Le mille e una notte

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Autori dell’antica tradizione orientale Le MILLE e una NOTTE I CLASSICI Raccontate da Alessia Racci Chini

IL MULINO A VENTO IL MULINO A VENTO

Per volare con la fantasia Collana di narrativa per ragazzi

IL MULINO A VENTO

A VENTO

Editor: Paola Valente

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Autori dell’antica tradizione orientale

Le mille e una notte

Narrazione di Alessia Racci Chini

Illustrazioni di Elena Iarussi

Prefazione

Può una favola salvare la vita?

“Certamente sì!” risponderebbe la bella Shahrazàd, protagonista della storia che fa da cornice o da contenitore a tutte le novelle di Le mille e una notte.

La giovane Shahrazàd rischia il tutto per tutto per sottrarre alla morte le fanciulle del suo reame, vittime di un sovrano furioso che per vendetta ha promesso di prendere e poi ammazzare una moglie al giorno. Lo sposa lei, allora, il re. Nella testa ha un piano, ma nelle tasche nessuna arma, se non l’audacia, la fantasia e la capacità di inventare storie. Ne inventa così tante, da tenere incollato il sovrano per mille notti, fino all’alba, quando sul più bello la fanciulla interrompe il racconto. Se il re vorrà sapere come va a finire, dovrà risparmiarle la vita per un altro giorno.

Le mille e una notte è un’opera maestosa e senza tempo, la cui origine è circondata da un alone di mistero: gli autori, vissuti probabilmente a cavallo del X secolo, non hanno nome e molte delle storie sembra provengano dalla notte dei tempi, quand’erano tramandate oralmente e non avevano confini, ma viaggiavano da paese in paese.

Alcune novelle sono diventate assai famose, in altre troverete incredibili similitudini con le favole della nostra tradizione, mentre altre ancora vi sembrerà di scoprirle per la prima volta. Sono popolate da sultani e malandrini, da principesse voluttuose e ragazzi scaltri, da geni, ladroni, servi e astute fanciulle. Parlano di amore e amicizia, di vizi e di virtù, di coraggio e fedeltà, senza rinunciare a qualche bricconata maldestra o feroce. Anche per questo Le mille e una notte è stata a lungo considerata una lettura scandalosa, talvolta crudele.

Su tutto, regna la meravigliosa atmosfera dell’antico Oriente: un territorio sconfinato che dall’Egitto si estende verso l’Arabia, abbracciando gli odierni Afghanistan, Iran, Iraq, fino all’India e alla Cina, a comporre l’impero della Grande Persia.

Un paesaggio variopinto dove aleggia l’odore delle spezie, il rumore dei mercati e dove non è difficile scorgere, tra le cupole a cipolla dei palazzi reali, un tappeto volante o un “ginn”, la magica creatura che chiamiamo genio.

Mille e una storia, come a dire: sono tante, quasi infinite.

Siete pronti a scoprirne alcune tra le più belle?

La storia di Shahrazàd

Si racconta che nel tempo antico c’era un re di Persia il cui impero si estendeva fino all’India e alla Cina. Questi aveva due figli, entrambi prodi cavalieri: il maggiore si chiamava Shahriyàr, il minore Shahzamàn.

I due giovani, quando ereditarono il trono, suddivisero l’impero: al più grande andò gran parte del reame, mentre il più piccolo si stabilì nella bella città di Samarcanda; entrambi i sovrani regnarono con giustizia per lungo tempo, specie il più grande che era molto amato dai sudditi.

Un giorno, il minore dei due sentì una forte nostalgia e pensò di andare a trovare il fratello. Fece preparare tende da viaggio e molti bauli, cammelli e muli. Diede al suo Visir gli ordini per governare il reame e, assieme a un grande numero di servi, lasciò la città.

A mezzanotte, però, si ricordò di una cosa importante che aveva dimenticato nel suo palazzo e decise di tornare. Che triste sorpresa fu per lui scoprire che sua moglie lo tradiva con un servitore! Il re Shahzamàn, addolorato e offeso, si infuriò, afferrò la spada e uccise la sua sposa e il servo. Poi, sconvolto e disperato, decise proseguire ugualmente il viaggio verso il regno dell’amato fratello.

Venne accolto da re Shahriyàr con grandi onori, ma tutto fu inutile: Shahzamàn appariva pallido e debole, vinto com’era dalla profonda tristezza.

Il fratello maggiore allora pensò di organizzare per lui una battuta di caccia.

– Caro fratello – gli disse Shahriyàr, – vieni a caccia con me come quando eravamo ragazzi. Ricordi quante giornate spensierate abbiamo trascorso? Vedrai che ti sentirai meglio…

– Non posso, fratello mio. Il mio animo custodisce una ferita troppo grande – rispose l’affranto Shahzamàn senza spiegare quanto era accaduto.

Shahriyàr non insistette e partì per la battuta di caccia solo con i suoi servi.

Rimasto nel palazzo reale, Shahzamàn passò lungo tempo alla finestra a contemplare un lussureggiante giardino. Guardandolo, il re vide aprirsi nelle mura una porta segreta e uscire fuori la bellissima regina, accompagnata dalle sue ancelle e da alcuni schiavi. La donna sedette sulla fontana

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e abbracciò un giovane servitore. Lo stesso fecero le sue ancelle con gli altri schiavi, tra risate e baci.

Shahzamàn assistette alla scena sbigottito.

“Allora anche mio fratello è afflitto dalla stessa mia sciagura” pensò affranto.

Quando il re Shahriyàr tornò dalla battuta di caccia, il fratello minore gli raccontò ogni cosa.

– Voglio vedere coi miei occhi! – esclamò re Shahriyàr.

I due escogitarono un trabocchetto: l’indomani, il re avrebbe finto di partire per una nuova battuta di caccia e sarebbe poi rientrato segretamente a palazzo. Così accadde.

Raggiunta la finestra che dava sul giardino privato, il sovrano assistette alla stessa scena che gli aveva narrato il fratello: vide la regina e le sue ancelle divertirsi e amoreggiare con gli schiavi.

Il re Shahriyàr perdette la ragione.

– Fratello mio – gridò in lacrime, – a che servono i nostri regni di fronte al disonore che abbiamo subito? Vieni, partiamo! Andiamo a scoprire se a qualcun altro nel mondo è capitata la nostra stessa sciagura.

I due fratelli lasciarono segretamente il reame, vagarono giorno e notte finché, ormai stremati, decisero di riposare presso un albero solitario in mezzo a una radura poco lontano dal mare.

Il loro sonno fu presto turbato da un frastuono enorme che li impressionò. Videro quindi il mare alzarsi come se

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fosse in tempesta e uscire un grosso turbine nero diretto proprio verso di loro.

Presi dalla paura, i due re si arrampicarono in fretta fino ai rami più alti per trovare rifugio. Da lì si accorsero che la colonna scura era in realtà animata magicamente da un grosso genio dall’aria demoniaca: la terribile creatura reggeva sul capo una strana cassa di vetro.

Raggiunto l’albero dov’erano appollaiati Shahriyàr e Shahzamàn, il genio poggiò la cassa a terra e da lì uscì una bellissima fanciulla di cui era evidentemente innamorato, rapita la notte delle nozze. I due re rimasero seduti finché il genio si addormentò sul grembo della sua amata. Quando lei alzò gli occhi verso la cima dell’albero, si accorse dei due fratelli che osservavano la scena sbigottiti. A Shahriyàr e Shahzamàn il fiato si ruppe in gola. Cosa sarebbe successo se anche il genio li avesse scoperti?

La fanciulla fece loro segno di scendere, ma di fronte alla reticenza dei due sovrani minacciò di avvertire il genio. Shahriyàr e Shahzamàn si calarono allora dall’albero e la giovane mostrò le sue reali intenzioni.

– Scambiamoci baci e carezze, approfittiamo del tempo in cui questo mostro dormirà – disse.

I due fratelli non avrebbero voluto ubbidire, ma lei minacciò di svegliare il genio.

Quando i due ebbero esaudito il suo desiderio, la fanciulla estrasse da una borsa una lunga cordicella dov’erano infilati oltre cinquecento anelli.

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– Presto, ora datemi i vostri anelli – disse ai due sovrani. Shahriyàr e Shahzamàn obbedirono all’istante. Quando anche i loro anelli furono infilati come trofei nel cordino, la fanciulla disse:

– I padroni di questi anelli sono stati tutti miei amanti. Vedete quante volte sono riuscita a tradire questo stupido genio che dice di amarmi, ma mi tiene prigioniera in fondo al mare? Lui non sa che quando una donna si mette in testa una cosa, nulla può sopraffarla. Nulla!

Le sue parole scossero profondamente l’animo dei due sovrani, specie quello di Shahriyàr.

– Che strano destino il nostro – osservò il maggiore dei re. – Se a costui, che è un genio potente e terribile, è capitata una sorte peggiore della nostra (tradito così tante volte!), c’è da consolarsi se anche noi siamo stati traditi…

Per la prima volta la loro sfortuna non apparve più così tanto grave. I due fratelli decisero allora di far ritorno nei rispettivi regni.

Il re Shahriyàr non aveva però dimenticato il torto subito: il suo cuore ribolliva ancora di rabbia e provava un enorme desiderio di vendicarsi. Fu così che appena messo piede nel suo palazzo condannò a morte la regina e non risparmiò neanche le ancelle e gli schiavi. Il suo animo, però, era ancora profondamente offeso, per cui decise di prendere ogni giorno una nuova moglie e di ucciderla dopo la prima notte di nozze. Così nessuna regina l’avrebbe mai più tradito.

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Re Shahriyàr per ben tre anni sposò ogni giorno una nuova fanciulla e la fece uccidere la mattina dopo. Gran parte del popolo, scosso dall’orrore, fuggì via portando lontano tutte le figlie, finché nel regno scomparvero le fanciulle.

Una mattina, il Visir ricevette come al solito l’ordine di trovare una nuova moglie per il sovrano, ma non c’erano più ragazze disponibili, per cui l’uomo rientrò a casa preoccupato di essere punito anche lui con la morte. Il Visir amava il suo re, ma avendo due figlie che crescevano belle e gentili, badava bene a tenerle nascoste. La maggiore si chiamava Shahrazàd e la minore Dunyazàd. Shahrazàd aveva un animo curioso e vivace. Aveva letto molti libri e conosceva a memoria moltissime storie. Quando vide il padre tornare a casa torvo e preoccupato, domandò: – Cos’è che ti angoscia, caro padre?

Il Visir, non potendo trattenersi, raccontò alla figlia ogni cosa. Alla bella Shahrazàd venne allora un’idea audace.

– Caro padre, e se fossi io a sposare il sovrano?

A quelle parole, l’intera famiglia del Visir domandò se per caso fosse impazzita.

– Non sono pazza – rispose la fanciulla. – Ho un’idea che potrebbe salvare le sorti di tutte le ragazze del regno. E se non dovesse funzionare, vorrà dire che mi sarò sacrificata per una buona causa…

La giovane spiegò il suo progetto per filo e per segno. Si raccomandò soprattutto con la sorella minore.

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– Hai capito tutto Dunyazàd? – domandò.

– Ho capito, ho capito, ma mi sembra una follia – rispose la fanciulla piena di timore.

– Appena celebrate le nozze, quando rimarrò da sola con il re – spiegò Shahrazàd, – gli chiederò di poter salutare ancora una volta la mia amata sorellina, vedrai che non mi negherà questa cortesia. E tu Dunyazàd, quando arriverai dovrai dire: “Sorella, raccontami una storia come dono d’addio!”. Se Dio vuole, quella favola sarà la nostra salvezza!

Furono così celebrate le nozze tra re Shahriyàr e la bella Shahrazàd.

Quando i due restarono soli nell’alcova nuziale, la fanciulla si mise a piangere e disse al sovrano di voler salutare un’ultima volta la sorellina cui era tanto affezionata. Il re non obiettò e mandò a cercare la ragazza.

Shahrazàd e Dunyazàd, di nuovo insieme, si abbracciarono.

– Sorella, tu che conosci molte storie, raccontane una per me! – domandò Dunyazàd.

– Certamente, se il mio sovrano lo permette – rispose Shahrazàd.

Re Shahriyàr annuì incuriosito e la bella Shahrazàd iniziò il suo racconto.

L’arrivo dell’alba sorprese il re: il tempo era passato così velocemente e la novella di Shahrazàd non era ancora finita.

“Se adesso uccido la mia sposa non saprò come andrà a finire questa storia” rifletté il sovrano.

Fu così che Shahriyàr decise che per quel giorno avrebbe risparmiato la vita alla sua sposa per permetterle di riprendere il racconto la notte successiva.

Shahrazàd fu molto abile: all’alba del nuovo dì interruppe ancora una volta il racconto sul più bello, così il re le concesse un altro giorno di vita. E poi un altro ancora, e un altro, e un altro… per lungo tempo.

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Re Shahriyàr non vedeva l’ora giungesse la sera per ascoltare il seguito della novella, e poi, mai stanco, ne chiedeva un’altra.

– La notte è ancora lunga. C’è tempo per un’altra storia, prima che sorga il sole – diceva il sovrano.

– Di quale argomento preferite che vi racconti, mio sire? – domandò la fanciulla una notte in cui la luna era particolarmente luminosa.

Il re meditò qualche istante, poi rispose:

– Di animali.

– Sta bene, maestà – rispose Shahrazàd, per nulla intimorita dalla richiesta, – vi racconterò la storia del bue e dell’asino. E se l’alba dovesse tardare ancora, vi parlerò di geni, di viaggiatori, di malandrini, di principesse e di oggetti incantati.

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La storia del bue e dell’asino

C’era una volta un ricco mercante che aveva il dono di comprendere il linguaggio degli animali ma non aveva il permesso di confessare a nessuno questa sua dote speciale. Possedeva anche alcune fattorie, dove trascorreva gran parte delle giornate e si divertiva ad ascoltare segretamente le conversazioni tra le bestie.

Un giorno il mercante sedette nei pressi di una mangiatoia e udì il bue che diceva all’asino:

– Bella la vita, eh? Sei servito e riverito, strigliato e ben nutrito. E in cambio non hai che da portare in groppa il padrone per qualche breve viaggio. Non è giusto! A me, invece, tocca faticare tutto il giorno sotto il solleone per trascinare quell’aratro infernale. Senza contare gli scarti che mi servono per cena e le notti trascorse a rigirarmi nel letame. Come invidio la tua sorte, asino!

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L’asino non interruppe mai il discorso del bue, ma quando ebbe terminato di parlare gli disse:

– Sei proprio un babbeo, bue! Ti ammazzi di fatica in cambio di cosa? La sorte sarebbe ben diversa se il tuo coraggio camminasse a braccetto con la tua forza.

Il bue lanciò all’asino un’occhiata di traverso poiché non aveva afferrato bene il discorso.

Allora l’asino riprese:

– Senti, ragiona con me: quando l’agricoltore viene per attaccarti all’aratro perché non gli tiri delle belle cornate? Perché non scalpiti e non ti rifiuti di lavorare? La natura ti ha fatto dono di tutti i mezzi per farti rispettare, ma tu sembri ignorarli. Se ti servono per cena la paglia secca, tu rifiutati di mangiarla, dai retta a me.

– Dici che dovrei rifiutarmi di mangiare, asino? Mi consigli questo?

– Certo! Finché non ti serviranno roba migliore, tu rifiutati di mangiare la paglia. Sono sicuro che se seguirai il mio consiglio, nel giro di pochi giorni la tua sorte sarà ben diversa. La mattina seguente, il contadino andò a prendere il bue, l’attaccò all’aratro e lo condusse come al solito nei campi. Il bue, che non aveva dimenticato il consiglio dell’asino, invece di tirare l’aratro si mostrò sdegnato e si rifiutò di lavorare. La sera, quando venne ricondotto nella stalla, non mangiò.

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Il giorno seguente il contadino andò a riprenderlo per condurlo al lavoro ma, trovando la mangiatoia ancora piena, pensò che il bue fosse malato. Corse subito dal mercante per riferire l’accaduto.

Il mercante, che aveva ascoltato per intero i discorsi dei due animali, capì che il bue aveva deciso di mettere in pratica i consigli dell’asino.

“Quel che ci vuole per far rientrare la situazione è solo una bella punizione” pensò.

– Domani servi al bue fieno tenero e acqua limpida –disse il mercante al contadino. – Poi vai dall’asino e fallo lavorare al posto del bue. E affaticalo per bene, mi raccomando.

Il contadino obbedì e l’asino fu obbligato a tirare l’aratro per tutto il giorno. Quando fece ritorno nella sua stalla, non si reggeva in piedi per la stanchezza.

Il bue invece era assai contento: aveva mangiato in abbondanza ed era stato a riposo tutto il giorno.

– Asino, grazie dei buoni consigli! – disse allegro. – Avevi proprio ragione: la mia sorte è finalmente cambiata.

L’asino allora sentì montare dentro un gran dispetto.

“Mannaggia a me!” pensò. “Che imprudente sono stato a dare quei consigli. Vivevo felice, avevo ciò che desideravo. Sono io stesso la causa della mia disgrazia”.

Lanciò al bue un raglio piagnucolante e andò a dormire stremato dalla fatica.

La stessa storia si ripeté per molti giorni tanto che il mercante, all’ora del tramonto, quando gli animali venivano ricondotti nelle stalle dopo il lavoro nei campi, aveva preso l’abitudine di sedere accanto alla mangiatoia per il divertimento di ascoltare i discorsi fra le due bestie.

“È la giusta punizione che spetta all’asino per aver aizzato il bue a ribellarsi al suo dovere” diceva fra sé ridendo.

Una sera però, mentre fumava la pipa sotto un albero vicino alla stalla, sentì l’asino domandare al bue:

– Compare, ti prego, cosa intendi fare domani quando il contadino ti porterà da mangiare?

– Ciò che farò – rispose il bue – è semplice: continuerò a fare quanto mi hai insegnato. Mostrerò le corna, muoverò qualche passo indietro e mi fingerò ammalato.

– Non sia mai! Non sia mai! – esclamò l’asino. – Pensaci bene stavolta, perché questa sera, al ritorno dai campi, ho udito dire una cosa che mi ha fatto tremare.

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– Dimmi, che hai udito? — domandò il bue.

– Il nostro padrone – riprese l’asino – ha detto: «Giacché il bue non mangia né può stare in piedi, voglio che domattina sia ammazzato per farne della carne salata». Stai attento bue!

Gli occhi del bue si spalancarono dal terrore.

– E adesso che mi consigli di fare, asino? – domandò con voce tremante.

– Oh, è semplice – rispose l’astuta bestiola, – quando domani ti verrà servito il pasto, alzati subito e mangia con avidità. Mostrati arzillo e vivace, non fingerti più malato. Il padrone penserà che sei guarito e senza dubbio revocherà la tua sentenza di morte.

Il mercante, che li aveva ascoltati con molta attenzione, di fronte all’astuzia dell’asino esplose in una grande risata. Andò dal contadino e ordinò che l’indomani il bue venisse di nuovo condotto nei campi e l’asino lasciato a riposo.

Così avvenne: il mattino seguente, con grande sorpresa, il contadino trovò il bue già in piedi, ansioso di essere attaccato all’aratro. Lavorò di buona lena per tutto il giorno e la sera mangiò paglia secca senza alcuna obiezione. Il tutto, sotto lo sguardo soddisfatto del mercante, felice di aver ripristinato nella fattoria l’ordine delle cose.

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La storia di Alì Babà e i quaranta ladroni

Un tempo esisteva una città ricca e felice, dove vivevano due fratelli. Il maggiore si chiamava Cassin, il minore Alì Babà. Il loro vecchio padre, morendo, aveva lasciato una misera eredità: una piccola tenuta che essi avevano diviso a metà. Tuttavia, il destino dei due fratelli aveva percorso strade diverse: Cassin aveva sposato una donna ricca che gli aveva portato in dote un magazzino pieno di mercanzia, tanto che nel giro di pochi mesi era diventato il più ricco mercante della città; Alì Babà invece aveva sposato una donna povera e per mantenere i suoi figli non aveva altro mezzo che tagliare la legna nella foresta che sorgeva al limite della città.

Per questo, tutti lo chiamavano Ali Babà il boscaiolo.

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Una mattina, Ali Babà si recò nel fitto del bosco dove si trovava il legno più pregiato, quello che avrebbe potuto vendere al miglior prezzo. Si era quasi spaccato la schiena per tagliare gli arbusti e riempire le ceste, le stava caricando sulla groppa dei tre asinelli - l’unica sua ricchezza - quando sentì la terra vibrare e udì un frastuono in lontananza. Scorse un gran nuvolo di polvere e capì che si stava avvicinando un gruppo di uomini a cavallo.

Temendo si trattasse di briganti, subito cercò un nascondiglio per sé e i suoi animali. Riparò gli asinelli dietro una macchia di cespugli, mentre lui trovò un rifugio più sicuro. Fece giusto in tempo a salire sulla cima di un albero, quando vide passare sotto di lui ben quaranta uomini al galoppo, col capo coperto da un turbante, la scimitarra nella fodera e la faccia barbuta, feroce. Si capiva benissimo che quegli uomini non avrebbero esitato a tagliare la gola di chiunque si fosse messo sulla loro strada. Erano di certo dei ladroni.

Da lassù Alì Babà, senza essere veduto, poté osservare i briganti fermarsi poco più in là, nei pressi di una parete rocciosa altissima e molto ripida. Li vide scendere da cavallo e scaricare alcuni sacchi rigonfi e delle giare. Poi, il più corpulento tra quegli uomini, che di certo era il capo, si parò innanzi alla parete di roccia e a gran voce pronunciò una formula magica: –

. .

Subito un grosso macigno si scostò senza rumore e lasciò intravedere un’apertura nella parete della montagna.

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I ladroni vi entrarono uno dietro l’altro portando sacchi e giare, dopodiché il macigno si mosse di nuovo fino a serrare l’uscio.

Alì Babà restò ammutolito. Aveva assistito a qualcosa di prodigioso.

“Apriti sesamo… che strane parole” sussurrò fra sé tentando di imprimere bene la frase nella memoria.

Poco più tardi, vide riemergere dall’ingresso della caverna la banda di brutti ceffi. Quando furono tutti risaliti a cavallo, il capo gridò: –

. . .

E la fessura nella roccia si richiuse all’istante, come fosse governata magicamente da un meccanismo invisibile.

Alì Babà, con immenso sollievo, vide scomparire i ladroni nella foresta. Quando tutto si fece silenzioso, aspettò ancora, per paura che potessero tornare. Alla fine si fece coraggio, scese dall’albero, raggiunse la parete di roccia, la tastò per cercare l’ingresso nascosto, ma non trovò nulla. Pronunciò quindi la misteriosa frase:

– Ehm… Com’era? Ah, sì.

. .

Un rombo all’interno della montagna per poco non lo fece svenire. Incredibile! Il masso rispondeva al suo comando e la fessura si aprì.

Il boscaiolo si affacciò titubante dentro la caverna pensando di trovarvi solo tenebre e aria umida, ma si sbagliava: un’immensa sala naturale, illuminata da un’apertura sulla cima, brillava del colore dell’oro.

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Alì Babà rimase sbigottito, quasi incapace di muoversi alla vista di quello spettacolo straordinario. Nella grotta erano stipati tesori d’indicibile valore: casse di monete d’oro e d’argento, scrigni di gemme, giare colme di olio profumato, tappeti preziosi, sete e broccati. C’erano anfore e scrigni pieni di gioielli, spade con l’impugnatura d’oro e di diamanti, collane di perle che rilucevano come la luna piena. Tutto scintillava, tutto risplendeva di una luce vivida e irreale.

Il povero uomo comprese di essere entrato nel covo dei ladroni.

Si inoltrò in mezzo a tutte quelle meraviglie, affondò le mani nelle anfore colme di gioielli, ammirò l’immensa collezione di tessuti preziosi, talmente vasta che neppure un re potente avrebbe mai posseduto, e così perse la nozione del tempo. A un tratto si riscosse e, con grande spavento, si rese conto che se i briganti fossero tornati per lui sarebbe stata la fine. Allora si riempì velocemente le tasche di monete d’oro, andò a prendere i suoi asinelli, svuotò le ceste dalla legna e le riempì di gioielli.

Infine, uscì in fretta dalla caverna e ripeté la formula che aveva appreso:

. . .

E la montagna si richiuse silenziosamente alle sue spalle. Quando tornò a casa e vuotò sul pavimento il grande tesoro raccolto, la moglie per poco non perdette i sensi.

– Alì Babà! – strillò la donna, – saresti così disgraziato da metterti a rubare?

– No, moglie mia – rispose il boscaiolo, – io non sono un ladro, a meno che rubare non sia togliere ai ladri. Ma ascolta la mia storia...

Quando ebbe finito di raccontare l’accaduto, la moglie venne presa dal fervore di contare tutte le monete, a nulla servirono le insistenze del boscaiolo, la paura di essere scoperti, l’invito alla prudenza. Alla fine, per fare prima, decisero di servirsi di un recipiente di quelli usati per misurare il grano, ma non lo avevano.

– Vai a chiederne in prestito uno alla sposa di tuo fratello – disse la moglie di Alì Babà.

La moglie di Cassim fu ben felice di prestare la misura, ma in cuor suo era sospettosa: che potevano avere da misurare quei due dato che non possedevano nemmeno un pugno di grano? Così, per soddisfare questa curiosità, spalmò di grasso il fondo del recipiente prima di consegnarlo.

Per moltissime volte il misurino venne riempito poi svuotato, e ancora riempito e di nuovo svuotato, e ancora

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riempito e di nuovo svuotato, perché le monete sembravano non finire mai.

Alì Babà e la moglie erano raggianti. Poi, con molta premura, la donna riportò la misura alla cognata, la ringraziò, e se ne tornò a casa.

– Cassiiiiiim! – gridò la moglie osservando stupefatta il fondo della misura. – Vieni a vedere che cosa ha misurato quel disgraziato di tuo fratello!

Mostrò al marito meravigliato una moneta d’oro che era rimasta attaccata allo strato di grasso sul fondo.

Cassim provò una gelosia fortissima, mista a una grande curiosità, che non lo fece dormire per tutta la notte. Giunto il giorno, bussò forte alla porta di Alì Babà e gli urlò in faccia:

– Tu sei un falso, fratello! Vivi come un miserabile eppure non ti manca l’oro da misurare!

– Fratello mio, non so di cosa parli.

– Non fare il furbo con me! Che cos’è questa, eh? – domandò mostrando la moneta ancora sporca di grasso.

Alì Babà decise allora di raccontare l’incredibile avventura. Cassim, dapprima incredulo, si fece ripetere più volte dov’era l’apertura nella roccia, ma quando Alì Babà si offrì di accompagnarlo, rifiutò sgarbatamente. No, non avrebbe diviso il tesoro con quello sciocco di suo fratello.

Cassim uscì invece di soppiatto dalla città portando ben dieci muli robusti e il doppio delle ceste. Arrivò nella foresta, trovò la parete di roccia e gridò:

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. .

La porta si aprì e Cassim entrò nella caverna. Non solo ciò che gli aveva raccontato Alì Babà era vero, ma quel tesoro superava di gran lunga le sue aspettative. Esaminò con cura gli indicibili tesori, le stoffe, i tappeti, le lampade d’argento e tutti gli oggetti preziosi, poi conficcò le mani nei bauli di monete d’oro: non gli sarebbero bastati cento viaggi con cento muli per portare via tutte quelle ricchezze!

Si affrettò a raccogliere quante più cose possibili, tanto sarebbe tornato anche il giorno dopo e quello dopo ancora. Uscì dalla caverna, portò dentro gli asini e li caricò all’inverosimile con ceste piene di oggetti preziosi, quindi li batté per farli camminare più velocemente nonostante il peso. Quando fu fuori, fece per pronunciare la frase magica, ma… la formula era sparita dalla sua mente.

“Com’era? Perbacco, com’era?” si domandò strofinandosi la barba. “Se non la ritrovo, i ladroni capiranno che qualcuno è penetrato nel loro rifugio e saranno guai”.

– Chiuditi Sa… So… Su… Susino. No, aspetta. Sa… Salamo!

Tentò e ritentò, ma non ci fu verso. L’orrore gli trasfigurò il viso quando udì il galoppo dei cavalli. I ladroni stavano tornando nel loro covo!

Cercò rifugio alla bell’e meglio per sé e gli asini frustandoli a sangue per farli muovere, ma era troppo tardi. Per salvarsi la pelle, fu costretto ad allontanarsi di corsa lasciando lì le bestie.

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Quando i ladroni trovarono il rifugio aperto e i muli abbandonati carichi d’oro, capirono che colui che era entrato nella grotta non poteva essere andato molto lontano. Quaranta uomini non impiegarono che pochi istanti per ritrovarne uno solo. Cassim era nascosto sotto un cespuglio.

Lo sfilarono per le gambe e lo uccisero barbaramente. Entrati nella caverna, il capo dei briganti convocò un consiglio.

– Nessuno oltre noi conosce le parole magiche! – esclamò. – È chiaro che qualcuno ha scoperto il segreto.

– Sì, ma chi? – risposero in coro i compagni. – E in quanti l’avranno scoperto? E se ci tendessero un’imboscata?

Decisero di nascondere il corpo dello sconosciuto nella caverna e sparire per qualche tempo per evitare spiacevoli sorprese.

Passarono due giorni e la moglie di Cassim, non vedendo ritornare il marito, era in pena. Andò da Alì Babà pregandolo di aiutarla.

– Alì Babà, tu sai che tuo fratello è andato nella caverna. Temo sia accaduto qualcosa di terribile.

Alì Babà era ancora offeso perché il fratello non lo aveva voluto con sé, ma decise di andare a vedere che cosa gli fosse accaduto. Raggiunse la roccia nella foresta e pronunciò la formula. Appena dentro, che triste sorpresa fu per lui imbattersi nel corpo del fratello falciato da mille ferite! Non fu difficile capire com’erano andate le cose.

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Avvolse il corpo dell’uomo in un tappeto, lo caricò sull’asino e lo riportò segretamente a casa.

Arrivato in città, andò a bussare alla casa della cognata. La porta gli fu aperta da una giovane schiava, Morgiana, che aveva fama di essere molto astuta e coraggiosa.

– Senti, Morgiana – disse Alì Babà, – la prima cosa che ti raccomando è il segreto più assoluto. Mio fratello Cassim è stato ucciso, ma dobbiamo far credere che sia morto per cause naturale, altrimenti la vita di tutti noi sarà in pericolo.

E con questo le raccontò tutta la storia.

Mentre la cognata piangeva tutte le lacrime, Alì Babà e Morgiana non si persero d’animo. La giovane andò subito a comprare le medicine dallo speziale più vicino, raccontando che il suo padrone Cassim si era ammalato. Il giorno dopo fece lo stesso, dicendo quanto si fosse aggravato. Il terzo giorno si recò dallo speziale per dare la triste notizia. – Il mio povero padrone è morto senza avere avuto nemmeno il tempo di prendere tutte le medicine – raccontò. Andò quindi da un vecchio sarto per far cucire un elegante veste funebre, com’era usanza da quelle parti, ma pretese di condurlo con gli occhi bendati fino alla casa del morto affinché non riconoscesse né la dimora, né la via. Il sarto non ebbe nulla da obiettare: si lasciò bendare e condurre da Morgiana.

Raggiunta la casa, vi entrarono da una porta secondaria. Il sarto fu poi obbligato a cucire l’abito funebre nella stanza buia perché non vedesse le ferite. Alla fine, lo ricompen-

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sarono con una moneta d’oro, Morgiana gli bendò nuovamente gli occhi e lo ricondusse nella sua bottega.

Il funerale di Cassim poté svolgersi normalmente, con grande concorso di folla, mentre la moglie, rimasta sola, venne accolta nella casa di Alì Babà insieme alla serva Morgiana.

Passò del tempo…

Un giorno, i quaranta ladroni tornarono nella loro caverna e si accorsero che il corpo dello sconosciuto era scomparso.

– Il nostro tesoro allora è davvero in pericolo – disse il capo. – Il segreto è noto non soltanto a colui che è morto, ma anche a quello che è venuto a prendersi il corpo. Dobbiamo per forza trovarlo e ucciderlo!

Discussero a lungo, finché uno dei ladroni si offrì di andare in città a scoprire qualche cosa. Dopo aver vagato a lungo, sedette in un’osteria per ristorarsi, quando sentì un vecchio sarto vantarsi di un’impresa che aveva compiuto:

– Ho buoni occhi, io! Ho cucito un vestito da morto al buio, io!

Una speciale intuizione fece capire al ladrone che era sulla buona pista.

– E chi era questo morto?

– Non so e non posso dirlo.

– Saprebbe indicare la sua casa?

– Indicare no, ma ritrovarla sì.

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Il ladrone promise al sarto una grossa ricompensa ed egli si fece bendare per ritrovare a senso e memoria tutte le vie percorse quel giorno con Morgiana, fino a raggiungere la tenuta di Cassim e Alì Babà. Allora il ladrone disegnò con una pietra una croce sulla porta per ritrovare la casa e tornò nella foresta per avvertire gli altri compari.

Poco più tardi Morgiana uscì di casa e, scorgendo la croce sulla porta, capì che si trattava di un segnale per qualche malintenzionato.

Piena di forza d’animo, afferrò una pietra e disegnò altrettante croci su tutte le porte della via.

Fu così che i ladroni arrivarono in città armati fino ai denti ma non poterono riconoscere la casa e dovettero tornare nella foresta con la coda fra le gambe. Lo stesso avvenne il giorno dopo: un secondo ladrone convinse il vecchio sarto a farsi accompagnare bendato fino alla casa del morto e segnò la porta di Alì Babà con la creta rossa, ma la furba Morgiana, subito dopo, segnò nello stesso modo tutte le porte intorno.

Il capo pensò di avere a che fare con dei buoni a nulla, così decise di intervenire egli stesso. Promise una moneta d’oro al vecchio sarto se lo avesse ancora accompagnato alla casa del morto. Questi obbedì e il ladrone osservò la via e la casa così bene che non ebbe bisogno di segnare nulla.

Alla sera, tornò in città con i suoi compagni per attuare la sua vendetta. Bussò alla casa di Alì Babà fingendosi un mercante che cercava riparo per la notte assieme a tutta la sua merce, ossia ben quaranta giare d’olio, trasportate da venti muli. Nessuno poté pensare che quell’uomo gentile era il capo dei ladroni travestito e che dentro le giare erano nascosti i trentanove compagni armati fino ai denti, mentre solo una era piena d’olio. Alì Babà, che era molto generoso, non ebbe nulla da obiettare. Fece preparare un banchetto per il mercante e sistemò muli e giare nel cortile della tenuta.

A notte fonda, il capo dei briganti avrebbe chiesto ad Alì Babà il permesso di andare a controllare che le sue bestie non mancassero di nulla e una volta avvicinatosi alle giare, avrebbe fatto uscire i ladroni con le spade sguainate.

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Durante il banchetto, però, Morgiana si accorse che l’olio delle lampade era finito. Pensò che il mercante loro ospite non avrebbe avuto nulla da ridire se ne avesse preso un po’ del suo, dato che ne aveva molte giare ricolme. La fanciulla raggiunse il cortile quando udì alcune voci sommesse. Provenivano dalle giare!

Morgiana comprese subito che si trattava dei ladroni della foresta. Identificata la giara piena d’olio, ne prese in grande quantità e andò subito nella cucina. Mise l’olio sul fuoco fino a farlo friggere, poi tornò nel cortile e lo versò dentro ciascuna giara, dalla prima fino all’ultima, sigillando il coperchio per uccidere tutti i ladroni nascosti dentro. Ne mancava solo uno, il capo.

La ragazza tornò allora nella stanza del banchetto. Poiché era una bravissima danzatrice, propose ai padroni di casa di omaggiare l’ospite con un ballo, ma prima pensò bene di nascondere nella veste un pugnale. Al culmine della danza, quando il ladrone, ammirato, aveva quasi dimenticato il suo progetto, la ragazza si scagliò su di lui e lo colpì al cuore.

– Ma che cosa hai fatto? – gridarono all’unisono Alì Babà, la moglie e la cognata.

– Vi ho salvato la vita, ecco cosa ho fatto! – rispose Morgiana. Quindi spiegò tutto ciò che aveva scoperto.

Quando nel cortile scoprirono i trentanove ladroni morti nelle giare, Alì Babà, commosso dal coraggio della ragazza, decise di donarle la libertà.

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– Cara Morgiana – disse, – per dimostrarti la mia riconoscenza, oltre alla libertà voglio darti in moglie a mio figlio.

La fanciulla fu ben felice di sposare quel giovane poiché ne era da tempo segretamente innamorata. Fu così che, dopo aver sotterrato i corpi dei ladroni, passati pochi giorni furono festeggiate le nozze.

Alì Babà condivise solo con suo figlio il segreto della caverna nella foresta e i due vi tornarono spesso per prendere poco alla volta tutte quelle ricchezze. Nessuno altro, oltre a loro, conobbe mai le parole magiche per entrarvi.

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La storia del pescatore e il genio

C’era una volta un vecchio pescatore, così povero da non riuscire quasi a sfamare la sua famiglia. Egli tutti i giorni andava a pescare presso il fiume, dove gettava le reti per quattro volte.

Una mattina, mentre ritirava le reti, le sentì assai pesanti da non riuscire a sollevarle, allora si spogliò, si gettò in acqua e le tirò a forza. Si aspettava di aver pescato qualcosa di prezioso ma rimase assai deluso di trovarvi dentro un asino morto.

Il pescatore alzò gli occhi al cielo ed esclamò:

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. . . . . . . . .

Liberata dai fili la grossa bestia, il pescatore gettò di nuovo le reti e attese che fossero ben calate nell’acqua. Cominciò poi a tirare le estremità e sentì, per la seconda volta, che si stavano facendo pesanti. Allora si spogliò di nuovo e si gettò in acqua, immaginando di trovarle ricolme di pesci. Quando riuscì a trascinarle a terra rimase ancor più affranto poiché, fra le maglie, non vi era altro che un otre pieno di acqua e fango.

Il pescatore allora alzò gli occhi al cielo ed esclamò di nuovo:

. .

. . .

. . . .

L’uomo liberò le reti e si apprestò a gettarle in acqua per la terza volta. Quale turbamento lo colse quando, nel tirarle ancora verso riva, scoprì di aver pescato solo rottami di vasi e bottiglie!

Sollevò allora lo sguardo e disse:

– O buon Dio, tu sai bene che ogni giorno getto le reti per quattro volte e tre sono già state sprecate. Ti prego, non negarmi il tuo aiuto altrimenti la mia famiglia non avrà di che mangiare.

Gettò fiducioso le reti in acqua e pazientò finché quelle non furono spalancate per bene. Poi cercò di ritirarle, ma non vi riuscì poiché sembravano impigliate sul fondo.

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L’uomo si spogliò di nuovo, si gettò in acqua e liberò le reti con le mani. Quando le tirò a riva, vi trovò in mezzo un vaso di rame con l’apertura sigillata con il piombo.

– Non male… – disse. – Potrò sempre venderlo al mercato dei ramai. Di certo vale almeno dieci denari.

Il pescatore tuttavia pensò che avrebbe potuto tenere per sé il contenuto, dato che il vaso era piuttosto pesante. Tentò allora di aprirlo, ma il sigillo non cedette. Tirò fuori un coltello, spaccò il sigillo e riuscì finalmente a togliere il tappo.

Quando rovesciò il vaso uscì un fumo che prese a salire verso il cielo. Il fumo si addensò finché, con grande meraviglia e sconcerto del pescatore, cominciò a prendere forma. Troppo stupito per reagire, l’uomo rimase a bocca aperta davanti a quel prodigio.

Quando il fumo fu uscito del tutto, la forma indistinta si materializzò e divenne un maestoso genio. Aveva le narici dilatate come due caverne, i capelli lunghi e arruffati e il colorito cinereo. La sua espressione, seria e terribile, incuteva un immenso timore.

Le gambe del pescatore cominciarono a tremare ed egli si inchinò più volte di fronte a quell’inquietante apparizione.

– Finalmente mi hai liberato! – esclamò il genio con voce pari a un rombo di tuono. – Sono stato prigioniero per milleottocento anni in questo vaso che mi stava stretto come un vestito di metallo. Per ricompensa, vecchio, potrai scegliere in che modo dovrò ucciderti.

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– Bella ricompensa! – rispose il pescatore. – Ti ho liberato da una prigionia millenaria e tu vuoi uccidermi?

– Ebbene sì! Molti secoli fa promisi solennemente di arricchire il mio salvatore per l’eternità, ma nessuno è venuto mai a liberarmi. Furente, cambiai allora proposito e decisi di uccidere chi mi avesse liberato. Ed ecco che arrivi tu.

Il povero pescatore, vinto dalla paura, implorò il genio di risparmiargli la vita, ma a nulla valsero le sue suppliche. Messo alle strette, decise allora di giocare d’astuzia. Cadde con le ginocchia a terra e con tono supplichevole disse:

– Genio, tu non meriti di essere libero. Io ti ho fatto del bene e tu mi ricambi col male. Ma se devo accettare la tua decisione, toglimi almeno una curiosità. Non ho che una domanda da porti e vorrei che mi rispondessi come fosse il mio ultimo desiderio.

– Che domanda? – chiese il genio.

– Come può essere che tu, grande e grosso come sei, fossi chiuso dentro un vaso dove non entra nemmeno un dito della tua mano? Sei forse un imbroglione?

– Tu non credi che ero lì dentro? – domandò il genio risentito, indicando il vaso.

– Non ti crederò mai finché non avrò visto con i miei occhi che ciò è possibile – esclamò il pescatore.

Allora il genio si agitò fino a trasformarsi di nuovo in fumo scuro. Cominciò a rientrare a poco a poco nel vaso, infine fu dentro del tutto. In quel preciso momento, il pescatore, con un balzo, chiuse il tappo imprigionandolo.

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Il genio capì di essere di nuovo in trappola.

– Liberami! Liberami! – gridò, ma la sua voce sembrava poco più di un sussurro lontano.

– Altroché libertà! – rispose il pescatore. – Ti getterò nel fondo del fiume e a tutti quelli che verranno impedirò di pescare. Sei rimasto in fondo alle acque per milleottocento anni, ora stai certo che vi rimarrai per l’eternità.

Allora il genio mutò d’improvviso il tono della voce e sembrò raddolcirsi. Implorò ancora di essere liberato e promise che, in cambio, avrebbe esaudito qualsiasi desiderio del pescatore.

L’uomo, povero com’era, non aveva molto da perdere e decise di fidarsi.

Quando il genio riemerse dal vaso, si mostrò riconoscente per davvero.

– Cosa desideri, vecchio?

– Voglio che la mia famiglia abbia sempre da mangiare e non sia più costretta a patire la povertà.

– Allora mettiti in marcia, vecchio. Oltre il monte troverai una radura con uno stagno. Lì nuotano i pesci più belli che siano stati creati. Getta le reti e prendi quattro pesci di colore diverso. Portali al sultano per la sua cena. Addio!

Detto questo, il genio scomparve nel cielo in un nuvolo di fumo denso.

Il pescatore ascoltò le parole del genio e cercò la radura. Superò la montagna e, ridisceso dalla parte opposta, arrivò in una piccola valle circondata da boschi.

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Al centro c’era uno stagno dall’acqua limpida, nella quale nuotava una moltitudine di bellissimi pesci, tutti di colori diversi. Ne pescò quattro, come aveva suggerito il genio, s’incamminò e raggiunse il palazzo del sultano, dove li lasciò in dono.

Il giorno dopo, sulla riva del fiume, il pescatore venne raggiunto dal Visir in persona, attorniato da un gran numero di servi a cavallo.

– Sei tu il pescatore che ieri ha offerto al sultano quattro pesci? – domandò l’uomo puntando lo sguardo severo sulle vesti sudice del pescatore.

– S… sì… sono io – balbettò il vecchio con un po’ di timore.

– Il sultano ne vuole ancora – comandò il Visir.

Il pescatore allora raggiunse di nuovo lo stagno segreto e portò altri quattro pesci al sultano. Lo stesso avvenne il mattino successivo e quello dopo ancora, finché un giorno il pescatore venne accolto dal sultano stesso. Questi confessò di essere rimasto estasiato da quelle creature meravigliose da non riuscire più a mangiare altro. Chiese al pescatore di portargli ogni giorno quattro pesci e gli promise che, in cambio, gli avrebbe donato oro e pietre preziose.

Il patto venne mantenuto e la famiglia del pescatore visse nell’abbondanza per tutta la vita.

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La storia del principe Qamar e della reginetta Budur

Si narra che nell’antico regno di Persia viveva un sultano ricchissimo e molto stimato. Visto che non era riuscito a generare neppure un figlio, che stava diventando vecchio e che il desiderio di avere una discendenza lo faceva struggere, decise di interrogare i profeti e gli oracoli per trovare una soluzione.

Il consiglio non tardò. Gli indovini gli raccomandarono: – Recita la preghiera ad Allah ed esegui due prosternazioni. Poi attendi la luna nuova per unirti alla regina –esclamò il sacerdote con voce solenne.

La fede del sultano fu premiata e la regina diede alla luce un bellissimo bambino chiamato Qamar-az-Zamàn, che significa “il dono della luna”.

Il principino crebbe sano e forte. Divenne presto un meraviglioso ragazzo, così bello che le sue doti venivano cantate da musici e poeti.

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Un giorno, il giovane Qamar venne convocato dal padre nella sala del trono.

– Figlio mio, sappi che vorrei farti sposare mentre sono ancora in vita. Sei pronto a prendere moglie?

A quelle parole, l’espressione di Qamar si fece torva.

– Padre mio, io non ho intenzione di sposarmi poiché ho letto molti racconti che parlano della perfidia delle donne.

Il sultano pensò che le parole del principe fossero dettate dall’età ancora acerba, così lasciò che passasse del tempo, certo che da lì a poco il giovane l’avrebbe pensata diversamente.

Un anno dopo, Qamar venne riconvocato dal sovrano, ma la sua posizione non era mutata di una virgola.

– Padre mio, state certo che mi terrò sempre alla larga dal matrimonio – disse con voce ferma.

Poiché il padre amava moltissimo suo figlio, decise di portare ancora pazienza.

Passò un altro anno e il principe venne convocato dal sultano per la terza volta, per di più alla presenza solenne del Visir e di tutta la corte.

– Sappi, figlio mio, che dovrai presto prendere moglie. Diventerai sovrano del mio regno e avrai bisogno di un erede anche tu.

Di fronte all’ennesima richiesta, il principe Qamar perse la pazienza.

– Come ve lo devo dire, padre? Io non mi sposerò mai, anche se questa decisione dovesse portarmi alla morte.

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Il sultano, profondamente offeso dal tono del figlio che gli aveva mancato di rispetto di fronte alla corte, ordinò che il giovane fosse immediatamente imprigionato sulla torre più alta del palazzo, sicuro che la severa punizione gli avrebbe presto fatto cambiare idea. Il ragazzo venne così condotto in una buia cella, con solo una coperta e una lanterna.

Nessuno della corte, però, ricordava che nei sotterranei della torre c’era un antico pozzo dove aveva trovato dimora Maimuna, figlia del re dei geni.

E al calar delle tenebre, quando tutto nel castello si fece silenzioso, Maimuna uscì dal pozzo come ogni notte e rimase assai stupita di scorgere una lucina che brillava nella piccola finestra della torre. Salì fin lassù per sbirciare e, quando scorse il giovane Qamar dormire rannicchiato nella coperta, provò per lui un grande sentimento d’amore.

– Chi sarà mai questa creatura bellissima che giace addormentata? – domandò sottovoce. – Non importa chi sia, io lo proteggerò sempre da qualsiasi maleficio!

Vegliò il giovane a lungo, poi si alzò in volo nella notte per accarezzare le stelle, ma mentre compiva un’allegra acrobazia per poco non venne travolta da una figura enorme che procedeva veloce come uno sparviero. Capì che si trattava di una sua vecchia conoscenza, un genio grosso e pasticcione chiamato Dannash.

– Dannash, mannaggia a te, per poco non mi hai travolto! Ti strapperei le penne con le mie mani.

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Quando riconobbe la potente Maimuna, il genio pasticcione fu vinto dalla paura.

– Nobile Maimuna – disse, temendo per la sua sorte, – ti scongiuro, abbi pietà di me. Non l’ho fatto apposta. Correvo così veloce che non ti ho visto.

– Non ti lascerò andare finché non mi avrai raccontato da dove vieni così di fretta.

– Se anche te lo raccontassi non ci crederesti.

– Avanti Dannash, parla. O vuoi che ti frantumi le ossa?

– No, no, per carità! – rispose il genio tremando dalla paura. – Vengo dalla lontana terra di Cina dove ho fatto visita al signore delle isole e dei mari e dei sette castelli. Ho scoperto che questo re ha per figlia la creatura più bella che sia mai apparsa sulla terra.

– Impossibile, Dannash. La creatura più bella è un fanciullo mio protetto che dorme nella torre del palazzo reale –rispose Maimuna incrociando le braccia.

– Ti assicuro che è vero, verissimo! – insistette il genio. – La creatura più bella e perfetta l’ho incontrata io ed è la reginetta Budur. Suo padre, che l’ama di grande amore, ha fatto costruire per lei sette castelli: uno di cristallo, l’altro di marmo, un altro ancora di ferro cinese e pietre preziose, e così via. Molti sono i pretendenti che l’hanno chiesta in moglie, ma lei li ha rifiutati tutti, allora il padre l’ha rinchiusa in uno dei castelli, e da circa un anno vive segregata. Vado da lei ogni notte per vegliarla e proteggerla perché amo la sua bellezza incomparabile.

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– Tu mi parli di perfezione e bellezza – disse Maimuna con aria di sfida, ridendo di Dannash, – cosa diresti allora se vedessi il mio protetto?

– Mostrami questo fanciullo, allora. Voglio vedere se è più bello della mia reginetta – rispose il genio.

Maimuna trovò ragionevole la richiesta di Dannash, così dal cielo scesero insieme nella stanza della torre dove era rinchiuso il giovane Qamar.

– Uhm, non c’è che dire – disse Dannash. – Questo tuo amato è, fra gli esseri umani, colui che più somiglia alla mia bella. Ma per capire chi dei due vince in perfezione dovrei vederli uno accanto all’altro.

Maimuna fece una smorfia d’impazienza, poi disse:

– E allora muoviti! Vai a prendere la tua principessa e portala subito qui, così da poterli vedere mentre sono addormentati uno accanto all’altra.

Dannash riprese rapido il volo e in un batter d’occhio tornò alla torre portando la reginetta Budur. La distese accanto al giovane. I due geni restarono a lungo in silenzio contemplando i giovani addormentati: sembravano così simili.

– Per Allah! – esclamò Dannash, – non si può proprio dire chi di loro vinca in bellezza e leggiadria.

– Hai ragione – ammise Maimuna. – Propongo allora di svegliarli uno alla volta e vedere che succede. Chi s’infiammerà dell’altro, vorrà dire che è il meno bello tra i due.

Dannash non perse tempo. Si rimpicciolì, si trasformò in pulce e punse Qamar sul collo. Il ragazzo si svegliò all’istante.

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Quale meraviglia lo colse nel vedere al suo fianco una fanciulla addormentata con indosso solo una veste leggera ricamata con fili d’oro!

Ella appariva come una magnifica perla e il ragazzo sentì una fiamma accendersi nel cuore.

– Chi sei tu? – domandò con la voce incrinata dall’emozione, sentendo crescere in sé l’amore e il desiderio. Cercò di svegliarla scuotendola un poco, ma lei non si mosse. – Amica mia, destati e guarda chi sono! Sono il principe Qamar. Sei forse la fanciulla che mio padre voleva darmi in sposa? Che sciocco sono stato a rifiutare, ma ti prometto che non lascerò passare il mezzogiorno senza averti preso in moglie.

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Poi Qamar si chinò su Budur per baciarla, ma un istante prima di raggiungere le sue labbra si ritrasse per rispetto. Sfilò allora dal dito della ragazza un anello incastonato di gemme e se lo infilò nel mignolo come pegno. Restò a rimirarla a lungo finché si addormentò accanto a lei.

Il genio Dannash esultò dalla gioia.

– Hai visto, Maimuna? Il tuo protetto si è già innamorato della mia bella!

Maimuna lanciò uno sguardo feroce e senza perdere tempo si trasformò a sua volta in pulce. Quando punse Budur sotto l’ombelico, la ragazza si rizzò a sedere di soprassalto. Vide accanto a lei il giovane dormiente e trattenne un urlo tappandosi la bocca.

– Quale vergogna! Com’è possibile che dorma accanto a uno straniero?

Osservò meglio il ragazzo e qualcosa in lei cominciò a fremere. Era una sensazione mai provata prima: capì che un sentimento d’amore era entrato nel suo cuore.

– Signore mio – disse scuotendolo con le mani, – destati dal sonno e mostrami la luce dei tuoi occhi.

Il principe Qamar non si mosse.

Allora Budur fu assalita da mille tormenti.

– Quale ingiustizia mi tocca subire. Parlami, ti prego. Perché non mi rispondi?

Riconobbe nel mignolo del principe il suo anello e volle fare altrettanto. Gli tolse dal dito un preziosissimo monile d’oro e smeraldi e lo indossò al posto del suo.

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Poi abbracciò Qamar e lo baciò sulle labbra; ormai sfinita, si addormentò stretta a lui.

Allora Maimuna si rallegrò immensamente.

– Hai visto, Dannash, cos’ha fatto la tua bella? – esclamò. – Almeno il mio protetto si è dimostrato più orgoglioso e casto. Non vi è alcun dubbio che vinca lui in fatto di perfezione.

L’alba era ormai alle porte e i due geni decisero di rimandare la discussione. Maimuna scese di nuovo nel suo pozzo mentre Dannash sollevò la reginetta e la ricondusse nel castello dov’era segregata, nella lontanissima Cina.

Al risveglio, il principe Qamar credé di aver sognato, ma fu colto da grande sorpresa quando riconobbe al dito l’anello di Budur. Implorò il servo sorvegliante di poter uscire dalla torre per incontrare il padre. Fu quindi ammesso nella sala del trono alla presenza del re e del suo Visir.

– Padre, sono pronto ad ammogliarmi, purché mi sia concessa la fanciulla che stanotte avete posto al mio fianco –disse il principe.

Il re scambiò uno sguardo frastornato con i presenti. Diede imbarazzato due colpetti di tosse e domandò:

– Ehm… cosa intendi di preciso?

Qamar spiegò l’accaduto e tutti ebbero l’impressione di cadere dalle nuvole.

– Per Allah, ti giuro che stanotte non ti abbiamo mandato nessuno. Hai forse perso il senno, mio signore? – domandò il Visir.

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Qamar tentò invano di convincere gli astanti che non aveva sognato. Alla fine, mostrò l’anello della reginetta.

– E questo? Come lo spiegate? È un pegno d’amore.

Nessuno in tutta la corte seppe comprendere come l’anello potesse essere finito al dito del principe, mentre egli era chiuso nella torre.

Il povero Qamar, afflitto dal dispiacere per non poter rivedere la ragazza che lo aveva infiammato d’amore, smise di mangiare e si ammalò gravemente. Nello stesso tempo, oltre i mari, nella terra delle isole e dei sette castelli, la reginetta Budur stava vivendo lo stesso strazio. Dal giorno del suo risveglio, incapace di ritrovare quel giovane che le aveva rubato il cuore, era così appassita che venne convocato a corte persino un fratello cui era molto legata, poiché tutti temevano il peggio. Il giovane si chiamava Marzawan e conosceva bene il mondo poiché aveva viaggiato molto. Quando si trovò al cospetto della sorella impallidì, tanto lei si era fatta debole ed emaciata.

– Fratello mio, sei tornato… – esclamò la reginetta con un filo di voce. – Puoi far qualcosa per me?

Gli narrò del suo incontro con un meraviglioso giovane di cui si era innamorata e chiese al fratello di aiutarla a ritrovarlo.

Marzawan stette un po’ a testa bassa, pieno di sgomento, senza saper che fare, poi alzò la testa e disse:

– La storia che hai raccontato supera la mia comprensione, dolce sorella. Orbene, vorrà dire che mi rimetterò in

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viaggio per tutti i paesi del mondo, se necessario, per cercare un rimedio. Tu aspettami e non perdere la speranza. Passarono ben tre anni.

Marzawan attraversò molte città e in ognuna di esse non si faceva che ripetere che Budur, la figlia del re, era impazzita. Si spinse oltre i mari, assai lontano dalla terra cui apparteneva, finché tra le voci di popolo cominciò a sentirne una nuova: anche il principe Qamar-az-Zamàn, figlio del sultano di Persia, era impazzito. Man mano che si avvicinava al regno del sultano, le voci si arricchivano di dettagli. Nei racconti della gente cominciò a comparire anche lo scambio di un anello con una principessa sconosciuta, incontrata una sola notte come in un incantesimo.

Marzawan in cuor suo capì di dover affrettare il viaggio, finché finalmente raggiunse il regno del sultano.

Appena giunto, chiese udienza. Fu accolto dal Visir, il cui volto era segnato da un’espressione tetra.

– Tu, straniero, chiedi udienza in un giorno triste per noi. Il sultano, gli emiri e tutti i ministri hanno perduto la parola per causa di Qamar, figlio del sultano, che versa in gravi condizioni. La sua anima sta infatti per raggiungere il regno dei morti.

– E qual è la causa del suo male? – domandò Marzawan.

– Nessuno la conosce. Sappiamo solo che ormai più di tre anni fa il principe impazzì. Disse che risvegliatosi da un sonno profondo mentre era prigioniero nella torre aveva visto al suo fianco una fanciulla di splendida bellezza, con

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la quale aveva scambiato un anello. Questo fatto è rimasto sempre un mistero. Nessuno sa se il suo fu solo un sogno, né chi sia la ragazza.

A quelle parole, Marzawan esclamò:

– Per Allah! Il principe Qamar è proprio colui che cerco! Supplicò il Visir di essere accompagnato al cospetto del principe, assicurando di possedere il rimedio alla grave malattia del giovane. A quelle parole, non avendo più nulla da perdere, il Visir acconsentì.

Nell’appartamento reale, il principe era disteso sul letto. Aveva la testa poggiata in grembo al sultano suo padre. Il Visir fece per annunciare la visita dello straniero, quando Marzawan, senza attendere i convenevoli, esplose in un grido:

– Rallegrati maestà! Conosco la tua storia e colei per cui ti sei ridotto in questo stato. Orbene, devi sapere che lei si trova nelle tue stesse condizioni. Ma se Dio vuole, la guarigione di entrambi è nelle mie mani!

A quelle parole, Qamar riprese animo. Fece cenno al padre che lo sollevasse a sedere e il re con gioia assecondò ogni richiesta del figlio, facendo uscire tutti gli emiri e i ministri. Dopo aver ascoltato ogni parola di Marzawan, esclamò:

– Per Allah, oggi è un giorno benedetto!

Fece profumare il palazzo di cannella e zafferano e riservò a Marzawan grandi onori. Non restava che trovare il modo di ricongiungere i due giovani.

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– Non c’è molto tempo, temo il peggio per la salute di Budur – disse Marzawan.

Il sultano però fu irremovibile: Qamar non avrebbe affrontato nessun viaggio finché non si fosse rimesso. Marzawan si fermò alla corte del sultano diverse settimane, il tempo necessario per far rimettere in forza il principe Qamar.

Il giorno della partenza, vennero equipaggiati sei cavalli da viaggio e tre cammelli. Fu così che i due, il principe e lo straniero, partirono alla volta della Cina.

Impiegarono più di sei settimane per raggiungere la terra delle isole e dei sette castelli. Quando giunsero a destinazione, si accorsero che sulla cima delle torri sventolavano drappi neri. La principessa era forse già morta?

– Che sia giunto troppo tardi? – domandò Qamar in preda all’angoscia.

Marzawan percorse a gran velocità tutte le ali dei sette palazzi, trascinando con lui il povero Qamar ormai privo di forze. Quando raggiunsero il cospetto di Budur, la ragazza avevo quasi perduto i sensi. Il principe Quamar si inginocchiò accanto a lei, con gran dispetto del re che non abbandonava la figlia neppure un attimo. Ma bastò un gesto di Marzawan per trattenere il sovrano.

Qamar si sfilò dal mignolo l’anello di gemme della reginetta.

– Mia adorata, sono venuto a restituirti l’anello per donartene uno ancor più prezioso, pegno del mio amore eterno.

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A quelle parole, Budur parve rianimarsi.

– O mio signore, siamo svegli o sogniamo? – domandò temendo di delirare.

– Mia adorata, non stiamo sognando. Iddio ci ha fatto la grazia di mettere fine alla nostra separazione.

Bastò un istante perché Budur si riprendesse del tutto. Di fronte al quel miracolo, il sovrano dei sette castelli baciò la fronte del principe Qamar riempiendolo di benedizioni.

– La vostra storia sarà raccontata per secoli interi, ne sono certo! – esclamò. Senza perdere altro tempo, convocò ministri e testimoni e fece scrivere il contratto di nozze tra la reginetta Budur e il principe Qamar-az-Zamàn, mentre due creature immortali, chiamate Maimuna e Dannash, stavano ancora litigando fra le nubi su chi era il migliore tra i loro protetti.

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La storia del cavallo d’ebano

el regno di Persia vi era un re potente che aveva tre bellissime figlie. Aveva anche un figlio maschio, dall’aspetto splendido e regale.

Il re, che era d’animo assai curioso, un giorno invitò nel suo palazzo tre artigiani inventori. Il primo portò un pavone d’oro, il secondo una tromba di bronzo e il terzo un cavallo d’ebano e avorio.

– Che cosa sono e a cosa servono questi oggetti? – domandò il sovrano in preda alla curiosità.

Il primo degli inventori si fece avanti e spiegò che il pavone serviva per segnare il tempo poiché a ogni ora l’uccello muoveva le ali e cantava. L’inventore della tromba spiegò che essa serviva per la difesa: se collocata all’ingresso della città, avrebbe suonato ogni volta che vi entrava un nemico.

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Il sovrano volle mettere subito alla prova l’efficacia degli oggetti e quando vide che entrambi funzionavano alla perfezione rimase estasiato. Promise quindi di ricompensare i due sapienti con ciò che desideravano di più.

– Che cosa volete come premio?

– Voglio la mano della tua primogenita – rispose l’inventore del pavone.

– Io, invece, la mano della tua secondogenita – rispose quello della tromba di bronzo.

Non potendosi rimangiare la parola, il sovrano acconsentì.

Venne il turno del terzo inventore, quello del cavallo d’ebano. L’uomo era molto brutto. Il suo aspetto ripugnante, la sua barba unta e la pelle butterata lo rendevano orrendo a vedersi, perciò il sovrano ci pensò bene prima di promettere ricompense.

– Dimmi, a cosa serve il tuo cavallo? – domandò il sultano.

– Signore, se un uomo gli monta in sella, lo trasporta in qualsiasi paese egli voglia andare.

A tutta la corte sembrò assurdo quello che affermava l’inventore; per quanto quel cavallo finto fosse ben costruito, armonioso e proporzionato, nessuna magia avrebbe potuto renderlo capace di un simile prodigio.

– Sei tu in grado di provarlo?

– Certo! – rispose l’uomo con grande sicurezza. Non fece però in tempo a muovere un passo che il figlio del re si pose in mezzo.

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– Padre mio, salirò io sul cavallo e farò esperienza della sua utilità – disse.

Il principe montò in sella e trafficò con una grossa manovella sulla groppa: il corpo del cavallo si riempì d’aria, si gonfiò e cominciò a salire verso il cielo sempre più velocemente, finché si perdette ogni traccia dell’animale e del suo cavaliere.

Il principe volò così in alto che si ritrovò oltre le nuvole, sopra a un mare di bianchi fiocchi che nascondevano ogni cosa terrena.

– Per Allah! Il sapiente ha inventato questo stratagemma per farmi morire! – esclamò il principe col cuore gonfio di terrore. Dapprima fu preso dal panico, poi cercò di capire come governare l’automa. Si accorse allora che sulla groppa vi erano altri due pulsanti a forma di cresta di gallo. Ne premette subito uno e il cavallo rallentò, perdendo quota. Pigiò l’altro pulsante e il cavallo riprese a salire. Al principe bastò poco per prendere dimestichezza e in pochi istanti, con grande esultanza, divenne padrone del meccanismo.

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Quando finalmente decise di scendere, si accorse di essersi spinto molto lontano, stava sorvolando una città sconosciuta. Voltò la testa del cavallo per cambiare direzione, ma la notte era ormai alle porte. Decise allora di cercare un luogo dove fermarsi per riposare e ripartire l’indomani.

Scorse un grande palazzo col tetto piatto, circondato da un’imponente merlatura. Gli ricordò la dimora di suo padre e decise di fermarsi lì. Restò a lungo sul tetto finché non fu certo che tutti gli abitanti dormissero.

Erano molte ore che il principe non mangiava qualcosa, si sentiva sul punto di svenire, tanto era affamato. Doveva trovare qualcosa da mettere sotto i denti.

Vagò a lungo fra le stanze sontuose finché, entrato in una sala, vide un gruppo di fanciulle che si scaldavano di fronte a un camino acceso.

Fra queste ne scorse una così bella che il respiro gli si mozzò in gola: la ragazza era bruna e i suoi capelli, intrecciati con nastri e perle, si attorcigliavano in morbidi, lunghi boccoli. Aveva occhi scuri e profondi, pelle liscia, mani affusolate. Il suo corpo, vestito di veli celesti, era snello come un giovane giunco.

Il principe restò per lungo tempo nascosto a spiarla, dimentico della fame.

Una voce terribile lo fece sobbalzare. – Chi sei tu e che ci fai qui?

Si voltò e vide un servo con la spada sguainata.

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Per sua fortuna, il principe era un abile guerriero e con due sole mosse riuscì a disarmare quell’uomo che era stato posto di guardia, mentre le fanciulle spaventate si disperdevano in ogni direzione. La più bella tra di esse, quella che aveva fatto innamorare il principe, si accostò e gli disse:

– Straniero, sono la figlia del re e questo è il mio palazzo. Ti prego di non fare del male al mio servitore. Sei forse colui che mi ha domandato in moglie solo ieri e che il mio genitore ha rifiutato?

– No, signora! – rispose una delle ancelle. – Quel pretendente era orribile, mentre questo è assai bello. La principessa annuì: non aveva mai visto un giovane così splendido e sentì il cuore infiammarsi. Mandò allora il servo a chiamare suo padre.

Il re, molto geloso di sua figlia, arrivò furibondo, spada alla mano, con l’intento di uccidere l’intruso.

– Fermo là! – intimò il principe sguainando la spada a sua volta. – Non sono un farabutto, anch’io sono figlio di un re! Raccontò quindi la sua incredibile storia, e tutti, il sovrano, la principessa e pure le ancelle, si accorsero delle sue buone maniere e dell’aspetto regale. Venne allora ristorato e invitato a trattenersi tutto il tempo che desiderava.

Trascorse dei momenti così piacevoli con la principessa che, quando fu il momento di ripartire, entrambi si abbandonarono alla tristezza.

– Devi per forza tornare nel tuo paese? – domandò la fanciulla.

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– Sono lontano da tanto tempo ormai. I miei genitori mi crederanno morto. E non voglio certo prolungare il loro dolore.

– Ma così si creerà un dolore ancora più grande nel cuore mio.

– Allora – replicò il principe prendendola per mano, – vieni con me nel mio paese.

Alla presenza del sovrano, fu celebrata in fretta e furia una promessa di matrimonio; quando fu il momento di ripartire, anziché farsi accompagnare da un sontuoso corteo di cavalli reali e di cammelli, i due giovani raggiunsero il tetto del palazzo dove c’era il cavallo d’ebano. Il principe salì in groppa, tirò a sé la fanciulla e la legò saldamente al proprio corpo. Azionò la manovella dell’ascensione e si sollevarono nell’aria.

Quando raggiunsero la città dei suoi genitori, per mostrare la potenza del regno paterno, il principe volle che la fanciulla venisse accolta con il fasto che meritava. La depose quindi in uno dei giardini del re, dov’era solito recarsi per la caccia.

– Aspettami qui – disse. – Manderò un messo per portarti a palazzo, dove nel frattempo farò preparare tutti gli onori che ti spettano.

Il giovane lasciò la fanciulla e il cavallo d’ebano nei pressi di un padiglione, li raccomandò ai custodi e si incamminò alla volta del palazzo reale.

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Con quale gioia venne accolto! E che sorpresa fu per la famiglia reale scoprire che il cavallo d’ebano era un’invenzione perfetta!

– A proposito: che fine ha fatto il sapiente inventore? –domandò il principe.

Quel povero uomo era stato rinchiuso in prigione perché ritenuto responsabile dell’allontanamento del principe. Venne quindi immediatamente fatto scarcerare e il re in persona gli fece dono di una veste preziosa e di molti benefici. Gli negò tuttavia la mano di una delle figlie, come invece aveva concesso agli altri inventori.

Il sapiente artigiano sentì il sangue ribollire: era stato incarcerato ingiustamente, gli era stato sottratto il cavallo e gli veniva negata la ricompensa che desiderava. Decise allora di vendicarsi: mentre tutta la città era addobbata a festa per accogliere la principessa venuta da lontano, l’inventore si introdusse segretamente nel giardino del re e, spacciandosi per il messo, fece salire la fanciulla sul cavallo d’ebano e la rapì.

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La portò lontano, fino al paese dei Greci. Atterrò quindi in un prato, senza sapere che si trattava di uno dei giardini del sovrano del luogo. Pochi istanti dopo, le guardie del re lo catturarono insieme alla fanciulla e al cavallo d’ebano. Vedendo l’aspetto orribile del sapiente e osservando la grazia della fanciulla, il re domandò:

– Signora, qual è la tua parentela con quest’uomo? – È mia moglie! – replicò falsamente l’artigiano.

– Nient’affatto! – gridò la ragazza. – Maestà, io non conosco quest’uomo. Mi ha rapita con l’inganno.

Udendo queste parole, il re fece bastonare e incarcerare il sapiente. Quanto alla fanciulla, se ne innamorò all’istante e la condusse a corte assieme al cavallo, del quale però ignorava lo straordinario funzionamento. Dopo poco tempo la chiese in moglie, ma ella rispose con un secco rifiuto. Il re allora la rinchiuse nel proprio palazzo e lei, pur di evitare le nozze, cominciò a fingersi pazza.

Intanto…

Nel regno di Persia il principe non si dava pace per la scomparsa dell’amata. Doveva fare qualcosa! Come avrebbe desiderato avere con sé il cavallo d’ebano per viaggiare più velocemente e poterla trovare! Si travestì perciò da pellegrino e intraprese un lungo viaggio alla ricerca della sua amata. Giunse in molti villaggi e molte città, guadò fiumi, scalò montagne e attraversò pianure deserte dove non c’era alcun riparo per la notte. Soffrì il freddo, il caldo e la fame, ma era un giovane molto coraggioso e forte e continuò a

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cercare senza arrendersi. Un giorno capitò in un mercato in cui, tra i banchi e la merce, sentì conversare alcuni venditori. Uno di loro raccontava di essere appena tornato da una città dov’era accaduta una cosa singolare: nel giardino del re era apparso un uomo insieme a una fanciulla e a un cavallo d’ebano, ma nessuno sapeva come vi fossero arrivati.

Il principe, sbigottito, restò ad ascoltare, poi interrogò a lungo il mercante:

– Dov’è adesso la fanciulla?

– La fanciulla si trova presso il re, che ne è innamorato, ma è pazza – raccontò il mercante. – Il cavallo, invece, è di squisita fattura, ed è custodito nei magazzini del re.

– Pazza? Perché pazza?

– Non fa che piangere fiumi di lacrime. Urla, si batte il petto e racconta di cavalli volanti...

Il principe si fece dire il nome della città e partì immediatamente alla volta di quel luogo, mentre nella sua mente prendeva forma un piano ingegnoso.

Giunto nella città del re dei Greci, chiese udienza al sovrano e, grazie ai suoi modi garbati, non gli fu difficile ottenerla nonostante le vesti da pellegrino. Si presentò al cospetto del re affermando di essere uno scienziato.

– Sono esperto di medicina – disse – e percorro contrade e città per curare i malati di ogni rango.

– Sei arrivato nel posto giusto – rispose il re. – Ho un caso grave da sottoporti.

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Gli raccontò la storia della fanciulla e promise di ricompensarlo con tutto ciò che avrebbe desiderato se l’avesse guarita.

Il giovane fu accompagnato nelle stanze della principessa, che appariva assai depressa. Sotto le mentite spoglie del dottore pellegrino, la ragazza non lo riconobbe, ma quando lui le accostò le labbra all’orecchio, lei trasalì.

– Nessun male ti colpirà, mia amata.

Riconoscendo il suo promesso sposo, ella lanciò un urlo e quasi svenne dalla gioia.

– Stai tranquilla – riprese il giovane con un bisbiglio, – ho architettato uno stratagemma per liberarti da questo re prepotente. Ascolta bene cosa devi fare.

Il principe spiegò tutti i dettagli del piano e per la fanciulla fu come riprendere vita.

Poco più tardi, il principe travestito si presentò al cospetto del sovrano.

– Ebbene? Che notizie mi porti, pellegrino?

– La fanciulla è vittima di un malefico genio che la rende pazza. Orbene, io l’ho liberata, ma per far divenire ancor più potente l’effetto della mia cura, dovrà essere portata nel prato dov’è stata ritrovata. E con lei, sarà condotto anche il cavallo d’ebano.

Il re osservò la ragazza: lei lo salutò con gentilezza e si inchinò in segno di devozione. Era vero dunque, sembrava guarita!

La fanciulla e il cavallo vennero condotti nel prato.

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Il principe, che ancora si spacciava per guaritore, ordinò che il re e tutte le truppe si mantenessero a debita distanza dal quel luogo.

– Col tuo permesso, maestà – spiegò l’astuto giovane, – accenderò tutt’intorno degli incensi e reciterò gli incantesimi per imprigionare il genio malefico. Poi salirò con la ragazza sul cavallo d’ebano; vedrai che questi si agiterà e camminerà giungendo fino a te. Solo quando saremo al tuo cospetto, ma non prima di allora, la ragazza sarà libera e potrai fare di lei ciò che vorrai. Tutto chiaro?

Il sovrano, assai eccitato dalla prospettiva di avere la donna finalmente tutta per sé, annuì convinto. Il principe, allora, montò sul cavallo assieme alla sua bella, la legò saldamente e sparì nel cielo, mentre il sovrano e tutte le truppe lo osservavano.

Il re di Grecia passò più di mezza giornata col naso puntato verso il cielo, poi comprese di essere stato beffato. Il principe e la principessa, invece, raggiunto il regno di Persia poterono finalmente trasformare la promessa di matrimonio in vere nozze.

Quel giorno stesso, tra solenni festeggiamenti, il re padre fece a pezzi il cavallo d’ebano e il suo ingegnoso meccanismo.

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La storia di Sindbad il marinaio

ABagdad viveva un facchino che tutti i giorni trasportava merci da un capo all’altro della città. Era chiamato Hindbad. Un giorno particolarmente caldo, stanco della strada già fatta, decise di riposarsi per qualche istante in una via fresca e ventilata. Trovò riparo nei pressi del cancello di un’elegante dimora. Gli alberi del giardino profumavano l’aria e dall’interno della casa proveniva una musica piacevole. Spinto dalla curiosità, il facchino volle sapere chi abitava in quel luogo, così lo domandò a un servo che stava passando di lì.

– Ma come? – domandò il servitore, – non sapete che qui vive il mio padrone, un uomo importante chiamato Sindbad?

Il facchino, imbarazzato, ammise di non conoscerlo.

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– Ha percorso tutti i mari del globo, il mio padrone. È stato un grande marinaio.

Detto questo, il servo sparì oltre il cancello.

– Sindbad… Sindbad… – ripeté il facchino Hindbad, riflettendo su come quel nome somigliasse al suo. – Perbacco, due nomi simili, ma un così diverso destino – riprese osservando la ricca dimora. – Che avrà fatto lui per meritarsi tanta fortuna, mentre a me tocca una gran fatica tutti i giorni?

Dalla rabbia batté i piedi a terra.

In quel momento vide uscire dall’elegante dimora il servo con cui aveva già parlato, che gli disse:

– Seguitemi! Il mio padrone vi vuol parlare.

Hindbad fu così introdotto in una sala da pranzo. La tavola era apparecchiata e al posto d’onore sedeva un uomo dalla lunga barba bianca. Era Sindbad.

– Poco fa vi chiedevate perché la vostra sorte fosse assai diversa dalla mia, nonostante i nostri nomi si somiglino –disse l’anziano signore.

Hindbad capì di aver parlato a sproposito. Invece di rimproverarlo, però, Sindbad lo invitò a prendere posto a tavola.

– Sta per essere servito il pranzo assieme a del vino squisito – disse. – Se vorrete farmi compagnia, potrete ascoltare il racconto dei sette viaggi che feci sull’oceano. Da essi dipende la mia fortuna.

Il facchino, assai stupito dell’invito, prese posto tra i commensali. Era felice di conoscere la storia del vecchio marinaio Sindbad.

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Primo viaggio

Da giovane tentai di arricchirmi facendo il mercante. Misi in vendita ciò che restava del mio patrimonio per comprare, assieme ad altri compagni, un vascello. Cominciai così a solcare i mari.

Spiegate le vele, prendemmo la strada delle Indie orientali e approdammo in varie isole dove riuscimmo a vendere e a comprare ottime merci.

Un giorno sopraggiunse la bonaccia e sbarcammo su un’isoletta a fior d’acqua che somigliava a un bel prato. Col resto della truppa ci divertimmo a bere e a mangiare, quando il terreno all’improvviso si mise a tremare. Pensai a un terremoto, ma mi sbagliavo: quella che ci pareva un’isola era in realtà il dorso di una balena! I miei compagni riuscirono a salvarsi sulla scialuppa, altri a nuoto, mentre io, quando la balena sprofondò nel mare, feci appena in tempo ad attaccarmi a una trave di legno che mi tenne a galla.

Come un naufrago, approdai su una lunga lingua di sabbia e conobbi alcuni abitanti del luogo, grazie ai quali potei assistere a un fatto prodigioso: avevano portato alcune cavalle presso la riva perché si accoppiassero con uno stallone bianco che gli indigeni chiamavano Cavallo Marino. L’animale, fatto incredibile, prendeva forma dalla spuma del mare. I puledri che nascevano dalle cavalle erano così belli e perfetti che venivano tutti destinati alle

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stalle del re. Rimasi meravigliato da quella che mi sembrò una vera e propria magia.

Qualche giorno dopo, lungo la costa, fui così fortunato da ritrovare la mia nave. Era deserta come un vascello fantasma, ma tutto sommato in buone condizioni e ancora carica delle mercanzie. Così, da buon mercante, volli conoscere il sovrano del luogo per proporre qualche scambio.

Il re fu molto gentile e rimase tanto incantato che mi fece dono di grandi ricchezze, così potei riprendere il mare e fare ritorno a casa.

L’affascinante racconto di Sinbad il marinaio proseguì fino a sera. Quando per il facchino giunse il tempo di ritirarsi, Sindbad gli donò una borsa con cento zecchini.

– Prendete Hindbad – disse, – tornate a casa vostra e venite di nuovo domani a trovarmi per ascoltare il seguito delle mie avventure.

Hindbad tornò a casa dalla famiglia, felice come non mai.

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Secondo viaggio

Il giorno seguente, Hindbad ritornò nella bella casa del marinaio. Era ansioso di ascoltare un altro racconto meraviglioso. Sindbad lo accolse di nuovo alla propria tavola e narrò un’altra sua avventura.

Dopo il primo viaggio, avevo deciso di passare il resto dei miei giorni a Bagdad, ma ben presto sopraggiunse la noia e mi tornò la voglia di viaggiare e di mercanteggiare. Partii una seconda volta con altri mercanti, tutti uomini di gran valore, a bordo di una buona nave.

Un giorno sbarcammo su un’isola all’apparenza deserta. L’esplorammo con curiosità finché io, colto dalla stanchezza, mi coricai ai piedi di un albero. Non ho idea di quanto tempo restai lì a dormire, ma al mio risveglio non vidi più il vascello, se non la punta della sua vela ormai lontanissima.

Fui vinto dalla disperazione, i miei compagni mi avevano dimenticato nell’isola! Poi mi rassegnai alla mia sorte. Salii in cima a un albero per guadagnare la visuale sulla costa, quando mi imbattei in un curioso oggetto, una specie di palla bianca, tanto grande che per abbracciarla sarebbero servite le braccia di almeno dieci uomini. La toccai e la trovai morbidissima. Le girai intorno per vedere se vi fosse qualche apertura, ma non c’era nulla.

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D’improvviso l’aria si oscurò, quasi venisse coperta da una densa nube. Quale orrore provai quando vidi che l’ombra che avanzava era di un enorme uccello carnivoro, conosciuto dai marinai col nome di Roc! L’uccello coprì la palla bianca per covarla e con essa coprì anche me. Le sue zampe apparivano grosse come un tronco d’albero.

Ebbi un’intuizione: legai il mio turbante a quegli artigli perché, semmai il volatile si fosse levato in volo, mi avrebbe trasportato in un altro luogo, dato che da quell’isola deserta non me ne sarei mai potuto andare.

Appena fu di nuovo giorno, l’uccello volò via e mi trasportò fino a una valle impervia come non ne avevo mai viste. Che prodigio fu scoprire che, in quella striscia di terra angusta, affioravano degli enormi diamanti!

A guardia di quelle gemme la natura aveva posto dei serpenti terribili, di sterminata lunghezza, che mi avrebbero di certo ucciso. Per di più, l’intera valle era perlustrata da terribili aquile con gli artigli enormi e dall’aspetto minaccioso.

Dovevo trovare il modo di andarmene.

Mi ricordai allora di una vecchia favola che girava tra i marinai riguardo alla valle dei diamanti e alla destrezza di alcuni mercanti per estrarre le pietre preziose. Essi avevano escogitato un trucco: gettavano enormi pezzi di carne grassa nella valle proprio nel periodo in cui le aquile cercavano cibo per gli aquilotti; poiché i diamanti restavano attaccati al grasso della carne, quando le aquile si buttavano in picchiata per accaparrarsi i pezzi migliori, assieme alla carne racco -

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glievano anche le gemme. I mercanti attendevano vicino ai nidi che le aquile facessero ritorno, poi, urlando a gran voce, le costringevano ad allontanarsi. Così, riuscivano a prendere i diamanti ancora attaccati alla carne.

Sindbad osservò un puntò lontano per mettere a fuoco il ricordo, poi continuò:

Quand’ero perduto in fondo alla valle, usai il turbante per legarmi saldamente a uno di quei grossi pezzi di carne. Mi distesi a terra e aspettai che un’aquila mi raccogliesse. Così accadde e venni portato in cima al monte. Quando l’aquila volò via dal nido, ne uscii anch’io portando con me una grande sacca di diamanti. Lassù, incontrai i mercanti. Entrai in affari con essi e trovai il modo di tornarmene a casa con quelle grandi ricchezze.

Sindbad finì così di narrare il suo secondo viaggio. Donò altri cento zecchini a Hindbad e lo invitò a tornare il giorno seguente.

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Terzo viaggio

Hindbad tornò anche il giorno successivo, affascinato dal racconto di quelle straordinarie avventure. Alla solita maniera, il marinaio lo accolse con gentile familiarità e iniziò a narrare.

Ancora una volta mi venne una gran noia della vita di città e siccome ero ancora nel fiore degli anni mi imbarcai di nuovo con altri mercanti. Approdammo in vari porti dove facemmo un gran commercio. Un giorno prendemmo il largo nell’oceano ma si scatenò un’orribile tempesta che sembrava non terminare mai. Giungemmo davanti a un’isola, ma non facemmo in tempo a valutare il da farsi che venimmo assaliti da terribili creature che si arrampicarono lungo le cime delle navi. Erano dei selvaggi alti nemmeno due mele, rossi e pelosi, ma così lesti e numerosi che in un batter d’occhio presero possesso della nave. Ci costrinsero ad avvicinare a terra il vascello, poi ci fecero sbarcare tutti e ci abbandonarono. Perduti su un’isola sconosciuta, scorgemmo da lontano un grande edificio, un palazzo altissimo e ben costruito. Entrati nel cortile, fummo accolti da uno spettacolo orrendo: in un angolo era accatastato un mucchio d’ossa umane. Fummo sopraffatti dal terrore immaginando la bruttissima fine che ci attendeva.

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All’improvviso si spalancò una porta e uscì un gigante dall’aspetto orribile: aveva una bocca enorme con i denti aguzzi, unghie adunche e un solo occhio rosso e ardente in mezzo alla fronte. Era un ciclope! Avanzò verso di noi, stese la mano su di me, mi afferrò per la nuca e mi rigirò da tutti i lati, come per studiarmi. Lo stesso fece con i miei compagni. Quand’ebbe identificato il più grassoccio tra tutti noi, lo infilzò con uno spiedo lungo e affilato e lo mise ad arrostire sul fuoco.

Finito il pasto, cominciò a russare in maniera più rumorosa del tuono e il suo sonno durò sino al mattino. Quanto a noi, passammo la notte nella più profonda inquietudine e non riuscimmo a chiudere occhio.

Il giorno dopo, il gigante mangiò allo stesso modo un altro dei miei compagni e si addormentò di nuovo. Mi venne allora un’idea per tentare di metterci in salvo.

– Fratelli – dissi, – sapete bene che lungo la spiaggia c’è molta legna; dobbiamo trovare il modo di fuggire e costruire una zattera per lasciare l’isola.

Prima che il gigante si svegliasse, afferrammo ciascuno una delle lunghe aste appuntite che usava per lo spiedo e la infuocammo nella brace. Poi, cercando di non fare il minimo rumore, ci avvicinammo al ciclope dalla parte della testa e gli conficcammo quell’asta rovente nell’unico occhio.

Il dolore gli fece emettere un grido spaventoso. Si alzò furibondo e distese le mani da tutti i lati per prenderci, ma noi ci infilammo in pertugi dove non poteva afferrarci.

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Dopo averci inutilmente cercato, trovò a tentoni la porta e uscì tra urla tremende.

Noi ci recammo velocemente sulla spiaggia e costruimmo, rapidi come non mai, una solida zattera. La lanciammo subito in acqua, pronti a salpare. Non facemmo in tempo a prendere il largo che vedemmo il nostro crudele nemico, accompagnato da due giganti che lo conducevano e da altri ancora che camminavano davanti a lui, precipitarsi verso la riva.

Tentammo di allontanarci a furia di remi, ma i ciclopi raccolsero alcune grosse pietre e, entrati in acqua fino alla cintola, le gettarono contro la nostra piccola imbarcazione con tale destrezza che quasi ci colpirono e per poco non ci affondarono. Disperati, continuammo a remare finché ci trovammo lontani, fuori dal tiro delle pietre. Eravamo salvi dai giganti, ma perduti su di una zattera in alto mare. La crudeltà del nostro destino non sembrava migliorata granché. Sindbad proseguì con commozione:

Il giorno seguente, con grande giubilo scorgemmo un’altra isola e vi approdammo. Eravamo talmente allo stremo delle forze che ci addormentammo sulla spiaggia.

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A un tratto fummo svegliati dalle urla disperate di un nostro compagno che era stato assalito da un enorme serpente. In preda al panico, fuggimmo verso le fronde di un albero che si stagliava immenso nel cielo.

Pensammo di essere al sicuro, ma il serpente ci vide e riuscì ad arrampicarsi lungo il tronco e a sbranare tutti i marinai che si trovavano più in basso di me. Si allontanò poi sazio e soddisfatto.

Senza perder tempo, con l’enorme terrore che il mostro ritornasse, raccolsi una gran quantità di legna, di rovi e di spine, e costruii una specie di recinto attorno all’albero. Lo stratagemma per fortuna funzionò e il serpente non poté avvicinarsi al tronco.

Restai sulla cima della pianta per diversi giorni senza perdere mai di vista l’orizzonte, finché scorsi in lontananza la vela bianca di una nave. Gridai con tutto il fiato che avevo in gola e sventolai con forza il turbante. Dio ebbe pietà della mia disperazione e qualcuno mi avvistò! Il capitano della nave mi trasse in salvo con una scialuppa.

Potete immaginare la mia sorpresa quando riconobbi nel capitano un vecchio compagno di navigazione del primo viaggio! Era rimasto molto addolorato per avermi perduto e aveva avuto cura di conservare tutte le merci di mia proprietà rimaste a bordo, continuando a negoziarle nei vari porti. Mi restituì l’utile ricavato e potei far ritorno a Bagdad ancora più ricco di prima.

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Sindbad terminò così la storia del suo terzo viaggio e donò altri cento zecchini a Hindbad, invitandolo al banchetto dell’indomani per la narrazione del quarto viaggio.

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Quarto viaggio

Il facchino non mancò di tornare il giorno successivo, e Sindbad, verso la fine del pranzo, riprese la narrazione dei suoi viaggi.

Mi lasciai presto trascinare dalla passione infinita di trafficare e di vivere nuove avventure. Partii prendendo la strada della Persia e dopo aver attraversato molte province giunsi in un porto di mare. Lì mi imbarcai. Eravamo già approdati in alcune isole orientali, quando un giorno fummo sorpresi da un vento fortissimo che ci colse in pieno e fece urtare il vascello violentemente contro una scogliera. La nave si incagliò e noi fummo obbligati a cercare rifugio sulla terraferma. Inoltrandoci nell’isola, vedemmo venirci incontro alcuni selvaggi. Eravamo così stanchi e per giunta disarmati che non riuscimmo a difenderci: ci catturarono e ci condussero nel loro villaggio. Stremati dalla fatica, fummo trascinati in una capanna dove ci venne servita una certa erba. A gesti, i selvaggi ci invitarono a mangiare.

I miei compagni, senza riflettere, si gettarono su quel cibo con avidità, ma io, assalito da uno strano presentimento, mi astenei. Feci bene poiché nel giro di pochi istanti i miei amici smarrirono la ragione, presero a dire parole senza senso e poi caddero addormentati.

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Finsi anch’io di dormire, quindi vidi i selvaggi afferrare alcuni dei miei compagni, ucciderli e farli a pezzi. Capii con orrore che eravamo caduti prigionieri di una tribù di cannibali.

Rimasi nella capanna senza che mi avessero legato; con mia grande fortuna, poi, non misero nessuno a farmi da guardia.

Attesi impaziente il calar della notte e, nel momento in cui tutto il villaggio si fece silenzioso, mi inoltrai nella foresta buia e fitta. Vagai in quell’isola sconosciuta e selvaggia per sette giorni e sette notti, quando finalmente scorsi da lontano una città. Ci abitavano persone civili che ascoltarono il racconto delle mie disgrazie e mi condussero dal loro re. Fui accolto dal sovrano con rispetto, mi furono dati abiti nuovi e potei finalmente mangiare.

Trascorsero alcuni giorni, durante i quali ebbi modo di conoscere gli usi e le abitudini di quel popolo così ospitale. Osservando tutto con attenzione, notai una cosa che mi parve straordinaria: tutti gli abitanti e lo stesso re montavano i cavalli senza briglia né staffe. Incuriosito, domandai il motivo per cui neanche sua maestà si servisse di quelle comodità ed egli stesso mi confessò di non conoscerle.

Andai subito da un artigiano e gli diedi indicazioni per fabbricare una sella, poi mi diressi da un fabbro per fargli costruire il morso e un paio di staffe. Quando queste cose furono ben perfezionate, andai a presentarle al re. Questi le trovò così utili che volle ricompensarmi con grandi

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ricchezze; non solo, volle persino concedermi la mano della figlia, una ragazza così gentile e piena di grazia che me ne innamorai all’istante. Fui quindi ben felice di accogliere la proposta di suo padre.

Seguì un periodo di grande felicità per me, ma la sorte volle mettermi di nuovo alla prova. La mia giovane moglie si ammalò e in breve tempo morì. Il peggio per me doveva ancora arrivare: scoprii che era usanza nell’isola seppellire il marito assieme alla moglie morta e viceversa. Ero addolorato per la morte della mia amata e atterrito dalla sorte che mi attendeva.

A nulla valsero le mie suppliche e i miei appelli. Dopotutto ero uno straniero, le mie usanze erano diverse. Per quale motivo dovevo subire un destino così crudele? Il re fu gentile come sempre ma non mise in discussione le leggi: mi spiegò che io, avendo sposato sua figlia, ero diventato un membro del suo popolo e dovevo rispettarne le tradizioni. Così venni fatto distendere in una bara scoperta, con un vaso pieno d’acqua e sette pani, poi fui condotto in processione assieme al cadavere di mia moglie fino a un pozzo profondissimo che si apriva sulla montagna.

Il funerale venne celebrato con musiche, canti e pianti di dolore. A cerimonia terminata, nonostante io gridassi e implorassi di lasciarmi vivere, fui calato nell’abisso insieme alla mia povera sposa; l’apertura venne sigillata con una pietra.

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Nonostante l’oscurità, scoprii che la caverna era assai spaziosa e piena di cadaveri: quella distesa di bare aperte con dentro dei defunti mummificati, vestiti con abiti preziosi e adornati di gioielli, era uno spettacolo orribile e macabro. Sopravvissi per alcuni giorni grazie all’acqua e al pane, ma poi, non avendone più, mi rassegnai a morire.

Ero seduto con la schiena posata alla parete e meditavo, in quel gran silenzio, su tutti i fatti straordinari della mia vita, quando sobbalzai di paura udendo un sibilo. Volsi lo sguardo verso la direzione del rumore e vidi baluginare un piccolo riverbero nel buio. Mi feci coraggio e decisi di seguire il chiarore. Avvicinandomi, udii soffiare più forte e mi parve di vedere qualcosa che fuggiva. Seguii una specie d’ombra che si fermava di tratto in tratto e riprendeva ad allontanarsi ogni volta che mi avvicinavo.

Mi inoltrai così a fondo che, d’un tratto, vidi finalmente una luce somigliante a una stella. Avanzai verso quel miraggio e scoprii che il raggio luminoso proveniva da una fessura della roccia. Quando fui vicino, potei constatare che era abbastanza larga da lasciar passare, se pur con fatica, un uomo. Di sotto, il mare si frangeva su una breve spiaggia e il soffio che avevo udito era quello di una creatura marina infilatasi nella grotta per nutrirsi di cadaveri.

Il primo impulso mi suggerì di scappare fuori immediatamente, ma poi, ammaestrato dalle vicende straordinarie della mia vita, tornai nella caverna e raccolsi dalle bare quanti più gioielli e oro potei.

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Attesi per un poco e finalmente la sorte volle che passasse di lì una nave. Mi tolsi il turbante dal capo, lo agitai per richiamare l’attenzione dei marinai e urlai con tutte le mie forze. Quelli mi videro e, calata la scialuppa, mi vennero a prendere. Alle loro domande, risposi di essermi salvato due giorni prima da un naufragio. Ero un mercante, affermai, l’oro e i gioielli che portavo rappresentavano una parte delle mie mercanzie che ero riuscito a salvare. Per mia fortuna, si accontentarono della mia risposta e mi condussero via con loro.

Passammo davanti a parecchie isole, infine giunsi felicemente a Bagdad con molte ricchezze.

Per rendere grazie a Dio, divenni un benefattore: distribuii molte elemosine perché anch’io ero stato aiutato quando ero nel bisogno.

Qui Sindbad finì il racconto del suo quarto viaggio, che destò in chi lo ascoltava ancora più meraviglia dei tre precedenti. Fece quindi un nuovo dono di cento zecchini a Hindbad, pregandolo di tornare il giorno successivo per ascoltare il suo quinto viaggio.

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Quinto viaggio

– Passai qualche anno di vita tranquilla, ma la passione per la navigazione mi rese schiavo ancora una volta, per cui partii per altre avventure – raccontò Sindbad l’indomani alla fine del banchetto.

Abordo di una nuova nave, con un nuovo equipaggio, spiegammo le vele al primo buon vento e, preso il largo, dopo lunga navigazione approdammo su un’isola deserta, nella quale vedemmo un uovo di un Roc, l’enorme uccello di cui vi ho già parlato.

L’uovo conteneva un piccolo prossimo a nascere; il pulcino aveva rotto il guscio e già si vedeva spuntare il becco. I miei compagni non avevano mai visto un simile esemplare. Mossi da una curiosità febbrile, nonostante i miei avvertimenti, spaccarono a colpi di scure il guscio, ne trassero il pulcino e l’arrostirono. Quando l’uccello fu ben cotto, lo mangiarono di gusto.

Avevano appena finito il banchetto, che comparvero in aria i genitori del pulcino, due giganteschi e maestosi uccelli che si avvicinavano veloci. Gridai di tornare immediatamente sulla nave così da prendere il largo il prima possibile.

Alzammo le vele, ma le terribili grida dei Roc erano chiare: gli uccelli avevano scoperto che avevamo ucciso il loro piccolo. Li vedemmo sparire in volo e poi tornare:

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reggevano fra gli artigli due enormi massi. Si avventarono sul vascello e scagliarono le pietre mandandolo in frantumi. L’impatto fu così forte e devastante che i marinai morirono schiacciati o furono inghiottiti dalle onde. Anche io venni sommerso ma, tornato a galla, ebbi la buona sorte di afferrare una tavola di legno; aiutandomi ora con una mano, ora con l’altra, giunsi finalmente su una spiaggia grazie al vento e alla corrente a favore. Mi resi conto di essere l’unico sopravvissuto e mi ritrovai nuovamente naufrago su quella che mi sembrò un’isola.

Quando mi fui un po’ inoltrato, vidi un vecchio seduto sulla sponda di un ruscello. Era così malmesso che pensai fosse un naufrago come me. Mi avvicinai e lo salutai, ed egli rispose con un cenno del capo.

Gli domandai cosa facesse ma, invece di rispondere, mi fece segno di prenderlo sulle spalle e di portarlo al di là del ruscello, facendomi comprendere che voleva andare a cogliere dei frutti. Lo presi sulle spalle e gli resi il servizio volentieri, ma quando tentai di farlo scendere, quel vecchio, che mi era sembrato debole e malato, mi strinse così forte la gola che per poco non mi strangolò.

Orbene, so che non crederete a quanto sto per dirvi, ma quel vecchio rimase sulle mie spalle per giorni e giorni, sempre attaccato al mio collo! Mi obbligò a trasportarlo come fossi una bestia da soma, facendomi fermare sotto gli alberi per permettergli di cogliere la frutta. Quando voleva riposare, la notte, si stendeva accanto a me per terra,

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senza lasciarmi mai. Figuratevi la mia rabbia al vedermi carico di quel fardello senza potermene liberare!

Un giorno, sempre con il vecchio al collo, trovai una zucca secca e la riempii del succo di molti grappoli d’uva. La deposi in un luogo sicuro ed ebbi la destrezza di ritornarci alcuni giorni dopo. Il succo era fermentato in ottimo liquore, ne bevvi un poco e il vecchio subito volle assaggiarlo. Ingordo qual era, ne tracannò in grande quantità fino a ubriacarsi. Le sue gambe finalmente si allentarono, così riuscii a gettarlo a terra e a liberarmi.

Mi incamminai verso il mare e mi imbattei in alcuni marinai curiosi di conoscere la mia avventura.

– Eravate caduto nelle mani del Vecchio del Mare – mi dissero – e siete il primo uomo che è riuscito a liberarsi. Di solito, quando si stanca del suo servitore, lo soffoca e poi ne cerca un altro.

Salii a bordo della nave e non tardai a mostrare le mie buone doti di mercante. Trafficammo in noci di cocco, pepe e legno di aloe. Raggiunta un’isola famosa per la pesca delle perle, ingaggiai persino alcuni palombari per procurarmi un ricco bottino. Fu così che rientrai a Bagadad più ricco che mai e, come al solito, non tardai a distribuire una parte dei miei guadagni in elemosine.

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Finito il racconto, Sindbad fece dare cento zecchini a Hindbad.

Il giorno dopo, il facchino raggiunse la casa del mercante per conoscere la storia del suo sesto viaggio.

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Sesto viaggio

Il giorno seguente, Sindbad il marinaio domandò al facchino, arrivato per il pranzo, se fosse ansioso di sapere come, dopo aver fatto cinque naufragi e incontrati tanti pericoli, egli avesse voluto nuovamente imbarcarsi e tentare la fortuna.

In effetti me ne meraviglio anche io quando vi rifletto. Comunque sia, dopo un anno di riposo mi preparai a fare un sesto viaggio, malgrado le preghiere dei miei parenti e degli amici che fecero il possibile per dissuadermi.

Mi imbarcai con marinai mai conosciuti prima, a bordo di un vascello di buon legno, e prendemmo la via della Persia e delle Indie. Dopo una lunghissima e infelice navigazione, un giorno assistetti a una scena che mi turbò non poco: vidi il capitano strapparsi la barba e battersi il petto. Avevamo preso una corrente avversa che ci avrebbe condotto, senza possibilità di fuga, a schiantarci verso un’isola formata da un’alta montagna!

Facemmo giusto in tempo a raccogliere i viveri e le merci più preziose, poi calammo le scialuppe e abbandonammo la nave, che in breve andò a infrangersi contro la scogliera e andò in pezzi, come aveva predetto il capitano.

Approdammo sull’isola e restammo sulla riva come se fossimo impazziti, aspettando di giorno in giorno la morte.

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Quale orrore provai nel vedere tutta l’isola disseminata degli scheletri di coloro che vi erano approdati in molti anni!

D’altro canto non c’era lingua di terra che non traboccasse dei beni e delle ricchezze che vi erano state portate in salvo dai mercanti naufraghi.

Ipotizzammo più volte una fuga via mare, ma senza speranza poiché in quell’isola, al contrario di ogni altro luogo dove i fiumi confluiscono in mare, l’acqua del mare veniva risucchiata come una fiumana nella caverna oscura di un’immensa montagna, le cui pareti erano di cristallo, di rubino e di altre pietre preziose.

Con la ciurma avevamo ripartito fra tutti le provviste, così ciascuno poté vivere più o meno a lungo degli altri, secondo il proprio temperamento e l’uso che fece dei viveri. Io fui molto prudente e assistetti alla morte di tutti i miei compagni.

Dio ebbe di nuovo pietà di me, e mi inspirò il pensiero di andare a esplorare la fiumana d’acqua putrida che si ingolfava nella caverna.

Dissi fra me:

“Se il corso d’acqua va a infilarsi nella grotta, vorrà dire che uscirà da qualche altra parte. Se costruirò una zattera e mi abbandonerò alla corrente, arriverò a una terra abitata, oppure morirò. Del resto, meglio morire mentre si cerca di salvarsi che crepare di fame e di disperazione. Chissà che la fortuna non mi aiuti a uscire da questo spaventoso scoglio?”

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Dopo tale ragionamento, non esitai a mettermi all’opera: costruii una zattera con travi e grosse gomene e ne feci una solidissima navicella. Mi imbarcai con due piccoli remi e mi abbandonai al corso del fiume, rassegnato alla volontà di Dio.

La corrente mi risucchiò subito dentro la montagna, nel buio più profondo.

Trascorsi molti giorni nella più totale oscurità, risparmiando il poco cibo che mi restava; quando anche le provviste furono terminate, caddi in un torpore profondissimo, simile al sonno.

Non so per quanti giorni proseguì la navigazione, so solo che mi risvegliai alla luce del sole, in mezzo alla campagna. Ero circondato da alcuni uomini dalla pelle molto scura che mi osservavano sbalorditi. Biascicai poche parole in arabo e uno di loro, che intendeva la mia lingua, mi spiegò che mi trovavo nell’isola di Serendib, e che mi avevano raccolto lungo il fiume che esce dalla montagna.

Fui rifocillato con ogni ben di Dio e condotto al cospetto del loro sovrano, il quale si mostrò molto ospitale. Mi trattò con grande riguardo, permettendomi di conoscere a fondo l’isola e le sue enormi ricchezze.

Non solo vi si trovavano rubini e molti minerali, ma le montagne erano fatte di smeriglio, una pietra metallica usata dai gioiellieri per lavorare le gemme; abbondavano anche di ogni sorta di alberi e piante rare, fra le quali il cedro, che spiccava per la sua imponenza e bellezza.

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Si potevano persino pescare le perle lungo le spiagge e alla foce dei fiumi, oppure raccogliere diamanti lungo le valli. Non tardai ad accumulare una grande ricchezza, dopodiché domandai al sovrano di poter tornare al mio paese. Egli accettò in maniera gentilissima.

Quando andai a congedarmi da lui, mi incaricò di portare in dono al califfo del mio regno un vaso di rubino, come pegno di amicizia. Lo presi con rispetto, promettendo a sua maestà di eseguire puntualmente gli ordini. Vennero quindi convocati il capitano e i mercanti che dovevano imbarcarsi con me, e il re comandò loro di usarmi tutti i riguardi. Dopo una lunga e felicissima navigazione, approdammo dapprima a Balsora, e da lì raggiunsi Bagdad.

Sindbad finì di parlare e Hindbad ricevette altri cento zecchini. Tornò poi il giorno seguente per conoscere il settimo e ultimo viaggio di Sindbad il marinaio.

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Settimo viaggio

– Ritornato dal mio sesto viaggio, abbandonai il proposito di farne altri – confessò Sindbad l’indomani, – anche perché cominciavo a invecchiare. Ma accadde che il califfo, cui avevo portato in dono il vaso di rubino mandato dal sovrano di quel paese misterioso, mi domandò di ricambiare l’offerta e tornare nell’isola di Serendib. Il comando del califfo fu un colpo di fulmine per me, però non potevo rifiutare. Così mi preparai in pochi giorni alla partenza e, appena mi furono consegnati i doni del califfo con una lettera di sua mano, ritornai a navigare.

Il viaggio di andata fu felicissimo e, giunto all’isola di Serendib, domandai udienza al sovrano per adempiere alla missione.

Fui condotto con onore al palazzo e salutai il re inchinandomi secondo l’uso. Egli mi riconobbe e dimostrò grande gioia al rivedermi.

– Ah, Sindbad! – mi disse, – siate il benvenuto. Dopo la vostra partenza ho pensato spessissimo a voi e benedico questo giorno in cui ci rivediamo.

Consegnai al re i doni del califfo e fui ospitato nella reggia in modo principesco.

Eppure, dopo pochissimo tempo, decisi di ripartire, poiché in cuor mio volevo solo tornarmene a casa.

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Non sapevo che altre difficili avventure mi attendevano prima del ritorno!

Tre o quattro giorni dopo la partenza, il vascello dove viaggiavo venne assalito dai corsari i quali, dopo essersi impadroniti del bastimento e delle merci, ci vendettero come schiavi. Caddi così nelle mani di un ricco mercante.

Il mio padrone mi vestì con abiti eleganti e mi domandò se fossi abile in qualche mestiere. Non essendo pratico di nessun lavoro di artigianato, mi chiese se sapessi almeno tirar d’arco. Orbene, risposi che tirar d’arco era uno degli esercizi della mia gioventù e che ero sempre stato un tiratore eccellente.

Dopo avermi dato un arco e alcune frecce, mi fece salire con lui sulla groppa di un elefante per condurmi in un vasto bosco lontano dalla città. Mi obbligò a salire su un albero e dar la caccia agli elefanti, così da prenderne le zanne. Se non ne avessi preso nemmeno uno, mi avrebbe tenuto a digiuno. Divenni mio malgrado un abile cacciatore, ma una mattina, mentre ero arrampicato sul mio albero, vidi con grande stupore che una mandria di elefanti veniva verso la mia postazione con orribili schiamazzi, facendo tremare il suolo sotto ogni passo. Avvicinatisi all’albero, lo circondarono tutti, con la proboscide alzata e gli occhi fissi su di me. A quel meraviglioso spettacolo, rimasi immobile e fui colto da un tale spavento che l’arco e le frecce mi caddero di mano.

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Gli elefanti mi osservarono a lungo, poi il più maestoso di essi circondò l’albero alla base con la proboscide e lo sradicò. Io caddi assieme all’albero, ma prima che mi schiantassi al suolo, l’immensa bestia mi afferrò con la proboscide e mi pose sulla sua groppa, dove restai seduto più morto che vivo.

Mi condussero fino a una collina lunga e larga, tutta coperta di ossa e di denti di elefante. Capii che si trattava del loro cimitero, ovvero il luogo dove per istinto andavano a morire. Confesso che quella vista mi commosse e mi fece riflettere. Compresi che quelle bestie mi avevano portato là affinché cessassi di perseguitarli.

Impiegai due giorni di cammino per tornare in città dal mio padrone. Appena mi vide, non finì di abbracciarmi visto che aveva pensato che fossi morto come tutti gli schiavi che aveva impiegato nella caccia agli elefanti. Mi domandò cosa fosse successo e non tardai a raccontarglielo. Volle quindi vedere il cimitero e non potei rifiutarmi dal condurlo.

Accadde allora un fatto prodigioso: il mercante, colpito dagli accadimenti, decise di donarmi la libertà e si prodigò perché potessi tornare a casa.

Mi unii a una grossa carovana di mercanti. Fu un viaggio lungo e faticoso, ma soffrivo con pazienza perché, dopo tutto quello che avevo passato nei miei sette viaggi, non temevo più le tempeste, né i corsari, né i serpenti, né tutti gli altri pericoli da me superati.

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Finirono le fatiche e giunsi finalmente a Bagdad. Andai subito a presentarmi al califfo per rendergli conto della mia ambasciata e, quando gli narrai l’avventura degli elefanti, se ne meravigliò molto. Trovò questa storia e le altre che gli raccontai tanto curiose, che incaricò un suo segretario di inciderle in caratteri d’oro nel libro reale delle memorie, affinché non venissero mai dimenticate. Felice dell’onore e dei regali da lui ricevuti, tornai a casa e mi dedicai per intero alla mia famiglia, ai parenti e agli amici.

Qui Sindbad finì il racconto del suo settimo e ultimo viaggio. Infine, rivolgendosi a Hindbad, disse: – Orbene, amico, non vi pare giusto che un uomo, dopo aver vissuto tante traversie, non si goda un po’ di vita tranquilla? Hindbad si avvicinò e, baciandogli la mano, disse: – Bisogna confessare, o signore, che i miei guai non sono nulla rispetto agli spaventosi pericoli che avete corso! Voi meritate non solo una vita tranquilla, ma siete grandemente degno di tutti i beni che possedete, poiché siete tanto generoso. Continuate dunque a vivere allegramente, finché Dio vorrà. Sindbad donò a Hindbad altri cento zecchini, e da quel giorno non passò settimana senza che i due amici si ritrovassero per pranzare assieme e conversare felicemente.

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La storia dei tre pomi

Un giorno, nella città di Bagdad, giunse il califfo Aaron-al-Raschid. Volle fare un giro in gran segreto per indagare, sotto mentite spoglie, cosa pensassero i suoi sudditi delle guardie del reame.

Accompagnato dal Visir Giafar, che amministrava la città in sua vece, il sovrano percorse strade e vicoli, fino a raggiungere il quartiere più povero.

– Questo è il posto giusto per interrogare la mia gente –disse il califfo, – e stai certo, Visir, che se il mio popolo ha di che lamentarsi, deporrò qualche ufficiale!

I due s’imbatterono in un povero pescatore dalla barba bianca, così misero da muovere compassione. Proposero allora di acquistare per cento zecchini qualsiasi cosa avesse pescato. Il pescatore andò di gran lena verso la riva del

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fiume, gettò le reti e con grande sorpresa estrasse un’enorme cassa di legno marcio. Il sovrano e il suo Visir mantennero la parola e pagarono i cento zecchini, ma preso da grande curiosità, il califfo volle tornare a palazzo per controllare che cosa contenesse lo scrigno misterioso. Quale orrore provò nello scoprire che, dentro il baule, avvolto in un lurido tappeto, vi era il cadavere fatto a pezzi di una donna.

– Ah, sciagurato! – gridò pieno di collera al Visir, – è dunque così che vegli sulle azioni del mio popolo? Quali crimini scellerati si commettono sotto il tuo ministero!

Il Visir, fattosi piccolo piccolo, tentò poche parole a sua discolpa.

– Basta così! – intimò il sovrano. – Se tu non vendichi l’omicidio di questa signora con la morte del suo assassino, giuro che ti farò impiccare assieme a quaranta dei tuoi parenti. Hai tre giorni di tempo per trovare l’uccisore!

Il Visir, disperato, ordinò alle guardie di perlustrare ogni anfratto, vicolo e mercato e interrogare tutti i sudditi, ma in cuor suo sapeva che, in una città popolosa come Bagdad, non c’era la possibilità di ritrovare il colpevole.

“Un altro uomo, al mio posto, avrebbe mandato a morte un disgraziato preso a caso dalle prigioni” pensò il Visir, “ma io non voglio macchiarmi di questo delitto e preferisco morire che portare sulla coscienza un tale peso”.

Trascorsi i tre giorni senza trovare alcun colpevole, il Visir, che in cuor suo sapeva di aver reso un buon servizio al reame, si preparò ad andare incontro alla sorte.

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Nella grande piazza della città vennero innalzate quarantuno forche, per il Visir e per i membri della sua famiglia che il califfo aveva condannato a morte. La folla accorse da tutte le vie come un fiume umano, mentre i tamburi rullavano una marcia cupa e funesta.

Quando tutto fu pronto, il Visir venne condotto sul patibolo, ma un istante prima che il boia gli infilasse la corda al collo, dalla folla si alzò una gran voce:

– Sovrano! Il Visir non è colpevole di nessun crimine! Sono stato io a commettere l’omicidio.

Non passò un solo istante, che un’altra voce si levò da sopra la folla.

– Signore! Vi supplico di non credere alle parole di questo giovane – esclamò un vecchio. – Ho ucciso io la dama nel baule e solo su di me deve cadere il castigo!

Nella confusione generale, il califfo convocò sul podio reale i due rei confessi per capire perché si contendessero una colpa così grave. Poiché ciascuno si ostinava a discolpare l’altro, il califfo propose di farli impiccare entrambi.

– Ma sire! – rispose il Visir, che non aveva smesso di credere nella giustizia, – se esiste un solo colpevole, sarebbe un crimine far morire anche l’altro.

A tali parole, il sovrano si vergognò della sua proposta e decise di interrogare meglio i due imputati.

– Maestà, la donna trucidata è mia moglie – disse il giovane uomo. – Un giorno mi domandò la grazia di comprarle dei pomi, anche se in questa stagione non se ne trovano.

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Intrapresi un lungo viaggio per compiacerla e quando tornai con tre mele pagate a caro prezzo, le prese con sé, ma mi disse di non averne più desiderio. Pochi giorni dopo, mentre me ne stavo nella mia bottega, vidi passare uno schiavo che reggeva in mano uno di quei pomi. Lo interrogai su dove avesse trovato un frutto così raro, e mi confessò di averlo ricevuto dalla sua amante. Quelle parole mi fecero uscir di senno. Corsi a casa fino alla camera di mia moglie e le chiesi spiegazioni, ma lei diede solo risposte vaghe. Fu così che, senza più dubbi, vinto dal furore e dalla gelosia, sguainai il mio coltello, la uccisi e mi liberai del cadavere gettandolo nel fiume, nascosto in un baule.

L’uomo si asciugò il viso umido e prosegui il suo racconto:

– Quando tornai a casa trovai mio figlio in lacrime. Mi confessò di aver rubato un pomo alla madre, ma mentre giocava in strada, gli era stato rubato da uno schiavo. Riconobbi allora l’enormità del malinteso e del mio delitto, pentendomi amaramente di aver creduto alle imposture di un servo bugiardo.

Il califfo, vinto dalla sorpresa, domandò al vecchio la sua versione dei fatti e l’anziano uomo rispose: – Sire, sono il padre della dama uccisa, e questo giovane, il marito della donna, è mio nipote. Si sposarono tra cugini e io li amai entrambi come figli. Quando tornai a casa e seppi del barbaro omicidio, spesi tutte le lacrime che avevo in corpo. La perdita di una figlia amatissima è già troppo, non voglio

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piangere anche la perdita di mio nipote. Per questo mi sono accusato!

Il califfo capì che l’intera colpa della vicenda era dello schiavo bugiardo.

Fece smontare le forche e ordinò al Visir di trovare il servo uccisore entro tre giorni, altrimenti, ancora una volta, avrebbe pagato egli stesso con la morte.

L’infelice Giafar, credutosi fuori pericolo, ricadde nel patema poiché sapeva che era impossibile trovare il colpevole. Scaduto il tempo a disposizione, gli fu concesso di abbracciare un’ultima volta la moglie e l’amatissima figlia prima di essere ricondotto nella piazza del patibolo. E mentre la stringeva al petto, si accorse che la bambina teneva in tasca un pomo profumato.

– Dove hai preso questo pomo? – domandò il Visir con gran sorpresa.

– Mio buon papà – rispose la fanciulla, – il pomo me l’ha venduto per due zecchini Rihan, il nostro schiavo.

Alle quelle parole, Giafar emise un grido di meraviglia. Fece allora chiamare lo schiavo, che non era lontano, e quando gli fu davanti, disse:

– Briccone, dove hai preso questo pomo?

– Signore – rispose lo schiavo, – giuro di non averlo rubato in casa vostra! L’ho preso a un fanciullo che giocava per strada. Il ragazzo mi supplicò di restituirglielo poiché l’aveva sottratto all’insaputa della madre, ma io mi rifiutai, lo portai a casa e lo vendetti a vostra figlia.

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Il Visir condusse lo schiavo al cospetto del califfo per fargli ripetere quanto accaduto. Di fronte alla bricconata dello schiavo e il fenomenale incastro di eventi, non ci fu sorpresa maggiore di quella di Aaron-al-Raschid.

Il califfo, che tutti i sudditi consideravano un re saggio, severo ma giusto, convocò anche il marito e il padre della donna uccisa. Dal podio reale, con le labbra piegate in un sorriso amaro, disse:

– Se un vero colpevole c’è in tutta questa vicenda, non è un marito vinto dalla gelosia1, né un vecchio che, dopo aver perduto l’amata figlia, tenta di proteggere almeno il nipote; né uno schiavo che ha compiuto un’ingenua bricconata, e nemmeno un Visir che considero buono e giusto. Il vero colpevole di questa storia assai singolare è la sorte, cui non posso infliggere alcuna condanna, ma che mi obbliga a concedere la grazia a tutti voi.

1 In alcune culture mediorientali, specie nell’antichità, il delitto per adulterio era giustificato.

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La storia di Aladino e la lampada meravigliosa

In una lontana città del Catai abitava un sarto chiamato Mustafà. Il suo lavoro gli permetteva di mantenere appena la moglie e il figlio Aladino.

Il giovane era un vero scansafatiche e a nulla valevano i rimproveri dei genitori: non aveva voglia di imparare alcun mestiere, così passava le giornate a bighellonare in strada e a combinare guai. Il padre ne soffriva così tanto che si ammalò e morì.

Un giorno, mentre Aladino giocava con dei vagabondi in mezzo alla piazza, passò di lì uno straniero. Era un potente mago di origine africana, giunto in città da appena due giorni, e si fermò a guardare il ragazzo con molta attenzione.

Si informò quindi sulla famiglia e sulle inclinazioni del ragazzo, poi gli si avvicinò e, tirandolo in disparte perché nessuno sentisse, gli chiese:

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– Figliuolo, sei tu il figlio di Mustafà il sarto?

– Sì, signore – rispose Aladino, – ma mio padre è morto da un po’ di tempo.

Lo straniero finse di provare un grande dispiacere. Abbracciò il ragazzo e gli confidò di essere suo zio paterno, fratello del padre. Si informò su come stesse sua madre, poi tirò fuori una moneta e gliela regalò. Si offrì quindi di poterlo accompagnare a casa per conoscere la madre e fu di modi così gentili e premurosi che anche la donna, nonostante fosse certa che il marito non avesse alcun fratello, si lasciò convincere.

Il giorno seguente, il mago tornò alla casa del ragazzo e portò in dono abiti molto belli e tessuti pregiati.

– Sei il figlio di Mustafà – gli disse, – devi vestirti come conviene al figlio di un grande sarto.

Quando Aladino si vide indosso quelle vesti magnifiche, rivolse al finto zio grandi ringraziamenti.

Il terzo giorno, il mago domandò alla donna di poter accompagnare il ragazzo a visitare degli splendidi giardini fuori città. Aladino ne fu entusiasta e la madre acconsentì con gioia.

Dopo un lungo cammino, giunsero in una vallata deserta, tra due montagne gemelle.

– Siamo arrivati – disse il mago. – Bada, ragazzo, stai per vedere cose straordinarie che nessuno ha mai ammirato.

L’uomo tracciò con un bastone un cerchio sul terriccio, vi gettò sopra della polvere che teneva in una piccola sacca

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e pronunciò parole misteriose. Dal cerchio si alzò un fumo scuro e denso e, nella terra, si spalancò una voragine di cui quasi non si vedeva il fondo. Aladino ebbe paura.

Il mago, mostrando il suo vero carattere, si avvicinò al ragazzo e lo schiaffeggiò forte.

– Zio – gridò il giovane piangendo, – che cosa vi ho fatto per meritare queste botte?

– Figliolo, adesso vedi bene di eseguire ogni mio ordine o sarà peggio per te! Chiaro?

Con le gambe tremanti e il cuore che sussultava nel petto, Aladino annuì.

– Ascoltami bene: qui sotto giace un tesoro che potrà renderti più ricco di tutti i re della terra. In fondo alla voragine c’è una porta. Essa ti condurrà in tre sale piene di ogni tesoro, ma tu non devi toccare nulla altrimenti morirai! In fondo alla terza sala troverai una nicchia con una vecchia lampada di rame. Prendi la lampada, solo quella, e torna subito da me.

Il ragazzo, pur non capendo perché l’uomo desiderasse una vecchia lucerna al posto di tutte le ricchezze, fece ciò che gli era stato ordinato. Trovò le tre sale ricolme di oro, gioielli e perle preziosissime da emanare una luce quasi accecante, ma non toccò nulla e andò avanti. Nella terza sala scorse la lampada nella nicchia. Se la rigirò fra le mani: era proprio un oggetto modesto, fatto di ottone e polveroso. A confronto delle ricchezze che quel luogo conteneva era priva di qualsiasi valore.

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Aladino scosse la testa, prese la lampada e ricomparve in fondo alla voragine. Il mago gli tese la mano e disse con voce gentile:

– Fatti aiutare, figliolo. Passami la lampada che ti è d’impiccio.

– No, signore – rispose il giovane che ormai non si fidava più, – porgetemi la mano piuttosto, così che possa aggrapparmi.

– Dammi subito la lampada! – ordinò l’uomo con voce feroce.

– Ve la darò quando sarò fuori.

– Prima la lampada, te lo ordino!

– No.

Il mago africano, vedendo sfumare il suo progetto, dalla paura di essere scoperto e infuriato per la resistenza del ragazzo, gettò altra polvere magica sul buco e dopo che ebbe pronunciato due parole misteriose, questo si richiuse sigillando il ragazzo sottoterra.

Rimasto al buio, Aldino pianse tutte le sue lacrime. Trascorse tre giorni senza bere né mangiare e si rovinò le mani cercando di scavare una via di uscita.

Mentre si muoveva nell’oscurità, gli capitò di toccare la lucerna che era caduta a terra. Allora pensò che con un po’ di fortuna avrebbe potuto accenderla per farsi luce. Quando la strofinò, dal beccuccio si sprigionò un filo di fumo azzurro che prese la forma di un enorme genio.

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– Sono lo schiavo della lampada e schiavo tuo. Che desideri mio signore?

Aladino, stupito, gli chiese se avesse capito bene.

– Mio signore, sono obbligato a esaudire ogni tuo desiderio – ripeté il genio.

– Allora voglio uscire da questo buco, mangiare a volontà e tornare a casa –rispose il giovane.

Ecco che la botola sopra la sua testa si aprì e il ragazzo poté uscire. Lì fuori trovò apparecchiata una tavola, con vassoi d’argento massiccio colmi di ogni ben di dio e uno splendido cavallo con la sella e i finimenti dorati.

Nel rivedere Aladino su un cavallo bianco, con una lucerna di rame stretta sotto un braccio e alcuni piatti d’argento sotto l’altro, la mamma lo abbracciò meravigliata.

La sorte della famiglia cambiò in breve tempo e ad Aladino e sua madre non mancò più il cibo, anzi, per merito del genio si permisero una bella casa con giardino e servitù.

Una mattina, il ragazzo si imbatté nel corteo reale che trasportava la figlia del sultano, la principessa Badrulbudur, fanciulla famosa in tutto il reame. La gente diceva che era “magnifica come una luna piena” perché era bellissima e luminosa.

Quando Aladino riuscì a intravederla attraverso i veli del baldacchino che la trasportava, se ne innamorò all’istante. Il ragazzo tornò a casa col cuore in fiamme e nulla riuscì a distrarlo dal pensiero della principessa. Così, pensò bene di chiedere aiuto a sua madre.

– Madre mia, voglio che tu vada nel palazzo del sultano a chiedere per me la principessa in sposa.

– Aladino, mi prenderanno per matta e mi rinchiuderanno in prigione! – rispose la donna.

– Madre, non dimenticare che noi abbiamo il genio della lampada magica dalla nostra parte.

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Con l’aiuto del genio, in un attimo fu preparato un vassoio ricolmo di gemme preziose, grosse come frutti da portare in dono al sultano. Questi rimase assai colpito dal regalo, ma, poiché era molto geloso della figlia, prima di rispondere si consultò con il Visir.

Il consigliere fu colto da grande agitazione poiché da tempo il sultano gli aveva lasciato intendere di voler concedere la principessa in sposa a suo figlio. Il dono di Aladino, così prezioso, rischiava di far cambiare idea al re. Il Visir allora, parlando sottovoce, disse:

– Sire, non si può negare che il regalo sia degno della principessa, ma supplico vostra maestà di accordarmi tre mesi di tempo affinché mio figlio possa fargliene uno di maggior valore di quello di Aladino.

Il sultano trovò la richiesta ragionevole. Si impegnò con la madre di Aladino di darle una risposta entro tre mesi, poiché aveva bisogno di tempo per riflettere. Malgrado l’amore che provava per la principessa, Aladino dovette armarsi di pazienza e aspettare.

Una sera, sua madre uscì per comprare dell’olio, ma trovando la città in agitazione e bardata a festa, domandò cosa fosse accaduto.

Il venditore d’olio rispose:

– Ma come signora, non lo sapete? Stasera saranno celebrate le nozze tra la principessa Badrulbudur e il figlio del Visir.

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La donna rientrò in casa di corsa, quasi senza fiato.

– Figlio mio – esclamò, – tutto è perduto! Contavamo sulla parola del sultano, ma ci siamo ingannati!

– Madre – rispose, – per qual motivo il sultano non manterrebbe la sua promessa? Come lo sapete?

Allora la donna raccontò ciò che aveva appena appreso e il ragazzo comprese di essere stato imbrogliato. Corse nella sua camera e strofinò la lampada per evocare il genio.

– Sono lo schiavo della lampada, che cosa desideri mio signore?

– Ascolta – gli disse Aladino, – finora ti ho chiesto servigi di poca importanza rispetto a ciò che ti chiederò adesso.

– Tu non hai che da comandare, signore, e io eseguirò.

– Ho chiesto in sposa al sultano sua figlia ed egli si è impegnato di darmi una risposta, chiedendo solo del tempo per riflettere meglio. Ma invece di mantenere la promessa, stasera, prima della scadenza dei tre mesi, la principessa sposerà il figlio del Visir. Appena gli sposi andranno a dormire, ti domando di portarli qui da me col loro letto e tutto.

Le cose andarono esattamente così: dopo le nozze e i grandi festeggiamenti, appena gli sposi si ritrovarono soli, il genio fece cadere su di loro un sonno profondissimo. Poi agitò le mani: un vortice di vento sollevò il loro letto e lo portò nella camera di Aladino.

– Adesso prendi lo sposo addormentato – disse Aladino al genio, – e chiudilo nel gabinetto.

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Il giovane sposo rimase rinchiuso per tutta la notte al gelo della latrina, mentre Aladino si coricò accanto alla principessa senza sfiorarla.

L’incredibile sortilegio si ripeté identico per tutte le notti, e ogni mattina i due giovani venivano riportati nel palazzo reale.

La principessa e il figlio del Visir erano molto spaventati a causa di questa strana magia e quasi si ammalarono. Allora il sultano decise di rompere le nozze.

Aladino intanto, trascorsi i tre mesi, mandò di nuovo la madre a palazzo per pretendere una risposta alla sua richiesta di matrimonio. Quando il re la rivide, si ricordò dell’impegno preso.

– Mia buona signora – le disse, – i sultani devono mantenere le promesse e io sono pronto a osservare la mia, ma a una condizione: direte a vostro figlio che avrà in sposa la principessa solo se le farà dono di quaranta recipienti d’oro massiccio ricolmi di pietre preziose, trasportati da un corteo di schiavi magnificamente vestiti.

Grazie al genio della lampada, Aladino non mancò di realizzare quanto richiesto dal sultano. Fu così che il monarca accordò le nozze.

Il giorno del matrimonio, la principessa Badrulbudur per poco non svenne nel ritrovarsi accanto quel giovane con cui aveva trascorso diverse notti senza che le mancasse mai di rispetto.

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A dirla tutta, ne fu molto felice, poiché in quelle notti sorprendenti e prodigiose era rimasta a lungo a osservare Aladino e si era segretamente innamorata di lui.

Gli sposi trascorsero diversi anni pieni di felicità, ma quella felicità un giorno finì malamente. Ecco rispuntare infatti il mago africano, che voleva controllare se Aladino fosse davvero morto nella fossa dove lo aveva abbandonato. Tornò quindi nella vecchia città del Catai per domandare se qualcuno avesse più avuto notizie del figlio del sarto Mustafà e non impiegò molto tempo per scoprire che Aladino era ancora vivo e abitava nel palazzo più bello che si fosse mai visto sulla terra.

Il mago fu colto da un’ira terribile.

“Quel miserabile! Ha scoperto le virtù della lampada!” disse tra sé. “Voglio impedire che ne goda più a lungo o morirò dalla rabbia e dall’invidia”.

In quei giorni Aladino stava partecipando a una battuta di caccia fuori città. Era l’occasione giusta e il mago ne approfittò. Andò alla bottega di un fabbricante di lucerne e ne acquistò ben dodici, nuove e luccicanti. Poi, travestito da venditore, bussò al palazzo di Aladino.

– C’è qualcuno che vorrebbe cambiare vecchie lucerne con lucerne nuove? – domandò alla serva che incontrò nei pressi dell’uscio.

– Fammi capire – disse la donna, – tu vuoi darmi una lanterna nuova in cambio di una vecchia? E dove sarebbe il tuo affare?

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– Non badare all’affare mio, donna. Bada al tuo. Vuoi una nuova lucerna al posto della vecchia?

La serva non se lo fece ripetere due volte e, pensando di far cosa gradita al suo padrone, andò a prendere la lampada che Aladino custodiva in una nicchia nelle sue stanze private. Così, senza volerlo, la schiava consegnò al mago la lucerna meravigliosa che tanto cercava.

Appena l’ebbe presa in mano, il negromante la strofinò finché il genio comparve.

– Sono lo schiavo della lampada, che desideri mio signore? – domandò come al solito.

Con la faccia trionfante, il mago rispose:

– Io ti comando di spostare me e questo palazzo, con tutto ciò che contiene, da questa città fino a un posto molto lontano da qui, subito!

Senza nemmeno aprir bocca, il genio trasportò in brevissimo tempo lui e il palazzo tutto intero in una pianura sconosciuta e lontanissima.

Quando Aladino rientrò a casa, trovò il sultano e tutta la corte in lacrime per la prodigiosa scomparsa del palazzo e con esso dell’amata principessa Badrulbudur.

Dapprima il giovane pianse e si disperò, poi decise di reagire e di cercare la sua sposa e i suoi beni senza fermarsi mai prima di averli ritrovati.

Attraversò montagne e città, paesi e pianure sconfinate, finché non raggiunse una terra sconosciuta dove riconobbe da lontano il suo palazzo meraviglioso.

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Nonostante fosse sfinito, affrettò il passo fino a raggiungere l’uscio dell’edificio, ma tutto era sbarrato. Si ricordò allora di un’entrata segreta che solo lui conosceva.

Arrivò nelle stanze di sua moglie la quale, nel rivederlo, lo abbracciò così forte da non volerlo più lasciare.

– Dobbiamo fare attenzione e usare l’astuzia, mia principessa – le sussurrò Aladino. – Il mago è assai potente, ma prometto di riportarti a casa.

Domandò dove si trovasse la sua vecchia lampada di rame e Badrulbudur, che ignorava i prodigi dell’oggetto, non seppe cosa rispondere.

– Non importa, risolveremo una cosa alla volta – disse Aladino. Diede alla principessa un sacchetto con del veleno in polvere e raccomandò alla ragazza: – Bada bene, mia adorata. Stasera prima della cena devi versarne un po’ nel tuo bicchiere. Poi ti fingerai gentile con il mago e quando sarai vicina a lui, senza farti vedere, scambierai i bicchieri.

Badrulbudur non tentennò nemmeno un istante di fronte all’audacia della richiesta e mostrò il suo coraggio.

Quella sera, il mago africano, non appena ebbe bevuto un sorso dal boccale avvelenato, si strinse il collo con le mani. Aladino, che era rimasto nel palazzo per spiare la scena nascosto dietro un gran tendaggio, vide il nemico crollare morto a terra. Si avvicinò e gli scostò la veste. Nascosta sotto agli abiti, ritrovò la sua lanterna. Subito la prese e la strinse a sé.

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– Ora, mia sposa, come promesso, ti farò riabbracciare tuo padre – disse.

Strofinò il rame della lucerna e quando comparve il geniosussurrò:

– Riporta il palazzo dove stava prima, accanto alla reggia del sultano.

Il genio fece un inchino di obbedienza e poi sparì. La principessa, che non poteva vedere il genio poiché questi si mostrava solo a colui che reggeva la lampada, sentì il pavimento tremare sotto i propri piedi e non comprese perché. Si affacciò alla finestra e si accorse, con immenso stupore, che il palazzo era ritornato al suo posto.

Da quel giorno, Aladino e la sua sposa vissero una vita piena e felice.

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La storia del cavaliere e la figlia del Visir

C’era nei secoli passati un sovrano potente chiamato Shamik che aveva un fidato Visir, conosciuto come Ibrahim. Questo ministro del re era padre di una figlia di rara bellezza e di raffinata educazione. Tutti la chiamavano Primarosa, in onore della sua freschezza e perfezione.

Il re considerava la fanciulla una delle sue preferite e adorava avere la ragazza seduta alla sua tavola poiché ella lo dilettava con poesie e canzoni e conosceva molti racconti straordinari.

Un giorno, nel palazzo reale, venne organizzato un torneo e furono convocate tutte le famiglie più in vista del paese. Primarosa sedette alla finestra per assistere alla gara e il suo sguardo cadde su uno dei cavalieri della guardia, un ragazzo dalla figura splendida, alto di statura e largo di spalle.

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La fanciulla sentì il cuore infiammarsi dalla passione e domandò alla governante se conoscesse quel giovane.

– Quale intendete?

– Quello! – esclamò Primarosa. Nel dirlo lanciò una mela verso di lui per indicarlo.

La serva rispose:

– Non conosco il suo nome, signora. Ma so che tutti lo chiamano Primoincanto, tanto è incantevole la sua figura.

Il giovane, nel frattempo, vedendo la mela ai sui piedi, volse lo sguardo verso il castello per capire chi l’avesse lanciata. Quando vide Primarosa, anche lui si innamorò.

Primarosa quella sera non riuscì a dormire. Si girò e rigirò nel letto infinite volte, poi scrisse con caratteri d’oro su una pergamena una poesia d’amore. La mise sotto il cuscino sperando che arrivassero buoni sogni a placare il suo animo e finalmente prese sonno.

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La governante osservò la scena di nascosto. Senza farsi sentire, sbirciò sotto il cuscino, lesse la poesia e rimise tutto a posto. L’indomani, disse alla sua padrona:

– Signora, ho fatto un sogno. Eravate innamorata del cavaliere che mi avete indicato ieri e io vi aiutavo a conquistarlo andando da lui per consegnargli una vostra poesia d’amore.

Primarosa trasalì dalla sorpresa: lei la poesia l’aveva scritta per davvero e la coincidenza le appariva come un incredibile segno del destino.

– Ma tu sapresti ritrovare il cavaliere? – domandò alla governante.

La serva annuì e la fanciulla decise di fidarsi.

Non fu difficile ritrovare Primoincanto, e quando questi ricevette la poesia ne fu felice poiché anch’egli aveva passato una notte insonne ripensando alla fanciulla alla finestra. Aggiunse nella pergamena alcuni versi delicati e pregò la donna di riportarla alla sua padrona. La serva non mancò di ubbidire e tra i due iniziò una corrispondenza d’amore.

Una mattina, mentre la governante stava uscendo dal palazzo del Visir con una di quelle lettere, perdette la pergamena da sotto la veste. Uno dei servi vide il foglio caduto a terra, lo raccolse e lo consegnò al Visir in persona.

– Signore, ho trovato in casa questo scritto.

Il Visir lo prese, lo aprì, lesse lo scambio amoroso e riconobbe la mano della figlia. Con le lacrime agli occhi, portò lo scritto alla moglie per un consiglio. La donna soppesò bene il da farsi.

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– Marito mio, temo per l’onore della ragazza e per la tua posizione. Il sultano ha grande affetto per lei, non vorrei che se ne avesse a male. Meglio tener nascosta la cosa. Consulterò l’oracolo e capiremo come fare.

La moglie del Visir recitò le preghiere, pose la domanda, aprì il Corano e interpretò la risposta. Poi disse al marito:

– Dobbiamo far costruire un castello per Primarosa nel Monte della Madre Orbata, dove nessuno può arrivare senza un viaggio lungo e travagliato. Le forniremo i viveri per un anno e la servitù necessaria. Così nessuno potrà raggiungerla.

Il Visir e la moglie convocarono architetti e muratori per far erigere il maniero. Nel frattempo, Primarosa fu condotta via a cavallo, attraverso deserti, pianure e valli di pietre. La carovana attraversò persino il mare.

Ben presto il cavaliere apprese che la sua innamorata era stata allontanata da lui con la forza verso un paese sconosciuto. Vinto dal dolore, visse in profondo affanno per giorni e giorni, senza più dormire. Poi la gioventù e la forza d’animo ebbero la meglio ed egli decise di intraprendere un viaggio per andare a cercarla, ma senza sapere dove.

Attraversò pianure e villaggi, montagne e vallate, sempre instancabile. Mentre percorreva il deserto, vide venirgli incontro un leone dalla criniera possente. Pensò dapprima a un miraggio, poi, quando capì che la bestia era reale, fu certo di morire. Si ricordò allora di aver letto nei libri che il leone si compiace dei complimenti e perdona chi lo adula.

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Primoincanto crollò con le ginocchia a terra e disse:

– Signore della foresta, sultano delle fiere, valoroso combattente, io sono solo un povero innamorato che vaga per amore. Abbi pietà di me.

Il leone cominciò a scherzare con lui con le zampe e la coda, poi, avvicinatosi, leccò il volto del cavaliere. Prese a camminare davanti a lui, voltandosi ogni tanto per farsi seguire. Lo condusse fino a un monte, dove Primoincanto riconobbe il passaggio di una carovana. Nel suo cuore si riaccese la speranza: che fossero proprio i segni del passaggio di Primarosa? Inseguì le tracce sempre assieme alla bestia, finché, raggiunta una spiaggia, vide le orme sparire.

– Hanno preso il mare! – esclamò il cavaliere. Poiché ogni speranza si perdeva fra le onde, cadde a terra svenuto.

Il leone allora si avvicinò e lo afferrò per le vesti, lo trascinò fino a una grotta e lo abbandonò di fronte all’uscio. Nella caverna viveva da vent’anni, in perfetta solitudine, un monaco eremita. Quando aprì l’uscio e si trovò di fronte il giovane moribondo, si prese cura di lui fin quando il cavaliere si svegliò.

– Come ti chiami? – domandò il monaco. – E perché sei venuto in questo posto?

Dopo che Primoincanto ebbe raccontato la sua storia dal principio alla fine, l’eremita provò gran pena e disse:

– In molti anni non è mai passato nessuno di qui. Ma solo alcuni giorni fa ho udito pianti e clamori, e ho veduto numerose persone e tende piantate sulla spiaggia. Hanno

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preso il mare, poi la nave è tornata ed è stata demolita. Ho domandato perché e mi hanno risposto che “era necessario per impedire a chiunque di raggiungere una fanciulla”.

Allora il cuore di Primoincanto palpitò di giubilo e dolore allo stesso tempo: giubilo poiché comprese di essere sulla strada giusta e dolore poiché non sapeva come proseguire il viaggio.

L’eremita abbracciò il cavaliere e gli disse:

– Stanotte pregherò per te e consulterò Iddio su ciò che devi fare. Tu nel frattempo prosegui il tuo riposo nella mia grotta.

L’indomani, il monaco condusse Primoincanto nei pressi di una collina e gli disse:

– Scendi a valle, laggiù, e portami fibra di palma. C’è anche una pianta di zucca: metti in questi sacchi tutte le zucche che puoi raccogliere e portami anche quelle.

Il cavaliere obbedì e, quando tutto fu portato, il monaco intrecciò la fibra per farne delle corde, quindi costruì una zattera legando le zucche.

– Ora cogli il vento propizio che Iddio vuole donarti –disse l’eremita.

Il cavaliere calò la zattera in mare, salì a bordo e si lasciò trasportare dalla corrente. Galleggiò sugli abissi marini, tra le onde che lo sospingevano verso l’ignoto, finché dopo tre giorni e tre notti, approdò su una terra all’apparenza aspra e selvaggia, dove si ergeva un monte. Si finse naufrago e domandò ad alcuni pescatori in quale paese fosse capitato.

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Si trovava alle pendici del Monte della Madre Orbata, detto così poiché nei tempi antichi una femmina di genio si era innamorata di un mortale e l’aveva condotto lì, in una grotta della montagna, per proteggerlo dall’ira dei geni suoi fratelli, facendogli visita in gran segreto. La creatura immortale ebbe da lui molti figli, ma fu costretta a lasciarli nella grotta, dove poteva tornare solo di tanto in tanto. Così, tutti i naviganti che passavano presso quel luogo, quando sentivano i pianti e i lamenti struggenti, si chiedevano se vivesse da quelle parti una madre orbata, ossia privata dei propri figli.

Dopo un viaggio lungo e travagliato, senza sapere ancora che era approdato proprio nel luogo dov’era stata condotta Primarosa, il cavaliere Primoincanto, si pose in cammino e raggiunse un poderoso castello. Si presentò alla porta e la trovò serrata, ma dopo una lunga attesa ne vide uscire uno schiavo. Quando questi vide Primoincanto seduto là, sfinito e malridotto, gli domandò:

– Da dove vieni e perché sei qui?

– Sono un mercante – rispose il cavaliere mentendo, – la nave è naufragata e le onde mi hanno portato su quest’isola.

Lo schiavo lo invitò a entrare nel castello.

Il cavaliere attraversò corridoi sontuosi e finemente decorati, dove si intrattenne ad ammirare degli uccelli variopinti racchiusi in alcune gabbie. Quindi domandò allo schiavo che non lo aveva mai lasciato solo:

– Che castello è questo? Di chi è?

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– Lo fabbricò un Visir chiamato Ibrahim, del regno di re Shamik, per proteggere sua figlia dal rischio dell’amore – rispose lo schiavo. – L’ha rinchiusa qui dentro con il suo seguito e dovrà restare segregata per un anno almeno.

A quelle parole, il cuore di Primoincanto si spalancò dalla commozione: aveva dunque raggiunto la meta!

Intanto, Primarosa, ignara dell’arrivo dell’amato cavaliere, si stava consumando dal dolore; non mangiava e non dormiva più e aveva deciso di porre rimedio al suo destino: dopo aver raccolto dalle sue stanze tutti i drappi, le sete e i broccati, li portò sulla cima del castello, ne fece una corda solidissima che fissò per bene alla merlatura della fortificazione, e si calò giù. Camminò attraverso una selva fittissima e raggiunse una spiaggia dove un pescatore stava ormeggiando la propria barca.

Barattò l’anello adornato di gemme per un passaggio e sebbene non sapesse dove andare, domandò all’uomo di essere portata il più lontano possibile. Il pescatore accettò ma durante la navigazione una terribile tempesta li spinse lungo una traiettoria imprevista. La violenza del vento durò per tre giorni e quando tutto finalmente si placò, raggiunsero un’isola sconosciuta. Ormeggiarono nella città governata dal re Dirbàs, che in quel momento passeggiava lungo il porto. Quando vide la ragazza capì, dalle vesti e i gioielli che indossava che si trattava di una dama di alto lignaggio. La invitò quindi al suo palazzo.

– Da dove vieni? Di chi sei figlia? – domandò il sovrano alla fanciulla.

– Sono figlia di Ibrahim, Visir del re Shamik, e mi trovo qui per causa di un fatto straordinario.

Tra le lacrime, Primarosa raccontò la sua storia per filo e per segno.

Il sovrano Dirbàs, commosso dalla vicenda della fanciulla, decise di aiutarla: convocò il suo Visir e gli ordinò di organizzare una spedizione verso il reame di re Shamik.

– Gli porterai grandi ricchezze da parte mia e gli dirai che il tuo re desidera imparentarsi con un cavaliere del suo regno chiamato Primoincanto. Ecco: digli che voglio dargli in mano mia figlia e che quel giovanotto deve venire qui, assieme a te, così i due giovani potranno ricongiungersi. E bada bene – aggiunse re Dirbàs, – se non mi porti Primoincanto, ti sospenderò da ogni incarico!

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– Obbedisco! – rispose il Visir intimorito. E partì alla volta del reame di re Shamik con i regali.

Dopo il lunghissimo viaggio, giunto al cospetto del re consegnò i doni e il messaggio, ma re Shamik poté solo rispondere:

– Torna dal tuo sovrano e digli che il cavaliere Primoincanto è scomparso da molto tempo, nessuno sa dove sia andato. Anzi, poiché era un valoroso cavaliere, se me lo riporti qui ti darò esattamente il doppio dei regali che mi ha mandato il tuo re.

– Ma se torno nel mio regno senza il cavaliere, sarò punito – si lamentò il Visir di re Dirbàs.

– Sta bene. Vorrà dire che ti darò una scorta e il mio Visir Ibrahim partirà con te. Insieme, andrete a cercare Primoincanto in ogni luogo, finché non l’avrete ritrovato –concluse secco re Shamik.

Messi alle strette, i due Visir partirono con un ricco seguito e poche speranze. Lungo il cammino incontrarono beduini, mercanti, marinai e altre genti e a ciascuno domandavano se avessero incontrato un cavaliere fatto così e così, con tali connotati, chiamato Primoincanto; man mano che percorrevano villaggi e città, valli e deserti, non smettevano di interrogare persone, finché giunsero alle pendici del Monte della Madre Orbata e da lì al castello che aveva fatto erigere il Visir Ibrahim.

Picchiarono alla porta e ne uscì uno schiavo che, quando riconobbe il suo padrone, gli baciò le mani.

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Nel cortile, trovarono un uomo, che era proprio Primoincanto, ma non lo riconobbero.

– Chi è costui e da dove viene? – domandò il Visir Ibrahim.

Il cavaliere rispose:

– Sono un mercante, ma a causa di un naufragio ho perso tutte le mie ricchezze. Quand’ero ormai in fin di vita mi hanno accolto nel castello.

Il Visir non ebbe nulla da obiettare e iniziò a perlustrare il maniero, ma non vi trovò traccia di Primarosa.

– Dov’è mia figlia? – domandò.

Le ancelle e gli schiavi abbassarono lo sguardo e risposero: – Non sappiamo dove sia, è scomparsa da qualche giorno, si è calata con una corda di stoffa legata ai merli del castello.

Infuriato e disperato, il Visir pianse tutte le sue lacrime, maledicendo la sorte dalla quale non si poteva fuggire. Quanto a Primoincanto, anche lui malediceva la sorte che per un soffio non gli aveva permesso di ricongiungersi alla sua amata. Era così addolorato che sembrava sul punto di morire e si comportava come un pazzo.

La situazione era davvero difficile: i due Visir non speravano più di trovare Primoincanto, il Visir Ibrahim poi soffriva anche per la perdita della figlia. In questo stato, il Visir di re Dirbàs domandò il permesso di congedarsi.

– Poiché non ha più senso proseguire il viaggio, tornerò al mio paese, non importa se sarò sollevato dall’incarico. Vi

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prego di concedermi, Ibrahim, il permesso di lasciare il castello con il mio seguito. E se non avete nulla in contrario –aggiunse, – porterò con me anche questo povero uomo, che il naufragio e la perdita delle sue ricchezze hanno reso quasi folle. Qui non avrà modo di ricongiungersi a nessuna flotta, mentre il mio paese è ricco di possibilità.

Il Visir Ibrahim non ebbe nulla da obiettare, così il Visir di re Dirbàs portò Primoincanto con sé.

Viaggiarono per giorni e giorni, finché arrivarono alla terra di re Dirbàs.

Il Visir domandò udienza al sovrano, ma questi, invece di riceverlo, mandò a dire con un editto che se Primoincanto non era stato ritrovato, il Visir non si doveva far vedere mai più in tutta la corte.

L’uomo provò una grande rabbia. Esplose in improperi rivolti a se stesso e alla cattiva sorte.

– Dunque voi siete alla ricerca del cavaliere chiamato così e così – domandò Primoincanto. – E perché mai?

Il Visir raccontò il motivo del suo incarico, e il cavaliere, che durante tutto il viaggio era sembrato moribondo, si rianimò.

– Oh Visir, non temere, prima di stasera Primoincanto sarà al cospetto del re!

– E dove si trova? – domandò il Visir.

– Dammi dei bei vestiti e conducimi da re Dirbàs. Te lo farò comparire davanti.

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Il Visir si presentò dal re assieme a colui che credeva essere un mercante rovinato e, prima che il sovrano desse ordine alle guardie di allontanarli, il cavaliere disse:

– Maestà, sono io Primoincanto! Il Visir ha portato a compimento il suo compito.

Il re, sbalordito, mandò subito a chiamare Primarosa per verificare se il giovane dicesse il vero. Quando i due innamorati, dopo tante sofferenze, poterono di nuovo riunirsi, tutti i presenti piansero di felicità.

Subito re Dirbàs mandò un messo da re Shamik per riferire che Primoincanto era stato ritrovato e per fare un resoconto su tutta la vicenda.

Il re Shamik se ne rallegrò moltissimo e fece preparare subito una carovana di cammelli, cavalli e uomini per andare a riprendere Primarosa e Primoincanto.

Al contrario di quanto temuto dal Visir Ibrahim e da sua moglie, re Shamik fu assai felice che i due giovani si sposassero.

Primoincanto e Primarosa vissero felici e sereni, amandosi sempre e rallegrando spesso la tavola del re.

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La storia del principe Ahmed e della fata Pari–Banù

Tanto tempo fa regnava sulle Indie un potente sultano che aveva tre figli: il primogenito si chiamava Hussain, il secondo Alì e il più giovane Ahmed. Il sovrano aveva preso sotto la sua protezione anche la nipote Nuronnihar, figlia del fratello, una fanciulla molto bella, rimasta orfana da bambina.

I quattro giovani crebbero in grande armonia e complicità e la ragazza era amata dal sultano come una figlia.

Quando la principessina raggiunse l’età da marito, il re pensò di darla in sposa a un principe degno del suo nome, così da stringere anche una prestigiosa alleanza politica, per cui fu per lui un vero colpo al cuore scoprire che i suoi tre figli erano innamorati della cugina e che ciascuno di loro l’avrebbe voluta in moglie.

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Il sultano comprese che sarebbe stato impossibile trovare un accordo pacifico, così, poiché era molto saggio e voleva essere imparziale, propose ai figli una soluzione:

– Ragazzi miei, poiché amate Nuronnihar allo stesso modo, vi darò un cavallo e del denaro: voi avrete un anno di tempo per girare il mondo, e chi di voi riporterà dal viaggio l’oggetto più curioso, la stramberia più bizzarra e meravigliosa, avrà in sposa la ragazza.

I tre principi trovarono la proposta ragionevole e, pochi giorni dopo, senza abiti regali e accompagnati ciascuno solo da un servo, con la medesima somma di denaro nella borsa, salutarono il padre e lasciarono la città, dandosi appuntamento allo scadere esatto di un anno.

Il maggiore dei tre, Hussain, avendo a lungo sentito parlare dello splendore del regno di Bisnagar, si avviò verso il mare delle Indie e dopo un viaggio di circa tre mesi raggiunse la città, unendosi a diverse carovane. Qui si divertì tra le meraviglie e le attrazioni sparse tra i vicoli, le piazze e i mercati e scoprì le cose più incredibili che avesse mai visto: elefanti equilibristi, scimmie abili come giocolieri, fachiri e incantatori di serpenti. Una mattina, mentre vagava tra i banchi del mercato, notò un banditore che vendeva, per quaranta monete d’oro, un tappeto piuttosto malridotto.

– Che ha di speciale quel tappeto da valere così tanto? –domandò Hussain al venditore.

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– Oh, signore, quest’oggetto non ha eguali in tutto il mondo e vale assai più del suo prezzo! È un tappeto volante e può trasportare un uomo, in un batter d’occhio, in qualsiasi posto voglia andare.

Incredulo, Hussein chiese di avere le prove e il banditore non si tirò indietro.

– Salite a bordo e pensate a un posto, signore.

– Qualsiasi posto? Va bene anche la casa dove ho trovato alloggio?

F iu u u u u . . .

Il tappeto si levò in volo, il banditore vi saltò sopra, afferrò Hussain e in un battibaleno furono di fronte all’abitazione del giovane.

Hussein capì che non avrebbe trovato una simile meraviglia in nessun altro posto del mondo, pagò volentieri le quaranta monete d’oro, vi aggiunse un premio per il banditore e si portò a casa il tappeto. Si fermò ancora a lungo a Bisnagar e, quando fu il momento di partire, salì sul suo tappeto.

Raggiunto il regno del padre, attese il rientro dei fratelli, sicuro che, qualsiasi oggetto avessero riportato dal viaggio, non avrebbe potuto competere con il tappeto volante.

Il secondogenito Alì, dopo un viaggio di circa quattro mesi in compagnia di una carovana di mercanti, raggiunse finalmente Shiraz, allora capitale del regno di Persia. Su consiglio dei compagni di viaggio, appena arrivato visitò il quartiere dove si vendevano le gioie, i lavori d’oro e d’argento,

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i broccati, le sete e le merci più rare e preziose. Rimase incantato da tanta meraviglia e vi tornò ogni giorno per cercare un oggetto straordinario, degno della sua missione.

Una mattina, tra i tanti banditori che andavano e venivano, si meravigliò non poco vedendone uno che teneva in mano un tubo d’avorio. Lo vendeva per quaranta monete d’oro.

Non trovando finiture che giustificassero tal prezzo, il ragazzo domandò al venditore:

– Buon uomo, che ha di speciale quel tubo di avorio?

– Signore, non troverete un oggetto di pari meraviglia in tutto il mondo e converrete che il prezzo è ben poca cosa di fronte al prodigio di cui è capace.

– Che prodigio?

– È un cannocchiale magico, signore. Basta guardare dentro il tubo per vedere chi volete voi, ovunque sia.

Il giovane volle provare e, dopo che il mercante gli ebbe insegnato il funzionamento, poté scorgere il sultano suo padre, seduto sul trono in perfetta salute. Poi, non avendo persona più cara al mondo della principessa Nuronnihar, desiderò vederla e la scorse seduta alla toletta, circondata dalle ancelle.

Alì non ebbe bisogno d’altra prova per convincersi che quel tubo fosse la cosa più preziosa che esistesse, non solo nella città di Shiraz, ma in tutto l’universo. Fece i bagagli e l’indomani ripartì alla volta del regno delle Indie, dove rimise piede dopo altri quattro mesi di viaggio.

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Riabbracciati il padre e il fratello, attese assieme a loro il rientro dell’ultimogenito.

Il principe Ahmed, per il suo viaggio, aveva preso la via di Samarcanda. Appena giunto, come avevano fatto i suoi fratelli, andò a visitare i famosi mercati dove si scambiavano merci provenienti da tutti i paesi. Vi trovò un mercante che vendeva, per quaranta monete d’oro, una semplice mela artificiale.

Ahmed fermò l’uomo e gli chiese:

– Che cos’ha di speciale questa mela per costare così tanto?

Il venditore diede l’oggetto in mano al ragazzo, affinché lo guardasse bene.

– Signore – disse, – questo pomo è poca cosa a vederlo; ma per le sue virtù straordinarie si può dire che non abbia prezzo.

– Quali virtù?

– Questo frutto guarisce tutte le malattie. Usarlo è facile, basta farlo fiutare al malato.

– Se fosse vero – riprese Ahmed, – la mela non avrebbe prezzo; ma come posso credere che non vi sia inganno nelle vostre parole?

– Signore – rispose il mercante, – la cosa è nota in tutta la città di Samarcanda. La mela fu inventata da un alchimista che vi mise dentro una miscela segreta di erbe. Morì di una morte istantanea che non gli diede il tempo di usare

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l’invenzione. La vedova, trovandosi in condizione di bisogno, è ora costretta a venderla.

Mentre l’uomo decantava le virtù del pomo, parecchie persone si fermarono ad ascoltare e tutte confermarono le prodigiose proprietà dell’oggetto.

Ahmed, che non era un credulone, volle metterlo alla prova. Il suo servo si era ammalato durante il viaggio ed era consumato da una febbre fortissima. Raggiunsero quindi l’alloggio e gli fecero annusare la mela: ebbene, il servo si sentì subito meglio e guarì in pochi minuti!

Il principe non volle perdere tempo e, concluso l’affare, certo che mai avrebbe trovato un oggetto di pari meraviglia, ripartì con la prima carovana per tornare alle Indie.

Allo scadere esatto dell’anno, i tre fratelli si ritrovarono al cospetto del sultano e si riabbracciarono con grande tenerezza. Arrivò quindi il momento di mostrare al padre gli oggetti riportati dal viaggio. Di fronte a un tappeto volante, a un cannocchiale magico e a un pomo miracoloso, l’uomo non sapeva che cosa scegliere.

– Figlioli, poiché tutti voi avete superato la prova portando con voi meraviglie eccezionali in egual misura, mi vedo costretto a trovare un altro modo per decidere chi di voi sposerà Nuronnihar – osservò il sultano. – Vorrà dire che andremo nella grande pianura degli esercizi dei cavalli, dove riceverete arco e freccia. Chi di voi farà il tiro più lungo sarà il vincitore.

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I tre principi non ebbero nulla da ridire. Raggiunsero il luogo della prova con tutta la corte al seguito. Il principe Hussain, come primogenito, tirò per primo e la sua freccia volò molto lontano. Alì riuscì a tirare ancora più lontano del fratello e la folla salutò il suo tiro con un’esclamazione di sorpresa. Ora toccava ad Ahmed.

Il ragazzo tese l’arco, puntò la freccia verso l’alto e la scoccò, ma essa sparì nel cielo e nessuno la vide ricadere. Il sultano e i suoi ministri corsero lungo il campo per cercarla; partirono persino degli uomini a cavallo per rintracciare la freccia, ma nessuno riuscì a ritrovarla.

Sembrava proprio che Ahmed avesse lanciato il dardo più lontano di tutti, ma era pur vero che per rendere la cosa sicura, la freccia doveva essere ritrovata. Al calar del sole, perduta ogni speranza, il sultano poté solamente annunciare che Alì era il vincitore: la mano di Nuronnihar sarebbe dunque andata al secondogenito.

A tale notizia, il figlio maggiore abbandonò il reame e preferì andare a vivere da eremita in una comunità di monaci. Il figlio minore invece, mortificato di veder l’amata andar in sposa al fratello, incapace di rassegnarsi, per non avere nulla da recriminarsi si mise alla ricerca della freccia scomparsa.

Raggiunse il posto dov’erano state raccolte le frecce dei fratelli e da lì, passo dopo passo, si spinse assai lontano fino a raggiungere una parete rocciosa, ai piedi della quale ritrovò il dardo.

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– Ecco la mia freccia! – disse il principe. – Ma nessun uomo avrebbe la forza di lanciare la freccia a una tal distanza. Qui c’è sotto un mistero...

Ahmed si inoltrò verso la parete rocciosa e vide una porta di ferro. Pensò di trovarla chiusa ma quando vi posò sopra il palmo della mano l’uscio si aprì. Il ragazzo mosse qualche passo nelle tenebre con il dardo in mano puntato come un’arma, quando di fronte ai suoi occhi si aprì una piazza luminosissima, con al centro un palazzo.

Incantato dalla meraviglia, il principe avanzò tra cortili e porticati ed entrò nella stanza più sontuosa che avesse mai visto. Raggiunto un salotto, vide una donna splendida sdraiata su un sofà ricolmo di cuscini.

– Buongiorno principe – disse la donna, – il mio nome è Pari-Banù e sono la figlia di uno dei geni più potenti del mondo. Non siate meravigliato di vedermi. Sono io che, travestita da mercante, ho venduto a vostro fratello Hussain il tappeto volante, ad Alì il tubo d’avorio e, a voi stesso, il pomo guaritore. E sempre io ho spinto la vostra freccia così lontano, fino alle soglie del mio regno. Vi conosco molto bene poiché vi osservo segretamente da molti anni e mi sembrate degno di una sorte più felice di quella di prendere in moglie la principessa Nuronnihar.

La fata Pari-Banù usò parole incantevoli e invitò il principe a visitare il palazzo e la sua corte. I due parlarono per lungo tempo e risero in compagnia di musici e poeti, poi banchettarono e il tempo passò senza che Ahmed se ne accorgesse, deliziato com’era dalla presenza della bellissima giovane. Un po’ alla volta si innamorò di lei.

– Signora – le disse allora Ahmed, – se potessi restare qui nella vostra corte come schiavo, sarei comunque il più felice degli uomini.

– Caro principe – rispose la fata, – non è in qualità di schiavo che io vi accetto alla mia corte, ma come padrone di tutto ciò che mi appartiene, se vorrete sposarmi.

Ahmed sposò la fata Pari-Banù e i due, per lungo tempo, vissero felici nel palazzo dentro la montagna. Dopo qualche tempo, il principe, che amava molto suo padre, decise di fargli sapere che era ancora vivo e che stava bene. Domandò quindi alla fata il permesso di andare a trovarlo.

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La moglie acconsentì a patto che non rivelasse a nessuno del matrimonio e del passaggio segreto nella roccia che conduceva al loro palazzo. Fece poi accompagnare il principe da quaranta cavalieri, con le vesti intrecciate di fili d’oro finissimo e gemme preziose, così da mostrare al sultano delle Indie tutta la magnificenza della sua condizione. Lo pregò quindi di ritornare presto.

Non essendo lunga la strada che conduceva alla capitale, Ahmed impiegò poco tempo per raggiungere la città. Non appena vi fu entrato, il popolo lo accolse con acclamazioni, accompagnandolo fino all’appartamento del sultano. Il padre lo ricevette a braccia aperte, lagnandosi solo del dolore che aveva provato durante la sua lunga assenza. Ahmed fu di parola e dopo pochi giorni tornò da PariBanù.

– Ora sono sicura del tuo amore per me perciò ti concedo di far visita a tuo padre una volta al mese – gli disse.

Alla corte del sultano, nel frattempo, il Visir, invidioso della sorte che era toccata al principe Ahmed, cominciò a insinuare nella mente e nel cuore del re alcuni sospetti.

– Maestà, vostro figlio si rifiuta di fornirci informazioni su dove abita e quale sia la fonte della sua misteriosa ricchezza. Inoltre, avete notato che ogni volta che egli torna a palazzo accompagnato dai suoi cavalieri, questi hanno abiti immacolati, invece che sporchi per il viaggio?

– Cosa vorresti dire, Visir?

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– Oh, nulla sire. Solo… non vorrei che dopo la delusione delle mancate nozze con Nuronnihar vostro figlio stia tramando contro il nostro reame e abbia stretto alleanza con qualche paese qui vicino, nostro nemico.

Il sultano non lo diede a vedere, ma nel suo cuore entrò l’ombra terribile del sospetto, quindi convocò segretamente una maga che seguì la carovana di Ahmed fino alla parete rocciosa, dove la vide sparire.

Poiché sapeva che il principe faceva visita al padre una volta al mese, allo scadere del tempo la donna tornò nei pressi della montagna: vide allora ricomparire puntuale la carovana del principe, senza poter capire da dove fosse uscita, poiché le rupi formavano una barriera invisibile a tutti, a eccezione degli ospiti graditi alla fata.

La maga allora, al passaggio della carovana, finse di essere una viandante gravemente ammalata: si stese a terra e iniziò a lamentarsi forte. Quando il principe, mosso a compassione, le domandò chi fosse e che malattia avesse, la donna rispose con parole interrotte, quasi potesse appena respirare, di essere partita di casa per andare in città ma che una febbre violenta l’aveva assalita e, perdute le forze, era stata costretta a fermarsi lì, lontano da tutti, senza nessun aiuto.

– Buona signora – disse Ahmed, – non siete lontana da chi può darvi soccorso. Vi prego di accettare il mio aiuto.

Detto questo, la caricò in groppa al suo destriero, imboccò il sentiero fra le rocce da cui era appena arrivato e la condusse all’interno del palazzo della fata.

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Fu così che l’astuta maga, con sua immensa sorpresa, conobbe il segreto di quel luogo.

Quando Pari-Banù vide la donna, ebbe un brutto presentimento, ma non poté negarle le cure: la consegnò ad alcune ancelle e ordinò loro di farle bere alcuni sorsi d’acqua della Fonte dei Leoni, che guariva qualsiasi malattia. La maga, che aveva ormai appagato la propria curiosità su dove dimorasse il principe, quasi si dimenticò di fingersi ancora malata; a maggior ragione, dopo che ebbe bevuto, poté mostrarsi guarita del tutto. Chiese allora di poter lasciare il palazzo per proseguire il suo viaggio.

La donna tornò in tutta fretta al palazzo del sultano, dove nel frattempo era giunto anche il principe Ahmed e chiese di essere ricevuta dal sultano.

– Maestà, ho veduto con i miei occhi! – esclamò quando fu al cospetto del re. – Vostro figlio dimora in un palazzo incantato all’interno della montagna! E sua moglie è una creatura magica, la più magnifica e temibile sia mai apparsa nel nostro regno!

Confuso e sbalordito, il sultano domandò consiglio ai suoi ministri su cosa fare.

– Bisogna imprigionare il principe per impedirgli di incontrare di nuovo la fata! – propose il Visir, sempre più invidioso. – A nulla varrebbero i nostri soldati contro i poteri magici di quella creatura del demonio!

– Ma Visir, per quale motivo, mio figlio, che ho sempre tanto amato, dovrebbe farmi del male?

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– Per prendere il vostro posto, maestà! – insistette l’uomo.

– Io ho fiducia nella buona fede di Ahmed – disse il sultano. In cuor suo, però, i sospetti inculcati dal maligno consigliere lo facevano dubitare.

– La buona fede deve essere messa alla prova – suggerì allora la maga.

– E come? – domandò il re.

– Se imprigionassimo il principe, scateneremmo di certo il malumore della fata e potrebbe schierarci contro il suo esercito di geni. È meglio pungere il principe sul lato dell’onore e metterlo alla prova chiedendogli di soddisfare una richiesta impossibile, che solo con l’aiuto della fata potrebbe portare a compimento.

Il re, sempre più confuso, si convinse e mandò a chiamare il ragazzo.

– Figlio mio – disse, – il vostro ritorno a casa mi rallegra ogni volta. Sebbene non abbiate sposato vostra cugina Nuronnihar, vedo che siete felice della vostra condizione. Per rispetto non ho mai voluto penetrare il vostro segreto, come mi avete pregato. Tuttavia, finalmente conosco la ragione della vostra felicità. Me ne rallegro e approvo il vostro matrimonio con la donna che amate, come ho saputo da una buona fonte. La fata che avete sposato è così ricca e potente che non avrei potuto procurarvi un matrimonio migliore. Tuttavia, sono pur sempre vostro padre – proseguì il sovrano schiarendosi la voce con due colpetti

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di tosse per l’imbarazzo – e mi farebbe comodo la vostra intercessione per… ottenere assistenza dalla fata quando se ne presentasse il bisogno.

– Cosa intendete dire, padre?

– Intendo dire, ehm… che vorrei mettere alla prova l’amore di vostra moglie chiedendovi una cortesia. Una sciocchezza, una cosa da poco…

– E quale?

– Orbene, sapete che gran fatica sia ogni volta spostarmi con le mie truppe. Mi sarebbe assai gradito un padiglione tanto grande da offrire riparo a tutti i miei soldati, ma da tenere comodamente sul palmo di una mano, così da trasportarlo senza fatica.

– Un padiglione così grande e così piccolo allo stesso tempo? – domandò incredulo Ahmed.

– Ebbene sì! – rispose il re. – E bada bene che se la fata tua moglie non dovesse adempiere alla richiesta, vuol dire che tiene ben poco conto della tua famiglia.

Per la prima volta, Ahmed tornò al palazzo di Pari-Banù con la tristezza nel cuore.

– Marito mio, la visita da vostro padre non è andata bene? – domandò la fata.

Ahmed confidò quanto accaduto e ogni cosa sembrò confermare il cattivo presentimento della moglie.

L’assurda richiesta era però poca cosa di fronte ai poteri di Pari-Banù che, nel tempo di un sospiro, costruì un padiglione pieghevole grosso come una moneta.

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Una volta aperto, diventava un sontuoso edificio riccamente decorato, con tanto di porticato e cortile.

Pieno di gratitudine, Ahmed baciò la sposa e partì alla volta del reame delle Indie per consegnare il dono al padre. Il sultano ne fu commosso, ma con l’animo in subbuglio a causa dei perfidi consiglieri, volle rimettere alla prova la buona fede del figlio.

– Figlio mio, chiedi alla tua sposa una brocca ricolma dell’acqua della Fonte dei Leoni, che tutto può guarire. Se non l’avrò, vorrà dire che la fata non prova l’amore che dici, né per te né per la tua famiglia.

Ancora una volta, Ahmed tornò dalla moglie molto rattristato, ma la buona fata lo consolò.

– Marito mio, v’insegnerò io come prendere l’acqua della Fonte – disse. – Procuratevi una grossa bestia da macello e dividetela in quattro parti. Poi, offrite una parte a ciascuno dei quattro leoni che vegliano sulla Fonte. Questi vi faranno passare; allora prendete l’acqua e tornate indietro senza voltarvi mai.

– Ma come farò a trovare il luogo della Fonte? – domandò il principe.

– È presto detto. Vi faccio dono di questo gomitolo –rispose la fata afferrandone uno dalla cesta dei ricami. – Gettatelo davanti a voi e seguitelo man mano che si dispiegherà.

Ahmed fece quanto gli aveva consigliato la moglie. Prese l’acqua risanatrice e la portò a suo padre.

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Il re abbracciò il figlio, poi gli disse:

– Figliuolo, vi sono grato per il regalo e per il pericolo che avete corso per amor mio, ho un’ultima preghiera da farvi, dopo la quale non avrò più nulla da pretendere né da voi, né da vostra moglie.

Ahmed sentì il cuore incrinarsi, ma abbassò la testa e rispose:

– Non avete che da chiedere, padre.

– Vorrei che mi portaste un nanetto, alto non più di un piede e mezzo, con la barba lunga trenta piedi, che sia capace di portare sulle spalle una stanga di ferro di cinquecento libbre.

– Ma padre, una creatura del genere non esiste.

– Allora chiedi alla fata di trovarla!

Ahmed tornò dalla moglie che, quando apprese della nuova bizzarra richiesta, rispose:

– Marito mio, non avete nulla da temere perché questa creatura esiste ed è mio fratello Shaibar, un genio potente. Ma vi avverto: ha un’indole così violenta e sanguinosa che nulla può trattenerlo quando si offende. Voi, però, non avete da temere perché Shaibar prova grande affetto per me e farà tutto ciò che gli domanderò.

Pari-Banù fece portare dalle ancelle un braciere e vi sparse sopra dell’incenso. Dal fumo scuro prese forma una figura dal viso torvo, alta un piede e mezzo, con una barba nera così lunga, da tenerla tutta arrotolata su se stessa e poi puntata con un nastro decorato di pietre preziose. Sulle spalle reggeva un poderoso bastone di ferro del peso di

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cinquecento libbre, dal quale non si separava mai e che usava per farsi rispettare.

Se Pari-Banù non avesse avvertito Ahmed, il principe sarebbe scappato a gambe levate, tanto quella creatura sembrava spaventosa.

– Caro fratello, questo è il principe Ahmed, il mio sposo, e ha bisogno di te – disse la fata. Allora Shaibar volse ad Ahmed uno sguardo meno feroce e il principe si sentì sollevato.

– Sorella – rispose il nano – egli non ha che da chiedere. Basta che sia tuo marito per obbligarmi a compiacerlo in tutto ciò che desidera.

– Il sultano suo padre – riprese Pari-Banù – ha la curiosità di vedervi; vi prego dunque di accompagnarlo al palazzo.

– Vada avanti – riprese Shaibar, – io sono pronto a seguirlo.

Durante il viaggio, Shaibar venne informato delle bizzarre prove cui il sultano e la sua corte avevano sottoposto il principe Ahmed. Quando giunsero nella città, tutti quelli che videro il genio furono colti da terrore e scapparono chiudendosi dietro le porte e le finestre di case e botteghe. Persino le guardie del palazzo reale fuggirono, chi da una parte, chi dall’altra, lasciando così libero l’ingresso. Il principe e Shaibar poterono inoltrarsi indisturbati fino alla sala del consiglio, dove il sultano era riunito assieme ai ministri che avevano tramato contro Ahmed.

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Raggiunto il cospetto del re, Shaibar si avvicinò fieramente al trono, senza attendere nemmeno che Ahmed lo presentasse e si rivolse al sultano delle Indie.

– Tu mi hai domandato. Eccomi. Che vuoi da me?

Allora il sultano, assai spaventato dalla creatura, si coprì gli occhi con le mani.

– Sei dunque tu – proseguì Shaibar, – l’incontentabile sovrano che sottopone il figlio a prove impossibili? Perché lo fai? Vuoi forse scatenare l’ira della fata, sua moglie, e trovarti contro un esercito di geni?

– No, no! – disse il sultano con una vocina sottomessa.

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– La tua condotta non è degna di un re! – proseguì Shaibar. – O forse sei stato mal consigliato? – domandò brandendo il bastone di ferro verso il Visir e tutti i ministri.

– No, no! – risposero questi in coro, indietreggiando.

– Bada bene a te, re! Ti prometto che mi vendicherò su di te e su tutta la corte se il principe mio cognato non sarà lasciato in pace. È chiaro?

– Sì, sì! – esclamarono insieme il sultano, il Visir, i ministri e tutti i presenti.

Allora Shaibar sollevò la pesante arma di ferro e sferrò un possente colpo ai marmi del pavimento, mandandoli in frantumi, per essere certo che tutti avessero compreso bene il suo messaggio.

Da quel giorno il principe Ahmed e la fata Pari-Banù vissero felici e contenti. Ogni volta che il giovane tornava nel regno delle Indie, il padre, che aveva licenziato il Visir e tutti i perfidi consiglieri, passò assieme al figlio del tempo incantevole.

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Epilogo

Dopo quel lungo tempo trascorso a raccontare storie ogni notte per il suo re, dopo avergli cantato novelle d’amore, d’incanto e d’amicizia, Shahrazàd ebbe l’impressione di scorgere una luce nuova negli occhi del marito, il re Shahriyàr. Nel frattempo, dalla loro unione erano nati tre figli maschi: il più grande camminava già, mentre il più piccolo era ancora in fasce. Così, la fanciulla, una mattina poco prima dell’alba, dopo aver terminato la sua narrazione, domandò:

– Maestà, è da mille e una notte che vi racconto storie piene di insegnamenti preziosi, posso esprimere un desiderio?

– Non hai che da domandare, Shahrazàd.

– Vi chiedo la grazia di risparmiarmi la vita. Se non potete farlo come ricompensa del tempo trascorso assieme, fatelo almeno per i nostri figli, affinché non restino senza mamma.

Allora il sovrano si commosse, mandò a chiamare i bambini e dopo averli stretti al petto disse:

– Grazie a te, Shahrazàd, ancor prima che nascessero questi bambini ho compreso il mio errore. Le storie che mi hai raccontato sono specchio della tua anima saggia e sincera, per questo io ti amo.

Re Shahriyàr convocò ministri e consiglieri e ordinò che tutto il regno venisse parato a festa per trenta giorni: per le vie e le piazze furono suonati flauti e tamburi e sparsi petali di fiori. Nessuno ricordava una festa così grande, in nessun tempo. L’uomo che aveva ucciso molte mogli era tornato a essere il sovrano di un tempo, amato e rispettato.

Da quel giorno, egli regnò con saggezza per lunghi anni felici e visse con la sua regina una vita piena e beata.

Prefazione

La storia di Shahrazàd

La storia del bue e dell’asino

La storia di Alì Babà e i quaranta ladroni

La storia del pescatore e il genio

La storia del principe Qamar e della reginetta Budur

La storia del cavallo d’ebano

La storia di Sindbad il marinaio

Primo viaggio

Secondo viaggio

Terzo viaggio

Quarto viaggio Quinto viaggio Sesto viaggio

Settimo viaggio

La storia dei tre pomi

La storia di Aladino e la lampada meravigliosa

La storia del cavaliere e la figlia del Visir

La storia del principe Ahmed e della fata Pari-Banù

Epilogo

5 9 18 23 38 45 58 69 71 74
138 157
78 84 90 95 100 106 112 125
INDICE

Il libro continua online...

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Lemilleeunanotte Scopri gli altri titoli della collana sul sito

Autoridell’antica tradizione orientaleLemilleeunanotte ISBN978-88-472-3260-0

Esente da I.V.A. (D.P.R. 26-10-1972, n° 633, art. 2 lett. d).

copia di SAGGIO-CAMPIONE, GRATUITO, fuori commercio. I CLASSICI

Una selezione delle più belle novelle orientali basate sulle antiche storie della tradizione mesopotamica, egiziana, persiana e indiana, raccontate dalla principessa Shahrazàd al suo sposo durante molte notti di veglia. Attraverso la narrazione, Shahrazàd riesce a calmare l’ira di suo marito e a suscitare il suo amore. Ricchi di magia e di avventura, di personaggi meravigliosi come Simbad il marinaio o Aladino, da sempre questi racconti incantano e avvincono i lettori.

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