolse il laccio che teneva nascosto sotto la tunica e lo fece fischiare attorno alla sua testa.
– Aghur! – gridò, – Suyodhana ti ha condannato e devi morire!
Allora l’indiano comprese tutto. Balzò in piedi con la carabina in mano, ma gli mancò il tempo di puntarla sul traditore. Un fischio di uno sparo tagliò l’aria e il poveretto, stretto alla gola dal laccio, stramazzò a terra.
L’assassino afferrò solidamente il laccio, poi si gettò sopra all’uomo e con il pugnale lo trafisse.
– Muori, questa è la volontà della dea! – gli gridò un’ultima volta Manciadi.
Poi si allontanò a rapidi passi, mentre uno stormo di marabù calava sul cadavere ancora caldo dell’infelice Aghur.
Il secondo colpo dello strangolatore
K ammamuri cominciava a essere preoccupato. Il sole stava quasi tramontando e i due cacciatori non erano ancora tornati, anzi nessun colpo di fucile si era sentito esplodere nella giungla.
Egli non sapeva spiegarsi quella prolungata assenza e quell’assoluto silenzio. Scoraggiato, si sedette sulla soglia della capanna, attendendo ansiosamente il loro ritorno.
In quell’istante, al sud, rimbombò una fucilata, seguita subito da due altre detonazioni.
Il maharatto e Tremal–Naik, che nel frattempo si era alzato dal suo giaciglio, scattarono in piedi.
– Cosa succede? – chiese il maharatto, strappandosi dalla cintola il coltellaccio.
– Kammamuri! Kammamuri! – gridò una voce.
– Chi chiama? – chiese Tremal–Naik.
– Manciadi! – esclamò il maharatto.
Infatti il bengalese, con grande rapidità attraversava la giungla, percorrendo la fitta cortina di bambù e agitando come un pazzo la carabina. Sembrava in preda a un grande terrore.
– Kammamuri! Kammamuri! – ripeté egli con voce strozzata.
Il bengalese, che correva molto rapidamente, in pochi minuti giunse alla capanna. Il vigliacco aveva la faccia insanguinata per una ferita che si era procurato sulla fronte per rendere più credibile il tradimento e aveva pure la tunica macchiata.
– Padrone!... Kammamuri! – esclamò piangendo disperatamente.
– Cosa ti è accaduto? – chiese Tremal–Naik pieno di apprensione.
– Hanno ferito a morte Aghur!... Povero me... non ne ho colpa, padrone... ci sono balzati addosso... Aghur! Povero Aghur!
– L’hanno ferito! – esclamò Tremal–Naik con furore. – Chi? Chi?
– I nemici... gli indiani...
– Maledizione!... Parla, raccontami, voglio sapere tutto.
– Eravamo seduti in un bosco – disse il miserabile, continuando a singhiozzare. – Ci sono balzati addosso prima che potessimo prendere le armi ed Aghur è caduto. Io ho avuto paura e sono fuggito.
– Quanti erano?
– Dieci, dodici, non ricordo bene quanti. Sono fuggito per miracolo.
– È morto Aghur?
– No, padrone, non può essere morto. L’hanno pugnalato, poi sono scomparsi. Fuggendo, ho sentito che il ferito gridava, ma non ho avuto il coraggio di ritornare da lui.
– Sei un vigliacco, Manciadi!
– Padrone, se fossi tornato indietro mi avrebbero ucciso – singhiozzò il bengalese.
– Quando mai finirà questa situazione? – gridò Tremal–Naik. – Kammamuri, forse Aghur non è morto; bisogna andarlo a cercare e portarlo qui.
– E se mi aggrediscono? – chiese Kammamuri, terrorizzato.
– Porterai con te Darma e Punthy. Con questi animali puoi tenere testa a cento uomini.
– Ma chi mi guiderà?
– Manciadi.
– E tu vuoi rimanere nella capanna solo?
– Mi so difendere da solo. Vai e non perdere tempo, se vuoi salvare il povero Aghur. Manciadi, guida quest’uomo nella giungla.
Il maharatto e Manciadi, preceduti dal cane e dalla tigre, si slanciarono di corsa in mezzo alla foresta.
– Procediamo con precauzione e in silenzio – disse Kammamuri a Manciadi. – Non bisogna attirare l’attenzione dei nemici, forse stanno nascosti a poca distanza da noi.
Manciadi, che aveva in mente il suo piano, condusse il maharatto sul sentiero che aveva percorso al mattino e lo seguì per tre quarti d’ora. Si fermò sul margine del bosco.
– È qui? – chiese Kammamuri, guardando ansiosamente sotto gli alberi.
– Sì, è qui – rispose Manciadi, con atteggiamento misterioso. – Segui questo sentiero che si inoltra nel bosco e arriverai allo stagno. Lì è stato ferito, io ti aspetto qui, nascosto nella fitta vegetazione.
Entrarono nel bosco, sotto il quale regnava una profonda oscurità e un silenzio mortale e avanzarono sul sentiero, senza provocare alcun tipo di rumore. Kammamuri più volte si fermò sperando di udire qualche lamento o qualche invocazione che segnalasse la presenza di Aghur, ma nulla giungeva al suo orecchio.
“È strano…” mormorava, “se fosse ancora vivo, si udirebbe qualche lamento, ma qui regna un silenzio perfetto. Che sia morto?”
Poco dopo giunse in vista dello stagno. Kammamuri, con indicibile spavento, vide per terra un corpo umano su cui si agitava un gruppo di marabù.
– Aghur! – esclamò, singhiozzando. Corse come un pazzo allo stagno e si gettò sul corpo del suo infelice compagno.
D’un tratto emise un grido terribile e i suoi occhi si posarono su di una pietra, davanti alla quale era appoggiata la testa di Aghur.
Grazie alla pallida luce lunare, aveva letto, tremando, le seguenti parole scritte a lettere di sangue:
Kammamuri, Manciadi mi ha assass...
Il maharatto balzò in piedi. Comprese tutto il tradimento del bengalese e il pericolo che correva il padrone.
– Darma! Punthy! – gridò egli con voce strozzata.
– Alla capanna!... Alla capanna!... Vogliono uccidere il padrone.
E si slanciò attraverso la foresta, preceduto dalla tigre e seguito dal cane, che abbaiava con furore.
Mentre Kammamuri correva come una lince sotto l’oscuro soffitto di foglie, il bengalese non perdeva il suo tempo. Rimasto solo, si era subito slanciato fuori della macchia correndo precipitosamente verso la capanna, deciso a strangolare la seconda vittima.
Sapeva di avere un vantaggio di più di un quarto d’ora sul maharatto, tuttavia percorreva la strada a gran velocità.
Attraversò la giungla impiegando meno di mezz’ora e si fermò sul margine della piantagione, dopo aver preparato un secondo laccio.
– Il padrone sicuramente starà in guardia – mormorò.
– Se mi vede tornare, crederà che io abbia abbandonato Kammamuri e mi spaccherà la testa con una palla di carabina. Quell’uomo di certo non scherza.
Aprì adagio i bambù e guardò verso il nord. A quattrocento passi di distanza vide la capanna e, vicino a essa, Tremal–Naik in piedi, con la carabina in mano.
Riprese la corsa verso est, marciando furiosamente per sei o sette minuti, poi si slanciò nella pianura. La capanna stava alla sua destra e Tremal–Naik gli mostrava un fianco. Con un po’ d’astuzia poteva avvicinarsi e cogliere la vittima alle spalle. Così avanzando e soffermandosi per tendere gli orecchi e guardare Tremal–Naik che pareva non accorgersi di nulla, riuscì a raggiungere la capanna.
Scattò come una tigre, un sorriso crudele sfiorava le sue labbra.
“È mio!” mormorò con un filo di voce.
Camminò in punta dei piedi lungo le pareti della capanna e si fermò a dieci passi da Tremal–Naik. Diede un ultimo sguardo verso la giungla e non vide nessuno.
Fece fischiare rapidamente il laccio attorno a sé e lo slanciò facendo un balzo avanti: Tremal–Naik piombò al suolo come un albero sradicato dal vento, ma, fortunatamente, una mano gli si incastrò nel laccio.
– Kammamuri! – gridò, afferrando con l’altra mano la corda e tirandola a sé con forza disperata.
– Muori! muori! – urlò l’assassino, trascinandolo a terra.
Tremal–Naik mandò un secondo grido.
– Kammamuri! Aiuto!
– Eccomi – gridò una voce.
Manciadi digrignò i denti con rabbia. Sul limite della piantagione era improvvisamente apparso il maharatto: davanti a lui correva, con balzi giganteschi, la tigre con a fianco Punthy.
Un lampo illuminò la notte seguìto da una fragorosa detonazione. Manciadi fece un salto di dieci passi e si precipitò all’impazzata verso la riva vicina. Un secondo sparo rimbombò e Manciadi piombò nel fiume, scomparendo fra i flutti.
L’agguato a Manciadi
Anche se parecchio confuso, appena sentì che il laccio si stava allentando, Tremal–Naik si alzò, raccolse la carabina e corse velocemente verso il fiume, con l’intenzione di vendicarsi del traditore. Quando però arrivò sulla riva, Manciadi era scomparso.
Si immerse nell’acqua ma nessun uomo appariva sulla superficie del fiume.
– Ah! Delinquente! – esclamò furioso.
– Padrone! – gridò Kammamuri, accorrendo accompagnato dalla tigre e dal cane. – Dov’è l’assassino?
– È scomparso, Kammamuri, ma lo ritroveremo.
– Sei ferito?
– Tremal–Naik non si lascia strangolare.
– Il sangue mi si è gelato nel petto, padrone. Temevo di non giungere in tempo per salvarti. Ah, che canaglia! Strangolare il mio padrone! Che traditore!
– E Aghur? Quale è stata la sorte di Aghur?
– Era là, morto accanto a uno stagno, con il laccio al collo e un pugnale nel petto. Il miserabile Manciadi, dopo averlo atterrato, l’ha finito con quell’arma.
– Quel mostro dunque, aveva predisposto un piano infernale?
– Sì, padrone. Aveva assassinato Aghur per spingermi ad allontanarmi e poi avere facilità di piombare su di te. Per fortuna l’ho capito in tempo e sono arrivato al momento giusto.
– Ma non avevi alcun sospetto prima?
– No, padrone, non avevo mai dubitato. Egli ci ha ingannato molto bene. Quale scopo poteva avere per assassinarci?
– Temo che l’abbiano mandato qui gli indiani di Raimangal.
Tremal–Naik guardò un’ultima volta la giungla e il fiume e si diresse lentamente verso la capanna, davanti alla quale si arrestò. Passarono tre lunghe ore prima che il maharatto si muovesse. Il suono acuto del ramsinga lo strappò dalla sua immobilità.
– Tromba funesta! – mormorò con rabbia. – È accaduta una nuova disgrazia? Fai bene ad avvertirmi.
Fece più volte il giro della capanna guardando attentamente in mezzo alle erbe, ma non notò nulla di nuovo. Rientrò portando con sé Darma e Punthy, barricò la porta e vi si sdraiò dietro, in maniera da essere svegliato dal più piccolo urto.
Passarono parecchie ore senza che nulla accadesse. Kammamuri, sempre più inquieto, non chiudeva gli occhi e si alzava spesso per affacciarsi, con grande precauzione, alle finestrine.
Verso la mezzanotte la luna tramontò lasciando la giungla nella più completa oscurità.
Al mattino Kammamuri uscì velocemente. Vide come prima cosa un pugnale piantato per terra a pochi passi dalla capanna. Teneva infilzato un foglietto color azzurro.
– Oh! – esclamò egli, indietreggiando. – Qualcuno dunque ha osato spingersi qui?
Si avvicinò con precauzione e quasi con ripugnanza a quegli oggetti e, tremando, li raccolse. Il pugnale era di acciaio brunito, metallo che lascia vedere le venature, di una forma particolare e con delle strane incisioni sulla lama.
Aprì il foglio e vide disegnato un serpente con una testa di donna, il simbolo misterioso degli indiani di Raimangal. Sotto c’erano alcune righe scritte in rosso.
“Cosa significano queste righe?” si chiese il maharatto.
“Qui sotto c’è un mistero, che il padrone sarà in grado di scoprire”.
– Padrone – disse il maharatto.
– Cosa vuoi? – chiese l’indiano con voce sorda.
– Lascia i pensieri e guarda questi oggetti. C’è da decifrare un mistero.
Tremal–Naik si girò con un grande sforzo. Una contrazione nervosa alterò i tratti del suo volto nel guardare il pugnale che Kammamuri gli mostrava.
– Cos’è? – chiese rabbrividendo. – Chi ti ha dato quell’arma?
– L’ho trovata davanti alla capanna. Leggi questa lettera, padrone.
Tremal–Naik la prese e lesse con curiosità e grande interesse:
Tremal–Naik, la misteriosa divinità che regna temibile su tutta quantal’Indiatiinviailpugnaledellamorte.Bastauna scalfittura della sua punta avvelenata, perché tu scenda nella tomba.
Tremal–Naik, tu devi scomparire dalla faccia della terra: te lo ordina la divinità. Solo in questo modo puoi fermareilfulminechestapercaderesullatestadicolei che fu condannata. Questa sera, al calar del sole, Manciadi attende il tuo cadavere.
Suyodhana.
Tremal–Naik nel leggere la lettera era impallidito.
– Che?... – esclamò egli. – La mia vita? Cosa significa questa minaccia? Morire io?!
– Padrone – mormorò Kammamuri, che tremava in ogni parte del corpo. – Corriamo un gran pericolo, lo sento.
– Non aver paura, Kammamuri – rispose Tremal–
Naik. – Questi vigliacchi cercano solo di spaventarci, ma io sfiderò la misteriosa divinità che regna temibile su tutta quanta l’India. Ah! Essi chiedono la mia vita?
La loro divinità mi ordina di scendere nella tomba e m’invia il pugnale? Tremal–Naik non sarà così stupido da servirsene, né...
Si interruppe. Un pensiero terribile gli era balenato nella mente.
Tornò a guardare la lettera. Un’ansia crudele si dipinse sul suo volto.
– “Un fulmine su colei che fu condannata”!
– Padrone?
– Una donna condannata... Se fosse...
– Chi? Padrone, chi?...
– Ada! – esclamò con voce straziante l’indiano. – Oh, mia povera Ada! Kammamuri, Kammamuri…
Tremal–Naik uscì dalla capanna e rientrò trasformato dalla rabbia in modo terribile.
– Padrone, stiamo tranquilli… è impossibile che l’uccidano – provò a calmarlo Kammamuri.
– E se fosse vero? E se quegli assassini la uccidessero? Che orrore. Non voglio pensarci nemmeno.
Un singhiozzo squarciò il suo petto. Si contorse come un serpente, afferrandosi il capo fra le mani. Poi, tutto a un tratto, scattò in piedi: una luce paurosa e macabra comparve nei suoi occhi.
– È giunta l’ora della vendetta! – disse con voce impossibile da riprodurre. – Ada, io vengo a salvarti!
E, presa una pistola, fece per andarsene.
Kammamuri lo fermò.
– Dove vai, padrone? – gli chiese, trattenendolo per le braccia.
– A Raimangal! A salvarla prima che la uccidano.
– Ma non capisci che laggiù troverai la morte? Non sai che a Raimangal troverai minimo mille uomini che desiderano solo ucciderti? Pensando di salvare colei che ami, tu la uccidi, padrone… – Io?
– Sì padrone, credimi. Così facendo tu la uccidi. Appena ti vedranno, scoppierà il finimondo e per quella donna sarà la fine. Calmati, padrone, ascoltami. Lascia fare a me. Chissà, forse quegli uomini hanno voluto solamente spaventarti.
Tremal–Naik lo guardò pensieroso. Forse Kammamuri aveva ragione.
– Non è ancora giunta l’ora di recarsi nell’isola maledetta, né tu sei ancora pronto per lottare contro di loro – continuò il maharatto. – Essi vogliono il tuo cadavere, l’hanno scritto; ebbene, essi lo avranno, ma sarà un cadavere ancora vivo e che salterà alla gola dell’assassino del povero Aghur. Lascia che io ti guidi, padrone; i maharatti sono furbi, tu lo sai.
– Cosa vuoi dire? – chiese Tremal–Naik, che a poco a poco si quietava.
– Voglio dire che ci serve un uomo che confessi ogni cosa, per capire come dovremo muoverci. Se sarà necessario, domani partiremo per Raimangal.
– Ci occorre un uomo?
– Sì, padrone, e quest’uomo sarà Manciadi. Ascoltami con attenzione. Questa sera, al tramonto, io ti porterò nella giungla e tu fingerai di essere morto. Io e Darma ci nasconderemo a pochi passi da te, affinché non ti accada alcuna disgrazia. Quando arriva il brigante che assassinò Aghur, noi ci lanceremo su di lui e lo faremo prigioniero. Sarò io stesso a fargli confessare il luogo dove nascondono la donna che tu ami e farlo parlare sul numero e sui mezzi dei nostri nemici. Sono sicuro che andrà bene.
Tremal–Naik prese le mani del maharatto e le strinse affettuosamente.
– Rimarrai? – chiese Kammamuri, con immensa gioia.
– Sì, rimarrò – disse Tremal–Naik, emettendo un profondo sospiro. – Ma domani, magari da solo, andrò a Raimangal. Sento che Ada è in pericolo.
– Non sarai solo – disse Kammamuri. – Io e Darma ti accompagneremo. Ora calma e occhi bene aperti: questa sera avremo Manciadi in mano nostra.
Durante la giornata non accadde nulla di nuovo. Kammamuri si recò parecchie volte nella giungla, armato sino ai denti, sperando di scorgere qualcuno, forse lo stesso Manciadi, ma non vide anima viva, né udì alcun segnale o rumore.
Alle sette il sole cadeva a occidente. Era il momento di agire.
– Padrone – disse il maharatto, che si strofinava allegramente le mani, – non perdiamo tempo.
Proprio in quel momento, a sud, echeggiò il ramsinga.
– Il vigliacco si avvicina – disse Kammamuri. – Forza, padrone, io ti porto nella giungla. Non una parola, non il più piccolo movimento per non far fallire l’imboscata. Appena l’assassino compare, la tigre lo atterrerà.
Afferrò il padrone, se lo caricò sulle spalle dopo avergli nascosto sotto la fascia che cingeva la vita un paio di pistole e si diresse, barcollando, verso la giungla.
Il sole tramontava dietro le gigantesche piantagioni dell’occidente, quando giunse ai primi bambù. Depose Tremal–Naik, che restava immobile come un cadavere, fra le erbe, poi curvandosi su di lui gli disse:
– Non fare alcuna mossa. Appena la tigre si slancerà su Manciadi, alzati e chiudi la bocca al miserabile. Forse ci sono altri indiani nei dintorni.
– Lascia fare a me – bisbigliò Tremal–Naik. – Tutto andrà bene.
Kammamuri si allontanò con la testa china sul petto, come un uomo addolorato. Quando giunse alla capanna, un secondo squillo di tromba echeggiava fra i bambù spinosi della giungla.
– È ancora molto lontano Manciadi – disse. – Tutto va bene.
Entrò nella capanna si armò con le pistole e un coltellaccio, e uscì guardando attentamente verso il fiume e verso la giungla.
Poi con la tigre si slanciò a precipizio verso sud, nascosti da una piccola piantagione di mussenda e di indaco. In meno di cinque minuti raggiunsero i bambù e si nascosero vicino a Tremal–Naik.
Un terzo squillo di tromba, ma più vicino, ruppe il profondo silenzio che regnava nelle Sunderbunds.
– Buono – mormorò Kammamuri, impugnando una delle due pistole. – Il miserabile si sta avvicinando.
Guardò il padrone. Sembrava un vero cadavere: era coricato su di un fianco, con la testa nascosta sotto un braccio. Avrebbe ingannato anche un marabù o uno sciacallo.
Manciadi si avvicinava strisciando come un serpe, senza produrre il più piccolo rumore. Forse temeva di cadere in un’imboscata e avanzava con mille cautele.
Kammamuri si alzò sulle ginocchia, allungando la mano armata di pistola.
Là, di fronte, vide i bambù muoversi impercettibilmente, poi uscirono due mani e infine una testa d’un giallo lucente. Era di Manciadi, l’assassino del povero Aghur.
La tigre si era alzata raccogliendosi su se stessa; aspettava solo il comando per poter scattare.
Manciadi guardò Tremal–Naik con due occhi che mandavano orribili lampi e fece una tremenda risata. Il cacciatore di serpenti non si mosse.
L’indiano allora uscì dai bambù, col laccio in mano, e fece alcuni passi verso il finto cadavere.
– Darma, afferralo! – esclamò Kammamuri, saltando in piedi.
La tigre fece un balzo di quindici passi e piombò come un fulmine sull’assassino, che fu violentemente atterrato.
Tremal–Naik, rialzandosi, si scagliò su di lui e con un formidabile pugno lo stordì.
– Così va bene – disse Kammamuri. – Ora lo faremo parlare. Non uscirà vivo dalle nostre mani, te lo giuro, padrone, e Aghur sarà vendicato.
Kammamuri afferrò Manciadi per le gambe, Tremal–Naik lo strinse sui polsi e partirono correndo. Pochi minuti dopo giungevano alla capanna, sbarrando la porta dietro di loro.
La tortura
Ilpiù era fatto. Ormai non rimaneva altro che far parlare il prigioniero, cosa non semplice visto che gli indiani erano testardi. Però, i due cacciatori di serpenti possedevano dei mezzi tali da far sciogliere la lingua anche a un muto.
Disteso il prigioniero in mezzo alla capanna, accesero a poca distanza dai suoi piedi un grande fuoco e attesero pazientemente che rinvenisse, per cominciare la tortura.
Non passò molto tempo che l’indiano mostrò di essere ancora vivo.
Incominciò a respirare con affanno, agitò le braccia e le gambe, si scosse e infine aprì gli occhi fissandoli sul cacciatore di serpenti.
Subito una grande meraviglia apparve sul suo volto e i suoi lineamenti si alterarono, dimostrando dispetto, terrore e rabbia.
– Manciadi – disse Tremal–Naik, – chi è questa dea che tu chiami Kâlì e che chiede tanti sacrifici umani?
– Non parlerò.
– Cominci male, Manciadi. Mi costringerai a torturarti.
– Manciadi sa resistere.
– Facciamo un’altra domanda. A me occorre sapere quanti uomini si trovano a Raimangal.
– Non lo so neppure io. So che sono molti e che obbediscono tutti a Suyodhana, il nostro capo.
– Ma tu conosci la vergine della pagoda sacra?
– Certo.
– Allora parlami di Ada Corishant.
– Parlarti di Ada Corishant? – esclamò egli, ghignando. – Giammai!
– Manciadi! – disse Tremal–Naik, pieno di rabbia. – Bada che ti farò soffrire mille torture se ti ostini a tacere. Dove si trova Ada Corishant?
– Chissà, forse a Raimangal, forse a nord del Bengala, forse in mare. Forse è ancora viva e forse è morta.
Tremal–Naik mandò un grido furibondo.
– Forse morta? – esclamò, mordendosi le mani. – Tu sai qualche cosa. Vedrai che parlerai… se no, ti brucerò entrambe le gambe!
– Puoi bruciami anche le braccia fino alle spalle, Manciadi non parlerà. Lo giuro sulla mia dea.
Tremal–Naik afferrò allora il prigioniero per le braccia e lo sbatté a terra con violenza. Il maharatto gli prese i piedi e li avvicinò alla fiamma. La dura pelle delle piante si annerì a contatto con i carboni ardenti e quasi arrostì. Un nauseante odore di carne bruciata si sparse dentro la capanna...
Manciadi si contrasse fremendo e i suoi occhi divennero rossi di sangue.
– Tienilo fermo, Kammamuri – disse Tremal–Naik.
Un urlo straziante sfuggì al torturato.
– Basta... basta – ripeté egli con voce strozzata. – Non lo sopporto!
– Parlerai? – gli chiese Tremal–Naik. Manciadi digrignò i denti, poi si morse le labbra e negò risolutamente, quantunque il fuoco continuasse a mordergli e ustionargli la pelle.
Passarono ancora due o tre secondi. Un secondo urlo, ancor più straziante del primo, gli uscì dalle labbra.
– Basta! – rantolò. – È troppo!
– Parlerai ora?
– Sì... parlerò... basta... Aiuto!...
– Lo sapevo che avresti parlato. Svelto, se non vuoi che ricominci. Dove si trova la vergine della pagoda sacra?
– Nei... sotterranei – mormorò Manciadi con voce quasi incomprensibile.
– Giurami sulla tua divinità che non ci inganni.
– Lo... giuro... su... Kâlì.
– Avanti ora. Qual pericolo corre? Parla! Dicci tutto!
– Mi avevano ordinato... Ah, cani...
– Continua.
– Una condanna pesa... su Ada... Kâlì l’ha condannata a morte. Il tuo padrone la ama... lo ama anche lei... Eb -
bene, uno dei due... deve morire. Mi hanno mandato qui per assassinarlo... Ho mancato il colpo...
– Avanti! Avanti! – esclamò Tremal–Naik, che ascoltava ogni parola.
– Quando non mi vedranno tornare, capiranno la sorte che... mi è toccata... sapranno che tu... sei ancor vivo... Ebbene, uno dei due... bisogna che muoia... Ada è in loro mano... morrà... bruciata... Kâlì l’ha condannata.
– Orrore! Ma io la salverò! So cosa devo fare – disse Tremal–Naik. – Io vado!
Tremal–Naik prese la carabina, le pistole e il coltellaccio, si munì di tanta polvere e di proiettili e uscì a rapidi passi.
Improvvisamente si udì un rumore sordo. Guardò verso la capanna e notò Kammamuri che gli veniva incontro correndo. Era armato fino ai denti e trascinava i remi del canotto.
– Cos’è successo? – chiese il cacciatore di serpenti.
– Kammamuri ha vendicato Aghur – rispose il maharatto.
– Hai ucciso Manciadi?
– Sì, padrone, ora quindi potrò venire con te.
I due indiani e la tigre in pochi minuti giunsero presso il fiume Mangal, le cui acque si erano ingrossate per i frequenti acquazzoni e scorrevano velocemente.
Si nascosero per un po’ fra i canneti, poi, certi di non essere visti, si affrettarono verso la riva e spinsero in acqua il canotto.
Il maharatto tagliò diversi alberi di bambù lunghi più di dieci metri e coprì accuratamente il canotto con essi, così da farlo scambiare per un mucchio di canne.
– Si sta facendo notte – disse quindi, nascondendosi sotto il canotto con Tremal–Naik e Darma. – Gli indiani non sospetteranno di un canotto coperto da canne, che sotto ci siano persone e una belva.
– Presto, Kammamuri, spingiamoci al largo – disse Tremal–Naik fremendo di impazienza. Poi si sdraiò a prua a fianco della tigre e Kammamuri si posizionò a poppa.
Ad un tratto dall’oscurità si udì una voce.
– Chi è là?
– Siamo indiani di Raimangal – rispose Tremal–Naik.
– Sbrigatevi allora, che è quasi mezzanotte.
– Perché, che succede a mezzanotte?
– La vergine della sacra pagoda sale sul rogo.
– La vergine verrà perciò bruciata?
– Sì, a mezzanotte precisa. Il rogo è pronto e la fanciulla salirà nel paradiso di Kâlì.
– Grazie, fratello – rispose con voce soffocata Tremal–Naik.
– Una parola ancora. Hai udito il ramsinga?
– No.
– Hai visto Huka?
– Sì, accanto al falò.
– Sai dove verrà bruciata la vergine?
– Nei sotterranei, mi pare.
– Sì, nella grande pagoda sotterranea. Affrettati che è tardi. Addio, fratello.
Kammamuri afferrò i remi e si mise a spingere con tutta la forza che aveva.
– Presto!... Presto! – disse Tremal–Naik, fuori di sé. – A mezzanotte salirà sul rogo...
Il canotto attraversò lo specchio d’acqua con gran velocità, come fosse una freccia scoccata.
Tremal–Naik prese le armi e con Kammamuri e la tigre scese a terra.
Si aggrapparono poi ai colonnati e raggiunsero i rami superiori, avvicinandosi alla sommità del tronco. La tigre li raggiunse con un balzo solo.
Tremal–Naik guardò giù nella cavità e vide delle tacche che permettevano la discesa. Si calarono quindi silenziosamente nel tronco. Il maharatto e Darma lo seguirono da vicino. Pochi minuti dopo i due indiani e la tigre si trovavano nel sotterraneo, in una specie di pozzo semicircolare scavato nella roccia.
Nella pagoda sotterranea
Una
volta discesi nei sotterranei, i tre si misero alla ricerca del gran tempio della dea Kâlì: lì sarebbero piombati improvvisamente sulla gente e avrebbero potuto rapire la vittima, approfittando della confusione e dello sgomento che avrebbe provocato l’arrivo della tigre.
Non era però facile muoversi in quella profonda oscurità, in quei fitti cunicoli sotterranei. Con le mani ai muri, avanzarono l’uno dietro l’altro, tastando con i piedi il terreno per non cadere in qualche apertura pericolosa. Procedevano in assoluto silenzio, non sapendo se erano soli o se qualche sentinella si trovasse vicina.
Tremal–Naik posò i piedi su di un gradino viscido e cominciò a discendere con le mani tese dinanzi a sé, per non urtare contro qualche ostacolo.
Aveva gli occhi bene aperti.
Dopo alcuni gradini, scendeva una galleria.
Il momento terribile si avvicinava; la mezzanotte stava per scoccare.
Poco dopo si nascosero dietro un’enorme colonna, da dove potevano vedere senza essere scoperti.
Davanti ai loro occhi si presentò uno strano spettacolo: quaranta indiani seminudi, col serpente tatuato sul
petto, il laccio di seta stretto attorno ai reni e il pugnale in mano, erano seduti in cerchio con le gambe incrociate e fissavano una mostruosa divinità di bronzo. Uno di loro aveva vicino un enorme tamburo e, seguendo un ritmo tribale, lo percuoteva facendo rimbombare le volte della caverna.
– Il sacrificio non è ancora cominciato – esclamò Tremal–Naik. Si aprì una porta e un indiano di alta statura, magrissimo, con una lunga barba nera e gli occhi scintillanti entrò nella caverna.
– Saluto a Suyodhana, figlio delle sacre acque del Gange! – esclamarono in coro i quaranta indiani.
– Saluto a Kâlì e ai suoi figli – rispose l’indiano con voce cupa.
Suyodhana entrò nel tempio, si inchinò dinanzi alla divinità di bronzo e si voltò verso gli indiani. Quindi, dopo un attimo, gridò con voce squillante:
– L’ultima ora della vergine della pagoda è giunta, fratelli. Manciadi è morto.
Al suono dell’ hauk e dei funebri tarè, gli indiani cominciarono, attorno alla dea Kâlì, una danza macabra, facendo roteare in aria i loro veli di seta azzurra o rossa.
Tutto a un tratto la danza cessò. Gli uomini che erano tornati a sedersi, a un cenno di Suyodhana si rialzarono.
Tremal–Naik comprese che il supplizio stava per avere inizio.
Una larga porta si aprì ed entrarono dieci strangolatori con dei grandi vasi di terracotta coperti di pelle.
Infine, dietro a quegli uomini apparve la sfortunata
Ada con la sua corazza d’oro tempestata di diamanti preziosi, la gonna e le calze di seta bianca e i capelli sciolti sulle spalle.
La vittima era pallidissima, come un cadavere, logorata dai lunghi digiuni e dalle bevande a base di oppio che le erano state fatte trangugiare.
La sostenevano due strangolatori coperti da una lunga tonaca di seta gialla e altri dieci la seguivano cantando elogi per il suo eroismo e promettendole eterna felicità nel paradiso di Kâlì, come ricompensa per le sue enormi virtù.
Il momento terribile era vicino. Già Suyodhana aveva acceso la pira e le fiamme erano alte.
Gli strangolatori, urlando, la trascinavano e i tamburi intonavano la marcia della morte.
D’un tratto la vittima si destò. Vide la pira accesa davanti a lei e comprese il pericolo che correva. Nonostante fosse preda dell’oppio, si rammentò della condanna pronunciata da Suyodhana: un urlo straziante le lacerò il petto.
– Tremal–Naik! Oh, Tremal–Naik!
Dal fondo del buio corridoio tuonò un urlo: – Sbrana, Darma! Sbrana!
La tigre del Bengala non attendeva che quel comando. Uscì dal nascondiglio, con la bocca aperta e gli artigli tesi, si distese, si ritrasse, emise un rauco ruggito, poi spiccò un balzo gigantesco e piombò in mezzo agli strangolatori.
Alla vista dell’animale, tutti gridarono di terrore e in un attimo la tigre uccise due uomini.
– Sbrana, Darma! Sbrana! – ripeté la stessa voce di prima.
Improvvisamente rimbombarono quattro colpi che fecero fuggire alcuni indiani e atterrirono tutti gli altri.
In mezzo alla nube di fumo apparve il cacciatore di serpenti della giungla nera con il coltello in pugno. Afferrò la giovane priva di sensi, la strinse fra le sue braccia e scomparve con Kammamuri e la tigre.
Tornano gli strangolatori
Isotterranei di Raimangal, abitati dai settari di Kâlì, erano molto vasti.
Tremal–Naik, seguito da Kammamuri e dalla tigre, correva alla massima velocità, stringendo sempre fra le braccia la malcapitata svenuta e avendo cura di preservarla da qualsiasi urto.
Man mano che correva, aveva sempre maggiori forze; quel fardello gli sembrava adesso più leggero.
Correva ormai da dieci minuti, quando sbatté contro una parete che gli sbarrava il passo: l’urto fu così forte, che cadde pesantemente a terra trascinando con sé Ada.
Si rialzò tenendo sempre stretta la giovane.
– Padrone! – esclamò il maharatto, atterrito. – Cosa succede?
– La via è sbarrata! – esclamò Tremal–Naik con sguardo feroce.
– Fermiamoci, padrone.
Tremal–Naik stava per rispondere, quando in lontananza si udirono urla spaventose. Fece un salto indietro, emettendo un grido di rabbia e di disperazione.
Girò a destra e riprese la corsa, ma dopo dieci passi vide che anche quella strada era senza sbocco.
– Maledizione! – tuonò. – Siamo intrappolati!
Si precipitò allora da un’altra parte, ma anche qui non c’era uscita: una parete si frapponeva a loro.
La tigre, che si era pure scagliata contro le rocce, fece un selvaggio ruggito.
Tremal–Naik si volse indietro. Ebbe per un istante l’idea di ritornare sui propri passi per cercare un’altra galleria, ma il timore di trovarsi di fronte gli inseguitori lo fece rinunciare.
Ad un tratto si trovarono davanti a un parapetto in mezzo alla grotta.
– Questo dev’essere un pozzo – mormorò il maharatto.
Prese un proiettile dalla carabina e lo lasciò cadere in fondo. Dopo due secondi udì un sordo rumore.
– Bene, il pozzo non ha acqua e non è tanto profondo...
Si legò intorno al corpo una fune che aveva portato con sé, diede l’estremità a Tremal–Naik e si calò nel pozzo agitando le gambe nel vuoto. La discesa durò poco e Kammamuri si trovò su di un terreno liscio che risuonò come se sotto fosse vuoto.
Ada, legata sotto le ascelle, passò nelle braccia di Kammamuri; poi Tremal–Naik si lasciò cadere giù portando la corda. Riprese poi la giovane e la trasportò più lontano: la tigre intanto con un gran salto arrivò nel pozzo.
Ad un tratto però si udì un lontano fragore.
– Giungono? – si chiese Tremal–Naik, stringendo con
la sinistra la mano della giovane e afferrando con la destra una pistola.
La tigre emise un sordo brontolìo.
Il rumore si udì sempre più forte, fu vicinissimo, poi cessò tutto d’un colpo.
– Padrone – mormorò Kammamuri, – spegni il fuoco!
Tremal–Naik ubbidì e presto piombarono nelle tenebre più assolute. Quel rumore tornò a ripetersi sulle loro teste e, come prima, cessò.
Ada tremò così forte che l’indiano se ne accorse.
– Non avere paura, ci sono qui io a difenderti – le disse. – Nessuno scenderà quaggiù.
– Ma che cos’è? – chiese Kammamuri. – Ne sai nulla, Ada?
– Questo rumore l’ho già sentito – rispose con un filo di voce la giovane, – però non ho mai saputo cosa sia e chi lo producesse.
La tigre emise un secondo brontolìo e guardò fissa la cavità del pozzo come se l’istinto le avesse detto qualcosa.
– Kammamuri – disse Tremal–Naik, – qualcuno si avvicina.
– Sì…
– Rimani con Ada, io vado a vedere se scendono.
La giovane si strinse a lui, tremando in preda allo spavento, quindi mormorò con voce appena percettibile:
– Tremal–Naik, ho paura…
– Non temere, Ada, sei al sicuro – rispose l’indiano.
Si svincolò dalle braccia della ragazza e si avvicinò al pozzo con il coltello fra i denti e la carabina armata.
La tigre lo seguiva, brontolando.
Guardò in alto, era troppo buio per distinguere qualche cosa. Tendendo bene l’orecchio, raccolse un lieve bisbiglio: c’erano alcune persone.
Tremal–Naik scorse infatti, chinati sul pozzo, sei o sette indiani. Puntò rapidamente la carabina e drizzò la canna verso il parapetto che gli stava davanti. Quindi premette il grilletto.
Uno scroscio rimbombò sul pozzo e ogni fragore improvvisamente cessò. Tremal–Naik scaricò una delle sue pistole, lanciando grida di rabbia.
Kammamuri e Ada si affrettarono verso di lui.
– Hanno sbarrato il pozzo, ma usciremo di qui, mia cara Ada, te lo prometto.
Tremal–Naik e il maharatto si diressero verso le pareti e si misero a toccarle con attenzione, sperando di trovare qualche passaggio che permettesse loro la fuga. Dopo una buona mezz’ora che cercavano, percuotendo le rocce col coltello e scrostandole, si accorsero che la temperatura dell’antro era cambiata, diventando assai calda. Tremal–Naik e il maharatto sudavano come se fossero attaccati a una stufa.
Passò un’altra mezz’ora, in cui la temperatura aumentò ancora. Pareva che dalle rocce uscissero vampate di fuoco. Quel calore divenne insopportabile.
I due indiani tornarono presso la giovane, ma questa dormiva. Si confrontarono su come proseguire e, impugnati con forza i coltelli, colpirono vigorosamente la roccia in un punto in cui era cava. Ben presto però dovettero fermarsi. La temperatura era diventata ardente e morivano di sete. Cercarono qualche pozza d’acqua, ma non ne trovarono una sola goccia. Ebbero paura.
– Il nostro destino sarà di morire in questa grotta? – si chiese Tremal–Naik, gettando uno sguardo disperato su quelle rupi, che a poco a poco si scrostarono.
In quell’istante udirono sopra le loro teste un grosso boato: un enorme pezzo di rupe si staccò e cadde a terra con grande fracasso. Quasi subito, da quel crepaccio, piombò sopra di loro una grande quantità di acqua.
– Siamo salvi! – urlò Kammamuri.
– Tremal–Naik… – mormorò la giovane, svegliata dal rumore della cascata. L’indiano si lanciò verso di lei.
– … Soffoco... mi manca l’aria. Cos’è questo intenso calore che mi toglie il respiro? Un sorso d’acqua, Tremal–Naik, dammi un sorso d’acqua.
Il cacciatore di serpenti la prese fra le sue robuste braccia e la portò presso la cascata, dove il maharatto e la tigre stavano già bevendo.
Riempì le sue mani di acqua e le accostò alla bocca
della giovane, dicendole:
– Bevi, Ada, bevi.
Le porse parecchie volte da bere e poi, a sua volta, si dissetò.
All’improvviso la tigre emise un rauco miagolio, poi cadde pesantemente al suolo, dibattendosi furiosamente. Kammamuri, spaventato, si slanciò verso la belva, ma le forze tutto d’un tratto gli mancarono e cadde a faccia in su con gli occhi stravolti, le mani raggrinzate e le labbra insanguinate.
La giovane come la tigre e Kammamuri aveva gli occhi sbarrati, la spuma alle labbra e la faccia spaventosamente alterata. Agitò le mani cercando di aggrapparsi al collo dell’indiano, aprì la bocca come se volesse parlare, poi chiuse gli occhi e si irrigidì...
Tremal–Naik la sostenne e mandò un urlo straziante.
Fu l’ultimo suo grido. La vista gli si offuscò, i muscoli gli si irrigidirono, scosse violentemente il capo, vacillò, si raddrizzò, poi cadde come fulminato sulle ardenti pietre della caverna, trascinando la fidanzata. Quasi nel medesimo istante sopra il pozzo si sentì un rumore sordo e un gruppo di indiani si precipitò nella grotta e raggiunse i quattro.
Il capitano Macpherson
Anche se era notte e anche se migliaia di pericoli si aggiravano fra le ombre della notte, un uomo, vestito da capitano dell’esercito, stava sdraiato ai piedi di un grande tamarindo. All’aspetto sembrava avesse sui 35 anni. Era alto, robusto e abbronzato, ma non scuro come gli indiani. Era chiaramente un europeo, la cui pelle si era probabilmente scurita per i lunghi anni trascorsi in quei luoghi.
Il suo volto fiero era coperto da una lunga barba nera, ma la sua fronte era solcata da precoci rughe. Gli occhi grandi denotavano a volte malinconia, a volte coraggio.
Dopo qualche minuto giunse un’imbarcazione: al suo interno si trovavano sei indiani comandati da un sergente, che saltò a terra e si sdraiò vicino al capitano sotto il tamarindo.
– Fra un’ora Negapatnan sarà qui – disse l’indiano. Un flusso di sangue imporporò il viso del capitano.
– L’hanno preso quindi? – esclamò emozionato. – Sono certi che sia uno strangolatore?
– Certissimi, anzi è uno dei capi più potenti. Volete sapere qualcosa da lui?
– Sì – esclamò il capitano, diventando assai triste. Si
capiva che un atroce dolore in quel momento aveva accasciato il suo forte animo.
– Capitano – disse il sergente, commosso da quell’improvviso cambiamento, – ho forse risvegliato in voi ricordi dolorosi? Perdonatemi, non lo sapevo.
– Stai tranquillo, mio caro Bhârata – rispose il capitano Macpherson, stringendogli fortemente la mano. – È giusto che tu sappia tutto. Era l’anno 1853 – disse con voce che invano si sforzava di rendere calma, – mia moglie era morta da parecchi anni, uccisa dal colera, e mi aveva lasciato una fanciulla, bella, con i capelli neri, gli occhi grandi, dolci e scintillanti come diamanti. Ada era il suo nome… La mia povera Ada...
Scoppiò a piangere e per un attimo la sua voce si arrestò. Si nascose il capo fra le mani, in preda a singhiozzi infantili.
– … una mattina la popolazione di Calcutta era in preda a un vivo sgomento. Gli strangolatori avevano affisso ai muri e ai tronchi degli alberi dei manifesti per avvertire gli abitanti che la loro dea chiedeva una ragazza per la sua pagoda. Senza sapere il perché, fui preso da un grande pensiero. Ebbi il presagio di una imminente disgrazia. Pensai di far nascondere mia figlia: la feci imbarcare la sera stessa e la rinchiusi entro le mura del forte William, sicuro che essi non sarebbero giunti fino a lei. Tre giorni dopo, credimi, la mia Ada si è svegliata
con il tatuaggio degli strangolatori sulle braccia. Provai una paura così forte che mai avevo provato in vita mia. Mi resi conto che proprio mia figlia era stata scelta dalla mostruosa dea. Da quel momento non la lasciai un attimo: mangiavamo assieme, dormivo nella stanza vicina, misi sentinelle che vegliavano giorno e notte davanti alla sua porta. Tutto fu inutile: una notte mia figlia scomparve.
– Vostra figlia scomparve! Ma come è stato mai possibile?
– Gli strangolatori hanno sfondato una finestra, da lì sono entrati e l’hanno rapita. Le sentinelle erano state addormentate con un sonnifero e nessuno si è accorto di nulla.
Il capitano si arrestò di nuovo da quel doloroso ricordo, quindi riprese: – L’ho cercata per anni, ma non sono riuscito a trovare nemmeno una traccia. Gli strangolatori l’hanno trascinata nel loro inaccessibile covo. Mi cambiai anche nome per non essere riconoscibile e indissi una vera guerra contro di loro. Centinaia di quegli uomini caddero nelle mie mani e li feci morire fra i più atroci tormenti, sperando di strappare loro una confessione che mi mettesse sulle tracce della mia povera Ada, ma tutto fu vano. Quattro lunghi anni sono passati e mia figlia è ancora nelle mani di quegli uomini maledetti...
Il capitano non si frenò più e per la seconda volta scoppiò in singhiozzi.
In lontananza si sentì uno squillo di tromba, e subito il capitano e il sergente corsero al fiume.
– Eccoli! – gridò Bhârata.
Giunse un canotto da cui discesero alcuni uomini che tenevano fortemente stretto per le braccia lo strangolatore Negapatnan. In mezzo al petto aveva un serpente azzurro con la testa di donna, circondato da molti segni indecifrabili.
Il capitano prese la pistola e si preparò ad accoglierlo.
Negapatnan
Il capitano Macpherson entrò nella palazzina e percorse una fila di stanze, ammobiliate con semplicità ma con gusto. Bhârata non tardò a raggiungerlo trascinando a viva forza lo strangolatore Negapatnan.
– Siedi e parliamo – disse il capitano, indicando allo strangolatore un sedile di sottili bambù intrecciati.
Negapatnan ubbidì facendo risuonare le catene che gli serravano i polsi. Bhârata si pose al suo fianco, preparando dinanzi a sé due pistole.
– Tu mi conosci? – chiese il capitano Macpherson, fissando l’indiano con uno sguardo acuto.
– Tu sei il capitano Harry Corishant – rispose lo strangolatore, – il padre della vergine della pagoda sacra.
– E come mi conosci?
– Ti ho intravisto tante volte a Calcutta. Anzi… una notte ti ho pure seguito, sperando di poterti strangolare, ma il colpo non mi riuscì.
– E ricordi la notte in cui mia figlia fu rapita?
– Come fosse ieri. Era la note del 24 agosto 1853. Fui proprio io a sfondare la finestra e a rapire tua figlia.
– Ma non hai paura di raccontare queste cose al padre di quella giovane?
– Negapatnan non ha mai avuto paura.
– Ma io ti abbatterò come una canna.
– E i thugs abbatteranno te come un giovane bambù.
– Voglio proprio vederlo.
– Capitano Corishant – disse lo strangolatore, – sopra ai dominatori dell’India c’è una potenza terribile che può tutto. Anche i potenti della terra si piegano sotto il soffio della dea Kâlì, nostra signora. E tu devi tremare!
– Se Negapatnan giammai tremò, il capitano Macpherson giammai ebbe paura.
– È per torturarmi, che mi hai fatto portare qui?
– Sì. Se non ci riveli il segreto degli strangolatori. Solo in questo modo puoi salvarti la vita.
– Ah! Tu vuoi farmi parlare? E su cosa?
– Sono il padre di Ada Corishant. Non ho ancora perso la speranza di riabbracciarla.
– Continua.
– Amo questa mia figlia sfortunata, al punto che darei tutto il mio sangue per la sua libertà. Negapatnan, dimmi dov’è, dimmi dove io posso trovarla.
L’indiano rimase impassibile.
Il capitano Macpherson si alzò raccogliendo da terra uno scudiscio. Era diventato rosso come una fiamma, ed i suoi occhi mandavano lampi di rabbia.
Alzò lo scudiscio e impresse sul volto del prigioniero un solco sanguinoso.
Un urlo bestiale uscì dalle labbra dello strangolatore.
– Uccidimi! – disse con un tono di voce che non sembrava più quello di un uomo. – Uccidimi, perché se non lo fai ti strapperò le carni dalle ossa!
– Sì, io ti ucciderò. Ma lo faro lentamente, goccia a goccia. Bhârata, trascinalo nel sotterraneo. Lo lascerai ventiquattro ore senz’acqua e senza cibo.
Bhârata afferrò lo strangolatore per la vita e lo trascinò, senza che questi opponesse resistenza.
Il capitano Macpherson si mise a passeggiare per la terrazza a passi concitati, cupo, meditabondo.
– Pazienza – esclamò a denti stretti. – Ma sono sicuro che quell’uomo mi confesserà tutto… dovessi strappargli ogni parola a colpi di ferro infuocato.
Poco dopo il capitano decise di andare a caccia di tigri, per cercare di far sbollire la rabbia che quello squallido individuo gli aveva provocato. Partì con il suo sergente e in poco tempo cominciarono a seguire le orme di un felino. Iniziarono a sparare, avevano quasi colpito l’animale, quando questo si slanciò sul capitano.
L’avrebbe ucciso, se non fosse stato per il provvidenziale intervento di un indiano sbucato all’improvviso dal folto della giungla che mise in fuga la tigre. Macpherson gli doveva la vita. Invitò dunque quell’indiano, il cui nome era Saranguy, a recarsi nella sua dimora.
Saranguy
Era
giunta la sera.
Saranguy, dopo aver vagato a caso qua e là nei dintorni delle tettoie e delle palizzate, si era sdraiato dietro a un folto cespuglio come se cercasse di addormentarsi.
Ad un tratto l’urlo acuto dello sciacallo si fece udire in lontananza.
Saranguy si alzò bruscamente, guardando intorno impaurito.
A duecento passi, in mezzo a una macchia, si accesero due puntini luminosi con riflessi verdastri.
Saranguy portò due dita alla bocca e fischiò leggermente.
Subito i due punti luminosi balzarono avanti. Erano gli occhi di una grande tigre, la quale fece udire quel sordo miagolio che è familiare a simili belve.
– Darma! – chiamò l’indiano.
La tigre si abbassò, schiacciandosi contro il terreno, e si mise a strisciare silenziosamente.
– Sei ferita? – gli chiese l’indiano, con voce commossa.
La tigre per tutta risposta aprì la bocca e leccò le mani e il volto dell’indiano.
– Hai sfidato un gran pericolo, povera Darma – ripre -
se l’indiano con tono affettuoso. – Ti prometto che sarà l’ultima prova per te.
Passò una mano sotto il collo della belva e vi trovò una piccola carta rossa, arrotolata e legata a un sottile filo di seta.
L’aprì con mano tremante, gettandovi uno sguardo.
C’erano alcuni strani segni di una tinta azzurra e una riga di sanscrito.
– Vieni, poiché il messaggero è arrivato – lesse.
Camminò per venti minuti rapidamente, seguendo un sentiero appena visibile, poi si fermò.
A venti passi da lui, si era improvvisamente alzato da terra un individuo, il quale puntò deciso un fucile, gridando:
– Chi va là?
– Kâlì – rispose Saranguy.
– Sei forse colui che aspettiamo? – gli chiese.
– Sì.
– Sai chi ti aspetta?
– Kougli.
– Va bene, seguimi.
L’indiano si mise in marcia con passo silenzioso. Saranguy e Darma lo seguirono.
Ben presto egli si trovò dinanzi ad una grande capanna. Il tetto era coperto da foglie e sulla cima v’era una statua della dea Kâlì.
– Chi sei? – chiese un indiano, che era seduto sulla soglia della porta con in mano una carabina, un pugnale e un laccio.
– Kâlì – rispose per la seconda volta Saranguy.
L’indiano entrò in una stanza illuminata da una luce incerta, emanata dalla fiamma di un ramo resinoso.
Un indiano alto come il truce Suyodhana stava sdraiato su di una stuoia, col misterioso tatuaggio sul petto.
La sua faccia era color bronzo, dura, feroce, con folta barba nera. I suoi occhi, profondamente incavati, brillavano di una fiamma funesta.
– Buonasera, Kougli – disse l’indiano entrando, ma pronunciando le parole quasi con dolore.
– Ah, sei tu, amico – rispose Kougli, alzandosi. – Come sono andate le cose?
– Benissimo; Darma ha fatto quello che doveva. Se non la fermavo, schiacciava la testa del capitano.
– Così sei al servizio del capitano.
– Sì.
– In che qualità?
– Di cacciatore.
– Sospetta di nulla?
– No.
– Sa che ti sei allontanato dal bengalow?
– Non lo so. Del resto mi ha concesso ampia libertà di andarmene nei boschi o nella giungla, a cacciare.
– Stai attento però. Quell’uomo possiede cento occhi.
– Lo so.
– Raccontami qualcosa di Negapatnan.
– È arrivato ieri notte al bengalow .
– Lo so, nessuna cosa sfugge al mio sguardo. E dove lo hanno nascosto?
– Nel sotterraneo.
– Lo conosci quel sotterraneo?
– Non ancora, ma lo conoscerò. So che ha le pareti di uno spessore enorme e che un uomo armato veglia notte e giorno davanti la porta.
– Sai più di quanto speravo. Lascia che te lo dica, sei proprio bravo.
La fronte di Saranguy si aggrottò e un leggero tremito percorse le sue membra.
– Sai perché ti ho chiamato?
– Lo indovino, si tratta...
– Di Ada Corishant.
A quel nome, il duro sguardo di Saranguy si spense: una lacrima brillò nei suoi occhi e un profondo sospiro gli uscì dalle labbra esangui.
– Ada! Oh, la mia Ada! – esclamò egli con voce soffocata.
– Parla Kougli, parla. Soffro troppo...
Kougli guardò l’indiano che si era accasciato su se stesso, ponendo con forza una mano sulla fronte.
– Tremal–Naik – disse con voce come di tomba, – ti ricordi quella notte che ti rifugiasti nel pozzo con la tua Ada e il maharatto?
– Sì, me lo ricordo – rispose con voce sorda Saranguy, o meglio Tremal–Naik, il cacciatore di serpenti della giungla nera.
– Ti avevamo catturato. Bastava che Suyodhana lo volesse e tutti e tre a quest’ora sareste già morti.
– Certo che lo so. Ma perché ricordarmi quella notte?
– Bisogna che te la ricordi.
– Affrettati allora, non farmi soffrire tanto. Ho il cuore che mi sanguina.
– Sarò breve. Gli strangolatori avevano pronunciato la vostra sentenza di morte; tu dovevi essere strangolato, la vergine della pagoda doveva salire sul rogo e Kammamuri doveva morire tra i serpenti. Fu Suyodhana a opporsi. Negapatnan era caduto in mano degli inglesi e bisognava salvarlo. Tu avevi dato tante prove di essere un uomo coraggioso e pieno di risorse e ti graziò, purché tu aiutassi la nostra setta.
– Affrettati.
– Ma tu amavi quella donna che si chiama Ada. Bisognava concedertela per avere un fedele e pronto alleato. La nostra dea Kâlì te la offre.
– Ah!... – esclamò Tremal–Naik, balzando in piedi, completamente trasformato.
– È vero quello che dici?
– Sì, è vero – disse Kougli scandendo ogni parola.
– E sarà mia sposa?
– Sì, sarà tua sposa. Ma gli strangolatori esigono qualche cosa da te.
– Qualunque cosa sia io la accetterò. Per quella donna darei alle fiamme l’India intera.
– Bisognerà uccidere.
– Ucciderò.
– Bisognerà salvare degli uomini.
– Li salverò, dovessi assalire una città piena di armi e di soldati.
– Bene, ascoltami.
Si levò dalla cintura una carta, la spiegò e la guardò con profonda attenzione.
– Gli strangolatori – disse – tu lo sai, amano Negapatnan, che è coraggioso, intraprendente e forte. Vuoi la tua Ada? Libera Negapatnan, ma c’è Suyodhana che esige qualche cosa da te.
– Parla – disse Tremal–Naik, che inconsciamente provò un brivido. – Ti ascolto.
Kougli non aprì bocca. Egli guardava fissamente e in modo strano il cacciatore di serpenti.
– Suyodhana ti concede la tua fidanzata a patto che tu... uccida il capitano Macpherson.
– Il capitano...
– ... Macpherson – terminò Kougli, aprendo le labbra a un crudele sorriso.
– E solo a questo prezzo mi verrà concessa Ada?
– Soltanto a questo prezzo.
– E se rifiutassi?
– Vuol dire che non la ami.
– Io? Cosa ti dissi poco fa? Per quella donna darei l’India alle fiamme.
– Hai ragione. Nel caso però che ti rifiutassi, Ada salirà sul rogo e Kammamuri morirà fra i serpenti. Sono entrambi in nostro potere. Cosa decidi?
– La mia vita appartiene ad Ada. Accetto.
– Hai già qualche piano?
– Nessuno, ma lo avrò.
– Ascoltami, prima libera Negapatnan.
– Lo libererò.
– Noi veglieremo su di te. Se avrai bisogno di aiuto, rivolgiti a me.
– Il cacciatore di serpenti farà da solo.
– Come vuoi. Allora, vai.
La fuga del thug
Stava giungendo l’aurora, quando Tremal–Naik, quasi impazzito e ancora scosso dal colloquio avuto con lo strangolatore, giunse al bengalow del capitano Macpherson.
– Olà, Saranguy! – gli gridò il sergente Bhârata. – Da dove vieni?
– Dalla giungla – rispose Tremal–Naik, riprendendo un aspetto normale. – Sei un uomo coraggioso: verrai con noi quando batteremo la giungla, anzi ti metterò a guardia di uno strangolatore che è caduto in nostra mano.
– Ah! – esclamò Tremal–Naik, che non riuscì a nascondere il lampo di gioia che gli balenò negli occhi.
– Avete un thug prigioniero?
– Sì, ed è uno dei capi.
– Come si chiama?
– Negapatnan.
– E io veglierò su di lui?
– Sì, veglierai su di lui. Tu sei forte e coraggioso e a te non scapperà.
– Ne sono convinto. Basterà un pugno per ridurlo all’impotenza – disse Tremal–Naik.
– Vieni sulla terrazza. Tra poco vedrai Negapatnan e forse avremo bisogno del tuo coraggio.
– Per quale motivo? – chiese Tremal–Naik.
– Il capitano ricorrerà a qualche mezzo violento per farlo parlare.
– Capisco. Diventerò carceriere e all’occorrenza torturatore.
– Sei molto perspicace. Vieni, mio bravo Saranguy.
Entrarono nel bengalow e salirono sulla terrazza dove si trovava Macpherson.
– Vai a prendere lo strangolatore – disse subito al sergente, – cominceremo l’interrogatorio.
Il sergente fece marcia indietro e poco dopo ritornò conducendo Negapatnan.
– Cos’hai deciso?
– Che non parlerò.
– Va bene, ora cominceremo. Bhârata?
Il sergente si avvicinò.
– C’è un palo nel sotterraneo?
– Sì, capitano.
– Legherai saldamente quell’uomo.
– Bene, capitano.
– Quando starà per addormentarsi, lo terrai sveglio a colpi di spillo. Se fra tre giorni non parlerà, passa a colpi di frusta. Se si ostina ancora, verserai l’olio bollente, goccia a goccia, sulle sue ferite.
– Fidatevi di me, capitano. Aiutami, Saranguy.
Il sergente e Tremal–Naik trascinarono via lo strangolatore, il quale aveva ascoltato la sentenza senza muovere un muscolo.
Scesero una scala a chiocciola molto profonda ed entrarono in una specie di cantina ampia, sostenuta da volte e illuminata da una feritoia aperta a fior di terra, difesa da solide sbarre di ferro.
Nel mezzo era conficcato un palo, a cui fu legato lo strangolatore. Bhârata preparò tre o quattro spilli lunghi e con la punta.
– Chi veglierà? – chiese Tremal–Naik.
– Tu, fino a questa sera. Poi un soldato ti darà il cambio.
– Va bene.
– Se il nostro uomo chiude gli occhi, pungi forte.
– Ti obbedirò – rispose Tremal–Naik.
Il sergente risalì la scala. Tremal–Naik lo seguì con lo sguardo finché fu possibile, poi, quando fu silenzio, si sedette di fronte allo strangolatore che lo fissava con tranquillità.
– Ascoltami – disse Tremal–Naik abbassando la voce.
– Vuoi aggiungere qualcosa? – chiese Negapatnan, deridendolo.
– Conosci Kougli?
Sentendo quel nome, lo strangolatore si scosse.
– Kougli! – esclamò. – Non so chi sia.
– Sei prudente, sta bene. Conosci Suyodhana?
– Chi sei tu? – chiese Negapatnan, con un terrore evidente.
– Uno strangolatore come lo sei tu, come lo è Kougli, come lo è Suyodhana.
– Tu menti.
– Ti dimostro che dico la verità. La nostra sede non è nella giungla, né a Calcutta, né sulle rive del sacro fiume, ma nei sotterranei di Raimangal.
Il prigioniero trattenne con grande sforzo un grido, che stava per uscire dalla sua bocca.
– Che sia vero che tu sei dei nostri? – chiese.
– Non ti ho già dato le prove che servivano?
– È vero. Ma allora perché sei venuto qui?
– Per salvarti.
– Per salvare me?
– Sì.
– In che modo? Con quale mezzo?
– Lasciami fare e prima di mezzanotte sarai libero.
Si allontanò dal prigioniero e andò a sedersi ai piedi della scala, aspettando pazientemente che si facesse buio. La giornata lentamente trascorse. Il sole scomparve dietro l’orizzonte e l’oscurità divenne profonda nella cantina. Era il momento giusto per agire. Fra un’ora e forse meno, il soldato doveva scendere.
– Al lavoro – disse Tremal–Naik, alzandosi di scatto
ed estraendo dalla cintola due lime inglesi.
– C’è da fare? – chiese Negapatnan.
– Devi aiutarmi – rispose Tremal–Naik. – Taglieremo le sbarre della feritoia.
– Non s’accorgeranno che tu mi hai aiutato a fuggire?
– Non s’accorgeranno di nulla.
Sciolse i lacci che stringevano il corpo, le braccia ed entrambi i piedi del prigioniero. Con forza cominciarono a limare le sbarre, cercando di non far rumore.
– Ora legami stretto e imbavagliami – disse Tremal–Naik
Il thug lo guardò con sorpresa.
– Io legarti? E perché? – chiese.
– Perché non pensino che io sono uno dei tuoi.
– Capito. Sei più furbo di me.
Tremal–Naik si gettò in terra e Negapatnan lo legò e lo imbavagliò.
– Sei intelligente – disse il thug. – Se un giorno avrai bisogno di un amico fedele, ricordati di me. Addio.
Si slanciò verso la finestrella, salì sopra e scomparve. Non erano trascorsi ancora dieci secondi, che si udì un colpo di fucile e una voce gridare:
– Attenzione! Un uomo sta fuggendo!
Una strana bevanda
Appena
sentito quel grido, Tremal–Naik si era alzato sulle ginocchia, preso da una grande ansia. Al colpo di fucile era seguita un’altra detonazione, poi una terza e infine una quarta. Infine dei passi affrettati che venivano dalla scala.
Incominciò a dibattersi, fingendo di volersi liberare dai legami e mandando grida gutturali. Bhârata scese i gradini a quattro a quattro e, precipitandosi nella cantina, gettò un grido terribile.
Guardò all’interno inquieto. Vide Tremal–Naik che si contorceva per terra mandando violente imprecazioni.
In un baleno gli fu vicino.
– Vivo! – esclamò, strappandogli il bavaglio.
– Maledetti thugs! – urlò Tremal–Naik con voce secca.
– Dov’è, dov’è quel cane? Voglio strappargli il cuore!
– Cos’è accaduto? Come è riuscito a fuggire? Come sei stato legato? Parla Saranguy – disse Bhârata fuori di sé.
– Siamo stati ingannati. Potente Brahma! Sono caduto nel tranello come uno stupido!
– Spiegati, parla, voglio sapere. Come è riuscito a evadere? Chi ha tagliato le sbarre della feritoia?
– Loro.
– Chi loro?
– I thugs.
– I thugs?
– Sì, tutto era stato organizzato per farlo fuggire.
– Non riesco a capire. È impossibile che i thugs siano arrivati qui.
– Eppure ci sono venuti. Li ho visti proprio con i miei occhi e per poco non sono riusciti a strozzarmi come quel povero soldato.
– Racconta, sbrigati. Saranguy, come è potuto accadere questo?
– Il sole era tramontato – disse Tremal–Naik, – io ero seduto di fronte al prigioniero, il quale non staccava i suoi occhi dai miei. Passarono tre ore senza che nessuno di noi due si sia mosso. D’improvviso sentii che i miei occhi stavano per chiudersi e una sonnolenza irresistibile si impadronì di me. Negapatnan sentiva la stessa sonnolenza e sbadigliava. Cercai di restare sveglio con ogni forza, poi, senza sapere come, caddi all’indietro e mi addormentai. Quando riaprii gli occhi ero stato legato e imbavagliato e le sbarre della feritoia erano per terra. Cercai di dibattermi, di urlare, ma mi fu impossibile. I thugs, compiuto il misfatto, si arrampicarono fino alla feritoia e scomparvero.
– E Negapatnan?
– Era fuggito prima di tutti.
– E non sai il motivo di quella irresistibile sonnolenza?
– Non so nulla.
– Ti hanno addormentato con dei fiori che emanano un potente sonnifero.
– Sì, deve essere successo proprio così.
– Ma lo riprenderemo quel Negapatnan. Ho messo sulle sue tracce dei bravi uomini.
– Anch’io sono un valente cacciatore di orme.
– Lo so, e farai bene a metterti subito in cerca. Bisogna riprenderlo a qualsiasi costo o almeno catturare qualche altro thug.
– Me ne occupo io.
Bhârata l’aveva sciolto dai legami. Salirono la gradinata e uscirono dal bengalow .
Tremal–Naik prese il fucile a tracolla e partì di corsa dirigendosi verso la giungla. Bhârata lo seguiva con lo sguardo, con atteggiamento preoccupato, come preso da un oscuro pensiero. Poi accorse un indiano che stava vicino alla feritoia per controllare.
– Hai esaminato con attenzione le tracce? – gli domandò Bhârata.
– Sì, con grande attenzione.
– Dunque, quanti uomini sono usciti dalla cantina?
– Uno solo.
Bhârata fece un gesto di sorpresa.
– Sei certo di non avere sbagliato?
– Certissimo, sergente. Solo Negapatnan è uscito.
– Bene. Vedi quell’uomo che corre verso la giungla?
– Sì, è Saranguy.
– Seguilo: bisogna che io sappia dove si dirige.
– Fidatevi di me – rispose l’indiano.
Aspettò che Tremal–Naik fosse scomparso dietro gli alberi, poi partì veloce come un cervo, cercando di mantenersi nascosto dietro le macchie di bambù. Bhârata, soddisfatto, rientrò nel bengalow e raggiunse il capitano che camminava sulla terrazza con passo agitato, sfogando la sua collera e mandando imprecazioni tra i denti.
– Dunque? – chiese, appena vide il sergente.
– Siamo stati traditi, capitano.
– Traditi? Da chi?
– Da Saranguy.
– Da Saranguy!? Da un uomo che mi ha salvato la vita? Mi sembra impossible!
Bhârata in poche parole lo informò di ciò che era accaduto e di ciò che aveva visto.
Il capitano Macpherson era esterefatto per la sorpresa.
– Saranguy traditore! – esclamò. – Ma perché non è fuggito con Negapatnan?
– Non lo so, capitano, ma lo sapremo fra poco. Nysa riporterà il brigante qui da noi. Poi bisognerà farlo parlare. Quell’uomo ne saprà quanto Negapatnan.
– Hai ragione.
Passarono tre lunghe ore.
Il capitano Macpherson, spazientito, stava per lasciare la terrazza e precipitarsi nella giungla, quando il soldato che aveva inseguito Saranguy tornò indietro.
– Ebbene? – chiesero il capitano e il sergente.
– Saranguy è un thug! Ho seguito le sue tracce fino alla giungla – disse. – Là le ho perse, ma le ho ritrovate cento metri più avanti. Affrettai il passo e in poco tempo lo vidi. Camminava con attenzione, volgendosi spesso indietro e appoggiando talvolta l’orecchio a terra. Venti minuti dopo lo udii emettere un grido e ho visto uscire da un cespuglio un indiano. Era un thug, un vero strangolatore col petto tatuato e i fianchi circondati da un laccio.
Non sono riuscito ad ascoltare le parole che si sono detti, ma Saranguy, prima di separarsi ha detto al compagno:
“Avvertirai Kougli che io torno al bengalow e che fra pochi giorni avrà la testa”. Si sono separati prendendo due strade diverse. Saranguy non deve essere lontano.
– Di quale testa parlava il miserabile? – chiese Macpherson.
– Non lo saprei, capitano. Non ha detto altro.
– Che alludesse a una delle nostre?
– È probabile – disse il sergente.
Il capitano divenne più cupo.
– Ho uno strano presentimento, Bhârata – mormorò. – Si riferiva a me.
– Ma noi invece manderemo la sua testa al signor Kougli.
– Lo spero. Cosa faremo di Saranguy?
– Bisognerà farlo parlare.
– Si tratta di farlo parlare, capitano? – chiese Nysa, uno dei soldati. – Ci penso io.
– Tu?
– Basterà dargli da bere poche gocce di limone mescolate col succo della youma e una briciola di oppio… Fa parlare qualsiasi persona.
– Va’ a preparare questa “limonata” – disse il capitano. – Se riesci ti regalo venti rupie.
L’indiano non se lo fece ripetere due volte. Pochi istanti dopo ritornò con tre grandi tazze di limonata appoggiate sopra un bellissimo vassoio di porcellana cinese.
In una aveva fatto sciogliere la pallottolina d’oppio e il succo della youma. Era il momento giusto, dopo essere apparso sul limitare della giungla.
Tremal–Naik giunse allora dinanzi al bengalow .
– Ehi! Saranguy! – gridò Bhârata, chinandosi sul parapetto. – Come va? Abbiamo scoperto l’imbroglione?
Tremal–Naik lasciò cadere le braccia lungo il corpo, con un gesto di scoraggiamento.
– Nulla, sergente – rispose. – Abbiamo perduto le tracce.
– Sali da noi; bisogna sapere tutto.
Tremal–Naik, senza alcun sospetto, non si fece ripetere l’invito e si presentò al capitano Macpherson, che era seduto presso un tavolino con le “limonate” davanti.
– Ebbene, mio bravo cacciatore – chiese questi con un sorriso bonario, – il malfattore è stato trovato?
– No, capitano. Eppure l’abbiamo cercato dappertutto.
– Devi essere stanco. Bevi questa limonata.
Così dicendo gli porse la tazza. Tremal–Naik la bevve tutta d’un sorso. Dopo pochi minuti, i suoi occhi si accesero e risplendevano come due carboni infiammati; la sua faccia era divenuta di un colore più scuro e i lineamenti gli si erano trasformati.
– Che cosa vuoi dire? – domandò il capitano Macpherson, con tono lievemente sarcastico.
– Io ho parlato con un thug sull’orlo della foresta.
Ah!... ah!... E credevano che io cercassi Negapatnan. Che stupidi... ah!... ah!... Io inseguire Negapatnan? Propio io che ho faticato tanto per farlo scappare... ah!... ah!...
Tremal–Naik, in preda a una specie di allegria febbrile, irresistibile, rideva come un demente, senza più sapere cosa stesse dicendo.
– Calma, capitano, e poiché è in vena di parlare, stuzzichiamolo.
– Hai ragione. Olà, Saranguy...
– Saranguy! – interruppe bruscamente il povero ubriaco, sempre ridendo.
– Non sono Saranguy io... Che stupido che sei, amico mio, a credere che io porti il nome di Saranguy. Io sono Tremal–Naik, il cacciatore di serpenti. Oh, che stupido che sei, che stupido!
– Sono proprio uno stupido – disse il capitano, trattenendosi con grande sforzo. – Ah! Tu sei Tremal–Naik? E perché hai cambiato nome?
– Per non insospettirvi. Non sai che io volevo entrare al tuo servizio?
– E perché?
– I thugs volevano così. Mi hanno risparmiato la vita e mi daranno anche la vergine della pagoda... La conosci tu la vergine della pagoda? È bella sai, molto bella. Farebbe impazzire Brahma, Siva e anche Visnù.
– E dov’è questa vergine della pagoda?
– Lontana da qui, molto lontana.
– Ma dove?
– Non te lo dico. Tu potresti portarmela via.
– E chi la tiene?
– I thugs, ma me la daranno in sposa. Io sono forte, coraggioso. Per averla farò tutto ciò che essi vorranno. Intanto sono riuscito a liberare Negapatnan.
– Devi forse compiere qualche altra impresa?
– Compiere? Ah! Ah! Devo... capisci, portare una testa... ah!... ah!... Mi fai ridere a crepapelle.
– Perché ti faccio ridere? – chiese Macpherson, che pas-
sava di sorpresa in sorpresa, nell’udire quelle rivelazioni.
– Perché la testa che devo tagliare... è la tua!
– La mia! – esclamò il capitano, balzando in piedi.
– Ma... sì... sì... A Suyodhana!
– Chi è questo Suyodhana?
– Come? Non lo conosci? È il capo dei thugs.
– E sai dove è nascosto?
– Sì, che lo so.
– Dove? Parla, dimmelo – urlò il capitano balzandogli addosso e stringendogli rabbiosamente i polsi.
– Sei dunque così curioso?
– Sì, lo voglio sapere.
– E se non volessi dirlo?
Il capitano, in preda a una tremenda rabbia, lo afferrò a mezzo corpo e lo alzò.
– Sotto c’è il fiume! – gli disse. – Se non me lo dici ti getto giù!
– Tu vuoi scherzare. Ah!... ah!...
– Pensa come vuoi, ma dimmi dov’è Suyodhana.
– Che stupido che sei. Dove vuoi sia, se non a Raimangal?
Il capitano Macpherson emise un grido, poi ricadde sulla sedia mormorando:
– Ada! Oh, mia Ada! Sei salva finalmente!
L’evasione di Tremal–Naik
Quando
Tremal–Naik tornò in sé, si trovò rinchiuso in uno stretto sotterraneo e legato saldamente a due anelli di ferro, infissi in una specie di colonna. Dapprima pensò di essere in preda a un brutto sogno ma ben presto si convinse che era realmente prigioniero.
Fece uno sforzo per alzarsi, ma subito ricadde; aveva udito aprirsi una porta.
– Chi sta arrivando? – chiese.
– Io, Bhârata – rispose il sergente avvicinandosi.
– Finalmente – esclamò Tremal–Naik. – Mi spiegherai ora per quale motivo io mi trovo qui prigioniero.
– Perché ormai sappiamo che tu sei un thug.
– Io, un thug?!
– Sì, Saranguy.
– Tu menti!...
– No, hai parlato, hai confessato tutto.
– Quando?
– Poco fa.
– Tu sei pazzo, Bhârata.
– No, Saranguy, ti abbiamo dato da bere la youma e tu hai confessato ogni cosa.
Tremal–Naik lo guardò spaventato. Si ricordava della bevanda che il capitano gli aveva fatto bere.
“Questa notte devo riuscire a fuggire” pensò, “o tutto sarà perduto”.
Gli indiani sono famosi nel legare le persone ed è necessaria molta esperienza per sciogliere i loro nodi complicatissimi: Tremal–Naik per fortuna possedeva una forza straordinaria e denti robusti.
Con una scossa allentò la corda che gli impediva di piegare la testa poi, pazientemente, senza tener conto del dolore, avvicinò uno dei polsi alla bocca e si mise a lavorare coi denti, tagliando, segando, sfilacciando.
Una volta riuscito a tagliare la corda, sbarazzarsi degli altri legami fu per lui questione di un momento.
Si alzò stiracchiando le membra indolenzite, si avvicinò alla feritoia e guardò fuori. Afferrò una delle sbarre e la scosse furiosamente; la curvò ma non riuscì a spezzarla.
“Da questa parte la fuga è impossibile” mormorò.
Si guardò attorno cercando un oggetto qualsiasi che potesse aiutarlo a rompere le spranghe, ma non trovò niente.
“Sono perduto” disse tra sé, con spavento. “Eppure non voglio morire, non voglio essere sepolto ora che la felicità è vicina”.
Temeva ormai di non riuscire a salvarsi, quando scorse la tigre che si avvicinava con balzi giganteschi.
105
Al collo portava un involto voluminoso che Tremal–Naik, a gran fatica, riuscì a far passare tra le sbarre.
L’aprì. Conteneva una lettera, una rivoltella, un pugnale, alcune munizioni, un laccio e due mazzolini di fiori accuratamente rinchiusi in due vasi di cristallo.
“Cosa significano questi fiori?” si domandò, sorpreso.
Aprì la lettera e lesse:
Siamocircondatidaalcunecompagniedisoldati,ma unodeinostrisegueDarma.
Ci minacciano grandi pericoli e la tua evasione è necessaria.
Unisco alle armi due mazzi di fiori: i bianchi fanno addormentare, i rossi combattono l’effetto dei bianchi.
Addormenta le sentinelle e tieni vicino al tuo naso i fiorirossi.Unavoltalibero,espugnal’abitazioneetaglia latestadelcapitano.
Nagorsegnaleràlasuapresenzacolfischiochetuconosci e ti aiuterà.
Affrettati.
Kougli
Nascose le armi e le munizioni sotto un mucchio di terra e tornò alla feritoia, quando sentì che alcuni uomini stavano scendendo da lui. Prese i due vasi, li mandò in frantumi, gettò i fiori bianchi nell’angolo più lontano,
nascose i rossi in petto e si attaccò al palo, aggiustandosi
attorno al corpo le corde e stringendole meglio che poté.
Giusto in tempo! Entrarono due soldati armati e muniti di una torcia resinosa.
Tremal–Naik si appoggiò al palo e chiuse gli occhi.
I due, conficcata la fiaccola in una spaccatura della parete, si sedettero per terra con le carabine fra le ginocchia.
Erano trascorsi appena pochi minuti quando Tremal–Naik fiutò un acuto profumo che si disperdeva nell’aria, nonostante i fiori rossi che mandavano un profumo non meno acuto. Guardò i due uomini: già sbadigliavano in modo tale da far pensare che si stessero addormentando.
Tremal–Naik li vide chiudere a poco a poco gli occhi, riaprirli tre o quattro volte, poi richiuderli. Tentarono ancora qualche minuto di restare svegli, poi caddero di botto a terra, russando sonoramente.
Era il momento di agire. Si strappò di dosso i legami e si alzò senza fare il minimo rumore.
Andò a prendere le armi, legò saldamente le due guardie addormentate e si slanciò verso la scala.
Il sergente confessa
Tremal–Naik salì silenziosamente i gradini. Ad un tratto vide un uomo: Bhârata. Rivolse immediatamente la rivoltella verso di lui.
– Non un grido, non un passo – gli disse, – o sei morto!
Seppe che il capitano non si trovava più lì. Aveva raggiunto una località che il sergente rifiutava di rivelare. Allora Tremal–Naik decise di fargli bere la “limonata”, così venne a sapere che il capitano era diretto a Calcutta, al forte William, per organizzare una flotta e assalire Raimangal.
Tremal–Naik si diresse dunque di corsa al capannone abitato dai thugs.
– Consegnami la testa – disse subito Kougli.
– Quale testa?
– Quella del capitano Macpherson.
– Siamo stati sconfitti, Kougli.
– Sconfitti?! Noi sconfitti?! Cosa vuoi dire?
– Che il capitano Macpherson è ancora vivo. Non sono riuscito a ucciderlo. Ha lasciato il bengalow senza che io lo sapessi.
– E dove è andato?
– A Calcutta. Il capitano si prepara ad assalire il covo dei thugs. Egli sa che Raimangal è la vostra sede. Vi ho traditi involontariamente, sotto l’effetto della youma.
Tremal–Naik in brevi parole gli raccontò ciò che era avvenuto nel bengalow .
– Hai fatto molto – disse Kougli, – ma la tua missione non è ancora terminata. Bisogna impedire che il maledetto vada a Raimangal. Se arriva al nostro covo, la tua Ada è perduta.
– Cosa devo fare?
Kougli non rispose. Si teneva la fronte fra le mani.
– Ci sono – disse all’improvviso. – Il capitano, di certo, viaggerà per mare per giungere a Raimangal. A Calcutta e al forte William abbiamo uomini a noi fedeli sia nell’esercito che sui vascelli da guerra inglesi. Qualcuno occupa una posizione importante. Ti recherai al forte William e, aiutato dai nostri, ti imbarcherai sul suo vascello. Un indiano può camuffarsi da malese o da birmano.
– Ho capito. Quando devo partire?
– Subito o arriverai troppo tardi.
– Addio – gli disse immediatamente Tremal–Naik.
Alle due del mattino giunse in una piccola rada, nella quale, nascosta sotto un ammasso di bambù, si scorgeva un’imbarcazione. Sette strangolatori salirono a bordo con lui e incominciarono a navigare.
A bordo della Cornwall
Alcune ore dopo giunsero a Calcutta.
Tremal–Naik era balzato in piedi e guardava con occhio meravigliato il villaggio.
– La nave? – chiese, con voce feroce. – Dov’è la nave?
– Là! Là! Guarda!... – esclamò un thug.
Tremal–Naik guardò nella direzione indicata e vide una fregata agile e armata di numerosi cannoni. Sul ponte, soldati di fanteria e marinai erano affaccendati a stivare botti e a ritirare le gomene sciolte dai gavitelli. Si capiva già a prima vista che la nave si preparava a partire.
Tremal–Naik provò una stretta al cuore.
– Presto, ragazzi, presto! – esclamò.
I thugs aumentarono i loro sforzi. La baleniera, spinta dai sei remi manovrati con forza sovrumana, quasi volava. I fianchi scricchiolavano.
– Presto!... presto!... – gridava Tremal–Naik.
Ad un tratto emise un grido straziante.
– Ada, Ada... Perduto! Tutto è perduto!...
Subito dopo Tremal–Naik riuscì a parlare con un affiliato dei thugs e con lui preparò un piano per riuscire
ugualmente a salire sulla nave del capitano Macpherson utilizzando una delle navi che servivano al trasporto dei rifornimenti.
L’impresa più difficile era stata portata a termine, ora si trattava di raggiugere la fregata che aveva un vantaggio di quasi quindici ore e dare inizio al secondo piano.
La cannoniera volava come un uccello.
– Nave a prua! – gridò a un tratto un marinaio.
Tremal–Naik provò una scossa.
– La vedi? – urlò.
– Sì – rispose l’uomo.
Tremal–Naik emise un grido di trionfo.
– Manovrate in modo da incontrarla.
Poi si ritirò e solo dopo un po’ di tempo riapparve sul ponte, ma non era più lo stesso uomo di prima: il colorito color bronzo della sua pelle era diventato olivastro quanto quello di un malese; gli occhi sembravano più grandi grazie a segni biancastri ben tracciati; i denti, poco prima bianchi come l’avorio, erano diventati neri. Così trasformato, con un cappellaccio di fibre di rotang sul capo, una fascia di cotone rossa ai fianchi, due lunghi pugnali a forma di serpenti con la punta avvelenata sospesi alla cintura, era davvero irriconoscibile.
– Capisci chi sono? – chiese al quartier–mastro.
– Solo perché a bordo non ho visto altri malesi.
– Credi che il capitano mi riconoscerà?
– No, non è possibile.
– Ora fai scendere in mare un’imbarcazione. Tu andrai a nasconderti nel canale di Raimangal. Al primo sparo che sentirai, uscirai in mare e mi raccoglierai.
Afferrò una corda e discese nella barca che rullava fortemente sotto le ondate.
La cannoniera emise un fischio sonoro e si allontanò rapidamente. Passata un’ora, era diventata un punto nero sull’orizzonte, quasi invisibile.
Nello stesso istante, a sud, apparve un altro punto, sormontato da un pennacchio di fumo.
Tremal–Naik lo guardò.
– Ecco la fregata! – esclamò. – Ada, dammi la forza di compiere la mia ultima impresa. Poi sarai mia sposa... e saremo finalmente felici!
Attese che un’onda piegasse la barca, poi con tutto il suo peso la fece inclinare fino a rovesciarla.
– Aiuto! Aiuto! – gridò con tutta la sua voce.
Alcuni marinai corsero sulla prua della fregata, poi un’imbarcazione preparata da quattro uomini fu fatta scendere in mare e si diresse verso il naufrago.
– Aiuto! – ripeté Tremal–Naik.
Il falso naufrago si aggrappò alle mani di un marinaio e salì a bordo.
Un piano ingegnoso
– Chi sei? – gli domandò l’ufficiale di quarta.
– Paranga di Singapura – rispose Tremal–Naik, guardandosi attorno con curiosità.
– Appartenevi a qualche nave?
– Sì, all’Hannati di Bombay, calata a picco quattro giorni fa a cento miglia dalla costa.
– Hai fame?
– Sono ormai digiuno da dodici ore.
– Mastro Brown, conducete questo povero diavolo in cucina.
Una pentola colma di zuppa fumante fu posata così dinanzi a Tremal–Naik, che cominciò rapidamente a mangiare con foga.
– A proposito – fece Tremal–Naik, – come si chiama questo vascello?
– La Cornwall. Tremal–Naik, guardò con sorpresa il lupo di mare.
– La Cornwall! – esclamò.
– Forse il suo nome non ti piace?
– Al contrario. Mi ricordo che su di una fregata con un nome simile si erano imbarcati due indiani miei amici.
– Guarda che combinazione! E come si chiamano?
– Palavan e Bindur.
– Questi due indiani sono qui.
– Qui a bordo?
– Sì, a bordo.
– Pensa te che fortuna! Allora li voglio incontrare!
– Va bene, te li mando subito.
Il mastro risalì la scala e poco dopo due indiani si presentarono. Tremal–Naik si guardò d’attorno per vedere che nessuno li osservasse, poi tese la mano dritta mostrando a loro l’anello che gli aveva dato Kougli. I due indiani caddero ai suoi piedi.
– Chi sei? – chiesero con voce spenta.
– Un inviato di Suyodhana, il figlio delle sacre acque del Gange – rispose Tremal–Naik, sottovoce.
– Parla, che cosa desideri? Affidiamo a te la nostra vita.
– Dov’è il capitano Macpherson?
– Nella cabina; dorme ancora.
– Sapete dove è diretta la flotta?
– No, ma noi temiamo che si rechi a Raimangal ad assalire i fratelli.
– Non vi siete ingannati, ma la fregata non riuscirà ad arrivare al porto. La faremo saltare in aria prima che raggiunga l’isola.
– Se ce lo ordinerai, daremo fuoco alle polveri.
– Quando giungeremo a Raimangal, secondo i vostri calcoli?
– Verso la mezzanotte.
– Sta bene. Alle undici ucciderò il capitano, poi faremo saltare il vascello. Solo un’ultima parola…
– Parla.
– Bisogna che il capitano, alle undici, sia profondamente addormentato.
– Verserò un sonnifero nella sua bottiglia di vino –disse Palavan.
– Non serve fare altro. Alle undici verrete a prendermi qui.
Le ore scorsero lente. Nessuno era andato nella cabina, né egli aveva il coraggio di mostrarsi sul ponte. Alle otto il sole scese all’orizzonte e la notte calò rapidamente sulle azzurre onde del golfo di Bengala.
L’orologio di bordo batté le nove, poi le dieci e quindi le undici. L’ultimo tocco non si era ancora spento, che due ombre scendevano la scala.
– Presto – disse una voce imperiosa, – non abbiamo un minuto da perdere. Abbiamo Raimangal in vista.
Tremal–Naik riconobbe i suoi marinai.
– Il capitano? – domandò con un filo di voce.
– Dorme – rispose Bindur. – Ha bevuto il sonnifero.
– Andiamo.
La voce di Tremal–Naik tremava. Provò un brivido tanto forte, che lo scosse nell’animo.
Palavan aprì una porticina ed entrarono nella batteria, arrestandosi dinanzi a una seconda porta.
– Io vado a uccidere il capitano – esclamò con voce triste. – Tu, Bindur, scenderai nella Santa Barbara e accenderai un bel fuoco.
– E io? – chiese Palavan. – Voglio fare qualche cosa anch’io.
– Tu ti procurerai tre salvagente, poi verrai da me. Andate, e che la vostra dea vi protegga.
Tremal–Naik afferrò una scure, attraversò la soglia e si introdusse nella cabina illuminata da una lanterna.
Come prima cosa vide uno specchio che riflesse la sua immagine. Nel guardarsi ebbe paura. La sua faccia era stravolta in modo orribile, con grosse gocce di sudore e gli occhi fiammeggianti.
Abbassò lo sguardo su di un letto.
“È strano” mormorò. “Non ho mai provato una simile sensazione”.
Fece tre passi e con mano tremante sollevò il velo.
Il capitano Macpherson era sdraiato sul letto e sorrideva. Senza dubbio quell’uomo stava sognando.
La rivelazione
Alzò la scure pronto a colpire quell’uomo addormentato, ma la riabbassò subito come se le forze gli fossero venute meno. Si passò una mano sulla fronte e la allontanò bagnata di sudore. Si guardò attorno con profondo spavento.
“Cos’è?” si chiese, sorpreso. “Ho paura? Ma chi è mai quest’uomo? Cos’è questa terribile sensazione che mi scuote?”
Tornò ad alzare la scure e per la seconda volta la abbassò. Non gli era mai accaduta una cosa simile. Gli parve che una voce interna gli dicesse che quell’uomo era per lui sacro, che quel sangue che stava per versare non era sangue sconosciuto.
– Ada! Ada! – esclamò quasi con rabbia.
A un tratto sbiancò indietreggiando di scatto.
Il capitano si era alzato a sedere e lo guardava con occhi sbarrati.
– Ada! – esclamò Macpherson con commozione. – Chi pronuncia il nome di mia figlia?
Tremal–Naik, gelato, era rimasto immobile.
– Ada! – ripeté il capitano. – Il nome di mia figlia!
Poi notò l’indiano.
– Cosa ci fai tu qui, nella mia cabina? – chiese.
Un lampo attraversò il cervello di Tremal–Naik; un terribile sospetto gli era entrato nel cuore.
– Ma chi siete voi? – chiese con voce atona. – Di quale
Ada state parlando? Della mia Ada forse?
– Della tua? – esclamò il capitano sorpreso. – Parlo di mia figlia! Dov’è?
– Dov’è? È nelle mani dei thugs! Una parola, capitano, un nome, vi prego!... Come si chiama vostra figlia?
– Ada Corishant.
Tremal–Naik si nascose il viso fra le mani gridando dall’orrore.
– La mia donna! E io stavo per ucciderle il padre! Ecco il terribile imbroglio!
Poi cadendo ai piedi del letto esclamò:
– Perdono… Perdono...
Il capitano, stupito, guardava Tremal–Naik chiedendosi se sognava o se era desto.
– Spiegami tutto! – esclamò.
Tremal–Naik, con la voce spezzata dai singhiozzi, in poche parole gli svelò la trama infernale di Suyodhana.
– E tu sai dov’è mia figlia? – chiese il capitano che era già balzato in piedi, pallido per l’emozione.
– Sì, e io vi guiderò dove si trova – disse Tremal–Naik.
– Fammela riavere e ti giuro che se ti ama sarà tua.
– Grazie, capitano! La mia vita è la vostra.
– Non perdiamo tempo; corriamo a Raimangal. Io stavo proprio per recarmi ad assalire i thugs nel loro covo.
– Un momento: ho due complici a bordo e forse stanno per far saltare la nave.
– Li uccideremo.
Uscirono correndo e salirono sul ponte.
– Quattro uomini vadano nella Santa Barbara e arrestino i traditori che stanno per dare fuoco alle polveri. Non furono due ma venti uomini quelli che si precipitarono nei depositi delle munizioni. Poco dopo si udirono due tonfi seguiti da alcuni spari.
– Si sono gettati in mare – disse un ufficiale lanciandosi sul ponte.
– Che anneghino – rispose sprezzante il capitano. – Le polveri sono al sicuro?
– I traditori non hanno fatto in tempo ad aprire i bauli.
– Iddio ci protegge! A tutto vapore al Mangal!
Finalmente insieme!
LaCornwall, sfuggita per miracolo allo scoppio dei depositivi di polvere, filava a tutto vapore verso le Sunderbunds.
Tremal–Naik aveva ormai raccontato ogni cosa e il capitano Corishant voleva attaccare la cannoniera d’Hider prima che l’equipaggio se ne potesse accorgere e avvertire Suyodhana del tradimento.
I marinai e i soldati di fanteria marina erano accanto alle armi, per essere pronti al primo segnale, mentre gli artiglieri erano preparati per far fuoco con i sei cannoni, decisi a calare a picco la Devonshire piuttosto che lasciarla fuggire.
Il capitano, in preda a una volontà incredibile, ritto sul castello di prua con un potente cannocchiale da notte, scrutava le tenebre in modo ossessivo e indicava la rotta ai timonieri, per evitare i numerosi bassifondi. Tremal–Naik, al suo fianco, aguzzava i suoi sguardi attento come un’aquila per cercare di scoprire l’imboccatura del Mangal.
– Presto! Presto! – ripeteva. – Se i thugs si accorgono che stiamo per attaccarli, la mia Ada è perduta!
– Ora che so dove si trova e che sono sotto la tua guida, non ho più alcun timore – rispose il capitano.
– E dire che io stavo per uccidervi e che la vostra testa doveva essere il regalo di nozze! Possente Siva, che terribile inganno!
– Ed eri proprio deciso a uccidermi?
– Sì, capitano, poiché solo con quel delitto avrei potuto ottenere colei che amo in modo così assoluto. Se quel sonnifero fosse stato più potente...
– Quale sonnifero? – chiese Corishant, stupito.
– Quello che Bindur e Palavan hanno versato nella vostra “limonata”.
– Ma quando?
– Ieri sera.
– Ma io non l’ho bevuta!
– Cosa dite?
– Mi ricordo di averla assaggiata, ma, poiché mi sembrava troppo amara, l’ho versata a terra. Dio mi aveva ispirato di non berla.
– Ed è stata la vostra salvezza, capitano. Se voi non vi foste svegliato, io non avrei esitato a uccidervi...
– Il Mangal! – gridò l’ufficiale di quarto.
– Dov’e? – chiese il capitano.
– Davanti a voi, signore.
– Siete certi di non ingannarvi?
– No, signore: guardate laggiù quei due fanali che brillano.
L’ufficiale non si era ingannato. Dinanzi alla Cornwall, a mezzo chilometro di distanza, si vedevano due punti luminosi, uno rosso e uno verde, che brillavano nel buio.
– La Devonshire! – esclamò Tremal–Naik.
– Macchina indietro! – comandò il capitano.
La Cornwall, trasportata dal proprio slancio, proseguì la corsa per cinquanta o sessanta metri, poi si fermò.
– Tre scialuppe in mare e quaranta uomini armati s’imbarchino con tre spingarde – disse poi il capitano.
Quindi rivolgendosi verso Tremal–Naik, continuò:
– Ora tocca a te se vuoi la mano di mia figlia.
– Ordinate, la mia vita è vostra – rispose l’indiano.
– È necessario che tu faccia prigioniero l’equipaggio della cannoniera.
– Lo farò.
– Ma bisogna che nessuno riesca a fuggire.
– Nessuno fuggirà, state tranquillo.
– E bisogna che non si spari alcun colpo di fucile per non allarmare le sentinelle dei thugs.
– Non spareremo un colpo di fucile. Hider mi aspetta: lo prenderò a tradimento.
– Allora vai, mio amico coraggioso.
Le tre scialuppe erano pronte e gli uomini si erano imbarcati. Tremal–Naik discese nella maggiore e diede il comando di prendere il largo nel più profondo silenzio.
Il capitano era rimasto a bordo, appoggiato al para-
petto di prua, in preda a mille inquietudini. Per qualche istante poté vedere le tre scialuppe che si allontanavano senza far rumore, poi le perse di vista.
Passarono alcuni minuti di trepidante attesa, poi si udirono delle grida, quindi tutto tornò silenzio.
– Riuscite a vedere nulla? – chiese il capitano con voce spezzata agli ufficiali che gli stavano intorno.
– Sì! – gridò uno. – I fanali virano di bordo!
– La cannoniera ci viene incontro! – gridarono gli altri. Un hurrà echeggiò al largo: era il grido di vittoria.
Corishant emise un profondo sospiro.
– Dio ci protegge – mormorò. – Ah, mia povera Ada, tra poco potrò finalmente vederti e abbracciarti!
In breve la Devonshire calava le ancore presso la fregata e Tremal–Naik saliva a bordo, dicendo al capitano:
– È fatto: Hider e tutti i suoi uomini sono prigionieri.
– Grazie, mio valoroso – rispose Corishant, dandogli una forte stretta di mano. – Sono stati colti di sorpresa?
– Sì, capitano. Pensavano che avessi la vostra testa e mi hanno fatto avicinare senza opposizione. Quando si sono accorti dello stratagemma, erano ormai tutti circondati e hanno deposto le armi senza combattere.
– Andiamo a Raimangal.
Abbandonarono la fregata e s’imbarcarono sulla Devonshire, la nave appena conquistata, la quale riprese la corsa a tutto vapore, inoltrandosi nel Mangal.
123
Tremal–Naik aveva assunto il comando e la faceva quasi “volare” sulle acque fangose del fiume. Ben presto la sua velocità divenne spaventosa. D’un tratto sulla cima dell’albero si sentì un grido: a nord era apparso il gigantesco albero, con i suoi trecento rami.
Il capitano si avvicinò a Tremal–Naik, che si era bloccato.
– Nessuno? – chiese.
– Nessuno – rispose Tremal–Naik.
– Allora li sorprenderemo nella loro tana.
– Lo spero.
– Conosci l’entrata?
– Sì, capitano.
– Sarà accessibile?
– Lo credo.
– Sbarcate...
– Lasciate che entri prima io. Mi conoscono e vi aprirò la via. Quando udirete un fischio, avanzate.
Detto ciò si mise a correre verso l’albero, si arrampicò, raggiunse il tronco e si lasciò cadere giù. Ai piedi della scala brillava una torcia e accanto a essa vegliava un thug. Aveva una pistola in mano.
Tremal–Naik, veloce come la luce, si gettò addosso allo strangolatore con il pugnale in mano. Lo afferrò con forza per la gola e lo pugnalò.
L’uomo cadde senza emettere un grido.
Tremal–Naik spostò il cadavere, poi emise un fischio. Il capitano e i suoi uomini, che erano già entrati, lo raggiunsero.
– Adesso la via è libera – disse l’indiano.
– E mia figlia? – chiese Corishant, con voce spenta.
– Ci attende nella grande caverna.
Tremal–Naik si incamminò rapidamente. Mille angosce lo agitavano in quel fatale istante. Gli pareva che un tremendo pericolo lo minacciasse, ora che stava per raggiungere la felicità che aveva tanto atteso.
La sua corsa durò dieci minuti.
Dodici colpi sonori rimbombavano in quegli spaventosi sotterranei, quando arrivò alla pagoda, in mezzo alla quale giganteggiava la terribile figura di Kâlì, la mostruosa divinità dei thugs indiani.
Tremal–Naik si era bloccato in mezzo alla pagoda, colpito da quei cento sguardi acuti come punte di spillo.
– Sii il benvenuto – disse Suyodhana con un sorriso perverso. – Torni vinto o vincitore?
– Dov’è la mia Ada? – chiese Tremal–Naik preoccupato.
Un basso mormorìo percorse il cerchio dei thugs.
– Sii paziente – disse il capo. – E tu dimmi: dov’è la testa del capitano?
– Hider mi segue e fra qualche minuto te la mostrerò.
– L’hai dunque ucciso?
– Sì.
– Fratelli, il nostro nemico è morto! – urlò Suyodhana.
Si alzò, anzi scattò su come una tigre. Sulla sua faccia passò come un fremito e rimase lì, immobile a guardare Tremal– Naik. – Tu sei uno di quegli uomini che nell’India sono rari: tu sei forte, audace e terribile! Tu sei un indiano, che come noi soffre sotto il potere degli stranieri dalla pelle bianca. Abbracceresti la nostra religione?
– Io? – esclamò Tremal–Naik. – Io diventare un thug?
– Perché ti fanno forse orrore i thugs? Forse perché strangolano? Gli europei ci distrussero con il fuoco dei loro cannoni, noi li sconfiggiamo con il laccio, l’arma della nostra possente dea.
– E la mia Ada?
– Rimarrà fra noi, come Kammamuri che ormai è diventato un thug.
– Ma sarà mia sposa?
– È impossibile! Ella appartiene alla nostra dea.
– Tremal–Naik non ha altra dea che Ada Corishant!
Tremal–Naik si guardò attorno con furore.
– Suyodhana! – esclamò, – dunque sono stato tradito?
Mi si nega ora quella donna dopo tutto quello che ho fatto per la vostra dea? Quindi tu sei un falso!
D’un tratto una porta si aprì e apparve Ada, coperta di candidi veli, con il petto protetto da una corazza d’oro.
Due grida echeggiarono nella pagoda: – Ada!
– Tremal–Naik!
L’indiano e la giovane si slanciarono l’uno nelle braccia dell’altro. Immediatamente dopo si udì una voce poderosa gridare:
– Fuoco!
Una scarica tremenda rimbombò nel sotterraneo facendo risuonare tutti gli echi delle gallerie, poi sessanta uomini, irrompendo dal tenebroso corridoio, si slanciarono nella pagoda all’assalto con le baionette.
I thugs, stupefatti e atterriti, si rovesciarono confusamente attraverso alle gallerie, abbandonando a terra circa venti tra morti e feriti.
Suyodhama, con un balzo di tigre, si era precipitato attraverso uno stretto passaggio, chiudendo dietro di sé una pesante porta di legno.
Il capitano si slanciò su Ada, gridando:
– Figlia mia! Finalmente ti rivedo!
– Padre mio! gridò la giovane, che poi svenne per l’emozione fra le braccia di lui.
– In ritirata! – tuonò Tremal–Naik.
I soldati tornarono indietro verso la pagoda, per paura di perdersi sotto quelle oscure gallerie.
– È fatta! – disse il capitano. – Vieni, mio valoroso
Tremal–Naik: la mia Ada sarà tua sposa!
Tremal–Naik
L’isola misteriosa
La vergine della pagoda
Kammamuri
Incontro con Manciadi
Lo strangolatore
Il secondo colpo dello strangolatore
L’agguato a Manciadi
La tortura
Nella pagoda sotterranea
Tornano gli strangolatori
Il capitano Macpherson
Negapatnan
Saranguy
La fuga del thug
Una strana bevanda
L’evasione di Tremal–Naik Il sergente confessa
Nella misteriosa giungla indiana, si nasconde la setta dei terribili Thug, tra i quali ci sono gli strangolatori che adorano la sanguinaria dea Kalì. I Thug hanno rapito la giovane Ada Corishant e l’hanno costretta a diventare la sacerdotessa della dea. Riuscirà Tremal-Naik, un valoroso cacciatore del Bengala, a salvare la ragazza di cui è innamorato? Egli, insieme al suo servitore Kammamuri, intraprende una lotta senza quartiere, contro i rapitori.
Allegato omaggio a Finalmente in Secondaria 5a
Non vendibile separatamente