5 minute read

IL RITORNO DI WANNA MARCHI FRA TRUFFE, MANIPOLAZIONI E CERTEZZE DI ESSERE NEL GIUSTO

La nuova serie doc Netflix punta lo sguardo sui teleimbonitori nostrani

Che cosa distingue una persona di successo da una persona degna di essere stimata? Esiste ancora - in questo nostro tempo in cui si sfiora l’Olimpo per video in cui ci si umilia, e si diventa milionari vendendo i propri peti in barattoloun valore che travalichi l’egocentrismo e la spettacolarizzazione della propria esistenza oltre la mera idiozia? E, soprattutto, in quale momento ci siamo ritrovati ad adorare eroi senza qualità e a barattare la nostra attenzione in cambio - nel migliore dei casi - di una risata?

Non risponde ovviamente a questo la straordinaria docu-serie in quattro puntate dedicata a Wanna Marchi appena diffusa su Netflix, ideata e firmata da Alessandro Garramone con la collaborazione di Davide Bandiera per la regia di Nicola Prosatore. Dentro infatti c’è molto, moltissimo, altro, ma in qualche modo si intravede l’inizio del baratro dentro cui ci è dato oggi sguazzare.

Nella serie la riflessione viene lasciata al telespettatore che si ritrova catapultato fra reperti catodici e interviste inedite in un universo costruito dai reucci delle televendite, come Roberto da Crema e Valter Carbone, e popolato da nonne/ mamme con i bigodini in testa davanti alla televisione, tutte rapite dalle televendite di pentole, coltelli, materassi, cosmetici e rossetti. Ma, soprattutto, sogni.

Frame dopo frame, lo sguardo impietoso sul nostro Paese viene filtrato attraverso l’epopea della più celebre teleimbonitrice italiana - che qui viene raccontata dai tempi in cui era una casalinga squattrinata che si arrangiava andando a truccare i morti. Un’esistenza in cui sopravvive qualcosa di epico e di deprimente, di contemporaneo e di pop, di disperato e di gioiosamente sfidante, se non del tutto finale.

Minuto dopo minuto, ci si ritrova invischiati - senza possibilità di fermarsi dalla visione compulsiva - in quel siero colloidale che è la miseria e lo squallore proprio di uno show esistenziale che presto si trasforma in una serialità da B-movie. Ecco la vita di Wanna Marchi: dallo scioglipancia (venduto ancora prima di essere ideato e prodotto), passando per creme miracolose, fino ai numeri del lotto e al trucco del sale. Perché uno che sa vendere può farsi acquistare qualsiasi cosa. Anche la fortuna.

Lo racconta la stessa Wanna Marchi, fresca di parrucchiere, imbiancata, il rossetto vermiglio e il viso capace di attraversare il tempo pressoché in modo indenne. In lei si fa forma la certezzasperiamo più promessa che interiorizzata - di non aver fatto niente di male. C’è la completa assuefazione a quella legge della giungla in cui basta essere in grado di sopraffare gli altri, per avere il diritto di violarli. Come riporta un ex-collaboratore in uno spezzone di Striscia la Notizia, la celebre trasmissione di Antonio Ricci che pose all’attenzione pubblica il caso: “Tutte le mattine Wanna Marchi entrava in studio e diceva sempre che ogni giorno per una Wanna Marchi si dovevano svegliare trenta coglioni da truffare”.

Scoprendo l’epopea di questa donna, si rimane impassibili davanti ai suoi primi decenni di vita - la povertà, il marito fedifrago e violento, le sfortunepoiché niente rende perdonabile per lo spettatore il male generato con strafottenza e arroganza.

Non sono d’aiuto per seminare un briciolo di umanità né l’infanzia in una famiglia di contadini, né gli studi che si fermano alla quinta elementare, né l’ossessione di un riscatto sociale ed economico che passa attraverso la convinzione - mai esplicitata, ma chiaro sottotesto di ogni frame - che tutto le sia dovuto.

Perché per Wanna Marchi basta essere in grado di prendere qualcosa, per meritare di possederla. Perché “siamo tutti deboli e abbiamo bisogno di illusioni”. Perché se riesci a ingannare “sei un truffatore tu o un coglione lui?”.

Pare quasi che Wanna e ancora di più la figlia Stefania - evidentemente ossessionata dal compiacere la madre sfruttando i medesimi schemi e cavalcando le stesse ambizioni - considerino grinta quella che molti specialisti indicherebbero come una totale e patologica assenza di empatia.

L’egoismo nella personale scala di valori delle due è evidentemente ai primi posti, così come la necessità di cotonare lo smisurato ego a suon di dirette TV e di acquisti compulsivi.

La sicurezza però spesso produce passi falsi. Un esempio? La scelta di preferire al rito abbreviato un processo a porte aperte, che comprensibilmente generò un’arena catodica. Il motivo lo spiega la stessa protagonista: “Perché dovevamo ammettere delle cose che non avevamo fatto?”.

In fondo, la percezione della realtàammoniva Goethe - produce angoscia, solo con l’empiria la quotidianità si rivela tollerabile. Lezione per pochi, evidentemente non acquisita dalle due donne.

Più che a Icaro e alle sue smisurate ambizioni, Wanna appare così come un Erostrato contemporaneo: un criminale che, pur di far tramandare il suo nome, distrusse con un incendio una delle sette meraviglie del mondo antico, il tempio di Artemide. Ed è in questa ambizione di popolarità e ricchezza che forse si annida la nostra ossessione per lei.

Nella serie al processo viene dedicato un giusto spazio. Memorabili restano le espressioni delle due quando parlano le vittime - perché, come sintetizza il giornalista Stefano Zurlo, “per loro le vittime erano sempre colpevoli” - e il suggerimento, rivelato dall’avvocato della parte civile Marzo Marzani, di Liborio Cataliotti alla sua cliente, mentre questa si avviava alla sbarra: “Mi raccomando Wanna piangi”.

Più che a Icaro e alle sue smisurate ambizioni, Wanna appare così come un Erostrato contemporaneo: un criminale che, pur di far tramandare il suo nome, distrusse con un incendio una delle sette meraviglie del mondo antico, il tempio di Artemide. Ed è in questa ambizione di popolarità e ricchezza che forse si annida la nostra ossessione per lei. Per questa donna che è un simulacro, e non conosce né empatia né pentimento, la cui aggressività smisurata - nei modi di fare, di vestire, di portare i capelli e di fissare l’obiettivo, anche oggi a ottant’anninon tradisce una naïveté reale, ma il camaleontismo di chi non solo ha saputo strumentalizzare le fragilità altrui fin dagli esordi, ma anche alimentare il proprio mito generandone una superfetazione in salsa emiliana squallor-pop. Tutto sommato, Wanna sarebbe un personaggio straordinariamente amabile - così tragicamente sfrontata, così desiderosa di riconoscimento e di fama, così disperata nel tentare di non soccombere al mondo e al tempo - se non mostrasse una deplorevole umanità con sua figlia. Un momento di commozione naturale che ci svela, nel confronto, quanto siano artefatti tutti gli altri suoi comportamenti.

A margine andrebbe poi notato come Wanna Marchi abbia trionfalmen- te indossato per oltre trent’anni in modo deliberato i panni mediatici del guru, riuscendo a manipolare le sue vittime nel profondo, arrivando a spingerle a dilapidare patrimoni personali e famigliari, finanche a prostituirsi pur di consegnarle dei soldi. Se nel nostro Paese gli strumenti per tutelare le vittime non fossero stati soppressi - e mai più restaurati, anche con una lettura più contemporanea - probabilmente la condanna in via definitiva 9 anni e 6 mesi sarebbe stata esponenzialmente più alta. E, magari, sarebbe stata agita prima.

A fine visione, il pregio della docu-serie è non solo quello di aver coinvolto tutti i protagonisti della vicenda - compreso il Maestro do Nascimento (un tempo cameriere scalzo) scovato in Brasile - ma anche di aver creato con accordi dissonanti una narrazione affatto scontata, meticolosa e provocatoria, nella quale il materiale d’archivio si scontra con un’attitudine punk ai nostri desideri di rassicurazione. Il crash diventa quindi intrinseco alla visione e scorre parallelo all’idea che chiunque sbagli (soprattutto se consapevolmente) debba pentirsi. È evidente - come si esplicita nel corso delle puntate - che Wanna Marchi e sua figlia non abbiano minimamente provato rimorso alcuno, e che abbiano elaborato una contro-narrazione in cui loro sono abili giustiziere in grado di farla pagare a tutti gli idioti del mondo grazie alla straordinaria, genetica furbizia.

Dunque no, Wanna Manchi non si è pentita. No, Wanna Marchi non chiede scusa. Sì, Wanna Marchi è stata in carcere e ha scontato la sua pena, forse ha un tesoretto seminato chissà dove, non crede di avere sbagliato e continua a urlare nella sua testa quello che ripete sul piccolo schermo da trent’anni. È lei, e solo lei, ad avere ragione.

This article is from: