Agosto 2019 - Paesi Etnei Oggi

CUCINA LE RICETTE GLUTEN FREE DI EMANUELA GHINAZZI

DA LINERI AI CAMPIONATI EUROPEI PASSANDO DA SAN CRISTOFORO. UNA STORIA DI TALENTO, SUDORE E PASSIONE CIVILE.

ORIANA DI STEFANO

LOTTATRICE DELL’ ETNA

#sappiatelo

SALUTE IL DISTRETTO SANITARIO DI GRAVINA, FARE RETE NELLA SALUTE MENTALE

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zafferana

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peopagine Etna 14 Se la scala fa la differenza

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Salute 21 Disabili psichici Cucina 24 Le ricette di Emanuela Ghinazzi

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Sport 28 Margherita Chiavaro & Graziella Lo Re Cover 32 Libera di lottare Rubriche

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09 L’editoriale di Fernando Massimo Adonia 11 Blowindow di Isidoro Pennisi 13 Pezzi di vetro di Roberta Fuschi 41 Acqua in bocca di Antonio Giovanni Pesce

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42 Letto, riletto, recensito di Salvatore Massimo Fazio

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Paesi Etnei Oggi Free Press Agosto 2019 - Anno XXV / n. 274

Registrazione Tribunale di Catania N. 7/95 del 22/03/1995 Redazione Via Principato di Monaco, snc - 95030 Gravina di Catania Tel./Fax 095 396136 - Mobile. 340 6091442 Distaccamento acese-jonico Via Nicolò Tommaseo, 61 - 95014 Giarre Mobile. 340 6080612 www.paesietneioggi.it redazione@paesietneioggi.it - paesietneioggi@pec.it Paesi Etnei Oggi è organo del

Numero chiuso il 01/08/2019 Direttore Responsabile Fernando Massimo Adonia Collaborano Roberta Fuschi, Nunzio Condorelli Caff, Agata Amantia, Desirée Miranda, Carmelo Di Mauro, Thea Giacobbe, Michele Milazzo, Melania Tanteri, Roberto Quartarone, Isidoro Pennisi, Santi Zappalà, Laura Distefano, Francesca Santangelo, Marco Pitrella, Francesco Ricca, Antonio Giovanni Pesce, Salvo Giuffrida, Salvatore Massimo Fazio, Santo Privitera Foto di copertina Francesca Santangelo

EDITORE Andrea Pitrolino Resp. Pubbliche Relazioni Giovanni Leotta Mobile. 340 6080612 Pubblicità Mobile. 348 7904214 commerciale@paesietneioggi.it

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Servizio abbonamenti Mobile. 348 7904214 Progetto grafico Simone Ignazio Russo Tipografia Italgrafica Via Nocilla, 157 95025 Aci Sant’Antonio (CT)

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L’EDITORIALE

di Fernando Massimo Adonia / fernandomadonia@gmail.com @fernandomadonia / meridianista

CENTOOTTO VOLTE PIÙ GRANDE DEL SOLE on è mica un editoriale quello che sto per proporvi, ma la testimonianza di un piccolo esperimento on line che sarebbe bello ripetere. Don Nuccio Puglisi (sì, il sacerdote) è un ragazzo amatissimo nella zona etnea. Nato e cresciuto in quel di Tremestieri, si è fatto apprezzare da sempre per la grandissima umanità. Ultimamente si è lanciato nel campo della letteratura, pubblicando il suo primissimo romanzo (Centootto volte più grande del sole). Ecco, prima di partecipare al festival del libro di Torino, ha lanciato l’idea di una intervista in rete. Non potevo non accoglierla. Ovviamente hanno partecipato anche altri. Alcuni passaggi li ho voluti riportare anche qui, appunto per capire se quegli stessi contenuti, passando del web al cartaceo, perdano di sapore.

Don Nuccio, rompiamo il ghiaccio, quanto c’è di autobiografico nel suo primo romanzo? È autobiografico, in alcuni tratti, l’atteggiamento del coprotagonista. Il suo atteggiamento di fronte al concetto di “senso”, di fronte al sentimento della nostalgia, di fronte alla gestione del rapporto con una persona che vive una grande sofferenza. In queste cose, senz’altro, più che dei tratti autobiografici scorgo dei quasi involontari riflessi di me stesso, del mio modo di essere.

Qual è quindi il suo modo di essere? O meglio, quello che il lettore dovrebbe individuare leggendo il romanzo?

Talvolta, davanti alla sofferenza di qualcuno, si pensa che liberare quella persona significhi farle credere che la sua non è una vera sofferenza, che “passerà”, che tutto si risolverà per il meglio, eccetera. Abbiamo una enorme incapacità nel riconoscere alla sofferen-

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za, per quanto essa sia terribile, un contenuto pedagogico e realizzativo. La persona che soffre ha invece innanzitutto la risorsa della sua stessa sofferenza, perché da essa viene innalzata (oltre le apparenze dell’umiliazione), viene illuminata (oltre l’inganno della tenebra) e soprattutto viene riconsegnata ad una umanità vera, autentica, restituita alla sua incontenibile essenza. Aiutare una persona che soffre è possibile solo prendendo sul serio la sua sofferenza e le sue potenzialità. Il Cireneo non avrebbe mai potuto aiutare Cristo senza prendere (tollere) sul serio la sua croce. Quanto al modo di essere, beh... Che dovrei dire. Appaio un po’ come sono. Certo con più domande che risposte. Costantemente inebriato dalla mutevolezza degli eventi, che si incastrano al punto tale da farmi dire con una certa sicurezza che... il caso non esiste.

Può dirsi davvero ‘Infinito’ un Dio che ha la pretesa di rivelarsi nella debolezza umana?

Ciò che è grande, per quanto grande, sarà sempre limitato e avrà paura delle piccolezze. Ciò che è infinito non ha limiti, e neanche la debolezza umana è limite per Colui che è infinito.

La vicenda del piccolo Mattia Sciacca, ecco. C’è chi lo ha definito un piccolo santo, condivide questa testi?

Assolutamente sì. La santità è fidarsi della Bellezza quando tutt’intorno è buio e silenzio. Il piccolo Mattia teneva aperte le braccia, nel buio, scegliendo di essere Croce, di essere ciò che nessuno, in quel momento, voleva che egli fosse. Questa è la santità.

Accettare la Croce è grande merito dinanzi a Dio. Assumerla, sceglierla, è qualcosa di più. È santità.

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BLOWINDOW

Isidoro Pennisi Opinionista de “Il Quotidiano del Sud” twitter@sognadoro23 / i.pennisi@tiscali.it

SCANDALO

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n pieno “Ventennio”, durante la gestione di Giovanni Gentile del Dicastero Scuola e Università, avvenne una fatto che è meglio ricordare, in occasione dell’indagine della Magistratura Catanese. Ettore Majorana, allontanatosi da un anno dall’Istituto di Fisica di Via Panisperna, decide inaspettatamente di presentare la sua candidatura ad un posto di Professore a Palermo. Oggi come allora, però, tutti e tre i posti di quel Concorso erano già assegnati, e uno di quelli scelti per diventare Professore, era proprio il figlio di Giovanni Gentile. La soluzione al problema fu immediata e semplice. Si sospese il concorso, Giovanni Gentile conferì a Majorana il titolo di Professore a Napoli per meriti speciali, e subito dopo lo si riaprì facendolo espletare secondo i piani. Sembrerebbe il solito sistema clientelare, non meritocratico, con cui ormai spieghiamo i nostri comportamenti. Entrando nel merito, scopriamo però che Giovanni Gentile Junior era, titoli alla mano, il secondo o terzo Fisico Italiano di valore. Majorana però era un genio, un fuoriclasse, e Gentile Senior non poteva permettere che una Commissione Scientifica fosse costretta all’onta di doverlo classificare quarto. Allora fece, con intelligenza, ciò che si deve fare in queste situazioni: trovò una soluzione, che tenesse insieme una prassi (scegliere con discrezionalità e argomenti chi cooptare in Cattedra) senza che questa lasciasse fuori dall’Università un genio che aveva solo il torto di essersi allontanato dai luoghi dove si viene scelti. Siamo ad un Secolo di distanza da questo precedente, ma siamo riusciti a non imparare nulla e a non modificare una contraddizione profonda che ci distingue dal resto del Mondo Accademico, che un tempo veniva almeno risolta con senso della responsabilità, mentre oggi è in mano ad un Capitale Umano Accademico orribile finanche nella sintassi e nel gergo delle conversazioni private. La contraddizione cui alludo consiste nella natura discrezionale con cui andrebbero scelti i Docenti e i sistemi incoerenti di selezione oggettiva con cui ci si adatta a selezionarli, che essendo in contrasto con le logiche con cui scegliere si prestano ad essere sistematicamente aggirate. Scegliere un Docente, soprattutto in età giovane, quando ancora il tempo non ha dato un giudizio definitivo, è simile a selezionare un centravanti per una squadra di calcio. Si devono valutare soprattutto le potenzialità ancora

non espresse, prima ancora che il suo curriculum. Si deve valutare se la sua personalità e le sue capacità vanno bene per il gruppo in cui lo si inserisce, per il luogo in cui opererà, e tante altre cose. I Docenti, nel Mondo, si scelgono così. Le Università si assumono la responsabilità delle scelte, in modo discrezionale, e se sbagliano (per incapacità o dolo) ne pagano le conseguenze. Da noi non avviene così. Inoltre si aggiunge un secondo errore fatale. La costruzione dei titoli scientifici, da noi, è innaturale. Soprattutto per quanto riguarda il titolo principale: la pubblicazione scientifica. Esiste una prassi nel Mondo che nessuno ha mai messo in discussione. Il valore di un lavoro scientifico viene giudicato da un Editore, che senza pretendere alcun compenso, ma sulla base del valore e dell’originalità dei temi trattati, decide che quel volume può avere un certo numero di acquirenti che lo rendono redditizio per il suo lavoro. Capitò così anche con “L’Origine della Specie”, che fu pubblicato in modo lungimirante da un Editore. Noi, i nostri lavori scientifici che costruiscono la collina di titoli per le nostre carriere, li paghiamo ad un editore che quindi si tira fuori dal giudizio, ma intasca e pubblica. E li paghiamo non con soldi nostri, personali (capita anche quello) ma con quelli pubblici che ci vengono assegnati appositamente dal Ministero o da altri Enti. Questo fa si che, se realmente una Commissione li vuole giudicare, dovrebbe leggerseli tutti, per fare poi una comparazione innaturale rispetto a quella, oggettiva, che farebbe un editore che su quel volume rischia il suo denaro. Tutto ciò, e tante altre cose come queste, hanno ridotto l’Università Italiana ad essere anche un luogo per persone inadatte a vivere assumendosi continuamente responsabilità discrezionali sul futuro dei giovani e sul funzionamento delle strutture. Un luogo che nel tempo è solo peggiorato sia nella qualità di chi lo occupa sia nella sua gestione, proprio per via di queste abitudini legittimate da una legislazione. Questo fa si che gli stessi garanti della Legge (la Magistratura) perseguano e puniscono persone diventate in questa maniera anche per colpa delle Leggi stesse che loro difendono. Ovvio che questo non giustifica il disonore con cui alcune persone approfittano di questa situazione per soddisfare ciò che di più basso esista per una donna o un uomo: l’egoismo. Ma non è questo il problema.

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PEZZI DI VETRO

Roberta Fuschi Giornalista e Saggista robertafuschi@hotmail.it

CODICE ROSSO: LUCI E OMBRE

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l Codice rosso è legge. Prima di addentrarsi nei meandri dei pro e dei contro una premessa è d’obbligo: sarebbe fuorviante indossare le lenti del manicheismo per valutare qual si voglia provvedimento di contrasto a un fenomeno complesso come la violenza di genere. Ciò non significa però rinunciare una riflessione sul tema. Il Codice rosso presenta importanti novità, ma è innestato su un impianto che continua a relegare la violenza di genere all’alveo dei problemi di ordine pubblico. La ricetta è quella classica: di tipo repressivo. E c’è una lacuna: la disattenzione rispetto alla prevenzione. L’assenza di fondi per i centri antiviolenza e di programmi ad hoc nelle scuole sono una cartina al tornasole di non poco conto. C’è da dire però che nel testo di legge si prevede un fondo anti-ostaggio da due milioni per il 2019 che mira a sostenere economicamente le donne che denunciano ma non vogliono andare in una casa rifugio. In più la formazione per le forze dell’ordine diventa obbligatoria. Ma partiamo dalle novità introdotte dal legislatore. Si inaspriscono le pene per i reati di violenza sessuale (che passano da 5-10 anni a 6-12 anni) e stalking (da 6 mesi a 5 anni). Inoltre, il legislatore ha creato nuovi reati. Si parla finalmente di revenge porn, cioè la diffusione di immagini intime altrui senza il consenso dell’interessato che sotto l’Etna, fatti di cronaca alla mano, ha mietuto non poche vittime negli ultimi tempi, e i matrimoni forzati (pene da 1 a 5 anni). Inoltre, si punisce chi provoca la deformazione dell’aspetto della persona attraverso lesioni permanenti sul viso. Si tratta, va detto, di lacune legislative finalmente sanate. Le vittime di maltrattamenti e di violenze sessuali godranno di una corsia preferenziale in Pronto

Soccorso, la polizia dovrà comunicare subito al Pm la notizia di reato e quest’ultimo dovrà ascoltare la vittima entro 3 giorni dalla notizia di reato. Questo non vale però per le vittime di revenge porn. La vittima ha un anno di tempo, e non più sei mesi, per denunciare una violenza sessuale subita, un fatto positivo vista la difficoltà in cui si incorre soprattutto nei casi di violenza domestica. Ma proprio alla luce della tortuosità di un percorso molto difficoltoso, come sanno le donne dei centri antiviolenza, tre giorni sembrano un termine che va a forzare un percorso già parecchio complicato. Anche il Csm ha detto la sua sui 3 giorni considerati un limite o meglio una «criticità che rischia di creare un inutile disagio psicologico alla vittima e un appesantimento difficilmente gestibile per gli uffici giudiziari e le forze di polizia». Forse andavano ascoltate maggiormente le donne che lavorano ogni giorno nei centri antiviolenza. Di certo sono stati ascoltati gli avvocati che giustamente plaudono all’inserimento nella legge del raccordo tra processo civile e penale quando è in ballo un caso di violenza domestica contestualmente con un giudizio di separazione civile con conseguente addebito della separazione (se legata anche alle vessazioni) al coniuge violento. Ma se il governo con una mano dà, con l’altra sembrerebbe intenzionato a togliere: il ddl Pillon rischia di rendere più complesse le procedure per separarsi dal coniuge violento. Sarà la prassi a dire quanto funzionano le nuove norme contro la violenza. Ma un fatto è certo: l’inasprimento delle pene, da che mondo e mondo, non è mai stato un deterrente al crimine. Per non raccogliere violenza, bisogna in primo luogo seminare una cultura rispettosa delle donne. Senza estirparne la causa, la violenza continuerà a germogliare. E invece va estirpata. Per sempre.

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SE LA SCALA FA LA DIFFERENZA

La differenza la fa la scala esterna, pensata con una forma volutamente artificiosa che arricchisce il paesaggio. Si tratta di un elemento della precedente casa anni Ottanta ampliata dall’architetto Salvatore Puleo. È proprio la scala esterna a tenere i due blocchi, in una sintesi volutamente non discreta ma rispettosa del contesto. Perché l’antico e il moderno possono vivere benissimo assieme.

foto di Salvo Giuffrida

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Progetto Architetto Salvatore Puleo Illuminazione Flos - Viabuzzuno Pavimento Idealwork Sedia Vitra Divano Minotti Tavolo Knoll

Il soffitto in legno e il pavimento radiante permettono il mantenimento delle condizioni termiche.

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Elegante e tecnologica, la casa perfetta tra i terrazzamenti delle colline etnee.

Gli ampi infissi permettono di unire in un’unica soluzione l’interno con l’esterno.

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Disabili psichici, questi sconosciuti di Thea Giacobbe*

*Esperta in Criminologia e Tutela dei Diritti Umani

La forza del lavoro di rete nel distretto sanitario di Gravina di Catania

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a Salute è uno stato completo di benessere fisico e mentale. Con l’espressione salute mentale si fa riferimento ad uno “stato di benessere emotivo e psicologico nel quale l’individuo è in grado di sfruttare le sue capacità cognitive o emozionali, esercitare la propria funzione all’interno della società, rispondere alle esigenze quotidiane della vita di ogni giorno, stabilire relazioni soddisfacenti e mature con gli altri, partecipare costruttivamente ai mutamenti dell’ambiente, adattarsi alle condizioni esterne e ai conflitti interni”. I soggetti che oggi soffrono di disturbi mentali sono più di 850mila solo in Italia.

Quale consapevolezza riguardo a questo tema?

In foto, il dott. Giuseppe Scibilia, psichiatra e responsabile area riabilitativa Dipartimento di Salute Mentale - Distretto Sanitario di Gravina di Catania

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Sul territorio dei paesi etnei, la presa in carico delle persone con disagio mentale è la mission del dipartimento di Salute Mentale, parte integrante del Distretto sanitario di Gravina di Catania. Il Dipartimento opera con assistenza ambulatoriale e domiciliare e come Centro Diurno, con progetti terapeutico-riabiliatativi individualizzati. Garantisce, altresì, la vigilanza ed il controllo sulle strutture terapeutico riabilitative residenziali del territorio (a più alta densità di strutture residenziali per gravi, ma carente di forme intermedie di graduale reinserimento socio-familiare-lavorativo) e sui piani terapeutici degli utenti.

Nel territorio di afferenza del Distretto – che ricomprende 13 comuni pedemontani – sono presenti 6 comunità alloggio per disabili psichici, 19 residenze sanitarie assistite che offrono assistenza ai disabili psichici, fisici dimessi dalle C.T.A. (comunità terapeutiche assistenziali) e diverse associazioni e cooperative. In considerazione della complessa situazione delle politiche in favore della disabilità – ci spiega Santo Lagona, dirigente dei Servizi Sociali del Comune di Gravina di Catania – è forte l'integrazione socio sanitaria. Infatti, da più di due anni è stato costituito un "Coordinamento", un intergruppo tra il Dipartimento di Salute Mentale e le strutture private che si occupano di disagio psichico, con la partecipazione del Servizio sociale professionale dei Comuni. Nato in seno ad una conferenza di servizi, il coordinamento è diventato un momento di confronto permanente. «La disabilità è un problema culturale – sostiene fermamente Lagona – ancora oggi le persone che soffrono di disturbi mentali portano uno stigma e sono etichettate come “pazzi da legare”: si ha paura di ciò che non si conosce e lo si associa ad un senso di pericolo».

Dall'attività dei tavoli tematici in tema di disabilità è emersa la necessità di trovare strumenti di intervento per tutte quelle persone che, pur presentando una patologia invalidante nell'area psichica, non posseggono le caratteristiche della

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non autosufficienza e della disabilità grave (la certificazione ex articolo 3 comma 3 della legge 104). Ciò comporta una esclusione da diverse forme di finanziamento. «Proprio per tale ragione – prosegue Lagona – è stato progettato un intervento di supporto alla domiciliarità in soluzione alloggiative, i gruppi appartamento, per soggetti con disagio mentale. Il progetto mira a favorire l'inserimento della persona disabile e, dopo essere stato approvato in seno al Comitato dei Sindaci del Distretto è in fase di valutazione del gruppo Piano della Regione Siciliana».

In foto, uno dei lavori esposti durante la manifestazione

La vera innovazione del gruppo permanente di coordinamento per la salute mentale è proprio il rapporto costante fra Dipartimento, Comuni e terzo settore. «Ogni anno, sono migliaia le persone che acccedono al servizio di salute mentale del Distretto di Gravina di Catania e circa un centinaio le patologie particolarmente debilitanti seguite al centro diurno» ci riferisce Giuseppe Scibilia – psichiatra e responsabile dell'area riabilitativa. L'organico è carente: quattro psichiatri più il responsabile, otto infermieri e un tecnico della riabilitazione.

«Fare rete è stato l'unico modo per rispondere all'esigenza dei pazienti che non è solo di diagnosi e cura e, certamente, di prevenzione, ma anche e soprattutto di riabilitazione» sostiene Scibilia.

Il Dipartimento, infatti, interviene sulle abilità perdute, prima che svaniscano irrimediabilmente.

Si agisce, quindi, sulla capacità relazionali, la capacità di incontrarsi, in un contesto di cura, con altre persone per provare a ricostruire un modello relazionale.

E per fare ciò, sono state messe in campo tutte le forze, costruendo reti di servizi anche con le comunità alloggio e le comunità terapeutiche assistite. «La risposta sul territorio è più ampia e capillare grazie al lavoro di rete» afferma Scibilia.

Un effetto moltiplicatore che ha consentito

finora di offrire più e diverse attività riabilitative in vari luoghi, con la presenza degli operatori dell'ASP: un gruppo benessere rivolto alla cura dell'alimentazione e all'attività fisica, una squadra di calcetto a San Pietro Clarenza, un gruppo di psicoterapia, il gruppo coro, il gruppo di creatività, il gruppo fiaba, persino un giornalino.

E da settembre il gruppo cucina, un'attività che stimola le abilità manuali, la concentrazione e finalizzata a un obiettivo.

L’amministrazione gravinese, come Comune capofila del Distretto Sanitario, ha messo a disposizione per un giorno a settimana la Sala delle Arti presso il parco comunale, luogo che è stato anche recentemente scenario della manifestazione “Coordinatamente insieme”, un momento di riflessione e di condivisione con i cittadini. L'evento è la tappa finale di questo percorso che dura da più di due anni – ci spiega Rosario Adonia, assistente sociale presso la Comunità alloggio “Alba” di Mascalucia e fra i relatori della manifestazione.

«Tutte le associazioni e cooperative operanti sul territorio del Distretto hanno messo insieme le forze, confrontandosi su problemi e soluzioni per accelerare sul piano riabilitativo – conferma Adonia – superando le rivalità e creando una filiera che funziona. Stimolare le capacità residue significa – conclude – rafforzare le relazioni sociali e arricchire la propria vita». È questo è certamente un elemento essenziale per chi soffre di un disturbo mentale, spesso vissuto in condizione di segregazione, di isolamento e di tanta solitudine. La paura dello “stigma”, il peso del pregiudizio condizionano il ricorso alle cure, posticipandolo di diversi anni rispetto all'esordio dei sintomi. Il potenziamento dei Centri diurni per disabili mentali è inserito nelle linee programmatiche del piano di zona 2018-2019 del Distretto Sanitario da poco esitato, ma si auspica che possa continuare ad essere affiancato da percorsi virtuosi come quello svolto dal gruppo di coordinamento.

Parco inclusivo a Viagrande

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n parco per tutti i bambini, un parco inclusivo, è stato in questi giorni inaugurato a Viagrande.

Nell'area di circa 630 mq sono stati installati dei giochi anche per bambini con disabilità.

L'intervento è stato realizzato con i fondi del bilancio partecipato, strumento di stimolo e di partecipazione dei cittadini alla vita politica ed amministrativa del proprio territorio. Il sindaco, Franco Leonardi, ha accolto con entusiamo la proposta dei cittadini di destinare i fondi per il miglioramento di spazi e aree verdi: «Un parco inclusivo è un luogo di un sano divertimento, ma anche occasione educativa, di crescita, per imparare lo stare tutti insieme, per sperimentare che la diversità, il modo proprio di essere di ciascuno di noi, non è invece e non deve essere di impedimento o di svantaggio per nessuno». Un'unione di intenti per il bene comune integrato dalle forze private del territorio - IOM (Istituto oncologico mediterraneo), Villa Sandra, CSR (Consorzio Siciliano di Riabilitazione) - che, alla necessità di implementare l'intervento hanno risposto subito, con grande sensibilità, all'invito del primo cittadino. (tg)

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cucina

Quando la cucina è

LE RICETTE DI EMANUELA GHINAZZI Ecco cosa ci ha raccontato mentre prepara tutto l’occorrente per il corso di cucina “Amore a primo impasto”, tenuto ad Aci Bonaccorsi 24

di Agata Amantia

enza glutine si può fare davvero tutto, con risultati sorprendenti!» Ad affermarlo, con un sorriso che non lascia dubbi, è Emanuela Ghinazzi, autrice di tre libri di successo sulla cucina gluten free, nonché food blogger in “Uncuore di farina senza glutine” ed attualmente brand ambassador di una nota azienda del settore. Dal 2013 fa parte dell’Associazione Cuochi Arezzo ed il suo lavoro la porta in giro per l’Italia, dandole occasione di partecipare a vari eventi e manifestazioni dove condividere la sua esperienza.

Nata a Ponticino, un piccolo paese in provincia di Arezzo, Emanuela scopre la cucina senza glutine dopo la diagnosi di celiachia della figlia Eleonora, che adesso ha 27 anni. Successivamente, in seguito ad alcuni controlli scopre di esserlo anche lei. Da quel momento la sua vita cambia perché dovrà rivedere l’organizzazione familiare e soprattutto i pasti. Così comincia la sua avventura nel mondo gluten free che lei stessa ci racconta mentre prepara tutto l’occorrente per il corso di cucina “Amore a primo impasto”, tenuto ad Aci Bonaccorsi presso la farmacia Portale.

«Prima della diagnosi io non conoscevo la celiachia né tantomeno la cucina senza glutine», spiega Emanuela. «Inoltre allora esistevano pochi prodotti e di scarsa qualità. Così è nata dentro di me l’esigenza di ricercare il gusto e non soltanto un buon impatto visivo in ciò che cucinavo, anche perché mia figlia aveva un gemello che invece poteva mangiare tutto ed io non volevo fare differenziazioni. Successivamente ho cominciato a frequentare siti di cucina attraverso i quali confrontarmi con altre persone e da qui è nata la collaborazione con Olga Scalisi sul forum di Cucinainsimpatia e poi il blog nel 2010 e la stesura dei ricettari senza glutine».

«L’Aic (Associazione italiana celiachia) da anni svolge una campagna informativa che riguarda anche i luoghi di ristorazione dando indicazioni specifiche su alimenti e comportamento da tenere in cucina in modo da evitare contaminazioni»

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Tutto avviene gradatamente, in maniera naturale.

Un pò alla volta Emanuela cambia il suo modo di cucinare dando una svolta alla sua vita ed a quella dei suoi familiari perché anche gli altri componenti (nel frattempo sono nate altre due figlie) cominciano ad apprezzare il risultato dei suoi sforzi in cucina.E senza accorgersene, giorno dopo giorno, da vita ad una nuova interpretazione del cibo senza glutine miscelando farine diverse e creando nuovi sapori, insomma… sperimentando.

«Mi piace puntualizzare che io principalmente sono una mamma che vuole condividere con altri, soprattutto con i neo diagnosticati, le tecniche che ho affinato nel tempo realizzando ottimi prodotti con pochi ingredienti ed attrezzature.

Considero fondamentale la condivisione ed è per

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cucina

«Prima della diagnosi io non conoscevo la celiachia né tantomeno la cucina senza glutine. Inoltre allora esistevano pochi prodotti e di scarsa qualità.

Così è nata dentro di me l’esigenza di ricercare il gusto e non soltanto un buon impatto visivo in ciò che cucinavo»

questo che dopo aver ricevuto tanto cerco anche di dare».

Una cucina con più gusto può migliorare anche la qualità della vita? «Certo. Perché la tavola costituisce un momento d’incontro. La convivialità è importante sia in famiglia che con gli ospiti.

Proprio per questo io cerco sempre di preparare un menù unico eliminando ciò che può far male e consiglio di fare lo stesso ogni qualvolta abbiamo a tavola una persona che ha delle intolleranze, in modo da metterlo a suo agio› Ci sono cose che riescono meglio senza glutine?

«Sì, in particolare i dolci, le crostate perché risultano ancora più soffici grazie alle farine che per natura sono prive di glutine e cioè quelle di riso, fecola di patate, tapioca . Ma devo dire che anche la pizza è molto apprezzata ed i miei quattro figli chiedono proprio quella senza glutine perché ne preferiscono il gusto›.

La celiachia interessa una larga fetta della popolazione mondiale ed esattamente l’1%. Per tanto le strutture alberghiere, i ristoratori, la grande distribuzione alimentare hanno dovuto adeguarsi nel tempo per migliorare la loro offerta, ma ci si può affidare senza rischi? «L’Aic ( associazione italiana celiachia) da anni svolge una campagna informativa che riguarda anche i luoghi

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di ristorazione dando indicazioni specifiche su alimenti e comportamento da tenere in cucina in modo da evitare contaminazioni. Quindi credo che possiamo fidarci delle segnalazioni dell’associazione. Sicuramente negli ultimi anni sono stati fatti molti passi avanti da questo punto di vista».

Lo stesso si può dire dei consigli delle food blogger? «Spesso una food blogger è una mamma, casalinga o lavoratrice che, come me, dopo aver sperimentato per anni anche sbagliando riesce a migliorare una pietanza o cerca di ricreare dei sapori più somiglianti a quelli a cui si era abituati prima della diagnosi e vuole condividere tutto questo con gli altri. Perciò può risultare molto affidabile perché i consigli che dispenza li mette in pratica tutti i giorni, cucinando per se e per i propri familiari. E la soddisfazione più grande non è il guadagno economico ma semplicemente il grazie di qualcuno che ha ricominciato a mangiare con gusto dopo aver cucinato con le nostre ricette».

Suo fratello Enzo Ghinazzi, in arte Pupo, qualche anno fa ha inaugurato a Ponticino una gelateria che porta il nome di un suo brano molto noto. Ci sarà sicuramente qualche gusto senza glutine! «Le mie nipoti Ilaria e Claudia gestiscono il locale ed ovviamente hanno inserito anche il gluten free… cono compreso».

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sport

MARGHERITA CHIAVARO & GRAZIELLA LO RE

testi di Francesco Ricca foto di Francesca Santangelo

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e incontri sulla spiaggia, il loro habitat preferito. Trasmettono subito, a pelle, una grinta senza eguali, nemmeno fossero due ragazzine alle prime armi vogliose di gettare sul campo tutta la loro passione per lo sport. Due grandi atlete, riconosciute, amate e decorate, che della sicilianità – o meglio, della loro catanesità – ne hanno fatto un vanto nel circuito italiano e internazionale del beach volley.

Margherita Chiavaro (classe 79) e Graziella Lo Re (classe 84), icone di questa disciplina, eroine di uno sport baciato dal sole e amato per la sua bellezza. “Catania s’è desta”, per le sue paladine in costume. Loro, altrettanto, esprimono fierezza per aver rappresentato al meglio «il profondo sud, spesso bistrattato e distante dagli standard nazionali.»

Campionesse d’Italia entrambi, non in coppia, non negli stessi anni. Margherita, all’età di 21 anni, si è fregiata del tricolore in coppia con Manuela Malerba; lo stesso ha fatto Graziella, nel 2011, insieme a un’altra atleta siciliana, Nellina Mazzulla. Una passione comune, stesso ruolo in campo (difensore), come se davvero fossero state clonate. Tutto ciò le ha sempre unite indissolubilmente sulle spiagge catanesi durante gli intensi allenamenti, fatti di sacrifici e grande abnegazione. Oggi sono due splendide mamme, lavoratrici, ma pur sempre giocatrici. E di lasciare l’attività agonistica non se ne parla nemmeno…

I TRIONFI La scelta di intraprendere la carriera nel volley è maturata in età adolescenziale, con i primi anni trascorsi in indoor a farsi le ossa nella pallavolo tradizionale. «Ho iniziato la carriera all’età di 16 anni – i ricordi di una sorridente Margherita Chiavaro – e già nello stesso anno partecipai al primo torneo assoluto 3vs3 di beach volley organizzato a Catania, alle Capannine. Non conoscevo questa disciplina ma me ne innamorai subito, infatti proprio da lì iniziò il mio percorso nel beach. In un paio di anni ero già arrivata a centrare i primi podi nei vari tornei nazionali, fino ad arrivare ancora giovanissima, a 21 anni, a conquistare il titolo italiano. La soddisfazione più grande credo, comunque, sia stata la vittoria del Challenger internazionale a Vasto, sempre in coppia con Manuela Malerba».

«I miei primi passi nel beach volley sono datati estate 2002 a Lecce – il racconto orgoglioso di Graziella Lo Re –, quando mi trovavo in Puglia dove mi ero trasferita per giocare a livello agonistico. Il mio allenatore di allora a Brindisi mi aveva selezionato per disputare i tornei Under 21. La mia prima compagna è stata la leccese Caracuta, con cui abbiamo fatto una grande esperienza in Portogallo ai mondiali giovanili di beach volley. Il percorso nel campionato italiano, invece, è stato stimolante ma impegnativo, che mi ha portato 8 anni fa sino a centrare il tricolore, il mio successo più grande.»

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NOI, MAMME Oggi la vita e la famiglia hanno portato Margherita e Graziella a stravolgere, chi più chi meno, le loro abitudini di atlete, essendo meravigliosamente mamme. Zoe di 3 anni e mezzo e Viola di un anno e mezzo sono le gioie di Margherita Chiavaro; due maschietti di 18 mesi, gemelli, Angelo e Francesco, invece sono i piccoli di Graziella Lo Re, che con grande forza di volontà è tornata all’attività agonistica dopo appena 40 giorni dalla loro nascita. «Il mio presente – ha confessato della Chiavaro – mi vede assorbita dal ruolo di mamma e nel lavoro, professione ostetrica, che già di suo è molto impegnativa.

Non ho mai abbandonato il campo di gioco, mi alleno con continuità ma per me adesso è più un divertimento piuttosto che agonismo».

«Io non mollo – ha esclamato una fiera Lo Re – e gioco ancora il campionato italiano in coppia con una ragazza di Cagliari, Valentina Calì.

Anche per me sono cambiati i ritmi e gli spazi da poter dedicare allo sport, specie dopo la nascita dei miei due gemelli. Ricordo ancora nitidamente il titolo di “Queen of the Beach”, vinto nel 2013, ovvero il riconoscimento ottenuto tra le migliori otto giocatrici nazionali, questo mi dà la forza di proseguire.»

LE NUOVE GENERAZIONI Due atlete spesso insignite di importanti riconoscimenti, meritati per i grandi successi ottenuti in carriera. «Sono stati davvero numerosi e importanti i premi ricevuti negli anni – così ancora Margherita Chiavaro – ma mi piace ricordare quello più recente, ovvero l’incarico di consulente allo Sport del Comune di Tremestieri Etneo, qualcosa che mi ha riempito d’orgoglio.» Uguale la soddisfazione espressa anche da Graziella Lo Re: «Quello più prestigioso a mio avviso è stata la consegna della “Castagna d’oro”, ricevuta nel 2013 insieme a Nellina Mazzulla.»

Anche il futuro prevede strade diversificate. «Ad oggi non nutro l’intenzione di intraprendere la carriera di allenatore – il pensiero della Chiavaro – anche se mi piacerebbe insegnare alle nuove leve i veri valori dello sport, l’umiltà, la dedizione al sacrificio e quella determinazione necessaria per raggiungere gli obiettivi più ardui, come abbiamo fatto sempre io e Graziella. Oggi noto che queste peculiarità non fanno parte delle nuove generazioni.»

Stesso pensiero ripreso e ribadito con forza dalla Lo Re: «II giovani di oggi non curano l’aspetto educativo a dovere e questo è un motivo di fondamentale importanza per il raggiungimento dei traguardi sperati. Ho ricevuto diverse offerte già per allenare, ma io ancora voglio giocare! Non escludo di poterlo fare in futuro, sia nel beach che indoor, sto completando l’iter per il patentino da allenatore».

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Oriana Di Stefano la campionessa di lotta libera cresciuta a Lineri che tiene alti i colori azzurri.

Un storia di vittoria, passione e riscatto che parte dai sobborghi del Catanese e arriva in Europa.

testi di Roberto Quartarone foto di Francesca Santangelo

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el cuore di San Cristoforo, in un capannone abbandonato e ristrutturato nel corso degli anni, si lotta; davvero, non solo per portare avanti i propri sogni e i propri progetti e contro l’indifferenza delle istituzioni. I Giovani Assolutamente Per Agire (il cosiddetto Gapa) ospitano dal 2003 la materassina della Polisportiva Energy Club su cui tanti atleti si sono alternati per praticare la lotta greco-romana e la lotta libera.

L’EUROPA Poche settimane fa, la prima lottatrice donna cresciuta nella struttura di via Cordai ha disputato un Europeo Juniores con la Nazionale italiana di lotta libera: Oriana Di Stefano, 18 anni, campionessa italiana juniores in carica. È appena il suo quinto anno d’attività, in quanto prima era una ginnasta, ma l’atleta originaria di Lineri è una delle più futuribili del panorama nazionale, cresciuta in mezzo ai ragazzi e con tanti sogni nel cassetto. «Oriana è timida – afferma il suo maestro, Claudio Alonzo – Ha superato tante difficoltà. È una gran donna, sportiva e atleta.

Va bene a scuola ed è impegnata; le difficoltà aumentano quando si è impegnati su più fronti.

In più in Nazionale c’è tanta concorrenza, lei ha cinque anni d’esperienza e si confronta con gente che ha oltre 10 anni alle spalle».

A Pontevedra, in Spagna, non è riuscita a portare a casa vittorie, ma è il primo passo verso traguardi più prestigiosi. «Mi sono trovata abbastanza bene con il gruppo, sin da subito – spiega lei, sorridente dopo aver lottato con Giacomo, un altro dei ragazzi dell’Energy Club –. Conoscevo le mie compagne per i raduni precedenti con la Nazionale. L’Europeo è stata un’esperienza bellissima, la mia prima, e la farei altre mille volte. Ho fatto due incontri, affrontando la campionessa europea in carica, cavandomela bene, e poi una bulgara. È stata una buona esperienza, me la sono cavata anche con l’inglese».

AZZURRA Oriana ha già un bel curriculum da esibire: «Sono sette volte vice campionessa italiana e nel 2019 ho vinto il titolo Juniores. È emozionante giocare contro ragazze di tutta Italia. Ho iniziato solo cinque anni fa, ma già a 9 anni ero qui in palestra a fare ginnastica. Sono passata alla lotta perché il maestro ha insistito molto, all’inizio mi piaceva così così, mentre ora è fantastico».

La maglia con lo scudetto tricolore sul petto lo testimonia: è un grande traguardo, ma non un punto d’arrivo, anche perché per svettare in Italia e all’estero c’è tanto da fare.

«In Italia la lotta lavora – riprende Alonzo –, ma deve crescere dal punto di vista tecnico. Non siamo tra le prime Nazioni, siamo in via di crescita.

Negli anni ’90 la Nazionale di lotta era spesso formata da catanesi e palermitani. Oggi in città

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«Vorrei andare alle Olimpiadi. E spero di entrare nelle Forze Armate, per poi fare l’allenatrice o anche l’arbitro.

Vorrei rimanere nell’ambito sportivo.

Sarebbe bello, in modo da avere un lavoro subito dopo la scuola, che finirò il prossimo anno»

ci siamo solo noi e la Lotta Club Jonio. La lotta è uno sport completo, bisogna essere acrobati e agonisti, è molto bello. Non a tutti piace perché è duro, difficile, devi confrontarti malgrado sia uno sport individuale. È difficile rialzarsi dopo le sconfitte».

L’ALTRO AZZURRO A Catania c’era un altro ragazzo molto promettente, Santo Rapisarda: cresciuto sempre al Gapa, se n’è andato a gennaio con il cugino Andrea Zappalà, in un incidente in via Palermo tra il loro scooter e una macchina. «Santo è stato agli Europei Cadetti di Sarajevo, nel 2017 – ricorda Alonzo –. Siamo al Gapa dal 2003, iniziammo solo con Salvo Ruggeri e Domenico Guglielmino; oggi abbiamo più di 30 ragazzini che fanno lotta libera e greco-romana. In tanti sono arrivati in Nazionale e hanno vinto molte medaglie, ma solo Santo e Oriana sono arrivati agli Europei».

IL FUTURO Di Stefano è una mosca bianca del movimento della lotta libera. «A Catania c’è solo un’altra ragazza che fa lotta, ma in un’altra società – spiega –. All’inizio mi vergognavo ad essere l’unica. È

difficile, ma ora tutti i ragazzi sono miei fratelli.

Lo consiglierei a tutti, anche per superare la propria timidezza». E sa ciò che vuole dal futuro: «Vorrei andare alle Olimpiadi – chiude –. E spero di entrare nelle Forze Armate, per poi fare l’allenatrice o anche l’arbitro. Vorrei rimanere nell’ambito sportivo. Sarebbe bello, in modo da avere un lavoro subito dopo la scuola, che finirò il prossimo anno».

IL GAPA Tutto questo è stato possibile grazie anche al Gapa, che a San Cristoforo permette di allenarsi e imparare una disciplina che dà una prospettiva ai ragazzi. «Il Gapa è un punto di riferimento – sottolinea il maestro Alonzo –. La forza è che, al fianco dei volontari, i genitori diventano spesso loro stessi volontari. Il quartiere è senza i servizi essenziali, ancora di più con la chiusura della scuola media Andrea Doria. Bisognerebbe pagare chissà quanti soldi per fare le stesse attività.

Ma qui c’è la speranza. Il Gapa c’è da 31 anni, organizza attività creative, culturali, teatrali, sportive, basandosi sul volontariato e sulla vicinanza e la riconoscenza della gente del quartiere». Accendendo così la fiammella dello sport.

Oriana Di Stefano, 18 anni, campionessa italiana juniores in carica. È appena il suo quinto anno d’attività, in quanto prima era una ginnasta, ma l’atleta originaria di Lineri è una delle più futuribili del panorama nazionale, cresciuta in mezzo ai ragazzi e con tanti sogni nel cassetto

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«Sono sette volte vice campionessa italiana e nel 2019 ho vinto il titolo Juniores. È emozionante giocare contro ragazze di tutta Italia. Ho iniziato solo cinque anni fa, ma già a 9 anni ero qui in palestra a fare ginnastica. Sono passata alla lotta perché il maestro ha insistito molto, all’inizio mi piaceva così così, mentre ora è fantastico»

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«Oriana è timida.

Ha superato tante difficoltà. È una gran donna, sportiva e atleta.

Va bene a scuola ed è impegnata; le difficoltà aumentano quando si è impegnati su più fronti. In più in Nazionale c’è tanta concorrenza, lei ha cinque anni d’esperienza e si confronta con gente che ha oltre 10 anni alle spalle»

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Antonio Giovanni Pesce Saggista

H2O

antoniogpesce@gmail.com

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PUBBLICISTICA CAMILLERI

a morte di Camilleri ha lasciato attonito un vasto pubblico, forse non solo letterario, sicuramente non solo siciliano. Ha diviso più dell’attività e delle esternazioni in vita del noto scrittore siciliano, che certo non risparmiava le sue incursioni sui temi più caldi della politica, sia nelle interviste che nei suoi romanzi. Del resto, era improbabile che ciò non accadesse: c’è opinione pubblica perché c’è divisione, contesa, e non già dialettica, dal momento che l’opinione pubblica, per esserci, deve dividersi, mentre la dialettica deve mettere capo infine ad una sintesi. Molti si sono chiesti chi fosse veramente Andrea Camilleri e che meriti avesse. Ne abbiamo sentite di tutti i colori, e c’è chi lo ha paragonato a Sciascia, addirittura a Pirandello. A questo climax ascendente si è contrapposto quello discendente, altrettanto paradossale perché si è giunti a negare gli indubbi meriti. Trarre bilanci non è facile, soprattutto nell’immediatezza della conclusione di un’esperienza, quando ancora adulazione e risentimenti (ivi compresa l’invidia di altri scrittori) bollono nel grande pentolone della chiacchiera. È il momento dei palati grossolani, che hanno bisogno di essere stupiti per poter gustare. Verranno anni, di certo, in cui si preparerà una minestrina apparentemente scipita, senza troppo sale, ma nutriente e perfino gustosa per i palati più fini. Senza premura, sul fuoco lento della Storia, i grumi della pubblicità si scioglieranno, il rancore evaporerà, e quel che rimarrà in pentola sarà il meglio – poco o molto, ma il meglio. E allora sì che si potrà fare un bilancio.

Per ora, possiamo limitarci a porre qualche domanda, sine ira et studio, solo per provare ad immaginare i nodi che il tempo dovrà sciogliere. E quanto ce ne vorrà, non è dato saperlo, perché il pubblico di Camilleri è atipico. Il grande clamore non è frutto solo di appassionati lettori o di spettatori teatrali, magari cresciuti con Dostoevskij, Tolstoj, Kafka, e appunto Pirandello e Sciascia. Non è un pubblico cresciuto con Mattia Pascal e Vitangelo Moscarda e che poi si incontra in Salvo Montalbano, né è venuto su con Edipo a Siracusa per poi incontrarvi Tiresia. Si tratta anche di questo, ma non solo. Si tratta soprattutto del pubblico di Catarella e che ha avuto per focolare la televisione. Non è stata la pol-

trona e il lume a riunire la gran folla di entusiasti, né l’altare sacro delle rappresentazioni classiche dell’Inda. Questo pubblico di fan potrebbe sciogliersi alla prossima moda, o scoprirsi compatto nei decenni che verranno. Difficile a dirsi. Ma da questo dipenderanno le due risposte che attendiamo per dare una valutazione complessiva dell’opera dello scrittore empedoclino. La prima risposta è inerente alla forma della produzione, che in questo caso è la lingua. È la lingua di Camilleri un veicolo adatto? Non vi è dubbio che per capire in fondo tante cose dei personaggi di Pirandello o delle vicende sciasciane aiuta molto l’essere conterranei dei due, ma è anche vero che essi non concedono al dialetto che qualche sparuta incursione, e nulla più. E non si può portare ad esempio il caso di Louis-Ferdinand Céline, perché nello scrittore francese c’è la ricerca di un linguaggio più vivo, più reale, ma non già la creazione di una lingua. Secondo alcuni, Camilleri ha fatto di più – ha creato una lingua che non è il siciliano, ma che dal siciliano è condizionata fortemente. Televisivamente, non c’è dubbio che abbia retto ed è stata gradita dal grande pubblico. Vedremo come, nel gran fiume della lingua nazionale, questo affluente camilleriano verrà accolto. La seconda domanda è più complessa, anche perché in parte legata alla prima. Arte è espressione individuale di un universale. Una vicenda che sa farsi mondo, insomma. Siamo abituati a leggere recensioni e a premi che ci dicono di belle storie, che ci parlano di bei valori. Ma queste storie sanno farsi mondo? Sanno raccontare, attraverso la maschera dei personaggi, il grande dramma umano, da non consumarsi preferibilmente nell’arco di una generazione? Cosa può dire Salvo Montalbano – faccio solo un esempio, quello più noto – a qualcuno che non sia un siciliano, o un italiano di questo primo scorcio di secolo? Forma e contenuto – il problema dell’arte sta tutto qui. E a questo problema non può sfuggire neppure Camilleri. Che ha dato tanto alla letteratura e ciò non può essere affatto disconosciuto. Ma ora inizia un’altra partita, i cui tempi, per fortuna, non sono quelli televisivi. È il tempo il lievito del giusto giudizio. E il riso degli arancini che non fai ‘riuncari, appoi si sfa quannu u frij’.

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LETTO, RILETTO RECENSITO

di Salvatore Massimo Fazio È il filosofo che ha fondato la corrente del nichilismo cognitivo. Poco avvezzo alla mondanità, vive a fasi alterne tra Sant’Agata Li Battiati, dove mantiene la residenza, Roma e Torino.

Dliel, L’albero di Zaffiro Dreambook edizioni Pagg.: 256 Prezzo: € 13,00.

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ottoressa, il sogno orientale continua...

Stessa ragazza, stessi orecchini. Questa volta tutto si svolge all’interno di un giardino recintato: ci sono palme e alti alberi di un magnifico verde argentato, una fontana da cui non esce acqua. E uccelli e animali che, non so come dire, sembrano prender vita solo in presenza dei due innamorati».

Con l’ouverture del cap. XLII presento un libro che sicuramente non appare tra i più facili da leggere appena lo si ha in mano, ma altrettanto certamente posso dire che se si riesce a superare il preambolo della prime otto pagine, scorrerà liscio come l’olio, nella memoria risvegliata di ogni persona che ama il romanzo semplice, armonioso e impegnato. Questo libro edito da Dreambook, scritto dalla psicoanalista catanese Dliel, al secolo Anna Barbagallo, proietta il lettore in un incrocio che ad oggi mai avevo potuto supporre verificarsi. L’autrice che tempo fa intervistai, sta lavorando ad altrettante opere di questo spessore, ciò mi rende gioioso. Ma si venga al dunque. Il ‘personaggio’ protagonista è la professione dello psicoanalista, proprio come l’autrice. Ma vi lancio un quesito che vi svelerà la lettura del libro: questa professione protagonista a chi potrebbe essere associata?

A Sophia? Al suo maestro? A chi scopre l’essenziale importanza non più della parola, detta, subita, ricevuta, accolta et alii? Forse nessuno di questi è il protagonista associato, bensì la lettera. Nella Qabbalah, la lettera corrisponde ad un nome, e quel nome siamo noi, passati di mano in mano, sino a giungere al compimento.

Romanzo che diventa anche nozionistico per la conoscenza di misteri che troppo spesso bloccano il respiro di un volatile chiuso in una gabbia. Così la nostra recensione/pillola, si è rivelata, così ve la consegnamo, nel semplicismo di informarvi che questo libro può sovvertire le sorti dei pensieri di chi lo leggerà. Consigliatissimo.

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