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Pegaso Inserto di cultura politica e di politica culturale

Formazione Scuola ticinese: quali sono gli schemi rigidi da abbandonare?

Elezioni Donne elette in Consiglio nazionale

Argomento A cent’anni da un genocidio ancora negato

EXPO EXPO 2015 e la “Carta di Milano”

Pegaso Inserto mensile di Popolo e Libertà

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no. 107 - 30 ottobre 2015

Educare alla civica e alla cittadinanza I risultati della recente votazione per la designazione dei rappresentanti ticinesi alle Camere federali, con una partecipazione al voto del 54,4 % (cioè poco più della metà degli aventi diritto di voto, in linea con il dato di 4 anni fa) dimostrano l’attualità e la necessità di affrontare il tema dell’educazione alla civica e alla cittadinanza, come vuole una iniziativa popolare attualmente in discussione nella Commissione scolastica del Gran Consiglio. Da precisare, per chiarezza del dibattito, che per civica si intende la conoscenza dei meccanismi legali che governano la democrazia ticinese e svizzera; con cittadinanza si intendono specialmente i diritti e quindi i doveri che spettano ad ogni persona e, in questo contesto particolare, al cittadino chiamato a partecipare alla vita pubblica con il diritto di voto e di eleggibilità. Educare alla cittadinanza significa quindi educare alla responsabilità sociale e politica, altrimenti detto al “civismo”. L’iniziativa popolare propone che a questa materia, civica e cittadinanza, siano consacrate alcune ore di insegnamento nelle classi della scuola media, e tale insegnamento comporti una valutazione specifica (la nota sul libretto…); le ore di insegnamento dovrebbero essere a carico (in diminuzione?) del tempo attualmente dedicato all’insegnamento della storia, di qui le reazioni negative degli insegnanti titolari; anche il Consiglio di Stato, prendendo posizione sull’iniziativa popolare, ne dà un giudizio negativo con diverse motivazioni, più o meno pertinenti. Premesso che nessuno contesta la necessità di migliorare l’educazione sia civica sia al civismo, e che la scuola deve partecipare a questo doveroso impegno (ne va della convivenza e della democrazia), sulle modalità e sull’efficacia si può essere di diverso avviso; le proposte degli iniziativisti sollevano più di una giustificata obiezione e fanno bene (è il loro compito) Governo e

commissione scolastica a cercare altre più efficaci e praticabili soluzioni. Ma quale giudizio “scientifico” dare sull’attuale situazione dell’insegnamento alla civica e nella scuola ticinese, già prevista in modo esplicito nella Legge della scuola? Gli iniziativisti si sono appoggiati ad una indagine, promossa dal Dipartimento Educazione cultura e sport nel 2010 (a dieci anni dell’inserimento nella Legge scolastica di un articolo 21° proprio relativo a tale insegnamento) , ed i cui risultati sono stati pubblicati, in forma ridotta, dalla rivista “Dati statistici e società” dell’Ufficio statistica cantonale (maggio 2012): ad essa mi riferisco per ricordare qualche constatazione e riprendere le proposte ivi formulate. Un’indagine della SUPSI Si osserva: “Possiamo quindi dire che gli istituti scolastici ticinesi sono - con qualche eccezione - piuttosto attivi per quanto concerne le attività di istituto inerenti ai temi della civica e della cittadinanza, specialmente nella scuola media, L’eterogeneità di situazioni osservata lascia però supporre che le attività svolte su questo fronte siano ancora troppo spesso legate all’impegno e alla passione del singolo docente o del singolo istituto e non l’esito di una strategia di implementazione (sic!) che concerne tutti. Lo scarso impegno di alcuni istituti potrebbe forse (sic!) essere superato identificando e riconoscendo in modo ufficiale in ogni istituto (per esempio con uno specifico sgravio orario) un responsabile di questo tipo di attività, ciò che era a suo tempo stato auspicato dalla Commissione scolastica, ma mai tradotto in pratica dal DECS“. Interessante e anche preoccupante, una osservazione che segue: ”almeno quattro docenti su cinque (…) erano a conoscenza del potenziamento (83%), mentre appaiono in fuorigiuoco quasi un quinto dei docenti interrogati (17%), i quali ignoravano l’esistenza stessa della riforma …”. Occorre quindi “potenziare anche i docenti” … Positivo il giudizio generale sul risul-

tato: osserva infatti il rapporto: “Per quanto riguarda il giudizio sull’esito della riforma, va detto che una maggioranza ritiene di aver percepito un reale potenziamento di questo insegnamento negli ultimi anni (60%) e pensa che gli sforzi della scuola in questa direzione siano paganti, poiché trovano un riscontro nei comportamenti degli allievi (58 %)”. Il testo del’inchiesta si conclude con alcune proposte operative che meritano una sottolineatura: per quanto riguarda la scuola: “Tornando agli esiti generali della ricerca, crediamo sia utile ribadire la necessità di valorizzare e dare continuità a quanto di buono viene già attuato da parte di molti istituti scolastici e di tanti insegnanti a livello dell’insegnamento della civica e dell’educazione alla cittadinanza, allo scopo di dare risalto e consolidare questo prezioso patrimonio. fornendo così più vigore all’azione educativa che non sempre facilmente riesce a incidere sull'atteggiamento e sugli apprendimenti degli allievi”. Qui merita di essere ripresa la proposta di un “incaricato speciale” che stimoli e appoggi tale compito della scuola, se non per ogni istituto, almeno a livello regionale o di-

partimentale. Ma giustamente vengono richiamate anche altre responsabilità e carenze: infatti, continua la perizia, “Ma non solo ci sembra opportuno rilanciare anche l’idea di una responsabilità maggiormente condivisa fra gli “attori sociali”: scuola, famiglia, altre agenzie di socializzazione, e non da ultimo i politici. L’introduzione delle giovani generazioni alla vita politica, sociale ed economica è un compito impegnativo e risulta, a nostro avviso, fondamentale rifuggire dalla tentazione di facili deleghe alla scuola, come talvolta emerge nel dibattito, ponendosi, ognuno nel proprio ambito, come modello di riferimento per quel che riguarda il vivere civile e democratico”. È un tema che va ripreso, specialmente richiamando a questo loro compito educativo specialmente prima le Chiese (e applicare la recente enciclica LAUDATO SI’ di papa Francesco) e i partiti politici, e poi anche i media, appena usciti dalla “grande Babele” delle elezioni federali, dove c’è stato “molto fumo e poco arrosto” (cioè educazione politica). Alberto Lepori


II Pegaso

Venerdì 30 ottobre 2015

Formazione

Scuola ticinese Quali sono gli “schemi rigidi” da abbandonare? Quando, alla fine del 2014, il consigliere di Stato Manuele Bertoli e il prof. Berger presentarono alla stampa le grandi linee della riforma della scuola che è nelle loro intenzioni e che era stata battezzata “La scuola che verrà”, i giornalisti più avveduti fecero subito due domande: la riforma avrebbe portato ad un abbassamento del livello degli studi? e: che conseguenze finanziarie avrebbe avuto la realizzazione della riforma? La cosa interessante è che le stesse domande erano circolate circa cinquant’anni prima, attorno agli anni sessanta, quando si cominciò a parlare dell’altra riforma scolastica, quella che avrebbe poi prodotto la nuova scuola media e che avrebbe aperto le porte ad un periodo “costituzionale” destinato a concludersi solo con la Legge della Scuola del 1990. Se accosto in questo modo le due riforme (quella fatta e quella da fare) non è per stabilire punti d’incontro, ma piuttosto per accertare subito le profonde differenze dei procedimenti che le hanno generate. L’osservazione che faccio non è originale: è stata espressa già parecchi mesi fa dallo storico Alberto Gandolla. Quella che all’ingrosso si può chiamare “riforma sessanta” era nata dal basso, richiesta dalla società, e sostenuta da una buona maggioranza dei docenti, attraverso le loro organizzazioni: inoltre, aggiungo io, mirava essenzialmente ad una novità (l’unificazione del settore medio) la cui portata era facilissima da capire per ciascuno. Oggi ci troviamo di fronte ad un progetto del tutto diverso: nato nelle chiuse stanze del Dipartimento, quasi pensato e preannunciato da una sola persona (si veda COOPERAZIONE, 20 agosto 2013), sottoposto solo in seguito ad una pubblica discussione di cui ci auguriamo di conoscere i risultati. E per di più spostato in prevalenza su un piano teorico, di cui non è facile per nessuno vedere le conseguenze pratiche, strutturali. O meglio: alcune conseguenze pratiche sono pur visibili, ma come sottintese, o appena accennate e comunque

poco considerate. Il DECS afferma che si tratta solo di “migliorare” la scuola ticinese. Questa impostazione dell’attuale proposta di riforma spiega l’orientamento che nei primi mesi di quest’anno ha preso la discussione pubblica sulla stampa: abbiamo potuto leggere articoli di docenti e di candidati al Gran Consiglio con netta prevalenza di riserve o di controproposte legate in parte alle norme attuali e in parte agli aspetti secondari della riforma proposta: non sempre, ma spesso l’on. Bertoli è personalmente intervenuto pubblicando articoli di difesa (e magari di contrattacco). Nel frattempo, il Dipartimento ha messo sul tavolo ancora altri due documenti: “Profilo e compiti istituzionali dell’insegnante della scuola ticinese” e il volume (280 pagine) “Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese”, quest’ultimo nella linea dell’attuazione del concordato Harmos. Non è chi non veda quanto la materia fra i tre documenti sia articolata e inscindibile. Fra i documenti di maggior peso

che sono stati prodotti nei mesi scorsi come contributo alla discussione a cui sono stati sollecitati i docenti, vorrei segnalare in particolare la presa di posizione del Sindacato OCST-Docenti, firmato dal presidente prof. Gianluca D’Ettorre e dal segretario Renato Ricciardi, reso noto nelle pagine del RISVEGLIO n. 2-3 di quest’anno. Si tratta di un documento corposo e meditato, del quale in questa sede non è possibile nemmeno un pallido riassunto: mi limiterò quindi a pochi cenni come invito alla lettura. Si deve in ogni caso condividere l’osservazione iniziale secondo la quale dire, come fa il DECS, che la scuola ticinese deve liberarsi da alcuni rigidi schemi del passato resta un’affermazione fumosa e senza significato, fin che non si precisano questi presunti schemi rigidi da modificare. L’analisi condotta dal documento porta in seguito a mettere in luce alcuni orientamenti che non sono esplicitamente affermati ma si leggono tra le righe: vale per la tendenza a svalutare il peso delle discipline e quindi dei

contenuti culturali che la scuola deve trasmettere, la rinuncia ad una registrazione del profitto scolastico sostituita da una fantomatica valorizzazione delle esigenze individuali, una riforma della griglia oraria di cui non si danno né gli estremi né gli orientamenti, una implicita trasformazione del docente da operatore culturale dotato di libertà didattica in un formale applicatore di orientamenti suggeriti dagli esperti di una sola visione pedagogica. La richiesta globale che ne scaturisce è quella di una più accurata riflessione sui rapporti tra l’aspetto culturale delle discipline e gli obiettivi formativi generali. Non trovo nulla di preconcetto in questo testo, che anzi saluta con interesse l’opzione di una riforma continua della scuola. Mi auguro che altre voci autorevoli si sentano in Ticino e che il DECS manifesti la volontà di ascoltarle, in un dialogo magari tardivo, ma necessario prima che il discorso cada (o salga) sul piano politico. Giorgio Zappa


Pegaso III

Venerdì 30 ottobre 2015

Approfondimento

Dal discorso di papa Francesco all’assemblea generale dell’ONU In occasione del 70esimo dell’Organizzazione mondiale I successi delle Nazioni Unite La storia della comunità organizzata degli Stati, rappresentata dalle Nazioni Unite, che festeggia in questi giorni il suo 70° anniversario, è una storia di importanti successi comuni, in un periodo di inusitata accelerazione degli avvenimenti. Senza pretendere di essere esaustivo, si può menzionare la codificazione e lo sviluppo del diritto internazionale, la costruzione della normativa internazionale dei diritti umani, il perfezionamento del diritto umanitario, la soluzione di molti conflitti e operazioni di pace e di riconciliazione, e tante altre acquisizioni in tutti i settori della proiezione internazionale delle attività umane. Tutte queste realizzazioni sono luci che contrastano l’oscurità del disordine causato dalle ambizioni incontrollate e dagli egoismi collettivi. È certo che sono ancora molti i gravi problemi non risolti, ma è anche evidente che se fosse mancata tutta questa attività internazionale, l’umanità avrebbe potuto non sopravvivere all’uso incontrollato delle sue stesse potenzialità. Ciascuno di questi progressi politici, giuridici e tecnici rappresenta un percorso di concretizzazione dell’ideale della fraternità umana e un mezzo per la sua maggiore realizzazione. Necessarie riforme ed adattamenti L’esperienza di questi 70 anni, al di là di tutto quanto è stato conseguito, dimostra che la riforma e l’adattamento ai tempi sono sempre necessari, progredendo verso l'obiettivo finale di concedere a tutti i Paesi, senza eccezione, una partecipazione e un’incidenza reale ed equa nelle decisioni. Questa necessità di una maggiore equità, vale in special modo per gli organi con effettiva capacità esecutiva, quali il Consiglio di Sicurezza, gli Organismi finanziari e i gruppi o meccanismi specificamente creati per affrontare le crisi economiche. Questo aiuterà a limitare qualsiasi sorta di abuso o usura

specialmente nei confronti dei Paesi in via di sviluppo. Gli organismi finanziari internazionali devono vigilare in ordine alìo sviluppo sostenibile dei Paesi e per evitare l’asfissiante sottomissione di tali Paesi a sistemi creditizi che, ben lungi dal promuovere il progresso, sottomettono le popolazioni a meccanismi di maggiore povertà, esclusione e dipendenza. Salvare l’ambiente, bene fondamentale Anzitutto occorre affermare che esiste un vero “diritto dell’ambiente” per una duplice ragione. In primo luogo perché come esseri umani facciamo parte dell’ambiente. Viviamo in comunione con esso, perché l’ambiente stesso comporta limiti etici che l'azione umana deve riconoscere e rispettare, L’uomo, anche quando è dotato di “capacità senza precedenti” che “mostrano una singolarità che trascende l’ambito fisico e biologico” (Enc. Laudato si’, 81), è al tempo stesso una porzione di tale ambiente, Possiede un corpo formato da ele-

menti fisici, chimici e biologici, e può sopravvivere e svilupparsi solamente se l’ambiente ecologico gli è favorevole. Qualsiasi danno all’ambiente, pertanto, è un danno all'umanità. In secondo luogo, perché ciascuna creatura, specialmente gli esseri viventi, ha un valore in sé stessa, di esistenza, di vita, di bellezza e di interdipendenza con le altre creature. Noi cristiani, insieme alle altre religioni monoteiste, crediamo che l’universo proviene da una decisione d’amore del Creatore, che permette all’uomo di servirsi rispettosamente della creazione per il bene dei suoi simili e per la gloria del Creatore, senza però abusarne e tanto meno essendo autorizzato a distruggerla. Per tutte le credenze religiose l’ambiente è un bene fondamentale (cfr ìbid., 81). Casa, lavoro, terra e libertà di spirito AI tempo stesso, i governanti devono fare tutto il possibile affinché tutti possano disporre della base minima materiale e spirituale

per rendere effettiva la loro dignità e per formare e mantenere una famiglia, che è la cellula primaria di qualsiasi sviluppo sociale. Questo minimo assoluto, a livello materiale ha tre nomi: casa, lavoro e terra; e un nome a livello spirituale: libertà di spirito, che comprende la libertà religiosa, il diritto all’educazione e tutti gli altri diritti civili. Per tutte queste ragioni, la misura e l’indicatore più semplice e adeguato dell'adempimento della nuova Agenda per lo sviluppo sarà l’accesso effettivo, pratico e immediato, per tutti, ai beni materiali e spirituali indispensabili: abitazione propria, lavoro dignitoso e debitamente remunerato, alimentazione adeguata e acqua potabile; libertà religiosa e, più in generale, libertà di spirito ed educazione. Nello stesso tempo, questi pilastri dello sviluppo umano integrale hanno un fondamento comune, che è il diritto alla vita, e, in senso ancora più ampio, quello che potremmo chiamare il diritto all’esistenza della stessa natura umana.


IV Pegaso

Venerdì 30 ottobre 2015

Sviluppo sostenibile

Nuova agenda per il mondo, gli obiettivi dello sviluppo sostenibile

Alcune osservazioni a seguito della presentazione di “Agenda 2030”

A fine settembre, l’ONU ha adottato l’Agenda 2030 per uno sviluppo sostenibile. Questo ambizioso progetto della comunità internazionale concerne tutti gli Stati, anche la Svizzera ha così i suoi doveri da compiere. L’Agenda 2030 e gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (OSS) prendono il posto degli Obiettivi del Millennio per lo sviluppo (OMS). Non concernono solo la eliminazione della povertà, ma anche la lotta contro le diseguaglianze e la protezione dell’ambiente. I paesi ricchi industrializzati sono pertanto coinvolti come i paesi del Sud. In Svizzera tutti i dipartimenti sono impegnati a attuare gli OSS. Così l’OSS 1 non domanda solo la fine della povertà assoluta (meno di 1,25 dollari USA di reddito al giorno), ma una riduzione alla metà della povertà secondo i criteri nazionali: in Svizzera ciò riguarda 590’000 persone. L’OSS 7 richiede

il raddoppio dell'efficacia energetica, come anche un aumento sostanziale delle energie rinnovabili: la Svizzera ha un grande potenziali di isolazione dei fabbricati. L’OSS 10 vuole rendere possibile una migrazione sicura, regolare e responsabile: una sfida per la Svizzera come paese di immigrazione. L’OSS 12 chiede un consumo e prodotti duraturi: con 694 kg per abitanti e all'anno, la Svizzera è al terzo rango mondiale, dietro la Danimarca e gli stati Uniti, per quanto riguarda rifiuti domestici. Ruolo di importanza chiave dell’aiuto pubblico allo sviluppo Un obbiettivo centrale per “Alliance Sud” è il 17 che tratta dei mezzi e dei metodi, cioè della coerenza delle politiche. Per raggiungere gli OSS sarebbe in effetti essenziale valutare tutte le decisioni che li ri-

guardano. La revisione in corso della legge sui mercati pubblici è un testo chiave per misurare se la Svizzera rispetta questi impegni. L’ONU stima che da 3’500 a 5’000 miliardi di dollari saranno necessari ogni anno per l’attuazione degli OSS nei soli paesi in via di sviluppo. Il piano d’azione uscito dalla conferenza di Addis Abbeba in giugno sfortunatamente non dice da dove verranno questi mezzi. Come tra i paesi più ricchi del pianeta, la Svizzera ha una corresponsabilità nel finanziamento per i paesi in sviluppo. Settori come la salute e l’educazione devono restare nelle mani dello Stato, detto altrimenti, l'aiuto pubblico allo sviluppo resta un sostegno importante del loro finanziamento. Con l’Agenda 2030, la Svizzera è di nuovo impegnata per un aumento del suo aiuto pubblico allo sviluppo (APS) al 0,7 % del reddito naziona-

le lordo: nel 2014 essa ha raggiunto per la prima volta l'obbiettivo dello 0,5 %, stabilito dal Parlamento. Ora mentre il mondo si impegna su un'agenda ambiziosa, essa prevede già di fare economia sulle spalle dei più poveri e di ridurre i propri impegni. L’Agenda dello sviluppo sostenibile è un quadro estremamente ambizioso; resta di dimostrare se rappresenterà la forza di attuazione promessa. Già nel prossimo dicembre i capi di Stato e di governo dovranno provare alla Conferenza di Parigi sul clima se prendono sul serio questa trasformazione. Se i paesi ricchi del Nord si rifiutano ancora una volta di assumere la loro responsabilità, gli obbiettivi ambientali dell'Agenda 2030 saranno già carta straccia. Eva Schmassman, Alliance Sud, autunno 2015

Gli obiettivi riassunti in 17 punti 1. Sradicare la povertà in tutte le sue forme e ovunque nel mondo 2. Porre fine alla fame, raggiungere la sicurezza alimentare, migliorare l'alimentazione e promuovere l'agricoltura sostenibile 3. Garantire una vita sana e promuovere il benessere di tutti a tutte le età 4. Garantire un'istruzione di qualità inclusiva ed equa e promuovere opportunità di apprendimento continuo per tutti 5. Raggiungere l'uguaglianza di genere e l'autodeterminazione di tutte le donne e ragazze 6. Garantire la disponibilità e la gestione sostenibile di acqua e servizi igienici per tutti 7. Garantire l'accesso all'energia a prezzo accessibile, affidabile, sostenibile e moderna per tutti 8. Promuovere una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, la piena occupazione e il lavoro dignitoso per tutti 9. Costruire un'infrastruttura risolvente, promuovere l'industrializzazione inclusiva e sostenibile e sostenere l'innovazione

10. Ridurre le disuguaglianze all'interno dei e fra i Paesi 11. Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, risolventi e sostenibili 12. Garantire modelli di consumo e produzione sostenibili 13. Adottare misure urgenti per combattere i cambiamenti climatici e le loro conseguenze 14. Conservare e utilizzare in modo sostenibile gli oceani, i mari e le risorse marine 15. Proteggere, ripristinare e promuovere l’uso sostenibile degli ecosistemi terrestri, gestire in modo sostenibile le foreste, contrastare la desertificazione, arrestare e invertire il degrado dei suoli e fermare la perdita della biodiversità 16. Promuovere società pacifiche e inclusive orientate allo sviluppo sostenibile, garantire a tutti l'accesso alla giustizia e costruire istituzioni efficaci, responsabili e inclusive a tutti i livelli 17. Rafforzare le modalità di attuazione e rilanciare il partenariato globale per lo sviluppo sostenibile


Pegaso

Venerdì 30 ottobre 2015

V

Elezioni

Le donne del Nazionale Non paga l’esperienza della lista con soli volti femminili, ma nella prossima legislatura saranno 64, un numero mai raggiunto L’elezione del Consiglio Nazionale dello scorso 18 ottobre ha fatto registrare anche una netta avanzata delle donne in Parlamento. Per la prima volta da quando le donne (44 anni fa) hanno ottenuto il diritto di voto, la loro percentuale nei seggi della Camera Bassa è salita al 32%. Si registrano così 64 donne e 136 uomini. Il risultato è tanto più significativo in quanto dal 2007 la percentuale femminile sembrava volersi fermare attorno al 29%, con 58 donne elette nel 2011. Un’altra novità in questo campo è data dal fatto che il Partito socialista invia ora in Consiglio Nazionale una maggioranza di donne: i suoi 43 seggi verranno occupati da 25 donne e 18 uomini. Nonostante la perdita di seggi del partito (-3), le donne ne guadagnano 4 rispetto all’elezione 2011, portando la percentuale di donne elette nel PS al 58,1%. Le donne confermano le loro posizioni anche nei Verdi, nonostante la grande perdita di voti del partito (-4 seggi). Esse perdono solo un seggio e raggiungono il 45,4% del totale del gruppo. Ma l’avanzata delle donne non si è manifestata solo a sinistra. Perfino nell’UDC i sei seggi del 2011 salgono a 11, raddoppiando quasi la presenza nella frazione. Nell’UDC gli uomini, con 54 seggi, continuano però a godere di un’ampia maggioranza. Marciano invece sul posto le donne liberali radicali, che conservano i loro sette seggi, nonostante che il partito ne abbia guadagnati tre. La loro percentuale scende così dal 23,3 al 21,2%. Non così invece nel gruppo PPD, che mantiene 9 donne su 27 seggi. La perdita di due seggi fa però salire la percentuale femminile al 33,3%. Percentuale che resta però inferiore a quella raggiunta nel 2007 con il 38,7% In Consiglio federale, l’eccezionale maggioranza femminile è finita con le dimissioni della Calmy-Rey. Le tre donne rimaste rischiano pure di diminuire se - come sembra - la ministra delle finanze WidmerSchlumpf sarà costretta a lasciare

la carica e non si vede all’orizzonte politico un’altra personalità femminile che possa sostituirla. Anche per l’ultima elezione del Parlamento, le candidature femminili non hanno raggiunto quote tali da rendere un’elezione molto probabile. Solo il Partito socialista ha praticamente realizzato la parità uomo-donna nelle candidature per il Consiglio Nazionale e questo si è riflesso anche nell’elezione, come s’è visto. Tra gli altri partiti maggiori solo il PPD presentava liste con il 34,2% di candidate. Il PLR superava appena il 30% (30,8%), ma l’UDC era rimasta ferma al 19,3%. Significativa la risposta data dal presidente dell’UDC di Basilea-Città: nessuna donna si è presentata quale candidata. E anche quando ne abbiamo contattato qualcuna, abbiamo visto la difficoltà di presentarsi per un partito d’opposizione. Le donne preferiscono l’armonia al conflitto.” Un atteggiamento analogo sarebbe stato riscontrato nel PPD. Il PS a Berna e il PLR a Soletta

avevano presentato liste femminili già nel 1987 e, almeno a Berna, è stata rotta l’egemonia maschile in Consiglio Nazionale. Ma è una buona soluzione? Wermer-Seitz, capo della Sezione politica, cultura e media presso l’Ufficio federale di statistica costata che, negli anni ’80 e ’90 soprattutto, il PS e i Verdi hanno favorito la candidatura e l’elezione di donne. Il numero di liste di donne è aumentato fino al 1999. Quell’anno ne vennero presentate 22, di cui 12 del PS. Quest’anno, invece, sono state solo 11 con in testa PS e UDC, ognuno con 4 liste, seguiti da PPD con 2 e PLR con una. A Berna, il PS ha considerato la lista di donne quale lista principale del partito. Altri partiti in altri cantoni le hanno invece considerate liste congiunte. Liste di donne e di giovani servono essenzialmente da appoggio alla lista principale. E questo - forse con l’eccezione del PS - sembra ormai diventare una prassi consolidata. Ciò non ha tuttavia impedito un

aumento sensibile della proporzione di donne in Consiglio Nazionale, ma l’apporto socialista è stato determinante. Ma che cosa è successo nei cantoni con liste solo di donne? Brutta esperienza del PPD con liste “rosa” sia a Basilea-Città, sia a Svitto. A Basilea, il PPD ha perfino perduto il seggio conquistato quattro anni fa. A Svitto ha eletto un solo deputato (uomo). Il PLR, a Basilea-Città, ha pure perso il proprio unico seggio, che è stato però conquistato da un liberale (ancora separato). Nello stesso semicantone, l’UDC ha conservato il suo unico seggio (maschile). A Soletta è stata eletta una sola donna (socialista). Se ne può dedurre che l’avanzata delle donne non è dovuta alle liste “rosa”. È piuttosto evidente che il successo può arrivare se le donne vengono inserite a pari titolo nell’ideologia e nella strategia dei partiti, valutando quindi anche opportunità e rischi di liste separate. Ignazio Bonoli


VI Pegaso

Pegaso VII

Venerdì 30 ottobre 2015

Argomento

A cent’anni da un genocidio ancora negato Il racconto del “Grande Male”, il massacro del popolo armeno Il 24 aprile 1915 a Costantinopoli viene dato I’avvio a un genocidio ancora oggi non riconosciuto da chi I’ha commesso e che suscita stupore, e talvolta fastidio, in chi, assolutamente ignaro, ne sente parlare. Nella notte del 24 aprile di cent’anni fa, nell’allora capitale dell’Impero ottomano, furono arrestate alcune centinaia di armeni in vista: giornalisti, scrittori, deputati, amici di quei Giovani Turchi con i quali, solo pochi anni prima, avevano inneggiato alla svolta democratica in Turchia. Molti di loro non diedero mai più notizia di sé: alla stazione di Haydar Pacha, affacciata sul Bosforo, furono caricati su un treno e avviati verso I’interno dell’Anatolia. Di qualcuno si seppe la fine atroce, di un altro si scoprirono dei versi nella tasca di una giacca abbandonata. Pochissimi ritornarono stravolti alle loro case ... Era solo I’inizio di quella pulizia etnica che eliminò gli armeni dalla terra che abitavano da millenni: la prima guerra mondiale, che portò lutti e rovine mai prima visti in Europa e nel mondo, ne favorì l’esecuzione.

Nei secoli invasi da popoli diversi

Gli armeni nel loro territorio, ponte o corridoio che unisce l’Asia all’Europa, la Mesopotamia al Mar Nero, avevano visto e subito invasioni e domini di popoli diversi: Bisanzio e la Persia, gli arabi, i turcomanni, i turchi selgiuchidi, gli ottomani. Nella parte orientale, quel-

la che impropriamente viene definita caucasica - in realtà è a sud del Caucaso - i russi avevano esteso il dominio fin dall’inizio del XIX secolo. Dopo la conquista di Costantinopoli (1453) da parte dei turchi ottomani, gli armeni avevano continuato a vivere nella terra avita ed erano divenuti linfa vivificante dell’Impero ottomano. Contadini laboriosi, che coltivavano campi e piantavano frutteti; artigiani industriosi, sarti, orefici, calzolai; intellettuali innovatori, primi nell'arte della stampa con libri, giornali, riviste; alti funzionari e architetti di corte: tutti avevano offerto generosamente la loro intelligenza e capacità ai conquistatori. Non illudiamoci. La pace e la convivenza perfetta verranno alla fine dei tempi, ma intese e tolleranze possono attuarsi al di là delle fedi religiose: cristiani (oltre gli armeni - primo popolo cristiano della storia - greci, assiri), musulmani, ebrei avevano convissuto più o meno pacificamente nel multietnico Impero ottomano per molti secoli. Ma le cose erano destinate a cambiare. Già sul finire del secolo XIX, il sultano “rosso” Abdul Hamid, perseguendo gli ideali del panturchismo che mirava a unire tutte le stirpi turche dal cuore dell' Asia alle sponde del Mediterraneo, aveva stroncato nel sangue le richieste di riforme avanzate dagli armeni: si ebbe così nel 1895-1896 la prima strage di massa che provocò trecento mila vittime. Pochi anni dopo, per motivi mai chiariti fino in fondo, altri trentamila armeni furono massacrati ad Adana e dintorni nel 1909.

Il “grande Male”

Furono quelli i prodromi della catastrofe, il “grande Male”, come gli armeni chiamano il loro genocidio. Allo scoppio della guerra nel 1914 la situazione, già tesa da decenni per il dispotismo, la corruzione, l’arbitrio che caratterizzavano specialmente le province orientali dell’ Impero ottomano, “grande malato d’Europa”, precipitò. Quando le forze dell’Intesa (Francia, Gran Bretagna, Russia e più tardi Italia) attaccarono la Turchia e la sua alleata Germania, anche gli armeni combattevano nelle armate imperiali; ben presto, però, accusati di connivenze con i compatrioti che nella parte orientale dell’Armenia erano sotto il dominio russo, furono disarmati. Cittadini di seconda classe, quindi, dhimmi, non degni di combattere per la patria comune, agli occhi del triumvirato costituito da Talaat Pacha, ministro degli Interni, Djemal Pacha, ministro della Marina e Enver Pacha, ministro della Guerra. Questi i capi del Comitato Unione e Progresso (CUP) i quali, messa da parte l’ala liberale dei Giovani Turchi, erano diventati i dittatori della Turchia in guerra, e furono i primi responsabili del genocidio degli armeni. Infatti, dopo gli arresti di Costantinopoli, a cominciare dalla primavera del 1915, in tutte le città e i villaggi armeni gli uomini validi non militarizzati furono invitati a presentarsi alle autorità locali che li incarcerarono e, in seguito, a piccoli gruppi li allontanarono e li soppressero in luoghi appartati. Sempre prendendo a pretesto la sicurezza sul fronte orientale, il 27 maggio fu promulgata la “legge temporanea di deporta-

zione”, seguita il 10 giugno da un’altra legge “temporanea”, quella di “espropriazione e confisca dei beni” degli armeni che, si assicurava, sarebbero stati restituiti al loro ritorno. Queste leggi si estesero a tutti i sei vilayet (distretti) a forte presenza armena, per lo più ben lontani dal fronte orientale. Cominciò così il tragico susseguirsi delle carovane di popolazione inerme - gli uomini validi erano già stati eliminati -, donne, bambini e vecchi verso mete lontane e imprecisate, verso sud, verso Aleppo e di lì, per maggior sicurezza (!) verso i deserti della Mesopotamia. Nel giro di un anno tutta la popolazione armena fu strappata alle proprie case, depauperata dei beni e offerta alle bande di curdi e dell’Organizzazione speciale (per lo più criminali liberati dalle carceri) che dovevano scortare i convogli. Si diede così il via a qualcosa mai prima visto nel mondo civilizzato. Nella marcia forzata i deportati subirono ogni genere di violenza: uccisioni,

stupri, bambini uccisi nel grembo materno, rapimenti, donne violate e gettate in burroni per rubarne gli ultimi poveri averi che indossavano. La morte di una nazione I modi che la ferocia umana sa inventare, quando si scatena sugli innocenti, non hanno bisogno di ulteriori precisazioni perché anche oggi si ripetono nel Vicino Oriente . Nel caso degli armeni, alla violenza umana si accompagnò il caldo, la sete, lo sfinimento, il tifo, il colera, i suicidi di madri disperate, l’Eufrate colorato del sangue di questi miserabili, fino a Der Zor, tomba finale di chi aveva resistito fino all’ultimo, per morire insepolto in quel deserto. Così “morì una nazione”, secondo le parole dell’ambasciatore americano a Costantinopoli Henry Morgentau. Dei due milioni e più di armeni che popolavano l’Impero ottomano, circa trecento mila riuscirono a rifugiarsi nell’Armenia russa, dove per le spaventose condizioni igieniche e le epidemie furono anch’essi decimati.

Pochissimi sopravvissuti riuscirono a riparare all'estero, ma un milione e mezzo di armeni, estirpati dalle proprie case e dalla propria terra, incontrò la morte.

Le testimonianze e il negazionismo

Nel 1946 un giurista polacco, Raphael Lemkin, studiando gli avvenimenti che accompagnarono la prima e la seconda guerra mondiale, creò la definizione di genocidio, che applicò ai massacri di massa subiti dagli armeni, considerato il primo genocidio conosciuto nella storia moderna. Il concetto di genocidio, riconosciuto dall'ONU nel 1948, comporta alcuni elementi, quali la precisa volontà di distruzione di un gruppo etnico, nazionale o religioso; la sistematicità dell’esecuzione e I’imprescrittibilità, in quanto delitto contro l’umanità. Infinite furono le testimonianze anche fotografiche, raccolte non solo

dai sopravvissuti, ma soprattutto da stranieri, consoli, ambasciatori, missionari presenti nelle varie regioni dell’Impero. Non c’è alcun dubbio che la responsabilità immediata è stata del governo dei Giovani Turchi, e di Mustafa Kemal che portò l’ultimo attacco agli armeni, rifugiatisi oltre il confine nell’Armenia russa. Forse è questo il motivo che ha impedito finora alla Turchia di riconoscere il genocidio: Kemal Atatürk è il fondatore della repubblica e padre della patria, e non si vuole intaccarne la memoria, riconoscendo la sua partecipazione al “grande Male”.

Avere il coraggio della riparazione

Un secolo è passato: la memoria non serve ad evitare che si rinnovi la ferocia degli uomini, ma è piuttosto la via paziente e ferma della richiesta di giustizia che devono percorrere gli armeni. Qualcosa timidamente forse si muove in Turchia: sono frange di intellettuali onesti che rivendicano il

diritto di ripensare la propria storia, soprattutto dopo l’assassinio di Hrant Dink, giornalista armeno e cittadino turco (uno delle poche decine di migliaia di armeni che ancora vivono sulla terra dei padri}, che perseguiva l’ideale della riconciliazione. Sono armeni islamizzati, bambini e bambine rapiti o raccolti orfani in famiglie turche e che hanno salvato la vita, ma perso la loro identità, e che oggi cominciano a manifestarsi e a rivelare le loro storie. Ma occorre uno sforzo eroico e sincero da parte del Governo turco che deve riconoscere questa pagina nera della storia e riparare all’ingiustizia commessa. La riparazione non sarà l’impossibile ricostruzione di un mondo perduto per sempre, anche se un atto simbolico porterebbe solo onore alla Turchia. Da un testo di Gabriella Uluhogian, sopravvissuta armena, diffuso dall’Associazione Viandanti di Parma


VI Pegaso

Pegaso VII

Venerdì 30 ottobre 2015

Argomento

A cent’anni da un genocidio ancora negato Il racconto del “Grande Male”, il massacro del popolo armeno Il 24 aprile 1915 a Costantinopoli viene dato I’avvio a un genocidio ancora oggi non riconosciuto da chi I’ha commesso e che suscita stupore, e talvolta fastidio, in chi, assolutamente ignaro, ne sente parlare. Nella notte del 24 aprile di cent’anni fa, nell’allora capitale dell’Impero ottomano, furono arrestate alcune centinaia di armeni in vista: giornalisti, scrittori, deputati, amici di quei Giovani Turchi con i quali, solo pochi anni prima, avevano inneggiato alla svolta democratica in Turchia. Molti di loro non diedero mai più notizia di sé: alla stazione di Haydar Pacha, affacciata sul Bosforo, furono caricati su un treno e avviati verso I’interno dell’Anatolia. Di qualcuno si seppe la fine atroce, di un altro si scoprirono dei versi nella tasca di una giacca abbandonata. Pochissimi ritornarono stravolti alle loro case ... Era solo I’inizio di quella pulizia etnica che eliminò gli armeni dalla terra che abitavano da millenni: la prima guerra mondiale, che portò lutti e rovine mai prima visti in Europa e nel mondo, ne favorì l’esecuzione.

Nei secoli invasi da popoli diversi

Gli armeni nel loro territorio, ponte o corridoio che unisce l’Asia all’Europa, la Mesopotamia al Mar Nero, avevano visto e subito invasioni e domini di popoli diversi: Bisanzio e la Persia, gli arabi, i turcomanni, i turchi selgiuchidi, gli ottomani. Nella parte orientale, quel-

la che impropriamente viene definita caucasica - in realtà è a sud del Caucaso - i russi avevano esteso il dominio fin dall’inizio del XIX secolo. Dopo la conquista di Costantinopoli (1453) da parte dei turchi ottomani, gli armeni avevano continuato a vivere nella terra avita ed erano divenuti linfa vivificante dell’Impero ottomano. Contadini laboriosi, che coltivavano campi e piantavano frutteti; artigiani industriosi, sarti, orefici, calzolai; intellettuali innovatori, primi nell'arte della stampa con libri, giornali, riviste; alti funzionari e architetti di corte: tutti avevano offerto generosamente la loro intelligenza e capacità ai conquistatori. Non illudiamoci. La pace e la convivenza perfetta verranno alla fine dei tempi, ma intese e tolleranze possono attuarsi al di là delle fedi religiose: cristiani (oltre gli armeni - primo popolo cristiano della storia - greci, assiri), musulmani, ebrei avevano convissuto più o meno pacificamente nel multietnico Impero ottomano per molti secoli. Ma le cose erano destinate a cambiare. Già sul finire del secolo XIX, il sultano “rosso” Abdul Hamid, perseguendo gli ideali del panturchismo che mirava a unire tutte le stirpi turche dal cuore dell' Asia alle sponde del Mediterraneo, aveva stroncato nel sangue le richieste di riforme avanzate dagli armeni: si ebbe così nel 1895-1896 la prima strage di massa che provocò trecento mila vittime. Pochi anni dopo, per motivi mai chiariti fino in fondo, altri trentamila armeni furono massacrati ad Adana e dintorni nel 1909.

Il “grande Male”

Furono quelli i prodromi della catastrofe, il “grande Male”, come gli armeni chiamano il loro genocidio. Allo scoppio della guerra nel 1914 la situazione, già tesa da decenni per il dispotismo, la corruzione, l’arbitrio che caratterizzavano specialmente le province orientali dell’ Impero ottomano, “grande malato d’Europa”, precipitò. Quando le forze dell’Intesa (Francia, Gran Bretagna, Russia e più tardi Italia) attaccarono la Turchia e la sua alleata Germania, anche gli armeni combattevano nelle armate imperiali; ben presto, però, accusati di connivenze con i compatrioti che nella parte orientale dell’Armenia erano sotto il dominio russo, furono disarmati. Cittadini di seconda classe, quindi, dhimmi, non degni di combattere per la patria comune, agli occhi del triumvirato costituito da Talaat Pacha, ministro degli Interni, Djemal Pacha, ministro della Marina e Enver Pacha, ministro della Guerra. Questi i capi del Comitato Unione e Progresso (CUP) i quali, messa da parte l’ala liberale dei Giovani Turchi, erano diventati i dittatori della Turchia in guerra, e furono i primi responsabili del genocidio degli armeni. Infatti, dopo gli arresti di Costantinopoli, a cominciare dalla primavera del 1915, in tutte le città e i villaggi armeni gli uomini validi non militarizzati furono invitati a presentarsi alle autorità locali che li incarcerarono e, in seguito, a piccoli gruppi li allontanarono e li soppressero in luoghi appartati. Sempre prendendo a pretesto la sicurezza sul fronte orientale, il 27 maggio fu promulgata la “legge temporanea di deporta-

zione”, seguita il 10 giugno da un’altra legge “temporanea”, quella di “espropriazione e confisca dei beni” degli armeni che, si assicurava, sarebbero stati restituiti al loro ritorno. Queste leggi si estesero a tutti i sei vilayet (distretti) a forte presenza armena, per lo più ben lontani dal fronte orientale. Cominciò così il tragico susseguirsi delle carovane di popolazione inerme - gli uomini validi erano già stati eliminati -, donne, bambini e vecchi verso mete lontane e imprecisate, verso sud, verso Aleppo e di lì, per maggior sicurezza (!) verso i deserti della Mesopotamia. Nel giro di un anno tutta la popolazione armena fu strappata alle proprie case, depauperata dei beni e offerta alle bande di curdi e dell’Organizzazione speciale (per lo più criminali liberati dalle carceri) che dovevano scortare i convogli. Si diede così il via a qualcosa mai prima visto nel mondo civilizzato. Nella marcia forzata i deportati subirono ogni genere di violenza: uccisioni,

stupri, bambini uccisi nel grembo materno, rapimenti, donne violate e gettate in burroni per rubarne gli ultimi poveri averi che indossavano. La morte di una nazione I modi che la ferocia umana sa inventare, quando si scatena sugli innocenti, non hanno bisogno di ulteriori precisazioni perché anche oggi si ripetono nel Vicino Oriente . Nel caso degli armeni, alla violenza umana si accompagnò il caldo, la sete, lo sfinimento, il tifo, il colera, i suicidi di madri disperate, l’Eufrate colorato del sangue di questi miserabili, fino a Der Zor, tomba finale di chi aveva resistito fino all’ultimo, per morire insepolto in quel deserto. Così “morì una nazione”, secondo le parole dell’ambasciatore americano a Costantinopoli Henry Morgentau. Dei due milioni e più di armeni che popolavano l’Impero ottomano, circa trecento mila riuscirono a rifugiarsi nell’Armenia russa, dove per le spaventose condizioni igieniche e le epidemie furono anch’essi decimati.

Pochissimi sopravvissuti riuscirono a riparare all'estero, ma un milione e mezzo di armeni, estirpati dalle proprie case e dalla propria terra, incontrò la morte.

Le testimonianze e il negazionismo

Nel 1946 un giurista polacco, Raphael Lemkin, studiando gli avvenimenti che accompagnarono la prima e la seconda guerra mondiale, creò la definizione di genocidio, che applicò ai massacri di massa subiti dagli armeni, considerato il primo genocidio conosciuto nella storia moderna. Il concetto di genocidio, riconosciuto dall'ONU nel 1948, comporta alcuni elementi, quali la precisa volontà di distruzione di un gruppo etnico, nazionale o religioso; la sistematicità dell’esecuzione e I’imprescrittibilità, in quanto delitto contro l’umanità. Infinite furono le testimonianze anche fotografiche, raccolte non solo

dai sopravvissuti, ma soprattutto da stranieri, consoli, ambasciatori, missionari presenti nelle varie regioni dell’Impero. Non c’è alcun dubbio che la responsabilità immediata è stata del governo dei Giovani Turchi, e di Mustafa Kemal che portò l’ultimo attacco agli armeni, rifugiatisi oltre il confine nell’Armenia russa. Forse è questo il motivo che ha impedito finora alla Turchia di riconoscere il genocidio: Kemal Atatürk è il fondatore della repubblica e padre della patria, e non si vuole intaccarne la memoria, riconoscendo la sua partecipazione al “grande Male”.

Avere il coraggio della riparazione

Un secolo è passato: la memoria non serve ad evitare che si rinnovi la ferocia degli uomini, ma è piuttosto la via paziente e ferma della richiesta di giustizia che devono percorrere gli armeni. Qualcosa timidamente forse si muove in Turchia: sono frange di intellettuali onesti che rivendicano il

diritto di ripensare la propria storia, soprattutto dopo l’assassinio di Hrant Dink, giornalista armeno e cittadino turco (uno delle poche decine di migliaia di armeni che ancora vivono sulla terra dei padri}, che perseguiva l’ideale della riconciliazione. Sono armeni islamizzati, bambini e bambine rapiti o raccolti orfani in famiglie turche e che hanno salvato la vita, ma perso la loro identità, e che oggi cominciano a manifestarsi e a rivelare le loro storie. Ma occorre uno sforzo eroico e sincero da parte del Governo turco che deve riconoscere questa pagina nera della storia e riparare all’ingiustizia commessa. La riparazione non sarà l’impossibile ricostruzione di un mondo perduto per sempre, anche se un atto simbolico porterebbe solo onore alla Turchia. Da un testo di Gabriella Uluhogian, sopravvissuta armena, diffuso dall’Associazione Viandanti di Parma


VIII Pegaso

Venerdì 30 ottobre 2015

Appello

Appello delle Chiese tedesche ad accogliere i rifugiati È un obbligo che vale anche per gli svizzeri

“O Dio, come é preziosa la tua benevolenza! Perciò i figli degli uomini cercano rifugio all’ombra delle tue ali” (Salmo 36,7)

• Dio ama tutte le sue creature e vuole dare loro cibo, mezzi di sostentamento e una dimora su questa terra. Vediamo con preoccupazione come milioni di persone siano privati di questi buoni doni di Dio. Essi sono oppressi dalla fame, dalla persecuzione e dalla violenza. Molti di loro sono in fuga. Così essi sostano anche alle porte dell’Europa e della Germania. È un obbligo dal punto di vista umano, e per noi si tratta della nostra responsabilità di cristiani accoglierli e consentire loro di godere di ciò che Dio ha predisposto per tutti gli esseri umani.

• La persona umana è al centro di tutti gli sforzi. Molte persone in tutto il mondo sono in fuga. La grande sfida è di rendere giustizia a ciascun individuo. Nel loro stato di necessità i rifugiati mettono in pericolo la loro vita. È un dovere umanitario fare di tutto per salvare le persone dall’emergenza in mare e da altri pericoli. Bande disumane di trafficanti e strutture mafiose dentro e fuori l’Europa devono essere contrastate dalle forze di polizia. Il modo più efficace per ridurre i pericoli dei rifugiati in fuga è quello di trovare vie legali di accesso all’Europa. Richiediamo dunque corridoi umanitari legali per coloro che cercano protezione e auspichiamo un confronto su una legge per l’immigrazione che apra a nuove opportunità di immigrazione per le persone che cercano lavoro e una vita migliore.

• La nostra società affronta una grande sfida ma anche le nostre forze sono ingenti. Siamo grati di tutto cuore per le svariate forme nelle quali si è pronti a fornire aiuto. Il nostro grazie di cuore va a tutte quelle persone - volontari o professionisti, delle Chiese, della società civile, vita pubblica e politica - che contribuiscono a creare una cultura dell'accoglienza e che con i loro sforzi indefessi e senza preconcetti aiutano a far sì che i rifugiati vengano accolti e alloggiati prontamente e umanamente. Ci opponiamo fermamente a tutte le forme di xenofobia, odio o razzismo e a tutto ciò che contribuisce ad approcci disumani o a rendere questi atteggiamenti socialmente accettabili. Le preoccupazioni e l’ansia della gente riguardo alla gravosità del compito di accogliere cosî tanti rifugiati devono essere prese sul serio, ma non devono essere usate impropriamente per creare un’atmosfera irrispettosa e ostile.

• Come Chiese contribuiamo a disegnare forme di convivenza nella società. Perciò ci battiamo a favore di una cultura attiva dell’accoglienza e dell’integrazione; questo dovrebbe diventare un tema e un’attività centrali per le nostre comunità e organizzazioni ecclesiastiche.

• Con preoccupazione constatiamo le cause che soggiacciono ai movimenti migratori: cambiamenti climatici, guerre, persecuzione, crollo di poteri statali, povertà estrema. La nostra società è spesso profondamente coinvolta in queste cause che favoriscono le migrazioni attraverso relazioni commerciali mondiali, fornitura di armi e in particolare attraverso

uno stile di vita che sta esaurendo le risorse del pianeta. È venuto il momento di ravvedersi da tali comportamenti ingiusti.

• Attraverso la nostra storia, noi in Germania siamo particolarmente consapevoli del dono che rappresenta il ricevere assistenza nel momento del bisogno e il trovare le porte aperte. Senza l’assistenza che ci è stata offerta in passato, oggi non saremmo in grado di aiutare altri con le risorse di cui ora disponiamo. Come leader ecclesiastici vogliamo sostenere l’Europa in un’azione comune e nell’adempimento dei suoi obblighi umani-

tari su base comune. Consapevoli che l’umanità trova rifugio all’ombra delle ali di Dio, portiamo i bisogni di tutte le persone di fronte a Dio e preghiamo per ottenere la forza per affrontare le sfide che ci troviamo dinanzi. Con questo messaggio i leader delle venti Chiese regionali protestanti della Germania, unite nella Chiesa evangelica in Germania (Ekd), si sono rivolti all’opinione pubblica tedesca ed europea. Il testo è stato diffuso da Bruxelles il 15 settembre. Traduzione di Sabina Baral (da RIFORMA, Torino, 25 settembre 2015).


Pegaso IX

Venerdì 30 ottobre 2015

Quando i migranti economici erano gli europei In un secolo lasciarono il Vecchio Continente in 55 milioni

Da qualche decennio l’Europa è diventata una delle prime destinazioni migratorie del mondo. Una sfida difficile da accettare, come lo dimostra la crisi attuale ai porti del Mediterraneo. Quello che finora il Vecchio Continente era piuttosto abituato era vedere i suoi abitanti emigrare. In un secolo tra il 1820 e il 1920, più di 55 milioni di europei hanno lasciato il continente. Circa due terzi (33 milioni) hanno raggiunto gli Stati Uniti, 4,5 milioni hanno scelto il Canada come terra d’asilo, il resto si è ripartito essenzialmente tra l’America latina, l’Oceania e l’Africa. L’emigrazione è in seguito diminuita ma gli abitanti del sud dell’Europa e i molti ebrei perseguitati hanno continuato a emigrare fino all’inizio degli anni 1950. Chi erano questi migranti europei e perché hanno partecipato in modo tale a migrazione di massa? Chi erano questi migranti che abbandonavano l’Europa? Sui 55 milioni d’europei che hanno lasciato l’Europa in un secolo secondo una stima generalmente accettata dagli storici, 12 milioni erano inglesi e 11 milioni irlandesi. I britannici sono i primi ad emigrare a partire dagli anni 1830 chiamati dallo specchietto delle colonie della Corona. Gli irlandesi li seguono rapidamente, fuggendo la fame che colpisce il loro paese tra il 1845 e il 1852, facendo un milione di morti. Si stabiliscono nelle grandi città americane creando interi quartieri come racconta lo storico Philippe Rygl nella sua opera “Le temps des migrations blanches”. I tedeschi s’imbarcarono pure per gli Stati Uniti, privilegiando il Missouri, mentre gli svedesi preferivano il Minnesota. Polacchi e italiani li raggiunsero numerosi. Alla fine del secolo quartieri italiani nacquero a San Francisco e altrove. Gli italiani emigrano anche verso l’Argentina, il Brasile e l’Uruguay, dove la manodopera mancava perché era stata abolita la schiavitù. Gli svizzeri non sono da meno, provenendo principalmente dai

cantoni poveri, come Friburgo, il Vallese o il Ticino. Nel 1890 circa la metà dei 9,2 milioni di stranieri che vivono negli Stati Uniti sono venuti dall’Europa del nord, compresi il Belgio e la Francia, un quarto dalla Germania e dall’Europa dell’Est e 200’000 dal sud dell’Europa. Il saldo dei migranti proviene soprattutto dalla Cina e dal Giappone. Perché tutti questi europei emigravano? L’emigrazione degli Europei del XIX secolo risponde in parte a motivi economici, la miseria avendo spinto migliaia di italiani, di polacchi, di russi o d’irlandesi a fuggire verso l’Eldorado americano. Ma anche altre ragioni hanno spinto i migranti a prendere il bastone del pellegrino. A cominciare dalle politiche d’incitamento dei paesi d’accoglienza. Fino agli anni 1920 per esempio gli Stati Uniti cercavano di popolare i loro vasti territori facendo intravvedere il “latte e il miele della loro terra promessa”. Stessa politica nel vasto impero britannico: il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda avevano bisogno di numerosi coloni per il loro funzionamento. I vasti territori a disposizione permettevano ugualmente di sbarazzarsi dei cittadini indesiderati. Certi possedimenti del Regno Unito erano considerati come dei depositi di disoccupati, delinquenti, prostitute, esclusi di ogni ordine, come l’Australia e la Guyana, spiega la politologa e sociologa Catherine Wihtol de Wenden nella “La globalisation humaine”. L’emigrazione può essere l’occasione di fuggire alle persecuzioni politiche o religiose. Numerosi ebrei sono così fuggiti ai Podgrom della Russia zarista. Scelte personali incoraggiano pure a partire: motivi familiari, sogni d’avventura, voglia di fare fortuna, ricerca di altre culture, volontà di raggiungere movimenti intellettuali, motivazioni artistiche. Da notare infine che l’emigrazione è stata anche una moda: numerosi migranti sono stati vittima della pubblicità delle compagnie marittime che proponevano la tra-

versata a tariffe attrattive come la pubblicità di una compagnia britannica che trasportava in Australia per sole 37 lire all’inizio del XX secolo. Le donne rappresentavano il 40% delle entrare negli Stati Uniti prima del 1914. Esse diventano persino maggioranza tra le due guerre. Molte tra di loro accompagnavano i mariti. Ma alcune partivano sole, accettando lavori domestici nelle famiglie agiate o s’impegnavano nell’industria tessile. Per certe donne simile viaggio era l’occasione di emanciparsi, oppure andavano a studiare all’estero essendo ancora escluse dalle università del loro paese. La migrazione non è un fenomeno definitivo. Per gli Stati Uniti le stime del tasso di ritorno per nazionalità durante gli anni 1908 - 1910 dimostra che 800000 stranieri ripresero la via dell’Europa. Se gli ebrei della Russia non ritornano, temendo per la loro vita, gli italiani guadagnano sovente la penisola e la metà dei britannici la loro isola. Spostamenti forzati massivi in Europa Il commissario europeo all’immigrazione Dimitris Avramopolous affermava lo scorso agosto che l’Eu-

ropa affronta la peggiore crisi di rifugiati dopo la Seconda guerra Mondiale. Per quanto sia drammatica la crisi attuale, essa non è paragonabile nella sua ampiezza agli spostamenti forzati massivi che sono stati imposti nel 1945 dalle potenze alleate dopo le conferenze di Yalta e Potsdam. In nome della pace, Harry Truman (USA), Wiston Churchill (GB) e Joseph Stalin (URSS) hanno ridisegnato le frontiere dal mare Baltico al mare Nero. Questa spartizione ha gettato sulle strade più di 15 milioni di persone, uomini, donne e bambini, spostati con lo scopo di costituire degli Stati etnicamente omogenei. Milioni di tedeschi della Prussia orientale, Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria sono così stati spinti di forza verso la Germania, mentre che centinaia di migliaia di ucraini e di polacchi hanno dovuto scambiarsi le abitazioni. Oggi un quarto della popolazione tedesca è costituita dagli espulsi di allora e dai loro discendenti. Da LE COURRIER, Ginevra, 25 settembre 2015, (nostra traduzione)


X

Pegaso

Venerdì 30 ottobre 2015

Esposizione universale

Cibo e acqua per tutti

Expo 2015 lascerà in eredità la “Carta di Milano”, un importante documento sull’alimentazione e la nutrizione L’eredità immateriale che Expo 2015 lascerà sul campo è la “Carta di Milano”. Il più grande evento al mondo sui temi dell’alimentazione e nutrizione ha prodotto un documento, consegnato a metà ottobre a Ban Kì-moon, segretario delle Nazioni Unite. Il testo (www.carta.milano.it), che tutti possono sottoscrivere, è frutto di un’intensa elaborazione collettiva (42 tavoli di discussione prevalentemente su temi scientifici, coordinati dal filosofo Salvatore Veca) tesa a salvaguardare e affermare ciò che oggi sembra irraggiungibile: il diritto al cibo per tutti. La “Carta” reclama la responsabilità diretta delle presenti generazioni nelle loro scelte quotidiane che possano garantire la tutela del diritto al cibo anche per chi verrà dopo di noi. Quella dell’equo accesso al cibo e all’acqua per tutti è questione politica immensa e complessa. La vastità del problema spinge alla rassegnazione. Ma il pregio di questo documento è di tentare di contrastare, con argomenti forti, quel sentimento d’impotenza che ti fa credere come, di fatto, sia impossibile collegare la sostenibilità ambientale e l'equità distributiva (il 30% del cibo prodotto viene sprecato). La “Carta” invita a unire le forze, nazionali e internazionali, per affrontare la difficile sfida del diritto al cibo. Che per noi occidentali è specchio del nostro vivere, per altri 800 milioni di persone è specchio del loro morire. Il maledetto equilibrio tra due miliardi di persone malnutrite e due miliardi di sovralimentati condanna 160 milioni di bambini alla malnutrizione e alla crescita ritardata. La “Carta di Milano” non è un documento religioso. Non c’è nessun accenno alle fedi viventi o all’impegno dei cristiani nelle loro battaglie per il cibo e l’acqua per tutti. Nella vasta consultazione che condusse successivamente alla stesura del documento si discusse dei modelli economici e produttivi capaci di garantire uno sviluppo sostenibile. Si ragionò sui diversi tipi di agricoltura che nei loro cicli produttivi

non distruggano la biodiversità e via dicendo. Insomma La “Carta”è un documento laico proprio nel senso che diamo (purtroppo) a questo termine. I laici sarebbero i non credenti, quelli che quando scrivono e parlano lasciano cadere ogni riferimento religioso perché è questione di esclusivo appannaggio delle organizzazioni religiose. In realtà la “Carta” dice le cose che da anni le Chiese dicono. Penso qui all’assemblea del Consiglio ecumenico delle chiese (Cee) di Vancouver, nel 1983, quando fu (profeticamente) avviato il processo conciliare di “Pace, giustizia e salvaguardia del creato”. Temi che rimbalzeranno con forza nelle successive assemblee ecumeniche europee di Basilea (1989), Graz (1997), Sibiu (2007). Ma penso anche alla Charta Oecumenica (Strasburgo 2001) che, curiosamente, presenta un im-

pianto simile alla Carta di Milano nel precisare ciò in cui “crediamo” per poi giungere al “noi ci impegniamo”. L’invito all’impegno non è rivolto solo ai singoli ma alla società civile, alle imprese, alle realtà istituzionali. Un fronte comune contro la denutrizione, lo spreco, garantendo la gestione sostenibile dei processi produttivi. In questa linea ecumenica ben s’inserisce anche la recente lettera enciclica di papa Francesco Laudato si' che riprende e rilancia alla grande il processo conciliare degli anni '80 nato in seno al Cee; Roma fa più audience di Ginevra, ma l’importante è che il messaggio arrivi a ogni latitudine. A Milano, in settembre, i rappresentanti del Forum delle religioni e lo stesso Consiglio delle Chiese cristiane hanno pubblicamente sottoscritto la Carta di Milano con una cerimonia che prevedeva anche la benedizione del cibo. Intorno a quel

cibo portato sui tavoli da giovani di paesi diversi e lontani, i rappresentanti delle principali religioni hanno testimoniato della solidarietà, della condivisione che nasce intorno al cibo così ben descritta, con accenti diversi, nei sacri testi. Alla fine della cerimonia, mi sono accorto che avevamo detto tutti, più o meno, le stesse cose. Sono rimasto impressionato dalla potenza del cibo materiale e spirituale anche sul terreno interreligioso. La sfida che abbiamo sottoscritto in questo mondo in costante crescita è di nutrirlo senza danneggiare l’ambiente e tutelando le risorse per le generazioni future. Contribuendo, anche come religioni, a costruire l’unità dell’umanità intorno alle drammatiche questioni di vita o di morte che ci stanno di fronte. Giuseppe Platone, da RIFORMA, Torino, 11 settembre 2015


Pegaso XI

Venerdì 30 ottobre 2015

Riviste

Rivista delle riviste AGGIORNAMENTI SOCIALI, mensile di ispirazione cristiana, redatto da un gruppo di gesuiti e di laici, Piazza S. Fedele 4, 20121 Milano. Il fascicolo di ottobre si apre con un ampio studio del direttore padre Costa sulla crisi dei rifugiati, per chiedere di prospettare, al di là dell’emergenza, soluzioni di lungo periodo. Articoli sono poi dedicati alla conferenza sul clima e alla “buona scuola” appena votata in Italia. CARTA BIANCA, Periodico di cooperazione solidale, Missione BetlemmeInter-Agire, Piazza Governo 4, 6500 Bellinzona. Il fascicolo di settembre è dedicato ai movimenti sociali dal basso (simpatici a papa Francesco ) in lotta contro un sistema economico ed ecologico ingiusto. CHOISIR, rivista culturale dei gesuiti, rue Jacques-Dalphin 18, 1227 Carouge - Ginevra. Il fascicolo di ottobre commenta l’enciclica Laudato si’ come una “proposta di conversione” ed uno stimolo agli ONG cristiani; viene presentata la Conferenza di Parigi sul clima (29 novembre -13 dicembre), e la politica vaticana che ha riconosciuto lo Stato palestinese. IL DIALOGO, bimestrale d’informazione e di opinione delle ACLI Svizzere, Via Balestra 19/21, 6900 Lugano. Il numero di ottobre propone il tema di “ridurre le diseguaglianze per garantire il futuro”, mentre viene ricordata la tragedia di Mattmark (1965, 86 morti); Meinrado Robbiani chiede “Una svolta etica per uno sviluppo autentico”. DIALOGHI di riflessione cristiana, Tipografia Offset Stazione S.A., Locarno. Due i temi principali del fascicolo 238 di ottobre: il tema del mutamento climatico , oggetto della prossima Conferenza di Parigi, e la visita di papa Francesco ai Valdesi, con la pubblicazione dei discorsi pronunciati. Il numero di apre con un “Benvenuti” alla folla dei migranti, ricordando quando gli svizzeri emigravano e quando invece cercavano “braccia” per il nostro sviluppo. GLOBAL+, quadrimestrale della Comunità di lavoro Alliancesud, Montbijoustrasse 31, c.p. 6735, 3001 Berna. Il numero 3-autunno 2015 presenta la nuova agenda per il mondo 2015 - 2030 (Obiettivi di sviluppo sostenibile); viene criticata la decisione del Consiglio federale di ridurre nel 2016 di 85 milioni l’aiuto allo sviluppo. NONVIOLENZA, trimestrale di informazione su pace, nonviolenza, diritti umani e servizio civile, CP 1303 Bellinzona. Dopo i massimi degli anni 2009 e 2010 (oltre 6700 ammissioni al servizio civile), i numeri si sono stabilizzati, con un costante aumento (nel 2014 5757 ammissioni). La rivista informa sulle problematiche e le esperienze fatte. Le pagine centrali propongono il famoso discorso “Ho un sogno” di Martin Luther King, tenuto alla marcia di Washington, il 28 agosto 1963. Viene presentata la corte europea dei diritti dell’uomo, ultima istanza per chiedere giustizia: a fine 2013 la Corte aveva emesso circa 17’000 sentenze e 99’900 risorsi attendevano di essere decisi, tra cui 445 provenienti dalla Svizzera. PLANETE SOLIDAIRE, pubblicazione di Caritas svizzera, Loewenstrasse3, C.P., 6002 Lucerna. La rivista di Caritas (settembre 2015) informa che il Premio Caritas 2015 è stato attribuito al giornalista italiano Gabriele del Grande, 33 anni, che ha documentato la tragedia dei migranti, nel suo blog “Fortezza Europa”. I 200’000 rifugiati annui (quest’anno saranno di più) non dovrebbero spaventare gli oltre 500 milioni di Europei (meno della metà di uno per mille!). RIVISTA DELLA DIOCESI DI LUGANO, mensile, Curia vescovile, 6901 Lugano. Il numero di ottobre reca un testo del vescovo Lazzeri sui libri corali della Biblioteca di Lugano; nuovo coordinatore è Massimo Gaia, parroco ad Ascona, che propone “qualche ritocco per una migliore fruibilità”.

SPIGHE, mensile dell’Azione cattolica ticinese, Casella postale 5286, 6901 Lugano. Il mensile si rinnova e si arricchisce di argomenti: all’attualità dell’immigrazione vengono dedicate una intervista al consigliere di Stato Paolo Beltraminelli e una al vescovo emerito Giacomo Grampa, mentre Davide De Lorenzi presenta cenni storici e cifre sull’immigrazione. Diverse le proposte educative e ricco il calendario dei prossimi appuntamenti. VOCE EVANGELICA, mensile della Conferenza delle Chiese evangeliche di lingua italiana in Svizzera, via Landriani 10, 6900 Lugano. Il numero di ottobre tratta i temi dell’accoglienza in Germania dei profughi, della ospitalità eucaristica tra cristiani e dei diritti umani in Cisgiordania, con la testimonianza di una ticinese.

Segnalazioni “Il lavoro dell’uomo Fatica e nobiltà, sfruttamento e partecipazione nella storia dell'occidente” Facoltà di Teologia di Lugano, Aula multiuso Lunedì, 9 novembre 2015, dalle 17 alle 19 Dal conflitto alla partecipazione: natura, fini e linee di evoluzione delle rappresentanze dei lavoratori . Dalle articolate differenze e dalle contraddizioni proprie degli assetti capitalistici deriva la storia secolare della regolazione dei conflitti economici e sociali e del rapporto tra soggetti intermedi e sistema democratico. Relatore: Prof Aldo Corera Lunedì, 4 dicembre 2015 La “costruzione” del benessere: attori sociali e Stato nella formazione dei sistemi di welfare. Adottando come chiave di lettura il “benessere” della persona più che il welfare state, è possibile identificare le conquiste e le criticità che hanno accompagnato l’evoluzione delle condizioni e degli stili di vita nella nostra società. Relatore: Prof. Gianpiero Fumi Lunedì, 11 gennaio 2016 Riconoscere il tempo, riconoscere l'uomo: il percorso storico di un'identità smarrita. La rilettura storica dei processi economico-sociali intercorsi tra le età antiche e la nostra contemporaneità consente di identificare significative componenti dell’attuale crisi dei valori sostanziali per la vita dell'uomo, tra cui il lavoro e il senso del lavoro. Relatore: Prof. Aldo Carera

Conferenze

promosse

dalla

Organizzazione

Cristiano Sociale Ticinese, introduce il prof. Markus Krienke Le edizioni passate dell’inserto di cultura politica e politica culturale Pegaso sono disponibili online sul sito internet dedicato alle riviste ticinesi

www.riviste-ticinesi.ch


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