Pizza e Pasta Italiana - Giugno 2023

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anno XXXIV 2023 Giugno 06
— Sommario — AZIENDE 6 editoriale di Antonio Puzzi 8 prima pagina a cura della redazione 10-12 pizza news a cura della redazione ristorazione domani I nuovi professionisti della ristorazione di Giampiero Rorato Pizzaiola contadina, pizzaiola del cambiamento di Giusy Ferraina Pane nostro di Noemi Caracciolo 4 pizza e pasta italiana giugno 2023 14 30 44 27 Storie di cibo, di rinascita e tradizioni da custodire a cura di Scuola Italiana Pizzaioli 38 Il Pane (e la Pizza) di Niko di Domenico Maria Jacobone 20 Il Campionato (più bello) del mondo di Noemi Caracciolo 24 Cristian Tolu, il pizzaiolo del mondo che verrà di Antonio Puzzi Cuppone p. 37 Demetra p. 67 Di Marco Corrado Srl p. 99 Dr. Zanolli p. 13 Food and Beverage - Fuazza Fest p. 69 Gi.Metal p. 19 Host Milano p. 98 iPescaOri p. 97 Italforni pp. 3, 89 Industria Alimentare Tanagrina Srl p. 7 Lactalis - Galbani p. 2 La Torrente p. 57 Marana Forni p. 33 Millberg p. 43 Molino Agugiaro p. 59 Molino Braga p. 83 Novaltec p. 81 Refrattari Reggello - Forni Valoriani p. 41 Sacar Srl p. 47 Sanfelici p. 100 Scuola Italiana Pizzaioli p. 27 Sitta p. 35 Trinka Srl (Molecola) p. 11 Unitech p. 9 Vito Italia p. 51
5 sommario Gli antichi grani siciliani di Giampiero Rorato Orto Felice: agroecologia e cucina a Udine di Caterina Vianello 94 78 64 54 90 La parola ai pizzaioli di Noemi Caracciolo 60 Fonduta: cos'era costei? di Domenico Maria Jacobone la birra Viaggio nel Nord della Birra di Alfonso Del Forno 84 Il grano duro Senatore Cappelli di Marisa Cammarano L'emergente dell'anno. Pasquale Petrillo di Noemi Caracciolo 48 Supplì e Maritozzo, i re (dello street food) di Roma di Giusy Ferraina 68 Fuazza a cura della redazione 70 I formaggi naturali del Molise di Caterina Vianello 74 Transameria. Nel cuore verde dell’Italia a cura di Slow Food Italia le aziende informano Gi.Metal p. 18 Molino Grassi p. 53

COLOPHON

Editoriale

"Più tempo”. È quello che richiede Galadriel, la figlia di Alice (Barbara Ronchi) e Dante (Edoardo Leo) in “Era Ora”, la pellicola diretta da Alessandro Aronadio e da qualche settimana pubblicata da Netflix. “Più tempo” è ciò di cui avremmo bisogno, soprattutto quando siamo convinti che è impossibile fare qualcosa per averlo davvero. “Più tempo” è ciò che desideriamo quando ci rendiamo conto che ne abbiamo perso troppo perché – come si legge in una scena del sopraccitato film – “la vita è ciò che accade tra un progetto e l’altro”.

In questo numero, le pagine che abbiamo scritto per voi sono il nostro invito a prendervi / a prenderci del tempo, a cercare ciò che è veramente indispensabile, ciò a cui teniamo davvero. Con la rivista che avete tra le mani, entriamo ufficialmente nei mesi estivi, che sono i mesi in cui per molti di voi il lavoro diventa ancora più intenso: è giusto e doveroso ma non dimenticate mai di prendervi del tempo per voi e per chi (o quel che) amate. Anche durante questi mesi. Francamente credo che la favoletta dello chef che deve mangiare, dormire e vivere nel proprio locale per avere successo abbia davvero stancato e sia ormai rimasta nello storytelling di una classe di giornalisti che per fortuna sono distanti dalle colonne di questa rivista.

La nostra “ricerca del tempo” vi porterà allora in giro per lo Stivale pe raccontarvi storie, prodotti tipici, ricette tradizionali che rendono il Made in Italy così tanto prezioso. È il secondo anno consecutivo che dedichiamo un intero numero alla geografia delle tipicità, con l’obiettivo di dire a tutti che l’Italia è davvero una terra di eccellenze che vanno difese e tutelate. Anche dalle frodi.

L’augurio che vi faccio questo mese è di poter “essere eccellenza”, oltre che produrla o portarla in tavola. E, per riuscirvi, vi auguro di avere “più tempo”. Se vi chiedete a cosa vi serve, beh, la risposta ve la lascio dare sempre da Galadriel: “Per fare niente, ma per farlo insieme”.

Buon inizio d’estate, nio

PIZZA E PASTA ITALIANA

Mensile di Pizza, Pasta, Enogastronomia e Cultura

Edito da PIZZA NEW S.p.A.

Autorizzazione Tribunale di Venezia n.1019 del 02/04/1990

Anno XXXIV - n.6 giugno 2023 - Repertorio ROC n. 5768

DIRETTORE EDITORIALE DIRETTORE ONORARIO

Massimo Puggina Giampiero Rorato

DIRETTORE RESPONSABILE

Antonio Puzzi

SEGRETERIA DI REDAZIONE

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PUBBLICITÀ

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REDAZIONE

Via Sansonessa, 49 - 30021 CAORLE (VE) Tel. 0421/ 212348 - Fax 0421/81007 - E-mail: redazione@pizzaepastaitaliana.it www.pizzaepastaitaliana.it

PROGETTO GRAFICO

Manuel Rigo, Paola Dus, Elena Cazzuffi

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DIGITAL PUBLISHING

Maura Trolese

— Mediagraf lab

IN COPERTINA

illustrazione di Pepe Serra

STAMPA MEDIAGRAF S.p.A.

Noventa Padovana (Pd)

COMITATO TECNICO E REDAZIONALE

Marisa Cammarano, Gianandrea Rorato, Caterina Vianello, Alfonso Del Forno, Luciano Cescon.

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Pete La Chapelle (N.A.P.O. - Pizza Today, U.S.A.), P.M.Q. Steve Green (U.S.A.).

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6 pizza e pasta italiana giugno 2023

Molino Naldoni con Smorfia

vince il Better Future Award 2023

Piattaforma di riferimento per l’intera filiera dell’agroalimentare a livello Italia ed Europa, anche l’edizione 2023 di TUTTOFOOD di Milano è stata un successo di pubblico ed espositori, tema centrale la sostenibilità. La stessa fiera ha infatti avviato un progetto di misurazione e contenimento delle emissioni di CO2 derivanti da tutte le fasi del ciclo di vita dell’evento. Ma la sostenibilità si rivela essere una scommessa vinta anche per il settore delle farine italiane che, grazie al concorso Better Future Award 2023, sono state premiate tra i prodotti che offrono al mercato il massimo della qualità e naturalità nel rispetto dei principi della sostenibilità ambientale e sociale. Queste le ragioni fondamentali del grande consenso che Molino Naldoni ha ricevuto su Smorfia® grazie al Better Future Award. Nelle 3 categorie, Innovazione, Etica e Sostenibilità, Packaging, l’azienda si è classificata al primo posto su quest’ultima, con il prodotto Smorfia®. Nata da una miscela di grani di altissima qualità, Smorfia® è la Farina Molino Naldoni unica sul mercato. 100% naturale, 100% da grani italiani dedicata al pizzaiolo professionista, garantisce un impasto morbido e leggero, ad alta idratazione e a lunga lievitazione. Con il 60/65% di idratazione, Smorfia® realizza magnifici impasti da 30h di lievitazione a temperatura controllata, perfetti per la cottura a 400/450 gradi in 90 secondi. Tutto come da disciplinare internazionale ufficiale firmato AVPN, Associazione Verace Pizza Napoletana. Smorfia® sta facendo il giro del mondo ricevendo un unanime applauso da parte degli addetti ai lavori e dei pizzaioli professionisti più esigenti, italiani ed internazionali: da Parigi a Norimberga, Dubai e Mumbai, oltre che a Napoli e in tutta Italia da nord a sud! Selezionata tra i finalisti del contest Better Future Award 2023 di TuttoFood, il 9 maggio ha ricevuto il premio come primo classificato nella sezione packaging. Con Smorfia, la pizza napoletana diventa “Made In Italy” dalla semina del chicco di grano fino al piatto servito: il sogno di ogni pizzaiolo. Per questo il richiamo al libro dei sogni tanto caro alla tradizione partenopea su un pack di carta completo di dettagli di prodotto e QR code per approfondimenti utili al cliente.

Pizza a metro, famiglia

Dell’Amura: no a De.co. Vico.

"La Pizza a metro fu ideata il 4 settembre 1959 da Gigino. Tuteleremo nostra ricetta in ogni sede. Chi è stato primo resterà per sempre primo: nessuno può impedire a nessuno di fare una pizza e di venderla al metro, ma la ricetta originale e autentica è quella che fu inventata da Luigi Dell’Amura, conosciuto come Gigino, il 4 settembre 1959. Un prodotto che ha fatto la storia della pizza segnando una svolta che è poi rimasta intatta nel tempo e che ha fatto la storia, diventando perciò tradizione”.

Così la famiglia Dell’Amura, titolare di “Pizza a Metro-l’Università della pizza”, lo storico locale vicano conosciuto in tutto il mondo, in merito alla decisione del Comune di Vico Equense di istituire una De.Co. (Denominazione di Origine Comunale), per la “Pizza al Metro, prodotto tipico di Vico Equense”.

“Se il Comune di Vico, come operazione di marketing territoriale, vuole istituire una De.Co. per la pizza ben venga, ma va detto che si tratta di una pizza diversa da quella famosa in tutto il mondo, cioè quella ideata da Gigino e a tutt’oggi venduta esclusivamente all’Università della pizza, cioè nello storico locale di via Nicotera (Pizza a Metro da Gigino-l’Università della Pizza). Questa De.Co. non identifica la nostra ‘pizza a metro’ che ha una ricetta e canoni ben precisi e unici. La denominazione così come da loro proposta, identificherà, se mai, una pizza vicana nata sull’onda del successo di pizza a metro ma che ne rappresenta solo un prodotto similare”.

“Il provvedimento così com’è - dicono gli eredi di Gigino (i figli e i nipoti) - estenderebbe di fatto la tutela a tutte le pizzerie che a Vico propongono la pizza non tonda ma rettangolare giocando sull’equivoco del nome. Tutti possono servire oggi una pizza al metro, ma solo all’Università della pizza si può degustare la pizza secondo la tradizione di Gigino tramandata di generazione in generazione. La ricetta originale e i segreti di produzione e di lavorazione della Pizza a metro di Gigino sono nella nostra cassaforte oltre che nella nostra memoria giacché fu il nostro avo ad introdurre nel mondo della pizza un nuovo modo di preparare l’impasto e servirlo”.

a cura della redazione PRIMA PAGINA 8 pizza e pasta italiana giugno 2023
www.pizzametro.it
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a cura della redazione

De Cecco: un francobollo per i 130 anni negli Usa

Il Ministero delle Imprese e del Made in Italy celebra i 130 anni di attività di De Cecco nel mercato americano. Il riconoscimento di questa lunga storia arriva con un francobollo emesso dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy presentato lo scorso 4 maggio a Roma dal Ministro Urso e dal Sottosegretario di Stato con delega alla filatelia Fausta Bergamotto alla presenza di Giovanni Machetto responsabile della Filatelia di Poste Italiane e Paolo Cento, Presidente del Poligrafico e Zecca della Stato. Si tratta del secondo riconoscimento filatelico dopo l'emissione del francobollo del 2016 che celebrava i 130 dalla fondazione della De Cecco.

Il riferimento storico del francobollo presentato oggi, è al 1893, quando i maccheroni e i vermicelli De Cecco vengono premiati con la medaglia d’oro “per la struttura superiore, il colore e la tenacità dopo la cottura” nel corso dell’Esposizione Universale di Chicago, l’Expo internazionale voluto dall’amministrazione statunitense per celebrare il quarto centenario dalla scoperta dell’America. Da allora la qualità superiore della pasta De Cecco è diventata sinonimo eccellenza e punto di riferimento internazionale anche per i concorrenti.

La storia imprenditoriale della famiglia De Cecco risale al 1831, quando Nicola Antonio De Cecco avviò la sua attività di molitura a Fara San Martino. Nel 1886, suo figlio Filippo Giovanni De Cecco iniziò a produrre pasta con gli ingredienti perfetti che aveva a portata di mano: la semola di alta qualità che suo padre produceva e l'acqua pura della sorgente della Majella, e poi la selezione rigorosa dei migliori grani.

Ma è nel 1888 che Filippo ebbe l’idea che cambiò per sempre la De Cecco e tutto il mondo della produzione della pasta. Ideò, progettò e l'anno successivo mise in funzione il primo sistema artificiale di essiccazione ad aria calda. Questa invenzione rivoluzionò la produzione della pasta, poiché rese il processo più veloce, più controllato e più sicuro. Inoltre estese la durata del prodotto, che così manteneva inalterate le caratteristiche organolettiche: in questo modo la pasta De Cecco poteva essere spedita in paesi lontani come gli Stati Uniti. E i risultati non tardarono a venire.

Molini Pivetti: con il progetto Foodservice, il professionista horeca è sempre più centrale

La figura professionale del pizzaiolo è molto cambiata nel tempo. Oggi è a tutti gli effetti un protagonista della ristorazione che si è specializzato con impegno, conquistando un alto profilo riconosciuto. La pizza si è conquistata un’investitura gastronomica, ma si è saputa articolare in una variegata gamma di declinazioni. Forme, farciture, metodi di cottura l’hanno resa un alimento in grado di vestire più abiti, mantenendo comunque ben saldo il legame con le radici della tradizione. Il pizzaiolo contemporaneo è un artigiano padrone della sua arte che crea un prodotto distintivo per scelta delle materie prime e identità territoriale. Le pizze Romana, Napoletana ed Emiliana sono solo un esempio eclatante di questo legame con le aree geografiche.

Per Molini Pivetti, azienda di Renazzo (Fe) fondata nel 1875 e guidata dalla quinta generazione della famiglia, l’universo Horeca rappresenta il terreno d’azione per eccellenza, in quanto trasforma in prodotti gastronomici il frutto della sua filiera produttiva: la farina. Una filiera tracciata e controllata in tutte le sue fasi, garantendo la totale italianità dei grani utilizzati per la produzione, dal campo alla macinazione. Una filiera legata al luogo di origine, dove la stretta collaborazione tra azienda e agricoltori ne è la colonna portante. Una garanzia per i professionisti del mondo pizza, che diventano ancor più centrali per Molini Pivetti con l’avvio del Progetto Foodservice. L’operatore professionale vede soddisfatta l’esigenza di sentire al suo fianco l’azienda per quanto riguarda la parte tecnica, il prodotto e il territorio.

Con Progetto Foodservice Molini Pivetti punta con decisione i riflettori sulla pizza e presenta la linea Special che accoglie 5 referenze di farina. La pizza Napoletana è rappresentata dalla farina “Nafavola”, grano tenero Tipo 0 nelle varianti W270 e W 320. Fa parte della famiglia Special anche la novità “Incanto”, farina di Tipo 0 con germe di grano dedicata ai prefermenti sia liquidi sia solidi e agli impasti diretti. La farina “Maggica”, Tipo 0, è stata studiata invece per la pizza alla pala e in teglia e la Tipo 00 “Sorbole” per la tipica pizza croccantina emiliana.

PIZZA NEWS 10 pizza e pasta italiana giugno 2023

a cura della redazione

Il “Rome Cavalieri, A Waldorf Astoria Hotel”

celebra il sessantesimo anniversario con una pluristellata cena di gala

Il “Rome Cavalieri, A Waldorf Astoria Hotel”, magnifico resort che domina lo skyline della Città Eterna, celebra i suoi 60 anni con una serie di attività entusiasmanti. Prima tra tutte una cena di gala unica, che ha visto Heinz Beck lavorare a sei mani con altri due chef a tre stelle Michelin: Jacob Jan Boerma e Paolo Casagrande. Lo specialissimo evento, su invito, si è tenuto l’8 maggio presso La Pergola, in una cena in cui le creazioni di Heinz Beck, fusione tra creatività, genio, salubrità, prodotti pregiati e sapori autentici della tradizione, sono stati affiancati dai piatti degli altri due chef, in una sinfonia di gusto e bellezza assolutamente sublimi. Da una parte Jacob Jan Boerma, chef olandese che traduce le esperienze acquisite in tutto il mondo in piatti cosmopoliti e creativi, e dall’altra Paolo Casagrande, chef italiano naturalizzato spagnolo, di formazione cosmopolita e famoso per le sue interpretazioni eleganti e raffinate, in un connubio tra radici mediterranee italiane e territorio catalano. I due chef di fama internazionale hanno dialogato con Heinz Beck, componendo a sei mani il menu per una cena veramente straordinaria. Ecco i dettagli: la cena ha avuto inizio con “Scarola cotta agli ultrasuoni con aragosta, la sua emulsione e mandorle” di Heinz Beck, con “Scampo tandoori, carote in diverse consistenze, kaffir, passion ginger e physalis marinati” di Jacob Jan Boerma e con “Insalata tiepida di gamberi rossi e frutti di mare, rutabaga, animelle croccanti e agrumi” di Paolo Casagrande. Si è proseguito con i “Tortellini ripieni di salsa genovese con carciofi e tartufo nero” di Heinz Beck, il “Rombo cotto a 45°, asparagi selvatici olandesi, crema di formaggio di capra, buerre blanc al levistico e vinaigrette di vadouvan” di Jacob Jan Boermia, con il “Filetto di bue al carbone, cavolo nero e tuberi con scalogno e salsa al Porto” di Paolo Casagrande. Si è concluso con “Latte, pane e cioccolato” di Heinz Beck. Tra gli ospiti presenti molti rappresentanti delle istituzioni e attori e registi tra cui: Alessandro Roja, Luca Guadagnino, Cinzia TH Torrini, Sergio Castellitto con Margaret Mazzantini, Pietro e Maria Castellitto, Bruno Vespa.

Agenzia ICE promuove l’agroalimentare italiano a Londra. L’export italiano verso UK vale 28 miliardi di euro. In testa il beverage con un +18,7% rispetto al 2021

Si è svolto lo scorso 28 aprile a Londra il Workshop on Italian Agribusiness, l’evento di promozione dell’industria agroalimentare italiana di Agenzia ICE, a cui hanno preso parte il Ministro dell’Agricoltura e Sovranità Alimentare, Francesco Lollobrigida, e il Presidente di ICE, Matteo Zoppas. Al workshop hanno partecipato 60 aziende italiane, con le rispettive associazioni di categoria, e 132 buyer del settore. L’evento si inserisce nel piano di azione di Agenzia ICE per la promozione delle imprese italiane in Regno Unito, che prevede lo stanziamento di 7 milioni di euro nel 2023, per investimenti in campagne di comunicazione e progetti trasversali volti ad agevolare gli scambi tra i due Paesi. Per il comparto, il Regno Unito è infatti un mercato strategico per l’Italia: nel 2022, l'export italiano di prodotti agroalimentari nel Paese ha raggiunto la cifra di 3,6 miliardi di sterline, rappresentando l'8,3% del totale delle esportazioni italiane nell’anno. L'Italia è il sesto esportatore di beni agroalimentari verso UK, con una quota di mercato pari al 6,3% e, nello specifico, è il primo fornitore di formaggi, pasta, pomodori e conserve di pomodoro, il secondo di vino e olio e il quinto di frutta e verdura.

“La presenza del Premier Giorgia Meloni e del Ministro all’Agricoltura Francesco Lollobrigida, insieme ad una così corposa partecipazione di aziende italiane, è l'ennesimo segnale di come il Regno Unito sia un partner commerciale di fondamentale importanza per il nostro Paese: ne è una riprova il MoU (Memorandum of Understanding) firmato dal Ministro degli Esteri Antonio Tajani con il Segretario di Stato per le Imprese e il Commercio del Regno Unito, Kemi Badenoch. Quella di oggi è stata una giornata proficua per fare networking con le imprese… Oltre alla promozione di fiere e all’attività di business matching, Ice assiste le aziende che vogliono esportare nonostante le difficoltà post Brexit” ha commentato Matteo Zoppas, Presidente di ICE.

PIZZA NEWS 12 pizza e pasta italiana giugno 2023
PLATEA ROTANTE ORAANCHECON FATTO IN ITALIA, AMATO NEL MONDO.

I NUOVI PROFESSIONISTI DELLA RISTORAZIONE

14 pizza e pasta italiana giugno 2023
domani
di Giampiero Rorato
Ristorazione

Per meglio capire in quale direzione vada il mondo della ristorazione desidero ricordare ai nostri lettori due ampi servizi giornalistici apparsi sulle riviste specializzate: il primo all’inizio della pandemia, mentre il secondo è uscito solo qualche mese fa. Nel primo si raccontava dei favolosi incassi dei ristoranti stellati, con i più importanti che mettevano in banca annualmente cifre sbalorditive. Il servizio giornalistico più recente raccontava invece della crisi che ha colpito i ristoranti più famosi, a cominciare da quelli con tre stelle, alcuni dei quali, sia in Italia che all’estero, hanno dovuto ridimensionarsi o chiudere (come El Bulli di Ferran Adrià e il Noma di René Redzepi) per troppo passivo o per insostenibilità dei costi. Allora è da chiedersi se conviene ancora che un serio professionista della ristorazione insegua disperatamente le stelle o non è forse meglio, come fece Gualtiero Marchesi, impegnarsi a valorizzare al meglio la propria alta professionalità e il proprio locale, cancellando le stelle dal proprio ristorante?

Ci sono stati in Francia dei cuochi che per la perdita d’una stella si sono addirittura suicidati e la domanda che molti in quei casi si sono fatti: ne è valsa la pena? Non è certo colpa della Guida Rossa se sono successi suicidi e fallimenti, penso piuttosto che i media – stampa e TV – sulle stelle ci abbiano giocato e continuino a giocarci molto e le abbiano pompate fin quasi a farle scoppiare, mettendo in difficoltà, a volte molto seria, dei bravissimi cuochi, le loro aziende e le loro famiglie.

VOLTIAMO PAGINA

Credo sia ormai ora che la stampa di settore compia una seria riflessione non tanto sulla professionalità dei cuochi in cucina, ma sugli orpelli e i barocchismi e gli intrallazzi, spesso vergognosi, che ostacolano la regolarità d’un lavoro che può assicurare ampie soddisfazioni professionali ed economiche anche senza stelle, cappelli, bottiglie e cose simili. Esiste, infatti, in Italia una ristorazione eccellente anche senza stemmi, stelle e applausi delle guide, non per nulla la ristorazione italiana è famosa di per sé stessa nel mondo ed è una delle voci più importanti dell’economia del nostro Paese, grazie anche a un turismo gastronomico che è il vero e più serio riconoscimento internazionale del valore intrinseco della cucina italiana. Ed è poi da chiedersi se stelle, cappelli, bottiglie, calici, ecc. siano più utili o più dannosi alla ristorazione italiana nel suo complesso. In verità in passato le guide gastronomiche si limitavano ad elencare i locali, prendendo atto con voti, cappelli o stelle del loro valore, ma oggi sembra che a dettar legge siano in molti casi le guide.

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Ristorazione domani

LE COLONNE DELLA RISTORAZIONE

Come questa rivista ripete da oltre tre decenni, gli elementi che caratterizzano e danno valore alla nostra ristorazione sono: l’ottima materia prima, l’alta capacità operativa del personale, la professionalità del servizio.

L’Italia ha, lungo lo stivale e nelle sue isole, gli orti fra i migliori al mondo, in assoluto. E li ha perché la posizione geografica e climatica è molto favorevole e consente di poter produrre una grandissima varietà di ortaggi in ogni stagione, oltre alle erbe spontanee di campo sia in pianura che in

montagna, alla gran varietà di funghi e alla presenza di tartufi, anche questi spontanei che danno un tocco in più a numerosi nostri piatti. Se poi pensiamo agli straordinari prodotti orticoli del nostro Sud, all’assoluta eccellenza del nostro olio extravergine d’oliva, alla ricchezza dei nostri salumi e formaggi, alla varietà e bontà dei nostri vini, ci rendiamo immediatamente conto che la cucina italiana ha la fortuna di avere una varietà e qualità di materia prima che non esiste altrove.

Gli uomini e le donne di cucina

Poi ci sono gli “uomini e le donne di cucina”, il personale che lavora per preparare la materia prima, assemblarla, trasformarla con gli strumenti e le tecnologie oggi possibili, in preparazioni gastronomiche e in questo settore c’è una tradizione che inizia nella Roma dei Cesari e giunge fino a noi in una continuità bimillenaria che non esiste in nessun’altra parte del mondo, eccezion fatta per la Cina che ha anch’essa una cultura e delle splendide modalità operative, immutate da secoli se non da millenni.

L’Italia, lo sappiamo bene, ha una tradizione di professionisti straordinari, fin dai tempi in cui le cucine dei patrizi dell’antica Roma erano laboratori di alta ristorazione, con prodotti che arrivavano

dalle campagne d’attorno ma anche da molto lontano, trasformati in piatti raccontati da numerosi autori del tempo, ancor oggi letti e studiati. Sarebbe poi facile ripercorrere la storia delle cucine dei castelli medioevali; dei palazzi dei signori del Rinascimento; della ricca borghesia mercantile dei secoli successivi per arrivare ai giorni nostri, scoprendo una ininterrotta continuità professionale che è un patrimonio storico e culturale che solo l’Italia possiede. Come dire che la Scuola di cucina italiana ha una ricchezza di contenuti, di tecniche operative e di regole ben precise che hanno permesso e permettono ancor oggi a tanti nostri cuochi di essere famosi nel mondo ed ospitare alle proprie tavole gourmet e personalità di ogni continente.

16 pizza e pasta italiana giugno 2023

I professionisti del servizio

Il terzo elemento è la professionalità del servizio. Tema molto delicato. Si parla e si scrive troppo poco di chi fa da mediatore tra la cucina e i commensali e questo è un male. Per “mediatori” intendo direttori di sala, maître, sommelier, camerieri, ma anche receptionist, guardarobieri, personale di pulizia, ecc. Se nei piccoli ristoranti il cameriere è “tutto” in sala, cioè riceve le comande, porta i piatti, serve i vini, sbarazza i tavoli, pulisce e riprepara i tavoli controllando le stoviglie, ecc. nei locali più prestigiosi ogni persona che lavora in sala ha il suo ruolo e deve svolgerlo in modo ineccepibile. E non è scritto in nessuna parte che chi entra in sala come cameriere debba andare in pensione come cameriere. E quando succede è un insulto al lavoro del personale.

Non è questo il momento per una seria, ampia e severa riflessione sul personale di sala e sulla sua possibilità di “fare carriera”. Lo vedremo in altro momento, trattandosi di un problema sul quale troppi ristoranti, specie quelli turistici, non danno l’importanza che merita, specie in un periodo nel quale molti giovani, anche quelli usciti dalle Scuole alberghiere, hanno poco desiderio di avvicinarsi a queste professioni.

PROBLEMI APERTI

Il primo e più importante problema riguarda la riforma delle scuole professionali. Già in diversi Istituti Alberghieri di Stato e in tante Scuole Alberghiere (CFP) ci sono lezioni teoricopratiche dedicate alla pizza. Per far appassionare gli studenti degli Istituti e delle Scuole Alberghiere non basta sapere ciò che si insegna, ci vuole passione, amore per la professione e la visione della complessa realtà di questo mondo del lavoro da far conoscere fin da subito ai ragazzi e alle ragazze che si iscrivono a queste scuole. E tutto ciò riguarda anche chi si prepara a diventare pizzaiolo. E, per questi ultimi serve di più, molto di più, visto che la pizza è oggi il piatto italiano in assoluto più diffuso nel mondo.

Poi c’è il problema dell’apprendistato e dei contratti di lavoro, specie quelli stagionali, i più elusi, per la qualità dei compensi e, spesso, per l’esorbitante cumulo di ore di lavoro. E aggiungo che in molti casi c’è poca attenzione delle amministrazioni locali per queste attività che vanno sostenute e non penalizzate con divieti e balzelli di vario tipo.

E serve, prima d’ogni altra cosa, una seria riflessione sul perché i giovani siano restii a dedicarsi al lavoro nei ristoranti e nelle pizzerie. E, con questo, si ritorna al problema delle scuole rimaste abbastanza ferme, non bastando più insegnare a far bene da mangiare e a servire bene a tavola, questa è solo una parte dell’insegnamento, come abbiamo qui sopra accennato e come vedremo prossimamente. Poi servirebbe una scuola per i titolari di ristoranti e pizzerie. Ancora troppi imprenditori non sanno trattare con umanità i propri dipendenti, anche se ce ne sono di bravissimi che dovrebbero essere invitati dalle Associazioni di categoria a parlare ai colleghi insegnando come non perdere i dipendenti.

Su questi tempi c’è molto altro da dire se vogliamo veder crescere la ristorazione italiana per renderla capace di conservare in futuro – visto anche l’esplosione di diverse altre cucine in ogni continente – l’eccellenza qualitativa e il prestigio conquistato in duemila anni di storia.

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LE AZIENDE INFORMANO

Gi.Metal lancia Napoli: la nuova pala dedicata ai Campioni

T. 0573 1943680

M. inform@gimetal.it

Gi.Metal non smette di sorprendere e lancia Napoli, la pala professionale per la pizza napoletana. Omaggio ai Campioni della città e ai pizzaioli che ogni giorno danno valore alla tradizione napoletana, la pala Napoli celebra, al di là di ogni confine geografico, l’essenza stessa della “napoletanità.”

È con questo spirito che l’azienda toscana ha ideato un prodotto all’avanguardia, che interpreta, in ogni dettaglio, i valori di una città unica e l’amore per una pizza celebre nel mondo.

La pala Napoli unisce tecnologia e progresso a un design moderno e accattivante.

Il manico S.P.C. (Special Powder Coated), di colore celeste, si ispira all’inconfondibile cromia del cielo e del mare del Golfo di Napoli.

I 3 iconici rivetti si tingono del tricolore italiano, simbolo della qualità del made in Italy Gi.Metal.

A dare ulteriore carattere alla pala, il gagliardetto tricolore all’estremità inferiore del manico.

E, infine, per i pizzaioli alla ricerca di un prodotto unico, la pala sarà disponibile anche con un’incisione personalizzata.

La pala Napoli è stata progettata, nella forma e foratura, pensando alla gestualità tipica dei pizzaioli della tradizione napoletana, che sono soliti far salire e lavorare il disco di pasta direttamente sullo strumento.

La testa, in alluminio S.H.A., garantisce alla pala massima resistenza al calore, leggerezza, durata e scorrevolezza.

La pala è disponibile in tre diverse misure di testa (33cm, 37cm, 41 cm) e in tre differenti lunghezze di manico (60 cm, 120 cm, 150 cm)

Scopri Napoli e scegli l’eccellenza! Vai al sito www.gimetal.it

www.gimetal.it
GI.METAL
18 pizza e pasta italiana giugno 2023

La nuova pala per pizza di Gi.Metal, dedicata ai Campioni!

Garanzia Made inItal y

TRADIZIONE CONTEMPORANEA

Il Campionato (più bello) del mondo

L’Italia è un paese ricco di bellezze incomparabili i cui simboli si esplicano attraverso arte, cultura e tradizione. Esempio lampante: la pizza. Un piatto i cui colori, profumi e sapori rappresentano un emblema per tutti gli Italiani. Che sia tonda classica, napoletana STG, in teglia, senza glutine o al padellino, la pizza è un piatto che vale la pena celebrare come prova a fare il “nostro” Campionato Mondiale della Pizza che, giunto alla sua trentesima edizione, quest’anno ha accolto ben 711 sfidanti provenienti da 51 paesi (52,13% Italia seguiti da Francia, USA, Portogallo, Spagna e Ungheria).

20 pizza e pasta italiana giugno 2023
EMILIA ROMAGNA

Un turbinio di persone, dunque, con spazi espositivi, degustazioni, inviati della stampa sguinzagliati ad ogni angolo e, ovviamente, tanti spazi destinati alla competizione. Due lunghissimi walls hanno accompagnato anche quest’anno i presenti: uno con i nomi dei vincitori delle prime 29 edizioni, l’altro con tutte le copertine della nostra rivista.

Le gare

Al centro dell’azione vi sono state ovviamente le gare, introdotte dall’inossidabile Johnny Parker, accompagnato dalla vivace Patrizia Desideri. Con loro, nel cuore del PalaVerdi, i giudici divisi in quelli addetti ai forni (44) e quelli addetti ai tavoli (79). Per dare qualche numero: ogni giudice ha fatto 28 assaggi al giorno per un totale di una pizza e mezza. “Beati loro”, certo… ma non sempre, verrebbe da dire. Ascoltando commenti di alcuni giudici, non è stato difficile percepire la palpabile indecisione su quale pizza fosse la più meritevole fra le tante. Sintomo di variegate bontà ma anche di rispetto per i canoni prescritti: giusto abbigliamento, tempi di cottura, assenza di qualsivoglia oggetto ornamentale, pulizia, tecnica… tutti elementi fondamentali.

Buona parte dei concorrenti si è mostrata fermamente convinta del claim: “anche l’occhio vuole la sua parte”. Qualcuno ha addirittura ben pensato di presentare la propria pizza accompagnata da piantine, statuine e oggetti più strambi: una vera goduria per gli occhi… e per i commenti dei presenti!

Il Pizza World Forum

Come ormai consuetudine del Campionato, una parte importante dell’evento è stata dedicata al Pizza World Forum, uno spazio destinato a seminari e laboratori. Durante uno di questi (con Alfonso Pecoraro Scanio, Fondazione Univerde e Campagna Amica; Romolo Verga, Demetra; Riccardo Agugiaro, Agugiaro & Figna Molini e Alessandra Savina, Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo), si è discusso di sostenibilità. Un tema forte e per il quale quest’anno al Campionato è stato istituito un premio speciale: “La pizza del cambiamento”, realizzato in collaborazione con la farina “Le 5 Stagioni” di Agugiaro & Figna Molini. A ricevere il premio è stata la giovanissima Giulia Vicini con la sua “Terra-Terra”. Il fatto che abbia vinto una ragazza di soli 19 anni è, a mio personale avviso, sinonimo di speranza. Oggi la parola “sostenibile” è fin troppo abusata e il più delle volte rappresenta una maschera che si indossa per convenienza mentre il progetto del Premio “La pizza del cambiamento” ha proprio l’obiettivo di esaltare il valore reale di questa parola e delle azioni a essa correlate. Un altro incontro degno di nota è stato quello durante il quale si è discusso del futuro della pizza napoletana con la partecipazione di Franco Manna (fondatore del marchio Rossopomodoro), Antonio Pace (fondatore e presidente Associazione Verace Pizza Napoletana) e il decano dei pizzaioli napoletani Antonio Starita. Ad animare la discussione, sono stati i diversi punti di vista su cosa voglia dire oggi “pizza napoletana” ma soprattutto l’evidente sentimento di tutti nel voler percorrere un tratto di strada condiviso per la valorizzazione di uno dei nostri più importanti patrimoni gastronomici e culturali.

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Le emozioni che fanno la differenza

Ciò che ogni anno lascia senza parole chi vive il Campionato è la tempesta di emozioni che scaturisce da questo appuntamento. Credo di non esagerare nel dire che se un poeta o un pittore si fossero trovati lì senza dubbio ne avrebbero ricavato un’opera d’arte. Ho potuto leggere espressioni di paura, stupore, felicità, eccitazione sul volto di ognuno… e anche a me, in più di un’occasione, è scesa ben più di una lacrimuccia. Lo ammetto: sono una tipa sentimentale e vedere tra i concorrenti ragazzini increduli di essere lì, adulti che si sono abbandonati a un pianto di felicità accompagnato da fragorosi applausi; figli fieri intenti a riprendere il proprio papà o la propria mamma e intere famiglie esultanti ha fatto nascere in me una profonda commozione. E non ero la sola. Basti pensare che qualcuno si è fatto scappare la pizza dalla pala ma si è poi ripreso con orgoglio e convinzione mentre qualcun altro non riusciva a parlar bene per la troppa agitazione: una fiera delle emozioni, insomma!

22 pizza e pasta italiana giugno 2023
EMILIA ROMAGNA
Sì, questo è stato davvero il Campionato più bello del mondo.

Romagna nostra Sette.

È questo il numero delle alluvioni registrate negli ultimi dieci anni in Emilia-Romagna. Ventinove quelle in tutta Italia nello stesso periodo. Vuol dire che un fenomeno su quattro è stato vissuto dalla regione che oggi è nuovamente sommersa dalle acque. Si tratta evidentemente di eventi straordinari, non certo perché imprevedibili ma soprattutto perché dirompenti. Eppure, ogni volta restiamo sconvolti dalla potenza della natura e assistiamo a dichiarazioni quantomeno surreali da parte delle istituzioni e degli opinion leader dei mezzi di comunicazione. L’alluvione non si può arrestare ma i suoi effetti possono essere mitigati e di questo dobbiamo convincerci. Basti un esempio per tutti, senza voler necessariamente andare a parlare di suolo reso duro dalla siccità, mancata cura delle aree forestali, scioglimento dei ghiacci ecc… Secondo uno studio pubblicato da Nature, infatti, nei fiumi europei sarebbe presente più di un milione di ostacoli al decorso naturale dell’acqua e questo ovvia-

mente favorirebbe l’accumulo dei detriti e il rischio di esondazione. Per questo, l’Unione europea ha lanciato l’iniziativa “Dam removal Europe” ma l’Italia negli ultimi due anni non ha registrato alcuna rimozione di barriere superflue mentre negli altri Paesi ne sono state rimosse 325. È davvero tutta colpa della natura, dunque?

Bene, ora però non è il momento delle polemiche ed è opportuno lasciare le riflessioni alle opportune sedi. È il momento di far sentire la nostra vicinanza a chi ha subito danni ingenti, come nel caso dei Molini Spadoni e Naldoni, di Progeo o di ‘O Fiore Mio Hub a Faenza, simbolo delle numerose pizzerie e ristoranti che devono trovare fondi e forza per ricominciare. Per supportare tutti loro, abbiamo deciso di rilanciare la raccolta fondi istituzionale a supporto della Romagna alluvionata: l’Iban per la donazione, intestato a “Agenzia per la sicurezza territoriale e la protezione civile dell'Emilia Romagna” è IT69G0200802435000104428964. La causale da indicare è “Alluvione Emilia-Romagna”.

IT69G0200802435000104428964.

La causale da indicare è “Alluvione Emilia-Romagna”.

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L'Iban per la donazione, intestato a “Agenzia per la sicurezza territoriale e la protezione civile dell'Emilia Romagna” è

Un sognatore sul tetto del mondo Cristian Tolu, il pizzaiolo del mondo che verrà

Nato a Cagliari nel 1987, Cristian Tolu – vincitore del Campionato del mondo 2023 nella “Pizza a due” ma anche a capo del migliore Pizza Team – è il “dominus” incontrastato delle competizioni di pizza in Italia e nel mondo. Cristian vive i primi anni della sua vita in un piccolo paesino del sud della Sardegna, Maracalagonis, conosciuto per l’antica tradizione dolciaria di cui sua nonna materna è stata una delle più celebri eccellenze del territorio. “Questa – dice Cristian – è stata per me una gran fortuna in quanto mi ha permesso fin da piccolo di poter assaggiare, preparare e sperimentare, conoscendo nei minimi dettagli quelle che sono le materie prime fondamentali della mia tradizione e di farmi appassionare al buon cibo”. Da adolescente, si trasferisce a Quartu Sant’Elena, uno dei luoghi celebri della nostra storia nazionale perché è il porto da cui salparono le mille camicie rosse guidate da Peppino Garibaldi.

24 pizza e pasta italiana giugno 2023
di Antonio Puzzi
“Sono sempre stato un sognatore. Ho sempre avuto, fin da bambino, il vizio di pormi dei traguardi importanti e di comportarmi come se i limiti non esistessero. Penso di essere tanto determinato e sicuramente abbastanza carismatico”.
SARDEGNA

Come e perché ti appassioni alla pizza?

Vengo da una famiglia di grandissimi lavoratori dalla quale, grazie anche a mia madre, capisco fin da subito quanto sia importante l’indipendenza. Finito il percorso di studi di base, mi sono iscritto immediatamente ad un corso formativo al Forte Village Resort dove sono riuscito a fare due anni di convitto e studio per poter entrare in cucina. Penso sia stata la mia fortuna perché questo mi ha consentito di studiare e di imparare immediatamente un mestiere che mi avrebbe poi permesso di avere “l’indipendenza” tanto sognata. Forse il fidanzamento in tenera età con quella che oggi è mia moglie e il fatto che mio padre era pizzaiolo di grande esperienza sono i “responsabili” del mio allontanamento dai fornelli per via degli orari e dell’avvicinamento al forno a legna. Così, unendo quello che mi piaceva fare “cucinare” a quello che oggi è diventata la mia più grande passione, ho creato il mio giusto connubio tra la cucina e la pizzeria.

Parlare di pizza in Sardegna non è

ma far parlare di pizza della Sardegna all’Italia e

mondo potrebbe apparire una missione impossibile: come ci sei riuscito?

La Sardegna vanta una grandissima tradizione gastronomica, soprattutto per quanto riguarda la panificazione. È abbastanza facile trovare del buon pane di grano duro un po’ dappertutto, lo abbiamo quasi nel DNA. Ricorderò sempre in casa di mia nonna la ciottola con “Su Xetti”, il lievito madre che gelosamente custodiva per i lievitati e alcuni tipi di dolci. L’isola, come da conformazione geografica stessa, soffre del grande problema legato appunto all’insularità. Fin da piccoli abbiamo il problema degli spostamenti: io ho voluto al contrario esorcizzare questa situazione traendone vantaggio. Vengo da una zona abbastanza spopolata, dove fare qualcosa di buono è difficile ma fare qualcosa di ottimo è quasi impossibile. Per me allora è diventata una missione riuscire ad ottenere tutti questi risultati: il mio obiettivo era quello di portare i ragazzi a capire che nella vita tutto si può ottenere: servono “solo” studio, devozione e tanto, tanto lavoro. Dopo, ogni cosa diventa possibile. Devi solo volerlo veramente. Oggi essere riuscito in tanti traguardi è motivo di orgoglio per la mia gente e soprattutto per i miei figli che regolarmente tifano per me e mi preparano i loro disegni portafortuna. È il vero senso della mia sfida: lasciare un segno e dare speranza.

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facile
al

al Campionato

Mondiale della Pizza?

Il Campionato Mondiale della Pizza di Parma è davvero l’Olimpo delle competizioni che riguardano il mondo della pizza. Solo una volta che vinci a Parma puoi definirti Campione del Mondo. Avevo un obiettivo, che era quello di salire sul podio con la mia Squadra: il Cerevisiae Team, un gruppo di ragazzi che si è formato appunto nelle competizioni a cui abbiamo partecipato. Ci siamo riusciti. Parma è la tappa più importante per tutti, non solo per me. Tutti i colleghi con cui regolarmente sono in contatto lo dicono. Riuscire a salire sul gradino più alto per ben due volte in un solo giorno è stato un sogno. Ho pianto per due giorni di fila. Ancora sono incredulo.

Cos’è la pizza per te?

Questa è una bella domanda. Penso che la pizza sia l’emblema della condivisione. Si divide in spicchi per essere gustata da più persone e, nel mondo, in generale è così. La pizza è riscatto sociale se penso a tutti i quartieri delle periferie dove i ragazzi trovano lavoro nella ristorazione e appunto nelle pizzerie. La pizza è amore perché - diciamocelo chiaro - se non la ami, non puoi fare questo lavoro. La pizza è unione perché unisce la tradizione all’innovazione, unisce i popoli, unisce le persone intelligenti. La pizza è il piatto perfetto, insomma.

26 pizza e pasta italiana giugno 2023
Perché uno che “ha vinto tutto” come te partecipa
SARDEGNA

Questa penso sia la domanda più difficile. Se penso agli ingredienti, ho l’imbarazzo della scelta. Nel corso del tempo, ho avuto modo di dedicare varie pizze a tutti i componenti della mia famiglia: mia nonna, mia mamma, i miei figli… Ora che ci penso, ancora non l’ho dedicata a mia moglie ma ora è arrivato il momento giusto, anche perché se non fosse per lei, riuscirei a fare ben poco. Venendo comunque alla risposta, in termini di categoria, penso sia la pala romana. Diciamo che è quella che in assoluto mi appassiona di più. Nonostante io abbia maggiormente lavorato con la pizza classica, la pizza alla pala è quella che mi intriga maggiormente. Penso che sia quella più versatile, anche perché si presta di più all’uso di un mix di cereali: possiamo fare vari blend, possiamo inserire i semi, alzare le idratazioni, farcirla nel mezzo o anche farla “al piatto”. Diciamo che è quella che necessita di tecnica maggiore, ma è anche quella più versatile.

STORIE DI CIBO, DI RINASCITA E TRADIZIONI DA CUSTODIRE

L’attenzione per ciò che offre il territorio in termini di materie prime e la ferma volontà di far conoscere le realtà agricole locali, rendono un prodotto come la pizza genuino e tradizionale al tempo stesso. La conformazione territoriale offre una produzione di oli, farine, pomodori, erbette aromatiche, ortaggi e miele di qualità. Andando direttamente nel luogo di produzione ci si rende conto che dietro ad ogni ingrediente c’è una storia che va ascoltata, raccontata e condivisa. Talvolta ci sono giovani ragazzi che hanno deciso di coltivare ciò che il terreno e la stagionalità consentono di fare: il prodotto finale racconta dell’amore, della cura e dell’impegno che mettono per arrivare ad offrire il risultato della loro “rivincita e rinascita”. È importante andare alla scoperta di queste realtà produttive per poter trasmettere ai consumatori finali tutte le fasi della filiera, così da poter valorizzare il cibo ordinato al ristorante, ascoltando entusiasti ed incuriositi i racconti di realtà così vicine, ma allo stesso tempo poco conosciute. Non si può pensare ad una pizza, alla rosticceria o alla pasticceria con ingredienti provenienti da realtà estranee al proprio territorio: sarebbero creazioni da mero impastatore. Quella del “Pizzaiolo” è una vera e propria arte: preparare gli impasti con le materie prime che si raccontano e ti raccontano ti danno per certi versi la sensazione di dar vita ad una tua creatura. Ecco perché, valorizzare i prodotti delle aziende locali e sceglierli per la propria produzione sarà sempre un valore aggiunto: è questo il punto di forza dell’attività. A tal proposito da oltre venticinque anni cerco di condividere questo legame con il territorio attraverso la pizzeria “Zio Giglio” nel rione Salesiani a Lecce in cui, tra le altre cose, ho voluto dedicare parte del locale alla produzione senza glutine e lattosio, così da poter permettere a tutti di gustare le mie pizze unite ai sapori del nostro territorio. Gestisco altresì la sede di Lecce della Scuola Italiana Pizzaioli in cui la formazione, tra le altre cose, diventa un prezioso strumento per allenare i pizzaioli del futuro a coltivare il legame con il proprio territorio.

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www.scuolaitalianapizzaioli.it info@scuolaitalianapizzaioli.it
Davvero bellissime le tue riflessioni, direi “da brividi”. A questo punto però
“devi” raccontarmi qual è la “tua” pizza, quella che ti racconta.

Come sempre, sai stupirci. Allora, stupiscici fino in fondo: quale sarà la pizza del futuro?

Sicuramente la pizza del futuro deve invertire la rotta. Deve essere una pizza che seleziona le materie prime in termini di efficientamento ed economia circolare, in primis. Si parla tanto di Km0, riduzione degli sprechi ecc. Io credo sia arrivato il momento di farlo veramente. Nella mia azienda, nel mio piccolo, cerco di individuare produttori locali e rivolgermi prettamente a loro. Con la grave crisi che stiamo vivendo, l’unico modo è guardare al futuro con un prodotto che sia maggiormente curato e che riesca a ridurre gli sprechi. Dobbiamo migliorare la trasformazione delle materie prime arginando i costi e aumentando la cura verso

il cliente. L’obiettivo principale è quello di tenere attivo il comparto agroalimentare italiano: abbiamo una fortuna immensa, una selezione di materie prime che ha dell’incredibile, dobbiamo solo ricordarcene più spesso. È possibile preservare tutto questo, serve solo più impegno e tanta voglia di fare bene. Abbiamo una grande responsabilità, che è quella di creare un futuro migliore.

28 pizza e pasta italiana giugno 2023
SARDEGNA

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Pizzaiola contadina, pizzaiola del cambiamento.

Nell’edizione del trentennale del Campionato Mondiale della Pizza, si è parlato molto di sostenibilità e di pizza sostenibile: un tema ricorrente, che potrebbe sembrare di tendenza, una questione di marketing ma che, in questo settore, potrebbe aprire una strada “necessaria”. Il seme lo abbiamo visto germogliare con la vincitrice del Premio Speciale “Pizza del Cambiamento”: Giulia Vicini, 19 anni, di giorno frequenta un Istituto Tecnico Specializzato di Chimica con l’obiettivo di prendere poi la laurea in ingegneria chimica e la sera, dalle 17 in poi, raccoglie i lunghi capelli biondi in un cappellino e si dedica ad impasti e condimenti nel suo locale “Giuly Pizza” a Castelli Calepio (Bg). Quando non studia o lavora, scappa

in Trentino per lavorare come volontaria in un’azienda agricola biologica.

Dal quadro che abbiamo appena fatto, Giulia non è una che fa le cose delle ragazze della sua età: a sentirla parlare sembra quasi un’aliena ma, dalla voce e dall’emozione che ci mette nel raccontarti la sua realtà, si capisce subito che tutto questo le piace: è il suo mondo ed è un mondo dove vive bene, perché se ne prende cura (e forse così dovremmo fare anche noi). Abbiamo conosciuto Giulia Vicini durante i giorni del Campionato Mondiale della Pizza e l’abbiamo vista salire sul podio delle tre migliori pizze classiche ma - cosa più importante - è stata la vincitrice assoluta della prima edizione del premio per la sostenibilità “Pizza del Cambiamento”, organizzato e voluto all’interno della kermesse da Riccardo Agugiaro di Molini Agugiaro & Figna e da Massimo Puggina, direttore editoriale di Pizza e Pasta Italiana.

30 pizza e pasta italiana giugno 2023
LOMBARDIA
Chi è Giulia Vicini, la diciannovenne vincitrice del premio “sostenibilità” al Campionato Mondiale della Pizza

“Era la mia prima volta al Campionato e non potevo immaginare tutto questo. Quando mi hanno detto del terzo posto e del premio sostenibilità stentavo a crederci: è stato un vero shock. In quel momento non riuscivo a capire cosa stesse succedendo, provavo troppe emozioni insieme. E la soddisfazione e gioia più grande è stata quella del premio Pizza per il Cambiamento. Quando mi sono iscritta alla gara, il mio obiettivo era presentare la mia “pizza sostenibile” e vincere proprio questo premio. Non mi interessava altro, perché quel trofeo rappresentava in pieno il lavoro fatto e ciò in cui crediamo e cerchiamo di impegnarci e migliorarci ogni giorno io e la mia socia Giulia Zanni”.

Di Giulia durante i giorni di Campionato a Parma ricordo ancora il sorriso, lo sguardo luminoso e soprattutto un grande entusiasmo nel raccontare il suo lavoro e la pizza che portava a concorso. Un

entusiasmo che racchiudeva in sé la passione, la convizione della scelta giusta e anche la sottile paura di aver sbagliato qualcosa o, meglio, di non essere compresa nella scelta del suo percorso di pizzaiola… ma anche di abitante del pianeta Terra. La sua pizza dal nome simbolico “Terra-Terra” è stata studiata meticolasamente, come lei stessa ci racconta:

“L’idea di Terra-Terra nasce mettendo insieme le due Giulie socie e amiche, il nostro amore per la terra, la passione che nutriamo per la natura. Ecco perché abbiamo voluto una pizza interamente biologica, che utilizzi solo prodotti bio o da Presìdi Slow Food, come il Bagoss, un formaggio prodotto da pochi casari a Bagolino, non lontano da casa mia. Abbiamo scelto una farina bio, macinata 15 giorni prima per avere profumo e fragranza, agretti e asparagi di stagione, mandorle tostate e miele sempre biologi-

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co; anche il latte per la fonduta l’ho preso da un allevamento bio della mia zona. E, ciliegina sulla torta, ho usato l’olio fatto da me, con le olive che io stessa ho raccolto. Anche per il piatto di presentazione abbiamo pensato di valorizzare un artigiano locale, Clay Lab, che ha realizzato un piatto ad hoc per la nostra pizza.”

Alla scelta dei prodotti poi sono seguiti i giorni di prove di impasto, di assemblaggio degli ingredienti, di equilibrio dei sapori e ovviamente gli assaggi. Ogni dettaglio studiato con minuzia per arrivare all’unico obiettivo: vincere il premio Pizza per il Cambiamento e dimostrare che si può fare una pizza sostenibile, che una pizza così esiste e vuole e deve essere la pizza del futuro. Giulia è figlia d’arte: suo padre da sempre fa la pizza ed è stato lui il maestro della sua “bambina”, che è letteralmente cresciuta tra sacchi di farine e palline di im-

pasti. All’inizio era un gioco; poi, appena ha potuto, ha cominciato a stendere la pizza dietro al bancone e a sperimentare. E, come la storia ci insegna, gli allievi superano i maestri. Così, Giulia, nonostante la giovane età, ha ben chiaro cosa vuole: utilizzare prodotti biologici e di qualità, quelli di piccoli produttori, quelli che quando li assaggi te ne innamori perché ti fanno scoppiare il sapore in bocca; vuole una pizza sana, vera e ricca di gusto, stagionale. In poche parole, vuole una pizza sostenibile, dove questo aggettivo troppo spesso usato può essere tradotto come una pizza che sappia rispettare l’ambiente e la natura e che sappia raccontare a chi la mangia cosa è la bontà. E ogni giorno si impegna nel cercare cose nuove, nel fare nuovi abbinamenti e pensare nuove ricette per arricchire la sua linea di pizze speciali, che sono scritte sulla lavagna in sala, mentre al papà lascia il compito delle pizze classiche.

LOMBARDIA Terra

32 pizza e pasta italiana giugno 2023
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LOMBARDIA

Per la sua giovane età, Giulia Vicini è l’esempio di una generazione attenta ai valori ambientali, all’ecosistema, ad un’alimentazione sana e buona e con la sua “avventura campionato” ci sta dicendo che la strada della sostenibilità in pizzeria e nella ristorazione si può intraprendere.

“Assolutamente sì – ci dice convinta - ma non è una cosa semplice: richiede impegno nel cambiare per prima cosa le proprie abitudini di vita e di consumo, in quello che noi scegliamo di comprare e di mangiare e poi riuscire ad applicarle in cucina e saperle trasmettere agli altri. Capita a volte che i miei coetanei mi prendano scherzosamente in giro: per loro sono la pizzaiola – contadina. Poi, quando mangiano la mia pizza, rimangono estereffati dal sapore, dal gusto vero, dalla qualità che ricerco e capiscono il significato delle mie scelte di vita. La mia pizza parla per me, è ambasciatrice della mia filosofia”.

C’è un legame forte tra Giulia e la pizza, un rapporto quasi simbiotico:

“Per me la pizza è casa, quotidianità. È la cosa che so fare e forse l’unica che so fare veramente, è qualcosa che mi appartiene e mi dà sicurezza, difficilmente potrei stare senza. In un futuro - molto futuro - mi piacerebbe fare la pizza con tutti ingredienti prodotti da me in una mia azienda agricola; per il futuro prossimo penso che questa sia la vera pizza di qualità: una pizza genuina che utilizzi solo prodotti buoni e giusti”.

Terra 34 pizza e pasta italiana giugno 2023

13—14 ottobre 2023

Protagonista ad Host 2023 il Campionato

Europeo della Pizza

Milano, in occasione del salone Host, sarà la cornice per l’edizione 2023 del Campionato Europeo della Pizza, la manifestazione organizzata da “Pizza e Pasta Italiana” che trova in questa fiera mondiale dedicata al settore della ristorazione e dell’accoglienza, un palcoscenico di livello internazionale, con pizzaioli provenienti da tutta Europa. Sono già numerose le richieste pervenute per questa competizione che ogni due anni celebra la pizza. I requisiti per partecipare sono i seguenti: essere pizzaioli in attività e provenire da uno dei paesi dell’Unione europea. Oggetto del contendere sarà la pizza tonda classica, cotta su piano refrattario, con impasto e ingredienti a scelta del pizzaiolo.

La manifestazione si svolgerà in due giornate, rispettivamente venerdì 13 e sabato 14 ottobre 2023, all’interno del padiglione 3 della fiera di Rho, a Milano.

Per ricevere informazioni e iscriversi alla gara è possibile contattare la redazione di Pizza e Pasta Italiana al numero +39 0421 83148.

Attenzione: le iscrizioni saranno attive fino ad esaurimento dei posti disponibili.

Stand 3 T57/U58

36 pizza e pasta italiana giugno 2023 SAVE THE DATE!
13-17 OTTOBRE 2023 fieramilano 2023

Il Pane (e la Pizza) di Niko

Con questa citazione dell’eclettico chef Niko Romito si apre una delle presentazioni del suo progetto legato all’arte bianca, una dichiarazione d’amore e d’intenti verso l’Abruzzo, terra natia, ma anche fonte di continua ispirazione.

Il progetto del “Laboratorio” prende il nome dal locale lungo la SS 17 a Castel di Sangro (L’Aquila) nel quale Romito ha cominciato a sperimentare le produzioni e la panificazione sin dal 2018. Parlando degli albori di questo progetto, racconta lo chef che “tutto è nato dal lavoro sul pane, un concentrato di devozione e ricerca. Il cibo base, il più antico. Sono arrivati subito dopo le varie ricette dei lievitati, biscotti, prodotti da forno, confetture e nettari che interpretano il gusto tradizionale italiano, alleggeriti in grassi e zuccheri e dal 2020 certificati Bio e Vegan Ok”.

Rimanendo connessi al concetto di territorio, il progetto di Romito si basa su alcuni capisaldi che vengono specificati anche nel suo manifesto: “Bilanciamento nutrizionale, semplicità dei sapori, leggerezza delle prepa-

razioni, accurata selezione di materie prime provenienti al 100% da agricoltura biologica, riconoscibilità al gusto dei singoli ingredienti, sono le caratteristiche del lavoro che portiamo avanti nel Laboratorio. Naturalità, genuinità e salubrità i valori che gli appartengono. La ricerca continua sull’aspetto salutistico del cibo è il motore di questo progetto, naturale estensione della visione dello chef Niko Romito sul futuro della nutrizione: studiare e realizzare prodotti sapidi, leggeri e salutari”.

L’altro concetto alla base del lavoro del Laboratorio è invece quello della “creatività utile”, fonte di continua ispirazione per tutto il gruppo di lavoro di Romito, che la traduce in prodotti e preparazioni. La ricerca è questo: studiare e trovare soluzioni che semplificano o risolvono. Ricerca per lo sviluppo di progetti e protocolli che, applicati alla trasformazione del cibo, possono generare risultati tangibili e con

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ABRUZZO
“Ogni pane profuma del suo territorio. Questo pane racconta l’Abruzzo.”

una ricaduta positiva sull’alimentazione, il benessere e la vita del consumatore. Volendo rimanere aderente a territorio e semplicità, attualmente sono quattro le tipologie di pane realizzate:

• Il pane bianco con patate, un mix di tre farine biologiche abruzzesi, lievito madre autoctono sviluppato dal mosto d’uva, 36 ore di lavorazione per un risultato sorprendente: croccante fuori, soffice all’interno ed altamente digeribile

• Il pane scuro di Solina e Saragolla, frutto del recupero degli omonimi grani coltivati nella piana di Navelli, prodotto con farine di montagna, lievito autoctono ed un’idratazione estrema. All’assaggio regala un intenso sentore di nocciola, cannella e noci. Una texture interna omogenea, con alveoli piccoli e una incredibile croccantezza esterna.

• Non poteva mancare un pane gustoso e sapido, che Romito ha deciso di tributare alla classica ricetta del pane “olive e rosmarino” fatto con la base del pane bianco con patate ma con aggiunta di rosmarino abruzzese ed una concessione ligure nella scelta delle olive Taggiasche che valgono ben il 30% del peso dell’impasto, per un impatto palatale nettamente saporito.

• Dulcis in fundo, la proposta di un pane dolce “da colazione” fatto con farina di Solina e scaglie di pregiato cioccolato Tanzania Morogoro al 68% che riequilibra dolcezza ed acidità delle ciliegie candite. Un pane da assaggiare per coglierne il delicato equilibrio che modernizza la tradizione di consumo del pane e marmellata a colazione.

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Romito ha scelto di distinguersi anche nella proposta al pubblico del suo pane; infatti, garantisce al cliente un’esperienza unica in qualunque punto vendita si possa acquistare il suo “pane da frigo”.

Le quattro tipologie di pane appena elencate vengono prodotte tutte a Castel di Sangro ma il pane appena cotto viene abbattuto ed inserito in un sacchetto saturato di azoto, gas inerte, inodore e senza alcuna controindicazione che consente di preservarne le qualità per trenta giorni. Spiega Romito:

“A casa, basta toglierlo dal sacchetto e informarlo per circa 15 minuti a 200 gradi: il risultato è quello di avere a casa propria il pane che portiamo agli ospiti dei ristoranti Reale e Spazio. Il cliente riconoscerà lo stesso profumo, la stessa fragranza e la stessa eccezionale umidità all'interno, custodita da una crosta croccante, conservati nel segno della massima naturalità”.

Anche l’occhio vuole la sua parte e nel “Laboratorio” si sente spesso parlare del concetto della “bellezza del gusto”. A tal proposito, Romito aggiunge: “È la visione che ci guida quando studiamo forma, consistenza, spessore dei nostri prodotti e dei materiali che meglio possono contenerli. Ispirati da questa filosofia lavoriamo affinché ciascuna referenza sia vestita nel modo giusto; dalla carta velina color pastello, all’etichetta in fibra naturale antimacchia, fino alla latta ad uso alimentare che consente ai biscotti di essere conservati sottovuoto, chiusi ermeticamente in un contenitore che assolve alla duplice funzione di riuso e riciclo, oltre a preservare le caratteristiche organolettiche, aromatiche e gustative del prodotto”. Un buon esempio di ricerca applicata anche ad un prodotto di uso comune, la carta del pane, che può essere un veicolo di qualità e bellezza, perché anche l’occhio vuole la sua parte!

40 pizza e pasta italiana giugno 2023
ABRUZZO

Forni Valoriani, da oltre 100 anni al vostro servizio

In ultimo una riflessione che coinvolge la materia prima: “L’ingrediente stesso è il punto di partenza, poi viene l’approccio alla sua trasformazione, la tecnica, il risultato. Conoscere la materia prima, rispettarla, esaltarla, eliminando le complicazioni, consente di assaporarne la vera potenza gustativa. I prodotti del Laboratorio rispecchiano questa filosofia e sono per questo facilmente comprensibili a chiunque apprezzi genuinità, semplicità, gusto autentico. La confettura e i nettari hanno il vero sapore della frutta, i biscotti sono una esplosione di cioccolato o limone, i lievitati profumano di agrumi e mandorla, e in Laboratorio si respira un’aria che sa di buono.”

A proposito di pizza, Romito racconta che nelle varie sperimentazioni dei lievitati ha approfondito anche i processi produttivi della pizza - pare con ottimi riscontri - ma al momento sta seguendo altri progetti e conserva il sapere acquisito in attesa del momento giusto. Una delle poche uscite pubbliche di questa passione lo ha portato a cimentarsi in modo non competitivo nell’edizione 2019 di “Chef Bizzarri” insieme ad Heinz Beck (La Pergola, Roma) e Pino Cuttaia (La Madia, Licata) presso l’Osteria di Birra del Borgo di Roma, dove reinterpretò in chiave abruzzese il suo concetto di pizza. Chissà che in futuro…

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ABRUZZO
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Pane nostro

"Bisogna essere caparbi e avere la testa dura. Le difficoltà sono tante, ma la gratificazione arriva sempre”. Sono parole di Antonio Verrillo, co-proprietario di Pane Nostro, unico panificio della città di Caiazzo, nel Casertano. Pizzaiolo nell’anima, un anno fa Antonio ha aperto il suo cuore alla panificazione spinto da curiosità e voglia di fare. Insieme abbiamo parlato del suo mondo, ma anche delle differenze che intercorrono tra panificazione e pizzeria.

Antonio compie i suoi studi all’Istituto Alberghiero e all’età di 15 anni entra come apprendista in cucina; a 18 anni è già in pizzeria dai fratelli Pepe e ne è più che felice ma – confessa – a un certo punto ha sentito l’esigenza di fare altro. Nasce così un anno fa “Pane Nostro”. “Oggi non è come 30 anni fa quando aprivi il negozietto e si andava avanti così, ora le richieste sono tantissime. Molte pizzerie e panifici non hanno visibilità ma sono magari ancora migliori rispetto a quelli più conosciuti”.

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CAMPANIA

L’accoglienza di Caiazzo com’è stata?

L’unico panificio di Caiazzo era questo che noi abbiamo rilevato: era chiuso da 4-5 anni e dunque per ora stiamo lavorando molto bene. Cerchiamo di fare cose sempre buone senza rischiare più di tanto: qualità è sinonimo di costi ma non tutti lo capiscono.

Quali sono le vostre specialità e quali le maggiori richieste dei clienti?

Dipende dai punti di vista. Abbiamo iniziato con il panificio ma ci siamo resi conto che anche la rosticceria va molto bene: panino napoletano, casatiello, pizza con le scarole ecc. Sai, cose che a casa non si fanno quasi più.

Com’è possibile che a Caiazzo ci sia solo un panificio?

Panifici ce ne sono stati negli anni ’60 e ’70 ma, finite le antiche e tramandate gestioni, nessuno si è riproposto. Da caiatino ti dico che questo è un paese in cui pochi amano sacrificare buona parte della propria giornata in questo lavoro. Io penso non ci sia niente di più bello del pane caldo appena sfornato… Questa è una delle difficoltà che abbiamo affrontato. Tutti comprano pane al supermercato e se decidono di andare al panificio lo fanno per avere un dialogo su ingredienti, processi e non tutti sono pronti a farlo. Chi ci riesce, però, conquista il cliente.

Quali farine, grani e tecniche prediligete per la panificazione?

Per la panificazione uso solo lievito madre. Niente lievito di birra né miglioratori. Per la pizza in teglia lavoro con la biga. Uso un po’ di tipo 2 e un po’ di tipo 0. Ho cercato di adeguarla perché in teglia è sicuramente diversa rispetto a quella al piatto, questa è più idratata. Riguardo la panificazione, usando solo lievito madre, a volte è difficile sopperire. Soprattutto nei giorni di festa, molti fanno 4-6 forni di pane e io tutta questa possibilità non la ho. Con questo tipo di lievito le tempistiche sono fondamentali. Lavorando “naturalmente” ti devi adeguare: ci vogliono le ore che ci vogliono. Per ora non mi va di calcare la mano, mi interessa la qualità, preferisco “poco ma buono”. Anche perché non si trova personale. Per le farine invece, prima lavoravo con un piccolo mulino di Sant’Agata de’ Goti. Compravamo il grano e ogni 15/20 giorni ci faceva la macina.

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sopra I fratelli Pepe

Il problema è che le farine macinate al momento non ti danno stabilità nel tempo. Molte volte capitavano 20/25 giorni di riposo a terra e ci stava, ma magari poi il grano non era lo stesso. Sono passato ad un mulino più grande, almeno per la 0 e la tipo 2. Per l’integrale invece mi rifornisco sempre da loro.

E invece riguardo alle pizze? A me piace molto quella in teglia con i pomodorini schiacciati sopra…

Io faccio la focaccia così! Va tantissimo. Da qualche settimana la sto facendo con il pomodorino fresco ciliegino, basilico, olio e origano. Una cosa molto semplice ma eccezionale. La ricerca si, deve esserci, ma molte volte ci perdiamo l’essenziale, la semplicità che secondo me va avanti sempre!

Quali sono le differenze sostanziali, non solo a livello di ingredienti, tra il mondo della panificazione e quello della pizza? Innanzitutto, la gestione dell’impasto. Quando lavori con lievito di birra chimico, le dosi e i tempi sono quelli. Quando lavori con lieviti naturali la cosa cambia. Ci sono più problemi nella gestione tra tempo, freddo o umidità: è più difficile e bisogna adeguarsi.

in maniera significativa rispetto al passato secondo te?

Significativo rispetto al passato è che se non hai visibilità oggi non vai da nessuna parte. Poi, in termini di personale, è un periodo difficilissimo. Questo è un lavoro che ti deve piacere tantissimo perché richiede tanto sacrificio. Oggi ci sono tantissimi programmi di cucina, pizza, pane... i ragazzi si appassionano ma si innamorano senza sapere che per arrivarci bisogna fare un lungo percorso che nessuno vuole affrontare. Vogliono essere tutti Barbieri e Cannavacciuolo, ma di partire da zero e fare la gavetta nessuno ne vuole sapere. Bisogna rinunciare alle feste, alle vacanze… questi sono i veri sacrifici. Il lavoro fisico viene dopo.

Il vostro è un mestiere artigianale, antico quanto bello oserei dire. In cosa è cambiato
46 pizza e pasta italiana giugno 2023 CAMPANIA

E nel futuro come vedi te stesso e la panificazione?

Io mi vedo a fare anche cose nuove, per esempio formazione. Non oggi, non sono pronto e ci vuole umiltà per ammetterlo, ma tra diversi anni si.

E se un giovane volesse aprire un panificio, al di là della gavetta in sé quanto è importante la formazione?

Gli direi di non farlo a Caiazzo (ridiamo). La gavetta va di pari passo con la formazio ne, è importantissima. Gli direi di essere caparbio e avere la testa dura. Le difficoltà sono tante, ma la gratificazione arriva sempre. Non è vero che i tempi non sono buoni, non lo sono per chi improvvisa.

Mi farebbe piacere se un ragazzo giovane iniziasse questo percorso.

In effetti oggi vogliono fare tutti i pizzaioli, c’è un divario incredibile.

Io esco alle 4.30 del mattino e dopo un piccolo stacco centrale rientro sempre per le 21.30. Immagina la vita qual è. È molto più pesante della pizzeria, ma è sicuramente meno stressante. Pizzeria e ristorante ti massacrano psicologicamente mentre il panificio - a parte la stanchezza di fine giornata - non porta questa grande pressione.

Se tornassi indietro

rifaresti le stesse scelte?

Io rifarei lo stesso percorso. La pizzeria è un mio punto debole.

Quindi se potessi ricominciare non inizieresti dalla pizzeria ma dal panificio?

Se la poni così, non lo so… forse lo farei qualche anno prima, dai. Probabilmente non inizierei a 39 anni, anticiperei solo i tempi ma farei le stesse cose.

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Supplì e Maritozzo, i re (dello street food) di Roma

Roma a tavola si traduce in tantissimi piatti saldi alla tradizione ma, se cerchiamo i simboli storici di questa città, verso cui c’è un attaccamento profondo del popolo, questi sono il Supplì e il Maritozzo. Due sovrani senza tempo e dalla lunga storia, due simboli golosi di una città che dalla strada sono entrati nei locali e in pizzeria come protagonisti di menu moderni che rispolverano la tradizione, anche in modo audace. E, a nostro avviso, replicabili ed esportabili (ma si raccomanda rispetto per le origini).

48 pizza e pasta italiana giugno 2023
LAZIO

Il Supplì

Secondo Wikipedia, il supplì è: “una pietanza rustica tipica della cucina romana. Una sorta di polpetta di forma allungata cilindrica, preparata con riso bollito, condito con sugo di carne e pecorino romano, con all’interno una striscia di mozzarella, passato nel pane grattugiato e fritto in olio bollente”. Una descrizione che farebbe inorridire un romano verace. Eh sì, perché guai a chiamarlo “polpetta”: a Roma il supplì è supplì, la polpetta è tutta un’altra cosa. Il supplì è simbolo della romanità, il re del cibo di strada, uno scrigno di riso al pomodoro che nasconde al suo interno un cuore di mozzarella filante e che porta con sé un’affascinante storia di contaminazione e di etimologia.

La storia del Supplì e il suo nome

Fonti certe su come sia nato il supplì non ne abbiamo. La sua etimologia deriva invece dal termine francese “surprise”, nel tempo poi romanizzato in supprì e supplì. Siamo agli inizi dell’800 e Roma era stata occupata dalle truppe francesi: leggenda vuole, infatti, che un soldato francese, gustando per le vie di Roma questa crocchetta di riso appena fritta, definì la mozzarella al suo interno una vera e propria “surprise”, una sorpresa. Molto probabile che la nascita del supplì si colleghi all’evoluzione, con i dovuti adattamenti locali, dell’arancino siciliano e della “pall ‘e ris” dei napoletani. Una cosa certa è che questo spuntino nasce proprio sotto forma di street food, venduto all’inizio solo per strada. Bisogna infatti attendere il 1874 per trovarlo, con il nome di “soplis di riso”, nel menù della “Trattoria della lepre” a via dei Condotti.

La prima ricetta ufficiale risale al 1929, grazie ad Ada Boni e al suo libro “La Cucina romana” che scrive - forse ispirandosi al ricettario di suo zio Adolfo Giaquinto - di una crocchetta ottenuta cuocendo il riso “in un po’ di sugo di umido o, in mancanza di questo, in un sugo finto”, condito “con burro, parmigiano grattato e un paio di uova intiere sbattute come per frittata”. E, per quanto riguarda il ripieno “più ricco o meno ricco, secondo l’opportunità”, la Boni ci mette rigaglie di pollo, funghi secchi e carne in umido tritata.

Nel tempo il supplì si trasforma, o forse meglio dire, si adatta ai gusti e agli ingredienti.

Si passa da un riso con ripieno ad un risotto riposato con il cuore filante: il formaggio diventerà mozzarella e le rigaglie saranno sostituite negli anni ’50 dal classico ragù. Una cosa invece rimane sempre uguale: il supplì - per essere un ottimo supplì per il romanodeve essere ben fritto, croccante, umido e “al telefono”, ovvero la mozzarella che si scioglie al centro deve tenere unite le due metà spezzate.

accanto Suppli Telefono
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accanto Edoardo Fraioli del MaritozzoRosso

Ma oggi a Roma è possibile trovare il supplì come si faceva una volta?

L’ho chiesto a Venanzo Sisini de “La Casa del Supplì”, che da più di 40 anni produce e frigge supplì: “L’unico nostro obiettivo è sempre stato quello di rispettare la tradizione e non snaturarci. Dall’apertura della prima sede a Trastevere nel 1979 in via Francesca Ripa, la ricetta dei nostri supplì è sempre la stessa e possiamo dire con convinzione che da noi si può trovare il supplì “classico”, quello originario fatto con il ragù di carne e rigaglie di pollo, cotto lentamente, con al centro mozzarella filante e con una panatura leggera. Il risultato (anche testato da noi, ndr) è un supplì croccante ma morbido, succoso ma compatto, sicuramente con un gusto intenso”. Dalle rosticcerie alle pizzerie al taglio di quartiere, alle trattorie o pizzerie da tonda, il supplì è il re del fritto romano, il protagonista incontrastato degli antipasti: perché a Roma il fritto prima della pizza è una vera religione. Se fate un giro per Roma, scoprirete poi che le varianti sono diverse e, a parte il classico supplì “al telefono”, di ingredienti e ricette per condire il supplì ce ne sono per tutti i gusti. Esiste il supplì carbonaro, all’amatriciana, fave e pecorino, gricia, carciofi e guanciale, con la cicoria: tutta la cucina romana, insomma, passa in

questa “palla di riso”, impreziosendola. E poi ci sono anche le stagionali come zucca e pancetta, radicchio e gorgonzola, piselli e funghi. Altro elemento che contraddistingue il supplì è la panatura e qui si confrontano (o si scontrano) due scuole di pensiero: la panatura classica a base di uovo e pangrattato per un risultato finale dorato e più sottile e la panatura doppia per un vero effetto “crunchy” che ha letteralmente spopolato.

Cosa molto interessante è che da qualche tempo è in atto una vera sfida tra chef e pizzaioli a colpi di supplì e dei suoi parenti più stretti, sempre fritti ovviamente. C’è chi gioca con il cuore, chi con le mantecature del riso piuttosto che con le panature realizzate ad hoc: il supplì moderno è pura sperimentazione. A Roma il fritto è amato, cercato, desiderato. E, da questa ricerca appassionata, esplodono in una forma estrema e mai banale di “food porn” le idee alternative ai supplì, ovvero una personalizzazione romana delle frittatine napoletane.

Jacopo Mercuro si inventa il Sampietrino, un cubo fritto ricoperto dalla ormai celebre panatura di 180grammi che fa da scrigno ai ripieni più bizzarri, veri e propri piatti a base di pasta come “spaghetto quadrato, guanciale, pecorino e carciofi alla romana” o quello a base di lasagna. Avete capito bene - e non scandalizzatevi - perché a Roma si frigge di tutto, soprattutto in pizzeria. Mentre Mattia Lattanzio (ex chef di “Pizza Illuminati Seu” e oggi founder di “Extremis pizzeria”) rilancia con i Lingotti che racchiudono delle vere e proprie ricette costruite su misura di panatura, come ricotta e nduja, spuntature e purè, tortellino doppia panna. Come si dice a Roma: ‘na cosetta!

Evidente l’evoluzione di questo “soplis di riso” che a tavola ha acquistato grande dignità di piatto, su cui incentrare delle proposte qualitiative e di gusto per aprire con stile una cena.

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LAZIO
accanto Sampietrino

Il Maritozzo

Dolce simbolo della pasticceria romana, il maritozzo affonda le sue radici ai tempi dell’antica Roma, dove le mogli preparavano ai loro mariti delle pagnotte addolcite con miele e uvetta per un pasto sfizioso e semplice. Si deduce che l’impasto di questo “panino” possa essere il predecessore del maritozzo, come lo si conosce, la cui ricetta originale prevede l’aggiunta dell’uva sultanina. Successivamente, nel Medioevo, questo panetto venne chiamato, scherzosamente “Er Santo Maritozzo” o “Quaresimale” perché era l’unico dolce che si poteva mangiare per interrompere il digiuno della Quaresima. Aveva una forma più piccola e un colore più brunito rispetto a quella che conosciamo oggi ed era arricchito con pinoli, uvetta e scorza d’arancia candita. Ma perché si chiama Maritozzo?

Le ipotesi sono diverse. Molti studiosi, artisti e poeti, quali Giuseppe Gioacchino Belli, Gigi Zanazzo, e Adone Finardi si sono cimentati nell’elogiare lo squisito dolce e raccontano la romantica pratica in cui i giovani ragazzi davano alle proprie fidanzate un maritozzo il primo venerdì di marzo. All’interno del suo cuore morbido, veniva non di rado nascosto un anello o un oggetto d’o ro, quale pegno d’amore. Da qui il simpatico appellativo canzonatorio di “Maritozzo” che veniva dato ai futuri mariti. Un’altra storia racconta invece che il giovane più bello del paese riceveva in dono un dolce a forma di cuore realizzato dalle ragazze in età da marito per poi scegliere come futura sposa la creatrice del più buono. Il maritozzo nasce dolce: si tratta di un panetto semplice, composto da un impasto fatto di acqua, farina, lievito madre, latte, zucchero, uova, burro ed olio, che mette d’accordo tutti. Viene tagliato nel mezzo e farcito con tanta panna, di solito fresca e con poco zucchero. Lo si trova in tutte le pasticcerie romane e, in quelle stori-

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che (templi riconosciuti del maritozzo), è un must della colazione o della domenica e, come vuole la tradizione, si mangia affondando inevitabilmente il naso nella panna. Nel tempo, ha assecondato bisogni e tendenze e lo si trova in varianti differenti: dolce, salato, vegan e gluten free. Tra le reinterpretazioni troviamo quello con crema chantilly, con la ricotta e anche con il gelato (con cui si sposa divinamente) e potrebbe diventare un originale dessert per ristoranti e pizzerie.

Il maritozzo salato

La versione salata consente di dare sfogo alla creatività, incuriosendo e offrendo la massima soddisfazione di gusto, declinando ricette tipiche, materie prime di territorio e abbinamenti saporiti. In questo caso diventa la specialità, anche in versione gourmet, da poter gustare durante un aperitivo o come antipasto, come alternativa del solito panino, come momento street food. Il maritozzo salato ha una riduzione di percentuale di zucchero ed un sapore più neutro, in modo da adattarlo meglio a diversi tipi di ingredienti. Molti chef, anche tra quelli stellati, hanno proposto il loro maritozzo “gourmet”. La fantasia non ha limiti perché ne esistono di svariati tipi: con alici e burrata, broccoli e salsiccia, prosciutto crudo e stracciatella, baccalà e verdure, salmone e rucola, insalata di pollo, ricotta pesto e pomodoro e chi più ne ha più ne metta!

A Roma il primo e unico format dedicato alla cucina romana e al maritozzo salato nasce a Trastevere nel 2016 e, da startup innovativa, diventa in breve tempo il punto di riferimento per gli appassionati del genere. Si tratta del Maritozzo Rosso di Edoardo Fraioli, un format semplice e al tempo stesso vincente tanto da esser stato premiato anche come Miglior Street food del Lazio 2022 da Il Gambero Rosso. Qui si possono mangiare maritozzi in tutte le salse o, per meglio dire, con tutte le salse: dai classici piatti romani alle ricette più gourmet. Al maritozzo, spaccato a metà nella sua parte superiore come per essere farcito con la panna, si uniscono invece piatti della tradizione rivisitati con tecniche di cottura moderne e basate su materie di primissima qualità, come stracciatella e alici o stracciatella e gamberi, amatriciana, pollo al curry, spuma di mortadella e pistacchi. Fraioli fu il primo in assoluto a lanciare questa versione irriverente del maritozzo aprendo per molti una strada culinaria da sperimentare: il maritozzo farcito nella sua versione mini o maxi diventa un giocoso antipasto, finger food da condividere in un aperitivo, un raffinato panino farcito. Addirittura una portata gourmet di molti chef fine dining o stellati. Anche in questo caso, rompere le regole e tradire la tradizione è stata una scommessa vincente. E su cui si potrebbe puntare ancora di più.

Curiosità

Il primo sabato di dicembre si celebra il Maritozzo Day per celebrare questa specialità romana in tutte le pasticcerie della città (e non solo).

52 pizza e pasta italiana giugno 2022
LAZIO

MOLINO GRASSI

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Linea Pizza Molino Grassi e ascolto del cliente: così si fa la differenza in pizzeria

Continuità di prodotto e consulenza, le “chiavi” per un business duraturo e di qualità. Ce lo racconta Cristian Zaghini: “tra le novità 2023, la Romana, con germe di grano e farina di riso: una referenza fortemente voluta”

Una miscela per pinsa, pizza alla pala, in teglia e padellino, ricca di fibre e con germe di grano e farina di riso per accentuare la croccantezza e leggerezza della pizza. È una delle novità 2023 firmata Molino Grassi, disponibile in doppia versione: Romana, con meno fibre per impasti dalla colorazione chiara, e Romana Rustica, dai toni più ambrati per esaltare il valore, il gusto e i sapori di una volta.

“Si tratta di una novità fortemente voluta dall’Azienda”, racconta Cristian Zaghini, tecnico e formatore Molino Grassi che, insieme a Nicola Ascani e Diego Vitagliano, ha messo a punto non solo Romana, ma anche Napoletana, l’altra new entry del molino parmense. Due prodotti che vanno a completare la vasta linea dedicata al mondo pizza: “come tecnico Molino Grassi posso dire che la gamma offerta è completa, ma soprattutto che l’Azienda offre continuità al prodotto. Questo implica che una volta ‘imparato’ l’utilizzo di una certa farina, le modifiche da apportare alle modalità di lavorazione nel tempo sono pochissime”, prosegue Cristian.

formato da figure accreditate a livello nazionale e non solo: “in veste di formatore per Molino Grassi ho sviluppato un metodo molto fattivo, ossia strutturo la mia consulenza attraverso l’ascolto del cliente. Ho così iniziato a comunicare diversamente ai miei corsi e nei momenti di formazione dedicata: oltre ai temi più classici, entro nel merito del ‘modo’ di impastare, occupandomi anche di recupero dell’impasto, insomma di tutti quegli aspetti molto pratici che fanno parte della quotidianità in pizzeria. Gestendoli, tutto viene ottimizzato e il margine d’errore ridotto al minimo, per offrire sempre ‘quel’ prodotto e quindi accontentare la clientela 365 giorni l’anno”.

La gamma Pizza Molino Grassi comprende farine diverse in base ai differenti tempi di lievitazione, per una pizza eccezionale, sempre e ovunque: non mancano, per pizza tirata ad impasto diretto, la Fast H6, perfetta anche per pizza al trancio, così come la Speedy H10, o ancora la Midi H12, certificata per la pizza napoletana verace dalla AVPN (Associazione Verace Pizza Napoletana), ideale pure per focaccia. La gamma si completa con Extramidi H16, per pizza tirata e al piatto, e Slow H24, messa a punto per pizza al piatto, al trancio e focaccia ad impasto diretto o indiretto. Tutte farine studiate per rispondere in modo chiaro e concreto alle esigenze di lavorazione del pizzaiolo moderno.

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Farine tecniche, affidabili, ma anche supporto in termini di formazione e consulenza, servizi che Molino Grassi offre attraverso il proprio staff tecnico,

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LE AZIENDE INFORMANO
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agroecologia e cucina a Udine

Concetti come quello di agroecologia, sostenibilità, rotazione delle colture e salvaguardia dei semi sono oggi dati per acquisiti e rientrano a pieno titolo nell’Agenda ONU 2030. Dopo lo Svalbard Global Seed Vault - galleria scavata nel permafrost a 130 m, con temperatura costante compresa tra i -3° e -4°, costruita nel 2008 dal governo di Oslo e che oggi contiene 1,2 miliardi di semi che fanno capo a 5.694 specie – le banche del germoplasma, questo il termine tecnico che indica i giganteschi depositi di semi nati con l’obiettivo di preservare il più a lungo possibile il patrimonio genetico e la biodiversità globale, si sono moltiplicati e diffusi in tutto il mondo. In Italia, nel 2005 è nata un’associazione scientifica – la Rete Italiana Banche del germoplasma per la conservazione ex situ della flora spontanea italiana, “RIBES” - che mette in rete una ventina di banche del germoplasma italiane: i suoi soci sono università, musei, parchi regionali e nazionali che collaborano per un’efficace conservazione della biodiversità vegetale.

di Caterina Vianello
54 pizza e pasta italiana giugno 2023
VENEZIA GIULIA
FRIULI

Tuttavia, concetti e pratiche come quelle appena ricordate non erano così scontate una trentina di anni fa: una delle aziende pioniere in tal senso si trova in Friuli Venezia Giulia, alle porte di Udine, ed è nata nel 1988 da una visione lungimirante, che ha saputo evolversi nel tempo. Il nome è programmatico, Orto Felice, e di fatto rappresenta la prosecuzione di una tradizione contadina che la famiglia Romanelli conduce da generazioni. Il cambio di passo è avvenuto appunto alla fine degli anni ’80, quando l’orto che da sempre forniva ortaggi alla città viene certificato biologico – prima azienda agricola in tutta la regione – e si trasforma di fatto in una sorta di piccola banca dei semi, dando vita ad una varietà di verdure, frutta ed erbe coltivate in 8 ettari di terreno, in 12 serre e a pieno campo, cui si aggiungono alcuni ettari che in futuro saranno destinati all’olivicoltura.

Se questi numeri descrivono l’azienda, per capire il lavoro di Orto Felice in fatto di salvaguardia della biodiversità altre cifre sono ben più significative, restituendo il senso di un lavoro condotto con convinzione negli anni: 50 varietà di pomodori antichi salvate dalla scomparsa, 70 varietà di fagioli, 15 varietà di zucca. Nel dettaglio, le varietà di fagioli - recuperate in tutte le valli, montagne e colline della regione ed oltre - sono tutte rampicanti e crescono fino a più di due metri. Per questo necessitano di un sostegno forte (grossi pali di metallo e rete), che deve essere smontato e rimontato ogni anno secondo le rotazioni dei campi. Si tratta di varietà poco produttive e che richiedono molto lavoro (oltre all’impianto, la raccolta e la sgusciatura è fatta a mano, per evitare che si rovinino), ma che dal punto di vista gustativo, nutrizionale ed estetico sono superiori alle altre.

I pomodori invece – tra gialli, arancio, verdi, neri e rosa – provengono dalle ricerche ed esplorazioni sulla biodiversità alimentare e dall’eredità del lavoro della biologa Suzanne Arregger, che per decenni ha selezionato e salvato vecchie varietà di pomodori gialli, dei quali la famiglia Romanelli ha continuato a coltivare e selezionare le sementi. Oltre le cifre, Orto Felice è soprattutto la storia di una famiglia, i Romanelli appunto, che ha colto l’importanza della biodiversità, di come l’adozione di comportamenti responsabili – soprattutto singolarmente – possa influire significativamente sulla trasformazione della società, migliorandola, di come realizzare un’agricoltura sostenibile si traduca in un vantaggio non solo ambientale ma anche economico. A rappresentare perfettamente

l’evoluzione di un’azienda che di fatto ha saputo accompagnare la tradizione e le pratiche contadine verso il contesto contemporaneo è Caterina Romanelli, oggi a capo dell’azienda. Poco più che trentenne, una formazione che l’ha

vista laurearsi in Scienze Diplomatiche a Gorizia e intraprendere un percorso dedicato allo sviluppo sostenibile e responsabilità sociale delle imprese, una decina d’anni di lavoro all’estero, in particolare a Parigi per un fondo di investimento europeo di Private Equity, il percorso di Caterina solo in parte può essere letto come quello di una giovane che ritorna all’agricoltura.

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Se da un lato c’è certamente il ritorno alle proprie origini con un percorso formativo alle spalle diverso da quello dei propri genitori, dall’altro c’è la volontà di fare dell’agricoltura non solo la propria attività ma soprattutto, e ben oltre, uno strumento strategico per poter davvero intervenire in modo attivo per trasformare il pianeta e il modo di consumo di ogni singolo individuo. L’idea infatti è quella che grazie all’agricoltura si possa dare vita ad una serie di percorsi formativi, educativi, culturali ed economici che sappiano promuovere cambiamenti virtuosi nella filiera agroalimentare e nelle scelte dei consumatori. Solo attuando ogni giorno comportamenti responsabili e consapevoli, solo intervenendo con scelte di consumo che siano in grado di mantenere e migliorare la salute del terreno e dell’ambiente, solo sviluppando la consapevolezza che ogni azione ha conseguenze sull’ecosistema (suolo, acqua, piante, animali) si riesce davvero a dare vita ad una trasformazione concreta verso un vivere migliore. La visione di Orto Felice, insomma, racconta di un modo di fare impresa agricola che non si limita alla coltivazione ma che è in grado di guardare alle persone, alla loro formazione culturale, lavorativa e – alla fine, ovviamente – anche gastronomica.

Ortaggi e verdure, insomma, sono solo il punto di partenza. Lavorare in biologico e seguendo i principi dell’agroecologia significa non solo evitare l’uso di prodotti di sintesi, ma soprattutto cercare di aumentare la fertilità del suolo, creare simbiosi tra piante, microrganismi e animali, applicare i principi della rotazione delle colture, fertilizzare con compost e recuperare appunto varietà di semi antichi salvandole dall’oblio, garantendo la biodiversità e anche il piacere gustativo, lontano dalle logiche di mercato che vogliono prodotti standardizzati, ad alta resa ma che spesso finiscono per essere privi di sapore.

Il passaggio successivo, quello dal campo alla tavola, implica non solo l’attività di vendita al consumatore e il conferimento ai mercati contadini, ma anche l’idea che attraverso un’alimentazione sana – biologicamente ed eticamente – si possano avere benefici in termini di salute, con ricadute sullo stile di vita. Ecco allora un percorso dedicato alle fermentazioni che trovano nel kombucha – bevanda a base di tè fermentato ricchissima di proprietà benefiche, qui prodotta con verdure e frutta che cambiano ogni settimana – il loro rappresentante più significativo. E ancora, proseguendo nell’ottica di un’agricoltura come motore di cambiamento culturale, i corsi di cucina e quelli di raccolta e uso di erbe spontanee (e anche sui fermentati), facendo dell’azienda non solo un luogo dove il cibo si produce ma anche uno spazio di incontro, di approfondimento e di apprendimento. Le lezioni non sono dedicate solo agli adulti, ma coinvolgono anche i più piccoli: Orto Felice è infatti anche una fattoria didattica, in grado di accogliere scolaresche dalla scuola materna in su.

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FRIULI VENEZIA GIULIA

il buon pomodoro italiano

Sarà un anno da leccarsi i baffi. C’è una ghio�a novità che darà più sapore al nuovo anno, un calendario che porterà la giusta nota di colore. Tante idee da assaporare ogni mese con i nostri dodici “Ar�s� della pizza”. Giugno è stato dedicato al nostro giovane pizzaiolo Carlo Ciampi che con la sua “Pizza del Vesuvio” ha lasciato tu� a bocca aperta.

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“Gli tisti della pizza”.

L’impronta dei Romanelli, insomma, non è superficiale ma affonda nel terreno lasciando una traccia indelebile. Ulteriore conferma, la profonda convinzione che l’agricoltura possa essere uno strumento di integrazione. Orto Felice collabora infatti con l’azienda sanitaria locale e le associazioni del territorio con l’obiettivo di accogliere persone in condizioni di fragilità, difficoltà o richiedenti asilo, per fare in modo che riescano gradualmente a ritrovare sé stessi e a costruire un percorso di vita autonomo: l’insegnamento ed il lavoro nei campi diventano attività di sostegno ed inclusione, sociale prima di tutto e poi anche economica.

Infine, in linea con un sempre più rinnovato interesse tra consumatori e clienti, nei confronti di erbe spontanee, ortaggi e più ampiamente mondo vegetale, Orto Felice ha dimostrato una bella versatilità aprendo alla cucina, sia nei propri spazi sia avviando una serie di progetti itineranti in giro per l’Italia. Nel primo caso, ecco le cene nell’orto: nella bella stagione infatti le serre si trasformano da spazi per la coltivazione in veri e propri teatri in cui è la ristorazione ad essere protagonista. Il contesto è assai suggestivo – spesso oltre al cibo ci sono musica e arte a fare da contorno – e prende le mosse dall’idea che attraverso la condivisione e la convivialità si possa godere ancora di più di quanto di buono producono gli orti, trasformando una cena in una vera e propria esperienza multisensoriale. Infine, proseguendo nell’idea che i semi della condivisione dei saperi e della collaborazione diano frutti di valore, in estate Orto felice ospita cene a tema che vedono protagonisti giovani chef e organizza anche serate pop up itineranti, con la ristorazione in giro per l’Italia. L’impressione complessiva, insomma, visitando l’azienda e facendosene raccontare l’evoluzione, è quella di un luogo che solo in parte è descrivibile attraverso l’attività agricola, ma che più ampiamente è invece uno spazio di impegno civile, cambiamento culturale e rispetto dell’ecosistema.

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FRIULI VENEZIA GIULIA

Fonduta: cos’era costei?

La Fondue (svizzera o francese) e la nostra Fonduta condividono origini limitrofe ed ingredienti simili che, come in tutte le preparazioni con un confine geografico poco chiaro, portano a discussioni e rivendicazioni complesse, capziose e spesso colorite.

Volendo fare un po’ di chiarezza, mi sono avventurato in una ricerca storica che mi ha portato anche molto lontano dal confine nazionale e che ha richiesto comunque un’analisi complessa per districarmi tra verità, mito, rivendicazioni territoriali, differenze casearie, ricette e fatti storici.

Da quanto ho riscontrato, la “paternità” della ricetta è pubblicamente rivendicata dalla Svizzera che inserisce la Fondue tra i piatti nazionali; seguono alcune regioni della Francia Transalpina e noi Italiani che ne rivendichiamo la versione Valdostana e quella Piemontese. Difficile, se non impossibile, capire dove come e perché sia nato il piatto come lo conosciamo oggi ma l’origine è sicuramente povera: fondere il formaggio più grasso che si aveva e condirlo con quanto a disposizione era una pratica tradizionale presso gli alpigiani e gli allevatori in montagna. In Svizzera il consumo di questo piatto è radicato nella regione della Gruyère ma l'abitudine si estese alle pianure molto probabilmente nel corso del XVIII secolo.

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VALLE D'AOSTA

A proposito di convivialità e modalità, interessante notare che la “fonduta” ha comunque una radice comune nei luoghi più lontani del globo: in Asia si condivide tra familiari un recipiente con brodo caldo o olio nel quale i commensali intingono e cucinano pezzi di carne, pesce o verdure; in Messico il Fundo è simile al piatto di formaggio fuso europeo, ma al posto del pane raffermo si usano le tortillas!

In Francia Il gastronomo e politico Brillat-Savarin (1755-1826) diede testimonianza di una sua esperienza di degustazione in Svizzera (cosa che ne avvalora la notorietà) e trasferì la ricetta originale nella “Physiologie du goût” (1825), parlando di una pietanza a base di formaggio gruyère, uova sbattute e burro che venivano fusi in una pentola fino a divenire una massa cremosa. La Francia, quindi, dichiara storicamente “l’importazione” di questa abitudine dalla Svizzera.

In Italia viene in soccorso la “Scienza in cucina” del 1891, dove il gastronomo e letterato Pellegrino Artusi – che specifica di non gradire il piatto – ne ha raccontato una versione assaggiata alla corte dei Savoia, nella variante denominata Cacimperio, che prevedeva nella preparazione la scelta della fontina e l'aggiunta di latte. Purtroppo, non avendola gradita, non ne specifica i passaggi per la preparazione.

Fra tutti gli scritti dell’epoca, un’altra testimonianza storica della fonduta si ha nel 1854: una ricetta molto vicina a quella attuale venne pubblicata nel "Trattato di cucina" di Giovanni Vialardi, cuoco dei re Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II. Fra questo scritto e quello di Artusi si delinea chiaramente il periodo storico e la caratteristica distintiva tra la fonduta italiana e le cugine francesi e svizzere: l’uso del latte.

Tornando a raccontare un po’ di storia della versione nostrana, la fonduta viene prepotentemente rivendicata dalla Valle d’Aosta che l’ha suggellata con l’utilizzo di una delle sue produzioni gastronomiche più famose: la Fontina Valdostana Dop.

Questo notissimo formaggio ha un’origine storica che si perde nel 1200 e deve il suo nome alla famiglia Fontin. Inoltre, la fontina rappresenta una parte inscindibile del patrimonio artistico oltre che enogastronomico territoriale della Valle d’Aosta. La preziosità di questo formaggio ha impresso così tanto la sua presenza nelle tavole nobiliari da poter vedere forme intere di fontina, insieme a cacciagione, salumi e vini,

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in diverse opere allegoriche appese alle pareti delle sale da pranzo dei numerosi

castelli valdostani aperti al pubblico.

La fontina è, quindi, una base tecnica pregiata che rispetta le caratteristiche organolettiche di un formaggio vaccino, a latte in tero ed a pasta semicotta. Risulta sapido e ricco di grassi, può essere a media o lunga stagionatura, ha pasta semidura e crosta lavata ma soprattutto è facilmente riconoscibile per i fregi ed il logo in azzurro della Dop.

Vista la varietà di produzioni, in Valle d’Aosta è un ingrediente che possiamo considerare comunema con delle unicità - soprattutto nelle versioni d’alpeggio. Proprio la varietà degli alpeggi e la stagione di produzione influiscono su profumi e sapori: le forme prodotte in primavera, quando i pascoli arricchiscono il foraggio con il profumo di fiori ed erbe fresche, hanno profumi e sapori che variano da zona a zona, oltre che per grado di stagionatura. Questo rende la fonduta alla valdostana un piatto che difficilmente sarà monotono, anche se assaggiata più volte.

Nella declinazione valdostana, la realizzazione della fonduta prevede alcune accortezze che la rendono particolarmente gradevole nella consistenza e delicata nel sapore: la fontina va scelta per provenienza e grado di stagionatura preferiti, in modo da decidere in partenza se farne una versione più fresca o più saporita.

Fatte queste premesse, per preparare una fonduta rispettosa della tradizione, la fontina deve essere pulita della crosta e tagliata in cubi di media grandezza; dopodiché, andrà immersa nel latte per diverse ore ma, nelle “ricette della nonna”, soprattutto per la fontina più stagionata, si parla di una notte intera in ammollo!

l’ingegno dello chef

Konrad Egli (di origini

svizzere), al servizio dello Chalet Suisse

Restaurant di New York

al quale, ebbe l’idea di fondere – al pari del formaggio – il cioccolato e immergervi all’interno della frutta. Ma questa è un’altra storia.

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A questo punto, cito la ricetta di F. Mathiou, “Bisogna prendere un recipiente piuttosto alto e stretto (che può essere di ceramica, ghisa smaltata, metallo, rame o acciaio - classicamente denominato caquelon), mettere al suo interno i cubetti di fontina e ricoprire di latte per parecchie ore, anche una notte. Al momento di preparare la fonduta, mettere in una casseruola il burro, i tuorli e la fontina macerata nel latte e far cuocere a bagnomaria, rimestando continuamente con un cucchiaio di legno. La fontina in principio si unirà in un blocco filante, poi si diluirà gradatamente col latte e l’uovo fino a diventare una crema liscia e densa. Perché la fonduta sia ben riuscita non deve assolutamente filare. Prima di salare occorre assaggiare, perché generalmente la fontina è già salata a sufficienza; aggiungere quindi un pizzico di pepe, servire con pane tostato.”

Alla fine della preparazione viene il momento migliore della fonduta ma non parlo di quando il caquelon (sotto alla quale si pone un fornellino alimentato ad alcool che ne mantiene costante la temperatura) sarà posto al centro della tavola ed ogni commensale verrà munito di una forchettina dal manico piuttosto lungo e con un bollino colorato per essere riconosciuta, con la quale infilzare i crostini di pane e raccogliere il formaggio fuso. Non parlo neppure della parte finale, quando la fonduta si è mantenuta alla giusta temperatura fino alla fine e sul fondo del caquelon si forma una crosticina di formaggio, la cosiddetta religieuse (che in francese vuol dire «suora»). A tal proposito, va detto che questa prelibata crosta ha la consistenza di un cracker ceroso e viene di solito rimossa con una spatola e mangiata condividendola fra tutti. Non parlo nemmeno di sperimentare la patata o altri prodotti al posto del pane o, nella stagione invernale, aggiungere una spolverata di pregiato tartufo bianco: questo lo considero il momento più “gustoso” ma non è sicuramente il migliore.

Il momento migliore del rito della fonduta è sedersi tutti intorno ad un tavolo, ritrovarsi nel calore di questo piatto e godersi la compagnia e la chiacchierata in coppia o tra amici, riscaldati dal piacere della convivialità.

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Gli antichi grani siciliani

Camminando tra i campi di grano delle fertili terre siciliane ci si può imbattere all’improvviso in dorate spighe ripiene di cariossidi mature, che guardano curiose il mondo d’attorno, dai loro steli alti quasi 2 metri. E lì, dove quelle spighe danzano leggere al vento mediterraneo, è ancora possibile incontrare virtualmente i primi coltivatori di questo grano, il Triticumn monococcum, cereale antichissimo, il frumento più antico che si conosca, ancor oggi coltivato da eroici agricoltori siciliani, innamorati delle radici alimentari e soprattutto dell’unicità straordinaria del proprio frumento. E dire che è il primo frumento coltivato dall’uomo neolitico quando nacque l’agricoltura, circa 12 mila anni fa, nella Mezzaluna fertile, probabilmente nel corno orientale di quella luna, tra il Tigri e l’Eufrate, dove vissero Sumeri, Assiri, Babilonesi.

La nostra storia comincia però in tempi più recenti, nell’VIII secolo a. C. quando numerosi vascelli partirono dalle sponde della Grecia verso la Sicilia, la Calabria, la Puglia, la Campania alla ricerca di nuove terre da coltivare e luoghi idonei dove costruire nuove città, non essendoci più posto nella loro terra natale. E nacque la Magna Grecia, ricca di monumenti straordinari.

Quei Greci immigrati in massa – la storia d’oggi non è per nulla nuova, non fa che ripetere immigrazioni antiche – non arrivarono a mani vuote ma portarono con sé prodotti che sono alla basa della nostra civiltà alimentare: frumento, vite e ulivo, quindi pane, vino e olio d’oliva.

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SICILIA

Gli antichi frumenti siciliani

Che frumenti portarono i coloni greci giunti in Sicilia e nell’Italia meridionale circa 2800 anni fa? Sappiamo che in Grecia non si produceva frumento e che il Paese allora considerato il granaio più ricco dove accorrevano per acquistarlo altre popolazioni, non solo mediterranee, era l’Egitto dei Faraoni. Basti ricordare l’episodio biblico del patriarca Giacobbe (Gen. 42-45), il quale, arrivata la carestia in Palestina, mandò i suoi figli in Egitto ad acquistare frumento. Siamo tra il XVIII e il XVII secolo a.C. e già allora, grazie anche a Giuseppe, figlio di Giacobbe, divenuto viceré, vennero costruiti degli enormi silos per conservare il grano anche per i periodi di carestia.

Dunque i Greci portarono in Italia il grano coltivato per lo più in Egitto, come in altre parti del Vicino e Medio Oriente.

Fra i grani antichi oggi coltivati in Sicilia ci sono Tumminia o Timilia e Russello, due varietà di grano duro presenti in Sicilia da tempi immemorabili, così come il Khorasan è coltivato in Puglia fin dai tempi più antichi.

E, dato che ci siamo, ricordiamo altri grani antichi coltivati in Italia: Gentil Rosso, Gentile Bianco, Cologna, Frassineto, Marzuolo e ci fermiamo qui, dovendo ora fare una precisazione per eliminare degli equivoci o notizie sbagliate abbastanza diffuse.

Grani antichi: con questo termine sono chiamate varietà di grandi esistenti in Italia ai tempi dell’impero romano. Nel corso del Medioevo dopo che i Romani avevano diffuso il frumento nelle terre da loro conquistate, in tutta Italia, in Spagna, in Francia, in Germania meridionale, in Austria, le antiche tipologie vennero quasi ovunque confuse a causa di incroci spontanei, da qui nacquero nuove varietà, fra cui la più importante è considerata il Rieti, che ritroveremo subito.

Grani storici: sono così chiamate le varietà, dallo stelo molto più corto di quelle precedenti, realizzate nella prima metà del secolo scorso dal grande genetista Nazareno Strampelli (ma non solo), grazie a felici incroci, quasi sempre partendo da Rieti originario. Fra queste ricordiamo il Senatore Cappelli (grano duro), l’Ardito (il più prodotto nel ventennio fascista), il San Pastore, il Mentana. il Piave, Villa Glori, Damiano, Marzotto, ecc.

Grani moderni internazionali: sono quelli prodotti dalle multinazionali dei cereali, non nati in Italia, sono molto produttivi ma sterili e giunti nel nostro Paesi dagli USA nell’ultimo dopoguerra (anni '50-'60)

Grani moderni italiani: sono grani realizzati da genetisti italiani, molti allievi dello Strampelli, di ottime caratteristiche, coltivati sempre più diffusamente in Italia e anche all’estero.

Torniamo in Sicilia

Par di vedere i coloni greci, arrivati lungo le coste della Sicilia e dell’Italia meridionale e, trovato il luogo migliore dove fermarsi, impegnati a costruire le loro prime case. Ma non si fermano. Lasciate le loro famiglie, eccoli riprendere il mare, perché nelle nuove terre, pochissimo abitate e semiselvagge, manca tutto. Tornano in Grecia a prendere tralci di viti da innestare in quelle selvatiche trovate in Italia e ancora cesti d’olive per interrare i noccioli e produrre nelle nuove terre quell’olio tanto prezioso non solo per condire gli alimenti. E poi il frumento, ma questo lo trovano in Egitto, e ne riportano nella loro nuova patria delle anfore ricolme. Non sanno i nomi delle varietà ma conservano di anno in anno una parte del frumento prodotto per la semina successiva. Ma sappiamo noi, grazie agli studi compiuti negli ulimi due secoli i nomi di quelle varietà. Perché quelle varietà ci sono ancora, a cominciare dal Triticum monococcum il primo frumento coltivato dai primitivi; il Triticum turgidum subspecie dicoccum, cioè il farro; il Triticum turgidum subspecie durum, vale a dire il frumento che sostituì il farro nell’area mediterranea a partire dalla fine dell’Impero Romano (V-VI secolo d.C.); il Triticum turanicum, che è il Khorasan coltivato in Puglia (un imprenditore di Bari ne produce ben 400 ettari tra Altamura e Matera) ed è originario dell’attuale Iran.

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Immagino quei coloni greci tornare a Metaponto (fondata nel 773 a.C.), a Pithecusa (Ischia, 770 a.C.); a Cuma, Sibari, Crotone, Taranto, Siracusa, Agrigento e decine d’altre città, soprattutto lungo le coste. E, grazie a loro, alle spalle delle città in pochi decenni ci fu un fiorire d’alberi da frutto, un espandersi di filari di viti, ed era possibile vedere gli ulivi sacri a Minerva abbassare all’inizio dell’autunno i propri rami carichi d’olive mature. E nelle zone libere, pur arate con difficoltà, con le donne a tirare il vomere, ecco all’inizio dell’estatate degli alti tappeti color dell’oro. Era il frumento, alto quasi due metri, dalle spighe anch’esse leggere, con le cariossidi rivestite e protette. Tagliate quelle spighe e portate nell’aia di casa, battute a lungo, ecco uscire i semi preziosi che, ben pestati o macinati, permettevano di ottenere un pane profumato o dolci da offrire agli dei.

I nomi di quei frumenti arriveranno più tardi, molto più tardi, quado gli scienziati lo chiameranno Triticum durum che si presenta in forme leggermente diverse e il più antico, il più vicino all’originale importato dai coloni greci è il Tumminia o Timilia e, probabilmente un incrocio che lo ha arricchito di colore, il Russello.

Verso il futuro

Vi sono esperti qualificati che amano trascurare i grani antichi, preferendo certe varietà moderne conosciute con una sigla e provenienti da avanzatissimi centri di ricerca, molto produttive ma sterili. Che è come dire che se vuoi continuare a seminare frumento devi continuare ad acquistare ogni anno la semente al prezzo imposto da chi la produce.

Io ho una mia personale convinzione, ricordando quando bambino e ragazzo andavo al forno del mio paese ad acquistare il pane. Molto prima di arrivarci ero avvolto da un profumo che m’inebriava e tornavo a casa a piedi o in bicicletta accompagnato da quel profumo di pane che m’invitava prepotente a mangiarne almeno un po’. Ora se voglio risentire il profumo del pane devo entrare col fornaio nel forno prima che finisca di cuocere il pane, perché poi il profumo se ne va.

Basta questo per plaudire a quei coraggiosi agricoltori che continuano a produrre grani antichi, quelli nominati per la Sicilia, il Khorasan in Puglia e così per altre varietà. E ad elogiare quei fornai che impiegano quelle ottime farine, magari impastandole col lievito madre e offrono ai loro clienti del pane straordinario che in Italia si confeziona ancora, specie nel centro-sud. Quei pani confezionati con farine antiche sono una delle colonne portanti della cucina italiana; pani profumati, sani, buoni, che ammaliano anche i turisti stranieri.

Continuare a coltivare Tumminia, Russello, Khorasan (e, ricordo, in Puglia se ne produce davvero tanto), Gentil Rosso, Gentile Bianco, Cologna, Frassinetto, Marziolo o anche le varietà di Nazareno Strampelli, Senatore Cappelli, San Pastore, Mentana, Piave, significa godere profumi, gusti e sapori particolari, sapendo di mangiare del pane buono, sano e che fa bene. E poi in quel pane c’è la nostra storia ed è saggio non dimenticarla.

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SICILIA

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FUAZZA

La storia gastronomica di Racalmuto si festeggia in agosto

a cura della redazione

Il meraviglioso miscuglio di razze, tradizioni, influenze che l’isola accoglie in sé si è riversato anche sulla preparazione di questo piatto.

La schiacciata siciliana è diffusa in tutta la Sicilia con vari nomi: muffulettu, cabucio, cudduruni, fuazza. Ai diversi nomi corrispondono altrettante varianti tutte molto simili tra loro.

Così Leonardo Sciascia, cittadino illustre di Racalmuto, descrive il pasto degli zolfatari nel suo libro "Le parrocchie di Regalpetra". Ci racconta di un tempo in cui era inevitabile il bisogno di accontentarsi di un cibo semplice.

Ma della semplicità e della straordinaria capacità di nobilitare gli ingredienti cosiddetti “poveri”, la Sicilia tutta ha fatto un’arte che non ha eguali. Da una provincia all’altra dell’isola gli esempi sono praticamente infiniti… e tutti meriterebbero di essere citati (e, soprattutto, assaggiati). Quando poi si parla di pizza siciliana (o meglio schiacciata), si parla di una tradizione antica e deliziosa, che può vantare una sua specificità, in virtù di numerose influenze culturali e di specialità locali preesistenti.

Per rimanere a Racalmuto, tra i piatti tipici che, ancora oggi, vengono preparati con abilità dalla popolazione locale (e da chi in questi luoghi ci è cresciuto), ci sono le celebri fuazze racalmutesi.

Giuseppe Pitrè, medico, storico, filologo, letterato - trattando le tradizioni popolari della Sicilia nel 1889 -racconta di fucaccia, fuaccia, fucazza, fuazza, fuazzu collocando la preparazione dai mille nomi tra le “Paste molli e Schiacciate”.

A prima vista possono sembrare delle semplici pizze ma, in realtà, racchiudono una fragranza di straordinaria complessità. L’impasto lievita e diventa soffice: si stende e, dopo una breve cottura nel forno caldissimo (l’ideale è nel forno a legna) diventa croccante al punto giusto.

Il condimento classico è con salsa di pomodoro, alici sott’olio, aglio e una generosa spolverata di buon pecorino siciliano, ma è possibile davvero sbizzarrirsi e utilizzare i propri ingredienti preferiti.

A custodire e presidiare queste e molte altre ricette locali è l’Associazione “Food and Beverage Racalmuto” che si adopera per valorizzare e promuovere le tipicità del “paese di Sciascia”.

Dal 25 al 27 agosto sarà l’organizzatrice della prima edizione del “Fuazza Fest”, con il meglio della Pizza “made in Sicily” e dello Street Food siciliano e racalmutese in Piazza Barona.

Alla presenza di operatori professionali, in occasione di incontri con la stampa e degustazioni, verrà proposto un viaggio nel mondo della pizza, un progetto di promozione del simbolo per eccellenza dell’italianità in tutto il mondo per diffonderne la cultura e le tradizioni.

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“…mangiamo pane e coltello - dicevano, come dire che mangiavano solo pane, al massimo l'accompagnavano con l'acciuga salata o con un pomodoro” .
SICILIA

Ingredienti

Farina di grano duro 500 g; Lievito di birra 1 bustina; Alici sott’olio 300 g; Salsa di pomodoro 500 g; Aglio 5 spicchi; Pecorino siciliano grattugiato; Origano siciliano; Olio extravergine d’oliva siciliano

Procedimento

Per fare le fuazze racalmutesi, dovete anzitutto preparare l’impasto.

Mescolate la farina con il lievito, lo zucchero, il sale e l’acqua tiepida.

Lavorate impasto con cura e fatelo lievitare, per almeno due ore.

Una volta che avrà lievitato, prendete l’impasto e formate delle palline.

Stendete le palline di impasto con una forma leggermente ovale.

Condite con salsa di pomodoro, filetti di alici e aglio tagliato a pezzetti. Coprite con abbondante pecorino, quindi completate con olio e origano.

Cuocete nel forno ben caldo per 5/6 minuti.

Sfornate e gustate.

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RICETTA

I formaggi naturali del Molise

La storia gastronomica del Molise è segnata da tratturi e transumanze. La storia casearia è una storia nella storia, che trasforma le tradizioni dei pastori in una serie di formaggi deliziosi, in cui il latte di vacca, capra e pecora da vita ad autentici capolavori, spesso poco noti. Ecco perché quella che ci aspetta è una galleria di gusto, che ci permetterà di conoscere da vicino le eccellenze di una regione tutta da scoprire.

Pecorino del Matese

Prodotto da aprile a settembre sui monti del Matese, nelle province di Campobasso e Isernia, è un formaggio misto, con ¾ di latte di pecora e ¼ di latte di capra. Affonda le sue radici nella storia contadina poiché, quando il gregge si dirigeva verso i pascoli del massiccio del Matese, il formaggio prodotto dai pastori transumanti, strada facendo, era esattamente questo. Ha forma cilindrica, un diametro di 14-22 cm, peso compreso tra 800 gr e 3 kg e un’altezza che va dai 4 agli 8 cm. La crosta è dura e rigata dai segni dei canestri e di colore nocciola scuro. La pasta, con occhiatura piuttosto rada, di dimensione fine e regolarmente distribuita, è abbastanza dura, di colore bianco o avorio. Al palato, il sapore è piccante, deciso e persistente ed il gusto pieno. La lavorazione prevede che il latte venga riscaldato a 38-40°C aggiungendo caglio di agnello o di capretto.

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Dopo la coagulazione, la cagliata viene rotta fino alla dimensione di un chicco di riso e lasciata depositare sul fondo. Quando è ben rappresa, viene sistemata in fuscelle dove viene pressata a mano. Si passa poi alla salatura, effettuata a secco per due giorni e alla maturazione, che dura 15-20 giorni e deve avvenire in ambiente aerato e fresco: le forme vengono riposte su ripiani di legno e lavate quotidianamente. La stagionatura va dai 3 ai 12 mesi. L’abbinamento migliore è quello con i vini rossi.

Pecorino di Capracotta

Altro prodotto a marchio P.A.T. come il precedente, questo pecorino viene prodotto da dicembre a metà luglio, in provincia di Isernia, nei comuni di Agnone, Capracotta, Carovilli, Vastogirardi, San Pietro Avellana, Pescopennataro, paesi che sono situati oltre i 1.000 m di altitudine. Nel territorio di produzione le erbe dei pascoli si diversificano fra loro a seconda dell’esposizione o dell’altezza, influendo significativamente sul sapore della pasta. È un formaggio le cui origini risalgono all’epoca dei Sanniti: è ricavato da latte di pecora che viene prima filtrato e poi portato a 37°C con l’aggiunta di caglio di agnello o di capretto. La cagliata viene quindi rotta con lo spino fino alle dimensioni di un chicco di riso. La pasta viene semicotta a 42-45°C e, in seguito, estratta e posta nelle fuscelle, dove si pressa a mano e si rovescia molte volte in modo da dare a tutta la superficie del formaggio il motivo rigato del contenitore. Dopo aver scottato le forme nel siero bollen -

te per 10 minuti, si passa alla salatura a secco o in salamoia per 12-24 ore. La maturazione avviene in un mese, in un ambiente fresco ed aerato mentre la stagionatura dura dai 3 mesi fino ai 2 anni, in ambiente a temperatura che varia dai 12° ai 15°C. Il risultato è un formaggio dalla forma cilindrica, a facce piane del diametro di 14-22 cm, peso 1-2,5/3,5 kg, altezza di circa 4-9 cm. La crosta è dura, rugosa, di color paglierino o marrone chiaro con la stagionatura; la pasta è dura, compatta con rare occhiature, fini, irregolari e che lacrimano. Il profumo e il gusto sono intensamente aromatici e sfiorano il piccante nelle stagionature più lunghe. Si tratta di un formaggio grasso, che ben si sposa con vini di corpo.

Scamorza molisana

Prodotta tutto l’anno in tutta la regione, con particolare pregio per quella dell’Alto Molisano, è un formaggio da latte vaccino di razza Bruno-alpina. Si tratta di una pasta filata, semidura, a forma di pera, con testina di diametro di 6-7 cm, per un peso complessivo di 150-200 gr. La lavorazione è la stessa di quella del caciocavallo, ma cambia la temperatura di coagulazione, qui più alta. Il latte viene inoculato con fermenti lattici e, alla temperatura di 32°-36°C, addizionato con caglio di vitello liquido. La cagliata viene ridotta alle dimensioni di un chicco di mais e viene poi ricoperta dal siero precedentemente estratto, per

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essere mantenuta alla temperatura di 45°-50°C. Si passa quindi alla filatura in acqua bollente e formata a mano, cui segue la salatura in salamoia e l’asciugatura, fase in cui viene appesa legata a coppie per qualche ora. Il consumo è immediato o dopo 2-3 giorni. La superficie esterna è senza crosta se fresca, ricoperta da pellicola morbida e liscia di colore giallo paglierino se brevemente stagionata. La pasta è bianca o paglierino chiaro, morbida, tipicamente fibrosa e priva di occhiatura. Il sapore è dolce, con un’intensità aromatica bassa. Si consuma come formaggio da tavola o, meglio ancora, alla griglia.

Stracciata di Agnone

Prodotto nell’alto Molise, in particolare nei comuni di Agnone, Capracotta e Vastogirardi è un formaggio fresco che si ottiene da latte vaccino. Un tempo era destinato solo al consumo locale, oggi meriterebbe di essere più conosciuto e commercializzato anche al di fuori della zona di produzione. Il nome deriva dal verbo “stracciare”, riferito all’operazione fatta per dare forma al prodotto, che è tradizionalmente reso come una striscia larga e sottile, appiattita, lunga 50 cm e ripiegata tre volte. Era consumato nei banchetti nuziali,

Treccia di Santa Croce di Magliano

nelle feste e in ogni ricorrenza particolare. Si tratta di una pasta filata, fresca, molle, che si ottiene dalla lavorazione del latte portato a 37°C e fatto coagulare con caglio di vitello. Dopo la coagulazione, che avviene in circa 30 minuti, la cagliata viene rotta fino alla dimensione di una nocciola e lasciata poi maturare sotto il siero per circa 90 minuti. Quindi la filatura, in acqua bollente e la forma, poi il raffreddamento e la messa in salamoia per la salatura. Il prodotto finale è alto 3-4 cm, per 400, 500 gr di peso. La pasta è bianco avorio ed ha il sapore caratteristico del latte. Si usa consumarla con pane, prosciutto, salame e soppressata.

È uno dei pochi formaggi italiani che hanno un valore religioso e propiziatorio. È il formaggio tradizionale delle feste della Madonna dell’Incoronata, che ricorre l'ultimo sabato di aprile, e del patrono, San Giacomo: ad alto valore simbolico, viene usata come ornamento a tracolla dei pastori e degli animali che ricevono la benedizione del Santo Patrono, rito che viene considerato di buon augurio per l’andamento delle produzioni agricole e zootecniche. Viene prodotta da latte vaccino crudo cui viene aggiunto il siero derivante dalla cagliata del giorno prima (la zizza). Il latte è portato a 35-40°C e addizionato con caglio di vitello. Rotta la cagliata, la massa viene lasciata riposare per qualche minuto in un recipiente più piccolo dove è stata trasferita manualmente. Il siero viene quindi aggiunto poco alla volta sulla pasta fino alla sua completa copertura. La pasta viene lasciata riposare per qualche ora affinché possa maturare: viene tagliata a strisce sottili ricoperte delicatamente di acqua bollente finché non si possa lavorare formando tanti fili tondi di circa 1 cm che vengono quindi raffreddati in acqua fredda affinché si rassodino. Trasferiti in un altro recipiente ed immersi in acqua salata, vengono poi tolti dall’acqua e sistemati su un tavolo ricoperto con una tovaglia di cotone e intrecciati. La treccia viene poi avvolta in panni di cotone e viene girata su ambo i lati per assicurare che la colorazione e la consistenza finale risultino omogenei. Lunga circa 1 metro e larga 20 cm, pesa 1-1,5 kg. Non ha crosta, la consistenza è elastica e l’intensità aromatica è lieve.

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MOLISE

Caciocavallo di Agnone

È un formaggio originario del comune montano di Agnone fin dai tempi della Magna Grecia. Si ottiene da latte vaccino riscaldato alla temperatura di 36-38°C e addizionato con caglio di agnello o di capretto. La cagliata viene rotta in due fasi: la prima in modo grossolano, la seconda, dopo una breve sosta, alle dimensioni di un chicco di mais. Estratta una parte del siero, la si riscalda a 65°C per poi riversarla nella caldaia, sopra la pasta depositata sul fondo. Ad acidificazione avvenuta, si estrae la pasta, la si taglia a fette sottili e si procede alla filatura con acqua a 85°C. La forma avviene a mano, in modo tale da arrivare alla sagoma della pera e la salatura è in salamoia, per un periodo variabile di 12-20 ore. Dopo una breve maturazione di 20 giorni, le forme sono fatte stagionare, appese legate a coppie, spesso in grotte naturali per un minimo di tre mesi fino a due anni. L’altezza del caciocavallo varia da 18 a 22 cm, il peso da 1,5 a 3 kg. La crosta è sottile e dura, di colore nocciola. La pasta è compatta con varie fessurazioni che rilasciano liquido: il profumo intenso, il sapore dolce e pastoso, per diventare man mano piccante ed intenso. Si mangia grigliato, con pane casereccio.

Caprino del Molise

Prodotto da aprile a settembre in tutto il territorio regionale, è rinomato quello prodotto a Montefalcone del Sannio. Il latte è ottenuto da razze autoctone e il prodotto assume varianti organolettiche olfattive e gustative particolari, a seconda del pascolo con cui vengono alimentate le capre. La lavorazione prevede che il latte crudo venga scaldato alla temperatura di 38-40°C in caldaie di rame stagnato, addizionato di caglio di capretto e mescolato utilizzando un mestolo di legno. La cagliata viene rotta in grani particolarmente fini e i grumi così formati vengono lasciati precipitare nel fondo della caldaia. Contemporaneamente la cagliata viene nuovamente scaldata a temperatura di 42-43°C e quando assume una forma tondeggiante, viene raccolta e pressata all’interno di fuscelle di giunco. Il formaggio viene quindi immerso per alcuni minuti all’interno del siero bollente e poi salato a secco per circa 24 ore. La stagionatura avviene in cantine in luoghi freschi e aerati: con un particolare utensile di legno, la cascera, appeso al soffitto, le forme vengono lì collocate per almeno due mesi.

Fior di Latte molisano

Formaggio fresco prodotto durante tutto l’anno in tutta la regione, vede la sua massima espressione gustativa nelle pezzature prodotte in primavera-estate. Si ottiene da latte vaccino, in genere di razza Bruna, la cui lavorazione è la stessa che viene utilizzata per il caciocavallo fino al punto della maturazione della cagliata, che qui avviene con temperatura più bassa. La temperatura dell’acqua per la filatura è invece più alta ed è anche maggiore la quantità di acqua usata. Ha colore bianco, forma sferoidale, peso tra i 100 e 250 gr e pasta appare compatta e ricca di latticello. Il sapore è dolce e acidulo.

Formaggio di Pietracatella

Prodotto nel territorio del Fortore molisano, in particolare nel comune di Pietracatella, in provincia di Campobasso, viene prodotto con latte intero vaccino, e/o ovino e/o caprino. Il latte crudo viene riscaldato alla temperatura di 37°C e addizionato con caglio di vitello o di agnello. La cagliata viene rotta con lo spino e riscaldata alla temperatura di 38-40°, quindi lasciata depositare sul fondo della caldaia, estratta e posta nei giunchi, dove viene lasciata su tavoli di legno a spurgare del siero in eccesso e poi estratta e salata a secco. Tipica la stagionatura che avviene, per almeno 2 mesi nelle grotte tufacee (mogie) di Pietracatella. La crosta è segnata dalle rigature dei giunchi, è rugosa, di colore paglierino. La pasta è morbida, semidura, umida, di colore bianco o paglierino con la stagionatura. La forma è cilindrica, di 400-500 gr, facce piane del diametro di 15-20 cm, scalzo alto 6-8 cm.

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MOLISE

Transameria. Nel cuore verde dell’Italia

a cura di Slow Food Italia www.slowfood.it

Lungo la dorsale dei Monti Amerini, nell’Italia centrale, si snoda la Transameria, un percorso che prende il nome dall’antica Via Amerina, arteria che - in epoca romana - collegava Roma con i principali centri dell’Umbria. Todi, Avigliano Umbro, Montecastrilli, Amelia e ritorno: un itinerario lungo antiche vie ricche di storia tra olivi secolari e cucina genuina. Non a caso, è proprio in questo territorio (per la precisione: a Todi) che ha sede l’Istituto Agrario Ciuffelli, la scuola di agricoltura più antica d’Italia, fondata nel 1864. La scuola ha sede nell’ex monastero medievale di Montecristo e offre visite in cantine storiche, moderni frantoi, caseifici, laboratori di autoproduzione, foraging e numerose degustazioni guidate.

74 pizza e pasta italiana giugno 2023 UMBRIA

Un possibile itinerario

Consigliamo di cominciare il viaggio da Todi e dalle meraviglie del suo centro storico, come il tempio rinascimentale di Santa Maria della Consolazione attribuito al Bramante, la meravigliosa Piazza del Popolo, il Palazzo dei Priori e quello del Capitano. Per cena, si può scegliere l’osteria “Il Merollo” nella frazione di Pesciano, dove si utilizzano solo materie prime autoprodotte per cucinare le “poltricce con vitalbe” (le tipiche pizzette fritte umbre), la panzanella, gli strangozzi con il tartufo e naturalmente i colombacci alla todina.

Prima di lasciare Todi, in direzione sud, potete raggiungere la Cantina Sobrano. Qui oltre a degustare l’ottimo Grechetto di Todi, si può ammirare uno splendido paesaggio sulla Media Valle del Tevere e fare una passeggiata tra i filari, alla scoperta dei fossili di cui è ricca la zona: è emozionante affacciarsi dalla porta della cantina e fare una passeggiata nel tempo, immaginando quello scenario pleistocenico che diventa realtà nel vicino sito paleontologico della Foresta fossile di Dunarobba, Patrimonio mondiale dell’umanità. È su queste antiche argille, ricche di conchiglie e minerali, che trovano identità e fertilità i due vitigni più coltivati in zona.

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Ripresa la provinciale, di collina in collina, si raggiunge prima il Castello di Sismano risalente all’XI secolo, quindi il sito paleontologico della Foresta fossile di Dunarobba, Patrimonio mondiale dell’umanità, dove è possibile osservare da vicino i resti dei circa cinquanta tronchi di gigantesche conifere vissute tra i tre e i due milioni di anni fa.

Nella frazione di Frattuccia, sarà possibile fare visita a molteplici realtà produttive come nel caso de “La Fortezza Alta”, produttrice di olio o “Il Noceto” che offre salumi umbri e pane (tipicamente sciapo) da accompagnare al tipico prosciutto tagliato al coltello.

Un buon luogo dove sostare la notte è il PeR (Parco dell’Energia Rinnovabile), un agriturismo ecosostenibile immerso nei boschi dove si produce ancora il Presidio Slow Food della fava cottora dell’Amerino e dove, a colazione, sono offerti dolci fatti in casa con materie prime da agricoltura biologica.

Un discorso merita poi la città di Amelia, centro di antiche origini romane, ricco di storia e tradizioni. Amelia si contraddistingue per le sue mura poligonali e la statua bronzea del Germanico. La piccola cittadina, fondata dal leggendario condottiero Ameroe nel 1134 a.C., gode di un fascino particolare. Monumenti e chiese medievali, splendidi palazzi rinascimentali e strade del periodo romano e preromano si alternano lungo strette e a tratti irte strade cittadine. Il segreto per scoprire Amelia, i suoi angoli più nascosti e silenziosi, in sintonia con lo spazio attorno, il paesaggio collinare e il tempo delle stagioni è passeggiare lungo le vie lastricate fino in cima, dove sorge la Torre dodecagonale e il Duomo: l’antica cattedrale di Amelia risalente al IX secolo dove si conservano le reliquie dei patroni, Fermina (o Firmina) ed Olimpiade. Tra i prodotti di eccellenza di Amelia vi sono la cultivar di olivo detta “Raio” e i fichi Girotti, essiccati, aperti e riempiti a mano con mandorle tostate, noce, candito e cacao: si tratta di una preparazione artigianale nota sin dall’epoca romana, tramandata al Medioevo quando era obbligo degli amerini portare al Papa “centum pignatum ficuum” (cento pignatte di fichi) e rilanciata infine a partire dal 1830 dalla ditta “Antonio Girotti”.

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La gastronomia

Oltre all’eccellente vino, la Transameria offre una cucina schietta e semplice. Da assaggiare sicuramente è la “Striscia con le fave” preparata il giorno della macellazione del maiale con le rifilature di pancetta, le costolette e dei pezzi che si usavano per la salagione, le fave lessate e il grasso ventrale dell’animale. Stesso discorso vale per il “Piccionaccio alla leccarda” (detto anche a Todi “Palomba alla ghiotta”): in questa ricetta, il piccione viene cotto prima allo spiedo e poi passato nella casseruola che, riempita di vino, olive, salvia e un’alice e posta sotto la griglia, ha raccolto tutti gli umori e il grasso del volatile.

Oltre alla fava cottora, se siete alla ricerca di Presìdi Slow Food non perdete il cicotto di Grutti, una specialità gastronomica antica a base di maiale, per gli amanti dei gusti decisi. Questo si ottiene infatti utilizzando tutti i tagli meno pregiati: orecchie, zampetti, stinco, lingua, trippa e altre interiora, cotti lentamente sotto la porchetta a raccoglierne il grasso, con un mix di rosmarino fresco, aglio rosso di Cannara, pepe nero e finocchio.

IMMAGINI da archivio Slow Food.
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L’emergente dell’anno

Scopriamo Pasquale Petrillo, vincitore di Emergente Pizza 2023

“Credo che il tema debba essere la sostenibilità sempre, a prescindere dalla gara, in generale! Tutti coloro che fanno questo mestiere dovrebbero basarsi su questo.”

Parole di Pasquale Petrillo, un giovane nato come cuoco e cresciuto come pizzaiolo che ha le idee ben chiare su come dovrebbe essere il mondo, non soltanto della pizza. Pasquale è attualmente proprietario della pizzeria “Fiore di Latte” a Baveno, in Piemonte.

“Gusto e giusto” sono le parole che sembrano contraddistinguere il suo modus operandi. A dimostrazione di ciò, anche la pizza con la quale si è aggiudicato il premio Miglior Emergente Pizza Chef 2023 sembra essere all’insegna della sostenibilità.

78 pizza e pasta italiana giugno 2023
PIEMONTE

giustizia, cultura, eccellenza

Particolare nella sua semplicità…

Sì. A me piace lavorare con semplicità. In realtà la cucina è semplice, prevede cura e ricerca della materia prima. Se in Italia abbiamo diversi tipi di pomodori, perché non farli assaggiare? Idem per la mozzarella. Ce ne sono di diverse consistenze, perché non sfruttarle? La semplicità è alla base di tutto. Mai esagerare.

Quando è nata la tua passione? Raccontami la tua storia

Per la pizza o per il cibo? (ridiamo)

Per il cibo quando ero piccolo! In realtà io nasco come cuoco. Ho aperto la mia prima attività nel febbraio 2013, quando ho iniziato a fare la pizza. Avendo lavorato anche in qualche ristorante stellato, conoscevo molto bene la materia prima. Ovviamente peccavo molto sugli impasti. Già all’epoca cercavo di creare abbinamenti classici italiani da poter mettere sulla pizza. Proprio come se ci cucinassi sopra. Quando ho aperto dieci anni fa ancora mancava quella cultura che si ha oggi sulla pizza. Ho chiamato la mia prima pizzeria “Il fiore di latte” perché nessuno lo chiamava così. Lo chiamavano “mozzarella"

Cos’è per te la pizza? Dimmene una alla quale non dovrei proprio rinunciare se venissi a trovarti

Sono casertano di origine e, in virtù di questo, sono cresciuto condividendo i valori di un buon pasto in famiglia e del buon cibo. Fin da piccolo ho sentito la pizza come momento di condivisione. Una cena tra amici, una serata in famiglia. Per questo, la pizza che ti proporrei è la Margherita in 4K, in cui ogni spicchio prevede un tipo di accoppiamento: bufala con i datterini, stracciatella e San Marzano, mozzarella affumicata e pomodoro giallo e, in ultimo, fior di latte con pomodorino del Vesuvio. La Margherita in sé non è monotona, ha cultura e tradizione, ma questa che propongo è un po’ più particolare. È rivisitata in ogni spicchio, così da poter assaggiare diversi tipi di ingredienti. Poi è anche bella da vedere.

Pasquale Petrillo

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Entrambe...

ma era sbagliato. Si chiama così quando è fatta di bufala, a meno che non sottolinei che sia mozzarella fatta con latte di mucca. Ho voluto dare un’impronta importante proprio specificando che usavo il fior di latte. Sembrava quasi quasi che venissi dal futuro! Preferivo non andare incontro alla clientela, ma percorrere la mia strada, senza adattarmi. Pensa, ho fatto addirittura fatica a far capire che sulla pizza andasse il basilico e non l’origano.

Quindi tu alla fine non vieni da una famiglia di pizzaioli…

No. L’unico cuoco in famiglia era il mio bisnonno che ho avuto la fortuna di conoscere. Aveva preso in gestione una cantina che stava proprio sotto il palazzo del Presidente della Repubblica. Le persone arrivavano con le carrozze, per farti capire. Lui preparava piatti tradizionali, non c’erano i menù. Facevano il vino fatto in casa, il pomodoro, si mangiava quello che c’era. Ascoltandolo, mi sono appassionato alla cucina. Ho iniziato a studiare cucina a 19 anni, dopo un anno di industriale. Diciamo che se avessi dovuto seguire proprio la passione, ancora oggi aprirei un ristorante.

Poi però la pizza mi ha incantato. Cultura, tradizione, un continuo ricercare e capire. Ancora oggi, dopo dieci anni, sto imparando. Il mio concetto non è mutato, ma l’impasto è decisamente migliorato. Ho puntato su leggerezza, digeribilità e qualità.

Quindi sei passato dalla cucina alla pizza per curiosità…

Sì. Ero curioso. Trovai questo piccolissimo locale di 33 posti a sedere e mia moglie mi spronò ad approcciarmi al “mondo pizza”. Convintomi dell’idea, mi decisi e pensai: “cavolo, facciamo una pizza di qualità!”. Ho fatto vari corsi di aggiornamento, anche oggi cerco sempre di trovare la quadra migliore. Tutti i giorni assaggio la pizza e tutti i giorni mi dico di dover fare meglio. Sono molto critico con me stesso. Non penso ci sia un “modo migliore” di fare la pizza e che non bisogna standardizzare. Ognuno deve fare il suo. Non posso spiegare ad un altro il mio impasto ma posso dirgli qual è il mio concetto. Ognuno deve avere una propria identità.

Restando in tema di competizione… Ti sei aggiudicato il premio di Miglior Emergente Pizza chef quest’anno: dev’essere stata una gran bella esperienza.

Quando mi hanno invitato mi sono incuriosito. Mi è sembrata subito una cosa molto seria, ben organizzata e di qualità. Così ho pensato: “perché no!”. Dopotutto mi piace anche uscire e capire le ideologie altrui. All’inizio ero abbastanza sciolto, poi quando ho passato le selezioni Nord, ho pensato di dover vincere. Così ho iniziato a fare più attenzione. Devo dire che i ragazzi erano molto bravi, eravamo tutti giovani. Ho notato che il livello in questo mondo si è alzato tanto.

Parlami della pizza con la quale hai vinto e dimmi: come ti è venuta l’idea?

Ho vinto con una pizza che ho chiamato Hortum. Il tema era la sostenibilità e dunque ho puntato tutto su quello. A partire dalla cura delle materie prime fino all’uso di prodotti del territorio. Credo che il tema debba essere la sostenibilità sempre, a prescindere dalla gara, in generale! Tutti coloro che fanno questo mestiere dovrebbero basarsi su questo. Ho eliminato i salumi, la carne, il pesce e tutti i prodotti super costosi, lavorando sulla terra. Ho pensato a una pizza vegetariana, perché anche la stagionalità lo permetteva. Questa pizza è già parte del mio menù ma varia, appunto, in base alla stagionalità. Chiaramente non troverai le fave ad agosto o le cipolle di Tropea a settembre. È fatta così: fiori eduli, fave, taccole, cipolla rossa in agro, crema di zucchine, rucola contadina, julienne di asparagi, robiola di Roccaverano, citronette al limone di Sorrento, datterino confit e fagiolini. La rucola dava quel gusto amaro, i fagiolini li ho sbiancati, lavorati… ho usato la robiola invece della classica mozzarella in modo che il sentore di capra contornasse bene le verdure. Insomma, ho cercato proprio di lavorare sulla cucina. Sembra che sia piaciuta tanto.

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Hortum vinceiltitolodi Emerge nt e P i z z a 2 0 2 3 ricerca, cultura, identità
Pasquale Petrillo con la sua

Direi di sì, altrimenti il premio non te lo davano… hai fatto centro!

Non c’è stato bisogno nemmeno di cercare chissà quali cose assurde, la pizza c’era già: l’ho dovuta solo ritoccare. Le verdure magari possono sembrare banali ma, se lavorate e preparate per bene, cambia tutto. Dovremmo uscire dallo stereotipo delle verdure grigliate! Quando mi chiedono una vegetariana, io le abolisco. È bene uscire un po’ dalla normalità.

Quanto è importante per te la qualità degli ingredienti? Riesci a coniugare sostenibilità e gusto?

Quanto è difficile?

Ho sempre messo la qualità al primo posto. Non credo sia complicato coniugare le due cose. Parlando di cibo, sostenibilità per me vuol dire in primis lavorare sulla stagionalità. I prodotti fuori stagione vengono dalle serre. Ovviamente non va bene. Per parlare di sostenibilità bisogna capire come viene fatto quel prodotto, dove. Se vogliamo usare le acciughe del Cantabrico che quindi devono arrivare dalla Spagna – che sia con l’aereo o i furgoni – allora non è sostenibile. Bisognerebbe cambiare i menù in base ai prodotti del proprio territorio, valorizzandolo anche. Se chiediamo di trovare branzino o persico tutto l’anno, è chiaro che parliamo di allevamento… è un concetto molto ampio e delicato. Si parla di “business”. Bisogna ragionare pensando a che direzione prendere: vogliamo assicurare il prodotto tutto l’anno per il fatturato o vogliamo avere rispetto della materia prima, del mondo e della sostenibilità?

Sappiamo che per un mondo più “green” non ci si può affidare esclusivamente all’attenzione per il cibo, in realtà ci sarebbe bisogno di molteplici accorgimenti… Qual è il tuo punto di vista a riguardo?

Parliamo delle farine e dei nostri bisnonni. Le farine arrivavano tutte le volte dall’Ucraina o dal Canada?

Si lavorava sul nostro clima. Le farine erano più deboli, le maturazioni e il lavoro più veloci. Oggi vogliamo il cornicione, il frigo, l’impastatrice e allora di che sostenibilità vogliamo parlare?

È un concetto complicato.

Mi pare di capire che per te a livello di cibo la sostenibilità è fondamentale: cerchi di prediligere il km0, i produttori locali, la stagionalità…

Sì, penso che sostenibilità e gusto non vadano separati. È chiaro che se prendo il pomodoro non di stagione, non avrà mai lo stesso sapore di quello di stagione. Mancherebbe la base naturale, ovvero il giusto clima, il sole, il terreno ecc. Sostenibilità e gusto vanno insieme. Non è difficile: lo è di più andare a prendere il prodotto fuori stagione. Oggi si dovrebbe cambiare il menù ogni due mesi. Penso si possa dire che il modo

in cui lavorava mio nonno, senza menù, fosse più sostenibile. Negli ultimi 30 anni siamo andati nel modo completamente opposto: consumismo, mancanza di rispetto per le materie prime, si compra cibo e se ne butta a gogo… Non avere un menù fisso sarebbe un vantaggio, anche perché ognuno di noi avrebbe veramente una propria identità.

Molte persone fanno greenwashing mascherando il fatto di non essere realmente green… accade sia nelle grandi aziende sia nelle piccole attività: cosa pensi al riguardo?

Io dico che è la moda del momento. Secondo me bisognerebbe incrementare la cultura sul tema. Molti parlano di green e sostenibilità senza sapere cosa siano in realtà. Molti invece lo sono al 100% e nemmeno lo sanno. Credo che risolvere la questione sia impossibile, penso che non siamo pronti al 100% e che stiamo attraversando un periodo di transizione. Nel nostro settore si dovrebbe partire dall’acquisto dei prodotti: conoscere la provenienza del cibo, prediligere produttori locali e territorialità, ridurre o eliminare materiali non riciclabili. Per fare tutto ciò però bisognerebbe partire da chi produce e da chi elargisce aiuti fiscali alle aziende. Essere sostenibili significa andare in una direzione ideologica che oggi, purtroppo, non è ancora economicamente vantaggiosa.

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2023
giugno
gusto, qualità, territorialità
Molino Braga S.r.L. Via Ponte Rosso, 34/11 - 25020 Dello (BS) Italia | Tel. +39 030 9770782 E-mail: farine@molinobraga.it | www.molinobraga.eu Da 160 anni, un sogno di Farina.

VIAGGIO nel Nord della BIRRA

Immaginate che stiate intraprendendo un viaggio attraverso il mondo della birra artigianale italiana, saltando come dei canguri da una regione all’altra alla scoperta delle produzioni locali, che raccontano la biodiversità dei territori, mostrandoveli da un punto di vista diverso da quello a cui siamo abituati tutti noi. A fare da Cicerone in questo viaggio ci penso io, portandovi per mano nei migliori birrifici italiani, così da offrirvi la possibilità di conoscerli da vicino per apprezzarne i prodotti artigianali che realizzano ogni giorno.

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LA BIRRA
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Illustrazioni di Giulia Serafin

LA BIRRA

PARTIAMO PER QUESTA

AVVENTURA VISITANDO LA TOSCANA.

Tra le regioni italiane più ricche di cultu ra, arte, paesaggi e biodiversità, la Toscana è anche terra fertile per ottimi birrifici artigianali. Tra questi ci sono eccellenze che spiccano per la grande qualità e per il legame al territorio. A Pietrasanta (Lu) ha sede il Birrificio del Forte, punto di riferimento per il movimento brassicolo nazionale, grazie alla capacità del suo fondatore, Francesco Mancini, di interpretare il mondo della birra. Altro faro brassicolo è il birrificio Bruton di Lucca, nato nel 2006 e diventato fucina di grandi birrai e fulcro della cultura brassicola sul territorio. Le birre si ispirano ai grandi stili birrari internazionali, reinterpretati

A Montepulciano (Si) ha sede uno dei primi birrifici toscani, L’Olmaia. Moreno Ercolani è il fondatore, oltre che birraio, di questa importante realtà toscana, che produce birra ispirandosi alla tradizione brassicola inglese e belga. La Petrognola è uno storico birrificio con sede a Piazza al Serchio (Lu). Le birre puntano alla semplicità di bevuta e sono espressione delle materie prime del territorio, su cui primeggia il farro. Mostodolce è il nome del birrificio nato nel 2003 a Vaiano (Po) per opera dei coniugi Francesca Torri e Daniele Chiarini. La gamma di birre è molto ampia e spazia dalle alte alle basse fermentazioni. Molto interessante anche l’omonimo locale in pieno centro a Firenze. Grani antichi e territorio sono alcune delle leve su cui fa forza La Stecciaia, birrificio nato in seno ad una azienda agricola, che per primo in Toscana ha una produzione completamente biologica. Poche le etichette prodotte, ma tutte di alto profilo senza piegarsi alle mode. A Cavriglia (Ar) troviamo Calibro 22, piccolo birrificio che produce birre d’ispirazione anglosassone, che vende direttamente al pubblico nella taproom di Figline ValdarLorem Ispum è un piccolo birrificio in stile anglosassone che ha sede a Dicomano (Fi). Le birre di Filippo Scotti sono caratterizzate da una qualità costante nel tempo e tale risultato è presente anche nelle produzioni in botte e in quelle con Podere La Berta è un birrificio che ha avuto diverse evoluzioni nel tempo, anche nel nome aziendale. La sede del birrificio è a Castelnuovo Berardenga (Si).

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UN’AREA GEOGRAFICA CHE SORPRENDE GLI APPASSIONATI PER LE PRODUZIONI BRASSICOLE

ARTIGIANALI SONO LE MARCHE.

Qui si concentrano molti birrifici interessanti, alcuni dei quali raccolgono importanti premi e riconoscimenti nel mondo della birra di qualità in giro per il mondo. È il caso di MC77, premiato nell’edizione 2021 di Birra dell’Anno come miglior birrificio artigianale italiano. Cecilia Scisciani e Matteo Pomposini hanno fondato il loro birrificio nel 2013 e producono a Serrapetrona (Mc). La filosofia di MC77 è quella di affascinare i consumatori con

parenza semplici, ma che risultano tali solo se realizzati con la massima cura e preparazione.

A Colmurano (Mc) c’è il birrificio Il Mastio dei fratelli Sebastiano e Lorenzo Nabissi. Le birre sono prodotte con il malto d’orzo coltivato nella loro azienda agricola, tutto biologico. Questo birrificio è cresciuto molto nel tempo e con l’ampliamento recente può soddisfare la domanda che è aumentata negli ultimi anni. Il loro esempio di birra agricola biologica è sicuramente una perla rara in Italia, soprattutto se a supporto di una qualità della birra molto alta. Giovanni Roberto Coppa nel 2012 hanno Birrificio dei Castelli, che ha sede ad Arcevia (An). La loro produzione è molto varia, con birre che interpretano stili classici della tradizione belga e anglosassone, strizzando l’occhio agli Stati

LA BIRRA

IL VENETO, INSIEME A LOMBARDIA

E PIEMONTE, È UNA DELLE REGIONI ITALIANE

CHE DETIENE IL NUMERO PIÙ ALTO DI BIRRIFICI

ARTIGIANALI SUL PROPRIO TERRITORIO.

Uno dei più conosciuti è Cr/Ak. L’impianto di produzione è a Campodarsego (Pd) ed è gestito da Anthony Pravato e Marco Ruffa. La filosofia del Birrificio Cr/ Ak è quella di proporre birre dalla forte presenza di luppoli, anche se in grande equilibrio con le altre materie prime. Altro nome importante nel mondo delle birre artigianali è 32 Via dei Birrai, il birrificio di Fabiano Toffoli, che produce a Pederobba (Tv). L’idea di base di Fabiano è quella di produrre birre che tengano alta l’asticella della qualità e che rispettino l’ambiente. Il fortissimo legame con il territorio si esprime con l’elaborazione di progetti che promuovono l’utilizzo di cereali locali come il farro e la sperimentazione sui luppoli autoctoni. Spostandoci in provincia di Vicenza, per la precisione a Isola Vicentina, troviamo il birrificio . Simone Dal Cortivo è il birraio di questo grande impianto da 60hl, uno dei più grandi in Italia, tra i birrifici artigianali. Le birre, quasi tutte di bassa fermentazione, sono caratterizzate dalla grande bevibilità, qualità fondamentale per attrarre l’attenzione di chi ama bere per il piacere di stare insieme. Facendo un salto in provincia di Venezia, arriviamo a BAV, Birrificio Artigianale Veneziano, una realtà ormai consolidata e di grande affidabilità. Le birre sono prodotte con un occhio attento al rigore delle ricette originali cui s’ispirano, per avere una bevuta semplice e piacevole. Ritornando in provincia di Vicenza, a Sovizzo, troviamo un birrificio artigianale che sta crescendo sempre più nell’ambito della ricerca e della qualità dei singoli . Le birre prodotte da An-

drea Signorini sono estremamente bilanciate e l’utilizzo di prodotti del territorio (cereali, spezie e frutta) non interferiscono con il grande equilibrio delle birre. Un birrificio artigianale cui prestare grande attenzione si trova a San Martino Buon Albergo, nei pressi di Verona.

Il suo nome è Mastino ed è conosciuto per le sue birre di bassa fermentazione, senza però dimenticare alcune interessanti birre di alta prodotte in birrificio. Progetto interessantissimo, che mostra quanto vino e birra possano essere vicini, è quello di Sieman, azienda agricola nata dal lavoro di sei mani, quelle di tre fratelli, Marco, Daniele, Andrea Filippini.

Nella loro azienda di Villaga, zona di Barbarano Vicentino, sui Colli Berici, si coltivano uve per i loro vini, che spesso trovano spazio nelle ricette delle birre, che fermentano con i lieviti indigeni dei vigneti di famiglia e maturano per molti mesi in botti di rovere. Mente fervida e in continua evoluzione è quella di Ivan Borsato, titolare del birrificio Casa Veccia, in quel di Povegliano (Tv).

L’eclettico birraio ama i prodotti del territorio, non solo veneti. Al mais Biancoperla, Presidio Slow Food utilizzato per realizzare l’omonima birra, alterna i cereali antichi siciliani, in collaborazione con Filippo Drago di Molini del Ponte di Castelvetrano. Molto interessanti anche altri birrifici: il birrificio Benaco 70 di Affi (Vr), Ahpah Independent di Bassano del Grappa (Vi), Acelum di Castelluccio (Tv), Bradipongo di Colle Umberto (Tv), La Gastaldia di Pieve di Soligo (Tv), LuckyBrews di Vicenza, e Birrificio del Doge di Zero Branco (Tv).

88 pizza e pasta italiana giugno 2023

La parola ai pizzaioli

Il “segnalatore”

Nome: Roberto Davanzo

Pizzeria: BOB Alchimia a Spicchi

Indirizzo: Via Don Luigi Sturzo,

Montepaone - Cz

Roberto raccontami qual è la tua storia professionale e come nasce BOB Alchimia a Spicchi.

La mia storia professionale nasce per caso. Ho frequentato il geometra e durante l’estate lavoravo in Veneto nell’albergo dei miei zii. Lì ho mosso i primi passi in pizzeria. Al mio ritorno continuavo a lavorare durante gli studi in altri locali, ero inconsapevole del fatto che quello sarebbe diventato il mio futuro. Dopo il diploma mi sono iscritto all’università. Alcune cose però mi “distraevano” dallo studio: convivevo con due cari amici e, durante i pomeriggi di studio, mi rendeva davvero felice preparare qualcosa di buono per loro. Un giorno la pizza, un altro biscotti o cornetti per colazione. Dopo un po’ di tempo mi sono convinto che probabilmente la mia strada era un’altra. Non mi sono mai perso in chiacchiere o fermato, ho sempre cercato di dare valore al tempo, essenziale secondo me per la crescita professionale. Ho sicuramente sacrificato qualcosa ma non ho mai vissuto la mia scelta come un peso: chi abbraccia questo mestiere lo fa come stile di vita. Ho mollato l’università senza pensarci troppo e mi sono iscritto alla Scuola Italiana Pizzaioli, a Caorle. Dopo il corso ho iniziato a lavorare in diversi locali da Nord a Sud. Mi sono dedicato per un po’ di anni all’insegnamento nella

90 pizza e pasta italiana giugno 2023 di Noemi Caracciolo
CALABRIA

Scuola Italiana Pizza di Michele Intrieri, con cui ho condiviso momenti di lavoro e giorni felici. Essere un artigiano per me significa proprio trarre felicità da ciò che fai perché attraverso la tua professione esprimi te stesso: una visione, un ricordo, un’emozione, una prospettiva. È da questi principi che nasce BOB. Un piccolo locale di 50mq a Montepaone. Insieme ad Anna, mia compagna e socia, a 18 anni ho creato il locale dal nulla. Sfornavo tutto il giorno: bakery la mattina, pizza la sera. La notte spesso non tornavamo nemmeno a casa, i finesettimana sfornavamo ancora dopo la mezzanotte.

Dico sempre che BOB è nato con pochi soldi e tanto amore. La felicità più grande è poter vivere tutto questo nella mia terra: la Calabria. Sembra assurdo ma, quando abbiamo aperto, erano praticamente inesistenti pizzerie che offrissero prodotti calabresi. In poco tempo fuori al locale c’erano file infinite. Tutto è esploso all’improvviso e inaspettatamente. Da due cuori e una capanna siamo passati ad una grande famiglia di oltre 18 persone: la mia “Band Of Brothers”. Ci siamo prima ampliati e poi spostati. Negli anni abbiamo avuto tante soddisfazioni, nessuna pretesa ma tanta voglia di fare: miglior pizza dolce 2019 con l’iconica “Ricotta e bergamotta”; tra le 100 migliori pizzerie della guida “’l’Espresso”; premio Carlino d’Argento per impresa giovanile; Tre Spicchi Gambero Rosso, Miglior “impresa pizza” 2023 per Identità Golose. Sono nati poi altri progetti come il “Bobfest”, evento a scopo benefico insieme ad AIRC e TIMO in memoria di mio padre, che vede partecipi professionisti provenienti da tutta Italia; “Alchimisti per amore” o “Bob Drive”.

Bob si fonda sul principio di comunità, non esistono individualismi. In questo posto sanno tutti di avere un amico. Con qualcuno c’era già un’amicizia prima dell’apertura, qualcuno era un cliente e poi è passato all’altro lato del bancone. Abbiamo tutti lo stesso obiettivo: insieme ci dedichiamo allo studio, alle scampagnate, condividiamo tempo e la voglia di lavorare con etica.

La pizza è il mio unico mezzo di espressione. Ho sempre l’entusiasmo di un bambino ogni volta che creo. La pizza è l’alimento che più dona felicità all’uomo. Io sono entusiasta di poter dispensare questa felicità. Sento che tutto torna indietro, solo onde positive: non è il mestiere più bello del mondo? Noi sperimentiamo continuamente al fine di migliorare i nostri impasti e non solo. Ogni mese troviamo sempre nuove proposte e tecniche che possano renderli unici. Tra gli starter, per esempio, non trovi rosticceria ma diverse declinazioni di pizza e panificati in monoporzioni. La nostra filosofia si basa su: rispetto, empatia, coerenza, costanza, tutti applicabili su territorio, ingredienti, collaboratori e clientela. L’idea del #mangiamiconlemani nasce da una serie di diverse conclusioni tecniche e non: il tatto è un senso che va necessariamente coinvolto quando si

mangia e che dà completezza ad una serie di sensazioni stimolanti che si integrano al resto; il boccone che facciamo al trancio accompagnato dalle mani ci permette di gustare tutti i singoli ingredienti; c’è maggiore focus sulla portata; servire la pizza già tagliata su taglieri in legno ci permette di far evaporare ed evitare la condensa dell’umidità in eccesso, garantendo una migliore shelf-life del nostro impasto; davanti a una pizza siamo tutti uguali, ci piace vedere la pizza come una “livella” che non pretende rigidità e compostezza nonostante la ricercatezza delle materie prime.

Quanta importanza dai al tuo territorio nella scelta delle materie prime?

Noi siamo “assemblatori di storie”. In Calabria era comune importare identità e prodotti da modelli fuori regione: sembrerà strano ma era quasi impossibile trovare un pomodoro calabrese su una pizza. Quando abbiamo aperto, è bastato guardarci intorno per trovare in pochi km tutto ciò di cui avevamo bisogno e dare un’identità alla nostra pizza. A partire dalla polpa di pomodoro (a mio avviso la più buona al mondo) dell’Agricola Migliarese o dai formaggi di capra di Maria, un’artigiana e persona

Cos’è la pizza per te? So che la tua filosofia è quella del #MangiamiConLeMani e, inoltre, che sei un grande sperimentatore di farciture e di impasti.
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La parola ai pizzaioli

fantastica; per passare al caciocavallo di Ciminà, al pomodoro e al Gammune di Belmonte, Presìdi Slow Food; alla mozzarella prodotta con solo latte calabrese dal piccolo caseificio Mancuso; alla cipolla di Tropea intrecciata a mano; al mulupu, formaggio aspromontano a pasta morbida creato con antiche tecniche calabresi ecc. Il mio menù è un racconto di queste storie, cerco sempre di ringraziarli facendoli incontrare sulle mie pizze. Ho scelto di stare dalla parte di tutti loro, la cui importanza per me è imprescindibile.

Se venissi a mangiare da te, che pizza mi proporresti?

Non potrei scegliere una sola pizza. Ti consiglio uno starter che a breve inseriremo nel menù: “Piove sempre sul bagnato”. Una focaccia rafferma, zuppa al pomodoro chiarificato e base croccate, polvere di pesto e nuvola volante di mozzarella. Per la chiarificazione necessi-

tiamo di 4 giorni di lavorazione nei quali viene cotto, condito e gelificato, abbattuto per 24 ore e lasciato colare lentamente in frigo per altri due giorni su panni di etamina. Nell’acqua di pomodoro inzupperemo la nostra focaccia ottenuta da lievito madre e un taglio di grano jermanu, la “segale calabrese”, rigenerata a “testa in giù” e tamponata in una polvere di pesto ottenuta al pacojet ed essiccata 24 ore. Per terminare la composizione, faremo “piovere” da una nuvola volante dell’acqua di mozzarella. Nient’altro che un morso di pomodoro, mozzarella e basilico, estremamente fresco, delicato e coinvolgente.

Consigliami un/a collega e dimmi perché proprio lui/lei.

Ciccio Filippelli. È un ragazzo di grande esperienza, come me ha deciso di rientrare e investire nella propria terra, ottenendo grandi risultati, convinto che questo sia solo l’inizio.

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CALABRIA

Raccontami qual è la tua storia professionale e come sei arrivato dove sei ora

La mia storia inizia da ragazzo. Nei mesi estivi di pausa dalla scuola, lavoravo stagionalmente in uno stabilimento balneare come tuttofare. In quei periodi mi capitava di affacciarmi alla cucina e nei momenti di pausa aiutavo il pizzaiolo a stagliare gli impasti, per poi “rubarne” un panetto e lavorarlo da me. Dopo il diploma di ragioneria ho intrapreso un corso per pizzaioli, ho iniziato a studiare tecniche di preparazione e meccanica degli impasti. Dopo questo diploma ho lavorato per un anno in un ristorantepizzeria del mio paese (Paola, Cs). Avevo tanta voglia di crescere e fare esperienze

Il “segnalato”

Nome: Ciccio Filippelli

Pizzeria: Duodecim

Indirizzo: Via Louis Braille 1, Quattromiglia - CS

Qual è il tuo concetto di pizza: cosa rappresenta per te e quanto è importante la materia prima?

che potessero arricchirmi personalmente e soprattutto professionalmente. Nel 2015 ho conosciuto un gruppo di giovani imprenditori milanesi che avevano l’obiettivo di aprire dei locali in città. Così, mi sono trasferito a Milano. Il lavoro andava molto bene e così ne aprirono un secondo dopo pochi mesi. È proprio in questo ambiente che sono cresciuto tantissimo professionalmente e ho raggiunto bellissimi risultati come l’inserimento nella 50 top pizza 2017 e 2018, due spicchi Gambero Rosso, guida l’Espresso, La Repubblica, Agrodolce, Identità Golose e Dissapore. Crescendo, maturavo sempre più una mia identità, un mio stile, comprendendo anche gli aspetti gestionali di un’azienda. Nel 2019, insieme a dei soci, ho aperto il mio primo locale a Milano e, dopo un anno, un secondo punto vendita a Seregno (anche qui raggiungendo ottimi risultati: i Magnifici 7 e Dissapore). È nel 2020 però che, durante il Covid, pensando e ripensando, ho sentito il desiderio di tornare a casa, in Calabria. Nell’agosto del 2020 sono uscito dalla società milanese e sono tornato nel mio paese. Volevo portare la mia pizza a casa mia lavorando bene. È proprio nel 2021 che, sempre insieme ai miei soci, apro “Duodecim Pizze” a Rende (Cs), il mio primo progetto al 100%.

Non posso che concepire la pizza come un insieme di esperienze di gusto, personalità e tradizione che si fondono per creare un prodotto unico e in continua evoluzione. Oggi non è solo il mio lavoro ma anche una ragione di vita, motivo di gioie e rinunce. Penso alla pizza realizzata soltanto con prodotti di estrema qualità; un buon prodotto per me può essere definito tale solo se realizzato con materie prime ricercate e certificate che impattino positivamente sulla nostra salute e sull’ambiente. Sono questi per me gli elementi imprescindibili per la produzione di ogni pizza che realizzo.

Proponimi una pizza e spiegami com’è fatta

La “Ndujami”: mozzarella di bufala campana DOP del “Caseificio Colonne”, misto Fior d’Agerola “F.lli Fusco”, Nduja di Spilinga “F.lli Caccamo”, pomodoro giallo della valle del Vesuvio “Virtuna”, stracciata di vaccino pugliese “Ignalat”, semi di papavero, coriandoli di erba cipollina selvatica, scaglie di Grana Padano 20 mesi, basilico fresco, olio evo BIO “Guglielmi”. Questa rispecchia sicuramente la mia personalità, ma soprattutto i sapori della mia terra. Forse è, insieme alla Margherita, quella a cui sono più affezionato.

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Il grano duro Senatore Cappelli

Tra i più amati e diffusi in Italia, rimasto autentico e senza modificazioni fin dalla sua nascita

a cura della Dott.ssa Marisa Cammarano, biologa nutrizionista

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Il

I grani antichi sono varietà del passato rimaste autentiche ed originali, ovvero che non hanno subito alcuna modificazione da parte dell’uomo per aumentarne la resa. È un frumento duro, aristato, la farina macinata a pietra si caratterizza per l'irregolarità della sua granulometria e per la presenza del germe di grano. La caratteristica più apprezzata di questo prodotto è la macinazione a tutto corpo. È ideale per preparare la pasta fatta in casa ma anche tanti panificati, come la schiacciata, il pane e la pizza. Tutto nasce agli inizi del ‘900, quando la richiesta di grano aumenta e si iniziano a cercare nuove varietà per migliorare la resa e l’apporto nutrizionale. Il grano Cappelli viene considerato il padre del grano duro, definito negli anni '30 "razza eletta". La storia del grano duro Senatore Cappelli inizia nei primi anni del Novecento quando il genetista Nazareno Strampelli, da anni impegnato nella ricerca del grano perfetto e che aveva, già, creato nuove varietà di grano tenero attraverso l’incrocio di diverse varietà provenienti da tutto il mondo, continuò la ricerca spostandosi sui grani duri per ottenerne di più produttivi e resistenti alle malattie. Strampelli, infatti, nel 1915, partendo dai grani nordafricani, selezionò una varietà rustica molto resistente ed adatta ai terreni poveri e argillosi del meridione, una pianta alta fino a un metro e ottanta, a cui decise di dare il nome

di Senatore Cappelli, il quale aveva iniziato la modernizzazione dell'agricoltura in Puglia. Il Senatore Cappelli, infatti, fu un politico che si occupò molto di agricoltura tanto da essere uno dei più importanti protagonisti della "riforma agraria" dei primi anni del '900. Questa passione per l'agricoltura fu la testimonianza del fatto che per molti anni occupò la presidenza della Società degli Agricoltori italiani. Il grano duro Senatore Cappelli è un grano tra i più amati e diffusi in Italia, rimasto autentico e senza modificazioni fin dalla sua nascita nel 1915. Negli anni successivi, però, il grano Cappelli è stato a sua volta sostituito da piantagioni più produttive, spesso ottenute attraverso mutazioni genetiche indotte dai ricercatori. Oggi, è particolarmente apprezzato grazie alle sue caratteristiche nutrizionali inalterate nel tempo, avendo apporto di proteine particolarmente elevato ed un sapore ricco e corposo. Il grano duro Senatore Cappelli è, infatti, diventato un prodotto di nicchia particolarmente utilizzato per farine pregiate e biologiche. Il grano duro Senatore Cappelli è facilmente riconoscibile: la pianta può raggiungere i 180 cm, presenta le tipiche ariste (filamenti neri in cima a molte graminacee) e può essere coltivata solo con metodo biologico perché le concimazioni ed i diserbanti la farebbero piegare e spezzare. La presenza di radici molto profonde permette a questo grano di resistere alle erbe infestanti e di trarre nutrimento dagli strati più profondi del terreno, quelli più ricchi di sostanze nutritive.

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grano duro Senatore Cappelli, che prende il nome dal Senatore abruzzese Raffaele Cappelli, è un'antica varietà di grano duro coltivata principalmente nel Sud Italia.

I chicchi di Senatore Cappelli sono particolarmente duri e consentono di realizzare una pasta che tiene bene la cottura rimanendo al dente. Apprezzata per il suo sapore intenso e deciso, la farina di grano duro Senatore Cappelli presenta delle proprietà nutrizionali molto pregiate, tanto da essere definito “la carne dei poveri”. Rispetto alle farine dei grani moderni contiene, infatti, percentuali più elevate di proteine, amminoacidi, lipidi, vitamine del gruppo B, vitamina E, acido pantoteico (o vitamina B5), acido folico, betacarotene, ferro, magnesio, calcio, iodio, selenio. Ha, inoltre, un livello di glutine, anche se non è comunque adatto ai celiaci, molto basso, che la rende più facilmente digeribile ed ha, anche, proprietà antinfiammatorie grazie alla presenza di flavonoidi ed antiossidanti che riducono i problemi intestinali e di intolleranze al glutine. Il grano duro Senatore Cappelli, anche se ha poco più di 100 anni, è considerato un grano antico perché ne condivide tutte le caratteristiche.

I grani antichi, infatti, sono rimasti autentici ed originali, non hanno subìto alcuna modificazione da parte dell’uomo per aumentarne la resa, esattamente come il Senatore Cappelli. Questi grani sono di qualità superiore rispetto ai grani moderni e dovrebbero essere preferiti per diverse ragioni:

• Prodotti più sani e genuini: non avendo subito rimaneggiamenti genetici mantengono una resa minore e non sono lavorati a livelli intensivi, garantendo risultati più naturali

• Grani lavorati a pietra: di solito i grani antichi sono lavorati a pietra, producendo farine meno raffinate e che mantengono tutte le caratteristiche nutrizionali del chicco

• Minore presenza di glutine: i grani antichi mantengono un rapporto equilibrato tra amido e glutine, risultando più digeribili e limitando lo sviluppo di intolleranze

• Prodotti più artigianali e meno industriali: i grani antichi sono solitamente coltivati e lavorati con metodi artigianali e permettono di tenere traccia della filiera di produzione e di tutelare la biodiversità

• Prodotti più buoni: i grani antichi, soprattutto se integrali o semi-integrali, hanno sempre profumi intensi e un sapore ricco che vengono persi durante le lavorazioni industriali dei grani moderni

96 pizza e pasta italiana giugno 2023

Le varietà di grano italiane, e in particolare il genotipo Senatore Cappelli, sembrano caratterizzate da diverse specificità nutraceutiche che potrebbero suggerire un loro uso per scopi salutistici.

È quanto emerge in un recente studio pubblicato su Nutrients da un team che ha coinvolto i ricercatori dell’Università di Pavia. La valutazione dei componenti funzionali della granella di cultivar di grano duro italiano antico e moderno, infatti, ha portato a dei risultati che evidenziano un potere antiossidante superiore nelle varietà di frumento antiche. I composti fenolici (tra cui cumarine, acidi fenolici, antociani, flavoni, isoflavoni, proantocianidine, stilbeni e lignani) e le forme isomeriche sono stati riscontrati con presenza in numero medio superiore, circa due volte più alto, nelle varietà di grano antico. Il numero più alto di isomeri, in particolare, è stato osservato proprio nella varietà di grano antico.

Senatore Cappelli

La scelta di un grano antico, e del grano duro Senatore Cappelli, garantisce quindi prodotti biologici pregiati, ricchi di gusto e ottimi per qualsiasi lavorazione. Il grano Senatore Cappelli è consigliato a chi soffre di sensibilità al glutine (gluten sensitivity o GS).

A sostenerlo è uno studio effettuato dalla Fondazione Policlinico Gemelli di Roma che ha messo in luce come l’incidenza di sintomi intestinali ed extra-intestinali lamentati da soggetti con GS tende a ridursi sostituendo la pasta comune con pasta Cappelli. Infatti, questa pasta risulta più digeribile, più ricca di fibre, minerali e oligoelementi. Ha ridotto il gonfiore e l’incidenza di

cefalea in chi soffriva di questi sintomi dopo aver mangiato pasta comune. Lo scopo della ricerca era confrontare gli effetti del consumo di una pasta preparata con grano duro biologico, nel caso specifico Senatore Cappelli, con quelli di un prodotto ottenuto con del grano commerciale standard, in pazienti sensibili al glutine ma non celiaci.

Alla fine della prova i pazienti che hanno mangiato la pasta preparata con grano duro Senatore Cappelli hanno riportato punteggi complessivi più bassi per quanto riguarda i sintomi di sensibilità al glutine (gonfiore, distensione addominale, eruttazione) rispetto alla dieta che comprendeva la pasta di grano standard.

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