Il rumore del silenzio

Page 1

"Il

"

Rumore del Silenzio

Voci di Milano

Le Autori:

Emanuela Baio Michele Carruba Mario Pappagallo

tempo del Coronavirus

al

Con il Patrocinio di:



Q

uella sensazione d'essere contemporaneamente solo, come lo siamo tutti, al cospetto dell'Altissimo, eppure di esprimere la voce della preghiera di milioni di voci, mi ha profondamente colpito e commosso. L'amore è un dono. Farlo fluire è scopo primario della stessa vita. E con la vita, ancora una volta, mi trovo in debito. La gratitudine va a chi ha concepito questa opportunità, il Comune di Milano e il Duomo, ed a tutti coloro che hanno accolto l'invito e si sono uniti in un abbraccio planetario, raccogliendo quella benedizione del Cielo che ci restituisce coraggio, fiducia, ottimismo, nella certezza della fede." Andrea Bocelli Duomo di Milano 12 Aprile 2020


Q

uesto libro è dedicato alle donne e agli uomini di Milano e di tutta Italia, impegnati nella lotta a una pandemia virale devastante, moderni eroi che con il loro impegno, la loro umanità e con grande professionalità hanno lenito le sofferenze, le paure e i dolori, regalato sorrisi, speranze e certezze, dando al silenzio di questi giorni la forza dell’esempio, della solidarietà e del sostegno umano che è l’esatta dimensione di cosa è una comunità dove il bene comune è superiore alla somma dei singoli interessi. Gli Autori


"IL RUMORE DEL SILENZIO" Le voci di Milano al tempo del Coronavirus



N

“ ell’immediato la nostra priorità è proteggere la salute dei nostri cittadini e superare la pandemia CoViD-19. Tuttavia, mentre affrontiamo i devastanti effetti quotidiani di una crisi senza precedenti, dobbiamo anche guardare a come proteggeremo i nostri cittadini in futuro. Il modo in cui strutturiamo i nostri sforzi per la ripresa definirà le nostre città per i prossimi decenni. È nostra responsabilità di sindaci garantire che costruiremo solide fondamenta così che le nostre città possano apparire come luoghi più sani, equi e sostenibili in cui vivere.”

Giuseppe Sala Sindaco di Milano Chair Global Mayors COVID-19 Recovery Task Force, 16 Aprile 2020



G

“ uardiamo al futuro con speranza, come sempre bisogna fare, i dati incoraggianti degli ultimi giorni, raggiunti grazie al sacrificio collettivo, ci mettono sulla strada della ‘nuova normalità. Anche la nuova fase vedrà la Lombardia protagonista. Dimostreremo che il virus non ha fermato il motore del Paese. Che siamo pronti, che la Lombardia si rialza.”

Attilio Fontana Presidente della Regione Lombardia Festa della Libertà e della Democrazia, 25 Aprile 2020



N

“ oi abbiamo bisogno di gesti, cioè di relazioni, di abbracci, di carezze, di sguardi e di parole. Abbiamo bisogno di gesti, di stare vicini anche senza dire niente, di guardare negli occhi anche quando gli occhi sono persi, di avvicinarci per dire le parole che non abbiamo mai detto, per piangere le lacrime che non abbiamo mai pianto, per offrire e chiedere il perdono di cui noi soli conosciamo il perché, per dire una preghiera tenendosi per mano.”

Mario Delpini Arcivescovo di Milano Sagrato del Duomo di Milano, 20 Aprile 2020




INTRODUZIONE Emanuela Baio Michele Carruba Mario Pappagallo

PREFAZIONI Gabriele Rabaiotti - Assessore Politiche Sociali e Abitative, Comune di Milano Giulio Gallera - Assessore al Welfare di Regione Lombardia Elio Franzini, Magnifico Rettore e Marina Carini Prorettore dell'Università degli Studi di Milano Andrea Lenzi - Presidente Health City Institute e Presidente CNBBSV della Presidenza del Consiglio dei Ministri Don Giorgio Riva - C.D.A. Caritas Ambrosiana e Parroco Basilica Prepositurale di S.Eustorgio Federico Serra - Direttore Cities Changing Diabetes Italia

CAPITOLO 1 - La tragedia del COVID-19 Giuliano R. - Primario reparto infettivologia Massimo V. - Medico di Medicina Generale Fiorenza S. - Infermiera Marisa M. - Pensionata e persona con diabete

CAPITOLO 2 - Il timore, l'ansia, la solitudine Luigi V. - Parrucchiere Gianni R. - Agricoltore Andrea C. - Pensionato Donatella P. - Casalinga


Gianni M. - Bancario Laura B. - Docente universitario in pensione Valerio F. - Imprenditore Giada S. - Mamma di una ragazza con diabete

CAPITOLO 4 - Il quotidiano, il lavoro, il cambiamento Fausto G. - Ambulante Marco C. - Farmacista Maria N. - Pensionata Zaira R. - Impiegata

CAPITOLO 5 - La famiglia, gli affetti, i sentimenti AnnaMaria M. - Studentessa Sergio R. - Pensionato e persona con diabete Giorgia C. - Casalinga Eleonora G. - Atleta, olimpionica

CAPITOLO 6 - L'impegno, la solidarietà, il futuro Giacomo M. - Volontario della Croce Bianca Laura L. - Avvocato Iris Z. - Impiegata Patrizia P. - Pensionata

CONCLUSIONI Elio Franzini, Rettore dell'Università degli Studi di Milano

POSTFAZIONI Ketty Vaccaro, Direttore Welfare e Salute Fondazione CENSIS Livio Luzi, Presidente Comitato Scientifico Milano Cities Changing Diabetes e Professore di Endocrinologia dell'Università degli Studi di Milano

RINGRAZIAMENTI

Indice

CAPITOLO 3 - La fiducia, la speranza, l'ottimismo


Michele Carruba

Emanuela Baio Presidente Comitato per i Diritti e i Doveri delle persone con diabete

Presidente Comitato Esecutivo Milano Cities Changing Diabetes e Presidente Centro di Studio e Ricerca sull'Obesità (CSRO), Università degli Studi di Milano

Mario Pappagallo Direttore di URBES e Presidente di EUHCNET


Introduzione Racconti di vita e della memoria per meglio capire e per non dimenticare, ma soprattutto per contribuire a scrivere un pezzo di storia. Come ci ha insegnato Cicerone, ”historia lux veritatis, … magistra vitae”, proprio perché oggi più che mai abbiamo bisogno di recuperare la storia come luce della verità e maestra della vita. Il 20 febbraio il primo caso di coronavirus tutto italiano, a Codogno, in Lombardia. Scattano le zone rosse e in tutta la Regione un lockdown parziale con bar aperti fino alle 18, divieto di assembramenti, di contatti ravvicinati Poi il 12 marzo cala il silenzio sull’Italia, sulla Lombardia, su Milano: lockdown totale. All’inizio, prima della serrata totale, qualcuno non aveva preso sul serio il pericolo e ancora sfidava la sorte. Poi quando ogni milanese ha avuto nella sua cerchia familiare o degli amici almeno uno o più colpiti dal coronavirus, quando ha avuto un morto a cui dare l’addio in silenzio, anche fisico, allora angoscia e paura sono diventate tangibili e la capitale internazionale della moda, delle fiere affollate, degli incontri tra manager si è fermata. Il motore dell’economia italiana si è messo in folle. E il silenzio assordante è stato scandito solo dal “bollettino di guerra” del commissario della Protezione Civile. Ogni giorno, alle 18, come Radio Londra durante la Seconda Guerra Mondiale. Un bollettino tragico: in Lombardia in soli due mesi sono morti cinque volte i civili morti in 5 anni di Seconda Guerra Mondiale. A Milano persero la vita sotto i bombardamenti 2.000 civili in 5 anni. Oggi, molti di più per il coronavirus e in silenzio. Nel rumore del silenzio. Che accomuna le strade della città, le case dove si vive in isolamento, nei reparti di terapia intensiva dove solo il ritmo dei macchinari rompe l’assenza di voci, parole, urla. Ai tempi del coronavirus si cura in silenzio, si guarisce in silenzio, si muore in silenzio. Qualcuno comunque è costretto ad uscire per aiutare gli altri che debbono stare a casa. Nonostante le restrizioni, infatti, e le misure di sicurezza stabilite dai decreti governativi, molte persone a Milano sono costrette ad uscire. Ma in silenzio, sotto la mascherina e rispettando il distanziamento sociale, anche durante le lunghe file per fare la spesa. In generale si avverte un cambiamento diffuso, un’abitudine al silenzio, un esorcizzare angosce e paure progettando per un ritorno alla normalità che è oggi istinto di sopravvivenza. E anche le istituzioni, l’accademia, la sanità, a partire dagli operatori sanitari (spesso all’inizio letteralmente abbandonati a loro stessi) impegnati senza sosta in prima linea, organizzano il


presente, cercano di far tesoro degli errori, progettano un futuro di rilancio e recupero di energie ed economico. In questo contesto tante storie, anonime ma rappresentative di molti, storie di silenzio e del fragoroso rumore del silenzio. Racconti di vita vissuta, di dolore, di richiesta di aiuto, di incertezza e di paura, ma anche di un bisogno disperato di qualche certezza in più e soprattutto di solidarietà e d’amore. Storie di malati cronici più fragili rispetto al coronavirus, storie di isolamento nell’isolamento. Gli abitanti di Milano ai tempi del coronavirus si raccontano con la vita vissuta da loro stessi e la città si racconta attraverso di essi. Tante storie per contribuire, come ci ha suggerito Cicerone a fare la Storia.



Gabriele Rabaiotti, Assessore alle Politiche Sociali e Abitative del Comune di Milano


Più di un Silenzio Mentre questi contributi vengono scritti, in presa diretta, noi e la nostra città stiamo attraversando un momento difficile. Questo purtroppo è ciò che sappiamo e che possiamo facilmente riconoscere e condividere. Incerto invece si presenta il domani, oramai da diverse settimane in balia dei decreti che nessuno vuole farci mancare mentre ancora non si sono fermati i contagi e aumentano coloro che non sono riusciti a vincere la battaglia contro il virus. Come ne usciremo, come saremo dopo, cosa sarà dopo? Con una certa amarezza dico che l’enfasi (di cui si è molto letto e scritto) sulla crisi come opportunità, come occasione per essere poi migliori (e diversi), come opportunità per svoltare ed orientare diversamente abitudini, azioni, meccanismi di intervento, decisioni, per salvare il buono e sistemare gli errori, non mi sembra una prospettiva così sicura e così praticabile. La maggioranza (oggi più ‘silenziosa’ che mai) sembra porsi una domanda diversa, più attenta al ‘quando’ che non al ‘come’. Quando ne usciremo e quando potremo tornare a fare ciò che facevamo prima e quando potremo tornare ad essere quello che eravamo prima? Le limitazioni imposte nella fase di emergenza sanitaria, per chi non è stato toccato dal virus o ha reagito senza sintomi, sono suonate come un castigo, un obbligo, una restrizione cui obbedire. È chiaro che questa lettura ha una ragione, forte e indiscussa, nel senso che è proprio successo così. Ma mi sembra altrettanto chiaro che se resta solo questo aspetto, di costrizione punitiva, non vedremo l’ora di tornare, uguali, a quello che era e che eravamo prima (finalmente!). Stiamo solo aspettando di poter riprendere; non mi sembra che sia altrettanto forte il desiderio di cambiare. Per quello sembra che ci sia sempre tempo. Questo atteggiamento va superato. È la seconda fase del silenzio. Sembra tutto uguale; non è così. Non è uno, non è lo stesso. Sono silenzi quelli intorno a noi, dentro di noi. Diversi. Quale è allora il rumore del silenzio che vorrei sentire? Come è fatto il silenzio che ci spinge a cambiare, che ci porta a riprendere ma non dallo stesso punto in cui eravamo arrivati, che ci chiede di essere diversi, che chiama un domani differente? Non lo so. So che è un silenzio diverso da quello che mi sembra farsi largo ora, nell’agitazione di una collettività che si sente incatenata e scalpita, nell’attesa di essere slegata. Mi viene da dire, guardando a queste settimane tumultuose (oltre che silenziose), mentre attraversavo in bici le strade di una città fantasma, improvvisamente svuotata, nel tentativo di correre ai ripari, di inseguire un virus che era sempre in anticipo, davanti a noi, che il silenzio può rappresentare una condizione per il cambiamento se non resta (solo) il silenzio della città; se quello che sentiamo non è il silenzio che è fuori ma è il silenzio nostro; se il silenzio è quello che non si limita a circondare le mura e le pietre della città (peraltro suggestiva ed affascinante), ad anestetizzare la vita pubblica e lo spazio dell’interazione sociale che sono le ragioni fondanti ed essenziali della stessa città, ma diventa silenzio interiore, momento di pensiero e di riflessione, di ripensamento che arriva fino in fondo.


Il ‘silenzio riflessivo’, che attendo (e che cerco), arriva dopo. Dopo lo smarrimento che ci ha colto come amministratori chiamati a decidere che cosa fare e non fare davanti ad una realtà sfuggente, che mutava da un giorno con l’altro, che non riuscivamo a comprendere e quindi a governare, dopo i tentativi e gli interventi di tamponamento e di rimedio con i quali, non senza affanno, abbiamo cercato di evitare il peggio, dopo le polemiche, le accuse e i tentativi di attribuire all’altro colpe e responsabilità, dopo il dubbio con cui ci addormentavamo sperando di aver fatto la cosa giusta, dopo gli sforzi per raccogliere idee e risorse con cui far partire attività e risposte urgenti altrimenti impossibili, dopo le call a distanza che rendevano ancor più complicata la gestione delle discussioni e delle decisioni. Il silenzio che ci cambia arriva dopo. Quando siamo noi a decidere di fare silenzio. A noi serve un silenzio che ci conduca alla comprensione di quello che fino ad oggi abbiamo fatto (o abbiamo cercato di fare), ci serve un silenzio carico di desiderio di analisi, di valutazione e di interpretazione, ci serve un silenzio dentro il quale poter provare a riprogettare. Il silenzio riflessivo è uno ‘spaziotempo’ concesso a chi è riuscito a scampare al virus. È una condizione speciale, di responsabilità; una condizione che, nell’arco di una vita intera, potrebbe non darsi mai e rappresenta il testimone affidato da chi ci ha lasciato, cittadine e cittadini di questa città, a chi è rimasto. Il silenzio riflessivo è un silenzio particolare, una sospensione improvvisa che nella vita può essere scelta o, in alternativa, può essere imposta. È un silenzio attivo che non viene mal sopportato come una spiacevole interruzione (anche se può nascere così) ma che ci porta a ripensare, riconsiderare, ridisegnare per non tornare più a fare quello che facevamo prima. È un silenzio di progetto, discontinuo, denso e pieno del possibile futuro. Ripenso a Milano e lo sguardo si ferma su un libro di Calvino a cui sono molto affezionato. “Lezioni americane”. Come molti testi di Calvino anche questo sembra impregnato di urbanità, del mondo che procedeva e avanzava nel secolo scorso indicando il suo inevitabile destino urbano. Penso a Milano oggi e leggo le parole di Calvino, invitato ad Harvard nel 1984, a tenere un ciclo di lezioni sulla letteratura e la sua eredità valoriale. Calvino parla guardando avanti, al nuovo millennio: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità. Penso a Milano, alle sue corse più recenti, ai primati che ha raggiunto, alla sua frenesia e alla sua forza attrattiva e insieme alle sue contraddizioni, ai suoi problemi non ancora risolti, alla città popolare, alla doppia velocità, alle sue zone d’ombra. Milano, prima di restare sospesa, sotto l’attacco del virus e difficilmente disciplinata dai nuovi decreti e dalle nuove ordinanze di restrizione, limitazione, distanziamento. Quale città vogliamo? Cosa dobbiamo cambiare e come e, ancora, quale forma devono avere i caratteri propri della città, come dobbiamo provare a tradurli? Cambiare è difficile, quando lo vogliamo. Se non lo vogliamo, è impossibile. Ripenso alla nostra Milano, ai suoi luoghi, a quelli che, ben prima dell’emergenza Covid19, erano rimasti in silenzio per molto, forse troppo tempo. La città dimenticata. Al centro della Milano che attende una nuova stagione vedo le scuole, chiamate a diventare i centri civici di un territorio plurale, eterogeneo, molteplice (per dirla con Calvino). Centri aperti ai quartieri, al loro intorno.


Capaci di entrare in relazione, coraggiosa, con il loro contesto. Scuole sempre aperte, non solo alle bambine e ai bambini. Spazi per il gioco, per l’apprendimento e per l’esperienza sociale piena; sport, cultura, solidarietà, attenzione ai più fragili, coinvolgimento degli anziani. Scuole che diventano aggregatori di attività, di funzioni, di comunità. Spazi che imparano a misurarsi con il “tempo pieno”, spazi utilizzati per un tempo lungo ed esteso, disposti ad ospitare altro, a fare e dare spazio, disposti a mescolarsi superando la monofunzionalità e quindi l’isolamento, le rigidità, le pesantezze, le paure. Vedo le scuole diventare, nella città, i nuovi centri dei tanti quartieri, le piazze sociali riconoscibili e riconosciute dai piccoli e dai grandi, i luoghi delle connessioni e delle cuciture con chi e con ciò che le circonda. Al centro della Milano che attende una nuova stagione vedo le case, quelle popolari, pubbliche. Le nostre case costruite per dare, nel tempo, una prima risposta a tutti coloro che faticano ad accedere al mercato. È un patrimonio importante, costruito lungo tutto il Novecento, che da troppi anni abbiamo smesso di curare. Sono case in larga parte realizzate negli anni Sessanta, in buona parte da ripensare, rigenerare, riqualificare. Sono case a cui dovremmo riuscire a riconsegnare il significato per cui sono state edificate. Dovremmo riuscire a renderle, per molti, un passaggio di un più articolato e mobile percorso abitativo, renderle molteplici, più leggere, rapide sia nella loro concezione spaziale che nella loro costruzione e nel loro utilizzo. Una casa popolare, in affitto, pubblica, nasce per servire molti, non uno. Ci serviranno molte più case in affitto, sul mercato, a canoni più accessibili. Solo così potremmo dare alternative praticabili e vie di uscita alle famiglie che, ospitate nelle case popolari nel momento del bisogno, risulteranno in grado di fare un passaggio ulteriore. Rendere mobili gli immobili, consegnare alla città un sistema che, nel suo complesso, riesca ad essere dinamico e non bloccato, paralizzato (anche dalle rendite passive e dalle spinte speculative). Le case e le scuole sono i punti di contatto più universali con coloro che ‘abitano’ la città. Tornare ad occuparci delle case e delle scuole significa riprendere quella relazione semplice, fondamentale che il governo locale continua a trascurare da molti decenni, significa ristabilire un dialogo ed un confronto che, ormai da tempo, viene trasferito nelle procedure e riletto come “pratica amministrativa”. Mi piacerebbe che questo silenzio portasse, tanti, a recuperare lo ‘spaziotempo’ della donna e dell’uomo, lo ‘spaziotempo’ dell’incontro con l’altro che, con pazienza, costruisce la rete di una città più forte e resistente. Voglio augurarmi che questa collezione, istantanea, ci permetta di aprire una parentesi spaziotemporale di riflessione. Questo mi sembra essere l’invito qui contenuto. E che questo silenzio, come questo libro, sia capace di organizzare la pluralità delle voci raccolte, di coglierne la ricchezza e il valore profondo, di farne tesoro per muovere il domani in una diversa direzione. Sia un silenzio carico di attesa, che ci dia il coraggio di ammettere gli errori fatti ieri e la forza per imboccare, domani, un diverso sentiero.

“Ascolta il silenzio della notte. Coglierai con l’udito un’altra vita, che durante il giorno non hai colto”

(A. Blok)


Giulio Gallera, Assessore Welfare della Regione Lombardia


I

l 20 febbraio 2020 è una data memorabile perché è il giorno in cui in Lombardia è esplosa una bomba atomica che ha deflagrato senza fare rumore. E altrettanto silenziosamente ha diffuso le proprie radiazioni colpendo con un’inaudita violenza la popolazione lombarda e in modo ancora più vile la vita delle persone più fragili e più anziane. All’atroce silenzio di sofferenza dei pazienti ricoverati nelle terapie intensive e sub intensive hanno fatto eco lo stupore, lo sbalordimento, la paura della popolazione che, sconvolta, ha dovuto trovare rifugio nelle proprie abitazioni. Il ritmo dei lampeggianti delle ambulanze che correvano da una parta all’altra delle città deserte sembrava fosse sincronizzato con i frenetici tempi del nostro lavoro nelle unità di crisi. Ci giungevano, incessantemente, una dopo l’altra incredibili notizie sul dilagare dell’epidemia e sulle sue drammatiche conseguenze. Attimo dopo attimo sono state indispensabili risposte immediate: adesso, ora, subito sono diventati gli unici avverbi possibili per poter salvare il maggior numero di vite umane. Quando, sin da giovane studente, ho iniziato la mia attività di volontariato politico, mi sono sempre posto un unico obiettivo: quello di essere al servizio della comunità. Questi ultimi 4 anni li sto orgogliosamente vivendo da assessore alla Sanità e al Welfare di Regione Lombardia. Certo non sarei mai arrivato a pensare, come credo tutti noi, che quanto eravamo abituati a vedere solo in drammatici film catastrofisti o a leggere nei migliori thriller di fantascienza potesse accadere veramente nella realtà della nostra vita. E invece è avvenuto davvero! Siamo stati improvvisamente attaccati alle spalle da un micidiale nemico di cui non conoscevamo la forza e contro il quale non avevamo armi di sicura efficacia per poterlo contrastare. Tutti noi abbiamo fatto quanto umanamente possibile per poter riavere quel domani che siamo tornati a rivivere. Oggi sono felice di poter riascoltare il rumore della vita delle nostre città, anche se dentro di me rimarrà per sempre la silenziosa sofferenza per tutte quelle persone che non sono più con noi.


I

Elio Franzini, Magnifico Rettore dell'Università degli Studi di Milano

l libro, il cui titolo racchiude l’attuale universo di ciò che tutti i milanesi stanno affrontando in una scena corale, che la molteplicità dei punti d in cui giovani studenti, professionisti di ogni e niano le sofferenze, le ansie, le speranze, la fidu turo, nella consapevolezza, come si legge, che “ crisi e che non bisogna lasciarsi andare alle pre Tutte le voci qui rappresentate sono coscienti c potrà essere ricostituito “come prima”. Ed è pro non aiuta a sciogliere: crisi deriva dal verbo grec ria”, legata alla trebbiatura e alla raccolta del del frumento dalle scorie. È un separare “anali del raccolto: implica la capacità di giudicare. L medico: è, nel bene e nel male, il momento decis corso che ne differenzia le fasi. Da questa defin segnando una situazione di turbamento, che si anche quelli economici e finanziari. Crisi, dun atteggiamento analitico che osserva il significa dall’altro è il turbamento che uno stato di scissi sua storia, i suoi tormenti e le sue aporie, dive ferimento che in certe situazioni, come l’attual ed esplicito. I concetti hanno sempre uno svolgimento stori concetti nuovi, che la caratterizzano, articoland nozione di crisi, alcune tra queste articolazioni è che scruta le fibre più intime dei caratteri, l’ete contraddizioni che animano ogni personaggio, In questo modo noi possiamo recuperare le din non sempre trasparenti a se stesse, ma ciascuna la nostra vita si costruisce, ricostruendo signifi nelle quali si fondono minuziose osservazioni d


di Milano, è una chiara e poliedrica fotografia n un momento che è doloroso per l’intero Paese: di vista trasforma in un mosaico di vita vissuta età, anziani, l’intero universo cittadino testimoucia nella possibilità di disegnare un nuovo fu“l’intelligenza umana si sveglia nei momenti di evisioni apocalittiche”. che la storia cambia la vita e che dunque nulla oprio qui l’ambiguità della crisi, che l’etimologia co “krino”, cioè separare, e ha un’origine “agragrano, al momento in cui si divide la granella itico”, finalizzato a mantenere la “parte buona” La fortuna del termine avviene tuttavia in campo ivo di una malattia, punto culminale di un pernizione medica deriva quella sociale e filosofica, i estende ai vari livelli della vita, coinvolgendo nque, da un lato è un “separare”, che impone un ato delle varie parti giudicandone senso e valore; ione e di incertezza può generare. Il giudizio, la ngono progressivamente i principali temi di rile, delineano un orizzonte sempre più pervasivo

ico e ogni epoca ha generato, o risemantizzato, done il pensiero. Seguire dunque, a partire dalla è lo scopo del libro, che vuole proporre un percorso erogeneità dei sentimenti, i loro contrasti, quelle e senza dubbio ciascuno di noi. namiche stratificate della vita e delle sue forme, a capace di delineare un modo simbolico con cui icati che apparivano perduti. Le testimonianze, della realtà con i sentimenti che ne vengono evo-

Marina Carini Prorettore dell'Università degli Studi di Milano


cati, sono infatti viaggi alla scoperta degli uomini, attraverso la loro storia privata e sin nelle pieghe loro abitudini quotidiane, così profondamente modificate dalla situazione contingente, tanto da suscitare la “sensazione di giornate buttate al vento” o il desiderio di “sognare di fare la fila al distributore della benzina in attesa che la mia prossima auto vada ad energia solare”. Il tutto è perfettamente bilanciato tra un profondo senso dell’esistenza, della capacità di ritrovare piccole cose quasi dimenticate dalla quotidianità lavorativa, in una metamorfosi individuale continua, in cui cambiano le priorità, e un continuo stordimento fatto di angoscia, paura, ansia e speranza: il tempo appare come sospeso, ma ci costringe a pensare. Il tema profondo del libro non è allora la lotta al virus, bensì la speranza in un mondo rinnovato non solo nelle sue impalcature sociali ed economiche, ma soprattutto nella dignità dell’uomo e nei rapporti intersoggettivi: un ritrovato senso di vicinanza fisica quasi dimenticato, obbligati a condividere giornate senza fine, in un ritrovato “rapporto di coppia più intenso, più collaborativo e comprensivo - una nuova affettività” o in una riscoperta di attività da fare insieme, la complicità nelle piccole cose e interessi comuni, nel rispetto della nostra diversità. Questo è, forse, un libro sui sentimenti, che sono certo spesso un caos disordinato, ma che disegnano anche topografie nuove, nessi di senso, stadi successivi e progressivi, la cui analisi ne permette una sempre più precisa conoscenza. I sentimenti complessi di un’epoca difficile mostrano un senso della vita che non si lascia mai pienamente afferrare, che manifesta la ricerca stessa non come sguardo indifferente ma in quanto volontà desiderativa, problematizzazione del rapporto, dialogico e paradossale, tra esperienza e comprensione. L’Università Statale, che attraverso i sui docenti e studenti che lavorano nell’ambito della sanità ha svolto e continua a svolgere un ruolo essenziale nella gestione del dramma che stiamo vivendo, potrà giocare un nuovo ruolo anche in ambito sociale ed economico: svincolandosi qualsiasi condizionamento politico, potrà acquisire una lucidità in grado di delineare nuove prospettive, sia di didattica che di ricerca, coerenti con la metamorfosi del proprio contesto territoriale e con la propria intima vocazione.



Andrea Lenzi, Presidente Health City Institute e Presidente CNBBSV della Presidenza del Consiglio dei Ministri


L

a sfida che quotidianamente affrontiamo nella lotta al COVID-19, pone a tutti noi una serie di riflessioni non solo di carattere clinico, ma soprattutto di carattere sociale che riguarda su cosa è oggi una comunità e cosa è il bene comune. La città vista come bene collettivo o comune, in quanto i cittadini residenti condividono gli spazi comuni quali parchi, strade e servizi, ma anche la cultura, la salute e le fragilità e le paure. Il bene comune richiama tutti i cittadini all’etica e al rispetto delle regole di convivenza civile che ci siamo dati, ad un circolo di comportamenti virtuosi fatto di rispetto reciproco, di sostegno e solidarietà, in cui non c’è chi guadagna e chi perde, ma si vince tutti, perché si agisce nell’interesse di tutti e nel rispetto di ciascuno. Il bene comune sono uomini e donne, cittadini che non si preoccupano semplicemente di pagare le tasse, ma costruiscono, sostengono, giorno dopo giorno, la vita della società, della collettività, puntando ad un’economia che cerca di essere moderna, inclusiva e sostenibile, al “servizio al bene comune”. La sfida che Milano, assieme a tutti gli italiani, ha dovuto affrontare con la pandemia del COVID-19 ha fatto riscoprire a tutti come è importante coltivare il bene comune e avere il senso della comunità. Il silenzio delle strade di una città produttiva e vivace per natura e tradizione, quale è Milano, è diventato il rumore assordante delle sofferenze e delle paure che emergono quotidianamente e che dal livello individuale sono state trasferite nella collettività come voglia di affrontarle tutti assieme e trasformarle in speranza e voglia di rinascere. Questa è una comunità. Sono i volti dei colleghi medici, degli infermieri, dei farmacisti e degli operatori sanitari, rigati dalle mascherine, stremati da turni massacrati, che si sono scoperti fragili e forti nello stesso tempo, ma anche consapevoli di doversi spendere per la loro comunità. Sono i ricercatori che chiusi in un laboratorio impegnati in una corsa contro il tempo per trovare la “soluzione” al problema e dare speranza e serenità a tutti. Sono i volontari che assistono le persone sole e coloro che con il loro lavoro consentono gli approvvigionamenti e dei servizi essenziali. Sono i professori che anche a distanza mantengono vivo il “fuoco” della cultura e del sapere nei giovani per costruire così le generazioni future. Sono le donne e gli uomini delle Istituzioni che comprendono di essere, come non mai, il punto di riferimento per tutti i cittadini che cercano in loro risposte e sicurezze. Sono i volti delle mamme e dei papà che cullano i sogni dei loro bambini, cacciando via gli incubi. Sono gli imprenditori, i commercianti e i lavoratori che hanno paura che il loro domani non sia come prima. Sono gli “ultimi” che vivono per strada e che non


possono rimanere a casa perché una casa non l’hanno. È la pietà e il conforto dei preti e dei ministri di culto nell’alleviare la sofferenza umana e spirituale. Sono i volti e le lacrime di coloro che si sono ammalati, dei loro familiari, di chi ha perso un proprio caro, un amico, un collega o semplicemente un conoscente o un vicino di casa spesso ignorato nella passata quotidianità. Sono i volti di tutti coloro che hanno posto la loro vita, spesso sacrificandola, a beneficio della comunità: quelli che Papa Francesco chiama i “santi della porta accanto”. L’antropologa Margaret Mead nel secolo scorso ai suoi studenti che le chiedevano quale fosse stato il primo segno di civiltà nell’uomo, rispondeva che il primo segno di civiltà in una cultura antica era un femore rotto e poi guarito. Per lei antropologa quello era il vero segnale di una civiltà che si evolve, perché nel regno animale, se un componente del branco si frattura una gamba, muori. Resti isolato in balia del pericolo, non puoi cacciare o dissetarti al fiume: nessun animale può sopravvivere a una gamba rotta abbastanza a lungo perché l’osso guarisca da solo. Un femore rotto che è guarito è la prova che qualcuno si è preso il tempo di stare con colui che è caduto, ne ha bendato la ferita e bloccato l’arto fratturato, lo ha portato in un luogo sicuro, lo ha rifocillato, lo ha aiutato a recuperare il suo stato di salute. Questo concetto di inizio della civiltà significa che oggi come all’inizio dell’evoluzione dell’uomo, ognuno di noi deve spendere più tempo a curare e prendersi cura dell’altro, perché questo significa che salute è civiltà. Curare e prendersi cura dell’altro è stato in questi mesi il segnale che esiste una comunità, fatta da individui, ma non da individualismi e che ognuno di noi può contribuire con il proprio impegno al benessere di tutti. Questo impegno, le paure, i timori, e speranze, la voglia di rinascere silenzioso, ma rumoroso nello stesso tempo è quello che emerge da questo libro, che rimarrà a testimonianza di tutti noi per ricordarci non di una parentesi della propria vita o una esperienza dolorosa, ma di come una comunità ha saputo affrontare e sconfiggere un virus. Italo Calvino scriveva nel suo Marco Polo, “D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda” e la risposta che ha dato Milano è stata quella di essere una grande comunità.



Don Giorgio Riva, C.D.A. Caritas Ambrosiana e Parroco Basilica Prepositurale S.Eustorgio


V

orrei anzitutto precisare che le mie sono semplici note personali, che cercano di trasmettere qualcosa che forse può aiutare qualcuno a capire il dramma e insieme le opportunità che molti stanno vivendo e che altri colleghi saprebbero illustrare con molto miglior efficacia. Per semplicità, raccoglierò queste osservazioni intorno a tre verbi: sentire, credere, operare. Sentire. Mi sono spesso tornate in mente le parole del Concilio Vaticano II: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (Cost. Past. Gaudium et spes, n° 1). Incontrando le persone, ascoltandole e lasciandomi provocare dalle loro domande e talora anche da quelle che non arrivavano a essere espresse verbalmente, ma che mi pareva di cogliere con tutta chiarezza, ho constatato un grande bisogno di amore. Le difficoltà economiche e anche molte difficoltà di altro tipo (relazioni familiari, futuro dei figli, problemi con genitori, solitudine delle persone anziane, …) sembrano invocare una sicurezza di essere amati che in molti momenti pare svanire. Molti sembrano avere smarrito ogni certezza e si trovano spaesati, come fossero in un paese di cui non conoscono la lingua. Davanti a tanti bisogni urgenti, e talora molto grandi, ho percepito con forza e con una stretta al cuore la mia sproporzione, l’impossibilità mia e della nostra comunità di dare una risposta accettabile a tali domande. Molte volte ho pensato a quanto diceva Mons. Antonio Riboldi quando era vescovo di Acerra e si trovava nell’impossibilità di risolvere tanti problemi: “Amo con le mani vuote” e aggiungeva: “La mia gente capisce e mi vuole bene”. Faccio fatica molte volte a dover dire di no. Prego e spero che, in qualche modo, possano capire che non si tratta di un rifiuto, ma dell’impossibilità di trovare soluzioni adeguate; e perdonino i miei no. Credere. Pur provocato da tante richieste concrete e da situazioni talora drammatiche, credo sempre più chiaramente che, al fondo, tutti abbiano bisogno di Dio, che una risposta puramente “tecnica” al loro bisogno sarebbe insufficiente. Hanno bisogno di certezze vere, capaci di sostenere oltre la singola questione. Quante volte, magari dopo aver potuto effettuare anche un intervento economico significativo, mi sono sentito dire: “Le raccomando, preghi per me e la mia famiglia”. Ho avvertito spesso il bisogno di legami veri, gratuiti. Ho capito che molte volte vale di più il modo come doniamo che l’entità del dono. Davanti a certe situazioni umane devastate, davanti a espressioni di rabbia e ribellione, ho cercato di credere alla dignità della persona, che pure non


pareva viverla in quel momento; e talora sono riuscito a ristabilire un rapporto rispettoso e aperto a sviluppi che il tempo e altre persone hanno reso positivi. Credo che la percezione di una difficoltà diffusa abbia aiutato molti ad accettare la pazienza di un cammino. Operare. L’intenzione profonda è stata sempre quella di voler essere una porta aperta sulla speranza, di cercare in ogni persona e in ogni situazione quella prospettiva vera che potesse riaprire un varco, accendere almeno una piccola luce. Sento questo come parte essenziale del mio ministero e cerco di viverlo anzitutto per me e per i collaboratori della nostra comunità. Un’altra linea cui cerco di ispirare il mio operare è quello di far sentire la comunione concreta, la vicinanza di una comunità. A queste due linee si ispira il nostro Centro di Ascolto Caritas, nel quale diamo primaria importanza all’accoglienza, al far sentire ciascuno rispettato e considerato degno di attenzione. Cerchiamo poi di cogliere le risorse personali che ciascuno crediamo abbia e che sono la via più efficace per cercare, con l’interessato, prospettive di un futuro migliore. Concludo con queste ultime osservazioni: la pandemia ci presenta situazioni drammatiche (e ne vedremo – temo – ancora molte), ma anche straordinarie possibilità di miglioramento a molti livelli la prima urgenza che ho avvertito è quella di una conversione personale, nella certezza che il Signore ci dia tutto quanto abbiamo bisogno per affrontare anche le difficoltà più complesse non possiamo agire da soli, ma solo come comunità e con lo sguardo più largo possibile. Faccio mie queste parole di Papa Francesco: “Cogliamo questo momento di pandemia come una prova per preparare il domani di tutti. Perché senza una visione di insieme non ci sarà futuro per nessuno” (tweet su www.vatican.va sabato 2 Maggio 2020).



Federico Serra Direttore Italia Cities Changing Diabetes


I

l silenzio della città di Milano, si è riempito del rumore della sofferenza di tutta una comunità e di ogni singolo cittadino che si è scoperto vulnerabile alla furia di una pandemia globale che ha reso fragile tutto il tessuto sociale di una città che per storia e vocazione è stata da sempre impegnata nel progresso e nella coesione sociale. Il silenzio di una comunità che via via si è tramutato in grida di dolore e di paura, ma anche di speranza e della consapevolezza che era arrivato il momento di dare importanza alle cose essenziali della propria vita. Mi viene in mente la storia di un professore negli Stati Uniti, prima di iniziare la sua lezione di filosofia, prese un grosso barattolo vuoto e lo riempì con delle palline da golf. Domandò quindi ai suoi studenti se il barattolo fosse pieno, ed essi risposero di sì. Allora, il professore rovesciò dentro il barattolo una scatola di sassolini, scuotendolo leggermente. I sassolini occuparono gli spazi fra le palline da golf. Domandò quindi, di nuovo, ai suoi studenti se il barattolo fosse pieno ed essi risposero di sì. Il professore rovesciò dentro il barattolo una scatola di sabbia. Naturalmente, la sabbia occupò tutti gli spazi liberi. Egli domandò ancora una volta agli studenti se il barattolo fosse pieno ed essi risposero con un sì unanime. Il professore tirò fuori due bottiglie da 33 cl di birra e le rovesciò interamente dentro il barattolo, riempiendo tutto lo spazio fra i granelli di sabbia. Gli studenti risero. “Ora”, disse il professore quando la risata finì, “vorrei che voi consideraste questo barattolo la vostra vita. “Le palline da golf sono le cose importanti: la vostra famiglia, i vostri figli, la vostra salute, i vostri amici e le cose che preferite. “I sassolini sono le altre cose che contano, come il vostro lavoro, la vostra casa, l’automobile. “La sabbia è tutto il resto, le piccole cose”. “Se metteste nel barattolo per prima la sabbia non resterebbe spazio per i sassolini e per le palline da golf”. “Lo stesso accade per la vita”. “Se usate tutto il vostro tempo e la vostra energia per le piccole cose, non vi potrete mai dedicare alle cose che per voi sono veramente importanti. Curatevi delle cose che sono fondamentali per la vostra felicità”.


“Dedicatevi prima di tutto alle palline da golf, le cose che contano sul serio. Definite le vostre priorità, tutto il resto è solo sabbia.” Uno studente alzò la mano e chiese che cosa rappresentassero le due birre. Il professore sorrise. “Sono contento che tu l’abbia chiesto. Serve solo a dimostrare che per quanto possa sembrare piena la tua vita c’è sempre spazio per una birra con un amico”. In questi giorni, dove tutti noi stiamo riflettendo sulle cose importante della nostra vita e ci accorgiamo di aver riempito il nostro barattolo della vita, di cose spesso inutili ed effimere, dimenticandoci dei valori fondamentali nel nostro essere individui di una comunità. Ci siamo scoperti tutti più fragili e dedicati a riempire quotidianamente il barattolo di sabbia. Il COVID-19 ci sta facendo riscoprire il concetto di salute, di famiglia, di comunità e riscoprire il senso della parola curare e prendersi cura dell’altro. Ora dobbiamo impegnarci a riempire il barattolo anche di tre parole: coesione, solidarietà e sostegno.




Capitolo 1 La tragedia del COVID-19

E così all’improvviso l’Italia frenetica, caciarona, dei riti rumorosi dei fine settimana, delle discussioni ad alta voce, delle liti al parcheggio, dei clacson impazienti, dei treni dei pendolari rumorosi e affollati, della musica comunque e dovunque, dei bar dello sport, l’Italia ai tempi del coronavirus ha scoperto il silenzio. Un silenzio doloroso, ma anche rumoroso. Sì, perché definire il silenzio con un unico termine vorrebbe dire limitarne l’essenza. Anzi, il suo rumore può essere assordante. A cominciare, per esempio, dai battiti del cuore di tutti quelli che si affannano, dietro occhiali e mascherine, nei reparti di terapia intensiva. Senza parlare, soffrendo in silenzio per coloro che non sono in grado di ascoltarli più. Il silenzio fa un rumore assordante. Il silenzio di quando ti rendi conto che sei rimasto solo. Lontano dalla tua famiglia, dalle persone di sempre. Quando intorno a te non c’è altro che silenzio. Il silenzio per ritrovare te stesso, che permette il tuo benessere. Lontano dal mondo, lontano dal rumore, lontano da tutti. In cui mente e corpo diventano un’unica cosa. Ogni silenzio ha un suo suono, ogni silenzio ha una storia da raccontare. E ogni storia di per sé fa rumore.



Giuliano R. - Primario reparto infettivologia Oggi, dopo 64 giorni vissuti in apnea, in occasione del mio sessantaduesimo compleanno sono riuscito a fermarmi per qualche ora. Ma non è un compleanno come i soliti: niente pranzo con tutta la famiglia, nipotini visti solo via skipe. Ma, finalmente c’è almeno un po’ di tempo per pensare, per ripercorrere le tappe di questi due, tre mesi. E le immagini un po’ si accavallano e le riflessioni si mischiano una con l’altra. La prima immagine che mi ritorna in mente è quella della notte tra il 20 e il 21 febbraio. Nel tardo pomeriggio del 20, mentre stavo verificando i numeri del budget del reparto che dirigo, venivo avvertito della probabile positività per SARS-CoV-2 di un tampone proveniente da Codogno. In nostro ospedale è centro di riferimento per l’emergenza infettivologica e del trasporto in biocontenimento per il nord Italia ed ha 77 posti letto a pressione negativa, attrezzati al ricovero di pazienti con malattie infettive ad alta trasmissibilità; nel rispetto di questa funzione verso le 21, confermata la positività del tampone, veniamo chiamati dalla nostra direzione per andare a prendere il paziente a Codogno e trasferirlo al Sacco. Partiamo: tre infettivologi e due anestesisti/rianimatori e un infermiere. Una quarantina di minuti di viaggio con il tragitto finale in strade della campagna lodigiana, con l’odore dei campi recentemente concimati. Appena giunti in rianimazione vediamo il paziente, un giovane dal fisico atletico, e ci rendiamo conto della gravità e del fatto che, in quel momento, non è trasportabile. Le informazioni anamnestiche non ci permettono di chiarire con precisone quale possa essere il suo “legame” con la Cina, se non un contatto con quello che si pensava fosse il caso 0 (rivelatosi poi in realtà negativo), che aveva storia di “contatti cinesi” nelle settimane precedenti. Decidiamo di lasciare lì il nostro intensivista per dare una mano e monitorare l’evoluzione. Nello stesso tempo in pronto soccorso si era presentato un altro giovane con un quadro polmonare estremamente impegnato, ma anche in questo caso, nessun richiamo anamnestico con la Cina né contatti con il paziente in rianimazione: Decidiamo di portare il paziente a Milano, poche ore dopo il suo arrivo nel nostro ospedale, per il rapido aggravamento del quadro clinico, si rende necessaria l’intubazione. Da quel momento, in pochi giorni, dobbiamo organizzarci per dimettere/ trasferire tutti gli ammalati ricoverati presso il nostro dipartimento e liberare posti letto per ricoverare pazienti COVID-19: anziani, meno anziani, giovani con quadri polmonari estremamente impegnati, che si complicano nel giro di poche ore, che richiedono l’intervento del rianimatore e che, purtroppo, spesso muoiono. Vado quindi indietro di più di trent’anni fa, prima in Uganda poi qui al Sacco, quando avevo


vissuto drammi simili, l’affronto del mistero della morte, il senso di impotenza con i malati di HIV/AIDS e poi a vent’ anni fa, in Nord Uganda, con Ebola. Ancora una volta un virus, virus che “scombina” tutto quello che pensavi di aver imparato, le certezze scientifiche che pensavi di aver acquisito, che ti mette di fronte a tutti i tuoi limiti sia umani che professionali. Anche il SARS-CoV-2 sovverte le regole, segue percorsi differenti in un paziente rispetto all’ altro, ha un comportamento tutto suo, diverso dai coronavirus suoi predecessori, ha un indice di riproduzione estremamente elevato, sta mettendo in ginocchio un sistema sanitario considerato eccellente in tutte le parti del mondo. Mentre rifletto su questo, mi ricompare il volto di Padre Giuseppe Ambrosoli (medico missionario comboniano, oggi santo, con cui ho lavorato più di trent’ anni fa), mi torna in mente quello che c’è scritto sulla sua tomba “Dio è amore, c’è un prossimo che soffre ed io sono il suo servitore” e quando ci invitava a guardare il positivo, il bene anche nei momenti più drammatici della guerra civile che, in quegli anni, abbiamo vissuto al suo fianco. E, allora, dov’ è il positivo? È lì davanti ai miei occhi tutti i giorni: sono i medici, gli infermieri, gli operatori sanitari, ma non solo gli amministratori, i magazzinieri, gli elettricisti i direttori che in questi mesi non si sono mai tirati indietro, non hanno mai guardato l’orologio, a volte si sono anche ammalati nella loro funzione di “servitori di coloro che soffrono”


Massimo V. - Medico di Medicina Generale “Buongiorno dottore, vorrei chiederle la cortesia di volermi preparare la ricetta per la mia solita medicina”. La voce è flebile, ma ferma e ben impostata, riconosco subito quella di una mia paziente anziana che abita a circa un chilometro dallo studio è che solitamente quando veniva a trovarmi mi diceva che era felice di fare quella piccola passeggiata perché vive da sola e uscire di casa per sgranchirsi le gambe le fa bene. Da tre mesi incominciano così, oramai sempre più spesso, le chiamate di tanti e tante pazienti che per lo più vivono da soli/e con figli e parenti lontani e con quella rete di amicizie che, vuoi per l’età e - purtroppo vuoi a causa di COVID, oramai si sono sfilacciate in modo irreversibile. Cortesemente dopo la richiesta dei farmaci mi chiedono come io stia e come stiano andando le cose lì fuori perché vivendo da soli la maggior parte di loro hanno notizie di quanto accada dalla televisione o dalla radio o da qualche rara chiamata con gli amici superstiti che, in questo momento, risulta più triste che benefica. È facile capire che quella telefonata non è solo la richiesta per la prescrizione di un farmaco, ma è che sia un vero e proprio appello accorato per poter avere un contatto umano - breve che sia - con una persona familiare con la quale si possa parlare in questo momento in cui viviamo un assordante ed irreale silenzio. È certo che questa misura di segregazione della popolazione abbia una valenza positiva dal punto di vista sanitario, esattamente come è certo che una parte della popolazione, e soprattutto i giovani, è stata in grado di sopperire rapidamente alla quarantena in casa utilizzando tutti i più moderni sistemi informatici a partire dallo smart-working fino ai giochi di ruolo; queste sono le generazioni che in futuro racconteranno l'esperienza di questa cappa di silenzio e di separazione imposta dal mondo esterno in modo meno traumatico e meno angosciante di quanto non sia successo agli altri cittadini, dato che, sfortunatamente ci si è necessariamente dovuti dimenticati che in fondo siamo un popolo formato da anziani spesso fragili e che quindi da un punto di vista esclusivamente fisico hanno verosimilmente potuto ottenere un vantaggio da questa situazione, ma contestualmente sono venute a mancare le reciproche cure parentali tra generazioni (nonni, figli, nipoti) che storicamente sono da sempre alla base dell'organizzazione familiare italiana. La dissoluzione obbligata di questa rete familiare di protezione ha portato alla luce serie di problematiche che difficilmente avremmo potuto immaginare, ed oggi l'angoscia di tanti nostri anziani (e non solo anziani), chiusi in casa e con l’impossibilità di vivere e comunicare direttamente e fisicamente con qualcuno (come ho già scritto all'inizio) sta diventando il vero problema generale, unito al fatto che affacciarsi ad un balcone, cosa che fino a poco tempo fa permetteva a chiunque di vedere fisicamente gente, macchine movimenti, passaggi, ed ascoltare voci, rumori, in pratica “toccare con mano e con gli




occhi “ la vita, oggi si trasforma in una visione ancora più apocalittica del problema. Diversi pazienti mi hanno confessato delle loro fughe in avanti mentali, delle loro elucubrazioni di dove o cosa faranno quando potranno riprendere ad uscire liberamente ed ad incontrare gente, molti altri mi dicono di non guardare più fuori dalla finestra e di rinchiudersi in casa magari abbassando completamente anche le tapparelle, rifiutando completamente di prendere atto sta succedendo lì fuori, soprattutto evitando di far entrare il rumore/silenzio che ha sempre fatto parte della loro colonna sonora e che - una volta veniva tenuto lontano dai doppi vetri delle case affacciate sulle vie più trafficate … si cercava il silenzio e la pace, ed oggi rischiano di soccombere all’ overdose di pace e di silenzio . Fortunatamente esistono delle reti di protezione che permettono loro di ricevere beni di prima necessità quando sono impossibilitati anche ad uscire per poco tempo per fare la spesa, dato che quello dell'acquisto dei beni alimentari e di quei pochi beni di conforto che oggi sono disponibili è un altro problema per gli anziani perché il contingentamento degli accessi ai grandi magazzini ed ai supermarket impone loro lunghe file prima di poter accedere ai negozi stessi e spesso questi nostri concittadini non sono in grado di sopportare ore di fila in piedi per cui rinunciano e sperano di potersi affidare alla pubblica assistenza. In tre mesi il mondo è completamente cambiato rispetto a come noi lo conoscevamo e così sarà a lungo, ma oggi, oltre al resto non possiamo e non dobbiamo dimenticarci di tutti quei pazienti che prima questa pandemia soffrivano effettivamente di qualche malattia è che in questi ultimi due mesi sembrerebbero quasi scomparsi salvo che per l’acquisto dei farmaci. Anche in questo caso la prospettiva della segregazione e del lungo silenzio sta diventando sempre più complicata soprattutto perché alcune di queste patologie non possono attendere prima di essere affrontate e nei grandi ospedali si stanno suddividendo le necessità ed i compiti proprio per poter continuare a seguire i pazienti "sani” senza che rischino di essere contagiati. Infine, un triste ed accorato ricordo per tutto il personale sanitario, medici, paramedici etc. etc. che in questo tempo di crisi hanno perso e purtroppo sicuramente in futuro ancora perderanno la vita lavorando senza sosta, immersi in un silenzio irreale rotto solo dai segnali di allarme delle sirene delle apparecchiature che utilizzano per curare allo spasimo le persone a loro affidate.


Fiorenza S. - Infermiera Avevo 25 anni quando -già operatrice presso la Caritas diocesana del mio paesino con compiti di supporto a persone bisognose- ho avvertito una sorta di vocazione verso la professione infermieristica probabilmente spinta anche dalle compagne che forse intravedevano in me una buona disponibilità ad occuparmi di situazioni di fragilità, una predisposizione ad andare incontro alla sofferenza. Decido, mi informo sui concorsi, studio, partecipo, supero la prova. Così, da lì a poco tempo, mi ritrovo infermiera e trovo occupazione in una piccola realtà locale. Mi piace questo lavoro ma ho mansioni limitate e comunque non all’altezza delle mie aspettative. Mi dò da fare e trovo un’altra Struttura assumendo un ruolo più confacente alle mie aspirazioni che si concretizzano maggiormente quando decido, invogliata da una collega, di trasferirmi a Milano. Vivo la prima esperienza veramente interessante, mi sento professionalmente soddisfatta, ma non completamente realizzata come giovane donna meridionale cresciuta nella cultura della “sistemazione”. Come costume delle famiglie meridionali cedo alla pressione per un avvicinamento a casa e, a malincuore, lascio Milano per tornare al paese. La sorte mi è doppiamente favorevole, trovo marito -che da tempo vive a Milano- e così ritorno in questa accogliente città. Ancora una volta la fortuna mi arride: vengo assunta in uno dei Presidi ospedalieri più importante della metropoli dove attualmente, ormai tre lustri, svolgo con passione la mia professione di infermiera. Un lavoro impegnativo, con turni a volte pesanti, che richiede molta concentrazione, dedizione e responsabilità. La mia vita familiare è condizionata da orari che altri decidono, qualche sacrificio e alcune rinunce ma anche tante soddisfazioni per un’attività rivolta a chi soffre. Ma con l’arrivo della pandemia del “corona virus” il mio andazzo giornaliero viene sconvolto. L’organizzazione del Presidio viene rivoluzionata: molti Reparti vengono convertiti a causa del dilagante contagio; succede che nella «mia area» vengono ricoverati pazienti con le patologie più disparate secondo le direttive della cosiddetta ‘Unità di crisi’. Il lavoro quasi si triplica, l’impegno per nuove problematiche da affrontare, come peraltro l’attenzione per evitare il contagio, appesantiscono la concentrazione e così a fine giornata mi trovo stravolta. Ne sono consapevole, mi interrogo per un momento: nessun dubbio, sono determinata, non mi tirerò indietro, prevale un forte senso del dovere, devo essere di aiuto e fare la mia parte in un momento così difficile del mio paese. Mi inorgoglisce essere in prima linea e poter offrire il mio piccolo contributo alla causa, sento forte il ruolo, l’appartenenza e la solidarietà verso le altre colleghe. Così al mattino tirandomi dietro il portone di casa so che affronterò momenti non facili, come tutte le creature umane non posso nascondere


le mie paure; ma subito le metto alle spalle perché quando varcherò la vetrata dell’Ospedale dovrò essere forte, empatica e predispormi all’ascolto, infondere coraggio, offrire vicinanza anche spirituale coniugando dedizione e amore con la professionalità. Sì, amore perché non esiste più l’orario delle visite dei parenti: i nostri malati sono soli. Ecco, capisco ed elaboro che al ‘fare professionale’ devono associarsi gesti affettuosi, fosse anche una semplice carezza. Nonostante le mascherine scorgo sguardi riconoscenti e occhi con una luce diversa; comprendo che indossare un camice bianco corrisponde a una autentica missione dove, di frequente, si riceve molto di più di quello che si riesce a dare. Le giornate scorrono frenetiche passando da un letto all’altro; nel turno notturno si cercano momenti di convivialità e di confronto con i colleghi. Ma le luci soffuse e il silenzio inducono a riflessioni e nell’animo si agitano nuove emozioni: come il pensiero del rientro a casa, il governo routinario della stessa, e poi l’identificazione del ruolo di mamma, di moglie, di donna nel sostegno psicologico al coniuge in difficoltà nel suo ambito lavorativo. Dunque, ancora doveri: di ascolto, di comprensione, di pazienza ma, questa volta, con una diversa e più rassicurante sensibilità suscitata dai ricordi che emergono dalle foto disseminate un po' dovunque, dal calore del ‘focolare’, dai piaceri della tavola e, soprattutto, dall’intensità del legame affettivo con la componete familiare, volano necessario per ricaricare il morale e lasciare nuovamente il portone di casa con rinnovato slancio.


Marisa M. - Pensionata e persona con diabete La tua vita vista a ritroso. Famiglia, lavoro, volontariato! Non un momento di “ferma” per pensare a cose futili. D’improvviso a febbraio 2020 ti trovi nell’impossibilità di essere attivo, di programmare la tua vita per incontri con amici, vacanze e perché no anche di effettuare i controlli che la tua condizione di diabetica ti impone periodicamente. Tutto un altro mondo! Ora hai troppo tempo libero! Che strana la vita! Che terrificante questo silenzio! Ti guardi attorno e la natura sboccia come tutti gli anni, anzi le temperature sono quasi estive e fioriscono attorno a te i ciliegi, i peri, ciliegi giapponesi, l’erba con le pratoline cresce a vista d’occhio in giardino, le farfalle bianche volano sulla siepe e la solita merla ha fatto il nido sotto il terrazzo e sta covando. L’armonia e la bellezza del luogo sono in netto contrasto con quanto ti senti dentro in questo momento di COVID-19! Eppure ne hai passate tante in 53 anni di diabete Tipo 1! Si ma questa è un’altra storia, un pericolo invisibile che ti mette l’angoscia perché non hai armi che ti possono difendere, se non stare in casa! Ma fino a quando? E poi? Finirò contagiata alla prima uscita, alla prima riunione? Si vive nel terrore perché se fossi contagiata non vedrei più i miei famigliari, i miei amici perché finirei dopo un breve soggiorno in terapia intensiva al crematorio! Pazzesco da farti dire: il diabete non è nulla a confronto! Campane in lontananza che suonano l’agonia, ambulanze con le sirene spiegate, l’elicottero che ti passa sopra la testa tutti suoni e rumori che normalmente senti non in contemporanea e poco di frequente. Il tuo cuore sobbalza ogni volta e così pure la glicemia! Si perché anche il diabete ne risente di questo momento tragico e di immobilismo generalizzato! A … sì pure il problema dei farmaci, li troveremo? Saranno disponibili per quanto? Oddio l’insulina, controlla perché se non è sufficiente puoi morire! Si, però, molte procedure le hanno semplificate e questo ti rincuora! Poi ti accorgi una sera che nella casa vicina c’è un’epigrafe, chiedi informazioni e ti dicono: sì è morto di covid e ti ricordi che avevi visto un’ambulanza il venerdì e…il mercoledì l’hanno seppellito. Ti assale il terrore e non riesci a dormire di notte e di giorno senti tutti bollettini alla TV, vedi il drammatico reportage delle tantissime bare di Bergamo, caricate sui camion dei militari destinate al crematorio. Pensi potrei esserci anch’io! Situazione drammatica, chiami la tua amica anestesista che ti conferma: muoiono come mosche al tempo del DDT! Sento il suo sgomento e la mia angoscia cresce, la glicemia segue gli andamenti dello stress! L’unica precauzione è stare a casa, ma per quanto? E poi appena usciremo saremo contagiati e quindi si ripeterà quanto già visto? Nulla sarà come prima, noi dovremo cambiare, la natura così bistrattata e compressa si è ribellata, dovremo essere più umani, meno avidi di potere e di denaro, più rispettosi ed accorti di chi ci circonda, meno egoisti, perché c’è più tempo che vita ed il prossimo siamo NOI! (Anche per l’uso delle mascherine!) Meno politica e più fatti!



Capitolo 2 Il timore, l'ansia, la solitudine

In risposta alla pandemia di coronavirus, le autorità sanitarie hanno chiesto, prima gentilmente e poi imposto, al genere umano di fare qualcosa che non gli è naturale: stare lontano l’uno dall’altro. Tale allontanamento sociale - evitando grandi incontri e stretti contatti con gli altri - è cruciale per rallentare la diffusione del virus e impedire che il nostro sistema sanitario venga sopraffatto. Ma tutto ciò ha gravi conseguenze psico-fisiche. Per tutti. Anche per coloro che non sono in isolamento ma in prima linea per combattere la pandemia e cercare di salvare persone infettate in modo grave. Il personale sanitario che sta lavorando ininterrottamente da oltre due mesi e mezzo senza pause, senza ferie, all’inizio anche senza molti successi. Stress, tensione e stanchezza sono altissimi e lo sono anche tra chi non è in prima linea nelle rianimazioni Covid-19. Tra i medici di base, tra i farmacisti, tra il personale del 118, tra le forze dell’ordine. Stress, tensione e a volte impotenza. L’impotenza di chi vede un paziente che sembra non avere gravi sintomi e poi all’improvviso muore. Sensi di colpa che si intrecciano all’emozione di chi esce guarito. Questo è il Covid-19. Questo è il burnout pronto a minare medici e infermieri. O forse non ora perché non c’è nemmeno il tempo per riflettere, ma dopo quando ci sarà il tempo per uscire all’aperto a prendere una boccata d’aria. Ecco che il rumore del silenzio, assordante nei reparti di terapia intensiva, potrebbe trasformarsi in stress post-traumatico. Non per molto, il tempo di disintossicare la psiche dalla “prigione” in cui tutti ci siamo ritrovati all’improvviso in una frenetica giornata di febbraio. Un anestesista si confessa: “È come maneggiare ogni giorno un ordigno che potrebbe esplodere da un momento all’altro”. Altro che stress posttraumatico.



Luigi V. - Parrucchiere Se mi avessero detto che ci sarebbe stata una grande pandemia nel 2020, non ci avrei scommesso un cent. Sono molto triste ed angosciato su cosa sta accadendo nella nostra città e nel mondo intero. Guardando la tv, o sentendo la radio, non parla d’altro che di questi ospedali pieni di malati intubati in terapia intensiva, del numero dei contagiati e dei deceduti che continuano a aumentare giorno dopo giorno; numerose vittime anche tra i medici, infermieri e tutti gli operatori che, impegnati nel prestare soccorso a chi ne ha bisogno, sono coinvolti in prima persona e ne stanno pagando un prezzo altissimo. Spesso mi soffermo a pensare ai miei numerosi clienti, soprattutto quelli anziani, che incontravo in alcuni casi quasi quotidianamente. Quanti di questi si sono ammalati? Quanti non riusciranno a superare questa terribile crisi? Ed anche coloro che sono più forti e resisteranno, come stanno vivendo questi momenti di tristezza ed angoscia? Penso che la cosa più difficile da sopportare per tutti sia questo senso di impotenza e solitudine. Nella normalità quotidiana anche semplici gesti come andare a farsi la barba o accorciare i capelli possono essere momenti che, quando ne sei privo, ti pesano e ti fanno pensare. Mi capita spesso in questi giorni di fermarmi a pensare a quanti si sono ammalati, ricoverati in ospedale soli senza possibilità di poter incontrare i propri cari e con il terrore di doversene andare senza poterli neanche salutare. Alcuni anni fa ho vissuto in prima persona una esperienza tragica: la morte di mio padre. Tutta la mia famiglia è stata vicina al suo capezzale, noi figli ci guardavamo negli occhi ed anche lui con il suo sguardo sereno sapeva di non essere stato lasciato solo e, serenamente, ha esalato l’ultimo respiro. Solo al pensiero che magari non avrei potuto vivere questo intenso momento con mio padre mi terrorizza e mi da un profondo senso di angoscia. Non sarà facile uscire da questa situazione e ricominciare. Nulla sarà più come prima.


Gianni - Agricoltore Prima la sorpresa, poi l’incredulità, quindi una triste realtà man mano che tutti i mezzi di comunicazione ci sciorinano immagini e dati di contagio sempre in crescita. Un pensionato come me che vive con la moglie e una figlia in una abitazione singola con ampio giardino, annesso ad un orto e un ampio vigneto, non avverte subito le privazioni imposte dalle autorità preposte. Ma dopo una decina di giorni il contagio arriva in zona e subentrano le limitazioni entrando in una fase di costrizioni lontanamente impensabili se non dai racconti dei nostri predecessori che avevano vissuti i disagi nei ricoveri antiaerei. È stato necessario mantenere il controllo per sostenere anche chi intorno presenta problemi di salute e di indigenza. Necessario mantenersi attivi ed imboccare la via della solidarietà di vicinanza. Pochi giorni ancora, e si evidenzia che il ritorno ad una normalità sarà lontana. Come tutti intensifico i contatti telefonici anche di amici che non sentivo da tempo; certo, un aiuto di socialità ma rimane sempre la distanza sociale: i riceventi stanno vivendo la mia stessa situazione, taluni, peraltro in maniera e in condizioni ancora più forti. Poi la visione di uno sceneggiato storico della Rai (1969) sui tre fratelli di Karamazov mi hanno stimolato a riaprire i cassetti della memoria e a proseguire la lettura di libri un po’ impolverati riposti nello scaffale del soggiorno. Strana coincidenza: immerso nella lettura per vincere l’isolamento, un liceale che doveva illustrare, quale esercitazione a distanza, la polemica di Platone sull’arte, chiede la mia collaborazione; una richiesta stimolante e sicuramente occasione per ritrovare il piacere di rivedere alcuni punti del suo sistema filosofico. Per inquadrare meglio il tutto, visto che le distanze sociali continueranno, sto ora proseguendo spaziando tra la scuola Pitagorica, quella Eleatica prima e poi quella di Aristotele. Alla mia età e nella mia condizione si è rivelato un arricchimento speciale. Mia moglie parla di uno scatto evolutivo dopo secoli di carta stampata in un’epoca in cui faccio sempre più ricorso all’uso di internet. Adesso mi augurerei che presto tale pandemia possa decrescere velocemente anche se molto forte è la consapevolezza che andremo incontro ad una crisi del tutto inedita con riflessi negativi su più fronti, in particolare, da quelli economici a quelli sociali. Ho fiducia nella scienza e nella ricerca e rimane la speranza che presto arriverà un vaccino ad hoc, quale unica certezza per uscire dal tunnel che stiamo percorrendo. Rimango positivo anche perché resto della convinzione che i nostri amministratori saranno all’altezza di assumere decisioni sagge; ma nulla sarà come prima e le circostanze ci porteranno a cambiare abitudini e stili di vita, speriamo in positivo.


Andrea C. - Pensionato Sono consapevole che ho 81 anni, che sono una persona con diabete e che in passato ho avuto anche una pleurite che ha lasciato segni nei miei polmoni. Quindi, appartengo alla parte della popolazione più esposta al rischio di contrarre il corona virus e di lasciarci la pelle. Tuttavia, mantengo una irrazionale certezza di potercela fare e credo di poter dire che questa irrazionale certezza dipende dalla convinzione che intanto, prima o poi, si deve morire lo stesso e che non voglio passare quello (tanto o poco) che mi resta da vivere nell’angoscia di morire. Preferisco rimanere il più possibile attivo, continuando a fare le cose che mi è sempre piaciuto fare e, soprattutto, cercando di capire che cosa succede intorno, nella città dove vivo, in Italia e nel mondo. Immagino che molti, in questa fase di forzato distanziamento, trovino il tempo per riflettere in silenzio, meditare, forse anche pregare. Molti altri resteranno ore attaccati al televisore, passive. La televisione la guardo anch’io, forse qualche ora più del solito. Il cellulare squilla in continuazione, molto più del solito, perché sostituisce i rapporti faccia-faccia. Quello che rimane acceso dalla mattina a notte fonda e il mio piccolo ma potente PC. Mi permette di essere in contatto col mondo, posso leggere i giornali dei paesi dove parlano e scrivono nelle lingue che conosco, ricevo messaggi e-mail da persone che non vedo da anni, faccio anche riunioni con amici e collaboratori, posso rendermi conto di che cosa sta succedendo nel mondo, un evento inaudito, diverso dalle epidemie del passato, perché succede contemporaneamente quasi in ogni angolo della terra. Sono anche preoccupato, certo, per i figli, per i nipoti, per quello che potrà succedere in Italia e in Europa nelle prossime settimane, nei prossimi mesi e forse anni. Ho però fiducia, sono convinto che l’intelligenza umana si sveglia nei momenti di crisi e che non bisogna lasciarsi andare alle previsioni apocalittiche. Anche se fossi solo, per fortuna non lo sono, non mi sentirei isolato.


Donatella P. - Casalinga Il corona virus ci ha obbligato a stare in casa. Ma visto che noi abbiamo già problemi di salute ed una certa età non è che la cosa ci abbia sconvolto più di tanto. In compenso abbiamo, per passare il tempo, avuto lunghe telefonate con amici che non sentivamo da molto, un po’ per passare il tempo e molto per avere notizie anche di chi non vedevamo da tempo. La solidarietà nel nostro Condominio e dintorni si è fatta sentire perché noi abbiamo “una rete di protezione” da parte di alcune persone amiche ma, a nostra volta, abbiamo fatto da “rete di protezione” ad altre persone dandoci una mano vicendevolmente. Abbiamo esposto al balcone verso la piazza in cui è rivolta la nostra casa la bandiera italiana perché in questo momento per noi ha un alto valore simbolico. Non abbiamo e non avremo mai la bandiera dell’Europa. Siamo due persone, quasi anziane, che si fanno compagnia e si sopportano ma non abbiamo un grande ottimismo riguardo al futuro perché non abbiamo figli, forse non ci resta moltissimo da vivere e ne abbiamo viste troppe per contare sulla competenza, l’organizzazione, l’efficienza e la capacità dei nostri governanti che dovrebbero salvaguardare più solertemente la salute dei cittadini in tutti i sensi. Tutto sommato non ce la caviamo male, ma spesso pensiamo alle persone sole, anziane, malate, senza grandi risorse economiche, senza una casa e senza una famiglia. Solo per loro possiamo piangere e ringraziare Iddio per quello che abbiamo.




Capitolo 3 La fiducia, la speranza, l'ottimismo

Le persone di tutte le età sono sensibili agli effetti negativi dell’isolamento sociale e della solitudine, ma le persone anziane possono essere più sensibili: la perdita del “contatto” di familiari o amici, le malattie croniche e le menomazioni sensoriali, come la perdita dell’udito che può rendere più difficile l’interagire, le disabilità fisiche, per loro l’isolamento sociale rende l’isolamento ancor più isolamento, rende le fragilità ancor più fragilità. C’è comunque un’enorme variazione individuale nella capacità di gestire l’isolamento sociale e lo stress. E non parlo solo degli anziani. Isolamento, paura e incertezza potrebbero esacerbare i problemi di salute mentale anche dei giovani. Non tutti hanno affrontato, e stanno affrontando, la situazione con lo stesso livello di salute mentale. Qualcuno si è mostrato particolarmente vulnerabile perché già con problemi di ansia sociale, depressione, solitudine, abuso di sostanze, o altri problemi di salute. In questi casi occorrerebbe un monitoraggio continuo anche a distanza. Un contatto anche più volte al giorno. E laddove non è possibile, il silenzio diventa dolore..



Gianni M. - Bancario Una canzone di Lucio Dalla di tanti anni fa diceva “Milano che banche, che cambi…” e poi ancora “Milano a teatro, Milano che ride e si diverte…”. Quanto sembra irrimediabilmente persa quella spensieratezza di quelle note o anche quell’orgoglio un po’ “bauscia” di sentirsi primi della classe, europei, con la rinascita della nuova zona Gae Aulenti o del quartiere City Life. Oggi Milano non ride. Non si diverte. Le banche sono aperte a singhiozzo e su appuntamento. I cambi, forse è meglio lasciare perdere. E io? Io che sono un dipendente bancario, di una banca tradizionale con sportelli, e mi occupo prevalentemente di assistenza alla clientela? Io che conosco uno per uno i miei correntisti e adesso? Certo mi sento orgoglioso per quello che la mia Banca ha subito approntato, destinando forti risorse all’aiuto, alla Protezione Civile, ma alla fine al giovane con il mutuo da pagare, al commerciante che ha chiuso i battenti, alla signora che faceva la colf per mandare i soldi in Romania cosa gliene può importare? Come la capitale morale, la capitale finanziaria può prendersi cura dei suoi cittadini, delle loro finanze, dei loro risparmi bruciati dal crollo delle borse, dei loro sogni infranti e delle preoccupazioni per il futuro? Queste paure che sono le mie, di mio figlio, del mio vicino di casa, dei miei correntisti sono grida di dolore alle quali mi sento di dovere rispondere. E’ difficile manifestare le proprie sensazioni in un periodo come questo. Svolgo la mansione da tanti anni e spesso ci sono stati periodi bui, ma come adesso mai. Una parte di me è orgogliosa di poter essere di aiuto e supporto ai clienti, di esserci per far sentire la vicinanza e la presenza, ma un’altra è molto preoccupata per il fatto di essere in prima linea sempre a contatto con la gente senza protezioni e con cautele che spesso risultano inadatte. Considerando che la sera torniamo a casa dai nostri cari. E’ difficile svolgere un compito sociale che richiede di tranquillizzare gli altri quando non si è affatto tranquilli ed è inoltre molto fastidioso soprattutto non vederlo riconosciuto. Nelle considerazioni fatte, nessuno ha mai nominato o ringraziato la nostra categoria. Categoria privilegiata? Forse sì ma comunque sempre presente, sempre pronta a metterci la faccia, con i rischi che questo comporta. Il rispetto viene spesso chiesto ma bisogna anche darlo.


Laura B. - docente universitario in pensione Devo proprio ammettere di aver scoperto il piacere di fermarmi, come un bisogno che non potevo non volevo mai ascoltare. Nonostante questo, arrivo come al solito, trafelata all'unico appuntamento quotidiano delle 18 su zoom. Sara il mio DNA?? Ho anche riscoperto il piacere di occuparmi personalmente della pulizia di casa. È vero che patisco di non andare in piscina, a ballare e in bici ma, facendo i lavori di casa e almeno una volta al giorno 6 piani a piedi, riesco comunque a capitalizzare più di 6000 passi, circa 5/6 km. Non credevo. Sono ormai 42 giorni di ottima salute, 15 di isolamento volontario perché tornavo da zona rossa e gli altri di reclusione obbligatoria. Più il tempo passa, più mi sembra di aver bisogno di questo tempo “libero”. Ci sono un mucchio di cose che dovrei guardare, ordinare, selezionare, buttare e ancora non sono riuscita a farlo. Quando esco a buttare il sacchetto o a fare un po' di spesa, mi accorgo di schivare le persone. Due volte, in due supermercati diversi ho provato e cercato, timidamente, di provare un grosso fastidio nei confronti di due persone, che non portavano né maschera né guanti reperibili all'entrata; toccavano tutto, parlavano forte a bocca spalancata saltellando da un reparto all'altro. Ho sentito aggressività e disprezzo nei loro confronti. La bellezza dell'ora legale, con il sole alle 7 di sera. La piacevolezza del silenzio, abitando al sesto piano di un appartamento luminoso, con un piccolo balcone, aperto sulla vista mare. Provo momenti di intima gioia. Oggi, cercando di fare un esercizio a terra, mi sono accorta che sono anchilosata. Ballo, bici, piscina... ma da quanto tempo non prego, non medito in ginocchio?? Da quanto tempo non sto “per terra”? Ce la posso ancora fare. La pulizia dei pavimenti e le scarpe fuori della porta sono essenziali, se voglio ritrovare il rapporto con la terra. Si, ho pulito bene tutti i pavimenti. Porca miseria! Anche questo pomeriggio assisto alle colonne di camion con le bare e le residenze per anziani, on quei letti lasciati vuoti da persone appena morte, con le lenzuola ancora sfatte, con il bicchiere con la cannuccia ancora sul comodino e quegli altri letti nella penombra occupati da vecchiette in miniatura, statuine di porcellana che stanno per morire, fredde e sole. Pietà infinita e rabbia per i responsabili. Non riesco a piangere per loro perché l'ansia e le lacrime arrivano subito, ma per mia sorella disabile che sta in una casa famiglia. Ho parlato con il Presidente della struttura, mi sono commossa per il senso di fiducia che mi ha liberato il cuore dall'ansia. Gli ho appena scritto una lettera di gratitudine. Provare fiducia e gratitudine è la cosa più bella che ci possa capitare, la cura più sana contro impotenza e solitudine.


Valerio F. - Imprenditore La mia vita di oggi al tempo del “Corona Virus”, con le sue restrizioni, mi riporta al tempo dell’epidemia “Tangentopoli”. Era il 2 novembre del 1993 ed allora come oggi mi privarono della liberà. Rinchiuso in una cella 3 metri per 2, senza alcun aiuto psicologico, come invece mi accade oggi in una villa con giardino e con il supporto della mia famiglia e di tutta la nazione. Chiusero forzatamente i miei 14 cantieri, tutte le mie attività e le banche mi chiusero tutti i conti. Anche oggi nel periodo del C.V., hanno chiuso tutte le attività, e solo dopo 15 giorni il governo italiano e tutto il mondo economico è in ambasce non sapendo più come aiutare, giustamente, tutte le aziende in difficoltà. Così come oggi al tempo del C.V. misero in ginocchio me e la mia azienda che contava più di 300 operai e proprio come oggi 300 famiglie, senza preavviso e aiuto, si trovarono a non avere più di che vivere, senza alcun ammortizzatore sociale e senza allora capire perché. La mia quarantena durò 50 giorni, e quando finì l’isolamento trovai in macerie la mia azienda, fiore all’occhiello della provincia nella quale operavo, le mie relazioni ed il mio nome, nella completa indifferenza dello stato, dell’associazioni di categoria e di quanti avrebbero potuto aiutarmi. Oggi al tempo del C.V. alle aziende, grandi, medie e piccole, ai lavoratori e non, saranno dati aiuti dallo Stato, dalle banche, dalle associazioni con grande solidarietà. Finita l’esperienza chi mi colpì, la mia azienda riprese con grandi sacrifici, a lavorare ed onorare tutti gli impegni, completare tutti i lavori in corso, con rinnovato successo e senza aiuti, né bancari, né morali. La mia assoluzione arrivò dopo 15 anni da parte della stessa magistratura che mi aveva accusato. La mia fu una assoluzione da tutti i reati ascritti, e non una prescrizione. Da questo l’irresponsabilità a quanto accadutomi, così come oggi. Comunque quello è restato il periodo più brutto della mia vita. Oggi al tempo del C.V. pensando al “giorno dopo”, mi sento di dire che, quando tutto sarà finito, tutti potranno ricominciare con l’aiuto dello stato, delle banche e in totale solidarietà. Oggi sto vivendo questo periodo di restrizione con grande serenità, potendo stare con la mia famiglia, leggendo, passeggiando in giardino e scambiando, con i miei amici, sensazioni e stati d’animo via Internet. La mia famiglia anche in questa occasione, è fonte di aiuto, coesione e serenità, e mi condurrà per mano a superare anche questa difficoltà. Credetemi!! Il dopo, per chi non ha perso i propri cari, sarà una passeggiata.


Giada S. – Mamma di una ragazza con diabete Sono la mamma di una ragazzina di 13 anni, con diabete di tipo 1 dall’agosto del 2017. Queste settimane sotto emergenza Covid-19 scorrono lente, anche se alla fine di ogni giornata la sensazione è quella di non aver avuto un attimo di pausa. E di non aver portato a termine tutto quello che era in programma. Lavoro abitualmente da casa, quindi mi sento fortunata perché, quella che per alcuni è una reclusione, per me è routine. Anche se continuare a lavorare con gli stessi ritmi di prima, non è facile. Siamo in una piccola casa, senza spazi per stare da soli e concentrarsi, e le necessità domestiche sono improvvisamente lievitate. Rachele è impegnatissima con la scuola, tra videolezioni e compiti. Non si annoia mai, anzi, fatica a prendersi dei momenti di relax. Abbiamo da poco festeggiato il suo 13esimo compleanno, è stato un po’ strano, ma siamo comunque state bene. Non abbiamo problemi con le forniture per gestire il diabete perché, grazie anche all’impegno della nostra associazione, tutte le procedure sono state snellite. Tra qualche giorno la USL ci consegnerà tutto a domicilio. L’unico vero problema è la spesa, ma con molto impegno e molte ore dedicate, ora riesco a farla online. A volte, prese da tutto quello che abbiamo da fare e abituate a stare quasi sempre in casa, ci sembra quasi di “dimenticare” perché siamo qui e cosa sta succedendo là fuori. Seguiamo le notizie con gli aggiornamenti quotidiani, ma senza ossessione. La preoccupazione c’è, ma cerco di tenerla per me. Rachele è abbastanza grande da capire, in parte, l’enormità di quello che sta accadendo, ma non le dirò mai che la mia sola paura, ora, è che questo virus possa separarci. Alla preoccupazione come madre, si aggiunge quella come caregiver. E chi si occupa 24 ore su 24 di una persona cara con una malattia cronica come il diabete, sa cosa intendo dire. Non si può mai abbassare la guardia, mai distrarsi, mai stare male. Mi occupo io di lei, della sua terapia, anche nei giorni in cui sta con suo padre, dal quale sono divorziata. Dall’8 marzo non è più uscita da casa nostra, mentre io due o tre volte ho dovuto farlo. Ogni volta con apprensione, me ne sono resa conto dopo. Se mi ammalassi, se dovessi essere ricoverata, chi si occuperebbe di lei? E se la contagiassi, potrei starle accanto?




Capitolo 4 Il quotidiano, il lavoro, il cambiamento

C’è un vecchio studio del dipartimento di scienze comportamentali dell’Università dell’Arizona sui reduci della guerra in Vietnam. In particolare, sulla salute mentale dei militari statunitensi catturati dai vietcong e tenuti a lungo prigionieri in minuscole gabbie, chiamate “gabbie da tigre”, a volte immersi in acqua fino al mento. È stato visto che chi è sopravvissuto senza gravi conseguenze psichiche è chi durante la prigionia ha rafforzato una fondamentale difesa della salute psicologica a lungo termine: l’ottimismo. I prigionieri che hanno sempre creduto di sopravvivere nonostante tutto e che erano sicuri che i loro commilitoni avrebbero vinto la guerra e li avrebbero liberati, hanno alla fine salvaguardato una migliore salute mentale o limitato gli effetti dello stress post traumatico. Il paragone può essere eccessivo, ma se la psiche umana è in grado di limitare i danni in una situazione così estrema tanto più vanno consigliate le armi vincenti per poter uscire indenni dal lockdown: la fiducia, la speranza, l’ottimismo. E la proiezione al dopo, a una fase 2 psichica, alla quale arrivare dopo un’attiva progettualità messa in atto nel silenzio obbligato del lockdown.



Fausto G. - Ambulante Basta poco e tutto cambia. Sono ormai arrivato alla terza settimana di isolamento, con il mio lavoro di ambulante ibernato fino a quando non si sa, grazie ad una famigerata sigla: COVID-19, che difficilmente dimenticherò. Chi lo avrebbe mai immaginato che la mia vita sarebbe cambiata così radicalmente e repentinamente? Oggi ho nostalgia anche di quelle uscite fuori programma perché “qualcuno” aveva dimenticato di comprare il latte e io che avevo appena messo piede dentro casa, dopo una giornata di lavoro, speravo solo di potermi rilassare e godere la tranquillità del mio appartamento in compagnia dei miei cari. Invece via di corsa, anche un po’ indispettito, a porre rimedio alle “dimenticanze”. In questi giorni invece, giro per la casa come un animale in cattività, cercando qualcosa da fare per far scorrere il tempo più rapidamente, in attesa di una edizione speciale del TG in cui il Presidente del Consiglio o della Repubblica o chiunque ne abbia l’autorità, insomma qualcuno.... mi dica che il peggio è passato, che siamo ormai ad una svolta e possiamo ricominciare lentamente -ma finalmente!- a tornare ad una parvenza di normalità, pur sapendo che nulla sarà come prima, soprattutto per chi ha perso un familiare, un amico, un collega o un vicino. Ma nel frattempo che faccio? Come mi organizzo? Come passo il tempo? Non sono un esperto anzi sono un principiante che va avanti per tentativi. Ho paura, sono frastornato. Ho mille domande e preoccupazioni cui non so rispondermi: ...e se non troverò più le medicine che devo prendere sempre? ...e la mascherina siamo sicuri che mi protegga?... e se mi salta addosso pure questo virus come farò, me la caverò? E la mia famiglia come farà?... e quanto riusciremo ad andare avanti senza poter lavorare?... Ma visto che non ho la soluzione e nessuna risposta, allora provo a reagire in maniera molto semplice, forse anche banale e proprio per questo mi dimentico sempre quanto sia efficace nella sua semplicità. Il potere di un sorriso! Un semplice sorriso di fronte ad una frase oppure ad un gesto che non mi è piaciuto, ma invece di reagire in cerca del conflitto scelgo di sorridere e sdrammatizziamo. È una questione di allenamento, di pratica, ma alla fine mi diventa naturale e anche questa fase difficile e triste diventa più leggera. Mi aiuta anche a ricordare chi non c’è più, alle risate fatte insieme, insomma a concentrarmi sui ricordi positivi per alleggerire quel senso di tristezza che inevitabilmente mi accompagnerà per un po’, pensando a loro. Ma non mi dimentico di sorridere con chi condivide con me questa vita forzatamente casalinga, con mia moglie e mia figlia, perché anche loro ne hanno bisogno e sono la migliore palestra per un principiante come me. Basta poco e tutto cambia!


Marco C. - Farmacista Potrebbe sembrare poco credibile, se non addirittura altezzoso, sostenere che il lavoro del farmacista non è cambiato molto in questo periodo. In qualche modo, come altre attività di prima necessità, siamo abituati a lavorare quando la città si ferma. Penso ai turni di agosto, alle aperture duranti certi giorni di festa, quando i quartieri residenziali si svuotano, le scuole chiudono, gli uffici rallentano o arrestano il loro ritmo produttivo. Molti di noi si sono dovuti abituare già da tempo a lavorare dietro una barriera di plexiglas, non per paura di un virus, ma di una rapina o di una aggressione. Anche questo fa parte del nostro lavoro. Non sembra essere cambiato molto. Invece è cambiato tutto. Da ormai alcune settimane, il tempo sembra essersi fermato, sospeso in una lunga parentesi dalla quale non sappiamo bene come e quando ne usciremo. Restiamo con il fiato sospeso in attesa dell'arrivo del picco che, come l'invasione dei Tartari di Dino Buzzati, sembra prossimo e terribilmente distante. La pandemia, un termine che sembrava quasi rilegato ai manuali di storia medievale, ha stravolto ogni singolo momento della nostra quotidianità. E anche il lavoro del farmacista deve fare i conti con quanto sta accadendo. I gesti sono misurati e controllati, per paura di contrarre l'infezione, le telefonate frequenti, le domande si ripetono come una catena di anelli tutti uguali: avete mascherine? Avete guanti? Avete gel disinfettanti? Da sempre il ruolo del farmacista è quello di un interlocutore con il quale il cittadino sente di potersi misurare. Spesso, un po' troppo ad essere sinceri, ci viene solo richiesto di ascoltare passivamente delle opinioni alle quali non è ammessa replica. Anche in questo niente di nuovo. Il virus è un arma economica, è scappato da un laboratorio, è un complotto, è tutta una esagerazione. Altre volte fortunatamente riusciamo a trasmettere il giusto messaggio. Come comportarsi, quali linee guida seguire, cosa è consigliabile fare. Mai come in questo momento il consiglio professionale deve superare l'aspetto commerciale della nostra professione. Perchè alla fine di tutto questo, quando lentamente questa tempesta virale sarà passata, quando dovremo ricominciare a costruire una società che ne uscirà certamente cambiata nel suo profondo da questa lunga malattia globale, quello che resterà nella memoria di tutti sarà come ciascuno di noi avrà affrontato questa emergenza. Se per qualcuno la farmacia è un alibi per poter aggirare le restrizioni imposte agli spostamenti, per molti


altri resta un punto di riferimento importante, un tassello al quale resta ancora in piedi una struttura sociale condivisa. Ed in questo momento, supportare lo sforzo comune, sostenendo coloro che in prima linea stanno pagando il prezzo più alto, è il minimo che sento di poter fare. Ho paura, come tutti, per la mia famiglia e per me. Ma come tanti, come molti, sono contento di fare la mia parte. Nella speranza che tutto questo finisca il più presto possibile.


Maria N. - Pensionata Avevo appena compiuto diciotto anni, ancora minorenne, ma già munita di patente e auto di papà. Mi sentivo libera di andare, il mondo era facilmente raggiungibile. Bastava prendere un traghetto, lasciare l’isola. Si, vivevo in una piccola isola, ma non desideravo una barca. Il mare non era un ostacolo, ma un percorso che univa alla “terraferma”; inoltre le mie capacità marinaresche non erano certo quelle di un capitano, anzi neanche quelle di un mozzo di terza categoria. Oggi di anni ne ho tanti di più, vivo in una grande città e la mia auto, batteria regolarmente staccata, ferma nel box, rappresenta la segregazione, il limite, il doveroso impegno di osservare regole che spero siano “sante”. E non esco neanche di casa perché così si consiglia agli ultrasessantenni. Mi ha messo ansia staccare la batteria dell’auto. Non posso neanche più fuggire dal suono ripetuto delle sirene, sempre ammesso che esista un posto ove il mio cuore possa non udirle. La batteria delle autoambulanze non deve essere staccata e purtroppo non si scarica per il troppo star fermo. Ad ogni sirena spero sia una corsa verso una neonatologia, che un bambino abbia fretta di venire al mondo. Come quando mi ritrovo nella mia isola e il rumore dell’elicottero del pronto soccorso mi fa alzare gli occhi verso un cielo così azzurro che non puoi sperare se non in qualcosa di lieto. Dai, nasce una vita. Grazie buon Dio. Ma non è facile pensare positivo quando sollevi il telefono e qualcuno ti dice che è scomparso o sta soffrendo un volto noto, un amico. Allora capisci che i numeri sciorinati alle diciotto dalla tv e che, tuo malgrado, sei portato a cercare sperando in un miracolo che azzeri il tutto non sono numeri astratti, ma persone con una storia, un’anima, un cuore. Non importa chi essi siano. Manca il respiro e la mente si svuota. Temi di far parte dei numeri del giorno dopo, ed allora vorresti accanto a te gli affetti, quelli che sono lontani e quelli che non ci sono più e che speri ovunque si trovino possano intercedere affinché cessi questa realtà devastante e l’umanità ritrovi valori ignorati o accantonati. Sapremo fare tesoro della consapevolezza dei limiti umani? L’onnipotenza non può essere la nostra meta. Intanto sogno di fare la fila al distributore della benzina in attesa che la mia prossima auto vada ad energia solare.


Zaira R. - Impiegata La impressione vedere le nostre città deserte e con saracinesche dei negozi abbassate, una vera tragedia sotto il profilo umano ed economico. Abbiamo bisogno delle nostre città vive, abbiamo bisogno di umanità, di vicinanza vera e non virtuale. Dal punto di vista sociale abbiamo capito dell’importanza della solidarietà e della relazione, noi siamo esseri sociali, viviamo di rapporti umani veri e non di clic chiusi nelle nostre case. La comunicazione virtuale ci dà l’illusione della vicinanza toltaci dal virus, ma abbiamo bisogno di baci, abbracci che per lungo tempo, e forse anche dopo la fine della quarantena, ci saranno impediti. In questo isolamento forzato, chiusi in casa a tu per tu con il nostro compagno, abbiamo imparato a parlarci, ad ascoltarci, guardarci negli occhi e a valutare i colpi di tosse per poi dirci “noi per ora abbiamo la fortuna di essere in salute”! Abbiamo conosciuto parole nuove come Triage e distanza sociale ecc., termini che sono entrati nella nostra vita quotidiana. Abbiamo anche imparato a comunicare tramite i social, ci siamo afferrati su l’uso delle tecnologie, ma tutto questo non ci appaga interiormente. Stiamo vivendo un momento di “sicura” incertezza, e le aspettative che la globalizzazione ci aveva prospettato per migliorare la nostra vita, stanno rivelando una falla nel loro complesso. Questo virus è stato preso con troppa superficialità e sta dimostrando quanto la natura sia forte e invasiva capace di prendere il sopravvento sul nostro genere umano. Ha bloccato tutte le nostre attività, anche quella più semplice di goderci la primavera, costringendoci a spiare da dietro i vetri il riprendersi della vegetazione o lo sbocciare dei fiori nei nostri giardini. In questo periodo di coronavirus tanti amici o conoscenti ci hanno lasciato. Se ne sono andati. Non potremo mai più godere della loro presenza, della loro esperienza, della pazienza nell’ascoltarci, del loro rispetto per le cose, del loro amore fraterno, tutti pregi oramai dimenticati. Ci hanno lasciato senza ricevere una carezza, senza neanche un ultimo bacio dai loro famigliari ed un saluto dagli amici. Questa e una vera tragedia, un dolore immenso. Anche i “media” spesso sono stati incapaci di valorizzare i pregi della nostra società; anzi, direi che sono stati abilissimi ad evidenziarne i difetti. Terminato questo periodo dovremo incominciare da noi stessi ad essere più seri, onesti, altruisti e consapevoli, seguire le regole imposte e non felicitarsi quando possiamo


di gabbare gli altri, perché gli altri siamo sempre noi. Ci siamo accorti che c’è tantissimo da fare per rendere felici chi oggi è in difficoltà, ma spesso non ci rendiamo conto che anche un semplice gesto può rendere felice una persona. Aiutare il prossimo può farci sentire utili in questa società che ha perso tanti valori. Ormai io sono nella seconda parte della mia esistenza e non vorrei sprecarla. Ho sempre più fretta di vedere una comunità unita a partire dalla lotta contro questo covid19, ma anche contro tutte le diseguaglianze che vediamo nel quotidiano. Mi auguro che l’esperienza vissuta in questo periodo non si disperda. Penso che il messaggio che proviene da questa pandemia sia un invito a riflettere sulla nostra vita, un invito alla moderazione, a sapersi contenere per trovare il giusto limite di ogni cosa, un invito a ricordarci che siamo ospiti in questo mondo, non i padroni!




Capitolo 5 La famiglia, gli affetti, i sentimenti

Il coronavirus ci sta chiamando a sopprimere i nostri impulsi profondamente umani e evolutivamente legati alla connessione: vedere i nostri amici, riunirci in gruppo o toccarci a vicenda. Il coronavirus potrebbe, per esempio, cambiare la percezione delle generazioni più giovani sulle distanze sociali sicure. Alcuni di loro perderanno nonni, genitori, fratelli e amici. Alcuni potrebbero stringere la mano meno di prima o essere più consapevoli di trovarsi a meno di un metro da sconosciuti. Diventando molto più attenti a ciò che li circonda e a ciò che entra nel loro perimetro percettivo psico-fisico. Sesso a parte, baciare è un atto più rischioso, e quindi più prezioso, in una pandemia respiratoria con mascherine sul viso per proteggersi e per proteggere gli altri. E nel post pandemia la vita dei giovani, e non solo, potrebbe diventare ancora più radicata nella tecnologia perché la scuola si è spostata online e c’è più lavoro a distanza e incontri virtuali in videoconferenza. Anche per i ventenni, quelli della generazione z, la pandemia sarà un’esperienza determinante. Il virus è arrivato proprio all’ingresso nell’età adulta, alterando le possibilità di lavoro e di carriera. Erano pronti a farsi strada in un mondo in cui l’economia era in ripresa e la disoccupazione calava. Ora si è tutto ribaltato. E nessuno sembra sapere che cosa accadrà perché ciò che accade è un evento studiato migliaia di volte teoricamente ma per la prima volta realmente.



AnnaMaria M. - Studentessa È successo così, decreto dopo decreto, mi son trovata a modificare sempre più la mia routine quotidiana. Inizialmente, quando il 24/02 hanno annunciato la chiusura delle università, la sensazione che ha accomunato me e i miei compagni è stata di gioia ingenua: “una settimana di vacanza” ho pensato. Due settimane dopo però, l’entusiasmo è stato brutalmente smorzato dal nuovo decreto, che vietava ogni spostamento non necessario. Mi sono vista costretta a ripensare alle necessità prime, e ad adattarmi ad un regolamento, facendo prevalere il senso civico e l’appartenenza ad una comunità ai miei interessi ed affetti. Le lezioni online hanno preso ad essere sempre più numerose, fino a farmi chiedere come facessi un tempo a seguirle tutte, mantenendo attività e contatti sociali. Essere da soli ad ascoltare la registrazione di un professore è evidentemente più impegnativo rispetto a poter condividere in istantanea un pensiero o una battuta con i tuoi compagni, così come scrivere una mail formale ed aspettare una risposta (che non sempre arriva), è meno invitante che alzare la mano per risolvere velocemente un dubbio. Il rapporto con il professore, già difficile da instaurare in aula, si spersonalizza completamente sostituendo uno schermo al contatto visivo. Anche le relazioni con gli amici si sono necessariamente modificate un bel po’: esprimere le proprie emozioni per sentirsi confortati e compresi risulta meno efficace ed agevole via messaggio o in videochiamata, dove è più conveniente dissimulare di stare bene, nell’attesa che tutto si concluda. E poi c’è il mondo di fuori: le notizie al telegiornale o le chiamate ricevute facendo volontariato in centralino, ti ricordano il motivo per cui tutto è bloccato, ti mostrano scorci di terribili tragedie che persone come te stanno vivendo, perché il coronavirus non guarda nelle tasche o nei cuori di chi colpisce. E allora le egoistiche lamentele che leviamo contro “noia” o “impossibilità di andare al parco con gli amici” crollano sotto il peso di una muta compassione, impossibile da esprimere se non lanciando uno sguardo al vicino affacciato al balcone, o pregando Dio da sotto le coperte. Ma qualcosa di buono in questa lunga pausa c’è, ed è la riscoperta della famiglia con cui condividi un tetto. Mangiare tutti insieme ad ogni pasto, rispolverare giochi di società caduti nel dimenticatoio, osservare abitudini mai notate prima, perché troppo presi dalla propria frenesia; ma anche rendersi conto di quanto lavoro c’è da fare per mantenere pulita ed agevole la casa, e cercare di alleviare al minimo le difficoltà del condividere 24 ore su 24 la stessa abitazione, allenandosi a mettersi al servizio dei propri cari. Come tutte le situazioni di difficoltà dunque, la speranza è quella di uscirne più forti, più uniti, e più sinceramente grati per quella “normalità” che adesso appare così lontana.


Sergio R. – Pensionato e persona con diabete Mi sembra di vivere una situazione quasi irreale se non fosse per i continui aggiornamenti riproposti dai vari media circa i contagi e decessi giornalieri. Devo ammettere che di fronte a certe scene televisive, come il lento procedere dei camion dell’esercito in fila, con dentro tante bare e destinazione ignota, mi ha provocato un senso di profondo sconforto e fatto arrossare gli occhi. Triste pensare alle tante persone (forse molti anziani) che ci hanno lasciato prive del conforto dei propri cari i quali dovranno pure faticare per riavere le povere ceneri. Altrettanto toccante la scena di una inusitata Piazza San Pietro vuota attraversata dalla candida figura di un Papa che, in solitario e sotto una pioggia battente, guadagna con passo incerto, l’altare per baciare un viso dolente di un miracoloso crocifisso ligneo. Un silenzio assordante reso lugubre dalle sirene di ambulanze che sopravanzano la misticità del momento. I sentimenti dell’irrazionale si accavallano, l’animo è in subbuglio e un senso di angoscia e di impotenza pervadere la mente: sicuramente un momento di umana debolezza carpito dalla moglie che mi siede accanto. Lei accarezza lievemente il mio viso corrucciato e lo appoggia sul suo seno; capisco che devo riprendere il controllo di me stesso; reagisco, ci guardiamo e, quasi all’unisono, pronunciamo: «ce la faremo». Nonostante l’esilio casalingo i giorni scorrono privi di ansie particolari, prevale la capacità di adattamento (ma fino a quando?), vissuto in un rapporto di coppia più intenso, più collaborativo e comprensivo. Piacevoli le telefonate e i whatsapp degli amici, gli sguardi interessati alla TV per seguire l’andamento pandemico, aspettando l’ora dei pasti e cercando di non perdere la ‘battaglia’ con i carboidrati e la glicemia grazie alla cyclette di casa e le sgambate nel grande parco condominiale. Rimango vigile alla cura della persona e qualche volta indosso l’abito della festa con tanto di cravatta così, giusto per darmi un tono. Il taglio dei capelli è affidato alle forbici provette della moglie, la mia “eroina” in tutti i sensi, piena di iniziative e fonte oculata degli approvvigionamenti alimentari. In questa fase abbiamo riscoperto una nuova affettività e aspettiamo con gioia di riconsacrare (nel 2021) il matrimonio a 40 anni data della celebrazione di questo meraviglioso sacramento. Tra gli stati d’animo non mancano momenti di tristezza in particolare per la falcidia di tanti operatori sanitari, di tanti anziani, di molte fasce deboli, di quanti rimasti privi di mezzi vivono della generosità di un’Italia, comunque solidale. Niente potrà essere come prima: tutti dovremo fare la nostra parte consapevoli che non potremo affrontare con gli strumenti della normalità l’attuale fase di straordinarietà. Giornalmente, grazie alla tecnologia, trovo conforto dai colloqui telefonici con le figlie all’estero che vorrebbero


controllare i nostri movimenti insistendo, con toni imperativi, di restare a casa. Ho provato emozioni positive partecipando al flash mob e ad altre manifestazioni che hanno fatto percepire il nostro Paese come una comunità coesa e resuscitato un sopito senso di appartenenza ad una italianità dispersa. Purtroppo questo inaspettato e micidiale virus mi ha portato via ben tre amici, con uno dei quali ho condiviso 20 anni della mia attività professionale. Soffro e prego per un caro amico medico ricoverato con respirazione forzata e un altro positivo bloccato a casa. Ma accanto alla tristezza provo un forte senso di rabbia quando assisto all’atteggiamento di una Europa dove tende a prevalere un egoismo nazionalistico: un’occasione sciupata verso una costruzione confederale. Peccato! Soprattutto per le nuove generazioni e in barba allo spirito dei primi costituenti. A questa frustrazione si associa un sentimento di fastidio pensando al balletto circa l’utilità o meno di indossare le mascherine, quella dei cosiddetti tamponi; piuttosto che alla opportunità o meno di procedere ai ‘test anticorpali’; che dire poi dei messaggi contradditori sulle possibili aperture di spazi di libertà, per non parlare delle inchieste contrapposte su presunte irregolarità e ritardi dal vago sapore politico. Aspetti che stridono rispetto alla situazione emergenziale, rischiano di suscitare confusione oltre che sfiducia verso le istituzioni e dello stesso mondo scientifico. Invece, come cittadini, abbiamo bisogno di certezze e di una visione: e oggi non basta più dire «restate tutti a casa». Certo, dobbiamo rimanere ottimisti (e io lo sono) e tenere viva la speranza per il dopo. Tuttavia, ritengo ormai necessaria una svolta e una nuova narrazione che indichi delle prospettive e un percorso puntuale relativo ad una “ripresa di vita”, certo graduale e in sicurezza, purché non vanifichi i sacrifici sin qui sopportati…. A proposito: ma quando arrivano le app intelligenti per ‘liberare’ gli uomini addetti ai controlli stradali?




Giorgia C. - Casalinga Dicono che sia come affogare. La sensazione è quella. Dicono che si muore soli, senza nessuno. Momento difficile, quello del coronavirus. Abbiamo vissuto decenni chinati con il cellulare in mano escludendo tutto ed ora siamo costretti al distanziamento fisico. Destino beffardo, virus beffardo. La mancanza di libertà è una costrizione pungente e amara. I ricoverati hanno imparato a leggere reazioni ed emozioni tramite occhi che spuntano dalle mascherine che li curano. Nessun contatto con parenti, amori, figli. Solo mani disinfettate e guanti che toccano senza pelle e calore. Tutto è diventato asettico e intoccabile. Abbiamo vissuto un’epoca in cui c’era tutto, avevamo tutto e bastava allungare le dita per desideri di un secondo. Tutto, subito. Ora siamo costretti ad aspettare, a vivere in un tempo sospeso tra mura di casa che mai abbiamo sentito così protettive. Chiusi, nella nostra caverna. Un percorso a ritroso, pagando un tempo lento che prima non esisteva più. Le giornate frenetiche hanno lasciato il posto a ore da riempire che ci costringono a pensare. Tempo prima schiavo, ora infinito. Ci hanno lasciati soli a riflettere allo specchio, valutando problemi che sembravano insormontabili ed ora appaiono improvvisamente sfuocati. Cambiano le priorità e la vicinanza diventa necessaria. La globalizzazione ha lasciato posto alla solidarietà di marciapiede e le zone immense delle città sono diventate piccoli paesi dove basta allungare una mano, aiutarsi e sorridere. Prima passeggiare con il cane era un dovere amorevole, ora ci si saluta con un gesto, un sorriso dietro la mascherina come fosse una boccata d’ossigeno nell’anima. Il mondo cambia. Il mondo presuntuoso e saccente che non ascoltava scienza e medicina, ora la brama come una bussola in tempesta. Forse si capirà quanto la ricerca serve perché l’uomo nulla può, contro la natura, ma ha molti strumenti per viverla, gestirla, come un silenzioso e rispettoso alleato. Una natura che lentamente sta riprendendo il suo posto nelle piazze, nell’aria, nei parchi. Solo l’uomo di scienza ora e la ricerca possono guidarci e possono indicarci la vera strada e dovrà essere così, anche in futuro. Siamo reclusi. Reclusi in noi stessi e con i nostri figli. Figli sani o figli che hanno criticità e malattie. Il diabete tipo I in questo contesto, diventa alleato del virus e contribuisce a rendere complicata la gestione per mancanza di movimento o abitudini diverse. Ed allora l’adolescente che già vive il mondo in una stanza soffocata, ritrova un nemico in più, duro e spietato. La paura di non trovare il necessario in farmacia, la paura di restare in balia di eventi non arginabili, eventi che non dipendono da nessuno. È l’incertezza che attanaglia e toglie il fiato. Ecco quanto diventa importante l’assistenza, l’organizzazione, la professionalità del settore medico. Abbiamo


tanti pensieri, tante insicurezze ed in momenti come questi conta restare uniti fianco a fianco garantendo con pazienza ed empatia, il proseguo di una vita quasi normale. L’uomo è resiliente. L’uomo si abitua lentamente a modifiche radicali di vita, ma questa volta non dobbiamo dimenticare la lezione. Il tempo è prezioso. Il tempo va gestito meglio. Dobbiamo tornare a valori umani necessari perché sono davvero gli unici che arricchiscono. Questa non è guerra come molti ripetono, non è una battaglia con un minuscolo millimetro invisibile, è una sfida dell’uomo con sé stesso. Dobbiamo vincerla ed essere migliori. Tutti.


Eleonora G. - Atleta olimpionica Lo sport mi ha insegnato ad affrontare gli ostacoli, accettare le sconfitte e rialzarmi più forte e determinata di prima. Questa capacità si chiama resilienza: “mi piego, ma non mi spezzo”. Ci si può allenare ad essere resilienti? Certo, io mi sono allenata in questi anni di gare, agonismo, vittorie, ma soprattutto sconfitte, senza mai arrendermi. Questa qualità mi è tornata molto utile in questo periodo. Le Olimpiadi sono state rimandate di un anno, si terranno nel 2021. Saranno le prime Olimpiadi della storia in un anno dispari. Naturalmente sono d’accordo con la decisione del CIO, la salute prima di tutto. Da quando le Olimpiadi sono state rinviate, anche gli atleti professionisti, che prima avevano una deroga per potersi allenare, hanno dovuto rallentare la propria preparazione. Io sto continuando ad allenarmi a casa, con i mezzi che ho e ne ho approfittato per trasformare questa situazione in un’opportunità per migliorare in altri campi. Non è stato facile. Ogni volta che guardavo un telegiornale la situazione era molto grave ed ero davvero triste per tutte le persone che sono venute a mancare. Ho imparato ad apprezzare il valore delle piccole cose quotidiane, che prima davo per scontate ed ho cercato di trovare il lato positivo anche in questa situazione difficile. Mi sono posta dei piccoli obiettivi ogni giorno. Ecco ciò a cui mi sono dedicata: - Migliorare la mia flessibilità e mobilità articolare. - Tanti esercizi di potenziamento per prevenire infortuni futuri e per poter ripartire più forte, quando sarà possibile. - Un esercizio che non riuscivo a fare, mi sono posta l’obiettivo che a fine quarantena ce l’avrei fatta! - Una ricetta di cucina che volevo provare da tempo. La mia cucina è diventata una pizzeria/pasticceria: adoro cucinare torte e pizze! - Ho dedicato più tempo alla lettura. Amo leggere e sono riuscita a leggere molti romanzi che avevo nella mia lista. - Ho apprezzato il silenzio che mi circondava, interrotto a tratti dal rumore assordante delle ambulanze. - La passeggiata con il cane è diventata un momento di relax e di oasi nella città deserta. Che sensazione


stranissima! Siamo tutti abituati a correre in un mondo frenetico ed ora che abbiamo dovuto fermarci non ci sembra neanche vero. La prima cosa che farò finita la quarantena? Una bella pizza con gli amici, un abbraccio ai miei nonni, un allenamento al parco e non vedo l’ora di tornare a macinare km, a fare fatica. C’è voglia di normalità. Diamo il meglio di noi stessi e affrontiamo con entusiasmo e con il sorriso le sfide che ci aspettano.



Capitolo 6 L'impegno, la solidarietà, il futuro

Il mondo in quarantena per mesi è una novità storica. Non è mai accaduto, e ha messo a nudo tante insicurezze a vari livelli. Anche importanti. Insicurezze a cui non eravamo abituati e che alla lunga stanno sorprendendo tutti. Le esperienze di vita di nonni e genitori hanno una valenza relativa perché sono simili a quelle di chi non ha mai vissuto nulla da cui trarre insegnamento. Ma ecco che scende in campo l’istinto di sopravvivenza dell’umanità e la sua capacità, unica, di adattamento. Dal cassetto si tirano fuori quelle armi vincenti che fanno ripartire, che ridisegnano il quadro, che ridanno rumore alla società: speranza, fiducia, ottimismo. Una giovane imprenditrice italiana trentenne scrive la sua riflessione sui social e io la copio e incollo perché significativa: “Cosa farebbe l’imprenditore dei miei sogni? Cosa farebbero i miei eroi? Cosa farebbero i miei genitori e i miei nonni? La realtà è che nessuno lo sa. E per noi, la generazione dei 25-30enni, in cui l’università segue il liceo, e poi il CV si forma a suon di aziende riconosciute o di round d’investimento chiusi, questa è probabilmente la prima volta. L’intuizione più utile che ho avuto in tutto ciò è che niente (o quasi) succede per la prima volta nel mondo. Avete paura di non avere uno stipendio pagato il mese prossimo? Anch’io, insieme a milioni di altri imprenditori, impiegati, liberi professionisti. Avete paura della morte? Lo stesso, e questo è successo a un certo punto a tutti coloro che hanno vissuto su questo pianeta. Hai paura che il mondo non sarà più lo stesso? Sono d’accordo, e il mondo è pieno di persone con cui parlarne. Una generazione Y più umana e compatta prenderà vita da questa esperienza, una generazione che sarà più preparata ad affrontare l’incertezza e che avrà sviluppato nuove capacità per farvi fronte”. Una storia anche questa. Molto rumorosa in questo silenzio assordante.



Giacomo M. - Volontario della Croce Bianca “Non ho mai visto niente di simile in 30 anni di servizio”. Così mi ha detto Matteo, il collega a cui davo il cambio, sabato scorso. Ho sentito commenti simili da molti di quelli che sono volontari da decine di anni. Coloro che mi hanno consolato e tranquillizzato dopo emergenze e codici rossi particolarmente difficili, ora sono sconvolti ed esausti. È difficile raccontare a parole ciò che proviamo noi soccorritori quando la centrale del 118 ci avvisa di indossare tutti i dispositivi di protezione, perché si va su un sospetto Covid, l’ennesimo della serata. Da quando è arrivato il virus è cambiato tutto. Non solo i protocolli e la gestione del servizio, sono cambiate anche le relazioni coi pazienti che incontriamo. Come si fa ad installare un rapporto e ad essere rassicuranti quando si entra in casa delle persone dietro ad uno scafandro che spaventa e aliena? Sono cambiati gli accompagnatori: oggi non ci sono più. La maggior parte degli utenti del 118, infatti, sono da sempre le persone anziane, e lo sono anche oggi, ma i più deboli che di solito erano accompagnati ora devono salire in ambulanza da soli. “Lo sa signora che non può accompagnare suo marito” sono costretto a dire davanti alla moglie del signore che sarà ricoverato. Vorrei dirlo con una voce più amichevole, ma la mascherina filtra anche i suoni e gli occhialini di protezione appannati impediscono pure il contatto visivo. È un nemico infimo, che separa e lascia soli i più deboli. Ciò che sconvolge i soccorritori più esperti, però, non è nemmeno questo. È il dover dire di no. Perché non c’è più posto e certi pazienti si fanno restare a casa. Non era mai successo di negare a qualcuno il pronto soccorso, ma è cambiato tutto. Eppure, l’infezione da Covid, è solo una parte del problema. Perché tutte le altre malattie non si sono fermate. Le ischemie, le neoplasie, le crisi ipoglicemiche e tutte le altre patologie ci sono ancora, ma è cambiato l’approccio a quest’ultime. E così ci si trova a sconsigliare la visita al pronto soccorso a chi non è in una situazione di emergenza, e a provare di convincere i familiari di chi è molto grave a lasciarci portare via il loro caro, che ha bisogno di cure, seppur col rischio di non rivederlo più. Sono cambiati i rapporti coi compagni di squadra, anche in sede, infatti, stiamo con le mascherine e a distanza di sicurezza. Perché dobbiamo essere prudenti. Perché quando a fine turno torniamo a casa dalle nostre famiglie non facciamo che ripensare a quella mascherina e a quel camice monouso, pregando che abbiano fatto il loro dovere. Mi sento a disagio a dover allontanare mia sorella quando mi cerca di abbracciare. Perché lo faccio? Quanto ancora durerà questo incubo? È il tempo delle riflessioni. In una città divenuta spaventosamente silenziosa, passando in bicicletta per le strade deserte mentre mi appresto ad iniziare un nuovo turno, mi accorgo dei germogli sugli alberi, del canticchiare degli uccellini, e ripenso alla solidarietà incredibile dimostrata da molti, sia vicini che lontani. È un grido di speranza. Il vento soffia ancora e tutto cambierà di nuovo, ma questa volta, uniti come non mai, cambierà in meglio.


Laura L. - Avvocato L’avvocato, era anche detto azzeccagarbugli, una figura che i più vedono come una persona che mira a guadagnare, danarosa, sempre in mezzo a tante carte e tanti numeri (Leggi, decreti, ordinanze), a soldi che girano con facilità, che parla in modo aulico con giri di parole che si rivolge ai giudici con espressioni di altri tempi (Illustrissimo Giudice, Signoria Vostra…). Eppure ci sono anche tipologie diverse di avvocati, tipo me che faccio sostanzialmente l’Amministratore di Sostegno, sono cioè incaricata dal Giudice a “sostenere” quelle persone che o per malattia, spesso turbe psichiatriche, o che non hanno una famiglia o che sono semplicemente soli, ma, che hanno bisogno che qualcuno si prenda cura di loro, dei loro patrimoni o anche delle loro paure. Ecco la paura, una parola, un sentimento che impera in questo periodo. Inizialmente e principalmente il timore è di ammalarsi, una malattia “cattiva”, per la quale non si conosce una cura esatta affrontata dai medici in modo sperimentale a tentativi se funziona bene, altrimenti pazienza, muori. L’unica soluzione stare chiusi in casa, unico metodo per non essere contagiati e non contagiare involontariamente altri, così anche lo studio chiude, occorre rimodulare il nostro lavoro, scrivere, relazionare, ma pensare costantemente anche alle loro necessità, sembra che la vita continui come prima, si vuole farla sembrare uguale, invece a distanza di ormai un mese di questa forzata clausura si è avuto modo di fare tanti pensieri, tante riflessioni. Il nostro modo di vivere cambierà sicuramente, vivevamo in una società lanciata a mille, si voleva e si aveva tutto, si viveva di corsa, si aveva necessità di tutto e subito, i negozi sempre aperti, consumismo alle stelle, qualsiasi capriccio, idea, pensiero pompato dalla pubblicità doveva essere nostro, non si poteva aspettare. Stop; ora non sarà più cosi, mi sono immedesimata nei miei assistiti, per loro è sempre stato diverso, avevano poche cose, pochi soldi in mano che centellinavano per le esigenze prioritarie, l’acquisto di un vestito nuovo o di un arredo della casa era una festa, una cosa straordinaria, l’andare in vacanza d’estate un premio per i sacrifici sopportati durante tutto l’anno. Sarà difficile per noi, non sembrerà nemmeno giusto, da cinquantenne penso: almeno io sono stata fortunata di avere fatto tante esperienze, mi mancheranno soprattutto i viaggi e stare insieme alla gente, mi rincresce per i giovani che dovranno invece riconquistarsi tutto di nuovo, anche il solo diritto di imparare e seguire le lezioni in classe tra compagni ridendo e penando per le interrogazioni e non attraverso uno schermo. La mia visione è forse un po' troppo pessimistica ma è dettata dal sentimento attuale, il futuro ci dirà se ho ragione o se questa brusca frenata porterà ad un miglioramento dei sentimenti umani.


Iris Z. - Impiegata Come state tutti? Resistete in casa? Lo so è dura, lo è per tutti ma credo che per noi che abbiamo un rapporto particolare con il cibo (ho detto particolare e non malato proprio per raggiungere tutti) è anche più difficile. Siamo chiusi fra 4 mura e sempre più spesso in cucina con a disposizione sempre lui. Uscire per andare al lavoro spezzava almeno un po' questo rapporto. Io lavoro da casa da ormai sei settimane e mi ritengo fortunata perché il mio lavoro ancora ce l'ho e perché almeno per 8 ore sono abbastanza impegnata e non pensare che di là nell'altra stanza c'è cibo. Diciamo che ormai sono esperta di qualunque trucchetto che mi permetta di prendermi in giro da sola. La voglia di masticare (anche più di quella di ingurgitare) è sempre lì che mi opprime. Io sono una spiluccatrice a giorni anche compulsiva. Capite cosa voglia dire essere qui a casa da sola? Con tempo a disposizione, con la voglia di fare qualcosa e di sperimentare? Ho fatto il pane più volte... ora il freezer è pieno e il lievito è finito per fortuna. Ho fatto una torta senza zucchero per la colazione ... è durata 4 giorni, anni fa non sarebbe arrivata a sera. Ho speso un patrimonio (il fruttivendolo a domicilio è stato più caro del gioielliere!) in carote e finocchi che sgranocchio davanti al pc fra una call e l'altra. Da ultimo, sono arrivata che alla sera (tanto fino alle 2 non si chiude occhio) mi lavo i denti più volte e mangio dentifricio. Mi sento sola perché sola lo sono davvero fisicamente e moralmente. Ah no dimenticavo...lui, il cibo, lui no! È sempre vicino a me. Ho comprato la cyclette, me l'ero venduta tanto non la facevo mai. La faccio davanti a Netflix e passa. Seguo dei video e faccio ginnastica a terra perché la schiena urla di dolore. Ecco questa è la mia giornata da reclusa anzi da salvaguardata! E io combatto cazzo! E se combatto io ragazzi lo possiamo fare tutti. Ne dobbiamo uscire e non rotolando! E ora che ho spento il pc cerco una vellutata da fare per stasera e vi penso perché anche se scrivo poco vi penso sempre perché so bene cosa stiamo passando!


Patrizia P. - Pensionata Sono una persona diversamente giovane ma ancora pimpante, ricca di interessi e di impegni. Ho una visione positiva del mondo malgrado l’esperienza mi abbia portato ad essere selettiva negli affetti e nelle amicizie. Oggi più che mai, vista l’emergenza COVID-19, comprendo il significato di ‘fragilità’ e l’importanza di vivere pienamente ogni giornata. Chi l’avrebbe detto che in brevissimo tempo avrei dovuto modificare radicalmente ancora una volta la mia vita? Costretta come tutti a farlo francamente non mi pesa, visto che è in gioco la mia salute e quella di tutti. Mi occupo di volontariato e abitualmente supporto le famiglie che come me vive il diabete dei loro figli. E’ stata una scelta importante di vita che mi assorbe quasi completamente. In un momento difficile come quello che stiamo vivendo ho dovuto fare i conti con l’imposizione dell’isolamento. Mi considero una persona positiva e dopo il primo momento di smarrimento e di paura, mi sono organizzata e vedo la mia casa come un rifugio sicuro. Ho rinunciato a fatica ad andare in Associazione presso l’Ospedale consapevole che avrei “lasciato soli i genitori” all’esordio del diabete dei loro bambini, in un momento in cui nulla è più dato per scontato. Ora lavoro da casa, prendo contatto telefonicamente con i genitori all’esordio, cerco di colmare il vuoto della presenza fisica con il tempo che dedico loro per informarli e per non farli sentire soli in un momento così delicato in cui l’equilibrio delle persone è fondamentale per l’accettazione della malattia. Fanno parte del mio mondo. Mi ritengo fortunata perché grazie alla presenza del mio gentil consorte le giornate non trascorrono in solitudine; abbiamo riscoperto attività da fare insieme, la complicità nelle piccole cose e interessi comuni, nel rispetto della nostra diversità. Quello che mi manca tanto è la possibilità di potere vedere mio figlio, un giovane uomo che vive e lavora all’estero da solo e che fino a quando non si riprenderà gradualmente la vita di tutti i giorni, sicuramente non potrò riabbracciare. E’ terribile sapere che in caso di bisogno sia lui sia noi non potremo aiutarci. In questo caso la tecnologia ha sopperito in parte a questo limite e mi accontento di vederlo in video-chiamata.


Nello stesso tempo queste distanze obbligate e necessarie mi hanno portato ad avvertire vicinanze sorprendenti di persone solidali e di altre ‘figure amiche’ completamente assenti. Sono consapevole che dopo questa emergenza nulla sarà più come prima. Come credente nutro la speranza che tutta la comunità saprà superare anche questa sfida. E’ una prova impegnativa che richiede consapevolezza dell’importanza di fare parte della comunità, non pensare quindi solo al proprio interesse personale e grande forza morale.


Elio Franzini, Magnifico Rettore dell'Università degli Studi di Milano


Quando ogni mattina entro in via Festa del Perdono e cammino per i suoi chiostri deserti e silenziosi, dopo essere passato di fronte al Policlinico e avere rivolto un pensiero grato e partecipe a tutto il Personale sanitario di ogni età che lavora, e si ammala, nei nostri ospedali, mi è impossibile non ricordare anche voi tutti. E penso allora a come sia davvero difficile, per un’università, proseguire il proprio percorso di “comunità dei saperi” senza poter fare ricerca come prima, senza laboratori, senza biblioteche, senza vedere e sentire la presenza viva dei nostri studenti, dei nostri dottorandi, assegnisti e specializzandi. (…) A noi dunque spetta, come stiamo facendo, professare non solo i nostri saperi e le nostre competenze, ma anche un’etica della responsabilità e della compassione, pur con tutti i dubbi, le incertezze e le imperfezioni che essa può portare con sé. Sono certo che proseguiremo in questa direzione, senza retorica, senza canti dalle finestre, con la sola forza consapevole dell’utilità del nostro lavoro, sempre ringraziando coloro che, con fatica mai sufficientemente ripagata, stanno tenendo in piedi i servizi essenziali, ciò che permette alla nostra didattica e ai nostri luoghi di ricerca di mantenere viva in noi tutti un’idea forte e autentica di università.


Ketty Vaccaro, Direttore Welfare e Salute Fondazione CENSIS


Milano è forse la città che più ogni altra in Italia risponde al modello della città moderna, attiva, vitale e tutte le locuzioni che la hanno accompagnata nel tempo lo testimoniano, sottolineando di volta in volta un aspetto diverso delle sue peculiarità rispetto al resto del Paese. Milano, con il suo ruolo di motore produttivo e finanziario, forte della sua specifica capacità di rinnovamento urbano, anche architettonico, della sua costante attenzione all’innovazione culturale è una della poche città metropolitane ad esercitare, in un Paese segnato dallo spopolamento, una forza di attrazione, sperimentando negli ultimi anni il maggiore incremento di popolazione residente in valore assoluto del Paese (oltre 53.000 nuovi abitanti dal 2015 al 2019). Quando questo motore si ferma, dunque, il silenzio che ne deriva appare come un paradosso ancora più forte e drammatico. Questo anche perché la città ha incarnato in modo emblematico quell’intreccio tra conseguenze sanitarie, economiche e sociali che rappresenta un tratto essenziale della gravità della situazione che stiamo vivendo. La città simbolo di una delle zone più economicamente avanzate del Paese, quella con una delle performance più efficienti di mobilità urbana, così ampiamente coinvolta nella rete di relazioni internazionali e nella innovazione continua, si è bloccata e ha sperimentato il peso angosciante e particolarmente grave della epidemia, insieme all’evidenza di tutta la catena di conseguenze sociali e psicologiche dello stallo economico e produttivo determinato dal lockdown. Nelle testimonianze semplici ed immediate, nelle mille sfaccettature di vita, paura e sofferenza, ma anche speranza, raccolte in questo libro e sottratte al silenzio di questi giorni quasi surreali, c’è il racconto di una quotidianità difficile, del dolore attonito delle morti solitarie, delle tante esperienze di responsabilità professionale spinte fino al limite del sacrificio, e non solo del personale sanitario ma di molti lavoratori invisibili, dello sgomento di ciascuno davanti all’incertezza del presente e del futuro. Ma traspare anche il valore e la forza dei legami familiari, la capacità di spazzare via in tempi brevissimi l’inerzia nell’innovazione telematica, la riscoperta, di fronte alla ferita di una mancanza, della centralità della scuola nella vita sociale e della necessità, di fronte alle difficoltà emerse in questa fase, di garantirla a tutti in qualunque condizione, il ruolo strategico delle tante piccole e grandi risorse personali, dalla cucina agli incontri online con gli amici, fonti insperate di resilienza nel presente e fiducia nel futuro. Nel tempo sospeso del silenzio vissuto dalla città sono venute fuori con forza tutte le specificità di un tessuto urbano forte, eppure pieno di contraddizioni. Sono state messe a nudo vecchie e nuove vulnerabilità, la situazione delle periferie e dei luoghi di concentrazione della popolazione straniera, l’efficienza gestionale insieme ai problemi di qualità dell’aria, la solitudine degli anziani ma anche l’isolamento dei tanti single che popolano la città, la difficoltà estrema dei senza fissa dimora insieme alle fragilità nascoste dei working poor. E poi le cronicità, quelle legate alla condizione epidemiologica della terza età, ma anche all’intreccio di difficoltà sociali ed economiche che impattano in modo così netto anche sul vissuto di malattia ed hanno avuto un peso sulla stessa possibilità di “farcela” nella lotta contro la pandemia e le sue più gravi conseguenze. Anche rispetto alla complessità della cronicità, e non solo della gestione emergenziale di una malattia infettiva, sono poi emerse tutte le difficoltà e le contraddizioni, non sempre evidenti, di una sanità pur all’avanguardia nelle risposte di assistenza ospedaliera. Contraddizioni e difficoltà, ma anche errori ed inefficienze, che già da oggi impongono la necessità di ripensare un modello capace di attivare nuove ed efficaci soluzioni anche sul territorio, a domicilio, nella residenzialità. Se è vero che la specificità dei contesti urbani impatta fortemente sulle condizioni di vita e di salute delle persone, Milano ha in sé tutte le potenzialità per una ripartenza positiva, contando sulle tante risorse a disposizione ed agendo in maniera intrecciata, proprio a partire da quella dimensione urbana che può contare sulla conoscenza diretta delle situazioni e sulla tempestività di intervento ma soprattutto sul valore della prossimità e la forza della comunità.


Livio Luzi, Presidente Comitato Scientifico Milano Cities Changing Diabetes e Professore di Endocrinologia dell’Università degli Studi di Milano


Infinite volte abbiamo sentito dire in questi tre mesi: …”Wuhan, dove tutto è cominciato…” oppure … ”Codogno, dove tutto è cominciato in Lombardia”… Ecco, dovendo scrivere una post-fazione come Presidente del Comitato Scientifico di Milano Cities Changing Diabetes vorrei poter dire: “Milano, dove tutto, finalmente è terminato!” Purtroppo sappiamo bene che così non è e non sarà per diversi mesi. Siamo da poco entrati nella cosiddetta Fase 2, la fase della convivenza con il virus SARS-CoV-2 che durerà fino a quando non verrà scoperto il vaccino o comunque un farmaco capace di inibire la infezione e la circolazione virale. Quindi molte delle storie che sono state raccontate in questo e-book sono destinate a continuare, se mi permettete a cronicizzarsi. Infatti quello che sta succedendo è un passaggio tra la fase acuta, drammatica dell’emergenza sanitaria ad una fase cronica dove la emergenza sanitaria si stempera ma emergono altri tipi di urgenze non meno pericolose e drammatiche ma molto più subdole: la crisi economica, il distanziamento sociale che può sfociare in un clima di sospetto e di timore nei confronti del “vicino”, un rigurgito di “egoismo sociale”, una sfiducia nelle istituzioni e nella scienza - solo per citare alcuni aspetti. Questo non deve accadere! Vediamo allora cosa ci ha insegnato di nuovo e di positivo questa pandemia. Come esseri Umani ci ha ricordato che la Natura non va mai sottovalutata e che ci può sorprendere in ogni momento. Più volte mi è capitato di pensare in queste settimane cosa avrebbe detto Charles Darwin se avesse potuto vedere quanto è accaduto in questi pochi mesi. Un microbo ha messo in ginocchio il Genus Homo: è una delle dimostrazioni della sua Teoria sulla Origine delle Specie [The origin of species by means of natural selection, or the preservation of favoured races in the struggle for life, 1859]. Il Genus Homo, ancora una volta, dovrà evolvere per rimanere la “favoured race”. Come Scienziati dobbiamo individuare una soluzione a questo problema. Dopo la fase dell’emergenza nella quale abbiamo dovuto “giocare in difesa” contro il SARS-CoV-2, ora è giunto il momento di ribaltare la partita e di attaccare. Come? ciascuno secondo la propria expertise. Virologi ed infettivologi stanno studiando un vaccino, pneumologi ed internisti stanno studiando approcci di cura e di riabilitazione. Anche noi endocrinologi e diabetologi potremo dire la nostra. Infatti, questo è uno virus strano che utilizza un meccanismo recettoriale (permettetemi di dire “endocrinologico”) per penetrare nelle cellule, meccanismo ancora molto poco conosciuto e che stiamo studiando attivamente. Come Medici, abbiamo imparato e stiamo implementando notevolmente procedure e metodologie di TeleMedicina che permetta con risorse umane ridotte e a distanza di diagnosticare e trattare varie patologie. La TeleMedicina si presta particolarmente a patologie croniche come il diabete mellito, permettendone una gestione a distanza in molti casi. Come Docenti Universitari molti di noi hanno imparato a gestire Classi di Studenti con Teledidattica, che sicuramente è da perfezionare soprattutto per le materie pratiche rispetto alle materie teoriche, ma con enormi potenzialità di sviluppo nel prossimo futuro. Voglio quindi concludere con un messaggio che è anche un Augurio: questo Tornado è passato, lasciando come è solito feriti e danni, ma spero, anzi credo ci abbia insegnato sicuramente molte cose sia in campo sanitario che in campo sociale più in generale. Sta a noi avere imparato questa lezione e a fianco di una ricostruzione che è già iniziata, sta a noi mettere in atto delle misure preventive sia in ambito Sanitario che Sociale che servano a prevenire situazioni analoghe future e non diventare i Dinosauri del XXI secolo. Solo a questa condizione “Andrà tutto bene”.



Rinraziamenti Gli autori ringraziano per la collaborazione e i suggerimenti: Federica Ascoli Anna Cavagna Regina Dagani Carolina Larocca Elisabetta Lovati Silvia Maino Alessandro Mantineo Francesco Missineo Maria Luigia Mottes Patrizia Papini Oldrati Sergio Raffaele


Libro realizzato con il contributo non condizionato di Novo Nordisk S.p.A.

Tutte le foto inserite del libro sono provenienti da banca immagine.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.