Musica

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PROGETTO EDITORIALE:

Marco Mauro PROGETTO GRAFICO:

Josephine Mauro EDITING TESTI:

Giupps REDAZIONE:

Elisabeth Filippo Daniele H Alessio Massimiliano Daniele Giuseppe Roberta Alessio



sommario EDITORIALE: 07

PARLARE DI MUSICA È COME BALLARE DI ARCHITETTURA

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RECENSIONI: 08

C’È QUESTA VOLTA, MA NON CI SARÀ ANCORA.

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PRONTO A CORRERE

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CONFESSIONES

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TWO YOUNG SOULS IN MISERY MUSICA :

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IL SALERNITANO E LA MUSICA: DALLA TENERA ETÀ FINO ALLA VECCHIAIA.

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LA CRISI ATTUALE DELLA CANZONE NAPOLETANA, UNA DELLE MADRI DELLA CANZONE OCCIDENTALE.

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08

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sommario 30

JAMES ARTHUR

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MARK TREMONTI: LA PERFEZIONE SOTTO LE SPOGLIE DI UN CHITARRISTA.

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RUBRICHE : 35

HIP-HOP NUOVO FENOMENO DI MASSA

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MODA DI ELY

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INTERVISTA: UN VASO… DI PANDORA

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WRITERS

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QUELLI CHE NON VENGONO DIMENTICATI

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HUMOR: 48

COLLABORAZIONE CON KAMOSCANS

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VIGNETTE MEME

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REBUS

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editoriale

“PARLARE DI MUSICA È COME BALLARE DI ARCHITETTURA” FRANK ZAPPA

Mi è venuta in mente questa citazione quando è stato scelto il tema di questo numero. Ma perché il maestro di “Tengo ‘na minchia tanta” ci ammonisce sulla incompatibilità dei linguaggi? La parola non fa parte degli strumenti che possono concorrere alla composizione musicale? Aiutarla, promuoverla, contagiarla? Una recensione brillante scritta da una persona competente non vale la pena di essere letta? Il fatto è che stiamo parlando di un personaggio dalla preparazione maniacale, condizione che spesso porta a snobismo e spocchia. Come quando nell’ ‘82 in un concerto a Pistoia fece installare un maxischermo che proiettava una partita di calcio. Spiegò questa sua mossa dicendo che chi non capiva la musica poteva almeno guardare la partita. Ce l’aveva con il mercato musicale, aveva in antipatia i critici ignoranti e il pubblico ovino; ecco perché trovava improprio parlare di musica: ormai non aveva più senso per lui. Ma non per noi, evidentemente. Si può parlare di musica, delle sensazioni che trasmette, delle influenze che ha prodotto e che ha subìto rispetto alla società. Per restare nella sua citazione secondo noi si può ballare di musica, musicare architettura, architettare la parola. Pure ballare di architettura secondo me. Se penso alla plasticità dei balletti che ci fa vedere Tom Yorke, nel mio cervello nascono linee, tracciati, curve ed altre sensazioni proprie dell’architettura. Sulla capacità dei diversi linguaggi di esprimere qualcosa di valido in campi non propri mi viene in mente anche il lavoro che ha fatto Michel Gagnè per rendere visivamente e acusticamente le sensazioni olfattive e gustative in Ratatouille (quando i roditori assaggiano). Chissà se l’eclettico Zappa nella tranquillità inoperosa dell’aldilà ha riconsiderato la validità del suo parallelismo dopo aver visto quanto fatto dalla Pixar.


C’È QUESTA VOLTA, MA NON CI SARÀ ANCORA. Max alias Massimiliano: C’è perché c’è, fa quel che fa, è quel che fa. Talvolta riesce ad essere ciò che vuole. Talvolta è quel che è: Max, ma per pochi. Instabile, maneggiare con cura. Tenere fuori dalla portata dei bambini. Il proAutore: Max

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dotto è composto da parti tossiche pericolose. Evitare il contatto con occhi e mucose, qualora questo dovesse avvenire contattare un medico. Non è un prodotto medicinale.


Le recensioni cinematografiche stancano il lettore. Me ne rendo conto, sapete? Per chi ha avuto modo di osservare l’opera in discussione, una recensione può risultare seccante per tanti motivi. Ad esempio quando ci si trova su posizioni diverse dal recensore. Se l’opera ha superato il vaglio dei gusti personali meritandosi la tanto onorata medaglia dell’approvazione, e il recensore la critica per un qualsivoglia motivo, allora partono le critiche e il recensore oscilla nella scala di giudizi che vanno dall’idiota al limitato. Se, viceversa, un film ottiene una recensione positiva, film che per pochezza ontocostitutiva del prodotto finale o per banalità o per qualsiasi altro motivo si è meritato il dispregio del lettore, in quel caso il recensore viene inserito in quella scala di valori che vede sempre “idiota” come termine di partenza e si protrae fino al “venduto”. Se poi l’opera non è stata visionata dal lettore allora, vuoi per disinteresse o vuoi per evitare il tanto paventato effetto spoiler, quella recensione assurge al livello letterario di “carta utilizzabile per foderare la gabbietta del canarino”. Pur salvandomi da quest’ultima realtà, solo perché privi di versione cartacea, sono ben conscio del fatto che, qualora nel secondo discrimine, questa recensione sarebbe inutile. Ma, ho pensato, i film raccontano storie, storie che piacciono o non piacciono, realizzate a regola d’arte o ad insulto dell’arte, prodotte, pubblicizzate, viste e riviste, discusse, analizzate, demolite… ma tutto parte dalla storia, ed io oggi mi pregio di po-

tervi raccontare una storia. Una storia che inizia con tutti i crismi, sapete? Una di quelle belle storie vere che contengono tutto ciò che serve per raccontare una storia. Con un incipit dei più classici: C’era una volta una guerra. La guerra infuriava e mieteva vittime in quantità incalcolabili macchiandosi d’efferatezze ed empietà che descriverle sarebbe solo una tortura. E c’erano due fratellini, poveri ma estremamente patriottici che volevano aiutare la loro nazione a vincere la guerra. Perché, si sa, una guerra non si vince solo tenendola in equilibrio sulla punta di una spada, o per essere coerente coi tempi, sulla baionetta montata su un fucile d’assalto. E questi due fratelli erano due maghi, due maghi fantasiosi ed astuti, che avevano bisogno di evocare un eroe che li aiutasse a vincere. Così presero un calderone bianco intonso e fecero cuocere per giorni inchiostro nero, il più nero che esista, grafite, china, fantasia, sogni, irrealtà e illusione, e non sapevano nemmeno loro cosa ne sarebbe venuto fuori. Alla fine qualcosa spuntò: un topolino con una voce buffissima. E tutti risero, lo trovarono inutile. La gente si domandava: cosa può fare questo topo per farci vincere la guerra? Disturbare le onde radio dei nemici con quelle enormi orecchie nere? Ma i fratellini non demordevano, credevano nel topolino e così lo assecondarono dandogli fiducia.

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Raccontarono gesta, imprese, che denigravano il nemico e prospettavano la vittoria. Sapete, il topo non era un gran combattente, ma aveva un enorme potere: l’immaginazione. Rinfrancava i cuori e alleggeriva le coscienze. E la guerra finì grazie a due enormi funghi. Il topo c’entrava poco o nulla con questo, ma con le sue enormi orecchie si dispose davanti a questi prodigi tecniconaturali proteggendo l’immagine, almeno in un primissimo periodo, della nazione coltivatrice. Saranno state le radiazioni, o semplicemente l’esposizione costante di questo topo gioviale al potere teratogenico dell’avidità umana, questo è argomento di discussione tra i più saggi, ma di fatto il topo continuò a crescere. E assorbiva, e cresceva, e cresceva e assorbiva finché i suoi occhi non si posarono su due astronavi che, come pirotecniche comete, guerreggiavano nello spazio.

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Ma queste due astronavi erano vecchie, e solo le scie delle loro code facevano sognare… gli astri erano lontani. Non nello spazio, ma nel tempo. Perduti in un’epoca poco evoluta, priva d’effetti speciali, dove Indiana Jones non cercava ancora manufatti e l’immaginazione era l’effetto speciale più potente di tutti. E il topo le inghiottì, o magari le comprò, anche questo è argomento dei Libri Sapienziali. Quel che è certo è che il topo esiste ancora, e se mi è concesso, è l’unico a possedere, in Francia, ristoranti che offrono cibo commestibile, ma questa è un’altra storia… Il potere dell’immaginazione, sapete, è un potere strano. Parla alle coscienze delle persone, le irretisce, le lascia “libere” di sognare realtà altre, ma è mutevole e cangiante come sono le persone. Una volta irretite, poi, è lui ad avere il potere di far cambiare loro, ma questa parte della storia preferisco glissarla, è una storia allegra questa, o così dovrebbe essere. Il topo reclutò dei bimbetti, non sperduti, ma con genitori frustrati ed ambizioni. Questi genitori furono chiamati coach, o si rivolsero a dei coach, per insegnare ai loro figli le arti del canto paranoico e del ballo epilettico. E questi bimbi crebbero in salute e hipsteria, imberbi fino ai trent’anni e vestiti con colori pastello, jeans risvoltati come per guadare un fiume e capelli progettati da Fuksas. E iniziarono a cantare e ballare, palleggiando palloni da basket e


baciandosi castamente a fior di labbra per non scandalizzare i più giovani, innamorandosi e creando qui pro quo assurdi, divertendo ed annoiando. Certo, alcune di queste bimbe fuggirono all’incantesimo spogliandosi o rasandosi a zero, ma il Topo le guardava con benevolo disinteresse, come un padre che osserva distaccato i capricci di un bimbo che non è più suo figlio. Intanto i buffoni ballavano, e cantavano. Cantavano e ballavano finché non si cominciò a definirli attori. E tante storie sono state inventate su, da e per questi cantanti\ ballerini\attori androgini, ultima tra tutte “Radio Rebel”. Banalità insulse, lieto fine e colori rassicuranti. Come costruire con la lego, ma senza sforzi. Tutto si incastra alla perfezione tranne gli organi impollinatori dei buffoni, questo mai! Questi ballerini hanno tanti poteri: il bell’aspetto, che permette loro d’apparire magicamente accanto a scintillanti scritte che assomigliano a “Star”, all’improvviso, su riviste per teenager, e soprattutto la musica. Perché, dovete sapere, la musica è un incantesimo potente! Un giro d’accordi, una dissonanza sfumata ed ecco instillato nella mente di chiunque un sentimento particolare, un’emozione. E così celluloide insulsa diventa improvvisamente famosa. Come quando alla fine di Amici, amanti, e… fanno partire, coi titoli di coda Smells like teen spirits.

Non ha alcuna attinenza col film, ma conferisce, a posteriori, a tutto il girato un senso di familiarità e trasgressività al contempo. Subdola comunicazione subliminale. La musica è un incantesimo potente. Si fa ricordare. Una melodia si impianta nella mente e lì vi resta, depositata e melensa, fino a germogliare a fior di labbra mentre ci si fa una doccia, o si guida o si ha il cervello impegnato in altro e si ha voglia di “rumore” per riempire l’assordante silenzio intorno a noi. È la musica che vende il merchandising, promuove banalità e riempie i più influenzabili di costosi e pacchiani orpelli. La musica è uno strumento potente, usata a dovere non lascia scampo. Ma questa non è una storia triste. Ha un lieto fine. Shine on you crazy diamond fu composta nel 1974. Dopo 39 anni se ne parla ancora. Fortunatamente i Jonas Brothers, emblema d’una manica di sciroccati di tal fatta, mai potranno vantare un risultato simile. Saranno sostituiti da elementi più giovani. Ma l’età ci renderà loro immuni.

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Autore: Mauro Mauro Aka Various (13 febbraio1987) è un Mauro Aka Various (13 febbraio1987) è un informatico valtellinese, attualinformatico valtellinese, attualmente codirettomente codirettore delProva OUReports. Sognatore incazzato. Prova un amore re del OUReports. Sognatore incazzato. verso gli animali e ne possiede di diverse specie. Scrivere è per lui uno un amore folle versofolle gli animali e ne possiede sfogo, un momento di riflessione fra se e il mondo che sta dentro di lui. di diverse specie. Scrivere è per lui uno sfogo, un momento di riflessione fra se e il mondo Autore: Mauro che sta dentro di lui.

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È il 19 marzo 2013, Marco Mengoni ha presentato il suo terzo album di inediti, “#PRONTOACORRERE”. Sembra proprio che Marco Mengoni sia pronto a correre, dopo il trionfo a Sanremo con il brano L’essenziale, campione di vendite; a maggio rappresenterà l’Italia di fronte alla platea internazionale dell’Eurovision Song Contest in Svezia. Questo album è un completo rinnovamento a partire dalla musica non più come aspirazione metaforica, ma come concretezza di chi mette mano ai propri pezzi, alle musiche, ai testi, scegliendo un team artistico giovane, che gli assomigli. E si sente. Nelle 15 tracce del disco Marco lo riconoscerete senza fatica, si intuisce però un’evoluzione con il suo legame profondo con il rock inglese e con il soul americano, una nuova visione della musica e della vita in una prospettiva meno oscura, che si può toccare in superficie non attraverso gli acuti e le svisate, ma attraverso una profondità interpretativa e un controllo che veicola meglio le emozioni. Un disco ricco di collaborazioni e di belle canzoni. Il primo brano è L’essenziale e il celebre inizio “Sostengono gli eroi”, pezzo scritto da Roberto Casalino, ballad di un amore “che non segue le logiche, ti toglie il respiro e la sete”. Orecchiabile ed avvolgente da rimanere subito impressa in testa. Non me ne accorgo riprende quell’ondata di energia e ricorda a tutti la voce camaleontica del cantante in un sound più elettronico e un ritmo più incalzante (”Non ti chiederò permesso, preferisco bruciarmi da solo che assecondarti adesso”). Non passerai sembra quasi una confessione(”E non c’è niente che resiste al mio cuore quando insiste perché so che tu non passerai mai, che non passerà, (non passerai), non mi passerai non passerai”). Perfetta colonna sonora per chi soffre di ‘mal d’amore’, scritta da Tobias Gad autore in passato anche per Alicia Keys e Beyoncé. Un’altra botta possibilissimo tormentone estivo alleggerisce le atmosfere intense del precedente pezzo. (”Entri ed esci dal mio cuore con un click, dalla mia testa vuota come un trip, ti porti via di tutto poi mi lasci qui, ti porti via di tutto e poi mi lasci ancora qui”) La vita non ascolta pigia il piede sull’acceleratore del ritmo, tra batteria, sound elettronico e una vera e propria esplosione nel finale con un chiaro invito (”Lancia tu la sfida e dai grida adesso

grida, vada come vada prendi tu la guida e grida adesso grida”). La titletrack Pronto a correre si apre con la voce di Marco, mantiene il ritmo del brano precedente con un efficace ringraziamento spiazzante (”Grazie per avermi fatto male non lo dimenticherò”) ma senza autocommiserazione. Bellissimo , il brano scritto da Gianna Nannini e già sentito a Sanremo. La sua impronta è evidente fin dal primo ascolto, una vena rock che incuriosisce anche nell’ipotesi di poterla sentire cantata dalla sua autrice. La valle dei re è stata scritta da Cesare Cremonini. Orecchiabile ma se ne poteva fare a meno. I got the fear canzone dal respiro internazionale, è cantato totalmente in inglese. Un pezzo adrenalinico da cantare a squarciagola. Avessi un altro modo rallenta il ritmo, con una voce quasi sussurrata e bisbigliata tra promesse d’amore, di intimità passionale a duro contatto con la realtà effettiva (”Avessi un altro giorno per guardarti lo farei, avessi una ragione per fermarti proverei a volare piano, ad andare lontano e ritrovare tutto”). Evitiamoci (La solitudine) riprende un sapore rock. Questa volta l’invito è quello della distanza, di stare lontani per non perdersi senza paura del tempo. 20 Sigarette pianoforte e voce in evidenza. (”Non c’è niente di speciale su nel cielo, solo un aquilone che resiste al vento gelido se a portarlo ero solo io come sai non è per sempre, per sempre”). Meravigliosa. Spari nel deserto è stata scritta da Ivano Fossati e si sente. (”L’ho conosciuto al suo ultimo concerto al Piccolo di Milano e qualche tempo dopo mi ha contattato. Aveva pronto un pezzo per me e ho sudato freddo per l’emozione”). Una parola a primo ascolto non mi ha ispirato: un qualcosa di dance ma non troppo definito. Natale senza regali, malinconica. (”Evito di guardare il mio riflesso sulle vetrine, sono già spento così”)

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CONFESSIONES

Autore: Max Max alias Massimiliano: C’è perché c’è, fa quel che fa, è quel che fa. Talvolta riesce ad essere ciò che vuole. Talvolta è quel che è: Max, ma per pochi. Instabile, maneggiare con cura. Tenere fuori dalla portata dei bambini. Il prodotto è composto da parti tossiche pericolose. Evitare il contatto con occhi e mucose, qualora questo dovesse avvenire contattare un medico. Non è un prodotto medicinale.

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Trovo seccante parlare con chi non ascolta, e questo non è un problema mio, ma, se ci fate attenzione, questo è un problema di chi non ascolta. Preminenze, difficoltà e peculiarità organiche a parte, tutti siamo dotati dell’udito. E questo è un senso passivo e assolutamente ricettivo, che funziona indipendentemente da noi. Strano lezzo? Posso tapparmi il naso. Immagine cruenta? Chiudo gli occhi. Tapparsi le orecchie serve a poco, se non si vuol ascoltare, bisogna nascere drammaticamente sordi. Perché l’udito è il senso primo della realtà. Immaginate un uomo che vive in un’epoca di pericolo incontrollato, privo del fuoco. L’udito era il senso della presenza del pericolo prima ancora della vista. Ovvio, la vista c’agevola notevolmente. Ma l’udito arriva la dove la vista è manchevole, riempie spazi vuoti di oscurità con realtà immaginarie. La paura del buio è, oggettivamente, collegata più all’udito che alla vista. Per dirla in altri termini: con la vista è impossibile percepire il vuoto, con l’udito si. Ma, se l’udito è una (troppo azzardato dire LA) delle cifre antropologiche fondamentali, perché non provare a chiedere a lui qualcosa di più su noi stessi, sull’uomo in ciò che è. Chissà, scoprire qualcosa di più su ciò che siamo può anche essere interessante, e aiutarci a vivere con maggior libertà e consapevolezza. In fondo “filosofia” è questo, utile all’uomo ma assolutamente


incomprensibile a chi uomo non è, o sceglie di non esserlo. Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik, 1872, ossia La nascita della tragedia dallo spirito della musica, Nietzsche, è un’opera interessante che può offrirci notevoli spunti di riflessione a tal proposito. È necessario farne un piccolo sunto dei concetti principali, chiedervi di leggere questo interessante mattone sarebbe troppo. Comune conoscenza per i masticatori di filosofia è l’idea nietzscheiana che l’uomo abbia “due anime” (Madonna perdonami per questa obbrobriosa sintesi!), l’una apollinea a l’altra dionisiaca. La prima è armonia, nella più pura accezione matematica del termine. È perfezione studiata, ripetizione matematica, è specularità, è un laghetto increspato da perfetti, ed immoti cerchi concentrici. Questo tappo, questa gabbia contiene il dionisiaco. Prestare attenzione, il dionisiaco non coincide esattamente con l’ES freudiano… Il dionisiaco è ebbrezza, disincanto, violenza e gioia. È la creatrice volontà di distruggere, è l’idea di strappare la corteccia del mondo per il puro gusto di scoprire cosa vi è nascosto sotto. E se quel che ci trovassimo non ci piace allora potremmo cambiarlo a nostro piacimento distruggendolo, scomponendolo e creando dal nulla. È vita, è morte, ed è tutto quello che attraversa questi due istanti che non ci appartengono. È libertà, è totalità senza rispetto delle proporzioni, dei calcoli, del “prestabilito”. Queste due componenti non sono in contrasto, non sono due

blocchi contrapposti. In principio vi era il caos, perché solo il caos crea, e in principio si crea. Una volta “creato”, il reale andava socraticamente retto, amministrato e governato. Non nelle sue leggi e dinamiche, ma nel suo protagonista. Chi vuole costruire una torre e lasciare a tutti la libertà di demolirla dalle fondamenta? E quindi il dionisiaco fu ingabbiato in una prigione d’oro, rinchiuso nelle forme, incanalato nell’arte, nell’estro, combattuto col contrasto tra legge e miti orfici, tra eroi e baccanti, tra asetticità e sangue. Non menzionato, ma presente, fino a diventare nulla, e conservandosi nella scepsi e nel nichilismo pur di sopravvivere. Ma qualcosa compì il miracolo. E questa fu la musica, con la nascita della tragedia. Eschilo e Sofocle, capostipiti di un genere che vanta innumerevoli illustrissimi rappresentanti, fusero le due istanze in un’unica soluzione, ad iniziare dalla struttura di base. Inventarono un nuovo verso, il ditirambo, frammentato e coerente, dionisiaco ed apollineo, calcolabile ma imprevedibile negli accenti e nel canto. Mischiarono il sangue ed il fato ineluttabile con l’etica e lo sforzo umano. Prefigurarono guerre e atrocità, tribunali e redenzione. Illuminismo e romanticismo, razionalità e titanismo tra il ‘600 e l’’800 non sono altro che riscoperte, ripetizioni mutile d’un miracolo già avvenuto. E il collante era la musica, che si esprimeva attraverso un coro di voci e di flauti. Così l’uomo si compì, e si vide realizzato. Nessuna parte di lui veniva dimenticata e nessuna delle due soccombeva a discapito dell’altra. E come sarebbe potuto essere altrimenti, in una realtà dove incesti, omicidi e cannibalismo andavano di pari passo con virtù, dottrina e legge civile? Resta però un unico mistero da risolvere. Per questo la filosofia non dà risposte, fa domande, e io spero che qualcuno di voi possa offrire una risposta sensata. La musica è un’armonia matematica di vibrazioni calcolabili. Nulla sfugge alla scienza su cosa la musica sia. Eppure quell’armonia di calcolo riesce a suscitare emozioni, riesce a modificare gli stati ormonali del corpo, può farci ridere e piangere al contempo. Com’è possibile questo? Mi piacerebbe poter dire che Nietzsche aveva ragione: siamo due anime, e la musica le contiene entrambe. Dico “mi piacerebbe” perché indago solo con una delle due, e questa non può speculare sull’altra se non inaridendola, e non può vedere se stessa se non accecandosi. Con la ragione non avrò soluzione. E con le emozioni? Provateci voi, i dati ci sono, il problema è posto e la legenda è scritta. Se riuscite a calcolare coi sentimenti, poi, e a quale risultato perverrete, mi piacerebbe saperlo. Una moneta per i vostri pensieri. 15


TWO YOUNG SOULS IN MISERY.

Autore: Daniele Studente universitario speranzoso di diventare giornalista. “Chitarrista” a tempo perso; vive di musica e libri. Pensatore fallito. Agnostico praticante. “[...] And I will spend the rest of forever trying to figure out who I am”.

http://italianvoices.altervista.org

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“La musica, intesa come espressione del mondo, è una lingua universale al massimo grado, e la sua universalità sta all’universalità dei concetti più o meno come i concetti stanno alle singole cose”. Arthur Schopenhauer. La musica è sicuramente un linguaggio universale proprio in quanto può essere compresa, o meglio sentita, da tutti a prescindere dalle barriere e dagli ostacoli culturali, a partire dalla lingua. Eppure dal mio punto di vista il testo diventa un elemento fondamentale in un brano: se è vero che la composizione deve avere di per sé una carica espressiva, deve saper trasmettere qualcosa, è altrettanto vero che le liriche aggiungono significato alle note, le valorizzano o, al contrario, esprimono emozioni esattamente opposte. Io, come ascoltatore e lettore, ricerco in una canzone la perfetta fusione tra musica e testo, tra linguaggio universale e particolare, tra qualcosa che arriva dritto allo spirito e qualcosa che passa per il ragionamento e la comprensione intellettuale. Per questo numero ho scelto di descrivere il concept di uno degli album che più mi hanno influenzato, intitolato Remedy Lane. Come forse si intuisce dal titolo si tratta di un racconto autobiografico in cui il personaggio espone e rivive alcuni degli eventi più significativi della sua vita per poter meglio affrontarli e interiorizzarli attraverso il processo psicologico dell’oggettivazione. Entriamo subito nel vivo: L’atmosfera è cupa, tesa. La sofferenza aleggia nell’aria; il protagonista non riesce a trovare la sua pace interiore. La stanza dell’hotel di Budapest nella quale si trova è scura e ha un odore di vecchio e umido. Il letto è consumato, si vede un po’ di polvere sui mobili. La notte è serena, rassicurante: si crea un contrasto fortissimo tra il

“dentro” e il “fuori”. Una donna riposa accanto a lui, seminuda. Sdraiato sul letto, fissando il soffitto, mille pensieri gli offuscano la mente. Ritorna a tanto tempo prima, quando aveva dieci anni. Tutto è iniziato lì, in quel momento. Chiude gli occhi e si lascia trasportare dai ricordi. Of two beginnings – Ending theme. Fin da subito il brano trasmette una sensazione di inquietudine. Si apre con un lieve tappeto di tastiere, con il charleston che sembra ricordare il ticchettio di un orologio – quasi una scena da psicoanalisi – e la voce fragile e gracile del protagonista. Lei ha dodici anni, io ne ho solo dieci. Siamo in casa sua; i genitori non ci sono. Leggiamo i fumetti e ridiamo spensierati. Ad un tratto lei mette giù il suo e inizia a parlarmi – dopo qualche domanda mi chiede se.. Ho già fatto quella cosa. Proprio quella. Un attimo di silenzio, non so bene cosa dire, sono confuso. Timidamente le dico di no. All’improvviso la canzone si apre: entrano le chitarre, il pezzo si velocizza, la voce esprime sofferenza. Tutto preparava a questo momento. Mi porta in camera sua e mi fa adagiare sul letto pieno di cuscini. Poggia le labbra sulle mie e inizia a spogliarlo; rimango inizialmente impietrito ma poi mi lascio andare e rispondo ai suoi movimenti. Nel corso degli anni il senso di colpa per quanto successo quel giorno non mi darà mai tregua: lei così grande, io così piccolo. Ho privato quel momento della sua atmosfera e dei suoi significati per rispondere ad un mero impulso fisico di cui non ero neanche consapevole. Continuo a pensare a quel giorno e agli anni seguenti. Alla fine, improvvisa, un’illuminazione: dopo tutta una vita di interrogativi capisco che la libertà è solo uno stato mentale. Tuttavia dopo quel giorno il mio rapporto con l’umanità e, in particolare, con il genere femminile sarà compromesso per sempre. Inizia così il cammino del rimedio. La musica si dissolve e un arpeggio di chitarra elettrica e la voce bassa, quasi sussurrata, ci portano al secondo brano. Si ritorna al presente, il protagonista è di nuovo nella stanza dell’hotel di Budapest – lacerato con cicatrici insanguinate sugli occhi, tornato per liberare la sua vita da tutto questo. L’atmosfera sognante si infrange durante il ritornello e il bridge in cui le chitarre si fanno più vivaci e si esprime tutta l’estensione vocale del cantante che poi si lascia andare ad un lungo monologo parlato, una lunga riflessione: “Ad essere sincero non so cosa sto cercando, chi essere – seduto qui come ho fatto in passato, settimane fa, aspettando per qualcuno che bussasse alla porta. E ho lasciato tutto ciò che avevo per scoprire qualcosa, per essere certo, se ciò che mi fece sentire libero quella notte fosse in me o in te; ma

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mentre ci baciamo non capisco – non riesco proprio a capire: perché lascia un sapore di vuoto? E penso “e se fossi solo depresso? E se cercassi solo un po’ di riposo qui a Budapest? Se cercassi solo di fuggire da me stesso scappando con te e passando una notte qui?” Ma ho visto così tanto di me in te, la mia gioventù e la mia libertà.. Credo che dovremmo conoscerci meglio. Ma in realtà, nonostante tutte queste domande, ho paura di non aver ancora trovato una risposta. Per essere sincero non so cosa sto cercando, mentre giaccio qui e ti guardo uscire da quella porta e andare via”. Fandango. Il brano si apre con un arpeggio di chitarra la cui velocità progredisce vorticosamente preannunciando l’ingresso degli altri strumenti: batteria e basso che si inseguono in un 5/4 incalzante e tastiera che procede sincopata dando vita ad un ballo erotico. Il ricordo si è spostato all’adolescenza, alla mia prima fidanzata. Guardatela danzare. È una ragazza così pura e innocente che non vuole arrendersi alla follia della vita. Tutta la vita ha desiderato essere debole per aver qualcuno che la facesse sentire protetta. Io sono un povero Peter Pan abbandonato che osserva un mondo di inganni e menzogne; la mia misantropia mi porta a isolarmi e ad immergermi nella natura. Per tutta la vita ho desiderato qualcuno da salvare. Il ritornello in 4/4 sincopato ci getta nell’occhio del ciclone, mentre la voce in falsetto si lancia in acuti estremamente potenti dando a quei due ragazzi, così immaturi, un saggio consiglio: “Vivete cosicché possiate trovare le risposte che altrimenti non avrete mai; l’amore e la vita vi daranno le possibilità di imparare a perdonare dalle vostre debolezze”. I due giovani si inseguono in una danza sensuale e travolgente mentre, a poco a poco, emergono le loro identità: lui schiavo di una eccessiva vicinanza alla sessualità ma spaventato da essa; lei oggetto del desiderio di uomini più grandi e che, al contrario, avrebbe tanto voluto tornare ad essere vergine. Entrambi sono sempre stati più umani di quanto avrebbero voluto, hanno creato un mondo immaginario in cui rifugiarsi dalle sofferenze di quello reale. Guardateli danzare.

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A trace of blood. Il pezzo si apre con un mix vorticoso di tastiere e chitarra, quasi fosse un lascito del precedente, per poi arrivare ad un verso in 7/8 più compassato. L’atmosfera creata, anche grazie ai gemiti in sottofondo, trasmette ansia e incertezza. La mente del protagonista fa un salto a diversi anni più avanti, all’epoca del suo matrimonio con un’altra donna che farà il suo ingresso in scena solo più tardi. Ero in tour fuori casa da ormai diverse

settimane, tutto procedeva senza problemi. Mia moglie era incinta, avrebbe partorito tra tre mesi. Un pomeriggio, come al solito, mi ha chiamato – vorrà augurarmi la buona fortuna per la serata, ho pensato. Ma c’era qualcosa di strano nella sua voce – un residuo di sangue che mi avrebbe condotto su un sentiero di sofferenze. Con il sapore di sangue in bocca e la nebbia davanti agli occhi cado in ginocchio davanti al letto dove giace la mia driade – due giovani anime nella miseria. Svengo dal dolore, mi sveglio solo all’alba. Torno in città più in fretta che posso e mi precipito in ospedale. La voce si fa via via più grottesca per preannunciare l’imminente catastrofe. La trovo seduta in una sedia d’acciaio con le gambe divaricate – sto in piedi accanto a lei, congelato. I dottori non ci sono, ci lasciano soli con questo terrore. I colori di un miracolo svaniscono e diventano grigi. Il suo volto è contratto dal terrore e dal dolore – i nostri sguardi s’incrociano. Scoppiamo a piangere; fiumi di lacrime scorrono così tristemente mentre gli infermieri la portano in sala operatoria – i nostri sogni gettati in un gelido vassoio. Si arriva quindi al ritornello in 4/4 con un intreccio di voci davvero superbo: la disperazione di due genitori che devono affrontare la perdita del loro primo figlio trasuda da ogni nota suonata e cantata: “non abbiamo mai saputo il tuo nome, ma ci mancherai allo stesso modo. Dovevamo vivere per te ma ora ho perso il desiderio di vivere. Non sarà più lo stesso ma ti ameremo allo stesso modo; dovevi essere il primo, così bello.. Ora avrò per sempre paura di sperare. L’ironia di vedermi sussurrare al pancione, così contento; o di quando tua madre mi ha chiamato per dirmi allegramente che aveva visto la tua forma sullo schermo dell’ospedale.. E poi l’orrore di quando le infermiere si mostrarono preoccupate del fatto che tu non ti muovessi o girassi mai. Non ho mai visto la tua faccia e ora sei andato via senza una traccia, a parte la traccia di sangue che è radicata in profondità dentro i miei occhi. Ero preparato ad essere un padre, ora come potrò mai essere pronto ad amare di nuovo?” La canzone si chiude con un angosciante arpeggio di chitarra acustica che accompagna queste poche parole sussurrate e sofferenti: “Seguo ancora quella traccia di sangue che mi riporta sempre da te. Anni vuoti a maledire quel fiume di lacrime, due giovani anime nella miseria ti rimpiangeranno per sempre”. This heart of mine. Ancora un salto indietro nel tempo, al periodo che precede il fidanzamento. La canzone è una classica ballad: una vera e propria poesia dedicata alla futura moglie, molto soft e caratterizzata da un delicato arpeggio di chitarra e da una voce estremamente dolce. Non sono


necessarie altre parole per descrivere il quadro di due amanti che passano la prima notte insieme. Giaccio sveglio e guardo le tue spalle muoversi così dolcemente mentre respiri. Con ogni respiro diventi più grande – ma va bene se stai con me. Prometto di svegliarti con un sorriso, prometto di stringerti quando piangerai; prometto di amarti fino alla morte. I raggi dell’alba si posano sulle tue palpebre – una bellezza dormiente vestita dal sole. Credo al mio cuore quando dice ai miei occhi che questa è la bellezza; credo al mio cuore quando dice alla mia mente che questa è la ragione; credo al mio cuore quando piange: questa volta sarà per sempre; credo al mio cuore quando dice al cielo che il tuo è il volto di Dio. Undertow. Il contrasto tra le due canzoni è estremo. Si passa da un’atmosfera sognante e idilliaca a una cupa, disperata, in cui si esprime il grido di sofferenza della sorella del protagonista. L’arpeggio di chitarra in mi minore è la costante di questo brano. Dopo una vita di sofferenze la donna è sul punto di imprimerle una svolta: è arrivata al punto di non ritorno. “Lasciami andare. Lasciami cercare le risposte che ho bisogno di conoscere. Lasciami trovare una strada, lasciami andare attraverso la corrente, ti prego. Lasciami voltare, lascia che mi erga di fronte a quel cielo rosso sangue. Lasciami inseguire tutto questo, lascia che rompa le ali e cada. Probabilmente sopravvivrò: quindi lasciami volare. Sei sempre stato qui, ma ora potresti perdermi. Per cui amami se lo desideri – ma lasciami correre”. Le chitarre e le tastiere fanno da tappeto alla voce in un climax ascendente che va dalle note più basse e avvolgenti a quelle più alte, quasi urlate, che interpretano ancor meglio la disperazione della protagonista. “Io sono me stessa, ma perché la verità deve sempre farmi morire? Lasciami distruggere tutto, lasciami sanguinare.. Lascia che distrugga me stessa, ho bisogno di respirare. Lascia che mi perda, lascia che mi perda. Lasciami morire, lasciami distruggere le cose che amo – ho bisogno di piangere. Lasciami bruciare tutto, lasciami cadere nel fuoco purificatore – ora lasciami morire. Lasciami svanire dentro questa notte vellutata e nera”. Rope ends. Naturale proseguimento del brano precedente, questo si apre con un ritmo stoppato e con una voce spezzata, ad interpretare una situazione tragica come poche. La donna, abbandonata dal marito in seguito alla nascita del figlio – dopo averne avuto un altro da una precedente relazione -, entra in depressione e sembra non riuscire a riprendersi. La decisione è presa: si toglierà la vita, ormai vivere non ha più nessun senso. Neanche i due bimbi sono più significativi per lei.

La stanza tutta intorno è in disordine. Siede sul pavimento del bagno, da sola. La catena della doccia è rotta, il collo dolorante. Ha cercato di suicidarsi ma la tenda non ha retto sotto il suo peso. I figli si svegliano per il rumore e, almeno per quella volta, è costretta a tornare da loro posticipando il suo progetto alla sera successiva. I bambini dormono; lei entra nella sua camera da letto. Alcuni vestiti del marito sono ancora nel cassetto; lo apre e fruga all’interno. Trova diverse cravatte, ne sceglie una e la assicura al lampadario. Stringe il nodo intorno alla gola ma questo si apre lasciandola cadere a peso morto sul pavimento bagnato di lacrime. Si rialza, lo sguardo assente. Barcollando, prende una cravatta più robusta con disegnato Winnie Pooh – quanto può essere ironica la vita, anche nel momento più drammatico! È ancora giovane ma si sente vecchia, ancora una bambina ma già madre. Questa volta la cravatta non la tradisce. La vista si annebbia, il corpo si contrae spasmodicamente. Gemiti soffocati escono dalla gola stretta nel nodo. Ma la vita non la lascia andare, le tiene la mano: non ha ancora finito con lei. Il protagonista entra in casa con la cena e, sentiti i rumori, si dirige nella camera. Trovandosi di fronte a quella tragedia rimane basito; lascia cadere le buste e dopo qualche secondo in cui rimane totalmente paralizzato si getta su di lei. Questa volta Winnie non può niente e lascia la sua presa. Cadono ansimanti sul pavimento freddo – la donna sbatte la testa. Il sangue le cola sugli occhi – una bambola di porcellana in mille pezzi. Lo sguardo fisso sul soffitto: non è più in questo mondo. Chainsling. Canzone molto folkloristica, richiama quasi le sonorità dei Jethro Tull. Il brano è caratterizzato dalla chitarra che procede vorticosamente e da tamburi in sottofondo con un intreccio di voci e cori molto ben realizzato. Il protagonista torna indietro all’adolescenza, quando viene lasciato da quella che era la sua ragazza. La disperazione si impadronisce di quel giovane; l’amore si trasforma in possesso. La prega in tutti i modi di non abbandonarlo, di essere ancora sua. “Ti prego lasciami essere tuo, non lasciarmi, stammi vicino – tutto l’amore che abbiamo condiviso dov’è adesso? Ti prego, posso essere migliore di quanto sono stato; non puoi arrenderti. Il pensiero di lasciarti.. Non so come farei. Vedo il dolore che hai dentro, sento il turbamento nel tuo cuore; ma come posso aiutarti se non mi vuoi?” Ma lei, sicuramente più matura, è irremovibile nella sua decisione. “Non c’è niente che tu possa fare per placare il mio dolore, sono così dispiaciuta ma se mi ami devi lasciarmi andare”. Capito che non poteva trattenerla contro la sua

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volontà, è costretto ad accettare la sua decisione ed è preso dalla più profonda inquietudine. “Chi ci sarà adesso, dopo che ho perso il mio unico vero amore? Sto cadendo – l’oscurità è ovunque intorno a me. Ho forse perso me stesso per amare qualcun altro? Non so più cosa fare”. Dryad of the woods. Nell’album la canzone è interamente strumentale: una ballad davvero stupenda ed emozionante, con una serie di arpeggi di chitarra acustica su cui poi si inseriscono basso, tastiera e batteria. Un senso di pace e dolcezza si irradia da ogni nota suonata. La musica esprime perfettamente le due righe di testo che si trovano nel booklet: “Poi venne una donna, una driade delle foreste. Con un segno sulla porta che diceva “Se entri, devi perdonarmi ogni cosa”. Con un cuore troppo grande e coraggioso per lasciarmi scomparire. “Potrei dormire ai tuoi piedi?” E così lei venne oltre il mio recinto, e mi porse una mano che dovevo prendere. Remedy lane. Anche in questo caso si tratta di una traccia strumentale, con sonorità più elettroniche. Come succede spesso il brano riprende i momenti più significativi e toccanti delle canzoni dell’album racchiudendoli in una suite di appena tre minuti. Tuttavia è possibile, ancora una volta, leggere queste parole mai pronunciate: “Sono sempre stato spaventato dal fatto che avremmo perso qualcosa l’uno senza l’altro; quanto è efficace una lezione che può solo essere insegnata con la presenza continua di qualcuno? Così un giorno mi è venuto in mente che forse questa è la ragione per cui noi tutti siamo qui, per rendere l’altro migliore, diverso. Se così fosse, il nostro proposito qui è più difficile e meraviglioso di quanto potessi mai immaginare”. Waking every God. Il brano si apre con poche note tremolanti di tastiera, cui poi fa seguito l’ingresso degli altri strumenti in un sound molto soft che accompagna una voce ora sussurrata ora più potente. Sono di nuovo nel presente, nel letto dell’hotel di Budapest. Provo a spiegare a me stesso e alla ragazza accanto a me perché mi sento così leggero e libero dal dolore, mentre il Danubio scorre alle nostre spalle. All’improvviso è come se capissi tutto: nei suoi occhi riesco a vedere chi io ero, nei miei lei può vedere cosa io provo. L’amore circola nel mio sangue; questa felicità ci aiuterebbe a ricostruire ciò che abbiamo perso. Spero di essere più forte, di essere migliore – spero di essere qualcuno che non sono. Spero di essere un Dio. Second love. Ancora un ultimo flashback. Tor-

niamo a quando la prima ragazza abbandona il protagonista, lasciandolo disperato in Chainsling. Mentre This heart of mine rappresenta la poesia, l’incarnazione dell’amore puro e romantico, questo brano – ancora una volta caratterizzato da un arpeggio di chitarra, questa volta cupo e triste – descrive lo sconforto in cui il giovane si trova dopo quell’avvenimento. Niente sembra avere più senso per lui, non ci sarà amore dopo quell’esperienza. Si chiude nel ricordo del passato e nella rievocazione di qualcosa che, sa bene, non tornerà più. “Giorno dopo giorno, niente è cambiato. Tu sei lontana, ma devo farti sapere che non posso più dormire. Notte dopo notte, le stelle brillano così luminose. Penso che il nostro dolore sia più grande dell’universo. Voglio farti sapere che non posso più dormire; giorno dopo giorno, voglio dirti che sei mia. Anno dopo anno, lacrima dopo lacrima, sento che il cuore si romperà in due. Sei arrivata come un vento impetuoso – ero senza difese. Hai ferito il mio cuore così in profondità che le cicatrici non guariranno mai”. Il ritornello vede l’ingresso di un soffice tappeto di tastiere e un ritmo di batteria appena accennato. “Non crederò mai più nell’amore dopo quanto c’è stato tra di noi. Non potrò mai cambiare o riorganizzare ciò che abbiamo perso. Sto perdendo il mio tempo, vivo in un passato in cui ero forte. Ma ora è andato, non lascio ombra quando sono da solo. Rimarrò per sempre nei miei sogni, dove tu eri vicina a me”. Questo brano struggente ci traghetta verso l’ultimo, imponente, brano. Beyond the pale. Autentico masterpiece. Un brano di quasi dieci minuti che rappresenta la chiave di volta di tutto il concept. Siamo di nuovo al presente: il protagonista rievoca un ultimo, tragico evento della sua vita e conclude il viaggio alla scoperta di sé stesso esponendo una verità già emersa precedentemente: l’importanza quasi compulsiva attribuita alla sessualità con tutte le conseguenze psicologiche, in un conflitto Io-Super Io, che questo ha su di lui. Musicalmente si tratta di un pezzo estremamente complesso e atmosferico. Si apre con nient’altro che un accordo di chitarra dissonante e tremolante che trascina l’ascoltatore in uno stato di tensione e inquietudine. La voce fa il suo ingresso, sussurrata: “Il sesso è sempre stato qui sin da quando avevo solo otto anni. Mi attraeva lasciandomi assetato, con la pelle madida – un impulso incontrollabile”. Ripercorro un’ultima volta le tappe più significative della mia vita: l’amore è stato invano, profondo e intenso ma ricalcato con il dolore – troppo precoce per un bambino di dieci anni, desideroso della purezza e del peccato al tempo stesso. Si arriva al ritornello, in cui emerge la voce della coscien-

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za che cerca di contenere quella che appare come una vera e propria perversione: “Qualcuno plachi questa brama – è nel mio sangue, diventa sempre più forte. Budapest, sto imparando – Budapest, mi stai bruciando. Questo non è ciò che volevo essere, questo non è ciò che volevo vedere. È così giovane, quindi perché non mi sento libero ora che è qui sotto di me?” La carica erotica percorre tutta la suite: nudi – si toccano – dolcemente – si aggrappano. Eccolo arrivato alla piena consapevolezza di sé: “E poi, dopo tutto, mi hai condotto qui per risvegliarmi di nuovo facendomi cercare un amore che potesse farmi sentire libero in me stesso; e proprio allora questo si dimostra essere qualcosa che mi ferisce. Per cui vado oltre, perdo la mia strada. Provo a sentirmi senza catene, a bruciare questo senso di freddo interiore. Ogni giorno prego per qualcuno da stringere e abbracciare; mi sento vivo solo durante quel secondo in cui sorridiamo e lei incontra i miei occhi; ma potrei piangere perché mi sento lacerato dentro.” Una svolta improvvisa: le chitarre si fanno più aggressive, il tempo accelera e la voce, fino a questo momento delicata, si fa più aggressiva per interpretare il dolore del protagonista: “Vieni e annega con me, la corrente ci spazzerà via e allora vedrai che sono legato alla mia onestà. Fiducia – perché dopo tutto il mio senso della verità mi ha portato qui una volta. Ma ho perso il controllo e non so se sono sincero con il mio animo”. Un lungo assolo rappresenta lo spartiacque tra la prima e la seconda parte che si apre riprendendo lo stesso accordo iniziale accompagnato da una voce tremolante – “Siamo sempre stati più umani di quanto avremmo desiderato essere” – che ci catapulta nella sezione più drammatica del brano. La

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mente richiama un ricordo che aveva apparentemente rimosso e nascosto in un cantuccio inesplorato, talmente forte era il dolore in un uomo così legato alla sessualità e all’amore: la voce passa ad un’ottava più alta, lasciandosi andare a un continuo urlo di dolore mentre rievoca quell’episodio che ha come protagonista la moglie e che è anche il motivo per cui si trova a questo punto. “E ricordo quando dicesti di essere stata sotto di lui – ero sorpreso di sentire così tanto dolore. E per tutti quegli anni ti sono rimasto fedele nonostante la rabbia scorresse nelle mie vene. Ho sempre provato a far calmare le cose, a sopportare tutto. È solo un’altra piccola spina nella mia corona, mi dicevo. Ma all’improvviso un giorno capii che c’era troppo sangue nei miei occhi e dovetti fare questo cammino nel percorso del rimedio”. Un finale convulso vede la canzone sfumare mentre riecheggia l’arpeggio iniziale e la voce sussurra, grottesca e sicura, quella che agli occhi del protagonista è una triste, maledetta verità: siamo sempre stati più umani di quanto desiderassimo. Saremo sempre più umani di quanto desideriamo. Eccoci arrivati alla fine. Personalmente trovo che quest’album sia brillante sotto ogni punto di vista, specialmente a livello di concept e testi. Sicuramente trascritti, decontestualizzati, tagliati e rimescolati su queste pagine spoglie perdono molto della loro bellezza, ma spero che apprezziate anche voi la loro qualità e proviate ad immedesimarvi nel protagonista, a cogliere le sue sofferenze interiori e, perché no, ad ascoltare qualche canzone. Perché, in fondo, non c’è miglior modo per esprimere sé stessi che nell’arte.


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IL SALERNITANO E LA MUSICA: DALLA TENERA ETÀ FINO ALLA VECCHIAIA. Salve a tutti i nostri lettori, oggi sono qui per spiegare un pò la crescita musicale del salernitano, a partire dalla fase pupetto fino all’ arrivo della pensione. Il piccolo salernitano, fino all’arrivo alla scuola media, inizia a fare amicizia con la musica con Cristina D’Avena, le sigle della Disney, i Teletubbies o altri programmi TV moderni che fanno rimbecillire il piccolo sin dalla nascita! Alle scuole medie, c’è un cambio generale che stravolge la crescita dell’individuo riguardo al proprio gusto musicale: gli orsetti e le fatine mutano in rapper da strapazzo! Ebbene si: lo stile musicale che accomuna una buona parte degli studenti delle medie è il genere rap! Questa scelta lo porterà fino alle porte delle scuole superiori. Scuola superiore, tante nuove persone, tanti stili di musica che magari non si conoscevano, il ragazzo non sa nemmeno lui cosa scegliere. Gli stili che spadroneggiano in quegli istituti sono: house, rap, heavy metal e neomelodico moderno! Vicino ai muri delle scuole, tra qualche murales di protesta o qualche dedica amorosa, ecco che spiccano testi di canzoni neomelodiche “Senz e te sò na vel stracciat by Puffetto99!” All’università il giovane ha un’idea più chiara sul proprio stile musicale preferito, e questo lo porterà fino all’anzianità dove si ritrova a risentire vecchie canzoni neomelodiche, ricordando la gioventù. Con questo è tutto, ora se permettete mi alieno un pò ascoltanto qualcosa anche io! Alla prossima puntata!

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Autore: Pippo MaGo PaZzo Salernitanuz in arte Pippo, un ragazzo sognatore che adora la compagnia e il sano divertimento. Qui nel OUReports scrivo articoli demenziali con un unico scopo: far sorridere le persone, perchè la vita è amara, metterci un pò di dolce non è mai male!

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LA CRISI ATTUALE DELLA CANZONE NAPOLETANA, UNA DELLE MADRI DELLA CANZONE OCCIDENTALE.

Autore: SangueBlues Vengo dalla provincia di Napoli, una città abbastanza caotica ma di cui, fin’ora, tra le città che ho visitato, non sono riuscito a trovarne una al pari, per magia, fascino, ricchezza artistica e vitalità. Suono il pianoforte e le tastiere in una band rock-blues con testi in napoletano, di cui compongo le canzoni. Adoro anche scrivere, in particolare racconti incentrati soprattutto sull’attualità, ma anche poesie e articoli.

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A partire dalla metà degli anni ’70, fino alla prima metà degli ’80, nacque e si diffuse in Italia, uscendo talvolta fuori dai confini nazionali, il cosiddetto Neapolitan Power. Era una corrente musicale che prima di tutto presentava canzoni con testi in napoletano, dai temi riflessivi, poetici e spesso di protesta e colmi di rabbia. Inoltre comprendeva una musica che attraversava diversi generi, in particolare blues, rithm’n’blues, funky, rock e jazz-rock, e l’accostamento tra il dialetto e queste sonorità d’oltreoceano già rappresentò una caratteristica fondamentale di tutta la corrente, una grande svolta. A quel tempo, infatti, si era soliti ascoltare canzoni napoletane che si rifacevano più alla tradizione canora classica, fatta di note lunghe, di un’interpretazione molto appassionata, drammatica, un uso di strumenti e arrangiamenti per lo più classici e una musica che si differenziava ben poco dalla tradizione, se non negli arrangiamenti più vicini alla musica leggera, ma per la maggior parte con toni molto tristi, tipici da tragedia, o meglio, da sceneggiata. E proprio tra gli anni sessanta e settanta quest’ultimo genere incontrò un nuovo e grande successo, grazie soprattutto a Mario Merola. Oltre al fatto che la canzone napoletana aveva perso la sua tipica spontaneità, poeticità e delicatezza, e spesso anche l’originalità e la qualità elevata delle composizioni, degli arrangiamenti e delle interpretazioni dei cantanti, un vero cambiamento che l’avrebbe resa più al passo coi tempi non era avvenuto. L’unica parentesi di fusione culturale e modernità fu rappresentata da Renato Carosone, che aveva fatto tesoro dello swing e delle sonorità etniche, per creare composizioni che fondevano melodia partenopea con quelle provenienti dalle suddette sonorità, con ritmi sincopati e veloci. Il risultato erano motivi divertenti e giocosi, vicini a linee melodiche della canzone napoletana classica e della canzone italiana, ma arricchiti da sequenze di note blueseggianti, sincopate, spagnoleggianti e vicine al mondo musicale mediorientale, il tutto sorretto dallo swing e da ritmi internazionali. Il testo ben si amalgamava alla musica, ironico, dissacratorio. Ma Carosone, probabilmente a causa del prematuro ritiro dalle scene del 1960, interrotto alla grande nel 1975, non creò una corrente. Tuttavia, con l’inevitabile ondata di rock, le cose stavano cambiando gradualmente ed anche irreversibilmente. Proprio a partire dalla prima metà degli anni ’70, infatti, nascevano vari tentativi di comporre e cantare in dialetto napoletano, e forse i primi furono gli Osanna, gruppo progressive rock ispirato soprattutto dai King Crimson. Ebbero un bel

successo, sia di pubblico che di critica, e proprio nel loro concept album, il loro lavoro più acclamato, “Palepoli” (che immagina proprio il primo insediamento dei Greci nel territorio che sarebbe stato poi quello di Napoli), in un passo cantano in napoletano. Poi vennero il percussionista Tony Esposito e Tullio de Piscopo, che portarono a Napoli il jazz-rock. Ma il Neapolitan Power fu probabilmente lanciato in modo più effettivo dai Napoli Centrale di James Senese e Franco Del Prete, che dedicarono la loro forza musicale alle creazioni relative a questo stesso genere: basta ascoltare la rabbiosa e ironica Campagna. Dopo i Napoli Centrale lo spirito giovanile partenopeo di fare canzoni è ormai nato: Pino Daniele, Teresa De Sio, Enzo Avitabile, Tullio De Piscopo, i Blue Stuff, etc… nascono e si diffondono canzoni con musiche rock, blues, funky, e spesso degli ibridi tra generi musicali d’oltreoceano, insieme al pop e alla musica leggera, che questa volta hanno una maggiore forza ed efficacia. Si azzarda di più, e la dimostrazione sono canzoni con melodie napoletane che fanno tesoro sia della tradizione classica che di quella popolare, ben più antica, e che si alternano ad altre melodie di estrazione black, tutto sorretto efficacemente dal rock-blues, dal funk, e da altri generi. Un brano espressione tipica di questo spirito, ad esempio, è Ce sta chi ce penza di Pino Daniele, del 1977, in cui c’è una strofa country, molto rabbiosa, un testo ironico e amaro, canzonatorio e disilluso, che tratta dei problemi dei vicoli di Napoli, nell’abbandono quasi totale delle istituzioni, che pensano solo a concedere processioni religiose, come elemento a cui far appigliare le speranze di un popolo stanco e rassegnato, e un ritornello caratterizzato dal canto del mandolino, più melodico e partenopeo, che grida, sarcasticamente, che in fondo Ci sta chi pensa a noi: “E l’America è arrivata / ce ha purtato tanti ccose. / So’ tante anne e tanta storie / e nun se ne va. / S’ha pigliato ‘e meglje poste / ‘e chesta città / mentre nuje ittammo ‘o sanghe / ‘ind’ ‘e quartiere ‘a Sanità. / Ma nun dà retta, ce sta chi ce penza… (E l’America è arrivata / ci ha portato tante cose. / Son tanti anni e tante storie / e non se ne va. / S’è presa i posti migliori / di questa città / mentre noi buttiamo il sangue / nei quartieri alla Sanità. / Ma lascia stare, ci sta chi pensa a noi…) Un altro brano interessante è Habanera di James Senese, dell’ ’83, contenuto nel film con Massimo Troisi “No, grazie, il caffè mi rende nervoso”, un pezzo strumentale con un funk che accompagna, a tratti, una melodia che segue le note della scala napoletana. Ma la maggior parte delle canzoni mostrava questa fusione musicale principalmen-

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te nella capacità di cantare interamente in lingua partenopea su una musica d’oltreoceano, più che nella fusione tra sonorità. Lo stesso canto napoletano, tuttavia, anche quando non è sviluppato su una sequenza di note provenienti dal mondo popolare e della canzone classica, la stessa lingua, presenta delle sue peculiarità, delle caratteristiche che fanno di molte di queste canzoni qualcosa di unico e suggestivo. Nei decenni successivi, poi, alcuni artisti hanno per lo più continuato a cantare in dialetto, ma altri hanno seguito in modo più blando questa via, probabilmente a causa del gusto musicale che era cambiato, e per certi aspetti anche a causa della richiesta di un tipo di canzone che colpisse le fasce d’età adolescenziale che tendevano all’ascolto di una musica più spensierata e dai messaggi più immediati. Tuttavia il Neapolitan Power si evolse, dirigendosi verso il rap, il reggae, il raggamuffin, la musica sperimentale, etnica, elettronica (Bisca, Almamegretta, 99 Posse), poi anche verso il crossover e diversi altri generi (24 Grana). Alcuni di questi artisti, vecchi e nuovi, propongono ancora creazioni interessantissime, accorate, spontanee, che fanno sempre riflettere sulla situazione sociale attuale, sui sentimenti umani, facendo uso di tecniche poetiche, dello spirito proveniente dalla canzone classica oltre che da quella moderna, come gli Almamegretta in Nun te scurda’. E c’è chi, con forza, si libera della rabbia nei confronti delle mafie e dei poteri, occulti e non, che schiavizzano e ingrigiscono la vita quotidiana dei meno abbienti e di una gran parte dei giovani del sud, come gli ‘A67, band rap-crossover, nome che si riferisce a quel campione di orrore edilizio, la cosiddetta 167, grande “alveare” abitativo del quartiere periferico di Secondigliano, che ha ghettizzato tanta gente e favorito la delinquenza e l’abbandono. E c’è chi fa ancora del buon blues e funky, come i Bluesaddiruse, con uno stile originale, ma anche molto avitabiliano. Nell’ultimo decennio, però, sembra che vi sia poco interesse verso questo spirito creativo e compositivo. I giovani cantanti, musicisti e band sembrano non voler cantare più in napoletano. A volte pare che molti giovani, o ragazzi, non sono più capaci di cantarlo, o, peggio ancora, non sono più in grado di distaccare il canto napoletano dall’idea di canzone “neomelodica”, che di “neo” non ha perfettamente niente, in quanto strascico del modo di cantare di cui parlavo all’inizio dell’articolo, quello volutamente triste, patetico, dei tre Mario (Trevi, Da Vinci, Merola), ma questa volta alternato sapientemente dai toni sdolcinati, adolescenziali, che ben si addicono alle canzoni neomelodiche d’amore.

Scarseggiano o sono quasi inesistenti band partenopee nate in quest’ultimo decennio, se non prima, o perlomeno è molto difficile vedere band dialettali diffuse tra un pubblico abbastanza consistente. E se ci si scervella per trovarne la causa, la maggior parte delle strade portano alla maledetta pista neomelodica, spirito musicale che a volte sembra possa meritare solo la denominazione di volgarità, di squallore diventato ormai moderno, espressione di una tendenza relativa all’appiattimento culturale in atto già da tempo a partire dalle fasce adolescenziali, in questo caso quelle che popolano le periferie del Sud Italia, e non solo quelle. Ma molti ragazzi che si avvicinano alla musica in modo un po’ più maturo sembrano anche essere totalmente distaccati, estranei a qualsiasi forma di tradizione, di storia. Sembrano, a volte, vivere in un mondo tutto loro, chiuso, ma che viaggia ciberneticamente verso tendenze, musicali e non solo, condivise dalla maggior parte del mondo occidentale, quindi per nulla tendenti all’originalità. Un mondo che, musicalmente parlando, a volte potremmo definire indie, emo. Ma sicuramente occupa un posto importante, in questo vuoto, la situazione del mercato musicale. L’unica eccezione sembra essere rappresentata dai Foja (in italiano: frenesia, voglia di fare a tutti i costi, l’impossibilità a trattenersi). Un gruppo molto interessante, nato nella primavera del 2006 grazie a Dario Sansone (autore dei testi, voce e chitarra), Ennio Frongillo (chitarra), Giuliano Falcone (basso elettrico), Giovanni Schiattarella (batteria). Nel 2009 pubblicano il primo disco, “Se po’ sbaglia’” (Si può sbagliare), e nel 2011 il disco che li ha portati a un certo successo, “’Na storia nova” (Una storia nuova), che fu accompagnato dalla presentazione del videoclip della canzone ‘O sciore e ‘o viento (Il fiore e il vento), la quale ha rappresentato il loro maggiore veicolo di successo, arrivando ad essere ascoltati anche in diverse parti d’Italia, portandoli a suonare persino a Parigi, in cui hanno avuto una buona risposta dal pubblico francese, dimostrando ancora una volta che la lingua non è mai un vero ostacolo alla sensibilità musicale. E forse rafforzando l’idea, già piuttosto diffusa, che il napoletano e i dialetti in generale posseggano una notevole forza evocativa. Brani caldi, come la stessa voce di Sansone, sonorità moderne pop ma anche vicine alle ballate di tradizione italiana, dal sapore popolare. Linee melodiche suggestive, che creano atmosfere accorate e talvolta, come in ‘O sciore e ‘o viento, anche appassionate e un po’ rabbiose, con uno stile canoro che ricorda a tratti Pino Daniele dei primi anni. Un genere molto vario, che sfocia anche


nel rock puro. I testi evocano immagini poetiche e profonde, anche se espresse in maniera leggera, quasi eterea, apparentemente semplice. Ad esempio, il brano Luna ha un testo molto intimo e metaforico: “Luna, tu nun me faje stasera. / Sulo je nun me firo ‘e sta’. / Guarda ‘sti feneste, ccà nisciuno cchiù ghiesce / p’ ‘a paura ‘e se pute’ ‘ntusseca’. / Siente, pure ll’onne s’annasconneno ‘o scuro / tu cu’ ll’acqua ce putive parla’ / e manco chesto te resta.” (Luna, tu non mi fai – non mi freghi – stasera. / Da solo io non riesco a stare. / Guarda queste finestre, qui nessuno più esce / per la paura di intossicarsi. / Senti, anche le onde si nascondono nel buio / tu con l’acqua potevi parlarci / e neanche questo più ti resta.) Colpisce l’immagine della luna, emblema del romanticismo, che non riesce più a trovare chi l’ascolta, nemmeno più le onde vogliono farsi coccolare da essa, dialogarci come prima. La musica è dolce e un po’ cupa, con toni che creano un’atmosfera sognante, adatta al carattere intimo delle parole. Per fortuna si può trovare in giro qualcosa di quella buona musica partenopea, quella musica sincera, spontanea, caratteristiche che hanno contraddistinto il canto napoletano, da quello antico, classico a quello moderno. Melodie che sembrano fatte apposta per le parole che le riempiono, che già possiedono quella musica, che riescono a dire e creare con poche sillabe.

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JAMES ARTHUR

Di lui, Ne-yo ha detto “canta come se non avesse scelta”. Nicole Sherzinger, leader delle Pussycat Dolls, dice di aver trovato in lui l’ispirazione. Gary Barlow (Take That) ha intimato tutti a non azzardarsi a toccare ciò che fa, perché è dannatamente buono. Vi sto parlando di James Arthur, ultimo vincitore di X-Factor UK, un ventiquattrenne che si è presentato alle audizioni con famiglia al seguito e chitarra acustica sulla spalla. L’aria goffa, il nervosismo visibile non lo rendevano diverso da dozzine di altri aspiranti cantanti. Finché non ha cantato. Chiede timidamente ai giudici di potersi accompagnare con la chitarra, poi presenta la sua versione di una canzone di una dei quattro giudici, Tulisa Contostavlos, intitolata Young. E lascia tutti a bocca aperta. Cresciuto tra le liti di due genitori divorziati che a suo dire non hanno mai avuto un rapporto, creandogli un disagio che si è portato dentro a lungo e che si sente nella sua voce, dice di essere stato un adolescente turbolento, sospeso ed espulso da scuola più volte. Finisce la sua audizione e si ha la sensazione che i giudici non sappiano cosa dire. La giovane pop star Tulisa deve essersi resa conto che la versione acustica di James Arthur è notevolmente migliore della sua. Lo fissa sbalordita e ammette che quella è stata la miglior audizione del giorno. Il ragazzo va avanti con quattro sì ed entra nel team 16-24 guidato da Nicole Sherzinger. James avrebbe potuto vincere dalla prima puntata. Nel sentirlo cantare assieme ai suoi compagni, la sua voce spiccava in maniera netta, facendo sembrare gli altri dei semplici studentelli di canto ancora alla prime armi. Nel sentire gli EP lanciati con la sua band (disponibili sul loro sito o su SoundCloud) sembra folle che una voce del genere si sia dovuta rivolgere ad un talent show per emergere. La band suona un mix di sonorità diverse, dal funk, al blues e la voce di James è il collante perfetto. Fortunatamente la sua partecipazione ci ha permesso di ascoltare delle performance che hanno alzato il livello musicale di un talent-show molto spesso colmo 30

di esibizioni monotone e versioni di canzoni banali e già sentite. Delizia il fortunato pubblico britannico con performance acustiche di grandi successi che riesce a stravolgere completamente, quali Can’t Take My Eyes Off Of You di Frankie Valli, un’incredibile trasformazione del successo del LMFAO I’m Sexy And I Know it. Rischia l’eliminazione e canta Fallin’ di Alicia Keys che gli permette di salvarsi e si esibisce perfino con la sua caposquadra, Nicole Scherzinger in un duetto di Make You Feel My Love di Bob Dylan. L’entusiasmo del suo giudice lascia pensare che fosse lei quella onorata di cantare sul palco con lui. La vittoria è inevitabile, se X-Factor UK non avesse incoronato vincitore quel ragazzo biondo di Middlesbrough ricoperto di tatuaggi, la musica mondiale avrebbe avuto dei seri problemi ed avrebbe tenuto nell’ombra un’artista tra i più meritevoli degli ultimi anni. Il suo singolo Impossible, cover di una canzone di Shontelle, rivela solo una parte del suo straordinario talento. James da il meglio di sé nelle versione acustiche, quelle dove ci sono solo lui e la sua chitarra; è lì che si espone e satura le parole di significato, di emozioni. Quando canta e non ha la chitarra per le mani si afferra spesso il collo della t-shirt, sembra che voglia tirarsela via, come se lo soffocasse. Sembra volersi strappare la pelle, aprirsi in due per far uscire la sua anima che, intrappolata, si fa strada e trova un varco solo attraverso le sue corde vocali. E quella voce che tira fuori, così carica di sofferenza, lacera davvero la pelle di chi l’ascolta e si impossessa dell’anima di chi ama questo genere, rendendo molto difficile cancellare il suo nome dalla testa o da qualsiasi lettore musicale si possieda. James Arthur è una rivelazione che mi auguro trovi il suo spazio nel panorama musicale


mondiale ed anche italiano, ridondante di bravi cantanti, ma di pochi artisti. La musica ha bisogno di talenti del genere, di giovani artisti che non sanno ancora di esserlo, che scrivono canzoni nelle loro camerette e che hanno troppa paura del mondo esterno per provare. Di talenti che cantano perché hanno bisogno di farlo e non per cercare di raggiungere la fama. Il suo nuovo singolo è previsto per maggio, l’album di debutto uscirà invece a giugno. Per chi (come me) non può attendere tanto, potete godere delle sue prodezze sul suo canale YouTube JamesArthurVEVO oppure sul sito jamesarthurband.com.

Autore: Roberta “Romana, classe 1990. Lunatica, fastidiosa e prepotente, un’indole alla Lucy Van Pelt dei Peanuts. Innamorata delle storie in qualsiasi salsa che siano nei libri, nei film o nelle canzoni. Fanciullina senza talento, desiderosa di scovarlo negli altri.

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MARK TREMONTI: LA PERFEZIONE SOTTO LE SPOGLIE DI UN CHITARRISTA.

Autore: Giuseppe Giuseppe Alessandro Esposito alias AyoProject. Chitarrista. Supporter di Mark Tremonti. Passioni: cinema, cucina, fotografia, letteratura, musica e viaggi.

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Mark Tremonti: la perfezione sotto le spoglie di un chitarrista. Per chi non conoscesse Mark Tremonti, è giunta l’ora di scoprire che la perfezione esiste. Nato a Detroit il 18 aprile 1974, Mark Tremonti è il chitarrista di due gruppi rock americani: Creed e Alter Bridge. Il suo amore per la musica si manifesta dall’età di 11 anni, quando acquista la sua prima chitarra e ascolta musica hard rock e metal come i Led Zeppelin, i Celtic Frost, i Metallica, Audley Freed, Stevie Ray Vaughn. Durante la carriera universitaria decide di mettere su una band con l’amico Scott Stapp. È la nascita dei Creed. Dopo aver reclutato Scott Phillips alla batteria e Brian Marshall al basso, pubblicano il primo album: My Own Prison. Il successo di questo album permetto a Mark e ai suoi amici di pubblicare ben otto singoli e tre album vincitori del disco di Platino (My Own Prison – sei volte platino; Human Clay – dieci volte platino e diamante; Weathered – sei volte platino). I Creed, inoltre, hanno all’attivo anche un quarto album: Full Circle. Differente è la nascita degli Alter Bridge che avviene durante la momentanea separazione con i Creed. Il nuovo progetto musicale di Mark vede Myles Kennedy alla voce, Scott Phillips come batterista e Brian Marshall come bassista. Il nome del gruppo deriva dal ponte situato presso la Alter Road, una strada sulla zona di confine tra le città di Detroit e Grosse Pointe, che Mark attraversava quotidianamente da ragazzo. Al momento gli AB hanno all’attivo tre album: One Day Remains, Blackbrid e AB III. Mark ha deciso di dar vita anche a un progetto solista che vede la luce con la pubblicazione dell’album All I Was prodotto da Michael "Elvis" Baskette e pubblicato dall’etichetta Fret12. All I Was, accolto positivamente dalla critica, è caratterizzato da un sound che si allontana dal post-grunge dei Creed e dall’hard rock/alternative metal degli Alter Bridge per derivare dal groove metal e dall’hard rock. Il disco vede anche il debutto di Tremonti come cantante solista, oltre che la parte-cipazione di Eric Friedman (chitarra, basso e seconda voce) e di Garrett Whitlock (batteria), en-trambi ex membri dei Submersed. Il tour di All I Was vede un cambiamento nella formazione al basso: Brian Marshall, divenuto padre (tutti i nostri migliori auguri) è sostituito da Wolfgang Van Halen (figlio di Eddie Van Halen). Per quanto riguarda la strumentazione Mark utilizza chitarre Paul Reed Smith e acustiche Taylor Guitars. PRS vende chitarre firmate Mark Tremonti, come la PRS Signature Mark Tremonti. Per terminare informiamo i lettori che il 4 gennaio 2013, tramite Twitter, Mark pubblica una foto assieme all'amico Myles Kennedy, con la quale annuncia l'inizio dei lavori al quarto album della band, dicendo che negli ultimi mesi del 2013 uscirà il loro nuovo lavoro con annesso tour mondiale, dopo la fine dei tour di All I Was per Mark, e di Apocalyptic Love per Myles. Appena due settimane dopo l'inizio dei lavori Mark, sempre tramite Twitter, annuncia che il lavoro procede molto più velocemente del previsto, e che ben sei tracce sono già a ottimo punto. Si prevede l'uscita del nuovo album in vista dell'estate/autunno 2013. Per il momento non ci resta che attendere ansiosi la pubblicazione di AB IV, come già è stato nominato da tutti i fans. Nel frattempo ringraziamo Mark per tutto. Personalmente vorrei ringraziarlo soprattutto per la sua umiltà, la sua spontaneità, il suo modo di essere… insomma per quelle piccole ma allo stesso tempo grandi caratteristiche che lo rendono vero e unico. Che lo rendono il vero e unico Mark Tremonti. God bless Mark Tremonti! Long live Mark Tremonti! 33


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HIP - HOP:

NUOVO FENOMENO DI MASSA Quello che fino a circa dieci anni fa era visto dai media italiani come una scimmiottata di quello americano, negli ultimi due lustri ha avuto una rivalutazione e una conseguente esplosione che ormai, oltre a ridare fiato al mercato discografico, ha influenzato un' intera generazione. Stiamo parlando dell' Hip Hop, genere, anzi forse meglio dire cultura, che da quando è stata importata dagli Usa nei primi anni novanta, continua a mutare e cambiare pelle in continuazione, caratteristica tipica di ogni arte giovane e prolifica. Quello che sicuramente ha avuto più impatto mediatico tra le sottoculture dell' hip hop è il Rap, il quale assieme al Writing, Djing e al B-boying è componente essenziale. Sono ormai lontani i tempi in cui gli Mc's italiani si ritrovavano nelle Jam-session o si sfidano a colpi di rime nel freestyle, per poi incidere i primi “tape” su cassetta, unico mezzo e supporto per farsi conoscere ad appassionati di una nicchia orgogliosa del proprio essere alternativa. Ora, anche grazie al massiccio sviluppo di internet, ogni Rapper o DJ può mettere in rete il proprio prodotto, saltando l'intermediario delle case discografiche e, attraverso un semplice “play”, ogni ascoltatore può fruire singoli o addirittura album rilasciati in free download dagli stessi artisti, senza mediazioni o compromessi richiesti dal mercato. Il periodo che stiamo vivendo attualmente si potrebbe definire come aureo per l' hip hop in Italia, giunto con colpevole ritardo su giornali, Tv e radio, forse perchè scomodo o, facendo autocritica, forse perchè troppo orgoglioso di essere fuori dalle logiche di una musica o cultura commerciale. Fu nel 2004 quando le case discografiche cominciarono con Caparezza ad investire sul Rap made in Italy , giungendo poi con Fabri Fibra ad uno sfruttamento massiccio del fenomeno. Il Rap, almeno in Italia, In questi ultimi anni – dati alla mano – è uno dei pochi generi musicali in grado di rivitalizzare un mercato sempre più

Autore: Alessio Alessio aka Aliu per gli amici con il cervello bruciato. E’ uno studente di Lettere Moderne alla Statale di Milano più o meno vicino a pensionamento. Perennemente in cerca di solitudine, rifugge la vita mondana e le persone troppo estroverse. Innamorato geloso dell’ Hip Hop italiano, divoratore semi professionista di SerieTV, come ogni Italiano medio ama stare sul divano davanti ad una bella partita di calcio, una gara di MotoGp o alla PlayStation. Più che sognatore fallito si definisce realista depresso. Qualità maggiore: genersono fino allo sfinimento. Difetto più grande: ne devo mettere solo uno vero?

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depresso e in perenne declino, sia per l'avvento del P2P, sia per la modesta qualità dei cantanti pop – genere trainante nelle vendite discografiche- che, nell'arco di un biennio, come vere e proprie meteore raggiungono la notorietà per poi sparire nell'anonimato. E' significativo in questo senso il dilagare dei Talent-show, una vera e propria rovina per il concetto stesso di musica come forma artistica, ma fondamentale per l'etichette discografiche che, attraverso la creazione empatica avvenuta per mezzo della tv con il proprio pubblico, fanno a gara per accaparrarsi il vincitore, il quale nel breve periodo produce album sulla scia del successo televisivo, risollevando le vendite e i bilanci del mercato del CD come supporto fisico. Ecco quindi che il Rap è terreno ancora vergine sul quale poter investire, innovativo e coinvolgente per un pubblico adolescenziale. Un oggetto che esso stesso si è aperto al consumo di massa e alla commercializzazione, ma che carsicamente continua a portare avanti e riscuotere successo nell'ambiente underground, ossia il mondo lontano dai riflettori dove l'hip hop è nato e cresciuto. Giungere in TV, depauperando così il proprio essere con caratteristiche e peculiarità, è fonte di un dibattito e di una spaccatura all'interno della stessa cultura, che dà sfogo a varie e spesso contrastanti discussioni. C'è chi, cresciuto negli anni novanta, vorrebbe un ritorno alle originarie vesti del Rap, con i propri messaggi sociali da veicolare nei testi e una propria autonomia dal mercato; chi invece, cresciuto negli anni duemila, è aperto allo sperimentalismo di artisti come per esempio Bassi Maestro, Salmo, Noyz Narcos e chi, come quest'ultima generazione di adolescenti, vede nel Rap Mainstream la vera identità di questa musica e idolatra artisti come il già citato Fabri Fibra, Club Dogo, Fedez ed Emis Killa . Per dare un'idea di quello che è l'espansione dell' Hip Hop commercializzato, o meglio Hip PoP, non c'è soluzione migliore che dare un'occhiata ai numeri: artisti come Fedez per esempio, arrivano anche a sfondare le 7Milioni di views su youtube (indice abbastanza veritiero della popolarità presso il pubblico); i Club Dogo, con un glorioso passato nell'undergorund, si aggirano sulle 3Mln di views, con punte di 6Mln per il video “Brucia ancora” con il feat. Di J Ax e ben 12Mln per il tormentone dell'estate 2012, “PES”. Chi invece è fuori da ogni classifica per indice di popolarità è sicuramente Fabri Fibra, i cui video si aggirano su una media di 7Mln di views, ma con punte, come la celeberrima “Tranne Te”, di 25 Mln . Per rendersi conto di quanto l' Hip Hop stia

dilagando in TV, radio e giornali, basta fare un rapido confronto con artisti prettamente pop come ad esempio i Modà, Marco Mengoni ed Emma Marrone. Tra questi tre artisti del momento, i Modà sono quelli con un pubblico sicuramente più ampio in quanto in ben tre video diversi hanno sfondato quota 10Mln di visualizzazioni e con il videoclip ufficiale “Sono già solo” oltre le 19 Mln. Marco Mengoni ed Emma Marrone in quanto a views di Youtube sono un gradino sotto, non solo a Fibra e i Modà, ma anche ai rapper nostrani, in quanto hanno una media di circa 4 Mln e con


punte di massimo 9Mln, nonostante su facebook poi la situazione si ridefinisca con la salentina, Fabri Fibra e i Modà a contendersi lo scettro dei più seguiti, con circa un milione e cinquecentomila “followers”. Come spesso accade, una ricezione massiccia da parte del pubblico non vuol dire una maggiore qualità musicale ( cosa nota come del resto in tutte le espressioni artistiche), ma un maggiore adattamento ai canoni stilistici e formali di cui il pubblico ha aspettativa e spesso coincidente con un minore valore semantico nei testi, i quali veicolano non sempre messaggi di denuncia, d'introspezione o critica, ma quello di cui il pubblico è abituato a sentir cantare; insomma i soliti ben noti clichè : amore, amicizia, valori morali. Quando si pensa al Rap ci si aggancia mentalmente allo stereotipo di violenza, droga, strade, in derivazione dalle immagini pervenuteci dall'America e di cui qualche artista nostrano se ne fa portavoce. In realtà è una forma d'arte musicale che racchiude dentro se stessa un messaggio di critica e denuncia. Funge da sfogo nei confronti di una società USA e getta, nel quale anche la musica viene fruita e buttata nel cestino dopo poco tempo, perchè è il mercato che t'impone quello che devi ascoltare e quello che devi comprare. L'Hip Hop è sempre stato, almeno in Italia, fuori da questa logica, coerente con la propria identità, ma l'interesse mediatico per questo genere che da noi è visto ancora come sperimentale e la conseguente addomesticazione, hanno poratato questa musica sempre più vicina al pop e alla logica consumistica che ne deriva, con conseguenze anche su un pubblico ormai eterogeneo e non tecnico, senza pretese o aspettative artistiche. Ciò che però è lecito domandarsi a questo punto, è se questa commercializzazione farà bene a questo genere o se sarà solo l'inzio della fine. Potrà essere interessante vedere se nei prossimi anni sarà ancora il mercato a portare l'Hip Hop presso il pubblico facendolo diventare Hip Pop, oppure se sarà il pubblico ad avvicinarsi a questa cultura nella sua veste più originale. Se questo fosse il caso, allora ben venga la musica Rap-Pop, che si diffonda il più possibile, ma che poi gli ascoltatori decidano di mettersi in proprio e capire qual'è il vero significato e di non aspettare che qualcuno dall'alto imponga loro quello che devono ascoltare, ma che essi, maturati musicalmente e culturalmente, vadano a ricercare quello che fa al caso loro, contribuendo in maniera indelebile allo sviluppo di questa cultura che per troppo tempo è rimasta chiusa nella propria nicchia. 37


Autore: Elisabeth Elisabeth Hair Stylist dalla mente contorta e insana. Amore folle per gatti e felini, scrittrice notturna incompresa. Appassionata di letteratura inglese e poesia, vive in un universo parallelo con la dedizione per la moda in tutte le sue forme.

http://insaname.blogspot.it/

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Al centro della moda e della musica. Comode, in gomma e perfette per stupire. Sneakers, scarpe da ginnastica, trainer o basket, nomi diversi che accumunano un unico genere dalla suola di gomma. Chiunque di noi ne ha posseduto almeno un paio nell'armadio. In grado di mettere d'accordo genitori e figli, manager e metrosexual, artisti e fashion victim. Oggi le sneakers sono sempre più un fatto di moda, prodotte anche dai più famosi stilisti e indossate anche in occasioni eleganti, valorizzano qualsiasi look. Si può essere glamour senza spendere cifre esorbitanti, indossare queste icone del tempo libero soprattutto tra i più giovani, definisce l'appartenenza ad uno style più urbano. Ma le origini e le evoluzioni delle sneakers sono molto datate nel tempo, basti pensare che la prima calzatura sportiva risale al Sudamerica XVI secolo, epoca di conquiste e colonizzazioni. Svariate ricerche associano per primi gli indiani, che avevano la strana abitudine di spalmarsi il lattice raccolto sugli alberi da caucciù sulla pianta del piede per proteggerla e isolarla. Solo più tardi, attorno al XIX secolo, l'uso del caucciù fu abbinato alla produzione di scarpe in feltro e in seguito sciolto in stampi d'argilla dandogli una forma, completando l'opera. Nel 1825 fu un negoziante di ferramenta americano, Charles Goodyear, che perfezionò il processo di vulcanizzazione e permise la fabbricazione in serie delle suole di caucciù. Usate da pochi privilegiati che praticavano tennis e croquet, le scarpe sportive ebbero la loro prima grossa diffusione in concomitanza con le Olimpiadi di Atene del 1896. Le Olimpiadi delle edizioni successive ed i mondiali di calcio furono il vero trampolino di lancio di gran parte delle scarpe sportive. Successivamente nel 1917 Marquis Converse produce le prime calzature esclusivamente per il basket: le Converse All Star. In seguito divenute simbolo della city, amate da tutti e in svariati colori e stampi, modelli personalizzabili dal vintage a quelle più accattivanti, s'inseriscono nella cultura giovanile trasformando la moda in una personale carta d'identità. Un marchio che non ha mai sentito la crisi del tempo.


Esplode la moda delle “3 righe” del marchio, che diventano subito iconiche e in seguito poi stampate anche su abbigliamento sportivo. I modelli storici Adidas sono sempre più in voga, grazie alla voglia di vintage dei consumatori e, nel catalogo della casa tedesca, resistono modelli come Campus, Super Star e Samba che hanno fatto la storia per decenni, con fantasie e colori differenti. Lo stilista quarantacinquenne Ralf Simons ha fatto salire in passerella alla Paris Fashion Week la sua collezione Uomo Autunno/Inverno 2013/2014, una collezione in limited edition di sneakers maschili, che esordiranno sul mercato il prossimo luglio 2013, reinterpretando il classico in chiave contemporanea utilizzando il colore, con rosa e verdi brillanti usati in contrasto col nero. Sugli scaffali dei negozi sportivi spiccano come marchio di moda e stile, cavalcando anche le passerelle dei più importanti stilisti come Junya Watanabe (progettista giapponese e punta di diamante della moda concettuale) che firma in limited edition sei diverse versioni di Converse modello Chuck Taylor.

Negli anni Cinquanta nasce la Puma creata dal fratello di Adì Dassler. Le scarpe sportive cominciano a essere indossate anche nel tempo libero da personaggi dello spettacolo, come James Dean nel film "Rebel Without A Cause", istituendo così il trend casual. Siamo negli anni Settanta e nasce un marchio che diventerà un colosso mondiale, la Nike. Incentra il suo marchio sul basket, pubblicizzandosi con i giocatori della NBA che ne fanno una sorta di culto. Il sistema di ammortizzazione inventato da Nike -"Nike Air" – diviene una rivoluzione nel mondo del running e non solo, anche nel Negli anni venti Adì Dassler fonda in Germania il marchio Adi- vera das. Le Adidas divengono uno dei modelli di calzature sportive tennis e negli sport con la tavola. più famosi a livello mondiale.

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Il primo modello di Air Jordan viene vietato dalla NBA, tanto Tutine, fascia, scaldamuscoli e le famosissime La Gear, scarpe che il marchio Nike è costretto a far uscire un modello con gli simbolo del decennio. inserti bianchi. Successivamente escono le Air Jordan II, più stilizzate rispetto alla prima serie e senza lo "swoosh" e le Air Jordan III che vedono per la prima volta l'apparizione del marchio che riproduce Michael Jordan stilizzato, mentre sta per schiacciare. Accompagnerà tutte le successive produzioni a suo nome. Il quarto e quinto modello delle Air Jordan segnano l'apice del successo, ambedue vendutissime vanno esaurite alla loro apparizione nei negozi. I successivi modelli di scarpe Nike Air Jordan sono apprezzate per l'estrosità del design e le innovazioni tecnologiche in esse contenute. Tutt'oggi il mito di Michael Jordan e delle "sue scarpe" è ancora vivo.

Oggi le sneakers sono molto di più di un semplice paio di scarpe: sono contenitori di un modo d’essere, espressione di uno stile di vita.

La musica.

Gli anni Ottanta si tingono di rosa, con la nascita del marchio per eccellenza dell'aerobica femminile, Reebok. Le sneakers hanno avuto anche una grande influenza sugli stili musicali. Per il punk le scarpe da ginnastica – rigorosamente nere – sono state un vero e proprio must.

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Furono sfoggiate da gruppi come punk come i Ramones e i Sex Pistols. Diverso per l’hip hop, che delle sneakers ha fatto le sue scarpe simbolo, considerando le scarpe di gomma una vera e propria parte integrante della propria cultura musicale. Elogiate anche nei loro versi in canzoni come in “Sneakers” di Raekwon, “Read These Nikes” dei The Geto Boys e “6 N’ The Mornin’ ” di Ice-T. Il gruppo Run Dmc ne ha fatto una ragione di vita, con la canzone "My Adidas" e un business, con la serie editata per loro.

Da noi invece Gaber ironico, cantava: "Le scarpette da ginnastica o da tennis hanno ancora un gusto un po' di destra, ma portarle tutte sporche e un po' slacciate è da scemi più che di sinistra."

Oggi i rapper sono stilisti di se stessi, disegnano abbigliamento comodo e sportivo e i vari brand fanno a gara per acquistare, collaborare e personalizzare pubblicizzandosi attraverso video, spot e red carpet. Come Kanie West che ha disegnato un modello per Nike, episo- Che siano citate in versi o che cavalchino le passerelle, le snedio che ha fatto registrare delle vere e proprie scene di follia akers hanno quel gusto un po' retrò dettato dal tempo, ma che collettiva: centinaia di persone in giro per gli Stati Uniti si sono non passerà mai di moda. appostate fuori dai negozi per riuscire ad aggiudicarsene un paio.

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Intervista

Intervista a . . . - un vaso di Pandora Noiosa e contraddittoria, non apprezza quello che ha e vede il bicchiere mezzo vuoto. Quello che le piace fare è leggere, è l'unico modo per isolarsi… oltre la musica. Però la musica rimane un "impiega-tempo", non è la sua passione. Adora tutto quello che può essere definito macabro e il suo migliore amico è lo scheletro dell'aula di scienze a scuola (le mancherà </3). È molto sedentaria (nonostante si lamenti del suo fisico) e molto pigra.. Insomma, è un vaso di Pandora.

1) Come mai hai cambiato il tuo nickname con uno laconico e reticente?. Il mio nickname non ha un significato vero e proprio. Partendo dal presupposto che il nickname dovrebbe rappresentarmi, i puntini di sospensione sono per me un ritratto del mio essere. Perché l’ho scelto? semplicemente non avevo idee in quel momento e l’unica cosa che mi è passato in mente sono tre puntini. Non necessariamente dietro ad una scelta ci deve essere una motivazione. Quello scritto sopra è una pezza a colori.

2) Cosa fai in OUReview? Sostanzialmente nulla… per il resto cleanero nello scan, sono una divah (e non è poco u_u) e mi attivo nell’area commenti e graphic. Adoro commentare quello che vedo e se il forum mi dà questo spazio lo sfrutto molto volentieri. Non è mai un peso aprire discussioni su un film e vedere che altre persone l’hanno visto e la pensano esattamente all’opposto di te è bellissimo.

3) Hai la media di 15 messaggi al giorno. Cosa hai trovato in questo forum?

Autore: Galdo Marco aka Galdo, del clan Esposito. Convinto assertore della diceria secondo la quale “Un animo nobile titaneggia nel più piccolo degli uomini” (Jebediah Springfield), intervista cani e porci. Architetto abusivo, studente paranoico, baseball player, alfiere della fratellanza, esecratore dell’arroganza.

http://galdo81.tumblr.com

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In questo forum ho trovato tante intelligenze che mi tengono compagnia quando decido di chiudere un libro. Tante persone con cui scambiare punti di vista e che si sono dimostrate più interessanti di tante persone che ho conosciuto nella vita fino ad ora. Diciamo che sul forum sto da poco… ma è bastato. Ho tanta esperienza forumistica, e ho sempre dato importanza non tanto al tema del forum, ma ai soggetti iscritti in esso. Ed è uno spettacolo meraviglioso, meglio dei topolini della SkinnerBox. Per il resto, questo forum ti permette di esprimere tutto quello che sai su tanti argomenti, è così vario che soddisfi la tua voglia di far polemica subito subito. E io vivo di polemica.

4) Descriviti con quattro aggettivi. No. Cadrei nel banale. Una persona non può descriversi in 4 aggettivi a meno che essi non siano i giudizi delle persone che la conoscono. Non mi conosco. Non ho 4 aggettivi per descrivermi, ne ho quanti il vocabolario italiano ne contiene. Ai posteri l’ardua sentenza.


5) Una parola che andrebbe cancellata per il bene dell’umanità? Amore. Parola usata impunemente e che andrebbe eliminata. Al suo posto la parola Bene basta e avanza.

6) In chi/cosa credi? Oh, difficile. Cambio spesso idea, quindi mettere un punto così fermo mi è difficile. Potrei dire di non credere in Dio, di essere seguace di Marx (ma non di Lenin, ci tengo a precisarlo), di credere che la vita oscilli tra noia e dolore (Shop rulez). O direttamente dire che non credo in nulla che non sia dimostrabile scientificamente. Credo in Paris Hilton che ha capito tutto della vita.

7) Se dico musica tu cosa rispondi? Passatempo da sparare a palla tanto da disturbare il vicinato. Fare ascoltare una canzone dei Cannibal Corpse ad una suora, questo per me è la musica.

8) Quale tasto premi per scoprire nuova musica? Quello di accensione del pc. Sicuramente un ventaglio di scelte più ampio rispetto ad altri canali.

9) La musica può farti cambiare stato d’animo? Sì, ma la maggior parte delle volte rincara lo stato d’animo che ho. Diciamo che il problema sono anche io: se sono triste ascolto canzoni strappa-lacrime e se sono felice ascolto canzoni allegre tanto da rompere i timpani (:

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Try anything twice di El_maxo Pronto. Pronto come non lo sarebbe mai stato. E sicuro. Sicuro e pronto come non lo sarebbe mai stato. Eppure il coraggio continuava a mancare, ma la sicurezza e l'attenzione ai dettagli di certo avrebbero sopperito a questa mancanza. Un piano ben congegnato non necessita di coraggio per essere realizzato. Serve solo un briciolo di verve all'avvio. Una minuscola scintilla incipitale, e paglia e benzina si scateneranno. E lui era certo d'aver bagnato la paglia con la benzina. L'ho detto che era pronto e sicuro, no? Quel briciolo di coraggio ce l'aveva! Doveva avercelo. Altrimenti non se lo sarebbe mai perdonato. Maglietta e pantaloni scelti con cura. Ovvio, Lei gli aveva consigliato di comprarli. Terribile cosa fare l'amico, ma è un dolore che si sopporta per un fine più alto. "Scimmie spaziali, pronte a sacrificarsi per un bene superiore" disse un tale. Bé, quel tale aveva le sue buone ragioni per dirlo. Ma, di sicuro non era lui la scimmia. E, ancor più sicuro, non aveva mai fatto l'amico. Mentre i suoi pensieri rimestavano su quel tale s'accorse d'essersi già infilato le scarpe. Un'ottima scelta d'accostamento cromatico. Se ne compiacque. La meticolosità nei dettagli rende sempre più pronti. Pronto. Un regalino per Lei. Cd di Bruno Mars. A Lei piaceva tanto quello scimmiotto. Per cui si chiese come mai non ce ne fosse una versione peluche. Chissà, forse piaceva ad un target più alto d'età. Una tipologia di bambina che voleva qualcosa di più che strapazzarsi quel mulatto coccoloso. E nella sua mente prese forma una straordinaria idea di marketing, in cui centinaia di peluche attrezzati e con le sembianze di Bruno Mars invadevano ogni angolo del mondo, e arricchivano lui. Un sogghigno. 44

Ed un sospiro. Non esistevano ancora. Ma aveva il suo cd. A Lei piaceva. E doveva piacere anche a lui. Non foss'altro che Lei l'aveva costretto ad ascoltarlo fino allo sfinimento. Un dolore letale paragonabile ad una lama nel petto, mentre un gallo, con una maglia dei Led Zeppelin cantava tre volte Whole Lotta Love con una nota di tradimento nella distorsione della chitarra… probabilmente la immaginava soltanto però… Mazzo di rose, i fiori preferiti di Lei. Quante volte, ascoltando lo scimmiotto, Lei gli aveva confidato che sarebbe esplosa di gioia se qualcuno le avesse fatto un regalo accompagnandolo con un mazzo di rose confessandole i suoi sentimenti. E lui ora era pronto. Regalo giusto, fiori giusti, look giusto. Pronto. Pronto come non lo sarebbe mai stato. E sicuro. Sicuro? Sicuro lo era. Non come se non potesse esserlo di più, ma lo era. Lo avvertiva. Tipo l'allucinazione del gallo rockettaro, meno divertente e più intima. In un certo senso più familiare. Frequentavano la stessa classe. Sin da piccoli. E abitavano vicini. I loro genitori si conoscevano. Certo, crescendo s'erano un tantino persi di vista. Lei tornava a casa, da scuola, scortata dal suo ragazzo. Lui scortato dalla sua ombra. Una compagnia, a suo dire, migliore… Poi s'erano mollati, e lui si vedeva con un altra. Avevano ricominciato a fare la strada insieme. All'inizio quasi per errore, poi per consuetudine. Dopo un po’ con piacere. Come ne era sicuro? Lei rideva. Era felice. E se era felice doveva essere un piacere per lei, no?


La aiutava a fare i compiti. Addirittura a casa sua. E lei ne era felice. Rideva. E, se rideva, non poteva che essere un piacere. Aveva piacere, delle sua compagnia. Ma aiutarla nei compiti era un escamotage, un trucco. Per avvicinarla. Parlavano, e ridevano. Pomeriggi trascorsi insieme. A confidarsi. E, se si confidava, era felice. E se era felice aveva piacere della sua compagnia. E, se…? Alcun se. Nessun se. I se, in lui, erano diventati si. Quanta differenza fa un segno così piccolo! Uscito di casa s'incammina. Pronto. Pronto come non lo sarebbe mai stato. E sicuro. Sicuro e pronto come non lo sarebbe mai stato. Attraversa la strada e s'impone di racimolare il coraggio. Deve solo dare un colpetto a quella porta. Poi il coraggio sarebbe diventato inutile. Bastava un solo toc e tutto sarebbe andato per il verso che il destino aveva stabilito. Aveva anche il coraggio di accettare un rifiuto sprezzante e ridicolo. Doveva solo racimolare il coraggio per un toc toc. Ma anche un misero toc sarebbe bastato. Pochi passi e l'ombra della casa di Lei lo sormonta. Era più scura di quanto potesse immaginare. Si stagliava netta contro il prato di Lei disegnando un alone di paura e vergogna. Quel candido prato, mischiato all'ombra diventa un coacervo magmatico di fango e colla. L'incedere si fa cauto, poi lento. Al fine doloroso. Come camminare con una gravità quadruplicata. La schiena si inarca. Suda dallo sforzo. I piedi sono macigni riluttanti. Sembrano due visi sgradevoli che osservano le sue gambe farsi stanche e scoprirsi impotenti. Ma non teme. Non esita. Se è l'amore a spingerlo, questo dev'essere potente, ve lo dico io! Prosegue. Tre gradini e la sua porta. Tutto qui. Ecco quel che manca. Impone al suo piede d'assecondarlo, di posarsi sul primo gradino. Poi sul secondo, e infine sul terzo. In un tempo infinitesimamente enorme s'è consumato il travaglio d'un uomo che assurge al rango d'eroe. Mai, a memoria d'uomo, fatica tale, sforzo tale, fisico ed emotivo, è stato compiuto. Giunge al traguardo. Alza il braccio, lo avvicina alla porta, inarca le dita per rivolgere le nocche al legno. Flette il polso.

Chiude gli occhi e inspira profondamente. Un lunghissima sorsata d'aria per ravvivare la scintilla di coraggio. Espira, getta i suoi regali per aria, si volta e fugge. Via, rapido, come l'aria. È assurdo quanto tempo c'abbia messo, e quanta fatica gli sia costato percorrere quel vialetto, ed ora, nel senso opposto, sembrava filare come il vento sul ghiaccio. Senza attrito, senza difficoltà. Una scheggia. Come la scheggia che si è staccata da lui e lui ha lasciato lì, assieme ai regali con quel briciolo di dignità che credeva di possedere. Si dice che il giorno dopo abbia saputo che Lei s'era rimessa con suo ex. L'ha conquistata con un cd di Bruno Mars ed un mazzo di rose fresche. Un po’ ammaccate, ma da uno così, un gesto del genere è un miracolo. Si dice anche che Lui sia stato scaricato dalla seconda ragazza, per questo è tornato dalla prima. Un "si dice" che Lui è disposto a lavare nel sangue di chi lo profferisce. Lui disse a Lei, questo è certo, che l'aveva lasciata per Lei. E, con un paio di ambasciatori incartati, l'amore è risorto e tutto è sistemato. Si dice, poi, che lui, mensilmente, di notte, vestito allo stesso modo, ripercorra quel vialetto, fletta il polso, s'intontisca d'aria e fugga via. Secondo alcuni per rimediare al suo lassismo, secondo altri per ritrovare quella scheggia di dignità che ha lasciato assieme ai regali. Secondo me dovresti appostarti davanti alla porta di Lei, ben celato, e coglierlo di sorpresa. Potresti chiederlo direttamente all'interessato. Se poi questa storia non ti piace scegline un'altra. Mai sia che tu debba ripetere più volte la stessa cosa per un briciolo di dignità. Non hai alibi, soprattutto con te stesso.

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Quelli che non vengono dimenticati Jannacci, classe '35, si spegne a settantasette anni il 29 marzo, consumato da una lunga malattia. Ricordarlo così sarebbe un insulto non alla sua memoria ma alla sua vita. Cardiologo, studia negli U.S.A. ed in Sudafrica con Christiaan Barnard, torna a Milano e, oltre alla carriera ospedaliera, apre una clinica privata per cure all'avanguardia dedicate a chi non può permettersele. Più conosciuto per la sua carriera televisiva, ad alti e bassi. Il tormentone Vengo anch'io, divertente, orecchiabile ma poco compreso, s'esaurisce quasi subito, riservandoli un posto nella memoria collettiva ma non l'effettivo successo meritato. Irriverente, sognatore e appassionato di rock and roll, con Gaber e Celentano è uno dei pionieri della diffusione di questo genere in Italia apportandovi sensibili correzioni verso il satirico e l'onirico. Semplice nella scelta dei termini ma carico di significato, capace di far riflettere con un perenne sorriso, questo era ed è ancora Enzo Jannacci. Per cui, senza ledere alla memoria di quest'artista, possiamo salutarlo con un Vengo anch'io? No, tu no. Bé, senza offesa, per 'sta volta è meglio così. Buon viaggio Enzo.

Er Califfo, poesia e sregolatezza. Er Califfo, all'anagrafe Franco Califano (14 settembre 1938) ci lascia il 30 merzo di quest'anno. Lunga vita, ed invidiabile, quella del Califfo, tra processi giudiziari (come l'emblematico caso che vede coinvolto anche Enzo Tortora, spregevole esempio di mala giustizia) e successive detenzioni ed assoluzioni, donne, alcool e droga Califano nasconde e coltiva un animo poetico, capace di distinguersi nella composizione di versi donati alla musica pop. Perché non sempre quel che è commerciale per larga diffusione cela, col successo ed i lustrini, una pochezza di fondo. Infatti, rileggendo i brani composti (cantati e non) da quest'artista, possiamo scoprire dolcezza, dolore, autocommiserazione e speranza a servizio anche del banale e quotidiano, come l'esperienza dell'amore, o del carcere, o della solitudine. Califano era un paroliere unico, che congiungeva in sé l'esperienza del vissuto e l'attenzione nel cantarlo. Questo è ciò che ci mancherà di quest'artista. Questo e la sua disarmante sincerità, capace di scandalizzare non per volgarità ma per coraggio e mancanza di obblighi o vincoli alla menzogna. Ciao a'Calì, dinne quattro a chi ti si parerà davanti. E, se non ci sarà nessuno, meglio per lui. 46


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Autore: H Alessio, conosciuto nei testi sacri come Hyena, fin da bambino si cimenta in varie discipline che l’hanno portato ad essere un profeta, uno scrittore, un doppiatore, un musicita, un compositore, un dj, un filosofo, un animatore, una guida turistica, un attore, nonchè PR. Normale essere umano nel tempo libero.



Autore: H Alessio, conosciuto nei testi sacri come Hyena, fin da bambino si cimenta in varie discipline che l’hanno portato ad essere un profeta, uno scrittore, un doppiatore, un musicita, un compositore, un dj, un filosofo, un animatore, una guida turistica, un attore, nonchè PR. Normale essere umano nel tempo libero.


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