Il Giornale dei Biologi - N.3 - Marzo 2023

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Giornale dei Biologi

Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132

Marzo 2023 Anno VI - N. 3

ELETTO IL COMITATO CENTRALE DELLA FNOB PRESIDENTE, VINCENZO D’ANNA www.fnob.it

AUTO ELETTRICA TRA CERTEZZE E INCOGNITE

Tutto sul sistema di mobilità a zero emissioni Le posizioni dell’Ue e del Governo italiano


L’ONB si è trasformato

Sono stati costituiti la FNOB e gli Ordini Regionali dei Biologi*

Calabria Campania-Molise Emilia Romagna-Marche Lazio-Abruzzo Lombardia Piemonte-Liguria-Valle D’Aosta Puglia-Basilicata Sardegna Sicilia Toscana-Umbria Veneto-Friuli Venezia Giulia-Trentino Alto Adige *

Tutte le informazioni su www.fnob.it


Sommario

EDITORIALE 3

Ripartiamo di Vincenzo D’Anna

FNOB 6

Nuove cariche per la Federazione dei Biologi: il presidente è Vincenzo D’Anna

PRIMO PIANO 8

Auto elettriche: incognita o grande opportunità? di Rino Dazzo

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Alla ricerca delle colonnine di ricarica di Rino Dazzo

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Posizione dell’Italia e politiche europee di Rino Dazzo

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L’armatura delle cellule contro la leucemia mieloide acuta di Elisabetta Gramolini

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Ecco cosa rende la malaria un nemico così astuto di Sara Bovio

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In soccorso del recettore che si comporta come Pacman nel fagocitare il colesterolo di Elisabetta Gramolini

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Il batterio Shigella è resistente agli antibiotici Allarme negli Stati Uniti di Domenico Esposito

28

Trichinellosi in Italia. Cosa bisogna sapere sulla malattia da carne cruda di Domenico Esposito

30

Occhi specchio di anima e salute di Domenico Esposito

31

Eritritolo: quali sono i danni per il cuore di Domenico Esposito

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La correlazione tra bevande zuccherate e caduta dei capelli negli uomini Biancamaria Mancini

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Cosmetici per seborrea e acne. Un passo avanti per la cura della pellel’invecchiamento Carla Cimmino

INTERVISTE 14

Osteosarcoma: individuata proteina responsabile della instabilità genomica di Ester Trevisan

16

Dermatite atopica: ecco come i biologici hanno cambiato la vita dei pazienti di Elisabetta Gramolini

SALUTE 18

Cancro: il marcatore che indica quando le cellule si preparano a metastatizzare di Sara Bovio

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C


Sommario

AMBIENTE 38

I segreti delle funzioni cerebrali delle api che ne determinano il comportamento di Elisabetta Gramolini

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Benefici per produttività e ambiente Lo smart working abbassa le emissioni di Gianpaolo Palazzo

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Platani, olmi e querce per migliorare la qualità dell’aria nelle città di Gianpaolo Palazzo

Atletica, Italia regina d’Europa indoor a Istanbul di Antonino Palumbo

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Acque poco limpide? Un laser scopre se ci sono sostanze inquinantinelle aree urbane 66 di Gianpaolo Palazzo

Marcin Olevsky senza un arto inferiore realizza il “gol dell’anno” di Antonino Palumbo

48

David Davidovich Piriulin, il biologo russo che a metà del ’900 studiò il lago Aral di Giuliano Russini

INNOVAZIONE 52

Un fascio di luce per la lotta ai tumori di Pasquale Santilio

53

Il rumore ferroviario ci fa ammalare di Pasquale Santilio

54

Fotopolimeri per sistemi ottici smart di Pasquale Santilio

55

5G, un progetto per impatti sulla salute di Pasquale Santilio

BENI CULTURALI 56

D

Kainua, l’antica colonia etrusca in Emilia rinasce attraverso un videogame di Rino Dazzo Giornale dei Biologi | Mar 2023

SPORT

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Snow volley, passione in ogni contesto di Antonino Palumbo Intini vola su un tapis roulant di Antonino Palumbo

LIBRI 68

Rubrica letteraria

LAVORO 70

Concorsi pubblici per Biologi

SCIENZE 72

La selezione sessuale: un concetto base della biologia evoluzionistica di Simone Ciaralli

76

Appropriatezza in medicina di laboratorio Le malattie autoimmuni di Maria Cristina Sacchi

82

Una rilettura ecologica del secolo XX (parte III) di Antonella Pannocchia


Editoriale

Ripartiamo di Vincenzo D’Anna Presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi

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zione dei Direttivi Regionali entili colleghi, con l’elezione del degli undici Ordini territoriali Comitato Centrale e quello della neonata Federae l’individuazione zione Nazionale (FNOB). delle cariche statutarie, si è fi- Ora, sulla falsariga del prenalmente conclusa la comples- cedente quinquennio, bisogna riprendere tutte le sa fase di deceniniziative per comtramento politico Si è finalmente conclusa pletare quel che aned amministrativo la complessa fase di decentramento cora è rimasto da dell’Ente di rapprepolitico ed fare e, nel contemsentanza dei Biologi amministrativo dell’Ente po, intraprendere italiani prevista daldi rappresentanza nuove e significatila legge. dei Biologi ve iniziative. Si è, di fatto, portato a compimento un iter de- L’appello che rivolgo a Voi mocratico che ha coinvolto ol- tutti è, pertanto, quello di tetre ventimila colleghi i quali, nervi informati sulle vicende nelle varie fasi elettorali, han- dell’Ordine professionale atno liberamente espresso, con traverso l’utilizzo e la consulil proprio voto, la configura- tazione dei vari canali d’inforGiornale dei Biologi | Mar 2023

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Editoriale

mazione oltre all’affidamento sun risultato sarà accettabile ai servizi e alle opportunità senza che ciascun iscritto lo reformative e occupazionali che cepisca e ne tragga giovamento. saranno ben presto rese a vo- Per quanto mi riguarda ringrazio tutti per lo sforzo compiuto. stra disposizione. L’augurio che vi rivolgo, inve- Uno sforzo teso ad avviare una ce, è che possiate trarne bene- nuova, storica, fase di radicale fici in termini di opportunità e cambiamento, qualunque sia stata la volontà democratidi consapevolezza. camente espressa. Dobbiamo, infatti, Nessuno sforzo avrà Abbiamo le potenrecuperare l’attencompimento senza la partecipazione dei zialità per fare mezione dei tanti che glio e di più di quelancora sono lonta- biologi. Nessun risultato sarà accettabile senza che lo già realizzato per i ni dalla vita della ciascun iscritto lo recepisca territori che godrannostra categoria e no della presenza, che per tale motivo ancora ignorano le molteplici in loco degli Ordini Regionali iniziative e le novità messe in coordinati ed indirizzati dalla essere perché i Biologi Italiani Federazione (FNOB). Presto siano uniti e consapevoli e che riprenderanno le comunicaziosappiano, infine, che l’Ordine ni e le trasmissioni nelle quali il è al loro fianco per la crescita “Presidente risponderà”, come in passato, alle vostre domande e la tutela della professione. Chiariamoci subito: nessuno ed alle varie richieste di intersforzo avrà compimento senza pello. Siateci vicini ed il lavoro la Vostra partecipazione, nes- sarà corale e fruttuoso. 4

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È nata la FNOB Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi

Seguici sui canali ufficiali www.fnob.it Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi Giornale dei Biologi Il Giornale dei Biologi Giornale dei Biologi | Mar 2023

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Fnob

NUOVE CARICHE PER LA FEDERAZIONE DEI BIOLOGI: IL PRESIDENTE È VINCENZO D’ANNA Nella prima riunione del Comitato Centrale sono state assegnate le cariche direttive Vicepresidente Alberto Spanò, tesoriere Antonio Castagna e segretario Laura Fossi

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enerdì 24 marzo si è riunito il Comitato Centrale della Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi (FNOB), eletto l’11 marzo 2023. L’adunanza è stata convocata dal membro più anziano, Giuseppe Vitale, in considerazione di quanto previsto dal decreto del Ministero della Salute 15 marzo 2018. Si è pertanto proceduto all’elezione delle nuove cariche dell’ente. La presidenza è stata assegnata a Vincenzo D’Anna, la vicepresidenza ad Alberto Spanò, la tesoreria ad Antonio Castagna e la carica di segretario è stata affidata a Laura Fossi. I restanti componenti del Comitato Centrale, anch’essi eletti dai presidenti degli Ordini Regionali dei Biologi, sono Graziella Bertoldi, Luciano Cavedoni, Claudia Dello Iacovo, Antonietta Foggiano, Marina GM Garizio, Giovanni Gasparetto, Marianna Greco, Franco Scicchitano, Elvira Tarsitano, Diego Virgone, Giuseppe Vitale. Per il Collegio dei revisori, sono stati

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nominati componenti Livia Galletti, Tommaso Isernia e Guido Borrelli. Già presidente uscente del disciolto Ordine Nazionale, D’Anna è stato votato a larga maggioranza dai componenti del Comitato Centrale, l’organismo direttivo della Federazione. «Ringrazio tutti i biologi che si sono recati al voto rendendo l’occasione del decentramento amministrativo una vera e propria festa della democrazia» ha commentato a caldo. Ancora, ha aggiunto D’Anna «ringrazio quanti hanno sostenuto le liste dei ‘Biologi per il Rinnovamento’ che, lo ricordo, hanno ottenuto maggioranze assolute in dieci regioni su undici ed i 2/3 della rappresentanza dello stesso Comitato. Occorre ora lavorare per costruire e dare una struttura stabile ai neonati Ordini territoriali, completando questa delicata fase storica di riorganizzazione politica ed amministrativa di un Ente, il nostro, che rappresenta circa 60mila biologi italiani» ha concluso l’ex parlamentare.


NUOVE OPPORTUNITÀ PROFESSIONALI? Segui la sezione Bandi e Concorsi sul sito della FNOB Troverai gli avvisi pubblici dedicati ai Biologi

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Primo piano

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Primo piano

© Blue Planet Studio/shutterstock.com

AUTO ELETTRICHE INCOGNITA O GRANDE OPPORTUNITÀ? Viaggio nel sistema di mobilità a zero emissioni con le maggiori aspettative Tutto su costi, batterie, ricariche, riconversione e tutela dell’ambiente di Rino Dazzo

S

ilenziose, hi-tech e a emissioni zero. Sono le auto elettriche i veicoli del futuro, un futuro più vicino di quanto forse avremmo potuto immaginare. Lo scenario è tracciato dopo il sì dei ministri dell’energia Ue allo stop alla vendita di veicoli con motori endotermici (a benzina o diesel) dal 2035: potranno continuare a essere immatricolati solo se utilizzeranno carburanti sintetici. Gli investimenti delle case automobilistiche, del resto, da tempo vanno verso una direzione ben definita: l’elettrico, appunto.

Cosa succederà col passaggio dalle auto tradizionali alle elettriche? Pagheremo di più per acquistarle e ricaricarle? L’ambiente ne trarrà davvero giovamento? E la rete sarà in grado di supportare l’accresciuto bisogno di energia per alimentare milioni di autoveicoli? Domande che assillano gran parte di coloro che, per spostarsi o per viaggiare, utilizzano un’automobile. Quel che è certo è che occorre porre freni alle emissioni nocive di anidride carbonica, di cui il trasporto stradale è responsabile per un buon 20% in Europa. Esistono altri sistemi di mobilità interessanti – l’ibrido plugin a doppia alimentazione, elettrica e termica, oppure l’idrogeno che ha modalità di riforniGiornale dei Biologi | Mar 2023

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mento simili a quelle “tradizionali”. L’elettrico ha però convogliato le maggiori aspettative. Uno studio delle Fondazione Caracciolo e del Centro di ricerca CARe dell’Università degli Studi Guglielmo Marconi ha certificato che i veicoli elettrici generano emissioni di CO2 fino a 29 volte più basse rispetto agli endotermici, considerando anche le emissioni che occorrono per produrli, tutelando di più l’ambiente rispetto alle auto tradizionali. Ma quanto costa comprare un’auto elettrica? Al momento il divario rispetto alle vetture a benzina, diesel o alle stesse ibride è marcato. Ma col passare degli anni e col prevedibile aumento della richiesta è lecito attendersi un abbassamento dei prezzi. La componente più importante di questo tipo di auto è la batteria, il vero propulsore delle elettriche. Le più comuni sono quelle al litio: compatte e leggere, capaci di generare notevoli quantità di energia, non necessitano di cicli di carica e utilizzo completi anche se garantiscono i risultati migliori in un range di temperature che va dai 30 ai -10 gradi. Costano molto perché i costi d’estrazione delle materie prime sono alti (si va dai 9.043 euro per la batteria di una Smart Fortwo EQ ai 40.120 euro di quella per una Mercedes EQC) e vanno ricaricate abbastanza spesso: l’autonomia spazia dai 150-200 chilometri delle utilitarie ai 400500 delle vetture più potenti. La maggior parte delle batterie in commercio è garantita per otto anni o per 160mila chilometri. Si stima che dopo 500 cicli di ricarica, la batteria accusi un decadimento del 10%: una volta arrivata al 70-

Batterie per auto elettriche.

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Estrazione del litio. Il modello a cui guardano i grandi gruppi, tra cui Stellantis, è Tesla che ha fatto notevoli investimenti sulle materie prime (litio, in primis, che si estrae soprattutto in Australia, Sud America, Africa e Cina) e organizzato stabilimenti di produzione in proprio delle batterie.

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Primo piano

80% della sua capacità iniziale, va sostituita. Lo smaltimento è a cura di centri specializzati, con tariffe che variano dai 4 ai 4,50 euro al chilo. Sempre più spesso si preferisce investire per il riuso, come in Giappone o nei Paesi Bassi dove in alcuni casi vecchie batterie in esaurimento sono state riutilizzate per l’illuminazione pubblica o di strutture sportive. Quanto ai costi di ricarica, dipendono anzitutto dal tipo di batteria: si va dalla piccola batteria della Smart Fortwo (18 kWh) a quella della Tesla Model S, un “mostro” da 100 kWh. Ricaricare l’auto elettrica in casa costa circa 20 centesimi a kWh. Sfruttando le colonnine a corrente alternata installabili nei condomini (da 11 a 22 kWh) si spendono circa 45 centesimi a kWh, mentre le ricariche più potenti (da 50 kWh o superiori) costano intorno ai 55 centesimi o anche più. Facciamo un esempio pratico: 100 chilometri di autonomia per un’auto elettrica di media cilindrata costano circa dai 4 agli 8 euro, per un’auto a benzina costano tra i 12 e i 13 euro. Intorno al 2050, quando tutti i veicoli circolanti in Italia potrebbero essere elettrici, occorreranno circa 80 TWh all’anno per alimentarli, il 25% in più rispetto a oggi: da dove arriverà l’energia necessaria a supportare l’accresciuto fabbisogno di elettrico? Dalle fonti rinnovabili. Questo, almeno, è il piano di Terna, gestore della rete elettrica italiana ad alta tensione, che punta molto sull’abbondanza di sole e vento nel paese. Circa 400 TWh verranno dal fotovoltaico, di cui due terzi dai piccoli impianti su tetti e un terzo da impianti “utility scale” su ex cave, terreni inutilizzati o agricoli dismessi, mentre altri 150 dall’eolico. Un’ulteriore sfida è rappresentata dalla riconversione industriale nel settore automobilistico. A rischio ci sono circa 70mila posti di lavoro, con la filiera produttiva che andrà profondamente riorganizzata anche per quel che riguarda l’indotto. Ci sarà bisogno di un numero inferiore di occupati negli impianti e sempre più specializzati. Meno operai, più ingegneri e sviluppatori. Il modello a cui guardano i grandi gruppi, tra cui Stellantis, è Tesla che ha fatto notevoli investimenti sulle materie prime (litio, in primis, che si estrae soprattutto in Australia, Sud America, Africa e Cina) e organizzato stabilimenti di produzione in proprio delle batterie.


Primo piano

© buffaloboy/shutterstock.com

L’

ultima intesa (28 marzo 2023) tra Consiglio e Parlamento UE prevede l’installazione di stazioni di ricarica ogni 60 chilometri entro il 2026 sui principali assi stradali indicati nelle reti prioritarie dei trasporti europee (Ten-T). Per mezzi pesanti e pullman, le stazioni di ricarica dovranno essere ogni 120 chilometri entro il 2028. Gli impianti di distribuzione dell’idrogeno dovranno invece essere installati ogni 200 chilometri entro il 2031. Ad oggi in tutta l’Unione di colonnine ce ne sono poco più di 300mila, in Italia invece a fine 2022 si è toccata quota 36.772 punti di ricarica, di cui 10.748 sviluppati negli ultimi dodici mesi. Un aumento del 245% rispetto al 2019, anche se con forti squilibri per quel che riguarda la distribuzione sul territorio nazionale (il 16% delle colonnine è concentrato in Lombardia, l’11% in Piemonte e Veneto, il 10% nel Lazio e in Emilia-Romagna e l’8% in Toscana, sei regioni che da sole concentrano i due terzi delle colonnine nel paese) e la potenza della ricarica stessa. E sulle autostrade? Il numero delle stazioni di ricarica sulle arterie italiane è di 54 (ultimo aggiornamento di gennaio 2023), di cui appena dieci sugli oltre 750 chilometri dell’A1 Milano-Napoli e altrettante sulla A22 (l’Autostrada del Brennero), a conferma della tendenza che vuole le elettriche – al momento – utilizzate soprattutto come vetture per le città, piuttosto che per i grandi viaggi. E proprio le città dovrebbero riorganizzarsi in vista di una più massiccia implementazione di stazioni e griglie di ricarica. Una possibile soluzione a livello logistico è quella della progressiva riconversione delle pompe di benzina in punti di ricarica, mentre per evitare i problemi legati a un eccessivo consumo simultaneo di energia per la ricarica – che rischierebbe di mandare in tilt i sistemi di illuminazione di interi quartieri – si stanno sviluppando con

ALLA RICERCA DELLE COLONNINE DI RICARICA Fare “rifornimento”, al momento, non è così semplice come per le automobile con motore endotermico

sempre maggior frequenza sistemi di ricarica intelligente V2G (Vehicle-toGrid), che consentono alle auto elettriche di restituire energia alla rete quando sono collegate a essa aiutandola ad assorbire i picchi di domanda e a evitare problemi di congestione. Chi ha a disposizione una casa con box, garage e ampi spazi può valutare di installare una stazione di ricarica nella propria abitazione, facendo magari il pieno di energia ogni notte. Se si dispone di una potenza di 5 o 10 kWh, in linea con gli attuali standard delle utenze domestiche, i tempi di ricarica variano in base alla potenza

della batteria: per quelle più potenti possono arrivare anche a diverse ore. Chi vive in un condominio può invece suggerire l’installazione di un punto di ricarica nelle aree comuni. Una soluzione interessante, sia per le abitazioni private che per i condomini, è quella dei pannelli solari con batterie da accumulo negli edifici, che stoccano l’energia elettrica di un impianto fotovoltaico garantendo ottima efficienza energetica, hanno un ciclo di vita esteso grazie agli ioni di litio e capacità variabile tra 3, 6 oppure 12 kW. Il prezzo è compreso tra i 900 e i 1200 euro per kWh. (R. D.) Giornale dei Biologi | Mar 2023

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Primo piano

La premier italiana, Giorgia Meloni.

POSIZIONE DELL’ITALIA E POLITICHE EUROPEE Meloni: “Transizione sostenibile e pianificata per evitare ripercussioni produttive e occupazionali”

L’

obiettivo dell’Unione europea è raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. L’azzeramento delle emissioni di CO2 nel 2035 è solo una delle iniziative nell’ambito del Green Deal europeo, il percorso verso la transizione verde intrapreso per affrontare le sfide imposte dal cambiamento climatico. Un percorso che non vede allineati sulle medesime posizioni tutti i paesi dell’UE. Lo dimostrano i rinvii che hanno preceduto l’approvazione definitiva del regolamento sullo stop ai motori termici dal 2035. Lo scorso 3 marzo il Coreper, organo che riunisce gli ambasciatori permanenti presso l’Unione 12

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europea, aveva rinviato ogni decisione. Anche il Consiglio Ue aveva eliminato il voto dall’agenda per la sessione del 7 marzo. Lo stop alle auto endotermiche era stato approvato in linea di principio dal Parlamento con il voto contrario della Polonia e l’astensione della Bulgaria. In sospeso la linea della Germania. E l’Italia? Dopo un iniziale assenso, la posizione italiana si è avvicinata a quella, piuttosto critica, di Polonia e Ungheria. Così il presidente del consiglio Giorgia Meloni: «La nostra posizione è chiara: una transizione sostenibile ed equa deve essere pianificata e condotta con attenzione, per evitare ripercussio-

ni negative sotto l’aspetto produttivo e occupazionale. La decisione del Coreper di tornare sulla questione a tempo debito va esattamente nella direzione di neutralità tecnologica da noi indicata. È giusto puntare a zero emissioni di CO2 nel minor tempo possibile, ma deve essere lasciata la libertà agli Stati di percorrere la strada che reputano più efficace e sostenibile. Questo vuol dire non chiudere a priori il percorso verso tecnologie pulite diverse dall’elettrico». Poi però, il 28 marzo, i ministri dell’Energia UE hanno dato il via libera al regolamento. Astenuta l’Italia, come Romania e Bulgaria. Dalla Polonia l’unico voto contrario. Cos’è successo? Che la Germania è tornata favorevole dopo l’intesa con la Commissione sugli e-fuels. Bocciati invece i biocarburanti, sostenuti dall’Italia. (R. D.)

I MODELLI PIÙ VENDUTI Quali sono i modelli di auto elettrica più venduti in Europa e in Italia? I loro prezzi e l’autonomia dichiarata? Se nel Vecchio Continente spadroneggiano le Tesla (la Model Y ha venduto 137.052 vetture nel 2022, staccando la Model 3 (91.475) e la Volkswagen ID.4 (67.490), in Italia la situazione è diversa. A gennaio 2023 l’auto elettrica più venduta è stata la Fiat 500e (prezzo da 29.950 a 38.650 euro, autonomia da 190 a 321 km), davanti alla Smart EQ Fortwo (costo da 25.210 a 29.646 euro, autonomia di 143 km) e alla Renault Twingo (autonomia di 189 km, prezzo da 22.950 a 26.250 euro). Quarta posizione per l’Audi Q4 (in vendita a partire da 49.050 euro, autonomia dai 356 ai 528 km), solo quinta la Tesla Model Y, che parte da 50.970 euro com 455 km di autonomia.


LA PRIORITÀ SEI TU Individuare precocemente un tumore può fare la differenza. Il Servizio sanitario nazionale offre screening gratuiti, sicuri e attendibili, per la prevenzione dei tumori al colon-retto, al collo dell’utero e alla mammella. Aderisci all’invito della tua Azienda sanitaria. Non rinviare l’appuntamento con la salute. Scopri di più su salute.gov.it #laprioritàseitu Giornale dei Biologi | Mar 2023

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Intervista

OSTEOSARCOMA INDIVIDUATA PROTEINA RESPONSABILE DELLA INSTABILITÀ GENOMICA

Intervista con il dirigente di ricerca Fernando Gianfrancesco, coordinatore di un nuovo studio su questa patologia, pubblicato su Communications Biology di Ester Trevisan

U

n’alterazione cromosomica coinvolta nello sviluppo dell’osteosarcoma, un tumore delle ossa anco-ra poco curabile, si verifica quando manca o è alterata una piccola proteina chiamata Profilina 1. La scoperta è avvenuta nell’ambito di una ricerca sostenuta da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, condotta all’Istituto di genetica e biofisica Adriano Buzzati-Traverso del Cnr-Igb di Napoli Dottor Gianfrancesco, cos’è l’osteosarcoma e quali sono i soggetti più esposti al rischio di ammalarsi? L’osteosarcoma rappresenta il tumore osseo più aggressivo e colpisce prevalentemente i bambini e gli adolescenti, nel loro periodo di massimo accrescimento, come conseguenza di un’alterazione genetica presente alla nascita o acquisita durante i primi anni di vita. Che relazione c’è tra la malattia ossea di Paget e l’osteosarcoma? La malattia ossea di Paget è una patologia che si manifesta a circa 50 anni di età, come conse-guenza di un alterato bone-turnover. Le due cellule principali, gli osteoclasti che riassorbono osso e gli osteoblasti che depon-

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gono nuova matrice ossea, non lavorano più in equilibrio bilanciato e, di conseguenza, le ossa colpite si presentano più grandi, deformi e tendenti a fratture spontanee. La complicazione più temibile della malattia ossea di Paget è la trasformazione neoplastica delle ossa colpite, che si manifesta come osteosarcoma. Il sintomo più comune del tumore è il dolore dell’osso colpito, assieme a gonfiore e tumefazione. Con il tempo, la situazione peggiora e possono compari-re fratture a causa delle alterazioni della struttura ossea che rendono quest’ultima più debole. Qual è il ruolo svolto in questo tumore dalla proteina Profilina 1 e messo in luce dalla vostra ricerca? L’osteosarcoma è caratterizzato da una notevole instabilità cromosomica. Durante il processo di di-visione cellulare, la cellula madre non trasmette fedelmente i propri cromosomi alle due cellule figlie che di conseguenza ereditano corredi cromosomici diversi dalla madre e anche tra loro. Una volta generata una cellula instabile, questa continua a esserlo anche nelle generazioni successive. Il ri-sultato finale è che il tumore è costituito da tante cellule alterate ma anche diverse tra di loro. Que-sta eterogeneità di


Intervista

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CHI È

Osso nella norma.

Osso con patologia.

fatto impedisce la correzione delle cellule alterate perché molto diverse fra loro. Attualmente qual è lo standard di cura? I principali trattamenti per l’osteosarcoma sono la chirurgia e la chemioterapia, spesso utilizzate in combinazione. Nella maggior parte dei casi, l’osteosarcoma è trattato con uno o più cicli di chemio-terapia neoadiuvante prima dell’intervento chirurgico, in modo da ridurre le dimensioni del tumore e favorire l’intervento chirurgico conservativo. A quali innovazioni terapeutiche potrebbero portare i risultati di questo studio? A causa della complessità genetica dell’osteosarcoma, che provoca la presenza di alterazioni mole-colari multiple, le terapie mirate a specifici bersagli hanno trovato finora scarsa applicabilità. Pertan-to, la terapia dell’osteosarcoma è ancora legata prevalentemente all’uso di farmaci chemioterapici convenzionali. Con l’individuazione di una delle cause di tale instabilità, si possono studiare i mec-canismi molecolari alterati che portano alla stessa e provare a bloccarli. Il prossimo step della ricerca? La comprensione di uno dei meccanismi alterati è importante per tentare un approccio terapeutico di “letalità sintetica”, cioè

Fernando Gianfrancesco. “L’osteosarcoma rappresenta il tumore osseo più aggressivo e colpisce prevalentemente i bambini e gli adolescenti, nel loro periodo di massimo accrescimento, come conseguenza di un’alterazione genetica presente alla nascita o acquisita durante i primi anni di vita”.

Nato a Piedimonte Matese (CE), un piccolo centro del Parco Regionale del Matese, si è laureato in Biologia nel 1994 presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Dopo aver conseguito il dottorato di Ricerca presso l’Università degli Studi di Bologna, ha trascorso diversi periodi in laboratori stranieri: negli Stati Uniti (National Institute on Aging, Duke University Medical Center), in Australia (Griffith University) o in Europa (University of Algarve, EMBL-EBI). Attualmente, è dirigente di ricerca presso l’Istituto di Genetica e Biofisica Adriano Buzzati-Traverso del CNR di Napoli dove dirige il Bone Diseases and Tumors Laboratory.

una terapia che, sfruttando le differenze genetiche fra cellule tumorali e cellu-le sane, permette di uccidere in maniera mirata soltanto quelle malate, risparmiando le altre. Più che correggere il difetto genetico vogliamo rendere vulnerabile la cellula cancerosa. Se la mancanza di Profilina 1 genera una cellula alterata, individuando e alterando una seconda proteina, insieme alla mancanza di Profilina 1, possiamo indurre nella cellula l’apoptosi, un meccanismo detto di morte cellulare programmata. La strada è lunga e i risultati non sono così immediati, ma adesso sappiamo la direzione. Da chi è composto il team di ricerca? Il lavoro è stato condotto brillantemente dalla mia collaboratrice Federica Scotto di Carlo nel mio la-boratorio di ricerca presso l’Istituto di Genetica e Biofisica del CNR (IGB-CNR) di Napoli. Attualmen-te si trova a Parigi presso l’Istituto Curie, dove sta mettendo a punto tecnologie di imaging di nuova generazione per sviluppare ulteriormente il progetto. Molto preziosa è stata inoltre la collaborazione con il gruppo di bionformatica dell’EMBL di Cambridge, soprattutto nelle analisi bioinformatiche dei dati di Next-Generation-Sequencing. Giornale dei Biologi | Mar 2023

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Intervista

DERMATITE ATOPICA ECCO COME I BIOLOGICI HANNO CAMBIATO LA VITA DEI PAZIENTI

Le nuove molecole hanno rivoluzionato il trattamento della malattia cronica Al San Gallicano di Roma è stato ideato un percorso diagnostico e terapeutico ad hoc di Elisabetta Gramolini

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a ricerca degli ultimi anni ha permesso di acquisire importanti conoscenze riguardo all’esordio e al decorso della dermatite atopica. Fra il 2021 e il 2022 l’Istituto Dermatologico San Gallicano di Roma ha realizzato un percorso di diagnosi, trattamento e cura dedicato alle persone di tutte le età con l’obiettivo di offrire loro la possibilità di poter giungere alla terapia più appropriata, grazie ai farmaci biologici che nel giro degli ultimi anni sono riusciti a migliorare la condizione clinica e psicologica dei pazienti. A parlarne è Antonio Cristaudo, direttore del dipartimento di Clinica e Ricerca Dermatologica dell’Istituto romano. Professore, cos’è la dermatite atopica? La dermatite atopica è una malattia infiammatoria della cute, ad andamento cronico recidivante. La maggior parte dei casi si manifesta in età pediatrica, nei primi mesi di vita. In genere c’è un miglioramento durante la pubertà ma negli ultimi anni si registra un aumento dei casi in età adulta. Impatta fortemente sulla qualità della vita per colpa delle manifestazioni su viso, collo e mani, dell’intenso prurito che limita il sonno e delle conseguenze che provoca sulla vita sociale. Quali sono le cause?

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Di sicuro sono implicati fattori genetici. Un soggetto che ha un genitore affetto da dermatite atopica ha maggiori probabilità di averla. Così come se entrambi i genitori sono allergici. Non è sufficiente solo l’aspetto genetico perché questo non spiegherebbe l’aumento negli ultimi anni della malattia. Anche i fattori ambientali determinano la comparsa e l’andamento cronico recidivante. Quindi inquinamento e alimentazione sono fra gli imputabili? Questi fattori non sono le cause ma le concause che facilitano la ricorrenza e la cronicità. I numeri sono in aumento rispetto al secolo scorso. Se al mio primario avessero detto che un adulto era affetto da dermatite atopica avrebbe detto che la diagnosi era sbagliata perché era considerata una malattia pediatrica. In realtà, questo non è vero perché può comparire a qualsiasi età, anche in soggetti sopra i 60 anni. La malattia è spesso accompagnata da asma e allergie? Nella maggior parte dei casi, quella che viene chiamata la marcia atopica vede nei primi mesi di vita la comparsa delle prime manifestazioni sulla pelle, poi dei disturbi respiratori come le riniti, più tardi dell’asma e infine della dermatite atopica in età adulta.


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Quali sono le cure più innovative? La ricerca clinica negli ultimi anni ha fatto dei progressi giganti. Dalla ricerca è scaturita una maggiore conoscenza della patogenesi della malattia. Questo ha permesso all’industria farmaceutica di continuare a sviluppare nuove molecole che hanno rivoluzionato l’andamento della dermatite atopica e provocato un netto miglioramento, sia del quadro clinico quindi delle manifestazioni sia per quanto riguarda l’impatto psicologico. Soggetti che si presentavano quasi senza parlare all’inizio, dopo qualche mese erano sorridenti. La ricerca è riuscita a capire alcuni meccanismi infiammatori e sono stati sviluppati dei farmaci che vanno a bloccare la determinate tramite molecole che intervengono sul processo infiammatorio. Mentre prima era presente solo un farmaco ora ce ne sono quattro che possono essere usati. Naturalmente spetta al dermatologo scegliere quello più adatto per il paziente. Prima dei farmaci biologici erano usati solo i cortisonici che tuttora sono impiegati quando il paziente mostra una esplosione della dermatite. L’uso del cortisone per breve periodo serve a controllare per poi tornare alla terapia. L’altro farmaco è un immunosoppressivo che non può essere usato per tutti i pazienti né per un lungo periodo poiché presenta contrindicazioni.

CHI È

Antonio Cristaudo. “La dermatite atopica è una malattia infiammatoria della cute, ad andamento cronico recidivante. La maggior parte dei casi si manifesta in età pediatrica, nei primi mesi di vita”.

Antonio Cristaudo si è laureato in Medicina e Chirurgia all’Università La Sapienza di Roma nel 1978. È specializzato in Clinica Dermosifilopatica e Medicina del Lavoro. Fra il 2003 e il 2009 è stato responsabile del servizio di Dermatologia Allergologica Professionale e Ambientale dell’Istituto San Gallicano (SSO). Nella stessa sede ha ricoperto, successivamente, altri incarichi fino a divenire responsabile della UOSD Dermatologia MST, Ambientale e Tropicale. Al San Gallicano avete recentemente creato un percorso diagnostico ad hoc? È una malattia cronica che non riguarda solo della pelle, anzi, è sistemica e richiede l’apporto di altri specialisti. Il paziente può presentare alcune comorbilità perciò è fondamentale creare un ambiente protetto, da quando viene diagnosticata la malattia a quando vengono fatte le visite per le indagini chimiche e strumentali. Giornale dei Biologi | Mar 2023

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CANCRO: IL MARCATORE CHE INDICA QUANDO LE CELLULE SI PREPARANO A METASTATIZZARE Nel processo di metastatizzazione le cellule tumorali passano dal consumo di glucosio a quello di molecole di colesterolo LDL, il cosiddetto colesterolo “cattivo” di Sara Bovio

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a diffusione metastatica di un tumore inizia quando una cellula maligna, da sola o collettivamente, si stacca dal tumore primario e passa per intravasazione nei linfonodi o nei vasi sanguigni, ambienti ostili in cui la maggior parte delle cellule tumorali non è in grado di sopravvivere. Fino ad oggi non esisteva alcuna possibilità di prevedere in quale momento cominciasse questo processo. Ora, però, i ricercatori del Gruppo di Ricerca sulle Malattie Infiammatorie e Neoplastiche Dermatologiche dell’Istituto di Ricerca Medica dell’Hospital del Mar di Barcellona hanno scoperto un marcatore in grado di indicare quando le cellule del carcinoma cutaneo a cellule squamose, il tumore oggetto del loro studio, stanno per iniziare la loro migrazione verso i linfonodi per raggiungere altri organi. Nei campioni di tumori primari di pazienti con carcinoma a cellule squamose che avevano metastatizzato, i test in vitro hanno mostrato come alcune particelle di RNA non codificante non fossero più espresse e come i livelli di discherina, che è la proteina che aiuta a stabilizzarle, fossero diminuiti. In altre parole, questi livelli indicavano che le cellule tumorali si stavano preparando a migrare. «Questo è un meccanismo che può spiegare la metastasi, ma non

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solo, è anche un marcatore del momento in cui la cellula tumorale si prepara a migrare e ad avviare questo processo» spiega la dottoressa Inmaculada Hernández-Muñoz, autore principale dello studio. Nello studio, pubblicato sulla rivista Life Science Alliance, i ricercatori spiegano che nel processo di metastatizzazione, il calo dei livelli di discherina induce un cambiamento metabolico nelle cellule tumorali che passano dal consumo di glucosio a quello di lipidi, in particolare di molecole di colesterolo LDL, il cosiddetto colesterolo “cattivo”. Questo permette loro di sopravvivere alla migrazione verso i linfonodi e, da lì, dirigersi verso altri organi dove proliferano. Il cambiamento è solo temporaneo e, una volta completato il processo, le cellule recuperano le loro caratteristiche originali. Il nuovo marcatore potrebbe essere, secondo gli autori della ricerca, un promettente candidato per trattamenti che prevedono inibitori del metabolismo lipidico al fine di prevenire le metastasi. I ricercatori sono riusciti a dimostrare la loro tesi utilizzando i marcatori del metabolismo lipidico nei campioni analizzati che erano effettivamente presenti nei pazienti con la prognosi peggiore. Alla luce di questo fatto, Hernández Muñoz sottolinea: «Lo studio fornisce un buon


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modello per capire come le cellule tumorali si diffondono nelle prime fasi del tumore. Infatti – prosegue la ricercatrice - apre la strada per studiare se le persone con livelli più elevati di colesterolo LDL siano anche a maggior rischio di metastasi». Secondo i dati riportati nello studio, nel carcinoma cutaneo a cellule squamose (cSCC) circa il 4% dei tumori metastatizza. Gli autori spiegano che questo gruppo di tumori costituisce un modello ideale per studiare i meccanismi generali di diffusione dei tumori, poiché i campioni di ogni stadio del continuum tumorale sono facilmente accessibili nella pratica clinica. Il cSCC, inoltre, è una neoplasia comune e, dopo il carcinoma basocellulare, rappresenta il secondo tumore cutaneo maligno più diffuso. Complessivamente, la sopravvivenza del cSCC metastatico non trattato a 5 anni è inferiore al 35%. Dal 15% al 38% dei pazienti con cSCC ad alto rischio presenta metastasi in-transit (focolai metastatici situati tra il tumore primario e le regioni linfonodali regionali), e le cellule tumorali possono diffondersi lungo i vasi linfatici e/o i nervi. Nello studio i ricercatori chiariscono che l’acquisizione della capacità metastatica da parte della cellula tumorale è stata oggetto di ampi e

I ricercatori del Gruppo di Ricerca sulle Malattie Infiammatorie e Neoplastiche Dermatologiche dell’Istituto di Ricerca Medica dell’Hospital del Mar di Barcellona hanno scoperto un marcatore in grado di indicare quando le cellule del carcinoma cutaneo a cellule squamose, il tumore oggetto del loro studio, stanno per iniziare la loro migrazione verso i linfonodi per raggiungere altri organi.

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Illustrazione 3D del carcinoma cutaneo a cellule squamose.

numerosi studi ed è opinione condivisa che la cellula con potenziale metastatico sia già presente nelle prime fasi della tumorigenesi. Un altro dato a disposizione dei ricercatori è che le basi molecolari della metastasi sono fondamentalmente epigenetiche, perché permettono alle cellule tumorali di subire cambiamenti funzionali specifici, rapidi e reversibili riprogrammando il loro trascrittoma. I meccanismi generali attraverso i quali i diversi programmi trascrizionali sono modulati durante la progressione metastatica rimangono però in gran parte sconosciuti. I ricercatori rilevano che l’identificazione di questi meccanismi rappresenta un’importante sfida scientifica, perché i cambiamenti cellulari osservati possono corrispondere a risposte transitorie della cellula tumorale a specifiche condizioni ambientali, e quindi difficili da provare sperimentalmente. Il lavoro ha anche mostrato come il trattamento delle cellule colpite con statine, utilizzate per combattere gli alti livelli di colesterolo “cattivo”, abbia permesso di invertire il metabolismo lipidico e di prevenire l’insorgenza di metastasi. I ricercatori sono riusciti infine a dimostrare che il meccanismo di cambiamento del metabolismo cellulare accade anche in altri tipi di tumore. Giornale dei Biologi | Mar 2023

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L’ARMATURA DELLE CELLULE CONTRO LA LEUCEMIA MIELOIDE ACUTA La strada appena iniziata in prospettiva potrebbe permettere di migliorare la prognosi dei pazienti e superare i limiti finora incontrati nell’impiego efficiente delle CAR-T

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ellule “corazzate” per difendere l’organismo dalla leucemia mieloide acuta sono state sviluppate dalla Fondazione Tettamanti nell’ambito di un progetto, supportato dall’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (AIRC), dal Comitato Maria Letizia Verga e dai ministeri Salute, Università e Ricerca. Già impiegate per la terapia CAR-T in ambito oncoematologico, le cellule speciali, definite CAR-CIK (Chimeric Antigen Receptor-Cytokine Induced Killer), sfruttano l’attività di uno specifico recettore (il CXCR4) delle chemochine, proteine essenziali per il processo immunitario. I particolari Linfociti T, elementi chiave della risposta immunitaria, riescono a inserirsi nella stessa cavità del midollo osseo in cui risiedono le cellule staminali leucemiche resistenti alla chemioterapia, e quindi, proprio dove la loro azione antitumorale è più necessaria per contrastare la persistenza e la progressione della malattia. I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista scientifica Blood, aprono la strada a una nuova strategia che ha lo scopo di aggredire le cellule staminali leucemiche residenti nel midollo osseo e superare i limiti finora incontrati nell’impiego efficiente delle CAR-T e di altre terapie convenzionali e innovative contro la leucemia mieloide acuta. Il lavoro è frutto della collaborazione tra i ricercatori della Fondazione Tettamanti e i colleghi di alcuni dei principali centri di ricerca italiani e internazionali, quali la University

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of North Carolina (Chapel Hill, Stati Uniti), l’Università Milano-Bicocca (Monza), l’IRCCS San Raffaele di Milano, l’IRCCS Humanitas Research Hospital di Rozzano e l’Humanitas University (Pieve Emanuele, Milano), l’Istituto di Neuroscienze del CNR di Milano, l’Università Sapienza di Roma, l’Ospedale Universitario di Perugia e il King’s College London (Regno Unito). «Nonostante la recente introduzione di terapie innovative - commenta Marta Serafini, Capo Unità Cellule staminali e Immunoterapia del Centro Tettamanti Fondazione IRCCS “San Gerardo dei Tintori” di Monza e coordinatrice dello studio -, la prognosi dei pazienti con leucemia mieloide acuta resta insoddisfacente. Anche l’uso della terapia CAR-T si è scontrato, finora, con il limite di uno scarso ingresso delle cellule CAR-CIK nel midollo osseo, dove è richiesta la loro azione antileucemica. Grazie alla creazione di cellule CD33.CAR-CIK ingegnerizzate, in grado di esporre sulla loro membrana una maggiore quantità di recettore delle chemochine CXCR4, è stato possibile fare arrivare queste “cellule terapeutiche” nel midollo osseo in modo più efficiente. Ciò accade perché il recettore CXCR4 viene “attratto” da CXCL12, proteina rilasciata dalle cellule stromali presenti nel midollo osseo e ligando naturale di CXCR4. Le cellule stromali (cellule di supporto del microambiente midollare), grazie all’affinità tra CXCL12 e CXCR4, “richiamano” le CD33.


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CAR-CIK e le pongono in stretta vicinanza con le cellule staminali leucemiche che sostengono la persistenza e la progressione leucemia mieloide acuta, permettendogli di contrastarle in modo più efficace». Trattandosi di una ricerca condotta in sistemi cellulari in vitro e in modelli animali in vivo, saranno necessari ulteriori studi per verificare se gli esiti ottenuti possano avere effettive implicazioni terapeutiche nell’uomo, senza esporre a rischi i pazienti. Tuttavia, se questi risultati saranno confermati in adeguate casistiche di pazienti con la patologia resistente alle terapie in uso, si potrebbe segnare una svolta nel trattamento della leucemia mieloide acuta, aumentando le possibilità di tenere sotto controllo la malattia e la sopravvivenza di chi ne soffre. «Un aspetto particolarmente interessante spiega Andrea Biondi, direttore scientifico della Fondazione Tettamanti e dell’IRCSS San Gerardo dei Tintori - riguarda il fatto che nei test condotti nel modello animale in vivo, le cellule CD33.CAR-CIK arricchite di CXCR4 hanno mostrato un’attività anti-leucemica potenziata rispetto alle CD33.CAR-CIK convenzionali, con un aumento della sopravvivenza degli animali trattati, senza evidenza di effetti off-target. Ciò significa che questo nuovo approccio contro la leucemia mieloide acuta potrebbe essere – conclude -, non soltanto efficace in termini di risposta oncologica, ma anche sicuro e tollerabile sul fronte dei possibili effetti collaterali». (E. G.)

SPECIALIZZATI IN LEUCEMIE

L’AIRC è tra i sostenitori del progetto. Il progetto è stato sviluppato dalla Fondazione Tettamanti con il supportato dall’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (AIRC), dal Comitato Maria Letizia Verga e dai ministeri Salute, Università e Ricerca.

La Fondazione Tettamanti onlus è nata nel 1987, grazie alla donazione di Rita Minola Fusco, in memoria dei genitori. Nel 1994 in collaborazione con il Comitato Maria Letizia Verga, viene inaugurato il Centro di Ricerca Tettamanti, specializzato nello studio sulle leucemie ed emopatie infantili. Attraverso le tecniche molecolari, il Centro esegue le indagini genetiche presenti nei bambini leucemici di tutti i centri di cura italiani, assistendo oltre 400 bambini l’anno, al momento dell’esordio della malattia per le indagini molecolari necessarie per i protocolli di terapia. Include quattro unità di ricerca, ognuna delle quali coordina il lavoro di 35 tra ricercatori e studenti di dottorati e 15 tecnici e biologi.

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ECCO COSA RENDE LA MALARIA UN NEMICO COSÌ ASTUTO Pubblicata la mappa ad alta risoluzione della risposta immunitaria umana al Plasmodium falciparum. Sarà utile per sviluppare un vaccino efficace e salvavita

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a battaglia contro il Plasmodium falciparum, il parassita che causa la forma più letale di malaria nell’uomo, è in corso da oltre un secolo. Nonostante i numerosi studi nel campo, il plasmodio si è dimostrato un vero maestro dell’evasione immunitaria, capace di sfuggire a tutti i tentativi di creare un vaccino efficace e duraturo. Grazie alle ricerche condotte dagli scienziati del Chan Zuckerberg Biohub-San Francisco (CZ Biohub SF) e della UC San Francisco (UCSF) è però ora disponibile la prima mappa ad alta risoluzione della risposta immunitaria umana al P. falciparum, che offre una visione di ciò che rende questo parassita così persistente e che rappresenta un utile strumento per sviluppare un vaccino efficace e salvavita. Nel nuovo studio, pubblicato su eLife, i ricercatori hanno impiegato una potente tecnologia chiamata PhIP-Seq per scomporre le 5.400 proteine che compongono il P. falciparum nelle parti riconosciute dal nostro sistema immunitario. In seguito, hanno ingegnerizzato dei virus per visualizzare ciascuno di questi piccoli pezzi e li hanno esposti al sangue di 198 ugandesi divisi tra adulti e bambini. I risultati hanno mostrato che gli anticorpi si legano a molte regioni del P. falciparum che non generano una risposta anticorpale di lunga durata: è questa la “tattica” messa in campo dal plasmodio, che costringe il sistema immunitario a generare risposte di breve durata.

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«Quello che abbiamo fatto è stato creare una libreria di tutti i componenti di tutte le proteine che la malaria potrebbe mostrare al nostro sistema immunitario, ha detto Joe DeRisi, professore di biochimica e biofisica alla UCSF e autore dello studio». «In questo modo - prosegue il ricercatore - possiamo comprendere esattamente cosa vede il nostro sistema immunitario e cercare di capire come risponde». Ora i ricercatori possono analizzare quali parti del parassita hanno innescato gli anticorpi nel sangue umano per combattere la malattia. Se il sistema immunitario ha incontrato un frammento in precedenza e ha prodotto anticorpi, allora gli anticorpi dovrebbero mostrare reattività a quelle stesse parti nella piattaforma PhIP-seq. Il primo vaccino ad essere approvato per la malaria, noto come RTS,S, richiede una serie di quattro iniezioni ed è ancora efficace solo per il 30% circa contro la malattia grave, e la protezione che conferisce diminuisce dopo pochi mesi. Ma qual è il motivo per cui è così difficile trovare un vaccino contro la malaria? Tra le ragioni gli esperti indicano la complessità del ciclo vitale del parassita. Il P. falciparum cambia profondamente quando si muove nel corpo umano, prima scivolando nel flusso sanguigno come un verme unicellulare e poi moltiplicandosi nelle cellule del fegato prima di esplodere nel sistema circolatorio per divorare ripetutamente il contenuto dei globuli rossi come car-


“Ci sono molte cose che non sappiamo su come si sviluppa l’immunità alla malaria. «Questo è dovuto in gran parte alla mancanza di strumenti per caratterizzare in modo completo la risposta del sistema immunitario”.

I risultati, secondo quanto riportano gli autori, rappresentano una lezione importante per lo sviluppo dei vaccini, che di solito si basano sull’imitazione delle difese immunitarie dell’organismo, senza necessariamente valutarne l’efficacia. Infatti, il vaccino RTS,S utilizza come bersaglio un elemento di ripetizione di P. falciparum, una possibile spiegazione della sua scarsa durata. Armati della loro nuova libreria del proteoma del plasmodio della malaria, i ricercatori del Biohub intendono continuare a testare le risposte immunitarie alla malattia in Uganda, analizzando poi come queste risposte cambino nel tempo e con diversi livelli di esposizione. Si prevede che ulteriori dati li guideranno verso componenti specifici delle proteine del parassita che potrebbero essere fondamentali per innescare una risposta immunitaria più efficace attraverso la vaccinazione. «L’immunità – conclude Greenhouse - è l’unica cosa che impedisce a molte persone di ammalarsi continuamente o di morire e per questo è fondamentale continuare a studiarla se vogliamo avere una possibilità di sviluppare un vaccino efficace e salvavita». (S. B.)

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burante per moltiplicarsi. Il parassita è anche geneticamente complesso, con centinaia di proteine che si pensa siano dedicate all’evasione immunitaria. Le proteine del parassita presentano anche un gran numero di semplici sequenze ripetute che potrebbero contribuire alla scarsa immunità che il nostro corpo riesce a sviluppare contro la malaria. I ricercatori spiegano che solo dopo molte esposizioni ripetute nel corso della vita le persone nelle regioni di trasmissione della malaria smettono di ammalarsi quando vengono infettate dal parassita, e a volte nemmeno questo è sufficiente. I tempi lunghi per sviluppare l’immunità rendono i bambini particolarmente a rischio. Inoltre, l’immunità conquistata con fatica svanisce rapidamente. «Ci sono molte cose che non sappiamo su come si sviluppa l’immunità alla malaria», ha dichiarato Bryan Greenhouse, professore di medicina alla UCSF e coautore del nuovo lavoro. «Questo è dovuto in gran parte alla mancanza di strumenti per caratterizzare in modo completo la risposta del sistema immunitario. I nuovi metodi che abbiamo sviluppato in questo studio, però, contribuiranno a colmare questa lacuna».

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IN SOCCORSO DEL RECETTORE CHE SI COMPORTA COME PACMAN NEL FAGOCITARE IL COLESTEROLO Scoperto il meccanismo degli inibitori di PCSK9 la proteina che, quando è alterata, distrugge i recettori che si comportano come nel videogame con il colesterolo cattivo

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na parte della scoperta, grazie a intuito, preparazione e un pizzico di fortuna, è da attribuire a una ricercatrice del dipartimento di Farmacia dell’Università di Pisa, la dottoressa Lidia Ciccone, che tramite i suoi lavori di cristallografia, ha contribuito a dare una svolta nello studio del meccanismo molecolare responsabile del colesterolo cattivo quando c’è una alterazione della proteina PCSK9. Già scoperta nel 2003 dal professor Nabil G. Seidah, direttore dell’unità di ricerca di biochimica neuroendocrina presso il Montreal Clinical Research Institute, la proteina è nota per “impazzire” quando è iperattiva, tanto da distruggere velocemente i recettori che hanno il compito di catturare il colesterolo cattivo spazzandolo via. L’alterazione della proteina è rara ma è responsabile dell’ipercolesterolemia resistente al trattamento tradizionale. «Il professor Nabil - spiega la dottoressa Ciccone - nella sua struttura, già da molti anni sperimentava gli inibitori della proteina, osservando dei miglioramenti clinici del paziente, tanto da riuscire a ridurre del 60% il valore del colesterolo cattivo in queste for-

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me resistenti. Quello che non si conosceva però è il meccanismo, cioè come gli inibitori vanno ad agire su PCSK9. Nello studio – continua - abbiamo scoperto come l’inibitore interagisce sulla proteina e degrada il recettore, che davanti al colesterolo cattivo lo fagocita come nel famoso videogioco “Pacman”. Di conseguenza abbiamo capito come bloccarla». «Dunque – continua Ciccone - abbiamo usato, non una piccola molecola chimica, bensì un anticorpo monoclonale di cammello (VHH), chiamato P1.40. Il tutto è nato da uno studio di cristallogenesi, da me condotto, in cui ho ottenuto i cristalli del complesso tra PCSK9 e l’anticorpo P1.40 . Ebbene, l’anticorpo si è posizionato in una tasca, uno spazio accessorio che solitamente non è accessibile, mai individuato in letteratura. Un caso di serendipity – commenta la ricercatrice - che ha destato l’attenzione del professor Nabil. La conferma della tasca è stata data dall’individuazione di un loop che si muove, una porzione di proteina che rende accessibile lo spazio. I dati ottenuti in cristallografia ai raggi X, in fase solida, sono stati poi confermati anche con SAXS (small angle X-ray scattering) una tecnica bidimensionale. Abbiamo confermato


così che in soluzione, in presenza dell’anticorpo, la tasca è accessibile». Dal risultato, considerato robusto dai ricercatori, sono partiti i lavori di mutagenesi, portati avanti dalla dottoressa Carole Fruchart Gaillard, ricercatrice dell’Università Paris-Saclay, confluiti nello studio, durato anni e pubblicato ora sulla rivista Molecular Metabolism, che ha permesso di osservare e analizzare il meccanismo molecolare che regola il colesterolo cattivo (LDL) quando la proteina impazzisce. La scoperta aiuterà a migliorare la cura delle malattie cardiovascolari e di alcuni tipi di cancro. «La maggior parte dei casi di ipercolesterolemia familiare – afferma Ciccone - è associata alla disfunzione del recettore delle lipoproteine a bassa densità (LDLR) che ha il compito di catturare il colesterolo cattivo dal flusso sanguigno e indirizzarlo principalmente alle cellule del fegato. Casi più rari sono invece collegati ad una alterazione della proteina PCSK9». Come spiegato dallo studio, se la proteina PCSK9 è iperattiva, degrada i recettori LDLR troppo velocemente. Per questo le terapie con statine convenzionali risultano scarsamente efficaci. In questi casi, il tratta-

È di pochi mesi fa un articolo pubblicato on line su “JAMA Cardiology” che rassicura riguardo all’ipotesi ventilata sulla possibilità che gli inibitori usati per la proteina PCSK9 abbiano un ruolo di promozione dello scompenso cardiaco. I risultati dello studio infatti non trovano nessuna associazione tra gli indicatori (proxy) genetici per l’inibizione farmacologica della proteina e per l’insufficienza cardiaca o il rimodellamento cardiaco avverso in una grande coorte basata sulla popolazione.

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mento migliore prevede di inibire la funzione della proteina PCSK9 o di ridurne il livello nel flusso sanguigno. Questo impedisce la degradazione dei ricettori LDLR riuscendo così ad abbassare il colesterolo cattivo rispetto all’approccio farmacologico tradizionale. «La nostra ricerca aiuta a comprendere il meccanismo mediante il quale la proteina PCSK9 guida i recettori LDLR nei lisosomi, dove le cellule vengono scomposte e riciclate – continua Ciccone – ciò apre nuove strade per il trattamento dell’ipercolesterolemia resistente ai farmaci convenzionali e mette in evidenza meccanismi molecolari correlati alle malattie cardiovascolari e ad alcuni tipi di cancro». Lo studio apre quindi la strada a farmaci mirati all’inibizione selettiva della porzione accessoria, in questo modo le statine possono dare un aiuto al processo di guarigione. «Quando – afferma - i recettori del colesterolo vengono distrutti dalla proteina le statine sono inutili. Se invece la proteina viene regolata e si blocca l’iperattivazione, i recettori rimangono espressi e di conseguenza anche le statine convenzionali, in combinazione con l’anticorpo monoclonale, migliorano il quadro clinico». (E. G.) Giornale dei Biologi | Mar 2023

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IL BATTERIO SHIGELLA È RESISTENTE AGLI ANTIBIOTICI ALLARME NEGLI STATI UNITI Le infezioni sono in aumento per via della sua elevata trasmissibilità. Una minaccia alla salute pubblica che preoccupa gli esperti: le contromisure da attuare per contenerla di Domenico Esposito

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i chiama Shigella l’ultima minaccia alla salute pubblica che sta creando apprensione negli Stati Uniti, al punto da portare le autorità sanitarie a stelle e strisce a diramare un apposito avviso agli operatori del settore, chiedendo di essere «vigili nel sospettare e segnalare casi di infezione da XDR (ampiamente resistenti ai farmaci) Shigella al proprio dipartimento sanitario locale o statale e di istruire i pazienti e le comunità a maggiore rischio rispetto alle modalità di prevenzione e trasmissione». Ma qual è l’elemento di novità che allarma la comunità medica USA e internazionale? Ogni anno, del resto, il batterio Shigella, noto per provocare febbre, diarrea e dolori addominali, infetta migliaia di pazienti americani. A partire dal 2015, quando i casi legati al ceppo resistente ai farmaci rappresentavano lo 0%, è stato infatti registrato un deciso aumento, visto che nel 2022 la percentuale di infezioni da Shigella causate da ceppi XDR segnalate ai Centers for Disease Control and Prevention (CDC) è salita al 5%. Un trend al rialzo era stato già osservato nel 2019, quando l’1% di tutti i casi negli States era risultato associato a questo ceppo, resistente ai cinque antibiotici più

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comunemente usati per trattarlo. Questi ultimi non sono sempre necessari, soprattutto in presenza di una forma lieve, ma possono essere indicati per ridurre di circa due giorni la durata della malattia e la probabilità di trasmissione. Come chiarito dallo stesso organismo di controllo della sanità pubblica americano, i medici che trattano pazienti infetti da ceppi XDR si trovano a dover gestire la situazione con limitate opzioni di trattamento antimicrobico contro questa infezione enterica acuta che causa diarrea infiammatoria e può essere anche sanguinolenta. La sua forma più temibile, detta “shigellosi”, è infatti reputata una delle principali cause di morte legate alla diarrea in tutto il mondo. Sebbene la maggior parte dei pazienti guarisca dalla shigellosi senza trattamento antimicrobico, la semplice reidratazione orale non sempre è garanzia di successo. A destare allarme, poi, è l’elevata trasmissibilità della Shigella, difficile da controllare perché i batteri si diffondono facilmente e rapidamente tra le persone, anche attraverso l’attività sessuale: basta infatti una piccola quantità di Shigella per far ammalare qualcuno. Fra le varie raccomandazioni per il pubblico, importanti sono quelle che prescrivono ai pazienti con shigellosi sospetta o confermata di astenersi da


Ad oggi, la Shigella provoca meno di cinque morti negli Stati Uniti all’anno. L’incremento del ceppo altamente resistente agli antibiotici, per ragioni che non sono chiare, è stato più comunemente osservato nei senzatetto, nei viaggiatori internazionali e nelle persone immunocompromesse, secondo i dati in possesso del CDC.

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una vita di comunità per il tempo della malattia, oltre che dal sesso (anale, orale, penieno o vaginale che sia). La migliore prevenzione da utilizzare è il lavaggio frequente delle mani con acqua e sapone per almeno 20 secondi, in particolare dopo aver usato il bagno, prima e dopo aver cambiato i pannolini, dopo aver pulito una persona malata e prima di preparare o mangiare cibo. L’allarme non è limitato soltanto agli Stati Uniti visto che anche funzionari del Regno Unito hanno avvertito lo scorso anno di un «numero insolitamente elevato di casi» legati al ceppo XDR. Come riferito dagli esperti del CDC al New York Times, batteri resistenti ai farmaci sono stati trovati in 29 Stati americani e sono probabilmente ancora più diffusi. Il fatto che siano in circolazione diversi ceppi, secondo quanto dichiarato dalla dr. Louise Francois Watkins, dirigente medico CDC, indica infatti che la resistenza ai farmaci è emersa «in diverse specie di Shigella, in diverse parti del paese, in diverse parti del mondo». I sintomi rivelatori della diarrea dis-

senterica da Shigella sono feci che non sono solo acquose ma contengono anche sangue e muco. Nausea, crampi allo stomaco e febbre sono frequenti, meno lo è il vomito. Il professor Stephen Baker, docente di microbiologia molecolare all’Università di Cambridge, ha spiegato: «La differenza con la Shigella è che ha la capacità di innescare questo effetto per cui si ottiene una vera e propria infiammazione aggressiva dell’intestino». Questo, ha aggiunto, «è il motivo per cui si ottengono sangue e muco nelle feci, cosa che E. coli e salmonella generalmente non fanno». Storicamente cinque diversi antibiotici sono stati usati per trattare la Shigella: azitromicina, ciprofloxacina, ceftriaxone, trimetoprim-sulfametossazolo e ampicillina. Non è raro che i ceppi dei batteri non rispondano a uno o due di questi, ma la resistenza a tutti e cinque è nuova. Vi sono altri antibiotici che potrebbero funzionare ma non sono ancora stati testati. Di conseguenza, il CDC non dispone attualmente di un’opzione terapeutica raccomandata per i ceppi resistenti ai farmaci. Giornale dei Biologi | Mar 2023

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Sul fronte della prevenzione, come ricordato dall’Istituto Superiore di Sanità, è importare seguire alcune misure igienico-sanitarie. Tra queste è bene ricordare che la carne, ad esempio, deve essere consumata ben cotta, affinché le eventuali larve presenti vengano inattivate o distrutte dal calore (basta un minuto a 65°C).

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l primo campanello d’allarme si è registrato in Puglia, dopo la segnalazione di tre casi di trichinosi nell’uomo in un comune del Foggiano. Il servizio veterinario di igiene degli alimenti di origine animale dell’Asl di Foggia ha dato il via a una capillare attività di controllo e verifica dei prodotti alimentari con sospetta infestazione da trichinella, ricordando come «in passato, i focolai umani osservati in Puglia sono stati causati dal consumo di: carni crude di cavallo importate dall’estero, suini allevati allo stato brado e macellati clandestinamente e carne, cruda o poco cotta, di salsicce di cacciagione di cinghiale». Si è dunque in presenza di zoonosi, ovvero di malattie che, per definizione, sono causate da agenti trasmessi, per via diretta o indiretta, dagli animali all’uomo. Gli agenti responsabili comprendono batteri, virus, parassiti, miceti e altre entità biologiche. Nel caso della trichinellosi (detta anche trichinosi), a determinare la patologia è un parassita in grado di infettare uccelli, rettili e mammiferi, in particolare quelli carnivori e onnivori; si tratta dunque di maiale, volpe, cinghiale, gatto, cane e, appunto, uomo. Dopo un contatto con un agente di zoonosi, come sottolineato dall’Istituto Superiore di Sanità, qualsiasi persona è potenzialmente a rischio di sviluppare malattia, ma questa circostanza diventa più probabile in presenza di persone affette da malattie croniche, con stato di immunodepressione, nei bambini e negli anziani o in persone che si trovano in condizioni particolari, quali possono essere ad esempio le donne in gravidanza, andando a determinare possibili conseguenze di maggiore gravità. Le zoonosi vengono riconosciute come un pericolo globale per la salute pubblica, soprattutto in ragione del cambiamento degli stili di vita, l’aumento degli spostamenti, i viaggi transfrontalieri, le ampie e complesse interconnessioni fra uomo, ambiente, animali domestici e selvatici; tutti fattori di rischio in grado di provocare pesanti ripercussioni anche a livello economico e sociale, oltre che sanitario. Quando si parla di trichinellosi, per entrare nello specifico, ci si riferisce alla zoonosi causata da vermi cilindrici (detti nematodi) appartenenti al genere Trichinella, un parassita che in principio si localizza nell’intestino tenue, nell’epitelio intestinale, in attesa di svilupparsi fino allo stadio adulto. Al quarto giorno di

infezione, queste larve lunghe all’incirca un millimetro si riproducono, dando vita così ad una nuova generazione di larve neonate che migrano nei muscoli striati e lì si incistano, penetrando e trasformando la cellula in cellula nutrice. Qui possono sopravvivere anche per anni, in attesa di essere ingerite da un nuovo ospite. L’infezione insorge mangiando carne cruda o poco cotta di cinghiali, equini o suini che contengono larve di Trichiniella. A fare da vettore sono spesso e volentieri carni e derivati (quali le salsicce fresche) provenienti da animali non sottoposti ai controlli veterinari. La gravità della trichinellosi dipende soprattutto dalla quantità di larve ingerite ed è molto variabile. L’infezione può infatti presentarsi anche in forma benigna mentre nei casi più gravi possono insorgere complicazioni di tipo cardiocircolatorio, respiratorio o neurologico in grado di portare anche al decesso. L’esordio della trichinellosi è subdolo, al punto da essere spesso scambiata per influenza. In questo senso non aiuta il fatto che la maggior parte delle infezioni si registri in inverno, quando vengono macellati i suini provenienti da allevamenti a carattere familiare e dunque non controllati. Una diagnosi di trichinellosi può essere sospettata quando sono presenti sintomi quali diarrea (presente in circa il 40% degli individui infetti), dolori muscolari, debolezza, sudorazione, edemi alle palpebre superiori, fotofobia e febbre. Per avere conferma della diagnosi sono poi necessari esami specifici. Attenzione al colore della carne, che deve virare dal rosa al bruno. Per quanto riguarda la selvaggina e i maiali macellati a domicilio, questi devono essere esaminati da un veterinario per determinare l’eventuale presenza delle larve del parassita; qualora non si sia certi che l’esame trichinoscopico sia stato svolto, è bene congelarla per almeno un mese a -15°C: un congelamento prolungato, infatti, uccide le larve. Occorre poi ricordare: la trasmissione all’uomo avviene esclusivamente per via alimentare e non da persona a persona. Il periodo di incubazione va in genere dagli otto ai 15 giorni. In Italia, è trasmessa soprattutto dalla carne suina ed equina, più raramente da quella di carnivori selvatici come ad esempio la volpe. (D. E.).


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TRICHINELLOSI IN ITALIA COSA BISOGNA SAPERE SULLA MALATTIA DA CARNE CRUDA A determinare la patologia è un parassita che dagli animali si trasmette all’uomo: il meccanismo d’azione dell’infezione, i sintomi e le misure di prevenzione da prendere

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OCCHI SPECCHIO DI ANIMA E SALUTE Dall’Alzheimer alla sclerosi multipla fino al diabete: spesso basta una visita oculistica per avere una diagnosi

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siste un noto detto - anche un tantino inflazionato - secondo cui gli occhi sarebbero lo specchio dell’anima. Non sappiamo fino a che punto questa definizione corrisponda a verità, ma di certo grazie alle ultime scoperte scientifiche è possibile affermare che gli occhi sono quanto meno lo specchio che riflette lo stato di salute di tutto il resto del corpo. Recarsi dal proprio oculista, infatti, non è soltanto l’occasione per controllare la vista e la presenza di eventuali affezioni oculari, ma anche un’opportunità per scoprire pato30

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logie di natura sistemica, malattie a dir poco delicate e spesso invalidanti come il morbo di Alzheimer, la sclerosi multipla, il diabete, ma anche l’ipertensione e i disturbi della tiroide. Ciò è possibile in particolare esaminando con grande attenzione lo stato dei vasi sanguigni della retina e del nervo ottico. Emblematico in questo senso è il caso del diabete, la malattia che con più frequenza viene diagnosticata mediante una visita oculistica. Decisivo è un esame della retina: controllare i cambiamenti dei vasi sanguigni al suo interno consente infatti allo speciali-

sta di ottenere importanti indicazioni e di indirizzare il paziente verso test maggiormente specifici quali quello della glicemia. Non è un caso, infatti, che uno dei rischi principali associati al diabete sia la cosiddetta retinopatia diabetica, una patologia che nei casi più gravi può anche portare alla cecità. In questi casi la terapia consigliata è localizzata e prevede il trattamento laser o in alternativa iniezioni oculari intravitreali. Un accurato esame oculistico, come detto, può anche svelare la presenza di malattie neurodegenerative. Ciò è possibile poiché il nervo ottico rappresenta il ponte che collega l’occhio al cervello ed è dunque un’estensione del sistema nervoso centrale. Di fatto si tratta della sola parte del cervello che può essere visionata in maniera nitida tramite l’esame della parte posteriore dell’occhio. Segnali come il gonfiore o l’infiammazione del nervo ottico possono essere decisivi per la diagnosi di Sclerosi Multipla. Un processo di analisi molto simile è possibile anche per la diagnosi del morbo di Alzheimer, una malattia neurodegenerativa che nel suo esordio presenta un insieme di sintomi non sempre facilmente interpretabili. Ecco che allora lo screening retinico può venire in soccorso di specialisti e pazienti, andando a rappresentare un’importante prospettiva anche nell’attuale ricerca medica. La retina, infatti, è formata da più strati di cellule neurali specializzate e diversi studi hanno ormai dimostrato la presenza di prove evidenti che gli stessi cambiamenti che hanno luogo a livello di funzionalità cerebrale e cognitiva possano verificarsi a livello della retina. Questo tipo di similitudine rappresenta un’associazione di interesse medico e scientifico da non sottovalutare e, al contrario, da prendere in considerazione per consentire potenzialmente lo screening dei pazienti per i primi segni del morbo di Alzheimer. (D. E.).


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l consumo eccessivo di eritritolo, un polialcol ottenuto dalla frutta e dai cibi fermentati impiegato come dolcificante, potrebbe essere associato ad un rischio più elevato di sperimentare complicazioni cardiache come ictus o infarto. A sostenerlo è una nuova ricerca condotta dagli scienziati della New Cleveland Clinic, coordinati da Stanlet Hazen, i cui risultati sono stati pubblicati sull’autorevole rivista “Nature Medicine”. Il team di esperti ha esaminato i dati relativi a circa quattromila persone in Europa e negli Stati Uniti, tenendo in considerazione i livelli di eritritolo nel sangue e la probabilità di sperimentare eventi cardiaci avversi potenzialmente letali. Contemporaneamente, gli esperti hanno analizzato gli effetti dell’aggiunta del dolcificante in campioni di sangue o piastrine isolate, osservando che l’eritritolo favoriva la formazione di coaguli. Il professor Harzen ha spiegato come gli edulcoranti simili all’eritritolo abbiano accresciuto rapidamente la loro popolarità negli ultimi anni, rendendo necessaria una ricerca approfondita sui loro effetti a lungo termine. L’esecuzione di una valutazione attenta risulta cruciale a maggior ragione considerando che i prodotti senza zucchero contenenti eritritolo vengono spesso consigliati alle persone alle prese con diabete, obesità e altre sindromi metaboliche, e che le malattie cardiache rappresentano la causa principale di decessi a livello globale. Prodotto mediante la fermentazione del mais, l’eritritolo non presenta retrogusti simili a quelli tipici dei dolcificanti sintetici o semi-sintetici, è privo di calorie ed è dolce al 70% rispetto allo zucchero. Tutte qualità che lo rendono “appetibile” da chi cerca un’alternativa allo zucchero, ma che non tengono probabilmente in conto il fatto che l’eritritolo sia scarsamente metabolizzato dall’organismo, e che dunque entri

ERITRITOLO: QUALI SONO I DANNI PER IL CUORE Una nuova ricerca ha evidenziato che un consumo eccessivo del dolcificante potrebbe essere correlato ad ictus e infarto

nel flusso sanguigno ed eliminato attraverso le urine. Sebbene fino ad oggi il dolcificante sia stato considerato sicuro dagli organismi regolatori, gli autori dello studio rimarcano l’importanza di condurre indagini di follow-up che confermino nella popolazione generale i risultati ottenuti nello studio. Illustrando i contorni del lavoro svolto dal suo team, Hanzen ha spiegato che la ricerca ha evidenziato come l’eritritolo possa restare nel «flusso sanguigno per diversi giorni a livelli più elevati rispetto alle soglie considerate sicure per il rischio di coaguli».

Secondo il coordinatore dello studio, svolgere ulteriori approfondimenti per verificare la sicurezza dei dolcificanti artificiali in generale, e dunque non solo dell’eritritolo, in futuro sarà fondamentale «specialmente tra le persone associate a una probabilità maggiore di sperimentare malattie cardiovascolari». Il consiglio degli esperti, fino a quando non emergeranno nuove evidenze, è dunque quello di rivolgersi ad un esperto del settore, in particolare ad un dietologo nutrizionista, così da individuare le scelte più sane per la propria alimentazione. (D. E.). Giornale dei Biologi | Mar 2023

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LA CORRELAZIONE TRA BEVANDE ZUCCHERATE E CADUTA DEI CAPELLI NEGLI UOMINI Uno studio cinese ha dichiarato come il 57,6% dei partecipanti che manifestava MPHL era associato a un maggior consumo di SSB, oltre a segni di invecchiamento precoce di Biancamaria Mancini

L’ Bibliografia Xiaojin Shi et al.: “The Association between Sugar-Sweetened Beverages and Male Pattern Hair Loss in Young Men” Nutrients 2023, 15(1), 214; https://doi.org/10.3390/ nu15010214.

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uso cospicuo e quotidiano di zucchero, in cibi e soprattutto bevande, sembra essere oggi un grande nemico per la nostra salute e a quanto pare anche per la salute dei nostri capelli. In un recentissimo studio cinese pubblicato su Nutrients, i ricercatori hanno voluto esaminare il legame che esiste tra il consumo di bevande zuccherate (SSB) e la caduta dei capelli di tipo maschile (MPHL). Lo studio documenta l’osservazione tra l’elevato livello di SSB e un rischio maggiore di MPHL. La ricerca, condotta dallo studioso cinese Xiaojin Shi nella Cina continentale, è durata da gennaio ad aprile 2022. Sono stati reclutati nello studio 1028 uomini, con un’età compresa tra 18 e 45 anni, provenienti da 31 province della Cina. I partecipanti hanno ricevuto un

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sondaggio da compilare in cui hanno inserito informazioni socio-demografiche di base, lo stato dei loro capelli, la loro dieta, il loro stile di vita e anche lo stato psicologico. Il consumo di SSB di ciascuno è stato determinato dalle risposte al questionario sull’assunzione di bevande in 15 voci. Il sondaggio ha esplorato infine le associazioni tra: quantità/frequenza del consumo di SSB e MPHL, utilizzando un modello di regressione logistica binaria, con aggiustamenti apportati per fattori sociodemografici, stato dei capelli, assunzione dietetica, stile di vita e condizione psicologica. Dall’analisi finale è emerso che un elevato consumo di SSB è associato a un rischio più elevato di MPHL. Nello specifico, il 57,6% dei partecipanti allo studio che manifestava MPHL era associato ad un maggiore consumo di SSB insieme a segni di invecchiamento precoce; inoltre questo gruppo con associazione SSB-MPHL dichiarava di essere

Secondo i dati raccolti dal 2003 al 2014 in Cina, il consumo annuo pro capite di SSB nella popolazione giovane è aumentato notevolmente negli ultimi decenni, si è registrato un passaggio da 12 a 119 kg e cosa più preoccupante, il consumo continua a crescere. Uno dei motivi dell’elevata assunzione di SSB nella popolazione giovane è l’inconsapevolezza dei suoi effetti dannosi, sebbene vi sia già un gran numero di studi pubblicati che ne riportano gli effetti negativi sulla salute, come mortalità, malattie cardiovascolari, obesità, carie dentale e ora anche perdita di capelli. Lo studio ha messo in luce che gli uomini con maggiore perdita di capelli consumavano quasi il doppio delle bevande zuccherate di quelli con più capelli.

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fumatore o ex fumatore, di fare poca attività fisica, di avere una durata del sonno più breve e di avere sofferto di ansia grave o depressione. Comparando i dati fra gli uomini con MPHL e quelli senza, è stato dimostrato che le persone con MPHL consumavano una media di 4,3 litri di bevande zuccherate a settimana rispetto ai soli 2,5 litri tra quelli senza calvizie. Nonostante questa evidenza, è giusto sottolineare come tale scoperta si basi per ora solo sulla correlazione statistica tra consumo di SSB e MPHL e non sul reale nesso di causalità; inoltre nello studio non viene considerata la positività alla storia familiare di MPHL. Sono sicuramente necessari ulteriori ricerche per confermare davvero tale collegamento che appare comunque molto interessante. Ma in che modo l’assunzione di zucchero potrebbe influire sui capelli? Diversi potenziali meccanismi diretti e indiretti potrebbero spiegare questa associazione. Sicuramente l’elevato contenuto di zucchero porta a una maggiore concentrazione di glucosio nel sangue, che innesca la via dei polioli creando un’elevata affinità per l’aldoso reduttasi. I sintomi biochimici di MPHL del cuoio capelluto sono altamente indicativi di una via iperattiva dei polioli. Studi in vitro e in vivo hanno dimostrato che l’utilizzo del glucosio nella via dei polioli riduce la quantità di glucosio disponibile per i cheratinociti della guaina della radice esterna dei follicoli piliferi e la gluconeogenesi è anche antagonizzata dall’esaurimento dei livelli di ATP e fosfato. La mancanza di energia nei cheratinociti della guaina della radice esterna è considerata una possibile causa di MPHL. In conclusione, questo studio apre la porta a nuove riflessioni: la calvizie è causa del peggioramento della qualità di vita psico-sociale ed è predisponente alle cattive abitudini come consumo di SSB, fumo e vita sedentaria, o al contrario la MPHL è una conseguenza di uno stile di vita poco salubre? Considerati gli effetti negativi riscontrati, ridurre il consumo di SSB è un problema che deve essere preso in considerazione dai governi e le istituzioni sanitarie di tutto il mondo. Sottolineare che il consumo di SSB potrebbe avere un potenziale effetto negativo sul proprio aspetto potrebbe attirare l’attenzione della popolazione giovane e promuovere una riduzione dell’assunzione di SSB. Giornale dei Biologi | Mar 2023

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COSMETICI PER SEBORREA E ACNE UN PASSO AVANTI PER LA CURA DELLA PELLE La perdita di diversità dei filotipi di C. acnes osservata in pazienti con acne è coinvolta nella risposta infiammatoria e non nell’iperproliferazione di questo batterio commensale di Carla Cimmino

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Estratto da “Cosmetici per seborrea e acne”, Author links open overlay panelM.-A. Dagnelie PhD, B. Dréno MD, PhD.

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l ruolo del batterio C. acnes nella fisiopatologia dell’acne è oggetto di studio da molti anni, essendo un commensale della pelle è suddiviso in sei sottogruppi, nominati “filotipi” (IA1, IA2, IB, IC, II e III). Si è visto come un’eccessiva proliferazione di questo batterio sia capace di indurre un’infiammazione cutanea e lasciare lesioni. Alcuni studi però hanno dimostrato che le quantità del batterio C. acnes misurate sulla pelle e nei follicoli di pazienti con acne non sono superiori a quelle misurate sulla pelle di soggetti sani, tutto ciò fa pensare ad un’immunità innata dell’individuo. Studi recenti mettono in risalto che il filotipo IA1 è presente nel 95% dei pazienti con acne grave sulla schiena, così è possibile ipotizzare che la perdita di diversità dei filotipi di C. acnes osservata in pazienti con acne è coinvolta nella risposta infiammatoria e non nell’iperproliferazione di questo batterio commensale. Il sebo prodotto dalla ghiandola sebacea ha il ruolo di proteggere la pelle dalla disidratazione e dalle aggressioni esterne. L’acne deriva da un comedone (lesione), che si sviluppa in più fasi: 1) cambiamenti ormonali che promuovono un’eccessiva produzione di sebo; 2) cambiamenti nelle cellule situate

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nelle zone superficiali della pelle e sulla parete dei follicoli (infundiboli), tutto ciò porta ad un inspessimento dello strato corneo e al riempimento dei follicoli pilosebacei, a questo punto possono accadere due cose: 1 questo miscuglio viene a contatto con l’aria, si ossida allora vengono fuori i “punti neri”; 2 rimane sotto la superficie della pelle, compaiono comedoni chiusi (microcisti). Essendo il comedone la lesione elementare dell’acne, unito al microbiota cutaneo in fase di squilibrio può dare origine a lesioni più grandi e più profonde (noduli). L’acne sino ad oggi è stata trattata con: antibiotici orali o topici, isotretinoina, trattamenti


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L’acne deriva da un comedone (lesione), che si sviluppa in più fasi: 1) cambiamenti ormonali che promuovono un’eccessiva produzione di sebo; 2) cambiamenti nelle cellule situate nelle zone superficiali della pelle e sulla parete dei follicoli (infundiboli), tutto ciò porta ad un inspessimento dello strato corneo e al riempimento dei follicoli pilosebacei.

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ormonali, zinco, ma ultimamente si è visto che i cosmetici svolgono un ruolo fondamentale e possono essere utilizzati in combinazione con trattamenti medici. Diventa sempre più importante per i medici associare medicinale e cosmetico, per poter fornire consigli utili per le esigenze del paziente es.: - niacinamide (nicotinamide) contenuta in vari cosmetici ha proprietà seboregolatrici e antinfiammatorie, anche fullereni topici (gel, 1%), epigallocatechina-3-gallato (EGCG) e L-ascorbil-2-fosfato (lozione, 5%) mostrano proprietà seboregolatrici;- sonic brush dispositivo offre un modo sicuro ed efficace per la pulizia della pelle, mantenendo inalterate le condizioni fisiologiche cutanee (pH, barriera cutanea e l’idratazione); - creme idratanti giocano un ruolo importante per il ripristino della barriera cutanea e quindi aiutano a mantenere un microbiota equilibrato. Diversi studi dimostrano che l’uso quotidiano di creme idratanti per pelli con tendenza acneica riduce le lesioni acneiche infiammatorie. Per iperseborrea, ipercheratinizzazione follicolare, C. acnes e infiammazione vengono utilizzati cosmetici con “attivi”, che hanno azioni mirate verso i fattori coinvolti nella fisiopatologia dell’acne. Gli ingredienti più noti sono: antiossidanti, niacinamide (nicotinamide), alfaidrossiacidi (AHA), acido salicilico, lipoidrossiacido, acido glicolico, acido linoleico, acido laurico, retinaldeidi, sali di zinco, acidi grassi e alcuni estratti vegetali (avena, tea tree, ecc.). L’iperseborrea è il bersaglio di diversi antiossidanti (il fullerene, l’EGCG e il sodio L-ascorbil-2-fosfato; per l’ipercheratinizzazione; gli AHA assottigliano lo strato corneo e promuovono la sintesi del collagene nel derma; la retinaldeide, ha un’azione comedolitica, permette un aumento del turnover epiteliale. Si è visto che se vengono somministrati probiotici in quantità adeguate, per via orale o locale, questi sono di beneficio per la salute dell’ospite, infatti l’Aqua Posae Filiformis (attivo ottenuto integrando un batterio chiamato Vitreoscilla filiformis all’acqua termale), permette di stimolare l’espressione di peptidi antimicrobici cutanei da parte dei cheratinociti e limita la proliferazione della flora microbica cutanea patogena. Alcuni studi evidenziano che i prodotti nutrizionali contenenti pre- e/o probiotici potrebbero essere

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importanti per modulare il sistema immunitario cutaneo fornendo benefici terapeutici contro le dermatosi infiammatorie. Fotoprotezione Nei soggetti con acne, la protezione solare è fondamentale, infatti, i raggi ultravioletti A (UVA) e B possono causare disturbi della pigmentazione, soprattutto nei soggetti che soffrono di acne o che presentano cicatrici da acne. Inoltre, i raggi UVA ispessiscono lo strato corneo, si osserva quindi la nascita di comedoni e sfoghi di acne da postesposizione al sole, tutto ciò accade soprattutto all’inizio dell’autunno. L’utilizzo di brume solari, recente innovazione, rende la protezione molto pratica, perchè hanno il vantaggio di offrire un’elevata protezione anti-UVB e anti-UVA, di essere applicate senza bisogno di spalmarle, su pelle bagnata o asciutta, sono molto resistenti all’acqua e possono essere applicate su viso e corpo, l’importante è che sia riportata la dicitura “non comedogenica” adatta proprio alle pelli acneiche. Cosmetologia e microbiota cutaneo: piste promettenti In dermatologia, per comprendere la diversità dei ceppi di C. acnes e di altre specie batteriche come Staphylococcus epidermidis nella fisiopatologia dell’acne, sarebbe interessante identificare un microbiota cutaneo healthy-like, che servirebbe come termine di confronto da tenere in considerazione per i trattamenti futuri, al fine di ripristinare un microbiota “sano” nei pazienti con acne, avvicinandosi il più possibile a quello healthy-like. Tutto ciò indurrebbe un’attivazione più appropriata del sistema immunitario innato e quindi una diminuzione dell’infiammazione. Conclusioni e prospettive I cosmetici, che utilizzano il ripristino di un microbiota healthy-like come soluzione naturale, si basano sull’utilizzo di batteri già presenti allo stato naturale sulla pelle, pertanto, il microbiota cutaneo associato ai cosmetici rappresenta un probabile alleato promettente per la cura dell’acne. Questi trattamenti alternativi e cosmetici, basati sulla modulazione del microbiota cutaneo, potrebbero costituire la generazione di trattamenti antinfiammatori definibili “ecologici”.


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I SEGRETI DELLE FUNZIONI CEREBRALI DELLE API CHE NE DETERMINANO IL COMPORTAMENTO In uno studio condotto dalle Università di Paris-Saclay, Düsseldorf e Trento, messo a punto un sistema per osservare le abitudini degli insetti di Elisabetta Gramolini

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e api richiamano l’attenzione degli scienziati non solo per il loro valore nella tutela della biodiversità ambientale ma anche per i comportamenti e le capacità organizzative che sono in grado di mettere in atto. Uno studio, pubblicato sulla rivista scientifica PLOS Biology, realizzato dalle Università di Paris-Saclay, Düsseldorf e Trento, ha prima ideato e poi messo all’opera un modello per l’osservazione delle funzioni cerebrali degli insetti. La ricerca è partita dall’inoculazione di una specifica sequenza genetica in oltre 4mila uova di ape. Il processo di allevamento, test e selezione ha poi permesso di ottenere sette regine portatrici del gene-sensore. Quan-

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do si riproducono, le regine trasmettono il gene a una parte della loro prole. «Abbiamo modificato il codice genetico delle api mellifere - spiega Albrecht Haase, professore di Neurofisica all’Università di Trento - per far produrre alle loro cellule cerebrali una proteina fluorescente, una sorta di sensore che ci permette di monitorare le aree che si attivano in risposta agli stimoli ambientali. L’intensità della luce emessa varia


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in base all’attività neurale. In generale, gli insetti sono molto interessanti perché ci permettono di usare delle metodologie che sarebbero impossibili da applicare su cervelli più grandi. Il nostro laboratorio è specializzato perché usiamo dei metodi di microscopia avanzata che ci permettono di accedere a qualsiasi punto del cervello di un insetto dal momento che ha la giusta dimensione per i nostri strumenti. Fra gli insetti, le api sono quelle che offrono i comportamenti più interessanti, che pochi altri offrono sul piano della navigazione, della comunicazione sia chimica sia sottoforma di danza, ma anche dell’organizzazione sociale in colonie». Il sensore messo a punto dal team di ricercatori e ricercatrici è stato usato per studiare l’olfatto delle api. Nell’esperimento, l’intensità della luce fluorescente variava a seconda dell’attività neurale. «Gli insetti – affermano Julie Carcaud, professoressa associata all’Università di Paris-Saclay, e Jean-Christophe Sandoz, direttore della ricerca del Centre national de la recherche scientifique (CNRS) - sono stati stimolati con vari odori e osservati con un microscopio ad alta risoluzione. Questo ha permesso di rilevare quali cellule cerebrali si attivino a seconda dell’odore e come queste informazioni si distribuiscano nel cervello». Il nuovo strumento permetterà di studiare come funziona la comunicazione all’interno delle colonie e, più in generale, come la socialità influisca sul cervello degli animali. «L’importanza del lavoro – evidenzia Haase - non è tanto l’osservazione dell’attività cerebrale, che già si poteva fare prima con metodi complicati, ma è il metodo, ovvero l’espressione di una proteina fluorescente distribuita nel cervello. In questo modo vediamo come tutto

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Il nuovo strumento permetterà di studiare come funziona la comunicazione all’interno delle colonie e, più in generale, come la socialità influisca sul cervello degli animali.

interessa molto». Sempre sulle caratteristiche del metodo interviene Martin Beye, professore di Genetica all’Università di Düsseldorf: «realizzare questo strumento – dice – è stato particolarmente impegnativo perché abbiamo dovuto intervenire sul DNA delle api regine. A differenza dei moscerini della frutta, l’ape regina non può essere allevata in laboratorio, perché ognuna ha bisogno della propria colonia per riprodursi».

COPIE DIGITALI I più studiati fra gli insetti sono da molto tempo loro: i Drosophila melanogaster, più comunemente noti come moscerini della frutta. Gli scienziati hanno iniziato ad approfondire la specie poco più di un secolo fa, scoprendo nei decenni successivi come condividano il 60% del codice genetico con gli esseri umani. A maggio scorso un gruppo di ricercatori della Scuola Politecnica federale di Losanna ha sviluppato un modello digitale chiamato NeuroMechFly, utile per comprendere il comportamento dell’insetto. Lo studio, pubblicato su Nature Methods, rappresenta un passo avanti nello sviluppo dei robot biomimetici.

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il cervello reagisca agli stimoli e come l’attività venga distribuita. Oggi possiamo vedere come cambia il segnale nelle singole regioni. Lo scopo quindi era lo sviluppo del metodo che è stato subito applicato. Abbiamo visto inoltre che avviene una codificazione dell’odore, a livello della periferia del cervello, un centro neuronale molto vicino a quello che nell’uomo è lobo olfattivo mentre nelle api è chiamato lobo antennale. Sapevamo già come gli odori vengono codificati in questa regione ed ora che abbiamo accesso al modo in cui il segnale viene inoltrato ad altre aree, abbiamo visto che il codice cambia. Mentre nella periferia, sembra che gli odori vengano semplicemente distinti, secondo le loro proprietà chimiche, in regioni più centrali del cervello, invece, entrano in gioco altre proprietà, come il valore dell’odore. È la prima volta che lo vediamo – sottolinea -. Un’ipotesi che ora indaghiamo è che, nella parte chiamata lateral horn, la funzione dell’odore venga classificata e siano divisi gli odori delle piante dai ferormoni che servono come segnali di comunicazione». In futuro, questo metodo potrebbe diventare uno standard che permetterà ai ricercatori di usare le api: «il tool – afferma Haase - ci permette di vedere tutto il cervello e ognuno può scegliere come usarlo. Ad esempio per osservare come viene usata la comunicazione e come vengono trasportate le informazioni dalla regina alle altre api. Questa è una cosa che non si può fare ad esempio con i moscerini e ci

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Ambiente

Il ciclo della vita di un’ape.

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PER RESTARE SEMPRE INSIEME DIMOSTRAGLI IL TUO AMORE CON IL MICROCHIP Il microchip è il modo migliore per ritrovare il tuo amico a quattrozampe in caso di smarrimento.

COS’È IL MICROCHIP E A COSA SERVE? ●

E allora cosa aspetti? Se il tuo cane o il tuo gatto non lo hanno ancora, recati dal tuo veterinario o al servizio veterinario pubblico competente per territorio, per identificarlo e iscriverlo in anagrafe degli animali d’affezione!

Il microchip, obbligatorio per legge per il cane e presto anche per il gatto, è un piccolo dispositivo elettronico che identifica il tuo amico a quattrozampe e lo lega a te in maniera unica. L’identificazione con microchip di cani, gatti e furetti è inoltre obbligatoria per poter acquisire il passaporto europeo, per recarsi all’estero. Non temere per la sua salute: l’inserimento del microchip è sicuro e indolore! Il certificato di iscrizione nell’anagrafe degli animali d’affezione è la sua “carta d’identità”. Ricordati di portarlo sempre con te!

È un’iniziativa del Ministero della Salute in collaborazione con LAV

Informati su www.salute.gov.it e www.lav.it

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BENEFICI PER PRODUTTIVITÀ E AMBIENTE LO SMART WORKING ABBASSA LE EMISSIONI Una ricerca dell’Enea realizzata sulle città di Roma, Torino, Bologna e Trento spiega come il lavoro a distanza riduca del 40 per cento l’anidride carbonica immessa nell’aria 42

Giornale dei Biologi | Mar 2023


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L’indagine ha coinvolto un campione complessivo di 3.397 persone di 29 amministrazioni pubbliche su tutto il territorio italiano, che hanno aderito al lavoro da remoto nel periodo 2015-2018, dunque prima della pandemia. Sono stati scelti 1.269 “lavoratori agili” della Pubblica amministrazione nelle quattro città esaminate. In linea con i dati demografici dei dipendenti nella PA, il 73,7% del campione totale erano donne over 50; il 52% ha bambini in età scolare e il 42% dichiara di avere familiari bisognosi di assistenza. Le persone hanno fornito, in maniera anonima, informazioni su mobilità casa - occupazione, tempi di viaggio e distanza giornaliera percorsa.

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i può dare una mano al Mondo lavorando da casa? Sì, ce lo racconta uno studio dell’Enea condotto su quattro città italiane Roma, Torino, Bologna e Trento nel periodo 2015-2018, pubblicato sulla rivista internazionale “Applied Sciences”. Abbiamo evitato di immettere nell’aria circa 600 chilogrammi di anidride carbonica all’anno per ogni lavoratore, il che rappresenta una riduzione del 40% rispetto al lavoro in ufficio. In termini di risparmi, sono stati tagliati pressappoco 150 ore di tempo impiegato per gli spostamenti, 3.500 km di distanza percorsa, 260 litri di benzina o 237 litri di gasolio. I valori riportati si riferiscono ad un impegno “casalingo” di due giorni a settimana per un totale di cento l’anno. In Italia, i trasporti sono responsabili di oltre il 25% delle emissioni totali nazionali di gas ad effetto serra, di cui il 93% proviene dallo spostamento su gomma, principalmente dalle automobili (70%). Ciò significa che occorre lavorare ancora tanto sul decremento per arrivare a raggiungere gli obiettivi fissati a livello nazionale e internazionale. «Nel nostro Paese circa una persona su due possiede un’autovettura, vale a dire 666 auto ogni 1000 abitanti, - spiega Roberta Roberto, ricercatrice Enea del Dipartimento Tecnologie energetiche e fonti rinnovabili e co-autrice dell’indagine, insieme ai colleghi di altri settori dell’Agenzia Bruna Felici, Alessandro Zini e Marco Rao - un dato che pone l’Italia al secondo posto in Europa per il più alto tasso di motorizzazione, dopo il Lussemburgo. Il lavoro agile e tutte le altre forme a distanza, tra cui lo smart working, hanno dimostrato di poter essere un importante strumento di cambiamento in grado non solo di migliorare la qualità di vita professionale e personale, ma anche di ridurre il traffico e l’inquinamento cittadino e di rivitalizzare intere aree periferiche e quartieri considerati dormitorio». Negli spostamenti abitazione - lavoro tutti usano il mezzo privato a combustione interna e così ogni giorno senza ufficio permetterebbe di evitare sei kg di emissioni dirette in atmosfera di CO2 e non consumare 85 megajoule (MJ) di carburante pro capite. I vantaggi ambientali non si fermano qui: c’è stato pure un calo negli ossidi di azoto a persona al giorno (dai 14,8 g di Trento ai 7,9 g di Torino), monossido di carbonio (da 38,9 g di Roma a 18,7 g di Trento),

PM10 (da 1,6 g di Roma a 0,9 g di Torino), PM2,5 (da 1,1 g di Roma e Trento a 0,6 g di Torino). Inoltre, nei trasferimenti extra-lavorativi durante i giorni di smart working il 24,8% del campione dichiara di aver optato per modalità più sostenibili (mezzi pubblici, a piedi o in bicicletta), l’8,7% ha modificato le proprie scelte scegliendo il mezzo privato, mentre il 66,5% non ha cambiato le sue preferenze. «Abbiamo scelto le quattro città - sottolinea Bruna Felici, ricercatrice Enea dell’Unità studi, analisi e valutazioni - per due motivi: il primo riguarda le loro peculiarità legate al territorio e al profilo storico che fanno supporre impatti diversificati sulla mobilità urbana, mentre il secondo, e anche il più pratico, risiede nell’alto numero di risposte al questionario che abbiamo ricevuto dai dipendenti pubblici di queste quattro città che in media lavorano da casa due giorni a settimana». Secondo i dati raccolti, in media il campione percorre quotidianamente 35 km per una durata di un’ora e venti minuti. La Capitale è quella in cui si fa più fatica con un tempo di percorrenza medio di due ore, a causa delle distanze da coprire più grandi (con un lavoratore su cinque che macina più di 100 km al giorno) e del traffico più intenso. Ciò è confermato dal fatto che gli spostamenti giornalieri per motivi professionali e di studio a Roma sono circa 420 mila e ogni persona trascorre nel traffico 82 ore all’anno. Quasi il 50% del campione dichiara di utilizzare esclusivamente mezzi di trasporto privati a motore, con il 47% che sceglie l’auto e il 2% le amate due ruote. Tuttavia, il 17% si serve esclusivamente di tram, metropolitane, autobus e treni e il 16% usa una combinazione fra trasporto pubblico/privato. Trento è la città con il maggior uso di auto personali a combustione interna negli spostamenti casa-lavoro (62,9%), seguita da Roma (54,4%), Bologna (44,9%) e Torino (38,2%). «La mobilità privata offre soluzioni flessibili in termini di risparmio di tempo e autonomia di movimento, soprattutto per chi ha figli in età scolare. Il trasporto pubblico, invece, viene scelto principalmente conclude Alessandro Zini, ricercatore Enea dell’Unità Studi, analisi e valutazioni - in un’ottica di risparmio denaro o in caso di mancanza dei parcheggi». (G. P.). Giornale dei Biologi | Mar 2023

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PLATANI, OLMI E QUERCE PER MIGLIORARE LA QUALITÀ DELL’ARIA NELLE CITTÀ Regolano il clima, riducono il rumore, conservano la biodiversità e intercettano CO2 e contaminanti 44

Giornale dei Biologi | Mar 2023


Ambiente

Il team di ricerca ha utilizzato il modello Airtree, precedentemente sviluppato dal Cnr e dal Crea, per prevedere come le foglie scambiano CO2 acqua, ozono e particelle fini con l’atmosfera, applicandolo per la prima volta al contesto urbano milanese e bolognese. Il modello è stato dotato di parametri con inquinanti atmosferici modellati e dati biometrici specifici per specie, combinati insieme a mappe georeferenziate.

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e cose d’ogni giorno raccontano segreti / a chi le sa guardare ed ascoltare. / Per fare un tavolo ci vuole il legno / per fare il legno ci vuole l’albero…». La canzone che dà il titolo all’undicesimo album di Sergio Endrigo, “Ci vuole un fiore”, pubblicato nell’ottobre 1974, è nata dalla fantasia di Gianni Rodari ed insegna ad amare l’Ambiente. Gli alberi, difatti, sono in grado di sequestrare il carbonio e gli inquinanti. Individuare, quindi, le specie più efficienti per tale scopo diventa importante, soprattutto nelle nostre città. Un recente studio nato dalla collaborazione fra un gruppo di ricercatori del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’economia agraria (Crea) e di Arianet, società di consulenza sulla qualità dell’aria, ha dimostrato che gli spazi coperti di vegetazione sono in grado di fornire numerosi benefici ambientali come: regolazione del clima, riduzione del rumore, conservazione della biodiversità, intercettare CO2 e altri contaminanti. L’analisi, pubblicata sulla rivista “Nature”, ha preso in considerazione le città di Milano e Bologna, entrambe esposte ad alti livelli di polluzione, e ha identificato piante come platani, olmi, bagolari e querce, capaci di acciuffare i cattivi ospiti dell’aria. Il team di ricerca ha utilizzato il modello Airtree, precedentemente sviluppato dal Cnr e dal Crea, per prevedere come le foglie scambiano CO2 acqua, ozono e particelle fini con l’atmosfera, applicandolo per la prima volta al contesto urbano milanese e bolognese. Il modello è stato dotato di parametri con inquinanti atmosferici modellati e dati biometrici specifici per specie, combinati insieme a mappe georeferenziate. In passato la maggior parte delle zone coperte da piante sono state progettate e create per scopi sociali ed economici, ma occorre cambiare il proprio punto di vista considerando anche i vantaggi innegabili che possono procurare ai contesti civici. Ottimizzare le future piantumazioni per favorire i migliori nel trattenere alcuni “avversari” della salute può aiutare un Comune ad abbatterli. Sono state utilizzate le caratteristiche microclimatiche, fisiologiche e morfologiche di ciascuna categoria inventariata dai Comuni per generare cartine della vegetazione

e identificare le varietà arboree con le maggiori prestazioni. Inizialmente è stato simulato il massimo livello possibile di aria malsana nelle due città, ipotizzando una totale assenza di alberi. Poi hanno calcolato la capacità di assorbimento rispetto a inquinanti come anidride carbonica, particolato e biossido di azoto, scoprendo che quelle con il più alto erano il bagolaro (Celtis australis), il platano comune (Platanus x acerifolia), l’olmo siberiano (Ulmus pumila) e la quercia rossa (Quercus rubra). I risultati hanno mostrato come in entrambi i centri urbani ci sia una grande presenza di latifoglie decidue in autunno. Esse hanno evidenziato una maggiore capacità di imprigionare CO2, O3 e NO2 rispetto alle foglie aghiformi sempreverdi, che, invece, hanno avuto prestazioni più elevate nella rimozione del particolato. Avendo stimato anche la capacità del verde complessivo, all’interno di ciascun comune, nel fornire aiuti all’ecosistema, in futuro si potranno studiare e gestire meglio le aree frondose urbane, offrendo un apporto importante per il miglioramento nella qualità della vita cittadina. «Il contributo principale di questo lavoro - afferma Silvano Fares, ricercatore del Cnr e autore corrispondente dello studio - è stato sottolineare l’importanza della specificità biometrica di ogni specie vegetale, in particolare il numero di foglie per metro quadro. Caratteristiche come la fotosintesi e la capacità di traspirazione della pianta sono state verificate in situ per ogni specie, al fine di ottenere dati più precisi». Gli alberi funzionano, insomma, come filtri naturali dell’aria, agendo da barriere che assorbono i contaminanti e li trattengono all’interno dei loro tessuti e radici. Questo processo viene chiamato “fitorimediazione” e avviene grazie alla presenza di specifiche sostanze come, ad esempio, la clorofilla e i composti fenolici, i quali permettono d’intercettare i “nemici” e contenerli in modo efficace. Promuovere la messa a dimora ragionata di nuovi alberi dovrebbe, quindi, essere una priorità per i governi e le comunità locali. Il modello creato dai ricercatori può essere utilizzato per regolamentare e ampliare la riforestazione urbana, basandosi su dati specifici e su come i diversi arbusti interagiscono con l’ambiente in cui si trovano. (G. P). Giornale dei Biologi | Mar 2023

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ACQUE POCO LIMPIDE? UN LASER SCOPRE SE CI SONO SOSTANZE INQUINANTI L’Enea ha sviluppato un metodo per l’analisi dell’acqua basato sulla spettroscopia laser Raman, che rileva la presenza di inquinanti, anche a basse concentrazioni, in tempo reale di Gianpaolo Palazzo

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e spade laser sono apparse in film, serie tv, fumetti e videogiochi. Come dimenticare quelle di cui è entrato in possesso Luke Skywalker, la doppia di Darth Maul, fino allo spadone con guardia brandito da Kylo Ren? Nella storia del cinema è un’arma iconica e passando dalla fantasia alla realtà, l’Enea ha sviluppato una metodologia innovativa per l’analisi dell’acqua basata sulla spettroscopia laser Raman, dal nome del fisico indiano, premio Nobel 1930, che scoprì il fenomeno fisico negli anni Venti del ‘900. Tale tecnologia consente di rilevare la presenza di sostanze inquinanti, anche a basse concentrazioni, in tempo reale. Il dispositivo portatile, già impiegato con successo per la rilevazione d’inquinanti nell’aria, può anche fornire informazioni sulla struttura chimica di quelli presenti nell’acqua, sfruttando l’interazione della luce con le molecole. Tra i vantaggi ci sono le risposte rapide, nessuna distruzione, come nei film di fantascienza, e che non sono richieste speciali condizioni per le misurazioni, potendo esser diretta direttamente sul campione senza alcuna preparazione. «Abbiamo preso in esame - spiega Salvatore Almaviva, ricercatore Enea del Laboratorio Diagnostiche e Metrologia presso il Centro Ri-

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cerche di Frascati e coautore dello studio pubblicato sulla rivista internazionale “Sensors”, insieme alle altre ricercatrici dell’Agenzia, Antonia Lai, Florinda Artuso, Isabella Giardina e Alessandra Pasquo - gli inquinanti più comuni che è possibile trovare nelle acque di fiumi, laghi e bacini artificiali, come conseguenza di attività agricole e industriali. Queste sostanze mettono in pericolo gli ecosistemi naturali e rappresentano un rischio per la salute di uomini e animali quando quelle stesse acque vengono utilizzate per l’irrigazione in agricoltura e l’abbeveramento del bestiame, entrando così nella nostra catena alimentare». Il dispositivo si è dimostrato particolarmente efficiente nella rilevazione dei livelli di concentrazione di nitrati fino a 20 milligrammi per litro, che sono al di sotto dei limiti di legge di 50 mg/l, mentre per i solfiti entro il valore soglia di 500 mg/l. Una quantità molto alta di nitrati nell’acqua potabile rappresenta un rischio per la salute umana in quanto, una volta ingeriti, possono trasformarsi in nitriti in grado di causare la cosiddetta “sindrome del bambino blu”, bloccando la capacità legata all’emoglobina di trasportare ossigeno. Inoltre, sono responsabili nello sviluppo dei tumori che colpiscono il tratto digestivo attraverso l’a-


I ricercatori hanno testato anche la presenza di altri indicatori d’inquinamento umano come i batteri coliformi, il glifosato e altri “antagonisti malevoli” provenienti dai gas di scarico, i quali raggiungono i corsi d’acqua maggiormente attraverso la loro deposizione sul terreno, e i fosfati, legati all’uso di detersivi, concimi e pesticidi agricoli.

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iuto dato alla formazione di nitrosammine, tra i più influenti agenti cancerogeni conosciuti nei mammiferi. «Per la nostra ricerca abbiamo preso in considerazione il solfito di sodio, - sottolinea Almaviva - il più rappresentativo dell’intera classe dei solfiti, che viene utilizzato nell’industria tessile come agente sbiancante, desolforante e nelle piscine per la sua azione declorante. L’assunzione eccessiva di queste sostanze tossiche può causare danni alla salute, a partire da emicrania, asma fino a patologie più gravi. Invece, a livello ambientale, i solfiti possono portare alla formazione di pioggia acida dopo aver reagito con l’acqua». I ricercatori hanno testato anche la presenza di altri indicatori d’inquinamento umano come i batteri coliformi, che possono prolificare nelle acque utilizzate in agricoltura, il glifosato e altri “antagonisti malevoli” provenienti dai gas di scarico, i quali raggiungono i corsi d’acqua maggiormente attraverso la loro deposizione sul terreno, e i fosfati, legati all’uso di detersivi, concimi e pesticidi agricoli. L’immissione nell’Ambiente di azoto e fosforo può derivare, difatti, da fonti puntuali (quali riversamenti derivanti dal trattamento delle acque reflue, di processi industriali e d’impianti per acqua-

coltura e maricoltura) e da fonti diffuse (ad esempio il dilavamento delle superfici agricole e le emissioni dei trasporti). L’eccesso di queste sostanze nel mondo acquatico agisce come nutriente, generando fioriture algali inconsuete, capaci di portare al rilascio di tossine come le microcistine da parte di alcuni cianobatteri (alghe blu-verdi) d’acqua dolce. Questo fenomeno, noto come “eutrofizzazione”, è un processo degenerativo che a lungo andare conduce dritti verso l’ipossia, ovvero la mancanza di ossigeno, con la successiva scomparsa di flora e fauna. «La nostra tecnica di indagine - conclude la ricercatrice Enea, Antonia Lai - si è dimostrata adeguata nel ‘dare la caccia’ a nitrati e solfiti, mentre per i fosfati servono ulteriori studi di ottimizzazione e un miglioramento della sensibilità. I risultati ottenuti finora ci incoraggiano a proseguire non solo nel monitoraggio ambientale e delle risorse idriche ma anche in altri ambiti come la qualità e sicurezza alimentare e la security per rilevare minacce CBRNe (Emergenze chimiche, biologiche, radiologiche, nucleari ed esplosive ndr), sfruttando la rapidità e semplicità del dispositivo nelle fasi di analisi e le sue caratteristiche di compattezza e maneggevolezza per le misure in situ». Giornale dei Biologi | Mar 2023

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DAVID DAVIDOVICH PIRIULIN IL BIOLOGO RUSSO CHE A METÀ DEL ’900 STUDIÒ IL LAGO ARAL

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L’esperto in botanica spese molto tempo nel proteggere questo immenso lago salato, che oggi a causa dell’intervento umano, è ormai pressoché prosciugato

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Giornale dei Biologi | Mar 2023


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avid Davidovich Piriulin fu un biologo russo, specializzato in botanica, zoologia ed idrobiologia. Il seguente articolo vuole ricordare una figura, sconosciuta non solo al grande pubblico, ma anche agli addetti ai lavori, poiché facente parte di una scuola, quella Sovietica di Biologia, che per i regimi dell’epoca, era isolata dal mondo occidentale, soprattutto volendo evidenziare l’amore e l’ardore con cui questo “signore”, così riservato, difese il Lago Aral o Mare di Aral dall’imminente minaccia a cui progressivamente andava incontro, sin dalla seconda metà del ‘900; cosa che purtroppo oggi si evidenzia con il suo totale degrado e prosciugamento. Vita e carriera D.D. Piriulin, nacque il 29 settembre del 1955 ad Inta, Repubblica di Komi, fu il figlio di David Davidovich Piriulin senior e Zoe Filippovna. Entrambi i genitori, vennero esiliati e condannati ai lavori forzati fino al 1957, dall’allora Governo Russo, per aver partecipato alla propaganda sovietica anti-dittatoriale. Alla fine dell’esilio, venne concesso alla famiglia Piriulin di vivere nella città di Zhdanov (l’attuale Mariupol), nella regione di Donetsk, ma gli venne impedito di fare ritorno a Mosca. Quel periodo di conflitto tra i Piriulin, con l’allora Governo Sovietico, in qualche modo agì sulla psicologia e la vita di D.D. Piriulin figlio, portandolo a sviluppare un carattere riservato, timido e chiuso, sebbene caratterizzato sempre, da una estrema gentilezza ed eleganza. D.D. Piriulin si diplomò alla scuola secondaria No.7 in Zhadanov nel 1972, dopodiché partì subito per Leningrado (oggi San Pietroburgo), poiché voleva iscriversi alla facoltà di Biologia, ma i docenti universitari giudicarono la sua preparazione al momento, insufficiente per permettergli di entrare all’Università. Senza perdersi d’animo, Piriulin l’anno seguente entrò alla scuola No.51, dove colmò le lacune e di conseguenza dopo un anno di studi,

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Biologo, botanico.

Piriulin s’innamorò di quello strano e lunare ambiente, dapprima, studiandone la flora, la vegetazione e la fauna, successivamente cercando di mantenerne intatta, incontaminata e primordiale la Natura e l’ecologia, una sorta di prima protoforma di “ecologia sostenibile”. Il Lago Aral, chiamato ancora oggi Mare di Aral non del tutto correttamente è un grande lago salato di origine oceanica (una “facies” di origine marina, che deriva probabilmente come risultante dell’antichissima e complessa attività geologica, ed orogenetica, del sistema Pontico), presente in una regione autonoma dell’Uzbekistan (45°N 60°E), il Karakalpakstan. D.D. Piriulin nel corso della sua vita, spese molto tempo nel proteggere questo immenso lago salato, che oggi a causa della stoltezza umana, è ormai pressoché prosciugato.

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di Giuliano Russini*

si iscrisse alla facoltà di Biologia dell’Istituto Herzen di Leningrado. Dopo tre anni, nel 1975, sotto la guida del Prof Lev Aleksandrovich Kuznetsov, conseguì il diploma in Biologia, con una tesi in botanica. Il Prof Lev Aleksandrovich Kuznetsov, gli permise di compiere la prima spedizione nell’Isola di Barsakelmes, nel Mare o Lago (viene chiamato in tutti e due i modi) di Aral; in questa regione, gli venne assegnato il primo lavoro scientifico, che consistette nel fare una dettagliata analisi della distribuzione geografica delle varie specie native di “Lepidoptera”, raccogliendo nel contempo campioni, questa serie di dati verranno poi utilizzati successivamente per completare la sua tesi di Master in Zoologia. Quel primo incontro, con il selenico mondo del Lago, o Mare di Aral, fu per D.D. Piriulin un vero colpo di fulmine naturalistico; sia scientificamente, tanto quanto letteralmente, s’innamorò di quello strano e lunare ambiente, dapprima, studiandone la flora, la vegetazione e la fauna, successivamente cercando di mantenerne intatta, incontaminata e primordiale la Natura e l’ecologia, una sorta di prima protoforma di “ecologia sostenibile”. Il Lago Aral, chiamato ancora oggi Mare di Aral non del tutto correttamente è un grande lago salato di origine oceanica (una “facies” di origine marina, che deriva probabilmente come risultante dell’antichissima e complessa attività geologica, ed orogenetica, del sistema Pontico), presente in una regione autonoma dell’Uzbekistan (45°N 60°E), il Karakalpakstan. D.D. Piriulin nel corso della sua vita, spese molto tempo nel proteggere questo immenso lago salato, che oggi a causa della stoltezza umana, è ormai pressoché prosciugato. Oltre il grande Lago di Aral, l’altro grande amore del Prof Piriulin fu l’antica Steppa Ucraina, che amò, studiò e difese tanto quanto il gigante salato asiatico. Per entrambi i soggetti, Piriulin adottò la tecnica documentaristica e fotografica, per cercare di sensibilizzare l’opinione pubblica, soprattutto quella dei ragazzi, nei confronti di tali bellezze naturalistiche in estinzione. In parallelo a questa attività, D.D. Piriulin cominciò la carriera d’insegnante; il primo lavoro di docenza che gli venne assegnato, fu nella scuola rurale e agricola, nel lontano villaggio di Taezhniy (Taiga), nella regione di Giornale dei Biologi | Mar 2023

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Arkhangelsk, ove insegnò biologia, pedologia, geografia e chimica. Nello stesso periodo divenne il più giovane ricercatore della Riserva Nazionale delle Steppe Ucraine. Però solo all’inizio del 1980, D.D. Piriulin poté realizzare il suo sogno, divenendo ufficialmente il biologo della “Riserva Naturale del Lago Aral”, in Barsakelmes. Dal 1980 al 1984, lavorò come biologo in questa struttura, per divenirne poi il curatore-direttore. Sfortunatamente, durante questo biennio, D.D. Piriulin dovette più volte lasciare la Riserva, per problemi di salute. Così nel biennio dal 1985 al 1987, si rimise ad insegnare geografia e biologia alla scuola secondaria agraria e mineraria, No.251, nella città di Pushkin, vicino Leningrado (San Pietroburgo) e nei cinque anni successivi, dal 1987 al 1992 nel dormitorio di Lenmetrostroy, questo tipo di attività erano più congeniali al suo precario stato di salute e gli permettevano di vivere decentemente. Malgrado ciò, in quegli anni D.D. Piriulin continuò a visitare il suo amore, il Lago Aral, durante tutte le vacanze estive; successivamente, come volontario non pagato, divenne assistente biologo nella spedizione scientifica organizzata dall’Istituto Botanico e Zoologico dell’Accademia delle Scienze del Kazakistan, nel marzo del 1993. Durante questa spedizione, D.D. Piriulin si dedicò alla raccolta e alla classificazione tassonomica di alghe e artropodi presenti in questa regione, il tutto poi portò a diverse pubblicazioni. Tale spedizione, gli permise di farsi assumere nel dipartimento di Idrobiologia, dell’Istituto Zoologico dell’Accademia delle Scienze Russa; inizialmente come assistente tecnico di ricerca, poi come direttore di ricerca. 50

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Ma anche come ricercatore capo dell’Istituto Zoologico Russo, Piriulin visitò tantissime volte il Lago Aral e la relativa regione, raccogliendo campioni di artropodi, che servirono poi come argomento per la sua tesi di dottorato, difesa con successo solo nel 2004. Sfortunatamente il 16 gennaio del 2007, il Prof D.D. Piriulin morì, il suo corpo venne cremato e per sua volontà venne sepolto, dal 22 settembre del 2007, nel cimitero della Riserva Naturale di Barsakelmes, nella provincia di Kyzylorda del Kazakistan (45° 38′ 07”N, 59° 54′ 30”E). Con questo breve articolo, ho voluto solo farvi conoscere a grandi linee, una persona che ho avuto l’onore di conoscere personalmente e che faceva della sua riservatezza, dolcezza ed eleganza, un principio di vita. Oltre che biologo ufficiale, fu un grande studioso di etnologia e archeologia delle antiche civiltà, sebbene non a livello accademico, anche perché in cuor suo aveva l’idea che sul pianeta Terra, più di 100.000 anni fa, dovesse essere esistita in una Antartide ben diversa da quella di oggi, ricca di un folto manto vegetale subtropicale, un’unica civiltà avanzata terrestre, che per qualche disastro planetario scomparve e questo avrebbe spiegato secondo lui, la comunanza di simboli e rituali tra civiltà successive, lontane nel tempo e nello spazio geografico che mai si incontrarono, tesi che ovviamente veniva derisa dagli accademici archeologi e veniva considerata come l’ennesimo frutto di una scienza, quella sovietica, stravagante nell’approccio, perdipiù pensata da un non archeologo ufficiale, ma un botanico ed ecologo…ci sarebbe da meditare sul fatto che forse D.D. Piriulin potrebbe non aver sognato favole e di reperti particolari, ricordo di averne visti a casa sua.


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Non fu un biologo eccezionale nei termini accademici, più un biologo naturalista esploratore, ma sentirlo parlare della Storia Umana, dell’Archeologia, oltre che della Storia Naturale di questi posti si rimaneva incantati. Figlio di una terra in perenFoto 1: Lago Aral nel 1910, pieno regime idrico. Foto 2: Prof. David Davidovich Piriulin, in una delle sue tante visite al Lago Aral. Foto 3: Tomba del Prof. D.D. Piriulin, nella Riserva Naturale del Lago Aral, che oggi risulta prosciugato. © Giuliano Russini

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ne contrasto con tutti e con se stessa, dove i pochi ricchi sono ricchissimi, ed i tanti poveri sono poverissimi, D.D. Piriulin, sebbene aveva nella propria vita privata una compagna, questo immenso amore viscerale per una regione ed un lago così tristemente abbandonati, malgrado tutte le lotte che fece per proteggerle dal disordine morale umano, lo possono ben farlo definire “Figlio del Lago Aral”.

Foto 3. Giornale dei Biologi | Mar 2023

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UN FASCIO DI LUCE PER LA LOTTA AI TUMORI Un sistema diagnostico per immagini identifica le cellule tumorali nel sangue attraverso il metabolismo del glucosio di Pasquale Santilio

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na equipe di ricercatori del Cnr ha sviluppato e combinato innovative tecnologie di imaging che, grazie all’analisi della luce che attraversa le cellule e il loro metabolismo, consentono l’identificazione delle cellule tumorali circolanti nel sangue (CTC). Le CTC, verosimilmente responsabili della diffusione delle metastasi, derivano da tumori solidi e circolano nel sangue periferico ma, poiché sono presenti in quantità minime, risulta difficile la loro individuazione ed eliminazione con i farmaci attualmente disponibili. Gli studiosi coinvolti nella ricerca, 52

Giornale dei Biologi | Mar 2023

pubblicata sulla rivista Frontiers in Bioengineering and Biotechnology, appartengono all’Istituto di endocrinologia e oncologia sperimentale “G. Salvatore” (Cnr-Ieos) e all’Istituto di scienze applicata e sistemi intelligenti (Cnr-Isasi) di Napoli. Alberto Luini, ricercatore associato del Cnr-Ieos, ha spiegato: «Le cellule tumorali hanno la capacità di assimilare grandi quantità di glucosio, fino a dieci volte più velocemente di quanto facciano le cellule normali. Abbiamo analizzato la microscopia Raman per studiare l’assorbimento delle molecole di glucosio da parte

delle cellule tumorali e osservare il loro metabolismo. Si tratta di un sistema di radiazione laser con il quale vengono illuminate le molecole, che ci permette di identificarle in maniera univoca, senza utilizzare particolari marcature». Anna Chiara De Luca, ricercatrice del Cnr-Ieos, ha illustrato: «Abbiamo dimostrato, che la capacità delle cellule tumorali di assorbire il glucosio più velocemente determina l’accumulo di lipidi in forma di goccioline, diversamente da quanto accade, per esempio, con i leucociti, le cellule sane del sangue. Questo ci fornisce un parametro affidabile per distinguere le cellule tumorali da quelle del sangue». Maria Antonietta Ferrara, studiosa del Cnr-Isasi, ha quindi dichiarato: «Per individuare le goccioline lipidiche con tempistiche simili a quelle di uno screening rapido, abbiamo combinato la microscopia Raman con l’imaging olografico in polarizzazione (PSDHI). Questa tecnica di imaging permette di identificare la morfologia delle cellule e mappare le proprietà birifrangenti delle goccioline lipidiche». Giuseppe Coppola, ricercatore del Cnr-Isasi, ha affermato: «Questo approccio pone le basi per lo sviluppo di un nuovo metodo di isolamento delle cellule tumorali, semplice e universalmente applicabile. La raccolta e la coltura in vitro delle CTC, inoltre, ci consente di esaminare le loro caratteristiche genetiche e biochimiche e valutare la sensibilità a farmaci specifici». Il rilevamento e la quantificazione delle cellule tumorali attraverso questo sistema combinato, realizzato grazie al sostegno di Fondazione Airc per la ricerca sul cancro e della Regione Campania, dopo la validazione in successivi studi preclinici e clinici, potrà essere utilizzato per lo screening, la diagnosi, la selezione della terapia e il monitoraggio della progressione delle patologie tumorali e delle eventuali recidive.


Innovazione

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articolo di Jason Bittel pubblicato sulla versione online del National Geographic il 22 febbraio 2023, che riguarda il trasporto ferroviario negli Stati Uniti, ha rappresentato l’occasione per parlare di inquinamento acustico. Nel servizio si lancia l’allarme per il susseguirsi di un certo numero di incidenti che coinvolgono treni merci adibiti al trasporto di sostanze pericolose, e delle conseguenze drammatiche di tali avvenimenti sul territorio. L’articolo, tuttavia, unitamente a questo, coglie l’occasione per segnalare non solo l’inquinamento legato all’eccezionalità dell’incidente, quanto la normalità di un inquinamento costante, come può essere considerato quello acustico. Pur nella consapevolezza, che il corpo umano possa acclimatarsi ad una esposizione costante al rumore, in special modo a quello di natura stazionaria o ripetuta regolarmente nel tempo, non è possibile escludere che possano sortire effetti negativi sulla salute anche in assenza di fastidio avvertito. Nel caso di esposizione al rumore ferroviario, infatti, le persone che abitano in prossimità della rete ferroviaria asseriscono di non essere infastiditi dal rumore nonostante siano quelle esposte ai livelli maggiori. Infatti, è riconosciuto come il rumore ferroviario sia quello a cui è più facile abituarsi e a cui, a parità di livello di esposizione, i cittadini riportano meno fastidio rispetto ad altre fonti di rumore. Tuttavia, nell’articolo Effects of Exposure to Road, Railway, Airport and Recreational Noise on Blood Pressure and Hypertension, Luca Fredianelli e i colleghi dell’Istituto per i processi chimico-fisici (Cnr-Ipcf) hanno mostrato come l’esposizione al rumore, soprattutto quello ferroviario, durante la notte abbia una significativa influenza sulla pressione arteriosa diastolica. Nelle persone sensibili al rumore o in quelle di età superiore a 65 anni è stata trovata anche una re-

IL RUMORE FERROVIARIO CI FA AMMALARE Questo inquinamento acustico influisce sulla pressione arteriosa diastolica e c’è anche relazione con l’ipertensione

lazione con l’ipertensione, che a sua volta è un principale fattore di rischio indipendente per eventi quali infarto del miocardio e ictus. Riguardo al disturbo, eventi particolari come il transito di treni merci, invece, non passano inosservati nemmeno a chi è abituato, considerato il loro alto contributo in energia e la combinazione con la grande quantità di vibrazione che comportano. In un altro studio, Luca Fredianelli e colleghi hanno evidenziato che gli studi epidemiologici con cui vengono effettuate le associazioni rumore-salute, purtroppo, sono fatti

con valori di esposizioni medi e in condizioni di transito standard, che quindi non contengono tutti quei suoni, di origine ferroviaria, che si possono avere in un tessuto urbano. Proprio perché non standard, questi suoni hanno un impatto ben più significativo sul disturbo realmente percepito dalla popolazione. I risultati dello studio hanno mostrato un aumento del disturbo percepito rispetto a quelli studi che non includono tali suoni, suggerendo che l’impatto acustico delle ferrovie sul disturbo alle persone è generalmente sottovalutato. (P. S.). Giornale dei Biologi | Mar 2023

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Innovazione

FOTOPOLIMERI PER SISTEMI OTTICI SMART Dispositivi innovativi grazie ad un brevetto sviluppato da Enea e Cnr in collaborazione con l’Università di Grenoble

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polimeri sono macromolecole ad elevato peso molecolare; sono ottenuti da molecole a basso peso molecolare (monomeri) che posseggono uno o più doppi legami o due o più gruppi funzionali in grado di reagire tra loro. Il termine polimeri è generalmente riferito a sostanze con valori elevati di peso molecolare, mentre si utilizza il termine oligomeri per indicare polimeri a basso peso molecolare, formati da poche unità ripetentesi. I polimeri son formati dalla ripetizione di numerose unità strutturali; le unità di partenza, con le quali si forma il po54

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limero, vengono chiamate monomeri e la reazione che unisce i monomeri tra loro a costituire il polimero viene detta polimerizzazione. Il progetto europeo PULSE-COM, partendo da un brevetto sviluppato congiuntamente da Enea e Cnr, in collaborazione con l’Università di Grenoble e già esteso a Europa e Stati uniti, si propone di realizzare dispositivi innovativi, in materiale polimerico, attivabili a distanza da sorgenti luminose e destinati a numerose applicazioni nel campo della sensoristica energetica ed ambientale. Giuseppe Nenna, responsabile scientifico del

progetto e ricercatore Enea del Laboratorio Nano materiali e dispositivi del Centro Ricerche di Portici (Napoli), ha spiegato: «Si tratta di materiali polimerici di nuova generazione che si deformano quando sono sollecitati dalla luce, sia naturale sia artificiale. In particolare, quando questi materiali sono sotto forma di film sono in grado di piegarsi grazie ad un meccanismo che modifica la geometria molecolare a causa della radiazione luminosa. Il polimero fotomobile dotato di opportuni contatti elettrici può essere utilizzato per realizzare sensori e interruttori che attualmente non sono in commercio». I dispositivi saranno integrati in sistemi optoelettrici più complessi attraverso una ricerca “incrementale ad alto rischio” finanziata dal progetto europeo FET, con l’obiettivo di arrivare alla realizzazione di applicazioni all’avanguardia come opto-interruttori, opto-microvalvole e sistemi di raccolta energetica. Giuseppe Nenna ha concluso: «I dispositivi che andremo a progettare serviranno da attuatori, ossia per muovere piccoli oggetti, e potranno essere utilizzati come sensori di luce o anche per il recupero di energia solare attraverso il loro movimento. Le applicazioni sono molteplici, perché riguardano tutto quello per cui si può utilizzare un movimento attraverso l’uso di una sorgente luminosa». Il laboratorio Enea di Nano materiali e dispositivi del Dipartimento di Sostenibilità dei sistemi produttivi e territoriali è leader nella ricerca sui dispositivi fotomobili e piezoelettrici, insieme al Laboratorio SmartMaterials, guidato da Lucia Petti, coordinatrice del progetto PULSE-COM, dell’Istituto di Scienze Applicate e Sistemi Intelligenti del Cnr di Pozzuoli (Napoli). Dalla collaborazione pluriennale fra le strutture Enea e Cnr nasce l’evento “Smart Materials for Opto-Electronic Applications”, che si terrà a Praga il prossimo 25 aprile. (P. S.).


Innovazione

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L’

obiettivo del progetto Ue SEAWave, finanziato nell’ambito di Horizon Europe con un budget di oltre 7 milioni di euro e condotto da un consorzio di 16 partner di ricerca, tra cui Enea, è la valutazione di un eventuale impatto sulla salute derivati dall’esposizione ai campi elettromagnetici generati dalla tecnologia di telefonia mobile 5G. Il progetto, coordinato dall’Università Aristotele di Salonicco (Grecia) punterà, nei tre anni di attività, a identificare le differenze nei modelli di esposizione tra le reti 2G, 3G e 4G rispetto al 5G per l’intera popolazione, compresi i bambini e i lavoratori. Inoltre, fornirà gli strumenti tecnologici necessari per una valutazione affidabile dell’esposizione e per contribuire alla conoscenza scientifica sul rischio per la salute umana da esposizione alle onde millimetriche. Mariateresa Mancuso, responsabile del Laboratorio Enea Tecnologie biomediche e coordinatrice del progetto per l’Agenzia, ha spiegato: «In questo progetto contribuiremo a sviluppare nuovi sistemi hi-tech che ci consentiranno esposizioni controllate e riproducibili alle emissioni elettromagnetiche della rete 5G. In questo modo, saremo in grado di testare i potenziali rischi correlati a un’esposizione cronica alla nuova banda di frequenza per i tessuti bersaglio, in particolare quello cutaneo. Nei nostri laboratori sono stati già condotti in passato studi sugli effetti biologici dei campi elettromagnetici associati alle precedenti tecnologie di telefonia mobile 2G, 3G e 4G; in particolare, la ricerca Enea si è concentrata sul sistema immunitario, nervoso, ematopoietico, uditivo e nella cancerogenesi. Ma in tutti i casi, non sono stati evidenziati risultati significativamente diversi rispetto ai gruppi sperimentali non esposti». L’utilizzo dello spettro di frequenza del 5G è suddiviso in tre bande di

5G, UN PROGETTO PER IMPATTI SULLA SALUTE Oltre 7 milioni di euro per verificare eventuali effetti sull’uomo generati dalla tecnologia di telefonia mobile 5G

frequenza: la prima è quella compresa tra i 694 e i 790 MHz che garantisce la migliore efficacia nella penetrazione del segnale all’interno degli edifici; la seconda è la banda intermedia fra i 3,6 e i 3,8 GHz, mentre la terza è quella compresa tra i 26,5 e i 27,5 GHz. Quest’ultima rientra nella definizione delle cosiddette onde millimetriche, che consentiranno il trasferimento rapido ed efficiente di grandi quantità di dati ma avranno necessità di una rete più diffusa, soprattutto in quei luoghi dove è previsto un grande utilizzo come aeroporti, stazioni e centri commerciali.

La tecnologia 5G, oltre all’impiego nell’ambito della telefonia mobile, consentirà l’utilizzo di nuove e rivoluzionarie applicazioni, come per esempio l’Internet delle cose e le connessioni veloci tra macchine (i droni), ma anche quelle critiche come la guida autonoma e la telechirurgia. Inoltre, sarà tra i principali fattori abilitanti di tutte le nuove tecnologie come l’intelligenza artificiale, il cloud computing e la realtà virtuale. Chiari vantaggi offerti da questa nuova tecnologia basata sulle onde millimetriche e l’impatto sull’economia mondiale sono ormai indiscussi. (P. S.). Giornale dei Biologi | Mar 2023

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Beni culturali

KAINUA, L’ANTICA COLONIA ETRUSCA IN EMILIA RINASCE ATTRAVERSO UN VIDEOGAME Fondata tra il VI e il V secolo a.C., la città ha conservato intatta la sua planimetria. La seconda edizione di Archeo-Minecraft è dedicata alla sua ricostruzione virtuale

di Rino Dazzo

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n viaggio affascinante e giocoso attraverso le nuove tecnologie, dedicato alla scoperta e alla ricostruzione di un’antica città etrusca. Passato e futuro s’incontrano nella seconda edizione di Archeo-Minecraft, percorso online che mette insieme scienza, archeologia e uno dei videogiochi più venduti e conosciuti della storia: Minecraft, appunto. Protagonista dell’iniziativa, organizzata dalla Fondazione Golinelli in collaborazione con MNEMa, il

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Museo Nazionale Etrusco di Marzabotto, è la città etrusca di Kainua, uno dei centri più importanti dell’Etruria padana assieme a Felsina, l’attuale Bologna, e Spina, sul delta del Po. Quello di Kainua, che sorgeva sul Pian di Misano nell’attuale territorio del comune di Marzabotto, è un sito unico nel suo genere dal momento che ha conservato perfettamente le tracce della sua planimetria. Il ciclo di Archeo-Minecraft, rivolto ai ragazzi dagli 11 ai 13 anni, prevede tre lezioni virtuali di due ore


che, tra il sesto e il quinto secolo a.C., diede impulso alla fondazione della città. Come? Attraverso le sfide e gli strumenti messi a disposizione dal mondo virtuale di Minecraft e con l’aiuto dei tutor esperti della Fondazione Golinelli e dello staff del Museo. Un percorso entusiasmante di scoperta e di sviluppo, capace di stimolare l’interesse dei ragazzi per l’archeologia tramite il gioco: missione di Archeo-Minecraft, infatti, è quella di reinterpretare le nozioni apprese ricostruendo la città attraverso le esperienze personalizzate dei singoli partecipanti. Dopo un periodo di circa un secolo, tra il 600 e il 500 a.C., in cui l’insediamento etrusco fu costituito da semplici capanne di tipo primitivo, la città di Kainua fu edificata compiu-

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più visita conclusiva presso le stesse rovine di Kainua. L’obiettivo è che gli stessi ragazzi ricostruiscano digitalmente la città dopo aver appreso importanti nozioni relative agli usi, ai costumi e alle tradizioni dei suoi abitanti dalla direttrice del Museo, Denise Tamborrino. Come vivevano gli antichi Etruschi? In che modo orientavano le città di nuova costruzione? Quali materiali usavano? Come erano organizzate le abitazioni private e gli spazi comuni? Tutte domande a cui gli interessati all’iniziativa, insignita della menzione speciale nell’edizione 2022 del Premio Gianluca Spina per l’Innovazione digitale nei Beni Culturali, saranno in grado di dare risposte esaurienti, fino a ricreare in tutto e per tutto una micro-comunità simile a quella

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Beni culturali

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L’area archeologica di Kainua è molto interessante perché consente di apprezzare al meglio il tipico impianto urbanistico etrusco di tipo ortogonale, costituito da otto quartieri che si sviluppano attraverso quattro strade principali.

a un’altra divinità, Uni, dove sono state recuperate alcune iscrizioni di natura religiosa e politica. Due ciotole rituali in bucchero rinvenute nel tempio di Tinia, invece, hanno consentito di attribuire alla città il corretto nome di Kainua: entrambe riportano infatti un’iscrizione locativa del tipo «io sono a Kainua» che rimanda al greco kainòn, corrispondente più o meno a «città nuova». Per diverso tempo, infatti, la città è stata conosciuta col nome di Misa, dal luogo del ritrovamento dei resti di edifici, mosaici e monete di cui fa menzione per primo frate Leandro Alberti nella sua opera «Descrittione di tutta Italia» del 1551. Dopo il suo periodo più florido, Kainua finì progressivamente in decadenza e lo stesso sito è andato in parte perduto a causa dell’erosione della marna dovuta all’azione del vicino fiume Reno. La parte meridionale del pianoro su cui era adagiata la città si è sgretolata, determinandone il crollo. I principali reperti venuti alla luce durante le diverse campagne di scavo eseguite nel corso dei secoli sono conservati presso il Museo Nazionale Etrusco di Marzabotto. E adesso, attraverso l’esperienza di Archeo-Minecraft, l’antica colonia fondata dagli Etruschi nella loro espansione verso nord può tornare a nuova vita. © m.bonotto/shutterstock.com

tamente tra il 500 e il 350 a.C. secondo il ritu, il rito di fondazione di una nuova città, rispecchiando cioè la suddivisione del templum celeste. L’abitato posto a breve distanza dalle rive del Reno, in particolare, comprendeva diverse case-bottega, un’acropoli, due necropoli, una fonderia e una grande fornace ed era servito da un efficace sistema di acquedotti. Posta lungo le vie di comunicazione tra l’Etruria e la Pianura Padana, Kainua prosperò per più di un secolo fino all’occupazione da parte delle tribù celtiche. Nel secondo secolo prima di Cristo, poi, sarebbe passata sotto il dominio di Roma: non lontano dalle rovine cittadine è possibile ammirare i resti di una villa rustica romana. L’area archeologica di Kainua è molto interessante perché consente di apprezzare al meglio il tipico impianto urbanistico etrusco di tipo ortogonale, costituito da otto quartieri che si sviluppano attraverso quattro strade principali. Le zone di maggior importanza, con funzione sacra, erano concentrate nella parte settentrionale, quella della piccola acropoli. Tutte le abitazioni private erano caratterizzate da un cortile centrale munito di pozzo. In posizione decentrata rispetto alla città vera e propria erano il tempio dedicato a Tinia, il più importante dio etrusco, e quello dedicato

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Beni culturali

Necropoli est di Kainua

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LIBRO BIANCO

DELL’ORDINE NAZIONALE DEI BIOLOGI 2017-2022

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Sport

ATLETICA, ITALIA REGINA D’EUROPA INDOOR A ISTANBUL Nella rassegna continentale gli azzurri hanno vinto 2 ori 4 argenti e la classifica a punti che tiene conto dei piazzamenti

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di Antonino Palumbo

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l sogno-bis di Paolo Ceccarelli e la splendida doppietta con Marcell Jacobs nei 60 metri. Il peso d’oro di Zane Weir, medaglia numero 100 nella storia dell’atletica tricolore. La consacrazione di Larissa Iapichino nel lungo, col primato italiano tolto a mamma Fiona May. E poi gli argenti di Dariya Derkach nel salto triplo e della staffetta 4x400 metri femminile. Se c’era bisogno di conferme sul valore dell’atletica leggera italiana, i Campionati europei indoor disputati a Istanbul a inizio marzo hanno fugato ogni dubbio. Gli azzurri festeggiato il successo nella classifica a punti, che tiene conto di vittorie, podi e piazzamenti nelle prime otto posizioni: l’Italia si è imposta con 84 punti staccando, nell’ordine, Gran Bretagna (72,5) e Paesi Bassi (69). Nel medagliere, successo per la Norvegia grazie a 4 ori e un argento, davanti a olandesi

Marcell Jacobs e Paolo Ceccarelli.

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Sport

e britannici. In testa fino al Day-3, gli azzurri hanno chiuso quarti. Ma poco importa. La prima medaglia è arrivata da Zane Weir, sudafricano dai nonni friulani, cittadino italiano dal 2021, che ha vinto l’oro nel getto del peso. Il 27enne finanziere allenato da Paolo Dal Soglio - che nel 1996 era stato l’ultimo italiano campione d’Europa indoor - ha dipinto una finale perfetta, salendo da 21,18 a 21,89 metri, nuovo primato personale e record italiano, poi ritoccati in 22,06. Per lui è il primo titolo per i colori azzurri, dopo il quinto posto alle Olimpiadi del 2021 e il sesto ai Mondiali indoor dello scorso anno. Terzo nelle qualificazioni, il fiorentino Leonardo Fabbri ha invece concluso la finale con sei lanci nulli. Nella finale dei 60m, il campione in carica Marcell Jacobs cercava la rivincita dopo i secondi posti del meeting di Lievin e dei campionati italiani. A imporsi, però, è stato nuovamente Samuele Ceccarelli, nuovo “re” della velocità tricolore: per lui un ottimo 6”48, due centesimi meglio dell’olimpionico azzurro nato a El Paso. Il 23enne toscano di Massa, che in semifinale aveva Larissa Iapichino. corso addirittura di un centesimo più veloce, era incredulo: «Non so quando realizzerò quello che ho fatto, forse fra un mese, il livello era altissimo, avevo di fronte tutti grandi campioni e io sono il nuovo arrivato». Poi sul podio ha pianto, sulle note dell’Inno di Mameli. Uscito dalla gara con il polpaccio sinistro malconcio, capitan Jacobs ha saputo guardare oltre la delusione personale, pensando alle prospettive della squadra azzurra: «Ora pensiamo alla stagione all’aperto con i Mondiali, abbiamo una staffetta in cui possiamo fare grandi cose. Sono contento per la squadra, è un onore essere il capitano di questo gruppo». Primo grande risultato della carriera in quel di Istanbul per la 29enne Dariya Derkach, argento nel salto triplo donne con la misura di 14.20 centrata al secondo tentativo, dietro alla turca Tugba Danismaz. Al quarto posto un’altra italiana, Ottavia Cestonaro, che non è andata oltre i 14 metri e 8 centimetri. Nata a Vinnitsa (Ucraina) trent’anni fa dal decatleta Serhiy 62

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La finale di Larissa Iapichino è stata un crescendo di misure e di autostima. I miglioramenti delle avversarie l’hanno motivata e fatta volare fino a 6,97, nuovo primato nazionale, che ha migliorato il 6,91 condiviso con la madre, Fiona May.

e dalla triplista Oksana, allenata da Alessandro Nocera, Dariya si è traferita a Pagani (Salerno) dal 2002 e ha aspettato 11 anni per avere la cittadinanza e tesserarsi per l’Italia. E proprio nel 2013 fu argento agli Europei U23. L’ultimo pomeriggio di gare ha visto rilucere gli argenti della staffetta 4x400 femminile e di Larissa Iapichino. Le staffettiste Alice Mangione, Ayomide Folorunso, Anna Polinari ed Eleonora Marchiando hanno stabilito il nuovo primato nazionale in 3’28”61, piegandosi solo all’Olanda della primatista mondiale dei 400 indoor Femke Bol. Ostacolata dalla frazionista irlandese, Alice Mangione è riuscita a consegnare il testimone a Folorunso in terza posizione. Polinari ha perfezionato la rimonta dell’italo-nigeriana, scavalcando la Polonia ai 200 metri, mentre a Marchiando è toccato il compito – brillantemente assolto – di difendere la medaglia d’argento. Seguita da papà-coach Gianni, Larissa ci aveva messo appena due salti per raggiungere la misura minima per superare le qualificazioni: il primo a 6,62 metri, il secondo a 6,66, un centimetro più del richieFonte: Fidal FB sto. Meglio di lei in cinque. La finale della 20enne di Borgo San Lorenzo (Firenze) è stata un crescendo di misure e di autostima. I miglioramenti delle avversarie l’hanno motivata e fatta volare fino a 6,97, nuovo primato nazionale, che ha migliorato il 6,91 condiviso con la madre, Fiona May. A tre soli centimetri dall’oro, vinto dalla britannica Jazmin Sawyers con 7 metri. Hanno portato punti utili al successo a squadre anche Nadia Battocletti, quarta sui 3.000 metri; Pietro Arese, quinto nei 1.500m; Lorenzo Simonelli e Paolo Dal Molin, quarto e quinto nei 60m ostacoli; Tobia Bocchi, sesto nel triplo; Christian Falocchi e Marco Fassinotti, sesto e ottavo nell’alto; Elisa Coiro, settima negli 800m femminili; Catalin Tecuceanu e Simone Barontini, settimo e ottavi negli 800m maschili. Fra quanti speravano di far meglio c’è Claudio Stecchi e Roberta Bruni nell’asta, così come Elena Vallortigara nel salto in alto. Per loro la gioia è solo rimandata. Almeno si spera.


LA VIOLENZA NON TI FARÀ STARE MEGLIO.

LORO SÌ. Gli operatori sanitari e socio-sanitari lavorano tutti i giorni per la tua salute. Aggredirli verbalmente e fisicamente è un reato e un atto di inciviltà che va contro il tuo stesso interesse e quello della collettività.

Campagna contro la violenza verso gli operatori sanitari e socio-sanitari

#laviolenzanoncura

www.salute.gov.it Giornale dei Biologi | Mar 2023

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Sport

MARCIN OLEVSKY SENZA UN ARTO INFERIORE REALIZZA IL “GOL DELL’ANNO” Tornato a giocare anni dopo la perdita della gamba, il 36enne polacco ha vinto il Premio Puskas della FIFA grazie a una splendida rete in sforbiciata

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l cross del compagno di squadra Dawid dalla fascia destra, la palla che arriva al punto giusto nel momento giusto, il coraggio che bacia la tecnica e dà vita a uno spettacolare gol in sforbiciata. A rendere tutto ancora più memorabile c’è un piccolo dettaglio: Marcin Olevsky, 36 anni, vincitore del Premio Puskas della Fifa per la rete più bella del 2022, gioca nel campionato amputati polacco e quella meraviglia l’ha pensata e messa in pratica malgrado una sola gamba a disposizione. E senza avere ali, se non quelle che l’hanno fatto andare oltre l’incidente che gli ha cambiato la vita. Calciatore del Warta Poznan, Olevsky ha realizzato il gol dei sogni nella sfida di campionato con lo Stal Rzeszow, lo scorso novembre. Ai Fifa Award, questa prodezza è stata preferita in ultima battuta a quelle di Richarlison in Brasile-Serbia al Mondiale e di Payet nel match di Europa League tra Marsiglia e Paok. In lizza, prima che si definisse la terzina finale di candidati, c’erano anche il gol in rabona di Mario Balotelli in Adana Demirspor-Goztepe e la cavalcata di Theo Hernandez in Milan-Atalanta di Serie A. «Mi ricordo tutto di quel gol: il mio compagno di squadra Dawid Novak ha crossato dalla fascia destra: quando l’ho visto calciare, ho capito subito che la sfera sarebbe arrivata a me. L’ho colpita piena e ne è scaturita una traiettoria pulita» il racconto di Olevsky, succeduto nell’albo d’oro del Premio Puskas a

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fuoriclasse del calibro di Cristiano Ronaldo, Momo Salah, Neymar e Zlatan Ibrahimovic. Nato in Polonia nell’aprile del 1987, Oleksy lavorava per una ditta che si occupa di manutenzione stradale, prima dell’incidente che gli ha stravolto la quotidianità a 23 anni: venne investito da un veicolo che aveva invaso la carreggiata, finendo per schiacciargli le gambe. “Prima di perdere i sensi all’ingresso in ospedale – ha raccontato a Fifa+ - non ho sentito dolore, ho soltanto avuto paura di morire. «Poi mi sono svegliato dopo l’operazione. È stato allora che ho constatato cosa fosse successo. Una delle mie gambe non c’era più. Non ero particolarmente triste, a dire il vero. Forse perché, subito dopo l’incidente, avevo visto l’aspetto delle mie gambe e quindi ero in qualche modo preparato al peggio». È stato proprio lui la prima “fonte” di coraggio: ne ha dato anche ai suoi familiari che erano andati a trovarlo in ospedale. «Erano tutti tristi, piangevano: così ho fatto qualche battuta per rendere la situazione più allegra. Tutti hanno iniziato a ridere e penso che questo abbia aiutato tutti. Siamo riusciti rapidamente a rallegrarci» le parole di Marcin, affidate ai canali ufficiali della Federazione mondiale del calcio. Certo, poi c’è stata una quotidianità da ricostruire. Un mondo da affrontare con nuovi limiti. Nuove sfide quotidiane da vincere. E quella sensazione di pesare sulla propria com-


Fonte_ Fifa.com

Salute

Marcin Olevsky.

pagna: «Quando sono uscito dall’ospedale ero su una carrozzina. All’inizio è stato davvero difficile per me perché la maggior parte delle responsabilità doveva essere assunta dal mio partner. Era incinta e mi sentivo come se fossi un altro bambino. Mi sono sentito così male per questo. Non poteva avere tempo per sé stessa, perché si prendeva cura di me. Sono molto grato per quello che ha fatto per me. Grazie a lei sono tornata ad essere me stesso». La passione per il calcio, Marcin, ce l’ha avuta sin da ragazzino. Ma non era un’attaccante, come potremmo essere portati a pensare. Lui i gol doveva evitarli: giocava in porta. Dopo l’amputazione è rimasto su una sedia a rotelle per due anni proseguendo poi il suo recupero e iniziando a camminare con le stampelle. Il calcio, per lungo tempo, è rimasto solo uno spettacolo da guardare e uno dei tanti rimpianti della sua nuova vita. Nel 2019, però, il figlio Tomasz gli ha fatto riscoprire quella passione e riprendere confidenza col pallone. «La prima volta che ho tirato un calcio al pallone dopo l’incidente – ha ricordato Olevsky – è stato con

Marcin Olevsky entre ritira il Premio Puskas. In lizza, prima che si definisse la terzina finale di candidati, c’erano anche il gol in rabona di Mario Balotelli in Adana Demirspor-Goztepe e la cavalcata di Theo Hernandez in Milan-Atalanta di Serie A.

mio figlio Tomasz e quel momento mi ha reso molto felice». Da lì Marcin ha ricominciato ad allenarsi, avvicinandosi al calcio per amputati, fino ad arrivare alla convocazione nella nazionale polacca di categoria. Al figlio è legato anche un curioso aneddoto, legato al periodo precedente la vittoria del Premio Puskas. «I suoi compagni di scuola gli hanno detto di avermi visto in foto con Kylian Mbappé e che ora sono famoso. Credo che vogliano qualche autografo. Non riesco ancora a credere di essere stato inserito tra questi fuoriclasse del calcio mondiale. Spero che anche loro siano felici di essere stati nominati insieme a me!». La vittoria del prestigioso riconoscimento da parte dei Marcin Olevsky ha dato visibilità anche al movimento paralimpico del calcio amputati, cui il 35enne polacco ha dedicato il riconoscimento: «Spero che il mondo possa vedere che stiamo facendo ciò che amiamo fare. Sono così felice per lo sport. Sento che non sono stato solo io a segnare il gol, ma l’intera famiglia del calcio amputato ha segnato il gol insieme». (A. P.) Giornale dei Biologi | Mar 2023

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Sport

SNOW VOLLEY, PASSIONE IN OGNI CONTESTO Il nuovo fenomeno sportivo sulla neve si candida a disciplina sperimentale ai Giochi mondiali universitari invernali del 2025

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l divertimento, lo spettacolo e il fair play del beach volley, ma sulla neve. Si chiama snow volley, porta fra le cime imbiancate lo show della pallavolo outdoor e ora si candida al riconoscimento come disciplina sperimentale ai Giochi mondiali universitari invernali del 2025. In attesa del quarto e ultimo round del campionato italiano, dal 31 marzo al 2 aprile a Prato Nevoso (Cuneo), ha marzo lo snow volley è stato infatti protagonista della “due giorni” firmata dal Comitato organizzatore di Torino 2025 in partnership con Snow Volley Italia, che ha curato ogni dettaglio tec66

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nico dell’evento. Il 18 e 19 marzo scorsi, a Bardonecchia (Torino), il #TO25 Snow Volley Festival è stato un’efficace fotografia di questa disciplina coinvolgente e divertente, per gli atleti e per il pubblico. Schiacciate, tuffi sul manto bianco, recuperi spettacolari e musica a palla per uno spettacolo che ha radunato tanti curiosi a Campo Smith sia sabato sia domenica, con tanto di après-ski al limitrofo Harald’s Ski Restaurant. Il torneo maschile del #TO25 Snow Volley Festival si è concluso con il trionfo in due set (15-12, 21-19) per i polacchi Piotr Groszek, Karol Szczepanik e

Michal Matyia contro la squadra della Repubblica Ceca composta da Jan Mrkous, Filip Stastny e Frantisek Pihera. Questi ultimi però si sono consolati con il successo ottenuto nel “Queen & King of the Court”, un format molto accattivante e continue rotazioni sul campo: chi fa punto comanda, chi sbaglia è fuori. Tra le donne doppio successo per le campionesse italiane in carica Sara Breidenbach, la piemontese Anna Dalmazzo e Sofia Arcaini, vincitrici in tre set (15-8, 6-15, 15-10) nella finale del #TO25 Snow Volley Festival contro Andrea Giudici, Monica Pastorino e Cristiana Parenzan, poco dopo essersi imposte anche come “queen of the Court”. Diventato sempre più popolare grazie alla spinta di Snow Volley Italia e del suo presidente Matteo Carlon, della Fipav (Federazione Italiana Pallavolo che l’ha riconosciuto nel 2018 e realizzato un primo evento nel 2022 con Snow Volley Italia), dell’europea Cev e dell’internazionale Fivb, lo snow volley ambisce ora a ritagliarsi uno spazio come disciplina opzionale dei FISU Games. Per i Mondiali universitari invernali, previsti nel gennaio 2025, a Bardonecchia sono già state assegnate le gare di sci alpino, snowboard, freestyle e freeski. «Siamo entusiasti della risposta avuta sia in termini di partecipazione di atleti internazionali sia di pubblico, che ha potuto scoprire una nuova disciplina sulla neve» ha commentato Alessandro Ciro Sciretti, presidente di Torino 2025 ed Edisu Piemonte, a conclusione dell’evento di Bardonecchia. A “sponsorizzare” lo snow volley con la sua presenza in Val Susa c’era anche Mauro Berruto, ex ct della Nazionale maschile di pallavolo: «La pallavolo ci ha insegnato la bellezza delle sue varianti, dall’indoor al beach volley. Mi piace l’idea che la disciplina possa essere, un giorno, rappresentata sia ai Giochi olimpici estivi sia a quelli invernali». (A. P.)


Sport

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uanto a lungo riuscite a correre su un tapis roulant? Qualsiasi record possiate vantare, c’è chi ha fatto meglio. Su qualsiasi distanza e tempo: 12, 24 o 48 ore. Fra il 17 e il 19 febbraio scorsi, mentre la gente comune andava in ufficio, tornava a casa, prendeva i figli a scuola, mangiava, dormiva, imprecava per l’insonnia o le bollette, faceva colazione, pranzo o cena, andava al cinema, s’innamorava, si lasciava e altre quotidianità, un uomo di 54 anni correva. Per due giorni di fila, con qualche sosta programmata e altre, più lunghe e inattese, per manutenzione al tapis roulant ma anche al ginocchio che - comprensibilmente - ha iniziato a lamentarsi di fronte allo sforzo prolungato. Il Forrest Gump italiano si chiama Vito Intini, 54enne nato a Francoforte sul Meno ma cresciuto a Putignano (Bari), dove ha firmato la sua ultima, pazzesca impresa. «48 ore, 2.880 minuti, 172.800 secondi. L’ammetto i numeri mi sono sempre piaciuti. Padroneggiare i numeri è la base per restare in equilibrio nel nostro mondo moderno. Ti da certezza, consapevolezza e programmabilità nella vita quotidiana. Anche questa volta il Record è stato ottenuto per un meticoloso e quasi ossessivo calcolo continuo della distanza da dover percorrere ogni ora» ha scritto Vito Intini sul suo profilo Facebook, dove ha raccontato le sue sensazioni e le sue emozioni durante l’estenuante impresa. A rischiare di far saltare tutto è stato un problema a un ammortizzatore dell’attrezzo che ha costretto Vito a correre in modo anomalo, dopo le prime 30 ore con oltre 288 chilometri alle spalle. Sistemato il problema all’alba, Vito si è accorto che «il ginocchio sinistro, per precisione la zampa d’oca, si era infiammata e ha messo in forte dubbio l’esito della prestazione». «Ci sono stati momenti di grande sconforto, pensieri di non continuare la sfida» ha confessato Vito. Assistito dal dottor Roberto Citarella e da mas-

Vito Intini.

INTINI VOLA SU UN TAPIS ROULANT Il 54enne ultramaratoneta pugliese ha stabilito il record del mondo sulle 48 ore, nonostante un problema al ginocchio

soterapista Simone Azzolini, è riuscito ad alternare corsa e camminata per metter nelle ultime 15 ore un chilometraggio minimo per centrare il record mondiale. Intanto, Leo Valentini, Francesco Ricchi e Giuseppe Vinella controllavano l’integrazione alimentare, perché lo stress emotivo ha portato intanto Intini a non sentire la fame. La certezza di potercela fare, nonostante tutto, è arrivata nell’ultimo quarto d’ora. «Sicuramente l’adrenalina e la presenza di tante persone belle che mi incitavano hanno reso questa cavalcata finale un volo leggero ma resta una fatica immane che dovrò elaborare nelle

prossime settimane» ha commentato l’atleta dell’Amatore Putignano. Fra le curiosità legate al primato di Intini, figlio di preparazione atletica, scelte alimentari e conoscenza del proprio corpo, c’è anche la collaborazione con l’Università di Urbino e il CTR di Reggio Emilia dove da diversi anni vengono fatte ricerche sull’ultra-maratona. «I risultati mi hanno cambiato molto come atleta». Poche settimane dopo il record, Intini ha vinto la 6 ore di San Giuseppe, a Putignano, primo Campionato Italiano di 6 ore dell’ambito Club Supermarathon Italia. (A. P.) Giornale dei Biologi | Mar 2023

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Libri

QUANDO LA PELLE SI AMMALA DEL MOLINO TRADUCE LA PSORIASI IN ROMANZO Lo scrittore spagnolo si appassiona alle vite delle numerose persone che hanno sofferto e patito le conseguenze di questa patologia di Anna Lavinia

Sergio del Molino “Pelle” Sellerio, 2022 – 16 euro

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ndrebbe tutto benissimo se non fosse per la mia maledetta pelle”. Anche Pablo Escobar e Cindy Lauper la penserebbero come Nabokov. Cosa hanno in comune questi ed altri personaggi della storia e della letteratura del Novecento? Secondo lo scrittore e giornalista spagnolo, sono dei mostri a causa della loro pelle. Il monstrum è letteralmente un prodigio, qualcuno che si presenta alla vista come un fenomeno portentoso, fatto per essere mostrato ma che ne subisce impietosamente la vergogna. E quando la pelle si ammala, ci si trasforma irrimediabilmente in “mostri”. Biologicamente, la cute è un tessuto ma dal punto di vista sensoriale è il nostro involucro, è quello che vediamo dell’altro. È praticamente il nostro confine con il mondo. E quella irrefrenabile ed abbondante produzione di cellule causata dalla psoriasi, porta l’organo più esteso del corpo a diventare squame, polvere, sangue. La cosa più terribile che comporta è il senso d’impotenza, dopotutto anche Stalin “poteva cambiare il mondo ma non poteva smettere di grattarsi”.

I suoi bagni in gran segreto o le infinte docce di Escobar sono solo alcuni dei trattamenti raccontati in questo romanzo. La psoriasi ti condiziona nel modo di essere, nelle relazioni col mondo e con gli altri, la tua pelle guasta ti dona inevitabilmente una nuova identità, quella di malato. Nella cultura ossessiva dell’immagine, sembrerà esagerato dire che ti “avvelena” l’esistenza? Attraverso le sue pagine, l’autore tenta di smontare la moralizzazione della malattia in quanto colpa e frutto del peccato. Il manifestarsi di macchie, sfoghi ed eczemi sul corpo si attribuiscono facilmente agli eccessi e agli abusi della vita, come l’aver mangiato o fumato troppo. Fermamente, cerca di opporsi a questo modo di vedere la cosa piuttosto moralista. La profondità della pelle racchiude l’apparenza, il desiderio, il razzismo, numerose questioni che stanno in quell’organo a cui non prestiamo troppa attenzione ma che condiziona radicalmente la nostra visione del mondo. Per secoli si è cercato di separare la bruttura fisica da quella morale, però cosa succederebbe se scoprissimo che la malattia non condiziona solo l’aspetto estetico ma anche quello psicolo-


Libri

Stefano Mancuso “La tribù degli alberi” Einaudi, 2022 – 17 euro Nella sua prima prova narrativa, uno dei più grandi conoscitori del mondo vegetale, dà voce agli abitanti secolari della terra, gli alberi. Sì, le piante comunicano e hanno un’intensa vita sociale, organizzano feste nei boschi e si organizzano in clan. In un equilibrio tra fantasia e scienza, possiamo sentire finalmente la loro voce. (A. L.)

Johan Eklöf “Elogio del buio” Corbaccio, 2023 – 19 euro

gico? Esiste forse una correlazione tra la psoriasi e il carattere della persona? A queste domande tenta di dare una risposta Sergio del Molino prendendo in prestito storie di pazienti illustri per riflettere sulla sua vita da mostro. Quel manifestarsi del male sulla pelle che Nabokov ha chiamato familiarmente “il mio Greco” ha un aspetto centrale e devastante nella vita dei potenti raccontati nel libro, impongono il loro volere ovunque ma non sulle loro macchie. Da sempre, lo strato di rivestimento esterno del corpo è motivo di inclusione ed esclusione della società. Disgraziatamente non servono le placche della psoriasi a far diventare la pelle un marchio d’infamia, basta anche solo il suo colore. Nel testo, la pelle con la sua psoriasi rappresenta la nostra fragilissima condizione umana. Possiamo anche rompere il dualismo corpo-anima e scindere l’aspetto estetico dalla mente ma per l’autore non è così. Noi siamo il nostro corpo, rappresenta le nostre sofferenze e viviamo attraverso di esso. Inutile negare la sua esistenza, la malattia è una cosa che viene, prima l’accettiamo, prima viviamo.

Perché non dobbiamo avere paura del buio e tanti altri buoni motivi per riscoprire la bellezza della notte. Uno su tutti, la difesa dei ritmi circadiani di tutti (animali, piante, uomini) minacciati sempre più dall’inquinamento luminoso che è diventato un problema, a dir poco, urgente. Un sorprendente viaggio nei cieli notturni. (A. L.)

Mario Esposito “Versi di amore erotico per Natalie Zumab” Ensemble, 2023 – 13 euro “Ma come hai fatto Natalie ad entrare nella mia vita? Risposta scema, dall’ago”. Natalie non è una donna ma un farmaco, un anticorpo monoclonale per il trattamento della sclerosi multipla, di cui soffre l’autore. Verso dopo verso, ha trasformato un motivo di angoscia e preoccupazione in maniera creativa. La cura della poesia. (A. L.)


Concorsi

CONCORSI PUBBLICI PER BIOLOGI AZIENDA SOCIO SANITARIA TERRITORIALE CENTRO SPECIALISTICO ORTOPEDICO TRAUMATOLOGICO GAETANO PINI-CTO DI MILANO Scadenza, 2 aprile 2023 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di due posti dirigente medico o biologo o chimico, a tempo pieno ed indeterminato, disciplina di patologia clinica, per l’UOC Patologia clinica dell’apparato locomotore. Gazzetta Ufficiale n. 17 del 03-03-2023. UNIVERSITÀ “LA SAPIENZA” DI ROMA Scadenza, 2 marzo 2023 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di ricercatore a tempo pieno e determinato, settore concorsuale 05/A1, per il Dipartimento di biologia ambientale. Gazzetta Ufficiale n. 17 del 03-03-2023. UNIVERSITÀ DI PARMA Scadenza, 3 aprile 2023 Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato di durata triennale e pieno, settore concorsuale 05/E2 - Biologia molecolare, per il Dipartimento di medicina e chirurgia. Gazzetta Ufficiale n. 20 del 14-032023. AZIENDA SOCIO SANITARIA TERRITORIALE PAPA GIOVANNI XXIII DI BERGAMO Scadenza, 6 aprile 2023 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di dirigente biologo a tempo indeterminato, disciplina di laboratorio di genetica medica, area della medicina diagnostica e dei servizi. Gaz-

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Giornale dei Biologi | Mar 2023

zetta Ufficiale n. 18 del 07-03-2023. UNIVERSITÀ DI MILANO Scadenza, 7 aprile 2023 Procedura di selezione, per titoli e discussione pubblica, per la copertura di un posto di ricercatore, a tempo determinato della durata di tre anni, settore concorsuale 05/E1 - Biochimica generale, per il Dipartimento di bioscienze. Gazzetta Ufficiale n. 18 del 07-03-2023. AZIENDA SANITARIA LOCALE ROMA 6 - ALBANO LAZIALE Scadenza, 9 aprile 2023 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di tre posti di dirigente biologo, disciplina di biochimica clinica. Gazzetta Ufficiale n. 19 del 10-03-2023. ISTITUTO NAZIONALE TUMORI IRCCS - FONDAZIONE G. PASCALE DI NAPOLI Scadenza, 9 aprile 2023 Mobilità, per titoli e colloquio, per la copertura di un posto di dirigente sanitario biologo, per l’U.O.C. Anatomia patologica e citopatologia. Gazzetta Ufficiale n. 19 del 10-03-2023. UNIVERSITÀ DI BOLOGNA “ALMA MATER STUDIORUM” Scadenza, 11 aprile 2023 Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato della durata di trentasei mesi e pieno, settore concorsuale 05/I2 - Microbiologia, per il Dipartimento di farmacia e biotecnologie. Gazzetta Ufficiale n. 18 del 07-03-2023. UNIVERSITÀ DI PARMA Scadenza, 13 aprile 2023

Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato di durata triennale e pieno, settore concorsuale 05/I2 - Microbiologia, per il Dipartimento di scienze chimiche, della vita e della sostenibilità ambientale. Gazzetta Ufficiale n. 20 del 14-03-2023. UNIVERSITÀ DI TERAMO Scadenza, 13 aprile 2023 Valutazione comparativa per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato di durata triennale e pieno, settore concorsuale 05/E2 - Biologia molecolare, per il Dipartimento di bioscienze e tecnologie agro-alimentari e ambientali. Gazzetta Ufficiale n. 20 del 14-03-2023. FONDAZIONE IRCCS CA’ GRANDA OSPEDALE MAGGIORE POLICLINICO DI MILANO Scadenza, 13 aprile 2023 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di dirigente biologo, disciplina di epidemiologia, a tempo indeterminato, per la SC Pronto soccorso e accettazione ostetrico ginecologica e PMA per le attività della SS Procreazione medicalmente assistita. Gazzetta Ufficiale n. 20 del 14-03-2023. UNIVERSITÀ DI MILANO Scadenza, 21 aprile 2023 Procedura di selezione, per titoli e discussione pubblica, per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato della durata di tre anni, settore concorsuale 05/E1 - Biochimica generale, per il Dipartimento di scienze biomediche, chirurgiche e odontoiatriche. Gazzetta Ufficiale n. 22 del 21-03-2023.


Concorsi

UNIVERSITÀ DI PISA Scadenza, 27 aprile 2023 Procedura di selezione per la chiamata di un professore di prima fascia, settore concorsuale 05/E1 - Biochimica generale, per il Dipartimento di patologia chirurgica, medica, molecolare e dell’area critica. Gazzetta Ufficiale n. 24 del 28-03-2023. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI FISIOLOGIA CLINICA DI PISA Scadenza, 3 aprile 2023 A public selection based on qualifications and an interview is announced pursuant to article 8 of the “Regulations concerning the hiring of personnel with a fixed-term employment contract” for the recruitment, with a fixed-term employment contract pursuant to article 83 of the CCNL (National Collective Bargaining Agreement) of the “Education and Research” Sector 2016-2018, signed on 19 April 2018, of one staff member with a professional profile of Technologist -III° level, initial salary range, at the Institute of Clinical Physiology (IFC-CNR) for carrying out scientific-technological research activities on Correlative Fluorescence and Electronic Microscopy within the project “SEE LIFE - StrEngthEning the ItaLIan InFrastructure of Euro-bioimaging”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI BIOCHIMICA E BIOLOGIA CELLULARE DI MONTEROTONDO (ROMA) Scadenza, 5 aprile 2023 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n.1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Scienze biologiche, biochimiche e farmacologiche” da usufruirsi presso l’Istituto di Biochimica e Biologia Cellulare del CNR presso la sede di Monterotondo (Rm), nell’ambito del Progetto “REGORAFENIB IN GLIOBLASTOMA: MOLECULAR CHARACTERIZATION OF TUMOR RESPONSE AND TRANSLA-

TIONAL OPPORTUNITIES”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI BIOSCIENZE E BIORISORSE DI PORTICI (NAPOLI) Scadenza, 6 aprile 2023 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 01 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Scienze Bioagroalimentari” da usufruirsi presso l’Istituto di Bioscienze e BioRisorse del CNR SS di Portici (NA), nell’ambito dei Progetti “Sviluppo di nuove tecnologie nell’agricoltura di precisione per la produzione sostenibile di genotipi di patata con elevate qualità nutrizionali, (SOS-TATA, CUP B71B19000680008)”; “Genomica e biotecnologie degli organelli citoplasmatici per la sostenibilità delle produzioni (DBA.AD001.500, CUP B73C22001420001)”; “Approcci omici e biotecnologici per la sostenibilità delle produzioni agro-industriali/ Genomica e biotecnologie dei cloroplasti (DBA. AD001.448, CUP B55F21003010001)”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI RICERCA SULLE ACQUE DI ROMA Scadenza, 13 aprile 2023 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n.1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area Scientifica “Scienze del Sistema Terra e Tecnologie per l’ambiente” da usufruirsi presso l’Istituto di Ricerca Sulle Acque del CNR Sede di Montelibretti (RM), nell’ambito dei progetti URB-AN, SWARM-Net, SAFE per la seguente tematica: “Processi sostenibili per il trattamento di acque di scarico urbane e industriali”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI GENETICA E BIOFISICA “ADRIANO BUZZATI

TRAVERSO” DI NAPOLI Scadenza, 20 aprile 2023 A public selection based on qualifications and an interview is announced pursuant to article 8 of the “Regulations concerning the hiring of personnel with a fixed-term employment contract” for the recruitment, with a fixed-term employment contract pursuant to article 83 of the CCNL (National Collective Bargaining Agreement) of the “Education and Research” Sector 2016-2018, signed on 19 April 2018, of a staff member with a professional profile of RESEARCHER - Level III, initial salary range, at the Institute of Genetics and Biophysics “Adriano Buzzati Traverso” for carrying out scientific-technological research activities within the PNRR project “One Health Basic and Translational Research Actions addressing Unmet Needs on Emerging Infectious Diseases”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI BIOLOGIA E BIOTECNOLOGIA AGRARIA DI MILANO Scadenza, 24 aprile 2023 A public selection based on qualifications and an interview is announced pursuant to article 8 of the “Regulations concerning the hiring of personnel with a fixed-term employment contract” for the recruitment, with a fixed-term employment contract pursuant to article 83 of the CCNL (National Collective Bargaining Agreement) of the “Education and Research” Sector 2016-2018, signed on 19 April 2018, of a staff member with a professional profile of Researcher - Level III, initial salary range, at the Institute of Agricultural Biology and Biotechnology for carrying out scientifictechnological research activities within the project PNRR MUR - M4C2 - Investment 1.4 – Notice “National centers” - D.D. n. 3138 dated 16 December 2021, amended by D.D. n. 3175 dated 18 December 2021, CN00000022 “National Research Centre for Agricultural Technologies”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. Giornale dei Biologi | Mar 2023

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Scienze

LA SELEZIONE SESSUALE UN CONCETTO BASE DELLA BIOLOGIA EVOLUZIONISTICA Come il concetto si è sviluppato nel corso del tempo, quali sono le sue implicazioni nelle dinamiche evolutive e come è possibile quantificarlo in contesti scientifici

di Simone Ciaralli*

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el corso della sua trattazione dell’evoluzione per selezione naturale, Darwin si trovò a fare i conti con l’esistenza di caratteri che costituiscono un impedimento alla sopravvivenza. Uno degli esempi più classici è quello legato alla vistosa coda del pavone maschio, che lo rende particolarmente evidente e ne limita i movimenti. [Come spiegare la presenza di caratteri fenotipici che costituiscono un impedimento alla sopravvivenza? Come spiegare la coda del pavone o gli elaborati rituali di corteggiamento del gallo della salvia? La risposta a simili domande mise in crisi Darwin nel corso della stesura della sua teoria dell’evoluzione per selezione naturale.] Per superare queste problematiche, il naturalista propose il concetto di selezione sessuale. Semplificando enormemente, la coda del pavone costituisce sì un impedimento alla sopravvivenza del maschio, ma incrementa le sue probabilità di riprodursi e si è quindi mantenuta grazie a questa sua funzione. La selezione sessuale è oggi uno dei concetti base della biologia evoluzionistica, con vastissime implicazioni in ecologia, etologia e biologia molecolare. Presentare un quadro esaustivo su un tema così vasto è impossibile, ma è comunque utile provare a ripercorrere come il concetto si sia sviluppato nel corso del tempo, quali siano le sue implicazioni nelle dinamiche evolutive, e come sia possibile quantificarlo in contesti scientifici. Studente di Evoluzione del Comportamento Animale, collaboratore di BioPills: il vostro portale scientifico.

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La selezione sessuale nella storia I primi riferimenti a differenze tra i sessi in alcuni caratteri utili ad attrarre un partner o a portare avanti conflitti con individui dello stesso sesso sono riscontrabili negli scritti di John Hunter, che vi pose l’attenzione più di 30 anni prima di Darwin [1]. Ma è proprio con Darwin che si hanno le prime vere definizioni di selezione sessuale. Il naturalista inglese vi fa già riferimento ne “L’Origine delle specie” (1859), a p.88: “Sexual selection [...] depends, not on a struggle for existence, but on a struggle between the males for possession of the females; the result is not death to the unsuccessful competitor, but few or no offspring.” [2] In altre parole, la selezione sessuale non è direttamente legata alla lotta per la sopravvivenza, ma al conflitto tra maschi per l’accesso alle femmine. Il concetto verrà poi esposto più ampiamente nel 1871, in “The descent of man and selection in relation to sex” [3]. Con questo saggio Darwin puntualizza il legame della selezione sessuale con le dinamiche riproduttive e opera una prima distinzione in selezione intrasessuale, legata al conflitto tra individui dello stesso sesso per l’accesso alla riproduzione, e selezione intersessuale, dipendente dall’azione selettiva delle preferenze di un sesso per determinati tratti fenotipici dell’altro sesso. I due processi possono essere indipendenti o possono interagire ampiamente, come nei casi in cui, ad esempio, le femmine selezionano delle caratteristiche dei maschi che avvantaggiano questi ultimi anche nella competizione intrasessuale. Nella visione darwiniana, la selezione sessuale rimane ancorata ad un differente ruolo dei due sessi, con i maschi che generalmente competono per l’accesso alle femmine e con queste che esercitano in genere un’azione selettiva. Le moderne definizioni, non attribuiscono un ruo-


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lo specifico all’uno o all’altro sesso, ma rimangono legate, nella loro essenza, ai punti chiave esposti da Darwin [1, 4]. Il concetto di selezione sessuale fu subito piuttosto dibattuto, ma l’interesse scientifico per questo meccanismo evolutivo si perse, almeno fino agli anni Trenta del ‘900, quando fu oggetto di nuove attenzioni grazie ai contributi di Fisher e Huxley [1]. Fisher recupera la definizione darwiniana di selezione sessuale, e nei suoi modelli di runaway selection definisce gli effetti evolutivi delle preferenze della femmina. In particolare, viene operata una distinzione dei criteri con i quali la femmina seleziona il maschio. Questa può selezionare il partner per ottenere dei benefici diretti, legati ad esempio alla cura della prole, all’accesso a un territorio o a una fonte di cibo, o dei benefici indiretti, legati a caratteristiche genetiche del maschio che renderanno la prole più performante in relazione al contesto ambientale. Inoltre, uno dei benefici indiretti può essere legato al meccanismo per cui, selezionando un maschio attraente, la femmina incrementa le possibilità di avere una prole costituita a sua volta da maschi attraenti, che saranno maggiormente selezionati dalle femmine [1, 5]. Anche Huxley rimane ancorato alla definizione darwiniana, ponendo l’accento sulla distinzione tra i meccanismi di selezione intrasessuale e intersessuale [4]. Ad ogni modo, aver integrato la selezione sessuale in modelli evolutivi capaci di derivare delle predizioni diede un enorme impulso alla ricerca nell’ambito. I successivi sviluppi furono legati a comprendere le ragioni dietro ai differenti ruoli dei due sessi. Gli studi di Bateman giustificarono la tendenza alla competizione tra maschi facendo riferimento al legame tra il successo riproduttivo (numerosità della prole) e il numero di partner: tale legame è definibile da un gradiente denominato proprio “Bateman gradient”; in particolare, il successo riproduttivo dei maschi incrementa notevolmente all’aumentare del numero di partner riproduttivi, mentre per le femmine tale aumento è molto limitato [1, 5]. Ne risulta dunque una maggiore pressione selettiva sui maschi. Un altro fattore alla base delle differenze tra maschi e femmine nelle tendenze competitive è il concetto di investimento parentale, proposto da Trivers. Si tratta di qualsiasi tipo di investimento energetico che incrementa le probabilità di sopravvivenza della prole, al costo di limitare il possibile investimento parentale in altri eventi riproduttivi [1]. Le dinamiche di investimento parentale variano consistentemente tra i sessi e in relazione al contesto ambientale, e tale concetto può spiegare differenze fisiologiche o comportamentali nei due sessi. A partire dagli anni 2000, numerosi sono gli studi che hanno tentato di fare il punto della situazione, formulando nuove definizioni che tengano conto dei risultati emersi da nuove tecniche di analisi. In particolare, alle dinamiche di selezione intrasessuale e intersessuale pre-copulatorie, legate ad esempio ai rituali di corteggiamento, si aggiungono mec-

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canismi post-copulatori, come la competizione spermatica [4]. Tuttavia, come spesso accade in ambito scientifico, ad oggi non esiste una definizione condivisa ed universale di selezione sessuale. È possibile però individuare dei punti comuni ormai ampiamente accettati e degli aspetti ancora ambigui e oggetto di dibattito [2]. Tutte le definizioni più recenti sono centrate su meccanismi di competizione per la riproduzione, che siano questi pre-copulatori o post-copulatori [4]. Il punto centrale rimane dunque quello darwiniano. Tuttavia, permangono delle diversità nella valutazione di situazioni specifiche, soprattutto per ciò che riguarda le distinzioni da componenti di selezione naturale in senso stretto, o al valore attribuito alla sopravvivenza della prole nella successiva generazione [6]. A tal proposito, Alonzo e Servedio (2019) presentano una serie di interessanti casi limite in cui permane un acceso dibattito su cosa considerare nel dominio della selezione sessuale e cosa invece andrebbe attribuito ad altri meccanismi selettivi, sia in chiave teoretica che empirica [6]. Un possibile esempio emerge dalla riflessione sul ruolo da attribuire alle relazioni tra determinati tratti e il successo riproduttivo, soprattutto quando indirette. Ad esempio, si consideri un tratto presente in alcuni maschi di una popolazione che incrementa la capacità di procurarsi del cibo. In dinamiche in cui il cibo viene offerto come dono nuziale alle femmine per incrementare le proprie probabilità di riproduzione, il tratto sarà considerato soggetto a selezione sessuale. Diverso è il caso in cui il tratto concorra a determinare lo stato fisico dell’individuo, influenzando direttamente le dimensioni del territorio che questo riesce a difendere, sul quale si basa la scelta femminile. In tal caso, pur permanendo un’associazione indiretta tra tratto e successo riproduttivo, analoga a quella della situazione precedente, il tratto verrà generalmente considerato soggetto alla selezione naturale in senso stretto [6]. A fronte delle incertezze e prima di passare agli effetti della selezione sessuale nelle dinamiche eco-evolutive dei viventi, è utile riportare un tentativo recente di giungere ad una definizione comune. Shuker e Kvarnemo, in una rassegna del 2021, definiscono la selezione sessuale come segue: “sexual selection is any selection that arises from fitness differences associated with non-random success in the competition for access to gametes for fertilization.” [4]. Tale definizione si propone di superare gran parte delle problematiche emerse dai dibattiti recenti, rimanendo ancorata ai principi espressi da Darwin, ed essendo applicabile anche Giornale dei Biologi | Mar 2023

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ad alcuni contesti di isogamia. Sebbene permangano naturalmente delle ambiguità associate a casi specifici, si tratta di un compromesso semplice ed elegante, utile al progredire della ricerca nell’ambito. Effetti della selezione sessuale Nonostante sia complesso giungere ad una definizione che possa includere tutte le dinamiche associate alla selezione sessuale, permangono evidenti i suoi effetti nel mondo naturale, che ispirarono la sua formulazione. Di particolare interesse sono il ruolo della selezione sessuale nell’evoluzione di segnali associati alla riproduzione e la sua influenza nei meccanismi di speciazione. È possibile definire un segnale come una caratteristica fenotipica in grado di trasmettere informazioni ad altri individui [7]. I segnali interspecifici giocano un ruolo centrale nelle dinamiche di selezione sessuale [8]. Esistono infatti numerose caratteristiche deputate, ad esempio, alla comunicazione tra maschi in contesti competitivi o all’attrazione dell’altro sesso. In particolare, le femmine selezionano solitamente i maschi con cui accoppiarsi sulla base di segnali che indicano la possibilità di acquisire benefici diretti (non genetici) o indiretti (genetici) [8]. Il sesso che seleziona trarrà infatti benefici nello sviluppare una preferenza per quelle caratteristiche che sono indici del possesso di un buon territorio, o dell’impegno in cure parentali (benefici diretti). Inoltre, le caratteristiche selezionate potrebbero riflettere un buon patrimonio genetico del partner, che garantirebbe dunque una prole particolarmente performante nel contesto ambientale considerato (benefici indiretti, teoria dei buoni geni) [7]. I segnali in questione sono generalmente onesti (corrispondo cioè ad un effettivo “valore” dell’individuo in un contesto competitivo), e la loro onestà dipende solitamente da costi associati alla loro presenza. L’elevato costo del segnale garantisce infatti che solo gli individui in buona condizione possano emetterli, gli stessi individui che potranno garantire benefici diretti o indiretti per l’altro sesso [7, 9]. Esiste anche un’altra via per la quale possa insorgere, nel percorso evolutivo di una specie, l’associazione tra una caratteristica-segnale particolarmente sviluppata e una preferenza per tale caratteristica in uno dei due sessi. Questo meccanismo alternativo è definito sensory bias. In tali dinamiche il tratto fenotipico che funge da segnale nel sesso selezionato si fissa nella popolazione a causa di una preferenza preesistente nel sesso che generalmente seleziona [9]. In tal caso, il segnale non è necessariamente associato alla qualità dell’individuo che lo emette, ma sfrutta soltanto una sensibilità del ricevente. Dunque, rispondere a un segnale di questo tipo non comporta necessariamente benefici per il sesso che seleziona, e ciò offre la possibilità di introdurre un’altra forza che può influenzare l’evoluzione dei segnali: il conflitto sessuale. Questo emerge in situazioni in cui una 74

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determinata dinamica riproduttiva non può massimizzare la fitness di entrambi i sessi, ma favorisce l’incremento della fitness di un sesso, decrementando quella del partner. In contesti di questo tipo si sviluppano pattern coevolutivi di carattere competitivo in cui in ciascun sesso tendono ad essere selezionati dei tratti che massimizzino la fitness di quel sesso o almeno attenuino l’effetto di riduzione del relativo successo riproduttivo [9]. La selezione sessuale può essere dunque un importante meccanismo evolutivo alla base dello sviluppo di segnali particolarmente complessi. Tuttavia, rimane piuttosto dibattuto il suo ruolo nelle dinamiche di speciazione [10]. In particolare, permane una sostanziale ambiguità nel definire se le forze che spingono allo sviluppo di tali tratti fenotipici possano poi causare un isolamento riproduttivo tra popolazioni, in conseguenza dei tratti fenotipici stessi. La complessità risiede anche nello stabilire in quale misura i meccanismi di selezione sessuale e di selezione naturale contribuiscono alle dinamiche di speciazione [9, 10]. Sebbene infatti l’evoluzione di segnali possa essere costituita da processi coevolutivi particolarmente rapidi, che potrebbero dunque favorire la comparsa di barriere pre-zigotiche, tale conclusione teorica sembra ad oggi essere supportata da un esiguo numero di evidenze [10]. Divergenze nei processi di selezione del partner sembrano non essere così comunemente causa di isolamento riproduttivo, e dunque la selezione sessuale generalmente non determina autonomamente processi di speciazione, ma concorre a determinarli interagendo con altri fattori ecologici [9]. Tuttavia, i meccanismi post-copulatori di competizione spermatica o di selezione “criptica” da parte della femmina (selezione a livello spermatico) potrebbero essere dei buoni candidati al favorire l’isolamento riproduttivo. Un particolare esempio in questo ambito è legato alle interazioni polline-pistillo nelle angiosperme, che determina la selezione di tratti fenotipici per selezione sessuale, i quali possono creare all’occorrenza delle barriere riproduttive tra popolazioni distinte [11]. Misurare la selezione sessuale Considerato il ruolo centrale della selezione sessuale nell’evoluzione di segnali, e il suo contributo ai meccanismi di speciazione, spesso difficile da quantificare, si rendono necessarisempre più studi empirici che possano chiarire il ruolo di tale processo nelle dinamiche evolutive. Aspetto centrale di tali studi è la capacità di adottare delle metodologie che permettano di misurare al meglio gli effetti della selezione sessuale, escludendo quanto più possibile fattori


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di confondimento relativi ad altri processi in atto. Esistono diverse metriche utilizzate per valutare l’entità della selezione sessuale in una popolazione e i suoi effetti nello sviluppo di particolari tratti. Tra le più classiche e utilizzate troviamo: operational sex ratio (OSR), Bateman gradient (βss) e opportunity for sexual selection (Is) [12]. L’operational sex ratio (OSR) è semplicemente una misura del rapporto tra il numero di maschi e il numero di femmine che possono potenzialmente riprodursi in un determinato momento [12]. Tale rapporto definisce quale dei due sessi subirà la maggior pressione selettiva in un contesto di selezione sessuale. Generalmente, il valore di OSR è proporzionale all’intensità di selezione sessuale, ma tale correlazione non è sempre presente [13]. Il βss, proposto da Arnold and Duvall (1994) sulla base dei già citati studi di Bateman, è definibile come il coefficiente di regressione che lega il successo riproduttivo (numerosità della prole) al mating success (numero di partner riproduttivi). Valori di βss elevati corrispondono in genere a un’elevata intensità di selezione sessuale per il sesso considerato, in relazione ai soli meccanismi pre-copulatori [13]. L’Is è un altro indice utilizzato per stimare l’intensità della selezione sessuale. Si tratta di un indice derivato dal rapporto fra la varianza del numero di partner riproduttivi e il quadrato del numero di partner riproduttivi medio della popolazione (intra-sexual variation in relative mating success) [12, 13]. La metrica fornisce dunque una stima della variabilità del successo riproduttivo di un sesso sulla base di quello della popolazione, che è direttamente legato all’intensità della selezione sessuale. Quando si utilizzano indici per la stima dell’intensità di selezione occorre però essere prudenti e valutare i limiti di validità della misura scelta. Come anticipato, infatti, non sempre una sex-ratio sbilanciata comporta un’intensa selezione sessuale su uno dei due sessi. Anche l’indice Is presenta importanti limitazioni poiché fornisce una stima della massima intensità possibile di selezione sessuale nelle condizioni considerate, che non corrisponde necessariamente a quella effettivamente in atto. Occorre quindi essere particolarmente attenti quando si derivano conclusioni a partire dagli indici riportati, riflettendo sulla validità della stima per come è costruita, all’interno dello specifico design di studio. È sempre consigliabile, dunque, elaborare più metriche e discutere i loro valori alla luce delle possibili dinamiche evolutive in atto [12]. Conclusioni e prospettive future Lo studio della selezione sessuale è un campo ampio e complesso, in continua espansione, che sta raccogliendo sempre più attenzioni negli ultimi anni. Sebbene vi siano dei principi comuni ormai largamente accettati, permangono numerose tematiche che richiedono ulteriori approfondi-

menti. Una di queste è la comprensione dei meccanismi sottostanti la selezione dei vari sistemi riproduttivi, soprattutto per quelli diversi dalla poligamia (su cui si concentrarono gli studi classici). Inoltre, siamo ancora lontani da una buona conoscenza delle dinamiche genetiche alla base dell’evoluzione di particolari tratti fenotipici soggetti a selezione sessuale. In ultimo, ulteriori studi saranno necessari a migliorare la definizione del contributo della selezione sessuale ai meccanismi di speciazione e, con essi, ai pattern macroevolutivi [4]. Per un eventuale interesse ad approfondire le tematiche trattate si rimanda ai riferimenti bibliografici. In particolare, Shuker & Kvarnemo (2021) [4] fornisce una buona panoramica sulla definizione del concetto di selezione sessuale, mentre Lindsay et al. (2019) [9] e Alonzo & Servedio (2019) [6] rappresentano dei buoni riferimenti in merito allo stato dell’arte e a prospettive di studio future.

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APPROPRIATEZZA IN MEDICINA DI LABORATORIO LE MALATTIE AUTOIMMUNI Studiare e identificare i bisogni clinici del paziente e creare le opportunità per migliorare l’appropriatezza nella richiesta di esami di laboratorio

di Maria Cristina Sacchi*

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i è crescente interesse sul tema dell’appropriatezza in medicina, per la preoccupazione derivante dall’aumento dei costi e per la complesso rapporto tra accessibilità, equità e sicurezza per la diagnosi e cura in tutti i Sistemi Sanitari (Quaseem et al, 2012; Ververk et al, 2018). In Medicina di Laboratorio la ricerca di un equilibrio tra necessità di razionalizzazione e razionamento è problema quotidiano: il tema dell’inappropriatezza nella richiesta è sempre più oggetto di dibattiti e di preoccupazioni legate al costo crescente delle indagini di laboratorio (Mughal et al, 2016) e ai costi indiretti che possono derivare dall’informazione di laboratorio in termini di altre tipologie di indagini diagnostiche, ricoveri e trattamenti terapeutici. In quest’ultimo caso si parla di “sindrome di Ulisse”, dove i pazienti si possono perdere in peregrinazioni sanitarie generate da domande sbagliate derivanti da precedenti errate risposte (Dorevitch, 1992). L’inappropriatezza nella richiesta di esami di laboratorio va analizzata alla luce delle prove basate sui dati della letteratura che documentano che la sottoutilizzazione è prevalente rispetto alla sovrautilizzazione (Zhi et al, 2013, Sarkar et al, 2017). Il College of American Pathologists negli Standards for Accreditation definisce l’appropriatezza come “il grado con Unità Laboratorio di Autoimmunologia e Analisi, SSD Laboratori di Ricerca, Dipartimento Ricerca e Innovazione (DAIRI) Azienda Ospedaliera “SS Antonio e Biagio e Cesare Arrigo”, Alessandria, Italia

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il quale una procedura, un trattamento, un esame o il servizio di laboratorio è efficace, chiaramente indicato, non eccessivo, adeguato in quantità, e fornito in vari contesti clinici per rispondere ai bisogni del paziente”. In generale la definizione di appropriatezza in medicina presenta una visione centrata sui bisogni clinici e fa riferimento alle prove che ‘la procedura generi un beneficio per la salute superiore di un margine adeguato al rischio per il paziente, anche in termini psicologici e di costi’. Più recentemente, il tema dell’appropriatezza in Medicina di Laboratorio è stato ricondotto all’interno del concetto del demand management, ossia della gestione della appropriatezza della richiesta non solo per evitare sprechi, uso incongruo delle risorse e aumento ingiustificato dei costi, ma per migliorare la qualità e la sicurezza per i pazienti (Fryer et al, 2013, Jackson, 2007). E’ infatti dimostrato che una richiesta eccessiva e non correlata al reale quesito clinico determina un aumento dei falsi positivi per effetto della ridotta prevalenza della malattia e quindi della bassa probabilità a priori che incide fortemente sull’accuratezza diagnostica (valore predittivo) dell’esame (Baird, 2014, Lippi et al, 2013, Lippi et al, 2014). Pertanto, se è vero che si definisce inappropriata una richiesta di esami che sia al di fuori di ogni scientifica proposta (linea guida, raccomandazione, suggerimento di esperti), è altrettanto chiaro che l’appropriatezza va misurata rispetto ai reali bisogni del paziente e nello specifico contesto clinico. Con questo lavoro si è cercato di identificare alcune situazioni paradigmatiche in cui sia possibile studiare e identificare i bisogni clinici del paziente e su questa base razionale creare le oppurtinità per migliorare l’appropriatezza nella


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richiesta di esami di laboratorio. In particolare, si ritiene che nell’ambito della diagnostica delle malattie autoimmuni, l’argomento dell’appropriatezza sia di particolare attualità. La crescita dei carichi di lavoro e delle attività diagnostiche nel laboratorio clinico Vi è indubbiamente un costante incremento nella richiesta di esami di laboratorio, anche se è difficile identificare dati che riassumano esplicitamente i pattern di richiesta dei test diagnostici sia in ambito nazionale che internazionale. Nell’ultimo decennio vi è stato un aumento non solo nel Regno Unito ma anche negli Stati Uniti, in Canada (Quaseem et al, 2012, Fryer et al, 2013) e in tanti altri paesi, tra cui l’Italia. L’aumento osservato nella richiesta di esami di laboratorio è particolarmente evidente nelle richieste provenienti dalla medicina di base, con incrementi annuali a due cifre. Vi sono molte ragioni che spiegano e giustificano questo incremento, quali l’espansione della gamma degli esami disponibili, l’interesse verso nuove tecnologie ed esami diagnostici fortemente propagandati come innovativi, l’impulso sociologico e culturale a ritenere che lo screening in condizioni di basso rischio di patologia, come nel caso di checkup in pazienti sani, sia di importante valore (Prochazka et al, 2013), la crescita delle aspettative nel potere diagnostico degli esami di laboratorio sia nei medici che nei pazienti, l’uso di profili di esami per cercare di ridurre i tempi del processo clinico diagnostico, l’invecchiamento della popolazione, con conseguente aumento della prevalenza di malattie croniche, il timore di contestazioni e medicina difensiva, gli esami in sequenza indotti da dati anomali.

Richieste inappropriate e sicurezza del paziente: quando un esame diagnostico è rischioso per la salute È noto come molti errori in medicina avvengono nel momento della diagnosi. Il modello di processo diagnostico proposto da Gambino già nel 1970 (Gambino, 1970), sviluppato nel brain to brain loop da Lundberg nel 1981 (Lundberg, 1981) e, infine recentemente rivisto da Plebani (Plebani et al, 2011), evidenzia come il valore dell’informazione diagnostica sia fortemente determinato e condizionato da eventi che avvengono prima che il campione giunga in laboratorio (fase pre-pre-analitica) o dopo che il risultato è rilasciato dal laboratorio stesso (fase post-post-analitica). La percentuale di richieste inappropriate, intese come inutili o potenzialmente dannose, è stimata fra il 5% e il 95% (Mughal et al, 2016, Kobewska et al, 2015), a seconda degli autori, dimostrando grande variabilità nelle modalità e nelle metodologie di valutazione. È comunque evidente come l’utilizzo di esami di laboratorio non necessari produce un impatto rilevante sulle risorse a disposizione e sulle modalità del loro impiego, con un potenziale danno ai pazienti (Liu et al, 2012). Comunemente i laboratori clinici valutano le loro prestazioni basandosi su dati di efficienza e di qualità analitica interna piuttosto che sulla valutazione dei risultati ottenuti sulla salute dei pazienti. L’approccio basato sui risultati valutati come esiti per il paziente, ovvero sugli outcome di salute, è alla base di una corretta politica per l’identificazione dell’errore e del rischio clinico e delle conseguenti azioni volte all’effettivo miglioramento del processo. Tuttavia, questo approccio richiede strumenti e ricerche finalizzate per misurare in modo sistemico l’impatto delle cause di errore quasi sempre complesse Giornale dei Biologi | Mar 2023

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dio in Autoimmunologia (GDS-AI) della Società Italiana di Patologia Clinica e Medicina di Laboratorio (SIPMeL) e dell’European Society for Pediatric Gastroenterology Hepatology and Nutrition (ESPGHaN) per migliorare l’appropriatezza nella richiesta dei test autoanticorpali, con specifico riferimento alle malattie autoimmuni sistemiche e alla celiachia.

Figura 1. Algoritmo per la diagnosi di celiachia in soggetti con manifstazioni cliniche ed età > 2 anni. TTG, anticorpi anti-transglutaminasi; EMA, anticorpi anti-endomisio.

e di ardua individuazione. In altri termini le prove di efficacia, pressantemente richieste nei percorsi basati sull’EBM, sono molto difficili da ottenere. Una risposta operativa recentemente introdotta in alcuni laboratori è di modificare il percorso diagnostico con warning prescrittivi al momento della richiesta, o aggiunta di nuovi esami “riflessi” a seguito dei risultati di un esame iniziale, con l’obiettivo di ridurre l’esecuzione di esami potenzialmente inutili o capaci d’indurre un inaccettabile numero di falsi positivi. È da sottolineare come non sia possibile implementare alcuna azione quando non esistano raccomandazioni diagnostiche basate prove robuste e rilevanti e più in generale su una cultura scientifica adeguata (Plebani et al, 2017). La ricerca dell’appropriatezza negli esami di autoimmunologia L’appropriatezza nella gestione degli esami autoanticorpali per la diagnosi delle malalttie autoimmuni è una tematica complessa e molto dibattuta dal punto di vista gestionale, professionale ed economico: senza dubbio, sia nella richiesta dei test che nella scelta delle migliori metodologie analitiche in grado di rispondere alle necessità diagnostiche e di monitoraggio delle diverse malattie autoimmuni, il percorso dell’appropriatezza è lungo e faticoso, anche se iniziato da anni. Questo documento si propone di portare all’attenzione dei medici di medicina generale le raccomandazioni proposte dal Gruppo di Stu78

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Raccomandazioni per la richiesta di test autoanticorpali nella diagnosi e nel monitoraggio delle malattie autoimmuni reumatiche sistemiche Le 12 raccomandazioni, distinte in tre gruppi (per anticorpi anti-antigeni intracellulari (ANA), per anticorpi anti-dsDNA e per anticorpi anti-antigeni intracellulari specifici (anti-ENA), provengono dal lavoro che il gruppo di studio in Autoimmunologia della Società Italiana di Patologia clinica e Medicina di Laboratorio ha pubblicato nel 2015 (Cinquanta et al, 2015), a seguito di un lungo percorso di approfondimento iniziato nel 2001, e ha condiviso con esperti internazionali della disciplina (Agmon-Levin et al, 2014). • La ricerca degli ANA con metodo di immunofluorescenza indiretta (IFI), per la sua elevata sensibilità diagnostica, costituisce il test di primo livello per la diagnosi delle malattie reumatiche autoimmuni (MRA). In considerazione della non elevata specificità, il test ANA deve essere richiesto come supporto alla diagnosi in pazienti con caratteristiche cliniche suggestive di una patologia reumatica autoimmune. Un test ANA negativo ha un elevato valore predittivo negativo solo per il lupus eritematoso sistemico (LES) e la malattia mista del tessuto connettivo (MCTD) e non esclude comunque la possibilità che il paziente sia affetto da altra MRA. • La ripetizione della ricerca degli ANA risultati negativi o positivi a basso titolo è giustificata in fase diagnostica in caso di successiva comparsa di segni clinici sospetti. In assenza di variazioni del quadro clinico non è consigliabile la ripetizione degli ANA prima di 6-12 mesi. Nei pazienti con diagnosi consolidata di MRA non è appropriata la ripetizione degli ANA se non in presenza di mutamenti del © H_Ko/shutterstock.com


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Figura 2. Algoritmo per la diagnosi di celiachia in soggetti con deficit di IgA. TTG, anticorpi anti-transglutaminasi; DGP, anticorpi anti-peptidi della gliadina deamidata.

quadro clinico. • Nella determinazione degli ANA in IFI si utilizza una diluizione iniziale di 1:80. Un titolo maggiore o uguale a 160 va considerato positivo; un titolo di 1:80 va considerato basso positivo; un titolo < 1/80 va considerato negativo. Per la fascia di età pediatrica, in attesa di ulteriori studi che attestino le evidenze a oggi disponibili e in accordo con queste, si raccomanda l’utilizzo della stessa diluizione di partenza per lo screening e dei medesimi criteri di valutazione dei risultati proposti per la popolazione adulta. • I quadri fluoroscopici di tipo: few nuclear dots, nucleolare a basso titolo, fuso mitotico, midbody, CENP-F, GWlike bodies, Golgi e citoscheletro non necessitano di approfondimento con test di secondo livello. • È bene tener presente che in condizioni normali non sono presenti livelli di autoanticorpi rilevabili ma, nel caso fossero rilevati, sono generalmente a basso titolo (non clinicamente significativo) e rivestono relativa importanza. Non sempre il risultato positivo per ANA corrisponde a un successivo risultato positivo per anti-dsDNA o anti-ENA (anticorpi anti-antigeni intracellulari specifici). Va sempre valutato il quadro clinico generale del soggetto: età, possibili reazioni crociate, prelievo in gravidanza, malattie virali, trattamenti farmacologici in corso, alta concentrazione di IgM. In tutti i casi sopracitati la positività per ANA risulta solo come epifenomeno e non va considerata clinicamente significativa. • Si deve procedere alla determinazione degli anti-ENA quando la positività ANA-IFI è uguale o superiore al titolo 1:160. La ricerca degli ENA può essere eseguita anche con ANA assenti o a basso titolo (<1:160), qualora il paziente presenti sintomi clinici o dati di laboratorio suggestivi di malattia autoimmune. • In caso di negatività del test ANA-IFI e sospetto clinico di sindrome di Sjògren, lupus neonatale o lupus cutaneo subacuto dovrebbero comunque essere ricercati anticorpi anti-SSA/Ro60 e Ro52. La ricerca degli anticorpi anti-Ro di origine materna va eseguita a prescindere dalla positività

degli ANA come marker prognostico di trasmissione placentare e rischio di blocco cardiaco congenito fetale. In caso di sospetta dermatomiosite o polimiosite (DM/PM) si raccomanda la ricerca degli anticorpi anti-Jo1. • Gli autoanticorpi diretti nei confronti degli ENA sono generalmente già presenti al momento della diagnosi, per cui non è giustificata la ripetizione in assenza di una variazione del quadro clinico. • La determinazione degli autoanticorpi anti dsDNA è raccomandata in presenza di sintomi riferibili a LES e in caso di positività degli ANA a un titolo uguale o superiore a 1:160, in particolar modo quando sia presente un quadro omogeneo di fluorescenza nucleare. Benché sia rara la presenza degli anticorpi anti-dsDNA in caso di negatività degli ANA, si raccomanda comunque la determinazione degli autoanticorpi anti-dsDNA qualora sussista un forte sospetto clinico di LES. • Per la diagnosi di LES la ricerca degli autoanticorpi anti-dsDNA viene eseguita con metodo immunometrico (FEIA, CLIA), riportando i risultati in modo quantitativo. Per la sua elevata specificità la ricerca in IFI su Crithidia luciliae (CLIFT) viene utilizzata come test di conferma per i campioni risultati positivi con i suddetti immunodosaggi alla diluizione iniziale del siero di 1:10. • Qualora il test IFI risulti negativo e vi sia una concomitante negatività degli ANA agli autoanticorpi anti-dsDNA e/o la clinica non sia suggestiva per LES è probabile che la positività ottenuta con il metodo immunometrico FEIA sia aspecifica. • Nella fase di monitoraggio si raccomanda la determinazione quantitativa degli anticorpi anti-dsDNA mediante metodi immunometrici (CLIA, FEIA). L’intervallo di tempo tra le determinazioni varia nelle diverse forme di malattia e deve tenere conto dell’evidenza che l’incremento degli anticorpi anti-dsDNA può precedere l’esacerbazione della nefropatia lupica.

Figura 3. Algoritmo per la diagnosi di celiachia in soggetti asintomatici appartenenti a gruppi a rischio. TTG, anticorpi anti-transglutaminasi; DGP, anticorpi anti-peptidi della gliadina deamidata.

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Raccomandazioni per la determinazione degli anticorpi anti-citoplasma dei neutrofili (ANCA) Anche queste tre semplici raccomandazioni provengono dall’attività del gruppo di studio in Autoimmunologia della SIPMeL, sulla base del parere di esperti internazionali (Bossuyt et al, 2017). 1. Nella fase di screening diagnostico gli ANCA vengono rilevati mediante l’uso combinato della tecnica di immunofluorescenza indiretta (IFI) e del metodo immunometrico (CLIA, FEIA) per il dosaggio degli ANCA specifici per la proteinasi 3 (PR3) e la mieloperossidasi (MPO). 2. Nella fase di monitoraggio viene eseguita la determinazione quantitativa di MPO e PR3 mediante metodi immunometrici (CLIA, FEIA). 3. Nello studio delle vasculiti la ricerca degli ANCA è limitata agli anticorpi anti-PR3 e MPO in quanto sono solo questi autoanticorpi rivestono un interesse diagnostico. Raccomandazioni per la richiesta di test per la diagnosi di malattia celiaca Queste nove raccomandazioni rappresentano la sintesi di linee guida proposte dal gruppo di studio in Autoimmunologia della SIPMeL (Tonutti et al, 2015, Alessio et al, 2012) e dall’European Society for Pediatric Gastroenterology, He80

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patology and Nutrition (ESPGHaN) (Husby et al, 2019). 1. E’ fondamentale che tutti gli esami diagnostici siano effettuati in dieta libera, evitando in particolare la sospensione dell’assunzione di glutine per non falsare i risultati degli esami. 2. I biomarcatori di prima scelta sono: gli anticorpi anti-transglutaminasi di classe IgA (anti-tTG IgA) e le IgA totali. 3. Gli esami diagnostici di ingresso per la celiachia in soggetti con manifestazioni cliniche ed età > 2 anni sono anti-tTG IgA e IgA totali (Figura 1). 4. Gli esami di prima scelta per i soggetti con deficit di IgA sono: gli anticorpi anti-tTG IgG e gli anticorpi anti-peptidi deamidati della gliadina (anti-DPG IgG) (Figura 2). 5. L’esame più importante per i soggetti asintomatici appartenenti a gruppi a rischio è HLA DQ2/DQ8 (Figura 3). 6. L’assenza di DQ2/DQ8 nei soggetti a rischio consente di escludere con elevata probabilità la celiachia e di evitarne il monitoraggio. 7. Vanno valutate non solo positività e negatività dei marcatori sierologici, ma anche l’entità dell’incremento. 8. La ricerca degli anticorpi anti-endomisio (EMA) rappresenta un test di secondo livello e va richiesta come test di conferma. Nei bambini sintomatici con anti-tTG>10 volte la soglia e positività HLADQ2/DQ8, una positività da anti-


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corpi anti-endomisio permette di poter fare diagnosi senza ricorrere alla biopsia. 9. Nel follow-up si raccomanda di effettuare un controllo entro 6-12 mesi dalla diagnosi e successivamente ogni 1-2 anni (salvo complicanze). Conclusioni L’appropriatezza in medicina di laboratorio e nella diagnostica delle malattie autoimmuni presenta una sempre maggiore rilevanza, dato il rischio di prescrizioni e di esecuzione di test di laboratorio inutili e spesso dannosi per il paziente. L’osservanza delle raccomandazioni nazionali e internazionali nel campo delle malattie reumatiche e della celiachia rappresenta un potente strumento per il corretto impiego dei test autoanticorpali nell’ottica della corretta diagnosi delle malattie autoimmuni e del contenimento dei costi.

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UNA RILETTURA ECOLOGICA DEL SECOLO XX (parte III) Una disciplina scientifica che si occupa dei rapporti degli esseri viventi tra loro, con il mondo circostante e degli scambi di materia ed energia che stanno alla base della vita

di Antonella Pannocchia

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ome visto, tra la fine degli anni 1960 e l’inizio degli anni 1970 esisteva un vasto fermento sociale tra i giovani, in cui le istanze ambientaliste si fecero strada gradualmente. Nel 1968 Italia Nostra, WWF, CAI organizzarono a Roma la prima manifestazione ambientalista italiana su scala nazionale, che vide sfilare migliaia di persone[1]. Dai primi anni 1970, a fianco delle realtà istituzionalizzate, proliferarono un grande numero di attività spontanee locali. In alcuni gruppi, molto politicizzati e ideologizzati, le idee ambientali restavano spesso periferiche alle loro battaglie mentre nelle realtà professionali che si politicizzavano con interessi ambientalisti si trovano associazioni come Medicina democratica, Urbanistica democratica , Geologia democratica[1][2]. La devoluzione amministrativa statale avviata dagli anni 1970 diede impulso a una ricca serie di investimenti culturali e di ricerca da parte delle Regioni ed autorità locali, volti a mettere in evidenza la storia e valori locali. Il crescente dinamismo locale alimentò ulteriori esperienze e sensibilità ambientaliste che, pur rimanendo molto frammentate, produssero esperienze che confluirono nei movimenti ambientalisti successivi [2]. Nel contempo, le associazioni ambientaliste nazionali continuarono le proprie battaglie tradizionali, e alcune di esse si mossero gradualmente verso un diretto impegno politico. In questo periodo furono fondate nuove associazioni che presto guadagnarono influenza e arricchirono il sempre più variegato movimento ambientalista.[1] WWF e Italia Nostra videro aumentare decisamente il proprio numero di soci, anche se durante i primi anni 1970 l’associazionismo ambientale italiano rimase numericamente inferiore 82

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rispetto a quello di molti altri paesi europei[2]. Nel 1980 fu costituita a Roma la Lega per l’Ambiente Arci, con l’ambizione di costituire un punto di riferimento © Thx4Stock/shutterstock.com


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di massa per l’ecologismo di sinistra italiano. Legambiente si strutturò su un modello federativo di numerosi circoli locali, e impostò le proprie iniziative con rigore e spessore culturale, sostenendole attraverso un comitato scientifico e centri di azione giuridica. Furono coinvolte molte figure rilevanti dell’ambientalismo italiano, tra cui Enrico Tiezzi, Bernardo Rossi Doria, Massimo Scalia, Gianni Mattioli, Giuliano Cannata, Virginio Bettini, Laura Conti e Giorgio Nebbia. Nel 1983 fu organizzato il primo congresso nazionale della Lega per l’Ambiente, intitolato Pensare globalmente agire localmente. Alla presidenza fu eletto Chicco Testa, alla segreteria Ermete Realacci.[1][2][3]. Altre associazioni fondate nel periodo furono AAM Terra (1977), ispirata al movimento biodinamico tedesco; i Gruppi di Ricerca Ecologica (GRE) (1978), inizialmente associati al Movimento Sociale Italiano; l’ufficio italiano di Greenpeace (1986); Fare Verde (1986). Si moltiplicarono anche le battaglie su temi specifici, nonche’ campagne per il cambiamento di stili di vita[1][2]. Con la legge 349/1986 istituente il Ministero dell’Ambiente, le principali associazioni ambientaliste (WWF, Amici della Terra, FAI, Federterra, Greenpeace, Italia Nostra, Kronos ‘91, LIPU, Lega per l’ambiente, Marevivo) furono formalmente riconosciute e divennero membri dell princi-

pale organo consultivo del Ministero: il Consiglio Nazionale dell’Ambiente [2]. Alla fine degli anni 1980, le principali associazioni ambientaliste raggiunsero un numero di soci ragguardevole: 300,000 soci per il WWF e 50,000 per la Legambiente [2]. Si moltiplicarono ulteriormente le iniziative locali: dalla lotta contro l’insediamento di infrastrutture, alle sperimentazioni produttive ispirate da idee ecologiche, ad iniziative di solidarietà e cooperazione con paesi in via di sviluppo, alla tutela della natura locale, al controllo della gestione del territorio da parte delle autorità locali [4]. Organizzazioni sociali e politiche di massa Nei primi anni 1970, la Chiesa cattolica, fino ad allora sostanzialmente muta sulle questioni ambientali, cominciò a manifestare attenzione: nel 1970 Papa Paolo VI rivolse un impegnativo discorso ai dirigenti e al personale della FAO a Roma, nel quale considerò i rischi ecologici globali; poco dopo, il cardinale Roy, presidente della Commissione pontificia “Iustitia et pax” inviò un messaggio di tono analogo al segretario dell’ONU in occasione del lancio del secondo decennio dello sviluppo. Nei giorni successivi, infine, il gesuita Bartolomeo Sorge ruppe l’assoluto silenzio tenuto negli anni dalla più importante rivista vaticana, “La civiltà cattolica”, con un lungo e impegnativo saggio [5] che a partire dal commento del discorso di Paolo VI esaminò ampiamente l’intera problematica ambientale[1]. L’insegnamento cattolico, fortemente antropocentrico, si scontrava con le interpretazioni ecologiche della natura, e specialmente con i filoni più fondamentalisti dell’ecologismo. Punti di incontro furono invece le lotte per la pace, contro la fame e contro le le disuguaglianze sociali. Un importante segno di avvicinamento ai temi ambientali fu l’enciclica Sollicitudo rei socialis di Papa Giovanni Paolo II nel 1987[2]. Simile ritardo ebbe il mondo marxista: in esso le idee ecologiste venivano spesso viste come mistificazioni della realtà economica e sociali, distrazioni dalla lotta di classe, e ostili allo sviluppo economico[1]. Nel 1971 un importante convegno organizzato dall’ Istituto Gramsci manifestò le spinte e i ritardi presenti all’interno del PCI sulla questione ambientale [6]. Nel 1977 il segretario del Partito Comunista Enrico Berlinguer in un convegno a Roma propose l’idea di superare la società dello spreco in direzione di un modello di sviluppo più razionale, socialmente equo e rispettoso dell’ambiente[7]. La proposta declinerà con il successivo allontanarsi del PCI dall’area di governo e col declino stesso della sua forza elettorale ma costituì un rarissimo tentativo da parte dei grandi partiti di massa italiani di farsi organicamente carico della problematica ambientale[1]. Sebbene durante gli anni 1970 ci fosse stata una certa convergenza fra i movimenti ambientalisti e i movimenti operai e sindacali; tuttavia, esistevano tra loro anche valutazioni molto Giornale dei Biologi | Mar 2023

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differenti, specie rispetto all ricadute occupazionali di scelte industriali favorite dagli ambientalisti, e più in generale, rispetto alla visione dello sviluppo economico e scientifico e del ruolo che l’ecologia dovrebbe giocare nelle scelte politiche. Negli anni 1980 il PCI ondeggiò sulla battaglia, cruciale per gli ambientalisti, contro l’energia nucleare, per eventualmente approvare una mozione favorevole ad essa nel congresso del 1986[1]. Riforme ambientali, referendum e ingresso in politica Durante gli anni 1970, la spinta della più ampia riflessione ambientalista e dei movimenti ambientalisti, contribuirò a stimolare riforme legislative ispirate da approcci più organici all’ambiente, di quanto fosse stato fatto in precedenza; le associazioni impegnate nella conservazione della natura promossero lunghe battaglie contro la caccia. Nel 1975 WWF, LIPU e Italia Nostra promossero la prima raccolta di firme per un referendum abrogativo di alcune norme sulla caccia, ma non raggiunsero il numero necessario. Nel 1980 il Partito radicale, con il sostegno di diverse associazioni ambientaliste, promosse dieci referendum abrogativi tra cui due riguardanti la caccia e il nucleare: le firme raccolte dai due referendum ambientalisti superarono le 800.000 ma nel 1981 la Corte Costituzionale dichiarò inammissibili i quesiti referendari[1]. Le riforme ambientali si amplificarono durante gli anni 1980. Le istanze del movimento ambientalista trovarono 84

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maggiore ascolto nella politica. Italia Nostra divenne consulente del governo per i beni culturali. Tuttavia, gli interessi particolari continuarono a prevalere su istanze di solidarietà sociale o di interesse collettivo, come quelle ambientali, soprattutto qualora esse mettessero in discussione attività economiche e l’occupazione[7] Nella seconda metà degli anni 1970 ci fu un intenso dibattito all’interno dei tanti movimenti e gruppi ambientalisti italiani sulla necessità di un coordinamento nazionale e di una presenza politica diretta. Alcuni preferivano mantenere l’autonomia movimentistica, altri entrare in un partito esistente, altri presentare liste locali [1]. L’impegno politico diretto era motivato dalla percezione di insensibilità alla causa ambientale tra le forze politiche, e dal respingimento dei referendum abrogativi; nel mentre cresceva l’interazione tra i movimenti ambientalisti e i movimenti pacifisti.[8] Le prime campagne antinucleari (1976-1979) svolsero un ruolo centrale nel far emergere la necessità di un impegno politico diretto del variegato movimento ambientalista: mostrarono la distanza tra l’ambientalismo e le forze politiche tradizionali, fornirono l’opportunità di collegare le opposizioni locali agli impianti nucleari con le critiche più trasversali alla società contemporanea mosse dai movimenti sociali di contro-cultura [8] Nel 1978 esponenti ambientalisti parteciparono in elezioni comunali e provinciali in Alto Adige (poi avrebbero contribuito a fondare il partito Verdi del Sudtirolo/Alto Adige)[9]. Le prime liste di ispirazione ambientale si presentarono alle elezioni amministrative del 1980 a Milano, Mantova e in altri comuni minori. Nel 1982 un convegno a Trento promosso da Marco Boato e Alex Langer discusse la scelta tra movimento e partito: c’era tensione tra coloro che, disillusi dalla politica, volevano preservare l’autonomia movimentistica e chi voleva mantenere e coordinare la galassia Il Partito Radicale si fece promotore di un impegno politico diretto da parte degli ambientalisti. Nel 1983, alle elezioni amministrative in una cinquantina di comuni, per lo più di dimensioni medio‐grandi, vennero presentate in una


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dozzina di comuni alcune liste verdi che ottennero buoni risultati ad Ancona (3%) a Monza (3,2%) ma soprattutto nei comuni interessati a siti nucleari civili o militari come Viadana, Montalto di Castro, Viterbo e Avetrana, dove le percentuali superano in qualche caso il 10%. Nel 1985 alle elezioni amministrative, per la prima volta le liste verdi furono presenti diffusamente: ottennero una media del 2% di consensi, circa 600.000 voti, 10 consiglieri regionali eletti (due in Lombardia e uno in Piemonte, Veneto, Liguria, Emilia‐Romagna, Toscana, Marche, Lazio, Campania) e 85 consiglieri comunali e provinciali[1] Il movimento politico verde nacque dunque da una galassia di liste locali, che passarono da quattro nel 1980, a sedici nel 1983, a centocinquanta nel 1985, coagulando nelle liste elettorali i membri di centinaia di associazioni ecologiste, ambientaliste e pacifiste. La scarsa sensibilità ambientale, ma soprattutto le posizioni anti-partiti diffuse tra gli ambientalisti suscitarono opposizione tra i maggiori partiti politici. Di fronte alla crescita del movimento, essi cercarono poi di cooptarne istanze ed esponenti, sia direttamente, costituendo e sostenendo associazioni afferenti ai partiti e portatrici di idee ambientaliste, femministe e pacifiste[10]. Nel 1986 fu fondata una Federazione nazionale delle liste verdi. Il sistema politico proporzionale senza soglie di sbarramento e il meccanismo di finanziamento pubblico ai partiti favorirono la scelta, sebbene la federazione fosse ancora piena di divisioni ed incertezze.[6] Alle elezioni politiche del 1987 i Verdi sotto il simbolo della Federazione, Il sole che ride, entrarono per la prima volta in Parlamento con il 2,51% dei voti alla Camera e l’1,96% al Senato (con una differenza di circa 3:1 tra i consensi al nord e al sud), eleggendo 13 deputati e 1 senatore. Oltre ai Verdi, ci furono numerosi ambientalisti eletti nelle liste del PCI, Sinistra indipendente e Democrazia Proletaria.[1][2]

500.000 firme contro la ripresa dell’uccellagione: l’iniziativa fallì ma costituì un’esperienza seminale per l’ambientalismo italiano, da cui partì l’impegno tramite i referendum, specie contro la caccia. La conservazione delle aree protette si mosse verso un approccio più sistemico e meno locale. Nel 1971 il Gruppo di lavoro per la conservazione della natura della Società botanica italiana pubblicò un censimento nazionale dei biotopi meritevoli di conservazione in Italia,[36] che avrebbe influenzato le politiche di istituzione di aree protette nel ventennio successivo.[1]. Nel 1974, dopo approfonditi studi, un’ampia consultazione popolare e la redazione di un ambizioso piano regionale, la Lombardia approvò l’istituzione del Parco del Ticino: fu il primo parco naturale regionale effettivamente funzionante. Da allora le regioni, e soprattutto Lombardia e Piemonte, divennero protagoniste nel campo delle aree protette.[1] Nel 1980 WWF Italia e Università di Camerino organizzarono il convegno “Strategia 80 per i parchi e le riserve d’Italia” nel quale lanciarono la cosiddetta “sfida del dieci per cento”: portare la superficie delle aree protette italiane dal 1,5% del territorio nazionale al 10%. Nel giro di poco più di un decennio l’obiettivo, all’epoca considerato visionario, verrà raggiunto e superato.[1] Alla fine degli anni 1980, vent’anni dopo l’istituzione dell’ultimo parco nazionale in Calabria, la grande spinta po© Space-kraft/shutterstock.com

Temi trattati: conservazione della natura Negli anni 1970-1980 le organizzazioni ambientaliste estesero le proprie battaglie per la conservazione della natura. Nel 1970 WWF Italia, Italia Nostra raccolsero Giornale dei Biologi | Mar 2023

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polare e istituzionale del quindicennio precedente per l’istituzione di nuove aree protette cominciò a dare frutti importanti. La legge finanziaria per il 1988 (legge n. 67/1988) previde l’istituzione di tre grandi parchi nazionali: Pollino, Monti Sibillini e Dolomiti Bellunesi. L’anno successivo la legge sulla “Programmazione triennale per la tutela dell’ambiente” (n. 305 del 28.8.1989) previde l’istituzione di altre tre parchi nazionali: Aspromonte, Arcipelago Toscano, e Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna.[1] Movimento contro l’energia nucleare Tra il 1958 e 1961 grandi imprese, tra cui FIAT, Edison, Motecatini e Agip, avevano costruito le prime centrali nucleari italiane.[7] Nel 1971 l’ENEL cominciò la costruzione della quarta, a Caorso; nel 1975 avviò la costruzione della quinta a Montalto di Castro. Come detto la crisi fece percepire i limiti del petrolio e delle risorse in generale, e accelerò ricerca di fonti alternative, tra le quali le politiche pubbliche privilegiavano il rilancio del nucleare. Il Piano energetico nazionale (PEN) del 1975 prevedeva la realizzazione di una ventina di nuove centrali nucleari che avrebbero dovuto produrre, entro il 1985, tra 20.400 e 26.400 megawatt, per raggiungere poi, nel 1990, una potenza nucleare installata tra 42.100 e 62.100 megawatt.[1] La redazione dei PEN era fortemente influenzata dalle grandi aziende del settore nucleare, private e pubbliche, e presentava proiezioni di cresci86

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ta del fabbisogno energetico molto elevate.[6] Dai primi anni 1970 le associazioni ambientaliste italiane cominciarono a prendere posizioni contro l’energia nucleare. Nel 1977 in occasione della conferenza mondiale di Salisburgo organizzata dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica si tenne una contro‐iniziativa intitolata “Conferenza su un futuro non‐nucleare” cui partecipano delegazioni da 19 paesi del mondo. Fu la prima occasione in cui gli anti‐ nuclearisti italiani (tra cui Emma Bonino, Mario Signorino) si confrontarono con esponenti stranieri del movimento. Il movimento antinucleare prese piede nel corso di alcuni anni e vi confluirono anime diverse, dalle associazioni ambientaliste classiche, come WWF e Italia Nostra, ai movimenti politici e studenteschi, movimenti cattolici, e sindacati. Il Partito radicale svolse un ruolo centrale: nel 1977 promosse la costituzione della Lega per l’energia alternativa e la lotta antinucleare, prima associazione nazionale anti‐nucleare. Nel 1978 anti-nuclearisti di sinistra costituirono il Comitato per il controllo delle scelte energetiche, un organismo nazionale destinato ad espandersi notevolmente e a giocare un ruolo cruciale nella battaglia antinucleare italiana. Il Comitato pubblicava il bollettino “QualEnergia” che dal 1981 divenne una rivista a cadenza trimestrale. Nel 1979, in conseguenza dell’incidente di Three Mile Island, il 19 maggio scesero in piazza a Roma quarantamila persone: fu la prima grande manifestazione italiana contro l’atomo civile. Il movimento anti nucleare si intrecciò con quello pacifista, specie dopo la riconversione dell’aeroporto siciliano di Comiso in base missilistica della Nato nei primi anni 1980.[1] Dalla fine degli anni 1970 il governo Italiano cominciò a ridurre le ambizioni di sviluppo del settore nucleare. Il Piano energetico nazionale del 1981 prevedette soltanto quattro nuove centrali. Il successivo piano del 1986, alla vigilia dell’incidente di Chernobyl, ridusse ulteriormente le previsioni a un totale di 10.000 nuovi megawatt da installare [1]. Dopo l’incidente di Chernobyl (1986), il sostegno al movimento anti nucleare crebbe enormemente. Si susseguirono grandi manifestazioni pubbliche. Le centrali operanti avevano infatti terminato il loro ciclo di vita fisiologico ed avrebbero dovuto essere ammodernate e riprogettate secondo le nuove tecnologie ma nel 1987 si tenne un referendum per rendere più difficile la produzione energia nucleare in Italia. Votarono oltre il 65% degli aventi diritto e l’80% si espresse contro l’atomo. Nei mesi seguenti furono chiuse tutte le centrali già operanti (Trino, Caorso, Borgo Sabotino e Garigliano) e furono interrotti i lavori per la costruzione della centrale di Montalto di Castro.[1] Il 10 luglio 1976, dallo stabilimento chimico dell’Icmesa di Meda, nei pressi dell’abitato di Seveso, fuoriusci’ una nube contenente diossina (sostanza cancerogena fino ad allora quasi sconosciuta) che contaminò una vasta zona abitata della Brianza: le persone esposte furono 37,000. L’incidente,


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che provocò la morte di animali e piante, scosse fortemente l’opinione pubblica italiana. Casi di inquinamento furono lo scarico di mercurio in mare da parte dello stabilimento Solvay di Rosignano (1971); l’inquinamento dell’IPCA di Cirié (1972); l’epidemia di colera a Napoli ed in Puglia nel 1973 che mostrò la grave carenza di infrastrutture ambientali per la depurazione delle acque; lo scarico di fanghi rossi dello stabilimento Montedison di Scarlino (1974); l’affondamento al largo di Otranto del mercantile jugoslavo Cavtat, carico di piombo tetraetile (1974); la fuoriuscita di diossina dallo stabilimento di Seveso (1976), che rappresentò un grande shock pubblico e uno spartiacque per la sensibilità ambientale anche in Europa. Tra i disastri ambientali che catalizzarono l’attenzione del pubblico italiano, ci furono anche l’incidente della petroliera Haven nel porto di Genova (1991); e una lunga serie di alluvioni e disastri idrogeologici, a partire dall’alluvione del Tanaro, Belbo e Po nelle provincie di Asti, Alessandria e Cuneo, che causarono 70 morti e gravissimi danni (1991); l’alluvione di Sarno e Quindici del 1998; fino ad estese alluvioni disastrose in Calabria e Piemonte nel 2000[1]. Alcune di queste situazioni generarono campagne di lotta da parte degli operai per il miglioramento delle condizioni di lavoro, a cui si affiancarono campagne ambientaliste, e inchieste giudiziarie[7]. Tra le numerose iniziative degli anni 1970 per il miglioramento delle condizioni ambientali di lavoro, ci fu l’istituzione dei Servizi di medicina per gli ambienti di lavoro, strutture tecniche di indagine che promuovevano una partecipazione attiva degli operai alle valutazioni ambientali in fabbrica, anche in relazione al territorio circostante che vennero istituite in Lombardia con la legge regionale del 1972 e che trovarono poi una eco nazionale nella riforma sanitaria del 1978[10]. Durante gli ani 1990 si svilupparono ulteriormente le politiche ed istituzioni ambientali. L’International Panel on Climate Change (IPCC) avviò i suoi studi sul cambiamento climatico nel 1990, che sono stati alla base dei lunghi sforzi per raggiungere un accordo globale sul clima. Il Summit della Terra del 1992 contribuì a rafforzare ed estendere l’agenda multilaterale ambientale, lanciando il processo che portò al Protocollo di Kyoto del 1997[1]. L’ideologia neoliberista prevaleva nel mondo occidentale, ispirando riforme delle politiche ambientali basate su strumenti di mercato, e alimentando anche una forte opposizione di parte del movimento ambientalista. Si rafforzarono anche le istituzioni europee per la gestione ambientale, dalla costituzione della Agenzia ambientale europea (1990) alla promozione di numerosi interventi normativi. L’ambientalismo assunse sempre più un profilo globale, grazie alle iniziative di organizzazioni transnazionali, la diffusione dell’ambientalismo anche nei paesi in via di sviluppo, e la moltiplicazione di iniziative di rete globali e la crescita dell’informazione.[1]

Associazionismo, movimenti e rappresentanza politica Con la legge n. 241/1990 si affermò il principio di trasparenza dell’azione amministrativa. Essa si rivelò assai utile per numerose battaglie in difesa del territorio perché consente l’accesso agli atti amministrativi e quindi alle informazioni. Il diritto alla comunicazione è ulteriormente migliorato con il Dlsg n. 195 del 2005 adottato in attuazione di una direttiva comunitaria.[1] Il mondo ambientalista fu segnato nel 1995 dal suicidio di Alexander Langer, figura eminente e prestigiosa dell’ambientalismo e del pacifismo italiano ed europeo.[38] L’anno successivo scomparve anche Antonio Cederna.[1] Nel 1998 un gruppo di imprese, enti, associazioni ambientaliste ed enti locali italiani costituì il Kyoto Club, organizzazione no profit formalmente impegnate nella riduzione delle emissioni di gas serra. Fu uno dei primi esempi in Italia di saldatura tra segmenti di ambientalismo e imprenditoria privata e pubblica che conoscerà un certo successo in futuro, fino all’affermazione da parte di alcuni della centralità della promozione della green economy nell’identità e negli obiettivi dell’ambientalismo. Il primo presidente fu Chicco Testa.[1] Crebbe la protesta contro gli ecomostri e le edificazioni abusive che deturpano le coste italiane. Nel 1998 la Goletta verde effettuò un blitz a Vietri sul Mare per chiedere l’abbattimento dell’Hotel Fuenti, gigantesco albergo abusivo edificato tra le scogliere della Costiera Amalfitana. L’abbattimento di 73 villette abusive sulla costiera della Piana del Sele nel 1998 segnò l’inizio di una breve stagione di abbattimenti culminata il 22 aprile 1999 con l’eliminazione proprio dell’hotel Fuenti [1]. I verdi arrivarono ai primi anni 1990 divisi in due forze politiche nel Parlamento italiano: Federazione dei Verdi e Verdi Arcobaleno. Nel 1990 si impegnarono per il referendum sull’uso dei pesticidi in agricoltura e per l’abolizione della caccia ma questo naufragò a causa del non raggiungimento del quorum previsto dalla legge: appena il 42% degli aventi diritto ando’ infatti a votare [1]. Nel mezzo di una crisi del sistema politico italiano agli inizi degli anni 1990 (scatenata da Tangentopoli), i verdi nel loro insieme non furono capaci di proporre una visione politica complessiva alternativa, oltre le loro battaglie tradizionali. Rimasero piuttosto segnati dai constrasti interni, dall’influenza di esponenti politici ed idee che derivavano dalla sinistra libertaria o alternativa e dal partito radicale, e da forti tensioni con le associazioni ambientaliste [11] Nel 1996 la Federazione dei Verdi fu tra i fondatori dell’alleanza di centrosinistra, denominata L’Ulivo, che vinse le elezioni e formò il suo primo Governo. I Verdi, per la prima volta, entrano a far parte di un Governo nazionale, esprimendo il Ministro dell’Ambiente Edoardo Ronchi e 4 sottosegretari. La rappresentanza governativa fu mantenuta Giornale dei Biologi | Mar 2023

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anche nei due governi successivi dell’Ulivo (Governi D’Alema I e II). Riforme La decade 1990 vide importanti riforme ambientali. Alcune sono state in recepimento di direttive europee: la direttiva Habitat (1990) (per conservazione degli ecosistemi e delle specie animali e vegetali selvatiche, che lanciò la rete Natura 2000) e la direttiva Uccelli crearono il quadro normativo per la conservazione della biodiversità in Europa. Altri interventi legislativi promossero le fonti rinnovabili e il risparmio energetico (leggi 9 e 10 /1991), regolarono l’inquinamento acustico (1991), il commercio delle specie animali e vegetali in via d’estinzione (legge 150/1992), bandirono l’amianto (legge 257/1992); riorganizzarono il settore delle risorse idriche (legge 36/1994, detta Galli); riordinarono il settore rifiuti e avviarono la raccolta differenziata (Decreto M.A. 22/1997, cosiddetto decreto Ronchi); aggiornarono la normativa sulla tutela delle acque (1998).[1] Nel campo della conservazione della natura, dopo oltre trentanni di tentativi infruttuosi, nel 1991 fu finalmente approvata “Legge quadro sulle aree protette” (l. 394/1991). Si trattò di una delle poche leggi ambientali organiche e di ampio respiro approvate fino a allora in Italia: sulla base di un ampio consenso, intese regolamentare, a coordinare e a stimolare la creazione e il funzionamento di tutte le aree naturali protette italiane. Il testo prevedette anche l’istituzione di sei nuovi parchi nazionali (Cilento e Vallo di Diano, Gargano, Gran Sasso e Monti della Laga, Maiella, Val Grande, Vesuvio) che si aggiunsero agli undici già esistenti. Salutata con grande entusiasmo e applicata inizialmente fra molte speranze, perse presto il suo slancio anzitutto a causa del disinteresse governativo e sarà successivamente oggetto di numerosi tentativi di depotenziamento e di stravolgimento. Nel 1997 si tenne a Roma la prima conferenza nazionale sulle aree protette, per la verifica dell’applicazione della legge quadro. Una seconda conferenza fu tenuta ne 2002 e poi, nonostante reiterate richieste da parte dei movimenti, più nulla.[1] L’anno successivo fu approvata la nuova legge sulla caccia, la n. 157/1992 sulla “protezione della fauna selvatica omeoterma ed il prelievo venatorio”. L’articolo 1 contiene una novità rivoluzionaria, da sempre rivendicata dal mondo ambientalista: “La fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell’interesse della comunità nazionale e internazionale. L’esercizio dell’attività venatoria è consentito purché non contrasti con l’esigenza di conservazione della fauna selvatica e non arrechi danno effettivo alle produzioni agricole”.[1] Nel 1993 un referendum tolse le competenze sui controlli ambientali alle Unità sanitarie locali. La legge n. 61 del 21 gennaio 1994 istituì di conseguenza l’Agenzia nazionale per 88

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la protezione dell’ambiente e affidò il controllo ambientale alle Regioni tramite le Agenzie regionali per la protezione ambientale (Arpa). Ci vorranno diversi anni prima che tutte le Regioni istituiscano le rispettive agenzie.[1] Nel 1994 l’insediamento del primo governo Berlusconi rafforzò l’orientamento neoliberista dell’azione governativa italiana. Dopo il condono edilizio del governo Craxi del 1985, il governo Berlusconi promosse un nuovo condono edilizio (legge n. 724) estendendolo agli abusi realizzati fino al 31 dicembre 1993 e consentendo di condonare le lottizzazioni abusive. Secondo il Centro Ricerche Economiche Sociologiche e di Mercato nell’Edilizia si realizzarono altri 220.000 abusi fra nuove costruzioni e ampliamento di quelle esistenti. Più ingenerale, gli anni del berlusconismo segnarono ‐ nel nome della deregulation ‐ un progressivo smantellamento della già debole legislazione urbanistica italiana e uno svaporamento della stessa cultura urbanistica nazionale.[1] Nel 1998 il ministero per i Beni e le attività culturali organizzò la prima Conferenza nazionale del paesaggio, importante iniziativa nazionale di discussione e di messa a punto cui tuttavia non ne faranno seguito altre.[1] Nel 1996, nel primo governo Prodi venne nominato ministro dell’ambiente Edo Ronchi, esponente del movimento anti‐nucleare e successivamente dei Verdi. Tra le iniziative più visibili, nel 1997 il ministro Ronchi decretò che il cosiddetto Re.Sol, l’impianto di riciclaggio dei 300.000 metri cubi di reflui stoccati all’interno dello stabilimento Acna di Cengio, non era compatibile ambientalmente. La decisione riconobbe le ragioni di otto anni di lotte dei cittadini della Val Bormida e segnò il destino dell’impianto, che venne finalmente chiuso all’inizio del 1999.[1] I verdi lanciarono una assemblea costituente ecologista nel 2000; quindi formarono una alleanza elettorale del Gi-


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rasole insieme ai Socialisti democratici italiani (2001) con scarsi risultati elettorali. Ritornarono al governo all’interno de L’Unione (2005-2008). Parteciparono alle elezioni politiche del 2008 uniti alla sinistra radicale nella lista Sinistra Arcobaleno, non riuscendo ad eleggere alcun parlamentare. Nel 2009 un gruppo di esponenti verdi si scisse e confluì in Sinistra, Ecologia e Libertà [11]. La presenza parlamentare dei verdi è rimasta marginale. Hanno pesato sui risultati elettorali le divisioni interne, con il susseguirsi di scissioni e tentativi di ricostituzione; la loro scarsa capacità di sviluppare una visione politica generale oltre le proprie battaglie e più ampia dell’identità politica influenzata dalle idee di sinistra alternativa predominanti tra i propri esponenti; il ridotto spazio politico lasciato dalla crescente polarizzazione politica nel paese, la tradizionale marginalità delle problematiche ambientali per il grande pubblico; i sistemi elettorali che si sono succeduti, sfavorevoli a piccole forze politiche; le forti concentrazioni di potere dei mass media italiani; e la concorrenza di altre forze politiche che hanno messo questioni ambientali al centro del proprio messaggio politico, come il Movimento 5 stelle[11]. Istituzionalizzazione delle associazioni Le organizzazioni ambientaliste di livello nazionale, rafforzando una evoluzione già avviata dalla metà degli anni 1990, hanno gradualmente diminuito l’attivismo e sono divenute gruppi di pressione gestiti professionalmente.[41] Tale evoluzione ha avuto luogo anche in molti altri paesi allo stesso tempo. Molte organizzazioni che originariamente impiegavano metodi di scontro, sono passate a metodi più convenzionali di pressione politica, come il monitoraggio delle azioni governative, inchieste e studi tecnici, denunce alla magistratura e azioni di lobby verso la politica[12] Proteste locali Si sono diffusi gruppi di protesta formati da attivisti locali, spesso organizzati tramite comitati civici. La loro azione si richiama ai movimenti di giustizia ambientale o a idee di ecologia profonda, bioregionalismo, organicismo o anti-utilitarismo. Talora questi gruppi si formano in reazione alla percepita debolezza delle organizzazioni ambientaliste classiche e si possono legare a reti nazionali e transnazionali di attivisti [12]. Questi gruppi di protesta sono particolarmente attivi nell’opporsi a progetti di infrastrutture di interesse pubblico, ad esempio inceneritori, linee ferroviarie, auto-

strade, impianti energetici e discariche di rifiuti [12-13]. Alcune volte le opposizioni ai progetti sono motivate da preoccupazioni ambientali generali legate al progetto (ad esempio, dal desiderio di soluzioni tecniche o modelli economici alternativi). Altre volte da una logica cosiddetta NIMBY (“Non nel mio cortile”): cioè dal timore che l’opera generi costi locali rispetto a benefici nazionali. Queste proteste sono alimentate da sfiducia nelle organizzazioni statali e nel sistema di rappresentanza politica locale e sono accentuate da inadeguati meccanismi d consultazione pubblica nella presa di decisioni sui progetti[ 12-13].

Bibliografia 1. Piccioni, Luigi, Dossier “1970” — Italia, anni Settanta: dal movimento di protezione della natura all’ambientalismo politico, in Altronovecento. Ambiente Tecnica Società., n. 43, Fondazione Luigi Micheletti, dicembre 2020. 2. Della Valentina,Storia dell’ambientalismo in Italia. Fondazione Luigi Micheletti, dicembre 2011. 3. Valsecchi, Marco, La rovina delle riviere - L’Italia a pezzi, in Vie d’Italia, n. 12, 1964. 4. Amendola Gianfranco, In nome del popolo inquinato : manuale giuridico di autodifesa ecologica, Angeli, 1987, ISBN 88-204-3065-7, OCLC 797555195. 5. Neri Serneri, “Ambientalismi in movimento”, in Neri Serneri, 2005, pp. 278-304. 6. Sorge, B. “La crisi ecologica. Un problema di coscienza e di cultura.” Civiltà Cattolica 121 (1970): 2891. 7. Giovanni Ciccotti, Marcello Cini, Michelangelo de Maria e Giovanni Jona‐Lasinio, L’ape e l’architetto : paradigmi scientifici e materialismo storico, Angeli, 2011 [1976], ISBN 978-88-568-3543-4, OCLC 772635745. 8. Tiezzi., Tempi storici, tempi biologici : la Terra o la morte: i problemi della “nuova ecologia”, Garzanti, 1984, ISBN 88-11-59475-8, OCLC 1126366551 9. Berlinguer Enrico, Austerità occasione per trasformare l’Italia, Editori Riuniti, 1977, OCLC 39820354. 10. Conti, Laura, Che cos’è l’ecologia : capitale, lavoro e ambiente., Mazzotta, 1981, ISBN 88-202-0306-5, OCLC 631345713. 11. Dunnage Jonathan, Twentieth Century Italy. A social history, Taylor and Francis, 2014, pp. 215-216, ISBN 1-322-16564-5, OCLC 892046185. 12. Gruppo di lavoro per la conservazione della natura., Censimento dei biotopi di rilevante interesse vegetazionale meritevoli di conservazione in Italia, Società botanica italiana, 1971. 13. Barca Setfania, Pane e veleno. Storie di ambientalismo operaio in Italia (PDF), in Zapruder: Rivista di storia della conflittualitá sociale, n. 24, 2011, p. 100-107.

Giornale dei Biologi | Mar 2023

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