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Per Mario, Patrizia, Raffaella: la mia famiglia Mi interessa molto il futuro; è lì che passerò il resto della mia vita. Groucho Marx


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Introduzione Bruciamo la polvere. Un sentiero verde per rinnovare la politica italiana

Molto prima che il mondo cominciasse a considerare il degrado dell’ambiente come un problema politico primario, una grande scrittrice sintetizzò in poche righe l’importanza che la questione ambientale riveste per ciascuno di noi: «Non soltanto c’è, per l’umanità, la minaccia di scomparire su di un pianeta morto; bisogna anche che ogni uomo, per vivere umanamente, abbia l’aria necessaria, un territorio vivibile, un’educazione, un sentimento sicuro della sua utilità. Bisogna che ciascuno abbia almeno una briciola di dignità e qualche semplice motivo di felicità». Così Marguerite Yourcenar coglie sia la dimensione universale che quella intima dell’emergenza ecologica: non solo per il pianeta e per il futuro, ma per il nostro spazio individuale e per ogni nostra giornata, già oggi la qualità dell’ambiente in cui viviamo ci condiziona e ci tocca nel profondo. È proprio questa doppia dimensione del tema dell’ambiente, pubblica e privata, che ha favorito la costituzione di quelle nuove formazioni politiche che in molti paesi avanzati hanno segnato il declino delle ideologie e contribuito a rinnovare sostanzialmente il dibattito pubblico. E laddove non esistono partiti verdi, è stata la normale dialettica politica a includere i temi ambientali al vertice dell’agenda istituzionale. In Italia le cose sono andate in modo molto diverso. Da noi le parole «ecologia», «ambiente» e «verdi» godono di una considerazione ambigua: per molti sono un freno allo

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sviluppo economico, alcuni le ritengono un inutile aggravio di burocrazia, altri ancora reagiscono con astio o ilarità. Così l’ambiente è oggi il grande assente dal dibattito politico italiano: mentre gli italiani vedono peggiorare drasticamente la qualità dell’aria, dell’acqua, del paesaggio; mentre intere città subiscono gli effetti nefasti di catastrofi provocate dal cambiamento del clima e rese tragiche dal degrado del territorio; mentre la nostra salute è seriamente messa a rischio dall’incapacità di smaltire correttamente i rifiuti. Alcuni hanno provato a spiegare questa anomalia italiana sui temi ambientali riconducendola semplicemente all’avanzata della destra. È una tesi che non regge. È vero che l’attuale presidente del Consiglio non ama pronunciare la parola ambiente nei suoi discorsi, ma l’incapacità della politica italiana di farsi carico dei temi ecologici non dipende soltanto da Berlusconi. Ha radici più antiche e profonde, risale almeno all’occasione mancata degli anni ottanta, quando per la prima volta il governo della Repubblica istituì un ministero incaricato di occuparsi dell’ambiente. Quel ministero, infatti, non fu la manifestazione di una nuova coscienza ambientale. Anzi, dimostrava l’incapacità della politica di farsi carico del problema: ben presto è diventato il «ministero dell’impossibile», guidato da figure diverse che, in qualche periodo hanno lottato inutilmente contro mille avversari, ma per lo più si sono limitate a lanciare qualche allarme e a invocare alcuni provvedimenti che raramente i governi hanno adottato. Ma come si giustifica il ruolo marginale delle politiche ambientali in Italia di fronte all’urgenza assoluta delle questioni di cui dovrebbe occuparsi? Perché l’ambiente continua a essere la cenerentola della politica italiana, nonostante i richiami internazionali, i risultati della ricerca scientifica, i periodici disastri che dimostrano con ogni possibile chiarezza la necessità di intervenire sulla qualità e la manutenzione del territorio? E ancora: perché da noi il partito dei Verdi, che aveva esordito con successi promettenti nel corso degli anni ottanta, ha finito per ridursi ai minimi termini, impigliato in controversie interne e incapace di comunicare alla politica e al paese la centralità delle questioni ambientali?

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Provare a rispondere a queste domande può servire anche a interpretare l’impasse della politica in Italia al di là dell’ambiente e dell’ambientalismo. Proprio per la sfasatura tra l’importanza del problema e l’inconsistenza delle proposte politiche per risolverlo, la questione ambientale può essere rivelatrice dei mali della politica italiana. Il nostro viaggio tra ambiente e politica comincerà da uno sguardo all’indietro, alla ricerca delle ragioni di un disagio. Perché anche su questa specifica anomalia italiana è indispensabile una ricognizione della nostra recente storia politica, tra una prima Repubblica che non è mai davvero finita e una seconda che sembra nata soltanto in parte. Perché è possibile ritrovare la strada che si è persa nelle nebbie dell’Italia incerta che voleva chiudere con la vecchia politica ma non ha saputo aprire a uno stile nuovo. Soprattutto se una generazione nuova saprà far tesoro delle esperienze degli altri paesi europei. I trentenni che oggi si affacciano alla politica appartengono alla «generazione Erasmus»: a differenza dei loro padri e dei loro nonni, che siedono oggi confortevolmente nei governi di ogni livello, hanno in gran parte vissuto periodi più o meno lunghi della loro vita all’estero. Conoscendo l’Europa e gli europei, hanno sperimentato una mentalità diversa: meno ideologica e più pragmatica. In Francia, in Germania, in Gran Bretagna e in altri paesi d’Europa hanno respirato a fondo l’aria di democrazie radicate e forti, in cui i cittadini sono abituati a giudicare i governi da quello che fanno e non solo da quello che i politici dicono. Allora, qualche idea per un mutamento radicale può venire dall’esperienza dei nostri vicini. Se si guarda alla Francia, ad esempio, si scopre un nuovo metodo di prendere decisioni su temi che coinvolgono la vita del paese: con gli Stati generali dell’ambiente voluti da Sarkozy la democrazia partecipativa si sovrappone a quella rappresentativa e consente di stipulare un patto nazionale per conseguire obiettivi chiari e condivisi. In Gran Bretagna il rapporto fra scienza e politica è completamente diverso da quello che siamo abituati a vivere da noi: la ricerca entra ogni giorno nelle decisioni dei governi, e obbliga a guardare al futuro con rigo-

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re e responsabilità. Una parola, questa, che assume un significato particolare nelle isole britanniche, in cui il termine accountability è usato per esprimere il rapporto fra governanti e governati e l’obbligo degli amministratori pubblici di rendere conto delle decisioni prese. Anche da Germania e Spagna c’è molto da imparare. La patria dei Grünen, il primo partito verde d’Europa, ha saputo imboccare la strada del pragmatismo sia nella politica sia nella concreta gestione dell’economia. Capace di fare dell’emergenza ambientale una straordinaria opportunità di crescita economica, la Germania non dimentica la necessità di riflettere anche teoricamente sul rapporto fra uomo e natura. Al punto di mettere in discussione il modello di proprietà privata che l’Occidente ha adottato da secoli per fare spazio a concetti nuovi, più attenti alla tutela dei diritti di tutti sul nostro mondo. In Spagna, dove il partito verde non esiste, le politiche ambientali sono state protagoniste di importanti passi avanti, specialmente nel campo della conversione del sistema energetico. Considerare l’Europa non solo come un’entità istituzionale più o meno efficace, ma come un’eccezionale opportunità di scambio di esperienze può contribuire in modo determinante alla nostra capacità di cambiamento. Per uscire dall’impasse abbiamo bisogno di guardare oltre i nostri limiti, di fissare nuovi traguardi e lavorare con tenacia per raggiungerli. Dobbiamo bruciare la polvere che ci soffoca, ci impedisce di guardare lontano e di essere orgogliosi del nostro paese e dei suoi obiettivi. Una nuova generazione di italiani impegnati in politica potrà portare a termine questo compito se saprà svincolarsi dalle logiche che hanno impedito alla cosiddetta seconda Repubblica di nascere davvero: sarà una generazione nuova se saprà liberarsi dalle logiche di cooptazione e di fedeltà imposte all’Italia da una classe dirigente preoccupata sempre soltanto di conservarsi, ammantando il nostro paese di un immobilismo polveroso che inceppa costantemente i meccanismi dello sviluppo economico, politico e sociale. Se sapremo bruciare questa polvere, potremo allora introdurre una nuova cultura politica che imponga di agire

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nel presente occupandosi del futuro e si proponga di riscrivere il futuro operando nel quotidiano. E che realizzi un vero confronto, fondato sui contenuti e non sugli slogan, e orientato alla condivisione delle scelte strategiche del paese. Guardando ciò che avviene all’estero, è evidente che una crescente sensibilità ecologica sta contaminando ogni settore della società e nuove politiche ambientali possono essere l’occasione per rilanciare una nuova politica, in grado finalmente di ricominciare a interessare e coinvolgere anche le nuove generazioni. Chi è cresciuto a cavallo del 2000 probabilmente non ha mai avuto esperienza diretta della vera politica: eppure, oggi più che mai ne sente un disperato bisogno. Per una seria politica dell’ambiente e dell’ecologia è necessaria una straordinaria concretezza, completamente estranea alle gabbie ideologiche che fanno del bipolarismo italiano un nuovo sistema bloccato. Servono responsabilità (o ancor meglio accountability), capacità di programmazione, passione per il bene pubblico, inventiva, flessibilità, conoscenza delle tecnologie e delle scienze, rispetto per la ricerca, condivisione degli obiettivi. Ma non è proprio di queste cose che ha bisogno la politica italiana nel suo complesso? E allora forse il sentiero verde della politica ecologica ci porterà oltre gli obiettivi della ristrutturazione del sistema energetico, dello sfruttamento del territorio, del rispetto per l’acqua e l’aria. Ci porterà a sbarazzarci almeno in parte dei vizi antichi della politica italiana, che respingono chi si affaccia all’impegno spinto dal desiderio – forse un po’ ingenuo, ma vero e forte – di migliorare la società in cui vive. È questa la polvere che soffoca le nuove generazioni, e che solo le nuove generazioni possono bruciare.

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1. La figlia femmina della politica italiana Ma vi sembra normale che i Verdi trionfino ovunque, mentre qui, appena ne vedi uno in faccia, viene voglia di tifare per l’effetto-serra? Massimo Gramellini, Dieci domande qualunque, «La Stampa», 9 giugno 2009

Con le elezioni del maggio 2001 Silvio Berlusconi conquistò per la seconda volta la fiducia degli italiani e tornò a Palazzo Chigi dopo cinque lunghi anni di opposizione. Il governo si insediò il successivo 11 giugno e per la poltrona di ministro dell’Ambiente venne designato Altero Matteoli, un parlamentare di lungo corso, ininterrottamente eletto alla Camera dei deputati fin dal 1983, nelle liste del Movimento sociale italiano prima e di Alleanza nazionale poi, e politico di grande esperienza che aveva già ricoperto la stessa carica nel primo esecutivo Berlusconi. Nei giorni concitati che seguirono la vittoria della coalizione di centrodestra, qualcuno fece trapelare una voce che accompagnava Matteoli fin dal 1994, ossia che la scelta di affidargli quel dicastero fosse motivata dalla sua grande passione per la caccia sulle colline della Maremma. «Se gli piace la caccia deve andare bene per fare il ministro dell’Ambiente», si erano forse detti i dirigenti del Polo delle libertà, nel pieno delle trattative per la formazione del nuovo governo. Non sembrava una motivazione troppo profonda per scegliere un ministro della Repubblica; forse non sapremo mai se effettivamente la pratica venatoria abbia ricoperto un ruolo chiave in quella scelta, ma possiamo certamente affermare che Matteoli non nascose una certa delusione per l’incarico di governo che gli era toccato nuovamente ricoprire. A rivelare questo disagio fu una dichiarazione rilasciata poco dopo aver giurato per la seconda volta come ministro,

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un vero e proprio capolavoro mediatico. A una domanda di Alessandro Farruggia, che lo intervistava per «La Nazione», l’esponente di Alleanza nazionale lasciò intendere con una battuta che, cacciatore o no, lui il Ministero dell’Ambiente non lo avrebbe voluto, aspirando invece al Ministero dei Trasporti (per il quale la pratica della caccia evidentemente non faceva abbastanza curriculum). Tuttavia, in mancanza di meglio, anche il Ministero dell’Ambiente si poteva accettare. «È come quando ti nasce una figlia femmina», disse testualmente il ministro. La reazione di Matteoli può far sorridere, e addirittura scandalizzare, qualche ambientalista. Eppure, a pensarci bene, la storia politica italiana forniva parecchi motivi per paragonare il Ministero dell’Ambiente a una figlia femmina. Quella figlia che si accoglie in famiglia ma con cui, si sa, non si potrà mai andare allo stadio, e tanto meno a caccia la domenica. La «figlia femmina della politica italiana» oggi ha ventitré anni. Ha trascorso la primissima infanzia in un «ambiente difficile», che ha visto maturare la fine dei partiti che avevano caratterizzato la cosiddetta prima Repubblica. Poi ha vissuto una lunghissima adolescenza tra alti e bassi, senza mai diventare davvero «adulta». Non ha certamente contribuito alla sua crescita il fatto che durante questo periodo sia stata successivamente affidata alle cure di ben dodici «genitori» adottivi molto diversi fra loro. Dodici personaggi che hanno molto da raccontarci sulla rilevanza che l’ambiente ha nella politica del nostro paese: ognuno evoca un modo diverso di concepire il proprio ruolo e – implicitamente – manifesta il grado di impegno con il quale le forze politiche vogliono affrontare i problemi ambientali. Considerarli uno per uno ci può aiutare a capire qualcosa della storia controversa del nostro ambientalismo.

ministri per vocazione e ministri per convenienza Francesco De Lorenzo, Mario Pavan, Giorgio Ruffolo, Carlo Ripa di Meana, Valdo Spini, Francesco Rutelli, Alte-

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ro Matteoli, Paolo Baratta, Edo Ronchi, Willer Bordon, Alfonso Pecoraro Scanio e Stefania Prestigiacomo. La lista dei politici che hanno indossato la maglia di ministro dell’Ambiente nei ventitré anni di vita di questo dicastero offre uno spaccato della storia recente della politica italiana. Scorrendo questa lista, scopriamo che per quasi tutti divenire ministro dell’Ambiente è stata una parentesi – più o meno desiderata – del proprio percorso politico. Un’esperienza da ricordare con orgoglio solo per i politici che con questo incarico hanno toccato il vertice della propria carriera. Una pagina da dimenticare in fretta per coloro i quali hanno inteso il tempo trascorso al Ministero dell’Ambiente come una tappa intermedia nel viaggio verso nuovi e più prestigiosi ruoli istituzionali. Il primo fu un liberale, Francesco De Lorenzo. Pochi ricordano che il ministero assunse la denominazione odierna proprio con lui. Nel governo precedente si chiamava Ministero dell’Ecologia, ed era già stato assegnato a due esponenti del Partito liberale: Alfredo Biondi e Valerio Zanone. Entrambi apparentemente distanti dal mondo dell’ecologia e delle prime battaglie ambientaliste degli anni ottanta, sedettero sulla poltrona ministeriale forse in attesa di fortune migliori. Erano anni in cui era sempre più difficile far quadrare il cerchio dei governi e l’introduzione di un nuovo ministero giovava sicuramente, offrendo l’occasione di garantire un’ulteriore postazione al Pli, partito piccolo ma dalle profonde radici storiche e, soprattutto, fedele alleato della Dc. L’ecologia rispondeva benissimo a questa esigenza, anche se allora pochi sapevano cosa fosse e pochissimi avevano idea di quali politiche ambientali si potessero adottare in Italia. De Lorenzo era un medico e, com’è noto, il suo principale obiettivo era sempre stato il dicastero della Sanità. Arrivò a coronare il suo sogno tra il 1989 e il 1992, quando assunse l’incarico desiderato a cavallo del sesto e settimo governo Andreotti. Non poteva saperlo allora, ma quei tre anni trionfali erano destinati a essere gli ultimi della sua carriera politica.

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Per qualche mese, infatti, De Lorenzo riuscì a conservare la tanto sospirata poltrona di ministro della Sanità anche in piena Tangentopoli, durante il governo di transizione guidato da Giuliano Amato. Ma fu per poco, perché il collasso della classe politica determinato dalle inchieste giudiziarie non lo risparmiò. Accusato di associazione a delinquere e corruzione, il ministro dovette abbandonare la politica. La sua vicenda giudiziaria si è poi conclusa con una condanna, in forma definitiva, a 5 anni, 4 mesi e 10 giorni di reclusione. Ma questa è un’altra storia. Mentre De Lorenzo raggiungeva il suo vero obiettivo al Ministero della Sanità, quello dell’Ambiente passava, nel 1987, a un personaggio del tutto diverso, a dimostrazione che, a solo un anno dalla nascita del ministero, in Italia si segnalavano già profili di livello internazionale, in grado di riempire di contenuti importanti l’agenda del nuovo ministero. Il secondo ministro dell’Ambiente fu Mario Pavan, rimasto in carica nei tre mesi di esistenza del sesto governo Fanfani. Apparteneva alla «pattuglia» dei sei ministri tecnici chiamati a far parte dell’esecutivo monocolore Dc, insediatosi il 17 aprile 1987 e sfiduciato dalla Camera dei deputati una decina di giorni dopo. Una brevissima esperienza, da ministro di un governo dimissionario, che si concluderà il 28 luglio dello stesso anno. Per Mario Pavan, però, l’ambiente non è stato come una figlia femmina accettata a malincuore: era invece la passione della vita, come il figlio più amato cui consacrare l’intera propria esistenza. Dev’essere proprio per questo che Pavan è forse il meno conosciuto dei nostri ministri dell’Ambiente. Esponente della vecchia guardia dell’ambientalismo italiano, egli arrivò alla poltrona di ministro alle soglie dei settant’anni d’età. Naturalista e speleologo, aveva dedicato gli anni della giovinezza all’esplorazione delle grotte delle Prealpi vicino a Brescia, scoprendo nuove specie di insetti e redigendo dettagliatissime mappe che non esitò a fornire ai partigiani durante la guerra di liberazione dal nazifascismo. Attraverso la biospeleologia aveva scoperto la passione per

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la natura, a cui dedicò la sua vita di studioso: sono oltre seicento le pubblicazioni scientifiche a suo nome. Gli anni della guerra e della Resistenza videro formarsi anche il suo impegno politico e civile, tradotto poi nell’istituzione di numerosi parchi naturali in tutto il mondo: dalla prima riserva naturale integrale nel nostro paese (nel 1959 a Sasso Fratino) alla nascita del Parco del Paramo, sulle Ande dell’Ecuador, a quello dell’Oltre Giuba, in Somalia. Tra i moltissimi incarichi di prestigio che ha ricoperto vi fu quello di presidente, per tre mandati consecutivi, del Comitato europeo per la salvaguardia della natura e delle risorse naturali. Un ruolo nel quale Pavan riuscì a creare le premesse perché gli allora 21 stati membri sottoscrivessero importanti documenti come la Carta delle foreste, la Carta europea dell’acqua, la Carta europea del suolo e numerosi altri impegni internazionali. Nel 1971 fece istituire dall’Università di Pavia la prima cattedra italiana di Conservazione della natura e delle sue risorse, che gli fu affidata per due anni. Chi lo ha conosciuto ricorda come non amasse i compromessi della politique politicienne. Un uomo di scienza e coscienza ambientale, che ha sempre saputo coniugare l’impegno costante per la ricerca e l’azione politica, ai più alti livelli. Mario Pavan avrebbe forse potuto dare grande lustro alla poltrona di ministro dell’Ambiente, se la sua esperienza di governo non fosse durata appena tre mesi. Purtroppo per Pavan così andavano le cose nel 1987, quando gli anni incerti di ogni legislatura venivano suddivisi in tre, quattro, cinque governi, e la minaccia delle elezioni anticipate teneva in tensione la vita politica. Erano gli anni difficili in cui l’Italia si apprestava a passare dalla padella fumosa della cosiddetta prima Repubblica all’abbraccio delle braci della seconda Repubblica. De Lorenzo e Pavan possono essere considerati i perfetti rappresentanti di due tipologie ben diverse di ministri dell’Ambiente. Da una parte i padri scontenti di figlie femmine, che hanno accettato il ministero senza mai essersi occupati prima del tema e senza avere alcuna intenzione di acquisire un’autentica competenza in materia. Dall’altra, personalità meno coinvolte nel piccolo gioco del potere politi-

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co che si sono viste affidare la responsabilità di gestire in pratica un settore che conoscevano bene in teoria. Sia gli uni, forse per difetto di volontà, che gli altri, probabilmente perché privi dell’esperienza necessaria per navigare tra i flutti della politica dei partiti, non sono però mai riusciti a emancipare il ministero dalla posizione di retroguardia nella quale era stato relegato fin dalla sua creazione.

l’ambientalismo tra società e politica I primi due ritratti della nostra galleria inducono a fermarsi a riflettere su quel che succedeva nella società italiana mentre il nuovo ministero passava dalla scaltrezza di De Lorenzo all’idealismo di Pavan. In quei mesi del 1987, fuori dal Palazzo, l’ambientalismo italiano viveva una trasformazione importante, che ha segnato la scelta per l’impegno politico diretto. L’associazionismo di matrice ecologica si era sviluppato in Italia a cavallo degli anni cinquanta e sessanta, inizialmente con modeste pretese di azione politica per la modifica dei meccanismi di sviluppo. Era un movimento che giocava in difesa, per la tutela degli animali e dei paesaggi, ma che raramente passava all’attacco invadendo il campo della politica. Italia Nostra, fondata a Roma nel 1955 da un gruppo di intellettuali per sostenere una campagna contro lo sventramento di un isolato del centro storico di Roma, e successivamente il wwf Italia, sorto nel 1966 come costola italiana del World Wildlife Fund con l’ambizioso intento di conservare i sistemi naturali del nostro paese, avevano rappresentato per decenni i principali contenitori delle istanze ecologiste incarnando una filosofia civica prima che politica. La dimensione politica dell’ambientalismo arrivò in Italia insieme alle passioni maturate in America negli anni sessanta e approdate da noi con le grandi trasformazioni della società e della cultura del Sessantotto. Come molti altri movimenti controculturali che si affermarono in quegli anni, l’ecologismo politico percorse un tratto di strada insieme ai diversi gruppi di matrice comunista che contribuirono ad

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animare il grande confronto di idee del Sessantotto, ma provenendo da una cultura del tutto estranea alla dottrina e al pensiero marxisti. L’ambientalismo politico nacque quindi come compagno di strada della «nuova» sinistra senza, tuttavia, condividerne le matrici culturali più profonde. Questa estraneità culturale ha spesso suscitato un certo sospetto negli ambienti della sinistra radicale, rendendo più difficile un salto di qualità nell’azione degli ambientalisti. Solo nel 1980, quando nell’ambito dell’Arci venne istituita la Lega per l’Ambiente, destinata presto a rendersi autonoma e a cambiare nome divenendo l’attuale Legambiente, cominciò a germogliare in Italia una pretesa politica ambientale che raggiunse il suo momento di massima visibilità a seguito del disastro avvenuto a Chernobyl il 26 aprile 1986. L’orologio della centrale Lenin segnava le ore 01.23.44 quando esplose il reattore numero quattro. A seguito dell’incidente si alzò una nube di materiali radioattivi che attraverserà per mesi l’Europa in lungo e in largo contaminando successivamente, e in maniera differente, tutti i paesi dell’Unione, dalla Finlandia all’Italia. Fu di fronte a una tragedia senza precedenti nella storia europea che l’ambientalismo italiano maturò un mutamento di qualità definitivo. All’indomani del disastro furono gli ambientalisti, per la prima volta, a dettare i tempi alla politica convocando poche settimane dopo l’incidente una conferenza stampa in cui resero pubblici dati che dimostravano una presenza massiccia di radionuclidi in diverse aree del nostro paese e costringendo le autorità, che inizialmente avevano minimizzato il pericolo di contaminazioni in Italia, a vietare il consumo dei generi alimentari più a rischio. La reazione emotiva dell’opinione pubblica indusse ad alzare il livello dell’azione politica e a prender di mira la stessa produzione di energia attraverso la pericolosa scissione dell’atomo. Quella contro il nucleare fu la madre di tutte le battaglie politiche degli ambientalisti in Italia. Il 10 maggio 1986 più di 200mila persone parteciparono a Roma a una grande manifestazione antinuclearista promossa da un cartello di as-

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sociazioni ambientaliste guidate da Legambiente, e in pochi mesi vennero raccolte oltre un milione di firme per il referendum per l’abolizione del nucleare. Gli ambientalisti scoprirono, in questo passaggio, uno spazio ampio e importante, che non poteva essere occupato, nonostante qualche goffo tentativo, né dalle forze del pentapartito né dall’opposizione comunista. Inoltre ci si rese conto che alcune battaglie politiche potevano essere combattute e persino vinte, come avrebbe dimostrato, di lì a poco, il successo del referendum antinuclearista. Un successo straordinario se si pensa sia al risultato dell’affluenza (l’8 novembre 1987 circa 30 milioni di italiani si recarono alle urne per rispondere ai cinque quesiti referendari) sia alle percentuali di consensi raggiunte: i tre quesiti riguardanti il nucleare furono accettati con una media di quasi l’80% dei voti espressi. Sull’onda di questa crescente consapevolezza molti ambientalisti decisero di dare vita a liste autonome, come già era avvenuto in alcuni altri paesi europei, approfittando della debolezza di un sistema politico in crisi. A dire il vero non si trattava di una novità assoluta: già nelle elezioni regionali del 1985 formazioni politiche ecologiste si erano presentate in 11 regioni italiane con lo stesso simbolo del «sole che ride». Fino a quel giorno però le diverse esperienze erano state prive di un coordinamento programmatico o organizzativo di livello nazionale. Solo a seguito del Congresso tenuto a Finale Ligure il 16 novembre 1986, queste esperienze locali assunsero un’organizzazione e una denominazione comune dando vita alla Federazione delle Liste Verdi. Così, alle politiche del 1987, la neonata Federazione raggiunse un successo straordinario raccogliendo circa un milione di consensi ed eleggendo ben 13 deputati e un senatore. Sembrava proprio che qualcosa stesse cambiando nel sistema politico italiano. La prima rappresentanza di parlamentari eletta da una formazione politica ambientalista presentava infatti due elementi interessanti: circa la metà degli eletti – sei su quattordici – erano donne e tutti provenivano dalle regioni del nord e del centro Italia. Forse le istanze ambientaliste avevano cataliz-

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zato una parte dell’insoddisfazione del nord del paese che negli stessi mesi stava mettendo le ali alle leghe regionali destinate a rappresentare una delle novità più rilevanti del panorama politico italiano. Gli ecologisti avevano dunque saltato il fosso entrando nel Palazzo, e non in punta di piedi o in funzione di un accordo di potere, ma a furor di popolo, sostenuti da elettori che si erano riconosciuti in una nuova proposta politica. Nel 1989 le liste divennero addirittura due e i consensi crebbero notevolmente. In occasione delle elezioni per il Parlamento europeo la lista dei Verdi allargò il proprio bacino elettorale di oltre 300mila voti assoluti riuscendo a eleggere tre propri rappresentanti a Strasburgo. Tra questi Alex Langer, uno dei padri nobili dell’ambientalismo italiano. Alle stesse elezioni si presentò anche una nuova formazione di ispirazione ambientalista, i Verdi arcobaleno, frutto della convergenza in un unico soggetto di personalità diverse, provenienti per lo più dalle file di Democrazia proletaria e del Partito radicale. Questo nuovo partito, al proprio esordio assoluto, sfiorò il 2,4% con oltre 800mila voti e due eletti. Nel complesso, le due formazioni ecologiste raccolsero il 6% dei votanti, grazie alla fiducia di circa 2 milioni di italiani, capitalizzando al meglio il risultato vittorioso del referendum per l’abolizione del nucleare in Italia. Mai più i Verdi italiani, nella loro storia successiva caratterizzata dai più vari e fantasiosi accordi elettorali – dal Girasole alla Sinistra arcobaleno –, raggiungeranno una percentuale complessiva così alta. Il successo dei Verdi si avvantaggiò anche del declino inesorabile dei vecchi partiti. Nelle elezioni che chiudevano il decennio e preludevano alla crisi della cosiddetta prima Repubblica, Psi e Dc recuperarono consensi crescendo rispetto alle precedenti consultazioni, ma il loro destino era segnato: nonostante la celebre battuta di Andreotti, secondo il quale «il potere logora chi non ce l’ha», i due partiti che s’erano spartiti i governi degli anni ottanta apparivano assai logorati da quarant’anni di «potere» e totalmente incapaci di cogliere il bisogno di cambiamento che stava agitando la società italiana.

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rispondere alla richiesta di cambiamento I Verdi riuscirono immediatamente a inserirsi con profitto in una delicata fase di transizione politica proponendo una risposta almeno parziale a questa crescente richiesta di cambiamento. Si organizzarono secondo uno stile innovativo, in grado di esaltare l’autonomia delle diverse realtà territoriali; dimostrarono una vocazione associativa prima che partitica, rappresentando così un virus che il sistema non era più in grado di assorbire o cancellare. Prima della caduta del muro di Berlino, prima della fine della Dc o del Pci, il nuovo partito verde assunse quindi una propria autonoma posizione nel panorama politico italiano occupando uno spazio libero che tendeva ad ampliarsi progressivamente, mentre si restringevano inesorabilmente le aree di radicamento dei partiti che incarnavano le posizioni ideologiche. Soprattutto, i Verdi si caratterizzarono immediatamente come un partito postideologico: lo sottolineava chiaramente Alex Langer quando si chiedeva: «Le centrali nucleari sono di destra o di sinistra?». Avevano combattuto una battaglia concreta e l’avevano vinta, contribuendo, al fianco di radicali e socialisti che avevano creduto fin dall’inizio nel referendum, a rendere l’Italia l’unico dei sette paesi maggiormente industrializzati del mondo a rinunciare alla corsa al nucleare. Su questa fortunata prima stagione dell’ambientalismo politico è molto lucida l’analisi di Roberto Della Seta, fra i fondatori di Legambiente – del quale è stato presidente nazionale –, oggi senatore del Partito democratico. Secondo lui è impossibile, per un partito ambientalista, essere inquadrato nelle tradizionali categorie di destra e sinistra, visto che il fondamento dell’ambientalismo è una critica profonda a quel criterio di crescita economica illimitata postulato sia dal pensiero liberale che da quello marxista. Le ideologie ottocentesche alla base delle politiche liberali e socialiste, infatti, si reggevano entrambe sul mito del progresso economico e sociale, che integra e metabolizza le crisi cicliche del sistema economico e dell’assetto sociale.

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La politica ambientalista, invece, pone il problema dell’esaurimento delle risorse del paese e del pianeta, guadagnando così l’attenzione di un elettorato che, ben prima della classe dirigente dei partiti, stava comprendendo il cambiamento in atto. Cominciava a divenire chiara in quegli anni, specialmente al nord e al centro, l’esigenza di ripensare i modelli di sviluppo e di arrestare il degrado delle risorse naturali che l’Italia industriale aveva praticato per decenni con il consenso dell’opposizione comunista che basava la propria analisi sui tradizionali rapporti di produzione industriale. Alla fine degli anni ottanta quel partito nascente e pieno di energia possedeva dentro di sé alcune risposte politiche concrete alla richiesta di cambiamento della società. Probabilmente se fosse rimasto fedele alla sua ispirazione originaria avrebbe consolidato la propria posizione, offrendosi come valido rappresentante di un universo variegato, colto, sensibile, impegnato; avrebbe contribuito a orientare in una nuova prospettiva la politica italiana. Ma la direzione che il partito prese negli anni novanta non fu quella di irrobustire la propria identità e presentarsi come una fucina nuova di idee e pratiche politiche. I Verdi italiani scelsero invece di nuotare controcorrente. Dopo essere stati i primi a comprendere la necessità per la sinistra di emanciparsi dalla sua impostazione ideologica, si misero a risalire le acque della politica italiana, di una sinistra italiana sulla quale si faceva ormai sentire la crisi irreversibile del comunismo nazionale e internazionale. Come salmoni, gli esponenti del partito voltarono così le spalle al mare aperto della postideologia e decisero di risalire la corrente in senso opposto, verso ricette marxiste che non avevano mai condiviso e a cui il partito era stato estraneo al tempo del suo vincente esordio nella scena politica del paese.

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gli anni novanta: vecchi ambientalisti e giovani radicali Torniamo a percorrere la nostra ideale galleria di ritratti per passare ai quadri che raffigurano i ministri degli anni novanta. Durante la x legislatura, dal 1987 al 1992, si sono succeduti quattro presidenti del Consiglio: Goria, De Mita e, per due volte, Andreotti. Tutti confermarono un unico ministro dell’Ambiente, il socialista (poi Pds e infine Ds) Giorgio Ruffolo, che con questo incarico raggiunse il punto più alto della sua lunga carriera politica. Dopo un medico e uno scienziato, era il turno di un esperto di economia. Profili diversi, storie e partiti differenti alle spalle, un’unica consapevolezza: il Ministero dell’Ambiente rimaneva un dicastero di seconda fascia, i grandi nomi della Dc, del Psi e degli altri grandi partiti tradizionali ne restavano debitamente alla larga. Il 5 e 6 aprile del 1992 gli italiani vennero chiamati di nuovo al voto con la conseguenza di alcune novità sorprendenti: La Lega Nord entrò in Parlamento con una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori; la Rete ottenne una quindicina di parlamentari; i grandi partiti accusarono il colpo, ma riuscirono comunque a costituire una maggioranza, anche se la Dc per la prima volta scese sotto il 30%. La crisi politica e quella della finanza pubblica si intrecciavano in un solo nodo di emergenza, e il governo venne affidato a Giuliano Amato, politico al quale si sono sempre attribuite doti straordinarie di prudenza. Per il Ministero dell’Ambiente, Amato scelse Carlo Ripa di Meana, in quota Psi. Nei sette anni precedenti, dal 1985 al 1992, Ripa di Meana era già stato commissario europeo per la Cultura e per l’Ambiente nelle commissioni guidate da Jacques Delors, e aveva acquisito una grande esperienza internazionale. Uomo di grande competenza, capace di navigare nella politica come nella società mondana, il ministro dell’Ambiente nel primo governo Amato si rese facilmente conto dei limiti politici del dicastero che gli era stato affidato. La scarsa considerazione del Ministero dell’Ambiente traspari-

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va dagli atteggiamenti dei politici più navigati, Craxi e Amato, che lo avevano chiamato a coprire con la sua autorevolezza una situazione gravemente compromessa da anni di incuria. In un libro dall’accattivante titolo Sorci verdi, Carlo Ripa di Meana racconta la sua esperienza di ministro dell’Ambiente socialista prima, e segretario dei Verdi poi. Al suo primo giorno da ministro, racconta, gli prospettarono la gravità del problema dei rifiuti, che invece non appariva affatto nei mezzi di comunicazione. I funzionari ministeriali gli spiegarono, allora, «che in alcune regioni, a cominciare dalla Campania, la gestione dei rifiuti è in mano alla criminalità organizzata». Era vero, come abbiamo potuto verificare nella terribile estate del 2008 quando, a sedici anni dall’esperienza di Ripa di Meana, le contraddizioni di un sistema insostenibile sono esplose nella crisi di Napoli. Le immagini della città sommersa dai rifiuti hanno rapidamente fatto il giro del mondo, minando fortemente la credibilità internazionale del secondo governo Prodi e preparando la strada a una nuova profondissima crisi del centrosinistra italiano. Dinanzi alle immagini del disastro napoletano le riflessioni di Ripa di Meana suonano come una tetra profezia. Il verificarsi puntuale del collasso annunciato era la dimostrazione plastica di quanto, nonostante fiumi di parole e dichiarazioni di principi, la politica degli ultimi vent’anni, quale che sia stato il colore politico dei governi, sia stata in Italia ben lontana dall’affrontare il cuore dei problemi ambientali del nostro paese. Mentre il 1992 segnava il collasso dei partiti tradizionali e l’urgenza di una nuova dimensione politica, più concreta e meno ideologica, gli anni seguenti hanno visto farsi sempre più ampia la distanza tra le dichiarazioni di principio e le iniziative concrete. I rifiuti della Campania sono stati per anni un terreno di scontro elettorale, nel quale si sono sfidati politici di orientamento diverso. Un terreno sporco, come d’altronde era prevedibile considerando la materia di cui era composto, che ha permesso ad alcuni di costruire le proprie fortune, ad altri di rischiare di perdere tutto. Gli unici che da questo gioco di potere hanno solo perso sono stati gli italiani,

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vittime dell’inadeguatezza di una politica incapace di trovare nel tempo risposte efficaci al problema. Forse altre questioni preoccupavano maggiormente, nei primi anni novanta, la nostra politica. Quando, dopo pochi mesi, Ripa di Meana lasciò il ministero, i partiti, incapaci di mutare atteggiamento anche di fronte alla crisi gravissima che li investiva, consegnarono temporaneamente la poltrona a un esponente del Partito socialista privo di esperienze nel campo dell’ambiente: Valdo Spini. Il suo ministero era destinato a durare poco, solo un mese, e a concludersi con l’arrivo del nuovo premier, Carlo Azeglio Ciampi, chiamato alla guida dell’esecutivo mentre infuriava la tempesta di Tangentopoli. L’ex governatore della Banca d’Italia si concesse qualche scelta coraggiosa e, rompendo con alcune abitudini consolidate, scelse per il Ministero dell’Ambiente un esponente di un partito ambientalista: l’allora giovanissimo Francesco Rutelli, tra i fondatori dei Verdi Arcobaleno e della Federazione dei Verdi, nata dalla fusione, nel dicembre 1990, delle due formazioni ambientaliste che si erano presentate alle elezioni europee del 1989. A differenza della stragrande maggioranza della classe dirigente del partito, Rutelli non proveniva dalle fila della sinistra o dell’estrema sinistra. Per ragioni anagrafiche, essendo in quegli anni poco più che bambino, non aveva avuto alcuna esperienza diretta del Sessantotto. Si era formato in una scuola specializzata nel produrre politici capaci, determinati e preparati: il Partito radicale, grande vivaio a cui quasi tutti i partiti, a destra come a sinistra, hanno sempre fatto ricorso per rinforzare le proprie prime, seconde e terze linee. Francesco Rutelli incarnava la giovane promessa di una sinistra nuova, postideologica, laica, sensibile ai temi ambientali e pronta ad aprirsi verso il futuro. Per molti italiani, che in quei mesi sentivano forte il vento del cambiamento e la possibilità di uscire dalla palude della vecchia politica, Rutelli era un simbolo e una speranza. Egli confermò il proprio ruolo di personaggio nuovo comportandosi in modo inedito per un politico italiano. Infatti, la sua esperienza da ministro durò poche ore: di fron-

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te al rifiuto delle Camere di concedere l’autorizzazione a procedere nei confronti di alcuni politici, fu pronto a dimettersi per salvaguardare l’integrità politica sua e del proprio partito. Quelle dimissioni, atto di estrema coerenza di un politico giovane e determinato, furono per Rutelli un grande trampolino di lancio. Scelto dal centrosinistra capitolino come candidato sindaco, vinse nel 1993 a Roma lo storico scontro con Gianfranco Fini, che tutti reputavano all’epoca strafavorito. Per Rutelli l’ambiente non è quindi una figlia femmina, ma una madre. Una genitrice premurosa che gli ha permesso di diventare finalmente «grande» e prendere il volo verso più ampi orizzonti elettorali e personali. E forse non è un caso che, dopo la bruciante sconfitta del 2008 per il Campidoglio, questa volta contro lo sfavorito Gianni Alemanno, Francesco Rutelli abbia deciso di rilanciare una sua vecchia intuizione: «il centro per un futuro sostenibile», fondazione sui temi dell’energia e dell’ambiente. Un contenitore che lui aveva prima creato e poi chiuso in un cassetto per quasi vent’anni. Riprendere a occuparsi di ambiente ha forse per Rutelli il dolce sapore del ritorno in una vecchia casa che, seppure abitata per poco tempo, ha costituito il punto di partenza di un lunghissimo viaggio. Nel 1993 il partito dei Verdi era stato affidato alla segreteria di Carlo Ripa di Meana. Una scelta di campo si imponeva, poiché l’introduzione del sistema maggioritario obbligava a formare coalizioni di governo prima del voto, e a collocarsi perciò dall’una o dall’altra parte. La scelta fu quella che tutti avrebbero potuto prevedere: collocarsi nell’Alleanza dei Progressisti che il leader del Pds autore della svolta della Bolognina, Achille Occhetto, aveva ribattezzato la «gioiosa macchina da guerra». Ma le elezioni del 1994, le prime celebrate con la nuova legge elettorale maggioritaria, il cosiddetto mattarellum, ebbero un esito molto poco «gioioso» sia per la coalizione dei progressisti che per i Verdi, incapaci di raggiungere la soglia del 4% necessaria a eleggere parlamentari nella quota proporzionale e quindi destinati a essere rappresentati in Parlamento solo dagli 11 deputati e 7 senatori che avevano vinto, in quanto candida-

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ti dell’intera coalizione, nelle competizioni maggioritarie. La percentuale raggiunta, il 2,7%, era un risultato deludente. Il capitale di entusiasmo e di novità accumulato nella seconda metà degli anni ottanta sembrava già dilapidato, ed è facile attribuirne la responsabilità all’alleanza fortemente caratterizzata a sinistra, che non premiò i Verdi e non permise loro di raccogliere l’eredità delle battaglie vinte che li avevano sospinti nella politica: da quella contro le centrali nucleari alle mobilitazioni civiche contro lo smog nelle città. Da quella prima delusione elettorale i Verdi non si sono più sollevati. La partecipazione alle alleanze di sinistra ha garantito la loro presenza nelle sedi che contano; ma il partito ha smarrito il contatto con le aspettative della società che lo aveva fatto volare al Parlamento negli anni ottanta.

sotto l’ombra dell’ulivo Con l’avvento dell’Ulivo e le due vittorie di Romano Prodi, nel 1996 e nel 2006, sono stati due esponenti dei Verdi – Edo Ronchi prima e Alfonso Pecoraro Scanio poi – a convolare a giuste nozze con quella che gli ambientalisti avevano sempre considerato la «promessa sposa» del loro impegno politico. Ma, nonostante queste premesse, il risultato del doppio mandato di governo per i Verdi appare deludente: l’incapacità strutturale di lanciare messaggi in grado di conquistare ampio consenso nella società, le scelte spesso poco coraggiose, il desiderio di coltivare il proprio orticello senza pestare i piedi agli alleati, hanno confinato i Verdi italiani al non ambito ruolo di «secondo partito più amato dagli italiani», quelli che si occupano «bene» di cose importanti ma non necessarie. Niente di più lontano da quella che dovrebbe essere l’immagine di un partito ambientalista moderno. Le politiche dei Verdi hanno consentito loro di essere perennemente in cima nei sondaggi di gradimento, come seconda scelta nelle intenzioni di voto, con il piccolo inconveniente che le elezioni non le vincono i partiti simpatici ma quelli che riescono a proporsi come capaci di rappre-

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sentare a 360 gradi gli interessi dei cittadini in ogni ambito della vita sociale ed economica. Questo fenomeno si è manifestato sempre più con il susseguirsi degli anni e dei governi. A dire il vero, durante i governi Prodi e D’Alema, Edo Ronchi aveva ricevuto per tre volte l’incarico di ministro dell’Ambiente, ed era riuscito ad avviare alcune politiche importanti, fra le quali spicca il famoso decreto Ronchi, prima legge-quadro nazionale sulla regolamentazione del settore dei rifiuti. Nonostante l’attivismo del ministro le percentuali del partito guidato da Luigi Manconi crollarono progressivamente, tanto che dopo il magro 1,8% raggiunto alle Europee del giugno 1999 il segretario decise di dimettersi. A questo punto si aprì una nuova stagione per il partito che, gestito prima da Grazia Francescato e poi direttamente da Alfonso Pecoraro Scanio, operò una profonda rivoluzione del gruppo dirigente. A farne le spese per primo fu lo stesso Ronchi al quale Amato non rinnovò l’incarico di ministro dell’Ambiente e propose – inutilmente – quello di ministro per le Politiche comunitarie. Ronchi lasciò i Verdi insieme a tanti altri protagonisti della prima ora, non convinti della direzione assunta dal partito sotto la nuova guida Francescato-Pecoraro. Durante la breve vita del governo Amato ben due Verdi sono stati ministri: Pecoraro Scanio alle Politiche agricole e Gianni Francesco Mattioli alle Politiche comunitarie. Il «sacrificio» di Ronchi permise di raddoppiare la presenza del partito nell’esecutivo, ma aprì la strada a un avvicendamento controverso che avrebbe causato molte polemiche. La rinuncia dei Verdi al ministero che avevano sempre considerato il loro naturale obiettivo favorì infatti un esponente dei Democratici, il funambolico Willer Bordon. Originario di Muggia, comune di poco più di 10.000 abitanti della provincia di Trieste, Bordon era già allora un politico navigato avendo militato nel Pci, nel Pds, in Alleanza democratica per approdare infine al Partito dell’Asinello. Godeva allora di un grande rapporto di stima con Romano Prodi tanto da essere considerato, in compagnia di Arturo Parisi e Marina Magistrelli, fra i principali rappresentanti di quella corrente dei Democratici più vicina al presidente della Commis-

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