PreTesti • Occasioni di letteratura digitale • Maggio 2012 • Numero 5 • Anno II

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pretesti Occasioni di letteratura digitale

Seconda vita

di Francesco Fioretti

L’anima dell’esattezza:

Intrecci tra letteratura e matematica di Claudio Bartocci

Lo spirito del dare per una nuova democrazia di Peter Sloterdjik

Maggio 2012 • Numero 5

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Il disertore

di Ugo Barbàra

pretesti | Maggio 2012


Il meglio della narrativa e della saggistica italiana e straniera in oltre 24.000 titoli

www.cubolibri.it


Editoriale Al termine della grande abbuffata del 25° Salone Internazionale del Libro esce il numero di maggio di PreTesti. Questa volta anticipato di qualche giorno nella sua versione Social Reader con l’Application per Facebook dal nome Cubolibri Café. Dal 2 maggio scorso infatti Biblet ha cambiato nome. È diventato Cubolibri. PreTesti rimane immutato, anche se cambiano i luoghi di diffusione, in attesa di una ulteriore novità per il mese prossimo di Giugno. Se verde è il colore di Cubolibri resta rosso il colore di PreTesti. E di rosso, sangue, si tinge la storia di copertina inedita che Francesco Fioretti ha scritto per noi. La guerra dirompe dalla fantasia di Ugo Barbàra, la matematica trionfa nel saggio di Claudio Bartocci e Peter Sloterdjik ci indica una possibile strada per risolvere il problema delle tasse nelle democrazie moderne. Ora non sono temi da poco: risolvere un romanzo giallo, risolvere un’equazione matematica, risolvere una situazione di pericolo, risolvere il problema del pagamento delle tasse. E così neppure semplice è riuscire a far sopravvivere le enciclopedie nel mondo del digitale (possibile? Utile?) e trovare una “quadra” sul prezzo degli ebook. Così non doveva essere semplice la vita per Lazarillo de Tormes che incontriamo nella rubrica “Buona la prima” o in “Sulla punta della lingua” per un italiano che capisce il dialetto e poco l’italiano e accende la TV o va a teatro e sente parlare solo italiano. Così sulle rive del Danubio “L’anima del mondo” si incupisce e il cibo non è più sicuro nelle mani di Agatha Christie per “Alta cucina”. Problemi e soluzioni che popolano la letteratura e la scienza in egual misura. Che popolano il mondo e il nostro tempo. Scoraggiarsi vuol dire non affrontare più questi problemi, ma questo vuol dire non vivere. Perché allora smettere di vivere quando la fantasia illuminata della mente può aiutarci a superare ogni ostacolo? Fosse anche una soluzione diversiva, una soluzione romanzata, ma avremo vissuto e possiamo dire che vivere in un romanzo non sia meno problematico che vivere nel mondo? Buoni PreTesti a tutti. Roberto Murgia

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Indice

Testi

Il mondo dell’ebook

Rubriche

05-10 Racconto Seconda vita di Francesco Fioretti

28-32 L’Enciclopedia del futuro non prevede la voce “carta” di Daniela De Pasquale

36-38 Buona la prima Anonimo “Lazarillo de Tormes” (1554) di Luca Bisin

33-35 Battaglia per il prezzo - e il futuro degli ebook di Roberto Dessì

39-41 Sulla punta della lingua Italiani in scena di Stefania Stefanelli

11-16 Saggio L’anima dell’esattezza: Intrecci tra letteratura e matematica di Claudio Bartocci 17-20 Anticipazione Lo spirito del dare per una nuova democrazia di Peter Sloterdijk 21-27 Racconto Il disertore di Ugo Barbàra

42-44 Anima del mondo All’ombra del grande fiume di Luca Bisin 45-48 Alta cucina L’arte “deliziosa” del delitto di Fabio Fumagalli 49 Recensioni 50 Appuntamenti 51 Tweets / Bookbugs

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Racconto

SECONDA VITA di Francesco Fioretti

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la morte di mia moglie; e che, anche se non i prego di credermi, anche se a avrei mai immaginato di poter giungere a tutta prima potrebbe sembrarvi tanto, a volte si sa, se si beve molto e chissà assurdo. Della notte che ha brucos’altro s’è ingurgitato a propria insaputa ciato la mia vita, per quanti sforzi in discoteca, può succedere qualunque cosa abbia fatto dopo e faccia tuttora per far rie non è detto che uno poi se la ricordi. Non affiorare qualche straccio di ricordo, la mia avevo le prove della mia colpevolezza, così memoria ha cancellato proprio tutto. Peravevo concluso l’intervista, ma mi fidavo ché ero tornato a casa ubriaco fino al midolciecamente degli inquirenti. M’ero sforzalo, e forse in discoteca qualcuno del gruppo to anche di collaborare il più possibile col mi aveva sciolto una pasticca di non so cosa commissario Morelli, un in uno dei tanti bicchieri bel signore distinto, andei vari superalcolici che Solo questo posso cora giovane e molto afm’ero scolato al bar, uno dire con certezza, fabile, di sicuro avviato dopo l’altro, come fosavevo appreso dal a una brillante carriera. sero gingerini. Era perché era finita con Maia e telegiornale d’essere Non m’importava granavevo un gran bisogno il principale indiziato ché di finire in galera, a quel punto, volevo solo di annichilirmi del tutto dell’omicidio di sapere anch’io la veriquella notte, di azzerare Raffaella, e in effetti sì, tà. Gli avevo raccontato, nella mente il dolore... visto che non ricordavo per aiutarlo a chiarire la Quello che alla fine ricordavo era che la matti- più nulla, poteva essere faccenda, tutti i possibibenissimo che fossi io li moventi dell’omicidio, na dopo m’ero svegliato di come eravamo in crisi con una terribile emicral’assassino. da tempo io e Raffaella, nia, seduto sul pavimendi che carattere dispotico avesse lei e lunato della mia camera matrimoniale, ancora tico io, di come le cose fossero precipitate vestito, e che mia moglie, che non era uscita alla fine, dopo che avevo perso il lavoro; di con me quella sera, era sul letto tutta nuda quanto lei mi disprezzasse e io mi ostinassi in un lago di sangue. Solo questo posso dire per parte mia a non sopportare chi perdeva con certezza, avevo appreso dal telegiornail suo tempo a disprezzarmi, con tante cose le d’essere il principale indiziato dell’omipiù utili e belle che si sarebbero potute fare cidio di Raffaella, e in effetti sì, visto che nel frattempo. Eravamo sempre sul punto non ricordavo più nulla, poteva essere bedi lasciarci, senza mai trovare il coraggio nissimo che fossi io l’assassino. Ai giornaliper farlo... sti che erano accorsi a intervistarmi avevo E nella mia deposizione al commissariato dichiarato che, anche se non sapevo esattaavevo raccontato anche di Maia, per filo mente come fossero andate le cose, mi sentie per segno. Così la chiamavo io, e d’altra vo colpevole, che spesso negli ultimi tempi parte non ne conoscevo il vero nome, né avevamo litigato, che avevo anche desidelei il mio. Era il nostro patto. Per lei io ero rato intensamente, in più d’un’occasione,

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Sisifo, ci chiamavamo ancora con i nickname del sito di incontri clandestini per gente sposata su cui c’eravamo conosciuti. Una volta c’eravamo dati appuntamento in un bar di M**, poi c’eravamo frequentati per un anno senza sapere assolutamente nulla l’uno dell’altra: eravamo Maia e Sisifo, non parlavamo mai dei nostri coniugi o dei figli, se ne avevamo, nei pomeriggi andavamo fuori città a passeggiare in un bosco o a far l’amore in una casetta di campagna presa in affitto: all’inizio pagavo io, poi, quando ero stato licenziato, non potevo più permettermelo e lei d’altra parte non era più venuta. Su una sola cosa mentii al commissario, sull’identikit di Maia: non volevo che la rintracciassero davvero e che finisse nei guai col marito per causa mia. E feci bene. Indiscrezioni filtrarono sui giornali e questa storia dei nickname ebbe anche un certo successo mediatico, si scatenò una terrificante caccia a Maia sulla base del falso identikit, mi obbligarono a una serie infinita di riconoscimenti, tutti ovviamente conclusi in un nulla di fatto. Un anchorman della televisione nazionale, fiutando il potenziale interattivo della vicenda, ci imbastì trasmissioni su trasmissioni per un paio di settimane. Venivano mariti addirittura, e fidanzati gelosi, a verificare che Maia non fosse la loro compagna. Se avessi o meno ucciso mia moglie, sembrava non interessasse più a nessuno... Sisifo e Maia, invece, s’erano incontrati per

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l’ultima volta proprio la sera prima dell’omicidio. Gran bel nickname il suo, abbinato a un bel volto e a un bel corpo di donna. Il mio non aveva nulla a che vedere col personaggio mitologico, era solo il più facile da digitare con due indici, per uno come me che al computer non è precisamente un fulmine. Era stato bello così, col nostro patto di non conoscerci mai, spaventati com’eravamo entrambi dalla noia. Eravamo gli avatar di due esseri smarriti, avevamo deciso di poterci inventare qualsiasi identità, di raccontarci soltanto un passato di fantasia, di essere sempre, l’uno per l’altra, ciò che desideravamo essere, più che ciò che eravamo davvero. Sarebbe stata la nostra terapia per guarire dalla banalità della vita... Ma quella sera era venuta a dirmi che l’incanto era rotto, che la realtà aveva ripreso il sopravvento. Era incinta, non capii subito il suo discorso, la cui sintassi era esplosa, locupletata d’anacoluti e singhiozzi. Aveva deciso di riamare suo marito, che sarebbe stato il padre del neonato. Che era un uomo straordinario, di saldi princìpi e di sani valori morali, che sarebbe stato un ottimo padre, che aveva molto da dare a un bambino, che lei si sentiva anche in colpa per averlo tradito. E poi, chiunque fosse il vero padre, non poteva certo far crescere il figlio col personaggio di quella specie di romanzo che c’eravamo costruito: il bambino avrebbe dovuto vivere nella realtà, questa era l’unica cosa di cui era sicura. Aveva

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deciso così. Lasciò la stanza d’albergo del nostro ultimo incontro senza salutare, correndo via in lacrime. Mi piantò lì da solo, frastornato, in un silenzio agghiacciante. Poi, dopo il fattaccio, probabilmente conobbe tutto di me dai giornali e dalla tivvù. E circa un anno dopo mi spedì quei fogli che decifrai a fatica, con l’aiuto di un amico medico: erano le fotocopie delle analisi del DNA di suo marito e del bimbo, da cui risultava che questi non era figlio del padre ufficiale. I nomi però erano stati raschiati via sull’originale, sostituiti ad ogni occorrenza dalle voci MARITO e FIGLIO scrit-

so le responsabilità del nostro fallimento, che, quando poi all’improvviso m’ero ritrovato solo con me stesso, ero rimasto anche da solo a fare i conti con tutto il peso della colpa di entrambi. E così finivo per identificarmi in tutte le occhiate di disprezzo della gente che incontravo all’uscita del commissariato. Ma poi un giorno Morelli mi convocò nel suo ufficio e mi disse che la scientifica aveva reso pubblici i risultati delle proprie indagini, ed era venuto fuori che Raffaella aveva un amante che aveva passato quella notte con lei, che c’erano tracce di seme e DNA altrui dentro e fuori di lei, e capelli di

Sono passati quindici anni, la mia vita non è più cambiata. Faccio il portiere di notte in un alberghetto a cui mi sono affezionato molto perché pare la metafora della mia stessa esistenza: ha conosciuto altri fasti, ogni tre anni perde una stella, e gliene son rimaste appena due. te a mano. Così non riuscii mai più a rintracciarla. Non mi diede alcuna possibilità di abbracciare quello che, dunque, doveva essere il mio bambino. D’altra parte allora mi dissi che era meglio così, ero senza soldi e m’ero deciso a vendere la casa. Ora vivo nella stanza messa a mia disposizione dall’albergo di cui sono il portiere di notte, e mi nutro degli avanzi del ristorante annesso. Ho vissuto per poco più d’un mese radicato nella convinzione d’aver ucciso Raffaella. Mi sentivo in colpa, forse per averla tradita, ma d’averla tradita, in realtà, non m’ero mai sentito in colpa. Allora forse fu perché negli ultimi tempi eravamo così arroccati a difenderci l’uno dalle accuse dell’altra, così ostinati a scaricarci reciprocamente addos-

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un altro nelle sue unghie: impronte di ignoto sul coltello che le aveva scavato il cuore. Il colpevole era sicuramente un altro, mi disse il commissario, mi prese il polso con una stretta rassicurante: «Vedrà», concluse, «lo troveremo quel criminale. Prima o poi, stia tranquillo, lo acciufferemo: abbia fede nella giustizia...». Così seppi tutto in un istante: che mia moglie a sua volta mi tradiva, e che aveva una relazione segreta col suo futuro assassino. Continuai comunque a sentirmi in colpa, sia pure per altri motivi... Invece non l’hanno mai acciuffato, ovviamente, quel criminale. Sono passati quindici anni, la mia vita non è più cambiata. Faccio il portiere di notte in un alberghetto a cui mi sono affezionato molto perché

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pare la metafora della mia stessa esistenza: ha conosciuto altri fasti, ogni tre anni perde una stella, e gliene son rimaste appena due. Ne può ancora perdere una e basta: et sic ego. Alla reception, di notte, mi leggo romanzi gialli, penso a mia moglie, a Maia, al mio bambino. Almeno una volta però l’ho visto, aveva dieci anni, e adesso saprei anche come rintracciarlo. Ero in centro a fare shopping poco prima di Natale, la vidi uscire con lui da una profumeria. Maia si voltò subito dall’altra parte per evitare che la salutassi, ma io ero rimasto incantato a guardare il bel fanciullo che doveva essere mio figlio, per un istante i nostri sguardi s’erano incrociati e parve quasi che ci fossimo riconosciuti, che anche lui avesse intuito chi ero. Un attimo dopo uscì dalla profumeria il commissario Morelli, mi riconobbe, mi salutò. «Purtroppo non siamo mai riusciti a identificarlo, l’assassino di sua moglie», mi ripeté, quasi a riprendere un discorso lasciato a 9

mezzo tanti anni prima. «Già», risposi, ma ormai a che sarebbe servito? «Mi inquieta ancora», aggiunse, «è rimasto l’unico caso irrisolto della mia carriera». Ah già, la sua carriera, sarebbe stata l’ultima cosa cui sarei andato a pensare... Mi presentò allora sua moglie Livia e suo figlio Andrea. Maia riuscì a non tradire la minima emozione quando mi strinse la mano e mi disse «piacere». «Il piacere è tutto mio», o almeno lo è stato per un po’ di tempo. E rimasi a guardarli mentre si allontanavano sulla via gremita di gente e luminarie. Poi sarebbe finita lì: mi dissi che erano proprio una bella coppia, che sembravano molto affiatati, che se lei aveva deciso così bisognava fidarsi, l’istinto delle madri è infallibile, mio figlio era proprio un bambino fortunato, io di sicuro non avrei potuto dargli di meglio. E la penserei ancora così, mi sarei messo da tempo l’animo in pace, se una volta, preso da chissà che demone, non avessi confrontato per

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disoccupazione, le rate del mutuo, le bolcuriosità le due analisi del DNA che per lette da pagare... Adesso che non c’è più ho caso avevo conservato, quelle dell’amante ripreso persino ad amarla, ci parlo nei soassassino di mia moglie con quelle del magni o nella mia testa per strada rito di Maia, o forse dovrei dire quando vado a passeggio. Le di Livia, e non avessi scoperchiedo scusa per tutto l’orgoto che erano la stessa persona. glio che, allora, non ero mai riEra stato lui, sì, il commissario uscito a smussare. Il suo, il mio Morelli, quell’«uomo straordiorgoglio, di animali feriti... Lei nario, di saldi princìpi e di sani adesso cammina al mio fianco valori morali... che sarà un ottie finalmente si fida, non siamo mo padre, che ha molto da dare mai stati così bene insieme come a un bambino...». ora in questa specie di seconda Da allora ogni tanto, nelle notvita, quando il peso della colti d’inverno in cui non c’è un pa s’è come disperso nell’aria cliente e si ha tutto il tempo per e tutto è diventato più leggero. pensare, qualche dubbio ancoIl nuovo romanzo di Francesco ra mi viene: che la realtà sia a Fioretti, Il quadro segreto di Cara- Lo so che è una vita fasulla, un in uscita presso Newton surrogato della fantasia, ma volte più falsa del romanzo che vaggio, Compton il 17 maggio che importa? La parte più vera io e Maia c’eravamo costruito, e interessante della realtà, l’ho capito tropche gli avatar possono essere più autentipo tardi, è proprio quella che non si vede... ci delle persone reali. E che io e Raffaella Adesso, quando sono in giro con lei nel c’eravamo perduti appunto nel momento cuore, a volte quasi me lo dimentico, che il in cui c’eravamo identificati troppo con la padre di mio figlio è il suo assassino. banalità delle nostre vite, con il sussidio di

Francesco Fioretti Francesco Fioretti è nato a Lanciano, in Abruzzo, nel 1960. È siciliano e apulotoscano d’origine, si è laureato in Lettere a Firenze e ha insegnato in Lombardia e nelle Marche. Attualmente approfondisce gli studi danteschi presso l’Università di Eichstätt in Germania. Ha pubblicato saggi critici e antologie scolastiche. Nel 2011 ha pubblicato con Newton Compton il suo romanzo d’esordio, Il libro segreto di Dante, disponibile in ebook da cubolibri. È in uscita il 17 maggio di quest’anno sempre per Newton Compton il suo nuovo romanzo Il quadro segreto di Caravaggio. Disponibile su www. cubolibri.it

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A E TR A R CI U A T EC A TIC R TR E A IN TT EM LE AT M

L’A DE N LL IM ’E A SA TT EZ ZA :

Saggio

di Claudio Bartocci

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L

a letteratura centra l’attenzione sull’uomo. La matematica, invece, sembra occuparsi di un mondo, se non inumano, almeno non umano. È dunque quantomeno sorprendente che queste due attività del pensiero possano avere connessioni di qualunque genere. Al contrario, si constata che esse sono legate da una fitta, seppure impalpabile, rete di echi, rimandi e corrispondenze. Il dialogo tra matematica e letteratura – anche se ha origini indubbiamente ben più remote – si è fatto intenso e serrato soprattutto nel corso degli ultimi centocinquant’anni. Intorno alla metà dell’Ottocento, in effetti, la matematica attraversa una

mondo di idee e di forme astratte che scaturisce, quasi per magia, dalle ricerche dei matematici esercita un fascino potente, seppur il più delle volte mediato e sotterraneo, su quanti – artisti, musicisti, pensatori, scrittori – la osservano dall’esterno, con lo stupore del profano o l’ammirazione del cultore avvertito. Per quanto riguarda specificamente la letteratura, non è difficile individuare una schiera tutt’altro che esigua di autori che nulla accomuna l’uno all’altro, se non il fatto che nelle loro opere, con frequenza e in misura maggiore o minore, affiorano nozioni o strutture matematiche, fanno capolino riferimenti a spazi a quattro dimensioni, alle sottigliezze della

Il nuovo e vasto mondo di idee e di forme astratte che scaturisce, quasi per magia, dalle ricerche dei matematici esercita un fascino potente, seppur il più delle volte mediato e sotterraneo, su quanti – artisti, musicisti, pensatori, scrittori – la osservano dall’esterno, con lo stupore del profano o l’ammirazione del cultore avvertito. fase di rapida e tumultuosa evoluzione, subendo una serie di profonde trasformazioni: la creazione delle geometrie non euclidee, la nascita dell’algebra astratta, gli sviluppi nel campo dell’analisi reale e complessa sollevano questioni non solo tecniche ma anche filosofiche e, in alcuni casi, danno luogo a dibattiti che non rimangono limitati alla ristretta cerchia degli specialisti. Il nuovo e vasto

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logica o ai misteri della teoria dei numeri, balenano metafore concepite sulla base di concetti tratti dall’algebra o dall’analisi. Il reverendo Charles Lutwidge Dodgson – meglio noto con lo pseudonimo di Lewis Carroll –, lecturer di matematica al Christ Church College di Oxford, trasfigura le proprie competenze di logica nelle mirabolanti invenzioni di Alice’s Adventures in Wonder-

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land, Through the Looking-Glass, The Hunting of the Snark, Sylvie and Bruno. Isidore Ducasse, Comte de Lautréamont, nei suoi Chants de Maldoror, inneggia alle «mathématiques sévères» e al contempo «saintes»: Arithmétique! algèbre! géométrie! trinité grandiose! triangle lumineux! […] vous, ô mathématiques concises, par l’enchaînement rigoureux de vos propositions tenaces et la constance de vos lois de fer, vous faites luire, aux yeux éblouis, un reflet puissant de cette vérité suprême dont on remarque l’empreinte dans l’ordre de l’univers (Aritmetica! algebra! geometria! triangolo luminoso! [...] voi, matematiche concise, con il concatenamento rigoroso delle vostre proposizioni tenaci e la costanza delle vostre leggi di ferro, voi fate brillare, agli occhi abbagliati, un riflesso intenso di quella verità suprema la cui impronta si osserva nell’ordine dell’universo) I nuovi universi geometrici creati dai grandi matematici dell’Ottocento e la possibilità di immaginare spazi a più di tre dimensioni ispirano Flatland, l’utopia teologica di Edwin Abbott Abbott, i visionari «scientific romances» di Charles Hinton e il viaggio nel tempo di Herbert G. Wells. Non solo: in un celebre brano nella seconda parte dei Fratelli Karamazov, Ivan, l’eroe-scienziato, argomenta sottilmente, dialogando con Alëša, che la possibilità stessa di una geometria che vìola il postulato delle parallele solleva l’ombra del dubbio sull’esistenza di Dio, la cui opera è – deve essere – indefettibilmente euclidea. Per Paul Valéry – dopo la palingenesi spirituale della «nuit de Gênes» (ottobre 1892) – l’ideale della poesia arriva a coincidere con

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Lewis Carrol

l’ideale della matematica: di Mallarmé, per esempio, scrive che «ha considerato la letteratura come nessuno aveva mai fatto», «con una profondità, un rigore, una sorta di istinto di generalizzazione» che lo ravvicinano «a quei geometri moderni che hanno ricostruito le fondamenta della scienza e le hanno dato una estensione e un potere nuovi, come risultato di un’analisi via via più fine delle sue idee fondamentali e delle sue convenzioni essenziali». Nella labirintica officina dei Cahiers, che abbracciano cinquant’anni di solitaria meditazione, il «poeta del rigore impassibile della mente» (così lo definirà Calvino) dissemina centinaia e centinaia di osservazioni dedicate alla matematica, e i modelli che si prefigge di seguire non sono tanto i letterati o i filosofi, quanto Riemann,

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Poincaré, Enriques, Élie Cartan, Émile Borel, oppure «les fortes têtes de la physique», Planck, Einstein, Langevin, Lorentz. Convinto che soltanto il rigore garantisca una «libertà positiva», Valéry considera la matematica (che è «esercizio, e paragonabile alla danza») come «il modello dell’arbitrario», e la definisce «un’arte delle idee, un’arte dell’ordine delle idee, o della pluralità delle idee […]». Seguace appassionato di Valéry e di Lautréamont, Leonardo Sinisgalli è iniziato ai misteri della matematica nel corso dei suoi studi di ingegneria all’Università di Roma, dal 1925 al 1931, dove assiste alle lezioni di grandi scienziati quali Tullio Levi-Civita, Francesco Severi e Guido Castelnuovo. Nel Quaderno di geometria – un «lungo discorso sul “senso della misura e della posizione”» che costituisce la parte iniziale di Furor mathematicus – si affastellano idee disparate, parafrasi di «celebri testi», digressioni e divagazioni, che tracciano la mappa dei temi fondamentali della riflessione sinisgalliana negli scritti successivi: la geometria come «grafia dell’invisibile, ottica trascendentale», il labirinto del continuo da Cavalieri «alter Archimedes» a Cantor «legislatore dell’infinito», i numeri immaginari, il moto delle macchine e il mito di Leonardo. Avendo alle spalle solidi studi di ingegneria, psicologia e filosofia, e mantenendosi costantemente aggiornato sugli sviluppi della logica e della teoria degli insiemi, come anche sulle nuove teorie fisiche, Robert Musil definisce la matematica «un’ostentazione di audacia della pura ratio; uno dei pochi lussi oggi ancora possibili». Essa rappresenta non soltanto un antidoto contro lo sterile nichilismo del pensiero, una regola di igiene contro il dilagante kitsch della cattiva letteratura 14

(«dopo aver letto di seguito due romanzi tedeschi, dobbiamo risolvere un integrale per dimagrire»), ma diventa – già nei Turbamenti del giovane Törless – strumento privilegiato di indagine critica e, nello stesso tempo, metafora di un sapere altro, quasi un ponte senza arcate sospeso sull’abisso (come si legge nel celebre passo sulla strana «faccenda dei numeri immaginari»). Studiando «quei problemi matematici che non ammettono una soluzione generale, bensì solo soluzioni parziali, combinando le quali ci si avvicina a quella generale», e attraverso il «disincantamento statistico», Urlich, l’«uomo senza qualità», tenta di ricomporre il dissidio tra «anima ed esattezza», di sanare la frattura tra Dichtung e Erkenntnis. Anche nell’opera di Hermann Broch – autore diviso, come Musil, tra scienza e poesia – sono matematici sia il protagonista del romanzo L’incognita sia il meschino personaggio di Zacharias negli Incolpevoli, il quale, insegnando ai suoi allievi che la matematica si riduce soltanto a una noiosa collezione di esercizi da svolgere, distrugge così quell’impulso problematico che è il cuore pulsante e il fondamento della disciplina. In «quella straordinaria e indefinibile zona dell’immaginazione da cui sono uscite le opere di Lewis Carroll, di Queneau, di Borges» e – aggiungendo l’autore stesso della citazione appena riportata – di Calvino, le idee della matematica possono diventare un ausilio prezioso per inventare universi paralleli, per demistificare la realtà, per esplorare le modalità di un «nuovo rapporto tra la leggerezza fantomatica delle idee e la pesantezza del mondo». In compagnia di Queneau – autore, accanto ai testi più noti, del testo programmatico Fondaments de la littérature d’après David Hilbert – e di Calvino,

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intenti a esplorare le potenzialità della letteratura a partire dal principio della «contrainte» («vincolo»), incontriamo gli allegri sodali dell’Oulipo (Ouvroir de Littérature Potentielle): François Le Lionnais, il matematico Claude Berge, Harry Mathews, Jacques Roubaud, Georges Perec, nei loro testi fanno uso copioso di strutture algebriche, numeriche e combinatorie. Esempi paradigmatici dell’uso della matematica come strumento e regola di «composizione» sono i Cent mille milliards de poèmes di Queneau e La vie mode d’emploi di Perec, iper-romanzo costruito sulla griglia di un biquadrato latino ortogonale di ordine 10, la cui esistenza, negata da Eulero, era stata dimostrata nel 1959 dai matematici R.C. Bose e S.S. Shrikhande. Suggestioni o reminiscenze matematiche si possono ritrovare nelle opere di una variegata costellazione di scrittori del Novecento tra loro diversissimi, ma tutti più o meno gravemente contagiati dallo stesso virus: Leo Perutz, Hermann Broch, Gadda, Max Frisch, Enzensberger, Don DeLillo (pensiamo al romanzo La stella di Ratner), Apostolos Doxiadis e, soprattutto, David Foster Wallace. 15

Sarebbe tuttavia affrettato concludere che i rapporti tra letteratura e matematica siano limitati a una schiera eletta, ma numericamente limitata di autori, e proprio per questo, se non eccezionali, quantomeno incidentali. Si potrebbe, al contrario, argomentare a favore di una più profonda affinità tra queste due attività dell’intelligenza umana, una prossimità che è non solo dettata dalle forze più vitali interne alla cultura del nostro tempo, ma consegue anche da alcune caratteristiche di fondo che le accomunano. In effetti, entrambe sono attività di «finzione» che consistono principalmente nell’invenzione di mondi possibili. «Ogni poema ben inventato – osservava già a metà del Settecento Johann Jakob Breitinger – va letto come una storia in un altro mondo possibile» e Umberto Eco precisa: «La regola fondamentale per affrontare un testo narrativo è che il lettore accetti, tacitamente, un patto finzionale con l’autore, quello che Coleridge chiamava la “sospensione dell’incredulità”». A prima vista le cose sembrerebbero andare diversamente per la matematica: non è questa forse il campo in cui è bandita ogni libertà di invenzione,

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il regno della logica indefettibile? In realtà, scrive David Hilbert in una lettera a Frege, «ogni teoria [matematica] è solo un telaio, uno schema di concetti unitamente alle loro mutue relazioni necessarie, e […] gli elementi fondamentali possono venir pensati in modo arbitrario». In accordo a questo punto di vista, la matematica, in quanto studio non di oggetti ma di relazioni tra oggetti (come suggerisce Poincaré), diventa dunque «il modello dell’arbitrario»: gli assiomi e le definizioni non sono iscritti ab aeterno in qualche empireo ultramondano, ma sono il frutto di libere scelte non assoggettate ad altro vincolo se non a quello della coerenza interna del sistema e, in particolare, non condizionate

(se non accidentalmente) dalla «realtà» del mondo fisico. In altre parole, le teorie matematiche rappresentano universi finzionali, i quali non sono fondamentalmente dissimili da quelli, complessi e articolati, dei grandi romanzi del Novecento, quali ad esempio la Ricerca del tempo perduto, Il processo o l’Ulisse, o da quelli, in scala ridotta ma strutturati con ferreo rigore, dei racconti di Borges. Tanto la matematica, quanto la letteratura, sebbene con linguaggi differenti, offrono strumenti per indagare la realtà e per inventare altre modalità dell’esistere, per affinare l’intelligenza e per sbrigliare l’immaginazione, per imporre vincoli e per dischiudere nuovi spazi di libertà.

Le teorie matematiche rappresentano universi finzionali, i quali non sono fondamentalmente dissimili da quelli, complessi e articolati, dei grandi romanzi del Novecento. Claudio Bartocci Claudio Bartocci (Roma 1962) insegna fisica matematica e storia della matematica all’Università di Genova. È autore di oltre quaranta articoli su riviste specialistiche (soprattutto nei settori della fisica matematica e della geometria algebrica e differenziale), di due monografie di ricerca, nonché di numerosi saggi sulla storia del pensiero matematico, sui rapporti tra letteratura e matematica e su varie questioni di filosofia della scienza. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Una piramide di problemi. Storie di geometria da Gauss a Hilbert (Raffaello Cortina, 2012); New Trends in Geometry: Their Role in the Natural and Life Sciences (co-editor con L. Boi e C. Sinigaglia, Imperial College Press, London 2011); Fourier-Mukai and Nahm Transforms in Geometry and Mathematical Physics (con U. Bruzzo e D. Hernåndez Ruipérez, Birkhäuser, Boston 2009), Vite matematiche (co-editor con R. Betti, A. Guerraggio, R. Lucchetti, Springer, Milano 2007; trad. inglese Mathematical Lifes, Springer, Berlin-Heidelberg 2010); Racconti matematici (Einaudi, Torino 2006). Ha diretto con P. Odifreddi i quattro volumi de La matematica (Einaudi 2007-2011). Collabora al supplemento culturale del quotidiano «Il Sole 24 Ore».

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Anticipazione

LO SPIRITO DEL DARE PER UNA NUOVA DEMOCRAZIA

Ripensare le tasse nell’età della crisi

di Peter Sloterdjik

Pubblichiamo, in esclusiva per i lettori di PreTesti, alcuni brani tratti dal libro La mano che prende e la mano che dà (Raffaello Cortina Editore) di Peter Sloterdijk, in libreria dal 9 maggio.


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udito il principio secondo il quale tutto il uello di cui si sente davvero la potere deriva dal popolo. La verità occulmancanza, nella situazione atta del sistema fiscale dominante è piuttosto tuale, è lo sforzo di rifondare la seguente: tutto il potere deriva dal fisco. le transazioni fiscali tra la soGiacché sovrano è chi decide l’esecuzione cietà che dà e il fisco che prende a partire forzosa – ossia chi decide sul caso di emerdallo spirito dell’alleanza democratica tra i genza rappresentato cittadini. Si percepisce dal debito fiscale dochiaramente questa vuto allo Stato –, il fidimensione carente sco è il vero sovrano quando, per un modella società moderna. tivo qualsiasi, ci si riFino a questo momensveglia dal sonno dogto, concetti quali “somatico rispetto alle vranità popolare” o questioni fiscali e ci si “potere dei cittadini” prende la briga di innon sono ancora peterrogare, con riguarnetrati in questa sfedo ai suoi fondamenti ra. Perfino l’idea di un e alle sue giustificazioNel sistema fiscale degli controllo supplemenni, il blocco di ovvietà Stati moderni sopravvive, tare del fisco da parte sul quale poggia l’atdei cittadini poggia tuale fiscalità. Chi si senza essere visto, dedicherà a un’indal’assolutismo. L’orecchio sempre su un terreno gine del genere noterà delle autorità fiscali non instabile. Certo, noi valutiamo positivacon crescente stupore ha mai udito il principio mente l’Associazione che, nell’attività attuasecondo il quale tutto il dei contribuenti, cui le, non v’è traccia di potere deriva dal popolo. spettano meriti imapprocci tesi a elabomensi, dato che, anno rare una rifondazione per anno, fa i conti in tasca agli organi statadel sistema delle finanze pubbliche a partili nel momento in cui decidono come spenre dalla società civile come soggetto che dà. dere le risorse e, abbastanza spesso, scopre Non appena si inizia a parlare di tasse – anche sono tasche bucate, dalle quali il denache oggi, come sempre in passato – si prenro pubblico – che per i suoi amministratori de unilateralmente avvio, senza ulteriori sembra essere denaro di nessuno – finisce indugi, dal fabbisogno dello Stato, presupper essere sprecato. Lodevole è anche l’atponendo dogmaticamente la sua legittimatività della Corte dei conti a livello federale zione a prendere. Nel sistema fiscale degli e a livello dei singoli Länder, che a modo Stati moderni (esclusi forse alcuni Cantoni suo contribuisce a ridurre a più miti considella primitiva democrazia svizzera) sogli le follie dei politici e l’arbitrio dei buropravvive, senza essere visto, l’assolutismo. crati. Purtroppo, accanto all’Associazione L’orecchio delle autorità fiscali non ha mai

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dei contribuenti e alle Corti dei conti non esiste alcuna “Associazione dei benefattori a favore dello Stato” né alcun “Parlamento dei donatori”. Questi organismi virtuali dovrebbero interessarsi alle attività della mano pubblica, ma dal versante di quelle “entrate” che, in realtà, in quanto tali rappresentano pur sempre mal compresi doni dei cittadini allo Stato, benché dagli esperti in materia continuino a essere testardamente interpretati come debiti dei cittadini nei confronti del fisco. A tali istituzioni spetterebbe il compito, decisivo sul piano psicopolitico, di de-automatizzare il paga-

nali cesserebbe col tempo di essere soltanto un capriccio morale privato, che alcuni coltivano e altri no. In una società rimodellata dallo spirito del dare, il gesto della beneficenza diventerebbe sempre più comune, apportando alla fiscalità pubblica gran parte di ciò che oggi le serve per consolidarsi. La donazione a vantaggio del bene comune potrebbe dunque trasformarsi, nel tempo, in un habitus psicopolitico consolidato, impregnando le popolazioni democratiche come una seconda natura e operando una conversione globale delle collettività nel senso dell’empatia e della solidarietà ma-

In una società rimodellata dallo spirito del dare, il gesto della beneficenza diventerebbe sempre più comune, apportando alla fiscalità pubblica gran parte di ciò che oggi le serve per consolidarsi. mento delle tasse e sottrarlo così all’ambito della muta sopportazione. Il loro obiettivo dovrebbe essere quello di rendere il grande versamento nelle casse dello Stato ciò che in una società democratica de facto è concepito – e come tale, in definitiva, dovrebbe essere giustamente e coram publico sempre concepito – non come tributo dei sottoposti a un potere sempre vittorioso e nemmeno come debito stabilito unilateralmente, e con nebulose formule giuridiche, che i sudditi devono pagare al Leviatano, bensì come dono attivo a vantaggio della collettività, offerto con cognizione di causa e volontà di contribuire. *** In una democrazia che si opponga alle proprie tendenze verso l’inerzia e la meccanizzazione, l’atto di donare a scopi sovraperso19

terializzata. Il nuovo habitus originato dalla cultura del dare potrebbe liberare in misura crescente le energie necessarie a superare gli indegni relitti della cleptocrazia statale di matrice tardoassolutistica e la loro prosecuzione nella logica della contro-espropriazione, profondamente radicata nella Sinistra classica. Già oggi, forse, clausole compromissorie molto modeste apporterebbero cambiamenti drastici nel comportamento con cui i cittadini danno. Piccole variazioni del diritto tributario potrebbero modificare in maniera decisiva il tono morale della collettività: non appena si concedesse ai cittadini la libertà di impegnare una parte del carico fiscale fin lì sopportato – fosse anche, inizialmente, una piccola percentuale del “debito” fiscale – sotto forma di donazione

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a un destinatario liberamente scelto, molto probabilmente essi verrebbero ridestati, dal punto di vista psicologico, dalla rigidità della loro sopportazione fiscale, per non parlare dei gretti riflessi all’evasione fiscale, intorno ai quali è costruito tutto il nostro sistema di finanza pubblica, pervertito

da incentivi sbagliati. Questo effetto non va confuso con la “detrazione” delle donazioni nella dichiarazione dei redditi, operazione già oggi consentita. Un segmento

nuovo e generalizzato della fiscalità obbligatoria dedicato alle donazioni significherebbe che la beneficenza non rappresenta più il capriccio privato di singoli individui altamente motivati. Indirizzare a istanze liberamente scelte e rilevanti per la collettività determinati importi tratti dal proprio cumulo fiscale diventerebbe un diritto garantito a tutti i contribuenti attivi. Lo ripeto ancora una volta: non si tratta di diminuire le tasse a vantaggio di avari benestanti che hanno voltato le spalle al bene comune, ma di intensificare e rivitalizzare sul piano etico le tasse in quanto doni del cittadino alla collettività. Senza dubbio, i maggiori benefici andrebbero in primo luogo al sistema educativo, di cui i politici di tutti i partiti riconoscono la priorità alla domenica, per poi lasciarlo a se stesso, con i suoi difetti cronici, nei restanti giorni della settimana. Esonerati dalla necessità di dare a favore di un obiettivo imposto, i cittadini non si lascerebbero assolutamente sfuggire la possibilità di effettuare gli investimenti necessari nel campo dell’educazione, in quanto garante del futuro della collettività.

Peter Sloterdjik Peter Sloterdjik, nato a Karlsruhe nel 1947, filosofo e saggista, insegna filosofia ed estetica alla Staatliche Hochschule für Gestaltung di Karslruhe, della quale è anche rettore. La sua Critica della ragione cinica, pubblicata in Germania nel 1983, ottiene uno straordinario successo di pubblico e di critica, imponendolo all’attenzione come una delle voci più originali e significative della scena filosofica contemporanea. Tra i suoi volumi apparsi in Italia ricordiamo: Il furore di Dio. Sul conflitto dei tre monoteismi (Raffaello Cortina, 2008), Devi cambiare la tua vita (Raffaello Cortina, 2010), Stato di morte apparente. Filosofia e scienza come esercizio (Raffaello Cortina, 2011).

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Racconto

Il disertore di Ugo Barbàra

è

da quando sono nato che mi porto dietro la guerra. Mia madre dice che non è così, che quando sono venuto al mondo la guerra non c’era e che non me ne ricordo solo perché ero troppo piccolo. Anche mio fratello, che è più grande, dice che un tempo non era così, che non piovevano bombe in continuazione e che per le strade non si vedevano solo soldati. Però, dice, era tutto un prepararsi alla guerra, fin dal primo giorno che aveva messo piede a scuola. E io me lo ricordo, perché gli invidiavo quella bella divisa nera che indossava il sabato mattina per sfilare davanti al palazzo del Podestà. Ora mamma dice che la guerra finirà e che

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tornerà la pace. E io sto lì a chiederle ancora e ancora com’è questa pace, perché un mondo senza spari né esplosioni non me lo so immaginare. Se lo chiedessero a me, la guerra potrebbe continuare anche per sempre, ora che stiamo qui e che sto bene. Ora dicono che siamo sfollati. Sembra una brutta parola e invece è la pace degli angeli per noi che da anni corriamo schivando le bombe. Certo, ci sono i tedeschi pure qua e a quanto pare dove ci sono loro ci sono sempre guai, ma almeno c’è da mangiare tutti i giorni e nessuno spara addosso ai ragazzini. Oddio, anche questo non è del tutto vero, perché l’altro giorno ce la siamo vista talmente brutta che al solo pensarci mi sento le ginoc-

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chia molli. Per fortuna ero con la contessina, sennò sulla strada ci sarei rimasto. Mamma non ne può più di sentire questa storia: dice che le fa paura. Secondo papà invece faccio bene a parlarne e più ne parlo, meno me ne resta dentro. Perciò io voglio raccontarlo ancora una volta quello che è successo, perché così si capisce che non ci si può fidare di nessuno e bisogna stare attenti a tutti. Che i cattivi possono diventare buoni e i buoni sono in realtà cattivi: proprio il contrario di quello che raccontano alla sera quelli di Radio Londra. Mio padre crede che dormo e non lo sento quando si mette accanto alla radio ad ascoltare i programmi proibiti, che se lo san-

l’ha vista mai, almeno non fino a quando sono arrivati i tedeschi a requisire la villa per mettere su un ospedale da campo e ospitare le famiglie di quelli che hanno scelto di non restare con quel vigliacco di Badoglio. Vigliacco lo dico io, non lei, perché di quello che passa per la testa alla contessina non saprei che dire. Parliamo tanto, ma lei non dice mai male di nessuno. Parliamo soprattutto quando andiamo in giro in bicicletta. Mi mette sulla canna e pedala forte, lungo la strada che porta al paese. Mamma non mi lascerebbe uscire, ma secondo papà è più sicuro fuori che dentro alla villa. È convinto che gli inglesi prima o poi

Il rumore è stato improvviso e assordante. Sembrava che fosse venuto dal nulla: basso, bassissimo, sembrava dovesse tagliare le cime degli alberi con le ali. Il motore rombava con forza e invece di avere paura mi ero incantato con la bocca aperta. no i repubblichini lo pigliano e lo fucilano davanti alla porta di casa, come un bandito. La contessina mi ha preso in simpatia fin dal primo momento. Non sono mica l’unico bambino sfollato alla villa: ce ne sono tanti, figli di chi ha deciso di diventare repubblichino e ora sta a combattere al fianco dei tedeschi. Però su tutti la contessina ha scelto me. Non bisogna essere un genio per capire il motivo. Gli altri fanno a botte dalla mattina alla sera, rubano qualunque cosa dall’accampamento dei tedeschi per costruire bombette e petardi. Tanti sono finiti in ospedale, dove mio padre ha dovuto curare bruciature e ferite. Io ho detto alla contessina che loro la guerra vera non l’hanno mica vista, sennò non ne potrebbero più di botti e di sangue. Mi ha detto che neppure lei la guerra vera 22

verranno a bombardare anche qua. Però le cose quel giorno sono andate diversamente da come aveva detto lui. La contessina stava pedalando senza fretta e io stavo seduto sulla canna, una mano appoggiata al cestino. A un tratto un ronzio si è staccato sugli altri rumori. Abbiamo alzato il naso verso il cielo e la luce del giorno mi ha accecato per un istante. Poi l’ho sentito. Chiaro come se riempisse l’aria. Il motore di un aereo. Mi sono girato ed era alle nostre spalle, alto, nel cielo pieno di luce. Ci è passato sulla testa ed è andato oltre. La contessina riprese a pedalare, spingendo più forte. La bicicletta sobbalzava sulle buche e io faticavo a reggermi. Il rumore è stato improvviso e assordante.

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Sembrava che fosse venuto dal nulla: basso, bassissimo, sembrava dovesse tagliare le cime degli alberi con le ali. Il motore rombava con forza e invece di avere paura mi ero incantato con la bocca aperta. Qualcosa è comparso sul filo delle ali: piccole lingue di fuoco seguite da quel rumore che avevo sentito tante volte: ta-ta-ta-ta. Dalla strada si sono levate nuvolette di polvere, l’una a fianco all’altra, che correvano più veloci di noi. Ci stavano sparando. La contessina ha puntato verso il terrapieno che finiva in un canale d’acqua melmosa. La discesa era ripidissima e non riusciva a mantenere il controllo. La bicicletta ha sobbalzato, io ho cercato di tenermi al cestino, ma si è staccato dal manubrio e mi è rimasto in mano. Poi la ruota posteriore ha urtato qualcosa, la bici si è piegata di lato e in un attimo ci siamo trovati con la faccia nella polvere. L’aereo era già lontano. La contessina è venuta verso di me e mi ha toccato le braccia e le gambe: quasi non riusciva a credere che fossi tutto intero. In mano stringevo ancora il cestino, ammaccato e sfondato. “Mi dispiace” le ho detto. Lei mi ha abbracciato e ha cominciato a piangere. Mia madre mi ha proibito di mettere il naso fuori dalla villa. Non ce n’era alcun bisogno: ho così tanta paura che preferisco aspettare che gli inglesi vengano a bombardarci qui piuttosto che farmi sparare un’altra volta. Mentre papà le medicava una sbucciatura, la contessina gli ha raccontato che a spararci è stato un aereo inglese. Le ha chiesto se ne era sicura, poi l’ha chiesto una seconda e una terza volta e solo quando sono stato io a dirgli che so riconoscere i simboli sulle ali ha scosso la testa come se ancora faticasse a crederci. Bighellonando per la villa e l’accampamento 23

conosco Otto. L’ho visto già altre volte girare per il campo, sempre con l’aria di essere molto indaffarato. Ho fatto presto a capire il tipo: la sua unica occupazione è apparire occupato. Eppure nessuno sembra far caso alla sua abilità a scansare il lavoro. Nessuno tranne me. Otto si accorge di me. Di come mi viene da ridere quando lo guardo. Neppure sembra un soldato: è più basso degli altri e cammina come quei cani piccoli col culo grosso, agitandosi sulle gambe corte. Si avvicina e mi guarda dritto negli occhi. Ha uno sguardo luminoso, come quello di un bambino. Quello degli altri tedeschi è diverso, anche se non so dire come. “Io zo perché tu ride”, dice con un accento così buffo che non potrebbe appartenere che a lui. “Tu ride di Otto Piccolotto”. E allora sì che mi scappa da ridere e la mia risata lo contagia. Quando riprende fiato ne spara un’altra: “Otto Bassotto” e di nuovo ci sganasciamo dalle risate e a me sembra assurdo che nessuno intorno a noi si

Otto si accorge di me. Di come mi viene da ridere quando lo guardo. Neppure sembra un soldato: è più basso degli altri e cammina come quei cani piccoli col culo grosso, agitandosi sulle gambe corte. Si avvicina e mi guarda dritto negli occhi. Ha uno sguardo luminoso, come quello di un bambino.

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domandi cosa abbiano da ridere così tanto un bambino italiano e un soldato tedesco. Otto gira spesso con una bicicletta. Non lo vedo quasi mai pedalare: la spinge e basta. Non ha un cestino, ma un portapacchi sul quale ogni tanto trasporta grosse scatole piene di chissà cosa. Appena lo vedo penso al cestino della contessina, che ormai è da buttare, e a quante cose potrebbe portare su un portapacchi così robusto. Ma Otto pensa che a me piaccia la sua bici. “Bicicletta tetesca”, dice con quell’accento così buffo, “molto buona”. Poi va via. Va avanti così per qualche giorno, ci incrociamo in giro per la villa: io a bighellonare lui a scansare ogni fatica. Ci basta guardarci per scoppiare a ridere. Io penso a ‘Otto Bassotto’ e non riesco a trattenermi. A volte facciamo a gara a chi trova un nuovo nome, così me ne esco con ‘Otto Panzerotto’ e lui ride con me, di gusto. Non riesco neppure a credere che sia possibile scherzare a questo modo con un soldato tedesco. Papà e mamma mi hanno avvertito cento volte di non prendermi troppa confidenza. Otto a casa ha lasciato due bambini. Gli chiedo se ha famiglia e lui mi risponde in quel modo buffo: “Ja”, poi solleva indice e anulare. “Due bambini. Molto simpatici. Come te”. Io gli sorrido e mi domando come sarebbe giocare con i suoi figli. Continuo a tenere lo sguardo sul suo portapacchi. “Utile, vero? Puoi portare cose molto pesanti” dice. Annuisco, poi sento la voce di 24

mia madre che mi cerca e corro via. L’indomani vedo Otto dove proprio non mi sarei aspettato. Entro in infermeria e lo trovo seduto sul lettino: mio padre gli sta fasciando un dito. Lui mi guarda e sorride. Io non so che fare: forse papà si arrabbierebbe a scoprire che ci conosciamo, che ho violato a tal punto l’ordine di non dare confidenza ai tedeschi. Così non dico niente e lui non dice niente, fino a quando non ringrazia mio padre e va via. Prima di uscire mi poggia un mano sulla testa e mi scompiglia i capelli. “Che si è fatto?” chiedo a mio padre. Papà si stringe nelle spalle. “Nulla” dice, “si chiamano lesioni autoinflitte. Quello lì ha meno voglia di me di fare la guerra e cerca sempre il modo per non poter impugnare un arma. Si è schiacciato un dito in un cancello”. “E lo ha fatto apposta?”. Papà, che è altissimo, si china sui talloni, fino a essere alla mia altezza. “Non devi pensare che tutti quelli che sono qui abbiano voglia di ammazzare gente. Alcuni ci si sono trovati, come me e te. Semplicemente non avevano alternativa”. Sono un po’ confuso: gli inglesi dicono di volerci liberare, ma un loro pilota ha cercato di ammazzarmi, mentre un soldato tedesco si schiaccia un dito pur di non dover sparare a qualcuno. Forse davvero, come dice la mamma, il mondo ha cominciato a girare al contrario. Poi succede una cosa strana. Un pomeriggio Otto spinge la sua bicicletta fino al muretto dove sto appoggiato a giocare con dei sasset-

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“Sei un ragazzo in gamba” dice e per la priti e si siede accanto a me. “Tu figlio di inferma volta sento che la sua voce è seria, preocmiere, ja?” mi chiede. Annuisco, in silenzio. cupata. Gli mostro l’involto che gli ho porta“Tuo padre bravo uomo” aggiunge, “fatto to. “Grazie”, dice, “ora apri le mani”. Ubbiquesta fasciatura senza fare domande”. Andisco e sulla destra mi poggia il portapacchi; nuisco ancora. “Tu sei bravo come lui?” dosulla sinistra le viti e i bulloni che servono a manda. Lo guardo senza capire e lui si avvifissarlo. “Mi dispiace” dice ancora, “ma non cina un po’ di più. “Voglio fare patto con te” posso aiutarti a montarlo”. “Non fa niente”, continua. “Ti piace mio portapacchi di bicibisbiglio. Poi mi dà uno scappellotto leggecletta?” Con la testa faccio di nuovo cenno ro: “Ora va, torna a dormire” dice. di sì; non sembro capace di fare altro. “È tuo, Riesco a chiudere ocse in cambio mi dai chio solo all’alba e una cosa”. Nelle orecSono un po’ confuso: gli poco dopo mi sveglia chie mi suona ancora la voce di mio painglesi dicono di volerci l’avvertimento di mia madre: non dare conliberare, ma un loro pilota dre che discute con fidenza ai tedeschi, e ha cercato di ammazzarmi, mamma. “Deve essere da qualche parinvece mi avvicino a mentre un soldato tedesco te” si lamenta e mia lui per ascoltare mesi schiaccia un dito pur madre fruga dapperglio cosa ha da prodi non dover sparare a tutto, persino nei nopormi. Bisbiglia piano e io ascolto con atqualcuno. Forse davvero, stri cassetti, in cerca di qualcosa. Quando tenzione ogni parola. come dice la mamma, il mi alzo per fare colaMentre parla mi scenmondo ha cominciato a zione, mio padre sta dono i brividi lungo girare al contrario. uscendo per andare la schiena. È una cosa in infermeria e ha riche fa paura, ma connunciato a indossare il camice. Aspetto che tinuo a tenere gli occhi puntati sul portapacanche la mamma sia uscita. Mio fratello esce chi e a pensare a quanto la contessina sarebcon mia madre: mi raccomandano di qualcobe contenta di averne uno così. Come Otto sa, ma non sto a sentire cosa, perché ho in temi ha detto, aspetto che tutti siano andati a sta solo quello che devo fare. Aspetto un po’ dormire e scivolo fuori dal letto. In un attie torno nella camera in cui dormo con mio mo sono fuori dai nostri alloggi, mi muovo fratello. Da sotto il letto tiro fuori l’involto di veloce lungo il corridoio e in un attimo sono carta di giornale e lo apro. Prendo uno a uno fuori dalla villa, nel giardino. In un angolo i pezzi del portapacchi e li esamino per esc’è un olmo: è lì che Otto mi sta aspettando. sere sicuro che ci siano tutti: non posso fare Cammino stando attento, tenendomi lontauna figuraccia con la contessina. Mentre sto no dalle luci. Otto però è più bravo di me ancora lì ad ammirare l’affare che ho fatto a nascondersi: non mi accorgo di lui fino a sento che qualcuno mi sta guardando. Anzi, quando quasi non gli vado a sbattere contro. che sta guardando da sopra la mia spalla. Mi passa una mano sui capelli come ha fatto La paura arriva per prima e faccio un salto quando ci siamo incontrati nell’infermeria.

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come un gatto. Risucchio l’aria quasi stessi soffocando e incrocio lo sguardo di mio fratello che sembra più sorpreso di me. “Che cos’è?” chiede. “Niente” dico con il poco fiato che sono riuscito a cacciarmi in gola. “Macché niente” insiste. Prende i pezzi del portapacchi e io lo lascio fare. Poi mi rivolge uno sguardo allarmato. “A chi l’hai rubato?” “Non l’ho rubato” protesto, “me l’ha dato un soldato tedesco”. Diventa bianco come un cencio. “In cambio di cosa?” mormora. Ho paura a dirglielo: dalla faccia che ha fatto lo andrà sicuramente a dire a mamma e saranno guai. “Del camice di papà.” La sorpresa nei suoi occhi sembra senza fine. “Il camice?” ripete, “e che ci doveva fare?” Mi stringo nelle spalle: non lo so e nemmeno lo voglio sapere. Non credo che nessuno se la prenderà con papà se perde il camice: ne ha buttati tanti così intrisi di sangue da essere inutilizzabili. “Quello vuole disertare” esclama a un tratto mio fratello. E scatta in piedi, come preso dall’urgenza di avvertire qualcuno. “Se lo prendono papà passerà un guaio. Penseranno che gliel’abbia dato lui!” Sono confuso. Sto ancora cercando di capire come possa un soldato disertare usando un camice da infermiere e però la cosa alla quale non riesco a smettere di pensare è che mi sequestreranno il portapacchi e non potrò darlo alla contessina. Mio fratello resta un momento immobile, 26

a riflettere. Poi mi tende una mano. “Dammelo” mi dice. “Non posso: devo darlo alla contessina.” “Non lo darai proprio a nessuno” aggiunge, “cosa credi che penserebbero i tedeschi se la vedessero andare in giro con un portapacchi appartenuto a un disertore?” Rimetto tutto nell’involto di carta e glielo porgo. “I tedeschi presto andranno via e allora potrai darglielo. Ma fino ad allora è bene nasconderlo in un posto sicuro.” Mio fratello aveva ragione: Otto ha disertato. Ci sono state un po’ di urla, ma soprattutto perché non è stato l’unico a darsela a gambe mentre i soldati sbaraccavano per spostarsi ancora più a nord. Ora che i tedeschi se ne sono andati spero di rivedere la contessina. Non la incontro da quella volta dell’aereo che ci ha mitragliati e quando i tedeschi hanno cominciato a smobilitare il conte ha dato ordine alle figlie di non mettere il naso fuori dalla villa. Mi siedo su un muretto lungo il viottolo che deve percorrere per uscire da casa e aspetto. Posso star lì tutto il giorno, tanto non ho fretta di fare nulla: l’ospedale resterà qui e così sono l’unico ragazzino rimasto. C’è anche mio fratello, naturalmente, ma lui è più grande, ha quasi l’età della contessina, e dice che non ha tempo da perdere con me. Poi succede una cosa strana: ho appena pensato a mio fratello e lo vedo spuntare in fondo al viottolo. È proprio lui, non c’è dub-

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bio, e sta spingendo una bicicletta. Non è la sua e mentre lo fa chiacchiera e sorride. Poi compare lei, la contessina. Che gli cammina al fianco e sorride anche lei, come se fossero vecchi amici e invece fino a ieri a malapena si sono salutati. Quando la contessina mi vede, mi saluta con la mano e il suo sorriso si fa più luminoso. Dice qualcosa a mio fratello e insieme puntano verso di me. Sono felice di rivederla, anche se davvero non capisco che c’entra mio fratello con lei. Lui non dovrebbe esserci, come non c’è mai stato fino a que-

sta mattina. Poi lo vedo. Vedo il portapacchi montato sulla bici della contessina. Il portapacchi di Otto. Il mio portapacchi. Il regalo che avevo messo in serbo per la contessina. Mio fratello mi guarda in un modo strano, con un sorriso che un po’ sembra prendermi in giro e un po’ chiedermi scusa. La contessina continua a sorridermi, ma io non le do il tempo di raggiungermi: scatto in piedi e corro via, prima che veda le lacrime che mi riempiono gli occhi.

Ugo Barbàra A capo della redazione New Media dell’Agenzia Giornalistica Italiana, dal 1999 al 2010 si è occupato di politica estera. In precedenza è stato corrispondente da Palermo negli anni del processo Andreotti (1995-1999), redattore di cronaca giudiziaria a Roma in epoca di Tangentopoli. Ha una cattedra di scrittura creativa all’Università La Sapienza di Roma. Ha scritto cinque romanzi, tutti pubblicati da Piemme: Desidero informarla che le abbiamo trovato un cuore (1999); La notte dei sospetti (2001); Il corruttore (2008); In terra consacrata (2009) e Le mani sugli occhi (2011). Suoi i racconti La stiratrice di Saponara pubblicato nella raccolta La scelta edito da Novantacento; il racconto Il nemico inserito nella raccolta Duri a morire di Dario Flaccovio editore e L’avaro che fa parte della antologia Seven curata da Gian Franco Orsi per Piemme. È sceneggiatore del film Gli angeli di Borsellino. Nel 1999 il Teatro Libero di Palermo ha portato in scena il suo Dongiovanni per la regia di Lia Chiappara. Disponibile su www.cubolibri.it

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Il mondo dell’ebook

L’Enciclopedia del futuro non prevede la voce “carta” Una volta per le ricerche si consultavano le enciclopedie. La rete e i device hanno cambiato il nostro modo di cercare informazioni. Il settore editoriale specializzato in conoscenza è a una svolta storica e le scelte saranno determinanti per il suo futuro e dell’intero mercato dell’epublishing. di Daniela De Pasquale

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mazione. Almeno fino all’università, quanuando agli studenti delle do quel “cerchio del sapere” che etimoloscuole medie della generaziogicamente descrive l’enciclopedia è esploso ne degli anni settanta e ottanta grazie alla rete nell’open content. Il più granveniva assegnata una ricerca, de e famoso progetto collaborativo di quein casa c’era a disposizione più di un’encisto tipo è Wikipedia, che oggi conta oltre 20 clopedia. Io ne avevo sei: l’Enciclopedia Motmilioni di voci (dato aggiornato a novemta, acquistata da mia nonna, volume dopo bre 2011) in più di 280 lingue. Ovviamente, volume, da un venditore porta a porta; delun’enciclopedia libera, gratuita e alla quale lo stesso editore erano anche le due raccoltutti possono contribuire solleva il problete specializzate sugli animali e sulla terra; ma dell’attendibilità dei suoi contenuti e la Nuovissima enciclopedia universale Curcio, del fact checking. La questione è ancora molquella scientifica De Agostini, l’Enciclopedia to dibattuta: nel 2005 la rivista Nature ha Europea Garzanti, l’enciclopedia illustrata messo a confronto un campione di 42 voci per ragazzi Vedere e Sapere, Edizioni Scienze e scientifiche di WikiVita, La Biblioteca del Sapedia e dell’Encyclopere Lati Maler, acquistaIl vero concorrente paedia Britannica, la ta a fascicoli in edicola e dell’enciclopedia digitale più importante del poi rilegata. Regno Unito, rilenon è la versione Ognuna con i suoi pesanti volumi con i dorcartacea ma i contenuti vando un’accuratezza nelle informaziosi tutti uguali, che nella disponibili gratuitamente ni molto simile. Per maggior parte dei casi sul web. ogni articolo, in menon riuscivano a stare dia, c’erano 3 errori disposti su un solo scafsulla seconda e 4 sulla prima (quest’ultimo fale della libreria. Da ogni fila si sceglievadato tendeva a diminuire all’aumentare del no i volumi contenenti il lemma, li si disponumero di persone che avevano contribuineva aperti su una scrivania e si iniziava il to alla stesura della voce). lavoro di sintesi e di scrittura. Spesso, per Di fatto, la gratuità e facilità di consultaziodifferenziare il proprio elaborato da quelne delle enciclopedie aperte ha fatto uscilo dei compagni di classe, si chiedevano in re dal mercato quelle informatiche a paprestito ai vicini di casa i tomi delle enciclogamento. Inoltre è raro che la generazione pedie di altri editori. citata scelga di acquistare oggi una nuova Alle scuole superiori la stessa generazione enciclopedia, probabilmente perché ne ereiniziava a prendere dimestichezza con il coditerà qualcuna come ricordo di famiglia pia/incolla, grazie all’enciclopedia in CD e perché le nuove case sono mediamente Rom, come la Msn Encarta. Guardare video più piccole. Se ne è accorta persino l’Ikea, relativi a ciò che si studiava – una battaglia la più famosa catena di mobili low cost che del Settecento, uno stato del Sud America, è diventata specchio dei tempi, del modo il sistema solare – era di quanto più rivoludi organizzare gli spazi e di conseguenza zionario si potesse immaginare per la for-

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Il digitale salva le enciclopedie e anche i dizionari dalla condanna di Sisifo: non saranno obsoleti e “da rifare” nel momento stesso in cui vengono pubblicati, ma sempre attuali e aggiornabili in un clic. delle mutate abitudini di consumo. Tanto che uno dei suoi prodotti di punta, la mitica Billy, inventata nel 1978 e diventata la libreria per antonomasia, è stata riproposta in una nuova versione, più profonda e con ante in vetro, perché l’azienda ritiene che i clienti la useranno sempre di più per oggetti decorativi e sempre meno per i libri. A rendere più tangibile la crisi del mercato delle enciclopedie è la notizia della cessazione della stampa dell’Encyclopaedia Britannica. L’edizione del 2010 è l’ultima su carta. Il presidente della società che la gestisce, Jorge Cauz, ha parlato di un futuro più luminoso. Probabilmente si riferiva agli schermi retroilluminati dei tablet, dal mo-

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mento che, dopo 244 anni, i suoi 32 volumi, dal peso complessivo di 58,5 chilogrammi, si sono smaterializzati e ora vivono solo nella versione digitale, più ampia, più ricca e più vibrante. “La fine della stampa era qualcosa che prevedevamo da tempo – conclude Cauz – è l’ultimo passo della nostra trasformazione da editore a stampa quale eravamo a creatore di prodotti culturali digitali quale siamo oggi.” E in effetti dalla carta deriva solo l’1% degli introiti, mentre gli abbonamenti al portale web arrivano a 100 milioni in tutto il mondo, raggiungendo il 15% dei ricavi. L’85% deriva da prodotti educativi per l’apprendimento sul web, consulenze e pubblicità.

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In Italia una delle enciclopedie oggi più accreditate è la Treccani: resiste su carta, ma viene venduta con una chiavetta USB ricca di contenuti che permette di unire tradizione e tecnologia. Allo stesso tempo cresce rapidamente il portale online ed entro giugno sono previste le prime applicazioni dei vocabolari sia per iPad che per Kindle. Futuro only digital anche per l’Oxford English Dictionary, anche se l’editore ha dichiarato che prenderà la decisione definitiva solo quando sarà pronta la terza edizione. Se si pensa che la si attende da 21 anni, si capi-

in termini di chili e anche di euro e li rende molto più pratici da consultare grazie alle funzionalità di ricerca e ipertestualità proprie del mezzo digitale. Il cambiamento risulta inevitabile anche da un punto di vista economico: le enciclopedie sono un bene durevole a basso tasso di sostituzione in un mercato ormai saturo. L’enciclopedia elettronica è invece un prodotto nuovo che ancora in pochi possiedono, e quindi ha grandi potenzialità di penetrazione nel nuovo mercato dei contenuti digitali.

sce l’inevitabilità del sopravvento del digitale, in un mondo che viaggia veloce e che pretende immediatezza anche negli aggiornamenti. Il formato elettronico sembra salvare dunque sia le enciclopedie che i dizionari dalla condanna di Sisifo, costretto per l’eternità a un lavoro vano: portare su per un pendio un masso pesantissimo che, arrivato in cima, rotola di nuovo a valle. La seconda vita a loro riservata non li condanna più a diventare obsoleti nel momento stesso in cui vengono pubblicati, li alleggerisce

La vera battaglia andrà combattuta non tanto con la carta quanto con i contenuti disponibili online gratuitamente. La quantità spesso si preferisce alla qualità, ma il digitale permette di ridurre i costi e rende i prodotti di fascia alta più competitivi. Il plus di un prodotto editoriale di tale portata sta nell’autorevolezza e credibilità della fonte, a cui è necessario aggiungere la competenza: il know how tecnologico è indispensabile per rendere i nuovi prodotti accattivanti e funzionali, e non può mancare nel curriculum

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del nuovo venditore di enciclopedie, che si evolve di pari passo con la figura dell’acquirente. Non è infine da sottovalutare la potenzialità del nuovo prodotto di fare da volano per lo sviluppo dell’intero mercato digitale: la modalità di fruizione non lineare delle voci di un’enciclopedia permette uno sforzo minore da parte del lettore nel prendere confidenza con il nuovo formato. D’altra parte, i dati di vendita mostrano quanto il settore della manualistica elettronica goda di buona salute, con particolare riferimento ai testi giuridici e medici, ai corsi di lingua (si veda il successo della collana Mondadori Lost in Italy, di John Peter Sloan), ai manuali di self help o a eBook come La

dieta Dukan, divenuto ormai un long seller. L’enciclopedia elettronica così pensata, pratica, portabile e aggiornabile, riporta alla mente le Lezioni americane di Italo Calvino, che sembra aver immaginato le caratteristiche dei testi digitali con anni di anticipo rispetto alla nascita di internet. In particolare, nella sua lezione sulla molteplicità, Calvino parla di “enciclopedia aperta, aggettivo che certamente contraddice il sostantivo enciclopedia, nato etimologicamente dalla pretesa di esaurire la conoscenza del mondo rinchiudendola in un circolo”. Di fatto, si tratta di un approccio alla conoscenza stessa che tende all’infinito e che, grazie al digitale, sarà sempre disponibile in un clic.

Grazie alla modalità di fruizione non lineare, che rende la consultazione più rapida e semplice, le enciclopedie rappresentano un volano per lo sviluppo dell’intero mercato digitale.

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Il mondo dell’ebook

BATTAGLIA PER IL PREZZO - E IL FUTURO DEGLI EBOOK

Apple e i principali editori americani chiamati a difendersi dall’accusa di aver costituito un cartello anti-Amazon: in ballo c’è però ben più che una querelle tra aziende. di Roberto Dessì

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Il ristorante Picholine è un locale di cuche Steve Jobs, compianto papà di un’altra cina francese situato a Manhattan, nel Grande Mela, quella morsicata. Fu lui che, cuore della Grande Mela. Con i prezzi dopo aver rivoluzionato in successione il non si va per il sottile, ma la cucina – mercato musicale e della telefonia, in quei stando alle recensioni – merita il cospicuo mesi e in quel ristorante offrì ai suoi preinvestimento. L’atoccupati commensali la mosfera intima è un mossa per portare scacFu Steve Jobs ad offrire co matto ad Amazon, e altro punto di forza del ristorante, se è soffocarne sul nascere i ai suoi preoccupati vero che proprio nei propositi di dominio del commensali la mossa discreti e confortemercato editoriale. per portare scacco voli spazi del privé In quel periodo, infatti, “cantina dello chef”, Kindle rappresentava matto ad Amazon, tra il 2008 e il 2010, soffocandone sul nascere il perfetto sinonimo di erano soliti pastegeBook, col 90% dell’intei propositi di dominio del giare e discutere prero mercato conquistato mercato editoriale. sidenti e A.D. delle attraverso spregiudicate più importanti case strategie di vendita sotto editrici statunitensi. Le sei sorelle, come costo. Sfruttando la regola generale che vovengono acremente definite da media e leva i libri cartacei e digitali acquistati all’inconcorrenti di minor rango. Cene d’affagrosso dagli editori, e rivenduti al prezzo ri alle quali partecipava con regolarità anfinale sancito dal rivenditore, Amazon ave-

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va di fatto inaugurato un’era fatta di nuove breve, la quota di mercato Amazon crolla al uscite a soli 9,99 dollari. Insostenibile per 60%. Avvantaggiando tra gli altri Barnes & le case editrici, che temevano d’esser messe Noble, che col Nook sfiora il 25%. spalle al muro da Jeff Bezos, e per gli altri Il contro-colpo di scena non si fa attendere: concorrenti che non avrebbero retto a lungo l’11 aprile scorso il Department of Justice un gioco al ribasso di quella portata. Unici degli Stati Uniti avvia un’indagine per viofelici – e come dargli torto – i consumatolazione delle normative antitrust, mettendo ri, che migrarono in massa verso l’eBook. in dubbio la liceità dell’accordo tra Apple E implicitamente, tra le braccia di Amazon. ed editori, e stimando un danno causato ai Ciò finchè Steve Jobs non decise di scendeconsumatori di circa 100 milioni di dollari. re in campo, in prima persona. L’iPad non Perfino Barack Obama, causa elezioni ma era ancora stato comnon solo, si è sentito mercializzato, ma di in dovere di rassiculì a poco sarebbe dirare l’opinione pubvenuto il salvagente blica, agitando micapace di tirar fuori nacciosamente il randal pantano gli edidello delle “pesanti tori, in abbinamento sanzioni” in arrivo alla fine della venper i responsabili. dita all’ingrosso deA una prima lettura gli eBook. Nella sua dei fatti, e a giudimente, il rivenditore care dalla frettolosa si sarebbe trasformaresa di alcune delle Il deprezzamento to in agente di venparti in gioco, non dell’oggetto culturale dita, mantenendo il ci sono molti dubbi: 30% del prezzo di editori e Apple hanper eccellenza, il libro, è copertina per il dino messo su un carun altro aspetto su cui sturbo e girando la tello bello e buono, discutono animatamente i restante percentuale e la pratica sleale in columnists americani nelle tasche degli ediquestione è da semtori. Jobs risultò più pre vista di pessimo che mai persuasivo: “i clienti pagheranno occhio dall’Antitrust USA. Ma le implicadi più, ma in fondo è ciò che voi comunque zioni – giuridiche e non – di questa querelle volete”, disse ai suoi nuovi soci in affari; travalicano il mero aspetto legale, sfocianseguirono altri meeting segreti al ristorante do nel dilemma morale: è giusto cancellare Picholine, telefonate ed email dal contenuto un cartello quando la sua alternativa è un confidenziale febbrilmente scambiate tra i monopolio? Esiste un giusto prezzo della congiuranti. La trappola scatta, e il re Bezos cultura? Ma soprattutto: la cultura rischia viene messo sotto scacco: accettare, o perl’estinzione? dere gli eBook delle six sisters. Quasi in conSul primo quesito, ciò che può sembrare temporanea, Steve Jobs presenta al mondo un’assurdità, ben messa in luce dalla dichial’iPad e incassa un successo roboante. In razione dello scrittore Scott Turow (“il go34

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verno rischia di uccidere una vera concorrenza per ripristinare un regime solo apparentemente concorrenziale”), deve essere ripensata alla luce del liberismo di cui è permeata l’economia americana. In market we trust, anche se è chiaro a tutti ciò che potrebbe accadere – e quasi certamente accadrà – di qui a due anni, se Bezos sarà libero di rivoltare come un calzino l’industria dell’editoria a suon di sconti, acquisizioni di titoli in esclusiva ed embarghi per coloro che osano ribellarsi. Paradossalmente, la legge americana non vieta i monopolî qualora sorgano da normali dinamiche di mercato; né garanzie o tutele sono dovute alla concorrenza, in applicazione del più rigido darwinismo economico. Sembrerebbero perciò mediatiche e di circostanza le dichiarazioni Apple, che respingono al mittente le accuse sostenendo al contrario di avere garantito, col proprio intervento, un mercato più equo, innovativo e interessante. Il deprezzamento dell’oggetto culturale per eccellenza, il libro, è un altro aspetto su cui discutono animatamente i columnists americani: la corsa al ribasso di Amazon ha il perverso effetto di ingenerare nel consumatore l’associazione mentale “bene libro uguale basso costo”. Guarda caso, ciò che anche Apple ha fatto a suo tempo con la musica su iTunes, imponendo de facto il nuovo standard “una canzone a 99 cents, tutto l’album a 10 dollari”. Ironicamente, ciò ha rivitalizzato – piuttosto che uccidere – l’industria musicale in debito d’ossigeno, ma ha anche lasciato numerosi contendenti sul campo di battaglia. Non può perciò essere il motivo di tanta attenzione. Ciò che più spaventa gli osservatori, a torto o a ragione, sono le conseguenze nel lungo periodo, e il timore di un appiattimento dell’offerta culturale. Perché se anche i monopoli sono legittimi, non 35

sono certo la migliore soluzione che il mercato offre per stabilire il prezzo di un bene. Cosa accadrà infatti se e quando Amazon raggiungerà l’obiettivo di rendere inoffensiva la concorrenza? I prezzi aumenteranno nuovamente, per consentire alla società di rientrare dell’investimento fatto, obbligando i consumatori a saltare dalla padella alla brace? Oppure, se ciò non dovesse accadere e Amazon in qualche modo riuscisse a far ridurre i prezzi (quindi i profitti) degli eBook agli editori, il futuro potrebbe riservarci uno sconfortante impoverimento del patrimonio letterario, fatto di grandi – ma soprattutto piccole – case editrici? Fino al più orwelliano degli scenari: se rimarrà un unico negozio a cui rivolgersi per l’acquisto di un eBook, chi impedirà ad Amazon di imporre la propria dittatura

Se rimarrà un unico negozio a cui rivolgersi per l’acquisto di un eBook, chi impedirà ad Amazon di imporre la propria dittatura culturale? culturale, decidendo quali libri sono graditi e quali no sulla base di opinabili ma inappellabili proprie motivazioni, come peraltro è già accaduto in passato? Insomma: dinanzi allo scranno del giudice chiamato a dirimere la questione, vi è ben più che il mero esito di una causa. Chiunque firmerà questa sentenza prenderà sulle spalle una responsabilità non da poco. E inevitabilmente, cambierà il corso della storia del giovane, vitale, mercato degli eBook.

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Buona la prima Storie di libri ed edizioni

Anonimo

“La vita di Lazarillo de Tormes (1554)” di Luca Bisin

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on ancora vinto alle lusinghe di una fantasia incontrollata, subito prima di perdere il senno “per effetto del dormir poco e leggere molto”, il gentiluomo che si darà nome Don Chisciotte della Mancia esita incerto sul crinale sottilissimo tra la realtà e la narrazione: le ferite inferte e ricevute dai lucenti protagonisti dei romanzi cortesi non persuadono ancora del tutto il fragile intelletto del povero hidalgo, il quale non sa spiegarsi come sia possibile che tali lesioni, quand’anche curate dai più valenti chirurghi, non lascino pieni di cicatrici e di segni il volto e il corpo degli ardimentosi combattenti. Se, come ci ha insegnato Foucault, la follia di Don Chisciotte è piuttosto lo sguardo sbigottito e allucinato gettato in quell’inizio della modernità dove la scrittura e il mondo cessano irrimediabilmente di somigliarsi, allora il genio di Cervantes ha saputo additarci questa breccia aperta tra il linguaggio e le cose: sublimati nello splendore delle armature, i corpi dei cavalieri non recano alcuna memoria delle loro gesta prodigiose, le quali sopravvivono solo nella fantasiosa costruzione di un racconto, nella forbita articolazione di un libro che non sa più corrispondere all’esistenza. Forse, la perdita d’innocenza del Rinascimento passa anche per questo sguardo distrattamente gettato alla vulnerabile carne degli eroi, dove si dissolve l’illusione, come l’esprimeva l’umanista spagnolo Luis Vives, secondo cui “il corpo si accontenta del presente, scordando il passato e disinteressandosi del futuro”. Ma se l’immortale personaggio di Cervantes, forse proprio abbacinato dall’imprevista radicalità di quello sguardo fuggitivo, si ritrae nella lucida follia che trasforma il mondo stesso in un libro, il protagonista di La vita di Lazarillo de Tormes e delle sue fortune e avversità, apparso anonimo nel 1554, ne fa piuttosto

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il prisma attraverso il quale l’immagine ben ordita della società cavalleresca si rifrange nello spettro delle sue componenti altrimenti invisibili. Quelle “cose tanto singolari e forse anche mai udite né vedute giammai” che il prologo del Lazarillo annuncia con la solennità degna di una epopea o di una leggenda, non sono in effetti che le ordinarie peripezie del vagabondo Lazzaro del Tormes nella sua giornaliera lotta per la sopravvivenza tra le insidie di una realtà che non mostra la rassicurante affettazione dei costumi e delle consuetudini, l’esuberante opulenza delle corti, l’intrepido valore dei cavalieri, il familiare retaggio delle tradizioni e dei miti. Nelle sue peregrinazioni tra Salamanca e Toledo, come servitore al soldo dei più disparati personaggi (un vecchio cieco che alla mancanza della vista supplisce con un’astuzia e una sagacia senza pari, un prete a cui l’avidità pare essersi “appiccicata addosso insieme con la veste talare”, uno scudiero tanto esteriormente devoto alle forme stantie della vecchia società nobiliare quanto immiserito e affamato, un disonesto venditore di bolle, “il più svelto e sfacciato e il più bravo nel darle via che mi sia toccato vedere”), Lazzaro attraversa piuttosto un mondo interamente consegnato all’esercizio sapiente del sotterfugio, dell’espediente, dell’ingegno chiamato ogni volta a nuove invenzioni e più sottili escogitazioni, dove il valore e la prodezza dell’individuo non si misurano sulla possenza di un corpo quasi invulnerabile, raccolto nello sfavillio di un’armatura che lo nasconde e lo esibisce a un tempo, ma sull’arte di esercitare la malizia, la scaltrezza, l’astuzia. Privo di una lancia, di uno scudo, di un’armatura, ma anche dell’ingenua sventatezza di un gentiluo-

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mo troppo imbevuto di fantasie libresche, il corpo del giovane Lazzaro si espone senza riparo alle angherie e alle sopraffazioni del prepotente di turno, e però esso ne conserva anche i segni: le botte e le lividure, curate col vino e con gli unguenti, non scompaiono nel giro di una pagina o col sopraggiungere della prossima avventura, ma sedimentano nell’affinarsi del giudizio, della prontezza, dell’intuito, di tutto quel bagaglio di esperienza che consente a un uomo di “vivere in mezzo a tante fortune, avversità e pericoli”. L’anonimo autore del Lazarillo annuncia così i canoni di un nuovo stile del raccontare che si fa subito genere, quello del romanzo picaresco, fin dalla pratica usuale e abusata (lo stesso capolavoro di Cervantes, com’è noto, non vi resterà immune) della continuazione illecita: già nel 1555 un altro anonimo s’incarica di pubblicare una seconda parte della vita di Lazzaro del Tormes, dove l’ironia e il disincanto che pervadono il racconto originale sono sacrificati all’eccesso parodistico che vede il protagonista imbarcatosi al seguito di una spedizione in Algeri, rovinosamente naufragato, miracolosamente mutato in un tonno, catapultato in una società di pesci che ripete le falsità, le ipocrisie, i rancori, le malevolenze della Spagna cinquecentesca. All’implacabile rigore dell’inquisitore Fernando de Valdés le sottigliezze dello stile non sollecitano evidentemente particolare indulgenza, e raccogliendo i quasi mille titoli che confluiranno nella prima edizione dell’Indice dei libri proibiti, apparsa nel 1559, fa comparire assieme le due parti sotto la comune voce di “Lazarillo de Tormes, primera y segunda parte”. Ma quando, nel 1574, López de Velasco s’incarica di restituire l’opera al pubblico, la seconda parte scompare

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del tutto, mentre il testo originale, sia pure nella versione censurata di un “Lazarillo castigado”, ha già assunto le caratteristiche di un classico: benché posto all’indice, avverte Velasco, esso “fu sempre da tutti molto ben accolto, per la cui ragione, sebbene sia stato proibito nei nostri regni, si leggeva e stampava ordinariamente negli altri”. Commentando il Lazarillo Benedetto Croce lamentava di non riuscire a scorgervi la forza di una pericolosa satira sociale, ma soltanto “l’assillante e tormentosa rappresentazione e ossessione della fame”, di un “bisogno elementare insoddisfatto intorno al quale ogni altra forma di attività è come sospesa e tutta la vita imperiosamente costretta a raggirarsi”. E notava che non si trova in ciò una condizione straordinaria, ma soltanto il “caso ordinario e normale dell’uomo ordinario e normale che passa da un tentativo all’altro, da uno all’altro travaglio per collocarsi socialmente in un posto in cui possa nient’altro che sfamarsi”. Eppure ciò che in quelle poche pagine poté attirare i sospetti del Santo Uffizio, come anche assicurarvi una popolarità che aggirava perfino l’ostacolo della proibizione papale, è forse proprio la carica simbo-

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lica e trasfigurante che il Lazarillo sa dare a quell’urgenza materiale e improrogabile, facendone lo scorcio aperto per uno sguardo nuovo sulle cose e per una letteratura che sappia accoglierlo. Non è un caso, allora, che proprio da un cieco, immune agli ornamenti tanto smaglianti quanto ingannevoli con cui la Spagna di Carlo V dissumulava la propria incombente decadenza, Lazzaro riceva la prima, fondamentale lezione della propria vita, quella di “aprir l’occhio e stare attento”. E mentre, al servizio dell’avarissimo prete, si affanna a escogitare sempre nuovi e più sottili stratagemmi per sottrare il pane che quello tiene sottochiave in una cassa, Lazzaro enuncia così la legge segreta delle sue avventure: “era la fame che mi illuminava l’intelletto”. È quasi la formula programmatica di una nuova sensibilità letteraria, in cui “vediamo cose che gli uni considerano quisquilie, ma non son tali per altri”, forse i primi indizi del romanzo moderno e di una scrittura che, orfana di imprese leggendarie ed eroiche avventure, scopre però la capacità di scorgere nella più piccola vicenda umana un significato universale e dargli voce in una narrazione.

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Sulla punta della lingua

Come parliamo, come scriviamo

Rubrica a cura dell’Accademia della Crusca

Italiani in scena di Stefania Stefanelli

A

ben guardare, prima ancora della radio e della televisione, il teatro è stato un formidabile mezzo di comunicazione di massa in grado di intercettare, grazie alla grande varietà dei suoi generi, pubblici ampi oltre che socialmente e culturalmente differenziati. Non stupisce perciò che, anche per la lingua recitata sulle scene, valga la ormai celebre metafora di “specchio a due raggi” coniata per la televisione, a sottolineare la capacità del mezzo di assimilare le realtà linguistiche circostanti e, insieme, di rielaborarle rilanciandole nel contesto sociale contemporaneo. Questo fatto appariva particolarmente evidente nel teatro italiano postunitario, caratterizzato da realtà che in qualche modo rispecchiavano la situazione linguistica esistente in una Italia recentemente unificata: da un lato, la vitalità dei teatri legati ad ambienti locali e dialettali e di autori come il piemontese Vittorio Bersezio, il milanese Carlo Bertolazzi, il catanese Luigi Capuana, il veneziano Giacinto Gallina. Dall’altro lato, grazie anche all’emergere del fenomeno dei grandi attori, come

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Alamanno Morelli, Eleonora Duse, Ermete Zacconi che si esibivano con le “compagnie di giro” nelle loro tournée in Italia e all’estero, tendeva a imporsi un teatro sovraregionale nei temi e nella lingua. Questa scissione tra l’eredità dialettale e la nuova realtà dell’italiano unitario era ben presente a un grande scrittore come Giovanni Verga, profondamente calato nella situazione linguistica della sua Sicilia, che nelle lettere all’amico e conterraneo Capuana esprimeva chiaramente la propria preferenza per l’uso dell’italiano rispetto al dialetto; un italiano, però, non vincolato dalla scrittura letteraria, ma vicino a quello dell’uso comune: «Ascoltando, ascoltando si impara a scrivere», diceva Verga in una intervista fattagli da Ugo Ojetti. Da un altro figlio della terra siciliana, solo di qualche decennio posteriore a Verga, proviene però il contributo più importante alla ricerca dell’italiano teatrale nella prima metà del novecento. Si tratta di Luigi Pirandello: anche per lui si poneva un problema immenso, perché nei suoi anni l’italiano non era ancora “cosa fatta”; eppure Pirandello ha creato

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una lingua teatrale ricca di tutti quegli elecon gli spettatori di tutte le regioni italiane. menti che caratterizzano il parlato spontaNella seconda metà del Novecento, grazie neo: le pause, le interruzioni di un discorso ai mezzi di comunicazione di massa, all’eche viene ripreso e completato dall’interlolevamento dell’età dell’obbligo scolastico, cutore, le intonazioni alle migrazioni intere, soprattutto, le inne, il possesso dell’iteriezioni, quei suoni taliano dell’uso mecome ah, eh, mah che dio si è esteso fino a emettiamo parlando raggiungere la mage che, pur essendo gior parte della poportatori di significapolazione; una nuoto, non possono esseva padronanza linre definiti vere e proguistica che ha conprie parole. Una linsentito di introdurre Luigi Pirandello gua che “funziona” nel teatro una vasta perfettamente sulla gamma di varietà e scena e che genera Per Pirandello si poneva un registri. La figura che un dialogo teatrale problema immenso, perché più di tutte si è imdi fluida naturalezza. posta sulle scene in nei suoi anni l’italiano non Il dialetto, però, era questi decenni è staera ancora “cosa fatta”; tutt’altro che scomta quella di Dario Fo. eppure egli ha creato una Fino dalle sue prime parso dalle scene: e il pensiero va immecommedie, Fo ha salingua teatrale ricca di diatamente a Eduarputo adattare per la tutti quegli elementi che do De Filippo che, recitazione l’italiano caratterizzano tra l’altro, ha avuto regionale lombardo il parlato spontaneo. un rapporto di stima innestandovi la pae di amicizia proprio rodia dei gerghi della con Pirandello. La sua grandezza consiste società contemporanea, come il burocratese nell’essere riuscito a rappresentare le molo il politichese. Ma già nella commedia La teplici varietà del dialetto napoletano, legacolpa è sempre del diavolo, ambientata tra il te alle differenti zone della città e ai diversi XIII e il XIV secolo, faceva la sua comparsa strati sociali. Eppure, Eduardo ha scritto anun personaggio – Brancaleone, cioè il diavoche celebri commedie in un italiano regiolo – che parlava un dialetto veneto arcaico nale campano di larga comprensibilità, rapd’invenzione. Un ritorno alle origini anche presentate con successo nel corso degli anni, linguistiche portato poi a compimento in nella determinazione di portare il teatro Mistero buffo mediante l’uso creativo di una napoletano a pubblici più ampi, nazionali, lingua mescidata che fondeva diversi dialetti parlando una lingua capace di comunicare lombardo-veneto-friulani con la lingua dei 40

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giullari medievali: una lingua inventata che preludeva all’esito estremo del grammelot. Nel corso degli ultimi anni, molti drammaturghi hanno portato in scena senza problemi l’italiano parlato, come Edoardo Erba che riesce a intessere dialoghi senza intoppi, in una lingua di marca borghese quasi priva di inflessioni regionali, mediante l’alternarsi di battute brevissime, in un interloquire frammentato tra i vari personaggi. Anche gli autori delle ultime generazioni appaiono a loro agio con l’italiano parlato: è il caso di Fausto Paravidino che scrive commedie ambientate nell’universo dei giovani, come Noccioline, nei cui dialoghi emerge una rappresentazione realistica del parlato dagli adolescenti di oggi, caratterizzato

dal ricorrere di parole multiuso come tipo o come il celeberrimo cioè. Il dialetto però non è morto e torna sulle scene come volontà di recupero di una memoria individuale e collettiva: è il toscano arcaico e rurale di Ugo Chiti, il siciliano duro e difficile di Emma Dante e quello secco e surreale di Spiro Scimone che è anche attore dei suoi testi. Sono i molteplici italiani regionali degli autoriattori del teatro di narrazione, dal veneto di Marco Paolini ‒ uno dei primi esponenti di questo genere teatrale ‒ al romanesco di Ascanio Celestini, al palermitano di Davide Enia, al salentino di Mario Perrotta e di Fabrizio Saccomanno, alle molteplici parlate dei narratori più giovani che si affacciano sulle nostre scene.

Il dialetto però non è morto e torna sulle scene come volontà di recupero di una memoria individuale e collettiva.

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Anima del mondo Paesaggi della letteratura

ALL’OMBRA DEL GRANDE FIUME

L’anima inquieta del Danubio in Romania di Luca Bisin

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non invano esso / è chiamato ospitale”, cantava Hölderlin del Mar Nero: così forse lo videro i primi Germani, quando “sospinti dalle quiete onde del Danubio”, in un giorno d’estate, giunsero al delta del grande fiume, “insieme ai figli del Sole / in cerca di ombra”. Ma l’ombra non apparve meno fresca e piacevole agli dèi greci che dal lontano Olimpo vennero alle fonti del fiume, “alle sorgenti e alle gialle rive, / dense di aromi nell’aria e nere / del bosco di pini”, dove le acque, stillanti da recondite profondità della terra, sembrano essersi date un segreto convegno a formare il corso del fiume “che sembra però quasi andare a ritroso e / io penso che debba venire / da Oriente”. Per Hölderlin il Danubio era anzitutto questa via aperta tra l’Occidente e l’Oriente, questo confine liquido tra i tempi e gli spazi

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di un’Europa la cui identità è sempre stata tanto sicura quanto composita e imprecisabile, tanto categorica quanto fragile e incerta, sempre sospesa tra un inizio remoto e un compimento ancora da venire. Forse non è soltanto la sua imponenza geografica, quasi una traccia aperta su metà del continente, a fare la gravità simbolica del Danubio, ma anche la sua natura di luogo irrimediabilmente in bilico. La nascita del Danubio è certo “una questione di grondaie”, come l’ha definita Claudio Magris, il crescere imprevisto di un fiume che “nasce alla chetichella”, come ha scritto Paolo Rumiz, lungo il confluire inaspettato di corsi d’acqua che, tra le montagne della Foresta Nera, ancora si contendono il privilegio dell’inizio, il vanto di essere già Danubio. Ma la fine del grande fiume, laggiù sulle sponde che Hölderlin voleva ospitali e ombrose, non è poi

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plice gusto di un paradosso che Vintilă Homeno inquieta: dopo 2900 chilometri di un ria, nel romanzo Dio è nato in esilio (a cui nel corso tortuoso e bizantino ma abbastanza 1960 viene assegnato un premio Goncourt certo da accostarvi città e tracciarvi confini, che l’autore, per le sue controverse idee poil fiume si scioglie infine in una caotica esulitiche, non potrà ritirare), poté fare dell’eberanza di canali, rivoli, laghi, acquitrini, silio di Ovidio la cifra stessa di una conpaludi, uno zibaldone vasto e indistinto di dizione così profondamente segnata dalla acqua e vegetazione. Non è neppure davnostalgia senza nome. “Mi aggiravo per vero una fine ma piuttosto, come scrivele stanze, uscivo in giardino, cercavo dapva Magris, un incessante finire, “un verbo pertutto qualcosa che all’infinito presente”. potesse ricordarmi Forse, era questo stesRoma, che mi avrebso sentimento di un be consentito di viconfine non davvero vere in esilio”, fa dire segnato, più presagiHoria al suo Ovidio to che visto, a rendesubito dopo che quere le sponde del Mar sti ha appreso la senNero tutt’altro che tenza di condanna. ospitali per il poeta Cercare dappertutto Ovidio, il quale venun segno della prone esiliato in questa Claudio Magris pria casa, nel presaregione dall’imperagio convulso di averNon è neppure davvero tore Augusto nell’8 la irrimediabilmente a.C., “spedito alle una fine ma piuttosto, perduta, è stato in foci dell’Istro dalle come scriveva Magris, un effetti il destino consette braccia”, e vi incessante finire, “un verbo diviso da più di uno trascorse i suoi ultiall’infinito presente”. scrittore romeno, mi anni nella pena chi per una senteninconsolabile per il za della storia, chi per un indocile affanno perduto Occidente, nella dolente afflizione interiore: la sensazione che Emil Cioran didi un luogo che gli appariva irrimediabilchiarava di aver avuto per tutta la vita, “esmente vago: “a nessuno fu assegnata una sere stato allontanto dal mio vero luogo”, terra più lontana; / più lontano di questa trova un’eco esatta nella confessione con non vi è niente, se non freddo e nemici, / cui Eugène Ionesco asseriva di non essere e l’acqua del mare che si stringe in solido “né qui né là, fuori di tutto”. La lente della ghiaccio”. Ovidio non scorgeva più nulla distanza e della memoria trasfigura i luooltre le bocche dell’Istro, ma la sua inquieghi dell’origine, che assumono i contorni tudine era forse piuttosto dovuta al sentore bucolici della vita pastorale, del paesaggio di un confine liquido, di un altrove che si idilliaco e contadino (come nel Diario di un avvista soltanto nello spandersi delle acque contandino del Danubio, di Horia), o la vitalile une sulle altre. Non è, allora, per il sem-

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tà ribelle e multietnica della Brăila di Painat Istrati. Insopportabile a Ovidio, la regione del delta è dolce nella memoria di Mircea Eliade, che al seguito del padre, ufficiale dell’esercito, trascorse un pezzo d’infanzia a Cernavodă: “Nei miei ricordi, quel tempo trascorso tra il Danubio e le colline color mattone, dove crescevano rose selvatiche e piccoli fiori con petali dal colore tenue, è

tri, doppiate le Porte di Ferro, esso la costeggia piuttosto come un confine a cui un unico ponte, tra le città di Giurgiu e Ruse, restituisce la condizione di poter essere davvero attraversato, come una presenza schiva e appartata, senza incontrare l’appariscente grandezza di una capitale o la maestosa bellezza di un paesaggio fiabesco. La tocca appena, come può toccarci una soglia che non è un qui, né un là, e nondimeno sa darci un luogo e un rimpianto, l’afflizione dolente di una casa che bisognerà conservare soprattutto nel ricordo, “come se il tempo avesse una voce e la si potesse udire in un solo punto della terra: qui”.

“Nei miei ricordi, quel tempo trascorso tra il Danubio e le colline color mattone, dove crescevano rose selvatiche e piccoli fiori con petali dal colore tenue, è sempre illuminato di sole”

Mircea Eliade

sempre illuminato di sole”. Ma questa memoria trasfigurante è in fondo ancora il segno di una transumanza spirituale di cui proprio il Danubio è forse in Romania la figura più fedele, nella sua sfuggente natura di un flusso che sembra scorrere a ritroso. Del resto, è solo per trovare la propria fine – una fine, però, che è un verbo all’infinito presente – che il grande fiume entra davvero in Romania: per cinquecento chilome-

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Alta cucina Leggere di gusto

L’ARTE “DELIZIOSA” DEL DELITTO Agatha Christie, ovvero il cibo come maschera mortale di Fabio Fumagalli


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anticipo il lettore. Nella sua scrittura, ella a scrittura di libri gialli ha sempre non ha solo riversato ad abundantiam le precelato al suo interno un profondo libatezze delle vita, ma anche, com’è ovvio, legame con l’arte culinaria. Molte le ambiguità e i pericoli che a ogni piè sovolte ricette e pasti servono per far spinto si nascondono dietro l’inquietante risaltare al lettore la particolare atmosfera mondo rappresentato nel romanzo giallo. Il che pervade la trama del romanzo: in che cibo tende perciò ad assumere l’aspetto di modo ambientare personaggi e vicende di una maschera: dietro una facciata delizioun thriller in città come Parigi, Roma e New sa, come può essere quella di una torta di York (solo per citare i casi più eclatanti) senmele o di un pudding al cioccolato, può ceza, nel contempo, evocare gli odori e i sapolarsi in realtà il male, il delitto, la sottile arte ri precipui di questi ambienti? Altre volte, dell’avvelenamento. invece, è il cibo stesso A questo proposito, a presentarsi come il La “Duchessa della tornano alla mente alprotagonista della tramorte” (come Agatha cune parole della noma: esso può diventapreferiva farsi chiamare) stra giallista: “Non so re, all’occhio esperto amava la buona cucina, assolutamente nulla del detective di turno, più tagliente di una tentando sempre nei suoi sulle armi da fuoco né su come si maneggialama, più minaccioinnumerevoli romanzi no. Ecco perché ucciso di una pistola. Lo di dare dignità a una do i miei personaggi scopo ultimo del giallista sembra così esse- tradizione culinaria, quella con il veleno, che ha anglosassone, tanto il vantaggio di essere re quello di instaurare nelle pieghe dell’iningiustamente denigrata. pulito e sa solleticare la mia immaginaziotreccio, al fine di creare ne”. Tale predilezione per le sostanze veneun legame tra lettore e personaggi, un elefiche sembra derivare, oltre che da un gusto mento apparentemente innocuo che possa puramente estetico, anche da un episodio di rispondere a una passione comune ai due vita della nostra autrice, il quale ha scatenatermini della relazione. E il cibo può svolto la fantasia di numerosi biografi: durante gere perfettamente questa funzione. Non la Grande Guerra, Agatha Christie prende sembra dunque una coincidenza se Agatha servizio come infermiera nell’ospedale delChristie, madrina indiscussa del giallo, sia la sua città natale, Torquay, entrando così stata una maestra tanto ai fornelli quanto in contatto, restandone incantata, con inalla macchina da scrivere. In effetti, la “Dunumerevoli “Boccette verdi e blu… dove si chessa della morte” (come Agatha preferitrova il sonno, il riposo, l’oblio dai dolori, va farsi chiamare) amava la buona cucina, e pure la minaccia, l’omicidio, la morte imtentando sempre nei suoi innumerevoli roprovvisa…”, come ella stessa scrive in una manzi di dare dignità a una tradizione cupoesia dal titolo In un dispensario. Tornando linaria, quella anglosassone, tanto ingiustaa considerazioni meno sinistre, senza dubmente denigrata. È lecito però avvertire in

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bio Agatha fu una buongustaia fin dalla sua infanzia. Recandosi periodicamente in visita dalla prozia Margaret, suocera di suo padre, scopre nella dispensa della grande casa vittoriana un’enorme scorta di viveri che immediatamente affascina e rapisce la giovane Agatha: legumi secchi, frutta candita, burro, cioccolato, farina, chili di zucchero e qualche liquore. Tutti ottimi elementi per creare, nella smisurata fantasia delle ragazza, una torta deliziosa. Quest’ultima prende forma e sostanza in particolare all’interno di uno dei dodici romanzi dedicati al personaggio di Miss Marple (figurazione artistica, secondo alcuni acuti critici letterari, proprio della prozia Marga-

cioccolato soprannominata “Delizia mortale”. E mortale sarà proprio il suo effetto, se, dopo averla assaggiata, Bunny, che sembra essere a conoscenza di molti dettagli sull’assassinio, muore avvelenata. Ecco così svelata, in tutta la sua intrigante fascinazione, l’arte ‘deliziosa’ del delitto di Agatha Christie. Gli ingredienti che la compongono sono semplici, ma l’effetto finale è sorprendente. Innanzitutto, preriscaldate il forno a 180 gradi. Prendete 120 g di burro e mettetelo in uno stampo, passandolo in forno per scioglierlo. Mentre aspettate, prendete 100 g di uva passa e tagliate gli acini mettendoli a bagno in tre cucchiai di Cointreau (o di un altro liquore,

Il cibo tende ad assumere l’aspetto di una maschera: dietro una facciata deliziosa, come può essere quella di una torta di mele o di un pudding al cioccolato, può celarsi in realtà il male, il delitto, la sottile arte dell’avvelenamento. ret), dal titolo Un delitto avrà luogo. Qui la storia, ingarbugliata e intricata come non mai, ruota attorno a un annuncio pubblicato sul giornale locale di Chipping Cleghorn, un piccolo e ordinario villaggio inglese, nel quale viene “previsto” anticipatamente un omicidio. La scena che a noi interessa però si svolge in una cucina, a omicidio già avvenuto, dove troviamo Letitia Blacklock, proprietaria del villino “Little Paddocks” in cui è avvenuto l’orribile delitto, intenta a preparare un “dolce squisito”, una torta al

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purché di agrumi). Dopo esservi procurati 250 g di cioccolato fondente, fatelo fondere in una casseruola a bagnomaria, quindi aggiungete il burro fuso e mescolate il tutto fino a ottenere una crema omogenea. Ora, procuratevi 6 uova. Dopo averle rotte, separate i tuorli dagli albumi e unite i tuorli al cioccolato fuso. Aggiungete al tutto 100 g di zucchero. Lavorate ciò che avete ottenuto con una frusta (manuale od elettrica) fino a che il composto non sarà completamente liscio. Ora, tocca agli albumi. Mon-

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tateli a neve e incorporateli alla preparazione, versandovi inoltre 40 g di farina e 50 g di zucchero. Imburrate lo stampo con 30 g di burro, versatevi il composto che avete ottenuto, cospargete con l’uva passa scolata dal liquore e fate cuocere in forno a 180° per circa mezz’ora. Per dare un tocco speciale al piatto così elaborato, potete aggiungere della crema inglese. L’operazione è semplice: scaldate un litro di latte intero con 2 baccelli di vaniglia divisi a metà. In una ter-

rina, montate con la frusta 8 tuorli con 200 g di zucchero mentre versate il latte. Mettete il tutto sul fuoco a bassa intensità, lavorandolo con una spatola. La crema sarà pronta quando velerà la spatola. A fine cottura eliminate la vaniglia. Ora non resta che servire in tavola questo dolce, prendendo la torta e cospargendola con piccole quantità di crema inglese. Come dite? Manca qualcosa a questa “Delizia mortale”? Quello solo se gli ospiti che avete in tavola non sono graditi.

TORTA AL CIOCCOLATO (“Delizia mortale”) Ingredienti (per 10 persone): 250 g di cioccolato fondente 100 g di uva passa 6 uova 150 g di zucchero 150 g di burro 40 g di farina 40 g di Cointreau Per la crema inglese 1 l di latte intero 2 baccelli di vaniglia 8 tuorli 200 g di zucchero

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L’anima nera dell’Italia

Recensioni

Noi Diabolik. Il re del terrore di Angela e Luciana Giussani. Ufficialmente Diabolik uscì in Italia il Primo novembre 1962. Fra poco ne celebreremo il compleanno con cinquanta candeline e la Mondadori, su licenza della casa editrice Astorina, ne festeggia l’anniversario con una serie digitale di cinquanta numeri che è terminata lo scorso 12 aprile. Le sorelle Angela e Luciana Giussani sono le autrici di un’avventura per fumetti che ha attraversato l’Italia negli ultimi anni del boom economico e che ci ha preparato ad amare in un personaggio cupo, misterioso e diabolico la nostra anima più nera. Diabolik è il male che noi siamo. Un male che cambia volto, anzi che del trasformismo ha fatto la propria carta vincente. Sono trascorsi cinquant’anni dal primo numero della serie e l’omicidio della marchesa Eleonora De Semily (la prima vittima del “Re del terrore”) continua ancora a turabarci, ricordandoci quel senso di innocenza perduta che è andato via via crescendo nella società italiana con il passare dei decenni. Forse l’innocenza l’abbiamo persa, come molti sociologi hanno scritto, con l’omicidio Montesi nel 1953, primo caso di cronaca nera in Italia a popolare le pagine di tutti i giornali dell’epoca con grande clamore e annesso scandalo politico. Diabolik sembra essere lì, pronto a uscire dalle sabbie di Torvaianica. E invece uscirà dalla fantasia di due sorelle milane-

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si, con un linguaggio enfatico e un tratto accattivante in un formato tascabile, per tutti. Il male per tutti, perché i desideri di Diabolik sono i nostri sogni: la ricchezza, le belle donne, le auto, l’impunità. Forse è per questo che il personaggio delle sorelle Giussani ci colpisce e ci affascina ancora oggi, forse è per questo che quasi ne sorridiamo e la nostra paura diventa dolce e colma di ilarità. Diabolik non ci fa paura. Come potremmo avere paura di noi stessi? Allora ecco un italico sorriso dietro quelle avventure folli, un sorriso che diventa ghigno quando ci togliamo la maschera insieme a Diabolik. Dove c’è un intrigo c’è lui, dove c’è un depistaggio c’è lui, dove c’è una bella donna, Elisabeth o Eva, c’è lui. O meglio ci siamo noi. Non è stato un caso che Angela Giussani abbia cominciato a lavorare nella casa editrice del marito Gino Sansoni occupandosi di una collana per ragazzi. Le sarà servito a rendere simpatico quel personaggio così diabolico e solo con la simpatia, si sa, può darsi una catarsi, una liberazione. Le azioni sono ingigantite, le parole sono roboanti (“il giovane Garian, che in apparenza sembrava molto felice, ha una grave spina nel cuore”), i lineamenti dei visi dei personaggi sono esaltati: così entriamo nella scena e subito ne usciamo per vergogna. Siamo noi i protagonisti. Siamo noi che allora e sempre siamo Diabolik. Possiamo più farne a meno?

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LETTERATURE 2012

Appuntamenti

e gli altri eventi del mese

LETTERATURE 2012 “Letterature”, lo storico festival della capitale, taglia il traguardo delle undici edizioni dopo aver ospitato, nel corso degli anni precedenti, centinaia di scrittori italiani e stranieri. Presso la Basilica di Massenzio, al Foro Romano, verrà riproposta la collaudata formula che ha reso popolare questo evento culturale: gli autori invitati leggeranno alcuni loro testi inediti aventi come tema centrale la dicotomia semplice/ complesso. Accanto a scrittori italiani molto noti, come, ad esempio, Alessandro Piperno, Silvia Avallone ed Erri De Luca, parteciperanno anche autori stranieri del calibro di Amos Oz, Michael Connelly e Robert Hass. Proprio quest’ultimo, poeta di primo piano nel panorama letterario internazionale, inaugurerà il 22 maggio un’intera serata dedicata alla poesia italiana, con letture dei grandi poeti del secondo Novecento scomparsi nell’ultimo decennio. Dal 16 al 21 giugno èSTORIA – VIII FESTIVAL INTERNAZIONALE DELLA STORIA Ambientato a Gorizia, città da sempre crocevia di culture e lingue diverse, l’VIII Festival Internazionale della Storia vedrà la partecipazione dei più eminenti studiosi, scrittori e giornalisti che hanno fatto della Storia l’oggetto principale della loro ricerca. Figura portante dell’intera rassegna sarà quella del Profeta, colui il quale, possedendo la capacità di immaginare e progettare il futuro, è in grado di creare la Storia. Attraverso una serie di dibattiti, incontri, interviste, presentazioni di novità editoriali, spettacoli e mostre, prenderanno la parola, tra gli altri, Marcello Veneziani, Luciano Canfora, Mimmo Franzinelli, Marco Santagata, Tullio Avoledo e Corrado Augias. Come avviene dall’edizione del 2007, èStoria 2012 proporrà una specifica programmazione di viaggi storici-turistici a bordo di èStoriabus, pullmann guidato da uno storico di professione che, in veste di cicerone, accompagnerà i passeggeri alla scoperta di

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varie località del Friuli Venezia Giulia di particolare rilevanza culturale. Dal 17 al 20 maggio “PAROLE SPALANCATE – FESTIVAL INTERNAZIONALE DI POESIA” Giunto ormai alla diciottesima edizione, prende il via, al Palazzo Ducale di Genova, Parole Spalancate - Festival Internazionale di Poesia. Come ogni anno verranno organizzati oltre 100 eventi gratuiti tra letture, perfomance, concerti e incontri, che si snoderanno lungo tutto il centro storico della città ligure. Due le date salienti che caratterizzeranno l’evento: venerdì 8 giugno, dalle ore 17 in poi, avrà luogo la Notte della Poesia, che invaderà palazzi, giardini, piazze e locali di via Garibaldi e dei quartieri di Maddalena e del Ghetto; Sabato 16 giugno dalle ore 9 di mattina fino alle 2 di notte ci sarà il grande appuntamento con Bloomsday, la lettura integrale dell’Ulysses di Joyce in una ventina di luoghi caratteristici del centro storico genovese da parte di un centinaio di appassionati interpreti. Da ricordare inoltre le due produzioni originali del festival, una dedicata a Edgar Allan Poe e l’altra a Paul Valéry. Dal 7 al 17 giugno CAFFE’ COPENAGHEN Per la prima volta nella storia culturale milanese, la Danimarca prenderà possesso della capitale economica italiana. A partire dal 16 maggio si apre infatti “Caffè Copenaghen”, il primo festival dedicato esclusivamente alla cultura danese. La rassegna, per più di un mese, occuperà svariati luoghi di Milano, famosi e non: l’Apollo spazio Cinema, la Mediateca Santa Teresa, il Piccolo Teatro Studio solo per citare alcuni esempi. Sul fronte letterario, grazie all’organizzazione della casa editrice Iperborea, si vedrà la partecipazione di alcuni tra i più importanti autori danesi contemporanei: Olav Hergel, Janne Teller, Sara Blaedel e Anne Marie Mastrand-Jorgesen. Dal 16 maggio

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Tweets @gaspareamato gennaio-aprile 2012: libri comprati:2 ebook scaricati: 15.

@ViolaVenturelli Giovani che diventan o milionari autopubblic ando in formato ebook i prop ri romanzi nel cassetto.

@il_lette rino non imp orta qua nto costa gli eboo fare k, impor ta quant utenti vo o gli gliono p agarlo.

@Pianet a_eBook I #tablet co sempre p ntinuano la loro ascesa: iù lettor i di #eBo preferisc ok li ono agli eReader una rice secondo rca BISG .

nnyebook @NewsPe ook di ok: gli #eb o b e y n n le e P rano Goog e tra o n ig id o r And razion n c’è integ i bit Books: no id rta e quell i libri di ca

@nascpublish

effettivamente non ho ancora convinto mia moglie a passare agli #ebook …

@5AdicoXtina ok, scrivere sui Scrivere in ebo lle magliette: muri, scrivere su re dappertutto insomma scrive purché si legga.

Bookbugs

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pretesti Occasioni di letteratura digitale

PreTesti • Occasioni di letteratura digitale Maggio 2012 • Numero 5 • Anno II Telecom Italia S.p.A. Direttore responsabile: Daniela De Pasquale Direttore editoriale: Roberto Murgia Coordinamento editoriale: Francesco Baucia Direzione creativa e progetto grafico: Fabio Zanino Alberto Nicoletta Redazione: Sergio Bassani Luca Bisin Fabio Fumagalli Patrizia Martino Francesco Picconi Progetto grafico ed editoriale: Hoplo s.r.l. • www.hoplo.com In copertina: Francesco Fioretti L’Editore dichiara la propria disponibilità ad adempiere agli obblighi di legge verso gli eventuali aventi diritto delle immagini pubblicate per le quali non è stato possibile reperire il credito. Per informazioni info@pretesti.net

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