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Le cellule 2.0 ora crescono e si replicano

In futuro potremmo avere “colonie tuttofare” per la creazione di farmaci, vaccini e cibi

di Mario Bucci

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Le cellule progettate al computer e nate in provetta adesso sono in grado di crescere e replicarsi in copie fedeli, dalle quali potrebbero nascere potenzialmente vere e proprie colonie tuttofare capaci di produrre farmaci o vaccini, oppure bonificare suoli e acqua contaminati, o ancora diventare fabbriche di carburanti e perfino di cibi del futuro. Una potenziale rivoluzione di cui si dà conto sulla rivista Cell con la ricerca nata dalla collaborazione fra il J. Craig Venter Institute (JCVI) fondato dal pioniere della biologia sintetica Craig Venter, il National Institute of Standards and Technology (NIST) e Massachusetts Institute of Technology (MIT).

Chiamato JCVI-syn3A, il nuovo batterio segna il terzo capitolo della storia della vita sintetica cominciata nel 2010. Allora era stato annunciato l’arrivo del primo batterio progettato su misura, come fosse stato una sorta di software della vita; nel marzo 2016 è stata la volta di JCVI-syn3.0, il batterio con un genoma minimale in 473 geni: dieci volte di meno rispetto a quelli di un batterio naturale.

Eppure in quei geni aveva tutto il necessario per vivere, o quasi. Non riusciva infatti a replicarsi perché le copie di se stesso che produceva avevano forme molto irregolari e dimensioni

diverse. Di conseguenza nessuna di esse riusciva a sopravvivere. “Adesso è arrivato il terzo passo, fondamentale, con un batterio capace di replicarsi”, osserva il genetista Giuseppe Novelli, dell’Università di Roma Tor Vergata. Il segreto di questo successo è in sette geni, che il vecchio JCVI-syn3.0 non aveva, ed è solo da questi che dipende la capacità di replicarsi. Di almeno cinque di essi i ricercatori ignorano ancora la funzione, ma ormai siamo ad un passo dall’importante scoperta.

“Sono questi i geni che regolano e controllano il processo di divisione. Questo significa che il nuovo batterio sintetico vive e si riproduce, di conseguenza può formare colonie e aprire la strada a farmaci e vaccini prodotti da fabbriche viventi”, osserva Novelli. Rispetto al suo predecessore JCVI-syn3A ha ben 19 geni in più, ma sono solo sette quelli che gli permettono di replicarsi. Sono la chiave sia per capire da vicino alcuni processi fondamentali alla base della vita, sia per aprire la strada alle applicazioni della vita sintetica, come cellule che possono essere modificate per produrre a comando farmaci, cibo e carburanti; si potrebbero ottenere anche sensori programmati come circuiti genetici per riconoscere malattie e consegnare farmaci direttamente all’interno dell’organismo, recapitandoli dover servono, o ancora organismi con genomi interamente ricodificati per eseguire compiti che i batteri naturali non sono in grado di svolgere, per esempio bonificare terreni e acque contaminati; fra le possibili applicazioni ci sono anche cellule sintetiche ibride, costruite a partire da elementi non viventi.

La ricerca in questo campo si annuncia come un gigantesco puzzle, nel senso che per progettare e costruire una cellula mai vista in natura e che esegua dei compiti ben precisi significherà avere una lista di componenti di base da assemblare per ottenere cellule diverse, come fossero mattoncini delle costruzioni. Sono già pronte decine di varianti di JCVI-syn3A, ottenute aggiungendo e togliendo mattoncini genetici. Sembra uno scenario fantascientifico ma in realtà - forse - più prossimo di quanto si possa pensare. E che, soprattutto, potrebbe aprire ora importanti strade ai progressi scientifici.

Con le opportune precauzioni, dicono gli esperti, la mamma positiva al Covid-19 può abbracciare il suo piccino appena nato e vivere l’esperienza del contatto pelle a pelle, «che favorisce il bonding», la creazione del legame, «e il buon avvio dell’allattamento». La mamma ha la possibilità, dunque, di attaccare subito il bimbo al seno e procedere anche nei giorni successivi con l’allattamento a richiesta.

LE “DUE VITE” DI EMANUELE TREVI IN CORSA ALLO STREGA

L’amicizia, la solitudine, il tormento. Lo scrittore romano guarda alle vite degli altri e giudica la propria, alla ricerca di se stesso

di Flavia Piccinni

“C’è sempre qualcosa di assente che mi tormenta, diceva Camille Claudel, l’allieva di Rodin, malata cronica di nervi”. E c’è qualcosa di assente e allo stesso tempo presentissimo, come un ologramma che si fa contatto e vuoto contemporaneamente, nell’ultimo, splendido, libro di Emanuele Trevi “Due vite” (Neri Pozza, pp. 144), che racconta la storia di Pia Pera e Rocco Carbone - due scrittori amici dell’autore, prematuramente scomparsi. Narrando di loro, Trevi firma una riflessione allargata sull’amicizia, sulla solitudine, sul cercare se stessi e sul tormentarsi. Si tratta di un libro prezioso per la densità delle riflessioni e il distillato di riferimenti culturali – che abbracciano adesso Jung, ora Jack London – messi a modellare le storie dei due protagonisti, e quella di Trevi stesso, che è narratore e parte in causa, sguardo sulle vite degli altri e silenzioso giudicatore della propria. “Tutti questi ricordi – mi racconta Trevi - sono riemersi quando, mettendo in ordine un armadio, ho trovato delle fotografie che mi raccontavano il tempo che con Pia Pera e Rocco Carbone avevo condiviso. In quel momento ho pensato che noi viviamo nel tempo, che il tempo è irreversibile, che perdiamo le cose, ma anche che da qualche parte quella serata esiste”.

Qual era il rapporto che legava il vostro trio?

C’era una complicità disinteressata. La capacità di volere il bene dell’altro senza condizioni. Anche nel momento in cui ciò che l’altro desiderava non coincideva alla propria visione della vita. Ci sono tante persone generose, ma sono poche quelle che ti seguono anche quando pensano che il bene per te sia un altro.

Cosa l’ha attirata verso Pia Pera ai tempi della vostra amicizia?

Era incantevole. Una persona con

Emanuele Trevi.

cui passavo un tempo bello. Scrivere di lei ha rallentato il libro, perché il femminile è più complesso per un maschio. Era un’incarnazione particolarissima della femminilità. Sentivo questa sua presenza che mi diceva sempre, come quando eravamo ragazzi, che io arrivavo a delle conclusioni affrettate.

La relazione con Rocco Carbone appare più conflittuale.

Il nostro era un legame fortissimo. Era diventato amico di Chiara Gamberale, mia moglie. Lui aveva dei tratti insopportabili, ma fra di noi si era sviluppata una cosa che non mi capita mai: una competizione virile. Con Rocco facevi il gioco che lui ti invitava a fare, e quindi era divertente. Ma creava anche dei malumori.

Lei è stato il primo candidato in ordine temporale al Premio Strega. E per molti, dopo il secondo posto nel 2012 con “Qualcosa di Scritto” a soli due voti dal vincitore Alessandro Piperno, quest’anno è il favorito.

Senza ipocrisia, non immaginavo di correre da favorito. La cosa che mi entusiasma è partecipare con un libro ibrido, che contiene tanti generi fra di loro diversi. Amo forse prima leggerli che scriverli, libri così. Libri in cui riversi tutto quello che hai imparato nella vita. Come il Dora Bruder di Patrick Modiano, che parte da un ritaglio di giornale letto dall’autore e lo conduce nel passato di Parigi, a fare i conti con il nazismo. Amo i libri che non vivono sulla trama, non sul personaggio votato a creare identificazione, ma si snodano su più piani narrativi e stilistici. Non scelgo mai un genere letterario, ma cerco la contaminazione. Vuoi che sia con le lettere che un tempo si scrivevano a mano, vuoi con le email, vuoi con WhatsApp che, come in questo libro, è una delle mie fonti.

In che modo?

Per raccontare di Pia Pera ho riletto tutte le nostre conversazioni, e così mi sono preparato a scrivere di lei. Ma in

“Due vite” Emanuele Trevi Neri Pozza 144 pagine 12,50 euro

“Lo Strega? Senza ipocrisia, non immaginavo di correre da favorito. La cosa che mi entusiasma è partecipare con un libro ibrido, che contiene tanti generi fra di loro diversi. Amo forse prima leggerli che scriverli, libri così. Libri in cui riversi tutto quello che hai imparato nella vita. Come il Dora Bruder di Patrick Modiano, che parte da un ritaglio di giornale letto dall’autore e lo conduce nel passato di Parigi, a fare i conti con il nazismo”. questo libro ho riversato tutto quello che ho imparato dalla letteratura e dal giornalismo. Con gli anni mi sono reso conto che, per me, la scrittura sui giornali è stata una grande palestra: ho imparato dagli articoli quello che sono. In modo molto colpevole, negli anni non ho mai tenuto un diario. Un giorno lo dissi a Marco Belpoliti, e lui mi rispose che sbagliavo: il mio diario erano i miei articoli.

A proposito di Pia Pera, a un certo punto nota come ci siano periodi in cui non facciamo che “fuggire da ciò che i nostri genitori hanno desiderato per noi”. Le è mai capitato?

Penso di sì. Quando finii di fare il dottorato, avevo già vinto un concorso per la scuola. I miei genitori pensavano che dovessi continuare a studiare. Ma non mi interessava. Mi interessava di più fare l’avventuriero, inseguire cose infantiloidi, cose che mi tenessero più libero. Ho fatto degli errori, ma mi sono sempre guadagnato la vita. E poi ho avuto un dono dalla sorte.

Quale?

La capacità precoce di adattarmi. Il mio talento non è scrivere, ma l’adattamento nel senso darwiniano. Questo mi ha portato sempre a guardare ai miei personaggi come persone più autentiche di me, in quanto più restie o incapaci ad adattarsi. E questo, allo stesso tempo, l’ho sempre sentito come una specie di senso di colpa.

Perché?

Perché non voglio guai, perché sono sempre docile alle pressioni del mondo. E perché non ho un sentimento tragico dell’esistenza. La mia storia è una galleria di disadattati. Ma questa cosa, che all’inizio ho vissuto come un limite, mi ha permesso di creare uno spazio narrativo. L’adattato guarda al disadattato. Il mio limite umano è diventato un problema di tecnica narrativa. Anche da ragazzino stavo dietro a degli amici coraggiosi, ma poi il sasso, io, non lo tiravo.

Non ha mai pensato che le sarebbe piaciuto invece lanciarlo?

Che fine fa Lucignolo? È meno adattato di Pinocchio, e per questo non riesce a uscire dal Paese dei Balocchi. L’adattato ha una possibilità ulteriore di avventura. Forse anche per questo la mia letteratura è un inno ai Lucignoli. A quelli che vanno fino in fondo. Questo mi ha portato lontano anche nella vita. La prima donna con cui ho vissuto era una ribelle perché già allora, come adesso, amavo le persone che mettevano in atto dei processi di contestazione del reale. Con gli anni, questa cosa qui alla fine è diventata la mia maniera di descrivere il mondo. E se quello che scrivo è efficace credo lo sia perché io non sono come loro.

E non è neanche, naturalmente, come Pia Pera e Rocco Carbone.

Sì, ma quando ho trovato quelle foto la domanda che mi sono fatto è stata un’altra. È stata: perché io sono vivo?

Cosa si è risposto?

Io sono vivo perché ho resistito alla sirena che fa dell’artista un disadattato. La mia vocazione è stata quella di fare il critico, la posizione di chi è un compagno di strada con un margine garantito di sicurezza. Mentre leggevo Freud, ho pensato a Rocco. La letteratura è quando sconfini dal generale al particolare. La cattiva letteratura è quella dove ci sono dosi di generali. Anche nel modo in cui noi presentiamo i libri, la letteratura si occupa di singole persone. Perché il singolo può rovesciare le versioni del mondo, può sbagliare, può trionfare. Oggi la retorica del politically correct è di imposizione dal generale al particolare: il mondo anglosassone è devastato, il problema è l’autocensura. Forse è per questo che cerco di fuggire dal generale, perché ho una certezza: l’individuo è la misura delle cose.

VALENTINA MIRA, UNA “X” SULLA VIOLENZA ALLE DONNE

“Tu gli dici di no e lui lo fa lo stesso”. Travolgente esordio letterario nel libro-lettera in cui c’è la testimonianza di uno stupro subito

“La banalità dello stupro non è fatta di mostri, né di pazzi, né di vergini, né di sante. È fatta delle cosiddette persone perbene. Lo stupro di cui parlo non ha una pistola puntata addosso a qualcuna. Semplicemente, tu gli dici di no e lui lo fa lo stesso”.

Parla così – con quella semplicità disarmante che ti mette al muro – Valentina Mira, giornalista, che arriva in libreria con il suo travolgente esordio

“X” (Fandango, pp. 190). Scrive della banalità dello stupro, lei che ne è stata vittima undici anni fa. Lo fa firmando una straziata e necessaria lettera al fratello (che probabilmente non la leggerà mai), raccontandogli della violenza e dei postumi, di quando assisti alla “vittoria del silenzio sul rumore” e di come da quel baratro impara a costrursi.

Con una prosa schietta e incessante, Mira è brava a smarcarsi dalla bieca narrazione egoriferita e riesce a trasformare, con un incessante lavoro di riflessione, la sua storia personale come la storia di molte altre. Non mancano i riferimenti letterari (“Roxane Gay, Alice Sebold, Chanel Miller sono autrici che ti fanno sentire meno sola”), e le riflessioni trasversali. “Vedi – mi spiega lei - io sono nata nel 1991, e da allora mi sembra di poter rilevare almeno due momenti importanti. Il primo è stato giuridico, un passaggio fondamentale con la legge 66 del 1996, quando lo stupro è passato da reato contro la morale a reato contro la persona. Un altro cambiamento epocale credo sia stata la nascita di Non una di meno, movimento transnazionale che ha finalmente dato una dimensione collettiva a un problema che era solo apparentemente individuale. Se fosse esistita quando avevo 19 anni, nel 2010, sono certa che avrei avuto qualche strumento in più per affrontare lo stupro”.

Partiamo dall’inizio: perché hai scritto X?

Perché ne avevo bisogno. Avevo una spina che era entrata troppo a fondo e se non me la toglievo non so che fine facevo. La scrittura per me è da sempre cura, leccarsi le ferite, dare loro un senso. Volevo elaborare le mie ferite perché ho capito che erano mol-

to comuni; volevo farlo in un modo da permettere la catarsi anche ad altre.

Racconti di un episodio di violenza di undici anni fa, a dimostrazione che per metabolizzare serve molto tempo. Come è stato farlo?

Ho riscritto quella scena diverse volte, la voce narrante inizialmente mi usciva fuori fredda, lontana. Incredibile gli effetti che ha la dissociazione sulla memoria, anche dopo tanti anni. Alla fine sono tornata lì. Mi ha aiutata la forma epistolare che ho scelto, il sapere che erano confidenze, un segreto che posso affidare a un “tu” che può decidere se ascoltare o meno.

Ogni giorno in Italia vengono denunciati 11 stupri. Il 90% però resta non denunciato. Tu perché non lo hai fatto?

La mia risposta è nel libro. Diciamo che dentro di me lo chiamavo stupro, ma era come con gli incubi brutti, mi vergognavo di dirlo ad alta voce. Poi visto che stavo male, ho capito che dovevo provare a dirlo. Ci ho provato con un’amica, che mi ha chiesto: ma sei sicura?. Ci ho provato con mio fratello, che però non ha avuto alcuna reazione. La verità è che viviamo in un sistema sessista, e rimangono tutti molto sbigottiti se una di noi alza la testa e dice: Mi hanno stuprata. Figuriamoci denunciare, considerata anche la difficoltà a reperire prove e testimoni, che di solito non ci sono.

Chi subisce un furto non è costretto a sopportare le domande: “ha bevuto?”, “com’eri vestita?”. Perché questo accade a chi subisce uno stupro?

Dalla culla alla tomba ci insegnano a giustificare gli uomini e a iper-responsabilizzare le donne. Sono sciocchezze retoriche quelle sull’alcol o su com’eri vestita, non c’è una situazione in cui i sessisti non riescano a rigirare la frittata. Un esempio: quando, a inizio marzo di quest’anno, una 21enne è stata violentata a villa Gordiani, Roma Est, da un italiano sconosciuto e ancora non trova-

“X” Valentina Mira Fandango 190 pagine 15 euro

Valentina Mira.

“Dalla culla alla tomba ci insegnano a giustificare gli uomini e a iper-responsabilizzare le donne. Un esempio: quando, a inizio marzo di quest’anno, una 21enne è stata violentata a villa Gordiani, Roma Est, da un italiano sconosciuto e ancora non trovato dalla polizia, stava facendo jogging. Non aveva bevuto ed è evidente che non correva in minigonna. Eppure, nei commenti all’articolo c’era gente che diceva che bisogna stare attente quando si corre”. to dalla polizia, stava facendo jogging. Non aveva bevuto ed è evidente che non correva in minigonna. Eppure, nei commenti all’articolo c’era gente che diceva che bisogna stare attente quando si corre. Addirittura dicevano che bisogna andare a correre accompagnate! La verità è che a loro fa più comodo proporre alle donne di smettere di vivere che immaginare di smettere di violentare. Questa infantilizzazione dell’uomo - “sono dei coglioni”, per fare una citazione - è davvero inquietante. Anche perché la controparte è accollare ogni responsabilità, anche e soprattutto quelle che non sono nostre, a noi.

Nella narrazione i ruoli sono mobili: vittime e carnefici si alternano.

Nella vita i ruoli non sono mai fissi. La protagonista è una persona che è stata vittima di stupro, che a sua volta a un certo punto diventa complice di un sistema sessista - andando a letto col capo - e poi, infine, smette di essere vittima e reagisce. Non faccio spoiler, ma sono abbastanza sicura che per i fautori del decoro a tutti i costi quel tipo di reazione, illegale ma mai e poi mai quanto quello che le hanno fatto, renderebbe la protagonista una carnefice. Una che passa dalla parte del torto. Niente che la protagonista del mio libro non rivendicherebbe.

In questi giorni, dopo il video di Beppe Grillo, c’è una grande polemica rispetto allo stupro. Qual è il tuo punto di vista?

Mi fa orrore il circo mediatico intorno a una vicenda così delicata, per cui posizionarsi nel senso di dire sono colpevoli o sono innocenti non è quello che mi interessa, né che mi compete. Sulla storia degli otto giorni, mi sembra sensato combattere quella che non è altro che una bugia misogina con dei dati. La legge 69 del 2019 prevede che uno stupro si possa denunciare entro 12 mesi. E comunque, come dicevamo, solo il 10% delle donne violentate denuncia. Grillo ha dato delle bugiarde a milioni di donne che sono stata stuprata lo hanno solo rivelato alle loro persone di fiducia, altro che otto giorni. Ma i tempi stanno cambiando. Che al peggior patriarcato con la bava alla bocca piaccia o meno.

Il libro è uscito da una settimana e sta alimentando un dibattito importante. È cambiata la percezione delle persone che avevi intorno?

I miei amici strettissimi sono sempre qui; sono le mie rocce, la mia ciurma, la mia certezza. Quello che è cambiato sono quelli che in questi anni di precariato e fallimento erano spariti e che ora a quanto pare si sono ricordati che esisto. Insomma, alcune persone si rivelano splendide, altre si confermano piuttosto meschine.

Ho letto di quell’editor che ti ha detto “lo stupro non vende” per rifiutare il libro.

Al netto dell’assenza di umanità, mi ha sorpresa l’ignoranza. Letterariamente infatti non è vero che lo stupro non vende. C’è uno stupro nel più grande successo internazionale degli ultimi anni partito dall’Italia, la saga di Elena Ferrante. “La ciociara” di Moravia parla di stupro ed è un classico della letteratura.

Hai dichiarato: “L’ideale sarebbe non fondare chi sei su una ferita, ma neanche campare di rimozione o negazione”. E tu?

Mica ci sono riuscita. Per molto tempo sono stata rimozione che cammina. Poi c’è l’altro pericolo: fondare chi si è su una ferita. Ora che ho scritto X il rischio è che i media mi prendano per stuprologa. Per fortuna in questi anni di precariato lavorativo ed emotivo ho accumulato un sacco di cose da dire, storie mie e di altri, e spero proprio di avere adesso e finalmente l’opportunità di raccontarle. (F. P.)

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