BILL GATES: “LA BIOLOGIA È L’UNICA SCIENZA CHE SOPRAVVIVERÀ ALL’IA”
L’intelligenza artificiale è ottima per diagnosticare malattie o analizzare il DNA, ma non ha la creatività necessaria per la ricerca
La biologia sopravviverà all’Intelligenza
Artificiale: parola di Bill Gates di Rino Dazzo
Intelligenza artificiale e competenze digitali in sanità - Trend emergenti e prospettive. Il ruolo dei biologi di Matilde Andolfo
Le nuove frontiere della biologia di Rino Dazzo
I biologi al servizio dell’ambiente di Rino Dazzo
INTERVISTE
Glioblastoma, svolta contro la resistenza ai farmaci di Ester Trevisan
SALUTE
I batteri hanno memoria e lavorano proprio come i neuroni del cervello di Domenico Esposito
Utili o dannose? Spiegato il paradosso delle cellule cutanee zombie di Sara Bovio
Sclerosi multipla, trovati i fattori scatenanti nella flora intestinale di Sara Bovio
Milano, paraplegico torna a camminare di Domenico Esposito
E-cig, boom tra i giovani: è allarme di Domenico Esposito
Il glifosato è cancerogeno
Nutrizione e Sport: a Salerno il convegno promosso da FNOB e OBCM di Matilde Andolfo
I campioni azzurri Datome e Sito: «Il nutrizionista è una figura centrale nella vita dell’atleta» di Matilde Andolfo
Scoperto un trattamento per patologie mitocondriali gravi di Sara Bovio
Un passo avanti nella lotta al diabete di Carmen Paradiso
Prima proteina mutaforma progettata in laboratorio di Carmen Paradiso
Parassita travestito da essere umano: la micidiale strategia dell’ameba killer di Carmen Paradiso
Dengue, aviaria e resistenza agli antibiotici: le sfide della microbiologia di Domenico Esposito
Malaria, scoperte le chiavi molecolari del parassita di Carmen Paradiso
Test genetici: cosa sono, quando servono e come usarli di Davide Cacchiarelli e Marco Castori
Fotoprotezione e radiazione solare: necessità, limiti e prospettive future di Carla Cimmino
AMBIENTE
Adriatico-Jonio, un mare d’impegni per la filiera ittica consapevole di Gianpaolo Palazzo
Piccole perle d’Italia fra sfide ambientali e lentezza nel loro sviluppo di Gianpaolo Palazzo
Per i siti contaminati c’è un software italiano che ottimizza le risorse pubbliche di Gianpaolo Palazzo
Crimine in campo: il lato oscuro dell’agroalimentare di Gianpaolo Palazzo
Etna: i segreti delle onde sismiche di Michelangelo Ottaviano
Inquinamento e microplastiche: il tema dei corsi Fad promossi a giugno dalla FNOB e CNBA di Matilde Andolfo
INNOVAZIONE
La polidatina contrasta la sindrome di down di Pasquale Santilio
Ecco come monitorare la fauna selvatica di Pasquale Santilio
Screening del melanoma si fa con Telemo di Pasquale Santilio
La biodiversità marina nel Mediterraneo di Pasquale Santilio
Batterie bio-ispirate: il futuro dell’energia? di Michelangelo Ottaviano
Sonda innovativa contro i tumori di Michelangelo Ottaviano
Azzurro pallido: Gattuso nuovo CT per “destare” l’Italia del calcio di Antonino Palumbo
Ciclismo, brividi da corse a tappe: dopo il sorprendente giro, voilà “le tour” di Antonino Palumbo
Nuoto, Taddeucci regina d’Europa nel fondo di Antonino Palumbo
Pellacani, così giovane ma già esperta di Antonino Palumbo
SCIENZE
Tecnologie ingeribili per diagnosticare le malattie infiammatorie intestinali di Daniela Bencardino
Le fibre alimentari: storia delle definizioni e una nuova proposta di Livia Galletti
Calvin D. Schwabe, il biologo che propose nel 1969 il concetto di One Health di Giuliano Russini
Ricerca clinica e principi etici internazionali di Mirko Ragazzini
La citofluorimetria a supporto della diagnosi citologica dei linfomi a cellule b mature di Maria Cristina Pavanelli
Informazioni per gli iscritti
Si informano gli iscritti che gli uffici della Federazione forniranno informazioni telefoniche di carattere generale dal lunedì al giovedì dalle 9:00 alle ore 13:30 e dalle ore 15:00 alle ore 17:00. Il venerdì dalle ore 9:00 alle ore 13:00
Tutte le comunicazioni dovranno pervenire tramite posta (presso Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi, via Icilio 7, 00153 Roma) o all’indirizzo protocollo@cert.fnob.it, indicando nell’oggetto l’ufficio a cui la comunicazione è destinata.
È possibile recarsi presso le sedi della Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi previo appuntamento e soltanto qualora non sia possibile ricevere assistenza telematica. L’appuntamento va concordato con l’ufficio interessato tramite mail o telefono.
UFFICIO CONTATTO
Centralino 06 57090 200
Ufficio protocollo protocollo@cert.fnob.it
Anno VIII - N. 6 Giugno 2025
Edizione mensile di Bio’s
Testata registrata al n. 113/2021 del Tribunale di Roma
Diffusione: www.fnob.it
Direttore responsabile: Vincenzo D’Anna
Giornale dei Biologi
L’intelligenza artificiale è ottima per diagnosticare malattie o analizzare il DNA, ma non ha la creatività necessaria per la ricerca
Questo magazine digitale è scaricabile on-line dal sito internet www.fnob.it
Questo numero del “Giornale dei Biologi” è stato chiuso in redazione il 30 giugno 2025.
Contatti: protocollo@cert.fnob.it
Gli articoli e le note firmate esprimono solo l’opinione dell’autore e non impegnano la Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi.
Immagine di copertina: @ Alexandros Michailidis/shutterstock. com
Novità: arriva il rating del Biologo
di Vincenzo D’Anna
Presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi
“L’ingiustizia più grande è quella di fare
parti eguali tra diseguali”. Lo diceva don Lorenzo Milani, famoso prete pedagogo che negli anni Sessanta del secolo scorso vergò pagine bellissime sui mali della scuola italiana. Fondatore, a Barbiana, nel cuore del Mugello, di un’esperienza educativa sperimentale, il celebre sacerdote fiorentino riuscì a dimostrare come non esistessero studenti meno intelligenti o meno portati ma solo ragazzi che, non avendo famiglie in grado di seguirli adeguatamente, non riusciva -
Per anni la categoria dei biologi ha dovuto accogliere schiere di laureati che erano poi giunti alla fine del loro percorso di studi meno preparati
no a reggere il confronto con i loro “pari età” più fortunati. Insomma: si trattava semplicemente di giovani che andavano aiutati, compresi, spronati e seguiti dai loro insegnanti, cosa che non avveniva tra i banchi della scuola dell’obbligo. Ho preferito iniziare da questo particolare aneddoto storico solo per rilevare come per anni la categoria dei biologi italiani abbia dovuto accogliere, tra le proprie fila, schiere di laureati che, pur avendo sostenuto un maggior numero di esami rispetto ai predecessori, erano poi giunti alla fine del loro percorso di studi meno preparati. Per non dire che siamo
stati infarciti di iscritti provenienti da corsi di laurea triennali incongruenti e con magistrali telematiche in nutrizione. Gente che del biologo ha poco o nulla, ma che ha infoltito a dismisura il segmento della nutrizione. Quel che è peggio però è che, i biologi del terzo millennio, nella gran parte dei casi, siano poi risultati solo minimamente instradati circa la conoscenza dei principali rudimenti della pratica professionale.
Ebbene, l’aver costruito, nella precedente consiliatura del nostro Ordine, l’Albero delle Opportunità per indicare precisamente quali e quante siano le strade che i biologi possono percorrere, ha rappresentato, in tal senso, un decisivo passo avanti per le nuove generazioni.
Quel che è peggio è che i biologi del terzo millennio siano risultati solo minimamente instradati sulla pratica professionale
Da questo disorientamento è derivata forse anche la scarsa conoscenza del “mestiere” da esercitare. Un mestiere che pure poteva (e può) essere scelto tra le ottanta diverse possibilità offerte dalla legge istitutiva della professione di biologo (la n. 369 del 1967) la quale offre - è sempre bene ricordarlo - una svariata gamma di specifiche competenze professionali.
Ancor più d’ausilio per i biologi del futuro saranno le Scuole di Formazione sul campo che la Fondazione Italiana Biologi (FIB) si appresta, via via, ad aprire nelle diverse regioni d’Italia. Scuole in Genetica & Genomica, Bio Informatica, Biologia Marina, Nutrizione, PMA & Embriologia, Eco Tossicologia Ambientale, Microbiologia, Filiera Agro Alimentare e Sicurezza solo per citarne alcune. Collegata a questa lodevole iniziativa sta per arrivare la nuova classificazione delle competenze professionali dei bio -
logi aggiornate, sulla scorta di tutte le specialità (vecchie e nuove) professionali che dal 1967 al 2025 sono state progressivamente introdotte nel novero delle professioni praticabili. In questa norma verrà prevista anche la tripartizione dell’Albo degli iscritti che sarà pertanto diviso in Biologi Generali, Biologi Ambientali e Biologi Nutrizionisti. Questi ultimi saranno finalmente riconosciuti come tali da una norma di legge. Insomma, l’attuale Federazione
La FNOB sta lavorando sempre più per plasmare un Ordine che stia realmente al passo con i tempi e che fornisca tutto ciò che occorre
Nazionale degli Ordini dei Biologi (FNOB), succeduta al disciolto ONB, sta lavorando sempre più per plasmare un Ordine che stia realmente al passo con i tempi e che fornisca agli iscritti quel che loro maggiormente occorre, oltre ai servizi, alle informazioni, alla formazione, alla tutela dei diritti (in ogni sede) ed alla lotta contro gli abu -
sivi. Un lavoro che certo richiede sforzi personali, capacità e risorse economiche. Eppure, a fronte di tutto questo, nonostante gli sforzi e l’impegno fin qui profusi per il bene della categoria, sono ancora molti gli indifferenti, i disinformati, gli apatici ed i pretenziosi che hanno scambiato e ancora scambiano l’Ordine per una sorta di tutor personale che dovrebbe preoccuparsi di bussare alle loro porte o, peggio ancora, per una specie di ufficio di collocamento, considerando l’Ordine stesso il ricettacolo di ogni critica preconcetta e spesso basata sull’ignoranza delle questioni poste sul tappeto. Ebbene, a costoro riserviamo una grossa novità: sta per arrivare il rating del biologo. Sì, avete letto bene: si tratta proprio di un indice di giudizio di affidabilità, di un valore in grado di descrivere
compiutamente chi segue le vicende, le informazioni, le opportunità e le tutele che la FNOB fornisce, quotidianamente, a ciascun iscritto. Tale modello potrà essere adottato anche dagli Ordini territoriali qualora essi volessero verificare il buon fine delle loro molteplici iniziative ed il grado di attenzione ricavatone.
Insomma, grazie al rating, potremo verificare chi realmente c’è e chi invece se ne frega, chi collabora e chi pensa di dover pagare una tassa per esercitare. Lo faremo sulla base di indici obiettivi che saranno resi noti per tempo a tutti. Avere un indice che superi il limite minimo consentirà all’iscritto di poter continuare ad usufruire gratuitamente della formazione, degli eventi, dei contributi economici erogati per Master e Summer School; delle borse di studio, dei patro -
Sta per arrivare il rating del biologo, grazie al quale potremo verificare chi realmente
c’è e chi invece se ne frega. Mai più parti eguali tra diseguali
cini e del sostegno finanziario alle iniziative da loro stessi proposte, per non dire delle tante altre gratificazioni in cantiere. Coloro che, invece, si manterranno al di sotto della soglia di “sufficienza” potranno beneficiare unicamente dei servizi di base e regolamentari. Intendiamoci: non toglieremo ciò che è dovuto ma solo quel surplus che, gratuitamente, abbiamo sempre cercato di garantire. E lo daremo a chi realmente lo merita, a chi mostra interesse, a chi sceglie di essere informato, a chi si rende partecipe della vita dell’Ordine e non si perde in sterili e compassionevoli lamentazioni. Se tutti vogliamo che la nostra categoria professionale cresca e si affermi ovunque tutti dobbiamo poi sentirci parte di questo sforzo impegnandoci a sostenerlo correttamente. E quindi mai più parti eguali tra diseguali.
Giornale dei Biologi
LA BIOLOGIA SOPRAVVIVERÀ
ALL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE PAROLA DI BILL GATES
Per il cofondatore di Microsoft tre professioni saranno addirittura rinforzate dall’AI
Anche i settori della programmazione e dell’energia non subiranno scossoni negativi
La biologia è diventata la scienza più importante oggi. Secondo Bill Gates le sfide mediche del domani rappresentate da nuovi virus, da possibili nuove pandemie e dalla proliferazione di malattie degenerative, potranno essere affrontate con la dovuta efficacia soltanto attraverso una conoscenza approfondita del corpo umano. La biologia, infatti, è tra i settori che non subiranno conseguenze negative in futuro a causa dell’AI, al pari della programmazione e dell’energia.
La biologia ha un lungo e luminoso futuro davanti a sé. Un avvenire che non sarà messo in discussione dall’avvento, sempre più diffuso e onnicomprensivo, dell’intelligenza artificiale. Se per diversi settori dell’economia, della scienza e delle professioni, infatti, l’AI rischia di rappresentare una minaccia, per quanto riguarda la biologia costituisce invece una notevole opportunità, un’occasione per migliorare i processi esistenti e per implementare ulteriori sviluppi.
E ad affermarlo non è un biologo, ma una delle persone più ricche e influenti del pianeta. Uno che col successo delle sue iniziative ha cambiato il mondo: Bill Gates, il cofondatore di Microsoft, il programmatore, imprenditore e informatico statunitense che, nella cura delle sue attività, ha sempre guardato con occhio attento al destino della società. E che recentemente ha donato all’Africa il 99% del suo patrimonio, stimato in oltre 200 miliardi di dollari. La finalità? «Sostenere la salute e l’educazione di milioni di persone».
Settant’anni il prossimo 28 ottobre, nato e cresciuto a Seattle, Bill Gates ha rivoluzionato il mondo coi personal computer portando la Microsoft, società fondata nel 1975 in tandem con Paul Allen, a diventare l’azienda
di software più sviluppata a livello globale. Nonostante abbia lasciato la carica di amministratore delegato nel 2014, è rimasto in sella come advisor tecnologico del nuovo CEO Satya Nadella. Imprenditore e filantropo, da qualche anno è entrato nel settore alberghiero acquisendo la maggioranza delle quote di Four Seasons, una celebre catena di hotel. Sul suo portale GatesNotes, il cofondatore di Microsoft ha risposto ad alcune domande affrontando anche il tema dell’intelligenza artificiale. Che, per la verità, ha rappresentato una costante delle sue riflessioni nel corso degli ultimi anni. Tra gli interrogativi posti a Gates c’era quello se l’AI potesse determinare la perdita di posti di lavoro in diversi settori nevralgici, a causa dello snellimento delle procedure e dell’automazione portate dall’intelligenza artificiale stessa.
Se ciò potrebbe essere vero per alcune professioni (la settimana lavorativa potrebbe ridursi addirittura a due-tre giorni su sette), secondo Gates altre otterranno soltanto benefici con l’AI. E quella del biologo è tra queste. La biologia, infatti, è tra i settori che non subiranno conseguenze negative in futuro, al pari della programmazione e dell’energia. Saranno queste tre discipline a mantenere un ruolo centrale nell’ambito di
di Rino Dazzo
contesti sempre più automatizzati, grazie alla loro complessità tecnica e specialista ma anche e soprattutto a causa della loro notevole, forse ineguagliabile capacità di adattarsi e di evolversi in base alle nuove frontiere del sapere, dell’economia, degli stessi strumenti a disposizione per svolgere meglio e in minor tempo la propria attività. «Se oggi dovessi ricominciare da capo, sceglierei di investire in uno di questi tre ambiti: programmazione, biologia o energia», la certezza dell’ex CEO di Microsoft.
Tutte e tre queste discipline sono accomunate da alcuni tratti indiscutibili: la loro finalità ultima è quella di studiare, trasformare e migliorare l’ambiente circostante, sono caratterizzate da notevole rigore scientifico e metodologico, sono oggetto di domanda e attenzione in costante aumento. Biologi, programmatori ed esperti di energia, in particolare di quella ricavata da fonti sostenibili, possono essere secondo Gates in prima linea nel cambiamento, grazie alla loro attitudine a comprendere e a guidare le innovazioni.
La biologia, in particolare, è diventata la scienza più importante oggi. Secondo Bill Gates le sfide mediche del domani rappresentate da nuovi virus, da possibili nuove pandemie e dalla proliferazione di malattie degenerative, potranno essere affrontate con la dovuta efficacia soltanto attraverso una conoscenza approfondita del corpo umano. Una peculiarità, questa, che sfugge a qualsiasi possibilità di approccio attraverso algoritmi, proprio in ragione della sua complessità e delle sue evoluzioni.
Per quanto riguarda la programmazione, in un futuro sempre più prossimo ci sarà crescente bisogno di professionisti in grado di elaborare e guidare modelli di intelligenza artificiale. Le soluzioni di natura digitale saranno sempre più richieste e diventerà cruciale saperle offrire
nel modo più opportuno, economico e funzionale. «Sebbene l’intelligenza artificiale sia in grado di generare codice, ha ancora bisogno della supervisione di esperti umani per raggiungere il massimo del suo potenziale», è la riflessione di Gates.
Quanto all’energia, la ricerca e lo sviluppo di soluzioni energetiche sostenibili rappresenta una necessità per tutti, alla luce delle drammatiche sfide imposte dalla crisi climatica e dalle devastazioni ambientali. Il carbonio, l’idrogeno e nuove soluzioni green andrebbero implementati alla svelta, secondo Bill Gates, e la domanda di figure che sappiano muoversi bene in questi settori aumenterà considerevolmente.
Bill Gates.
Se la biologia è la scienza del terzo millennio, l’Intelligenza Artificiale sarà al servizio dei biologi. Dell’incidenza delle nuove tecnologie, dell’utilizzo della IA e degli sbocchi professionali se n’è discusso a Bari, il 28 giugno scorso, nel corso dell’evento formativo dal titolo “Intelligenza artificiale e competenze digitali in sanità”. Trend emergenti e prospettive. Il ruolo dei biologi” - promosso dalla Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi (FNOB), dal Coordinamento Nazionale dei Biologi, Biotecnologi, Ricerca e Docenti (CNBRD), dal Coordinamento Nazionale dei Biologi Laboratoristi (CNBL) e dall’Ordine dei Biologi della Puglia e Basilicata in collaborazione con prestigiosi Enti come il Dipartimento Promozione della Salute e del Benessere animale della Regione Puglia, l’Acquedotto Pugliese e l’Arpa Puglia.
L’incontro che si è tenuto nella Sala Conferenze dell’Acquedotto Pugliese, è stato l’occasione per affrontare una tematica particolarmente attuale, quella delle novità introdotte con l’adozione delle trasformazioni digitali nel settore sanitario e ambientale italiano. Un tema di grande interesse che ha riunito rappresentanti istituzionali, ordini territoriali dei biologi, esperti del settore e professionisti della Sanità in un confronto multidisciplinare sulle opportunità e sulle criticità connesse all’adozione dell’intelligenza artificiale, nonché alla necessità ormai concreta di potenziare le competenze digitali degli operatori sanitari. In particolare di coloro che lavorano in Puglia, Emilia Romagna e Marche, anche in vista della sperimentazione che coinvolge queste regioni e che proseguirà, dopo questa fase sperimentale, in tutta l’Italia.
Nel corso della giornata sono stati illustrati gli obiettivi del Protocollo d’Intesa siglato fra AQP e FNOB per il raggiungimento di finalità di comune interesse in materia di formazione su temi del ciclo idrico integrato delle acque e più in generale ambientali. Un documento innovativo che sancisce l’avvio di una collaborazione - di natura scientifica, tecnico scientifica e operativa - mirata alla condivisione di risultati di ricerca, alla nascita di nuovi progetti, e al miglioramento delle azioni di formazione professionale di
comune interesse, attraverso la collaborazione su progetti e iniziative condivise in ambito nazionale e internazionale.
«L’Acquedotto Pugliese è un’opera im ponente, mastodontica, da salvaguardare. Così come è necessario salvaguardare il pa trimonio idrico, che non va sprecato» - ha dichiarato il presidente FNOB Vincenzo D’Anna, nel suo intervento, aggiungendo che «la sinergia tra Acquedotto Pugliese e la Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi si inserisce in questa ottica di tutela e valorizzazione».
«Se la FNOB può apportare competenze e idee all’ente idrico da parte di professionisti qualificati che si occupano di ambiente e della specifica materia idrica - ha spiegato il presidente D’Anna -, per la FNOB è motivo di orgoglio e di soddisfazione che l’Acquedotto Pugliese abbia visto nella categoria dei biologi un interlocutore valido per poter affrontare queste tematiche».
«Il protocollo d’intesa con la Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi rappresenta per Acquedotto Pugliese non solo un’importante alleanza tecnico-scientifica, ma anche un’opportunità per contribuire alla costruzione di una rete di competenze trasversali, indispensabile per affrontare le grandi sfide ambientali e sanitarie del nostro
«Come già accaduto con i social network, l’intelligenza artificiale trasformerà i processi, il nostro lavoro, le nostre vite - afferma Elvira Tarsitano, vicepresidente dell’Ordine dei Biologi di Puglia e Basilicata -. Dobbiamo essere protagonisti dell’innovazione e pronti a guidare il cambiamento; dobbiamo essere il cervello pensante dell’AI, consapevoli che resta indispensabile la supervisione di esperti capaci di orientare e ottimizzare gli strumenti digitali».
tempo - ha affermato la direttrice generale di Acquedotto Pugliese, Francesca Portincasa -. Un obiettivo da cogliere attraverso un processo di change management culturale, che valorizzi le persone e le competenze, grazie anche all’ausilio delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale.
Iniziative come queste rafforzano la nostra missione di infrastruttura strategica al servizio del territorio: una comunità di persone impegnate con il proprio lavoro a condividere conoscenze, sviluppare sinergie e promuovere una cultura della sostenibilità e dell’innovazione».
L’esigenza di sviluppare competenze qualificate, per accompagnare l’utilizzo degli strumenti di Intelligenza Artificiale in ambito scientifico, è stata rimarcata da Lucia Parchitelli, vicepresidente Commissione Sanità della Regione Puglia: «La riduzione del digital gap e l’acquisizione di nuove competenze digitali in Sanità non sono più una sfida del futuro, ma una necessità del presente. La pandemia ci ha lasciato un’eredità importante: la consapevolezza che l’innovazione tecnologica è una componente essenziale per costruire un sistema sanitario più efficace. Già l’introduzione del Fascico -
«La riduzione del digital gap e l’acquisizione di nuove competenze digitali in Sanità non sono più una sfida del futuro, ma una necessità del presente. La pandemia ci ha lasciato un’eredità importante: la consapevolezza che l’innovazione tecnologica è una componente essenziale per costruire un sistema sanitario più efficace» - spiega Lucia Parchitelli, vicepresidente Commissione Sanità della Regione Puglia.
lo Sanitario Elettronico 2.0 e l’utilizzo crescente dell’intelligenza artificiale impongono un cambio di passo nell’organizzazione e nella formazione degli operatori sanitari. Il bellissimo convegno, per il quale ringrazio la Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi, il CNBL, il CNBRD, l’Acquedotto Pugliese e tutti gli enti promotori rappresenta un importante momento di confronto. Come Regione Puglia, continueremo a sostenere percorsi formativi di qualità, capaci di valorizzare le competenze e accompagnare l’innovazione per una Sanità più accessibile, moderna ed efficiente per tutti i cittadini. Solo attraverso una visione integrata tra professionisti della salute, innovatori, Enti locali e Istituzioni potremo affrontare sfide quali l’invecchiamento della popolazione, la gestione delle cronicità, sino alla sostenibilità dei nostri sistemi sanitari. L’intelligenza artificiale può certamente aiutarci a migliorare i processi decisionali, ma nulla deve mai sostituire il valore dell’etica, della responsabilità e della cura umana».
Concordi gli interventi dei numerosi relatori, nell’elencare i vantaggi connessi a un approccio consapevole e competente alle tecnologie emergenti che si tradurranno,
certamente, per gli utenti del SSN, in un miglioramento dell’efficienza e della qualità del servizio. Il potenziamento delle competenze digitali degli operatori, infatti, consentirà una migliore gestione dei processi sanitari e la creazione di reti collaborative tra istituzioni, enti pubblici, ordini e professionisti, favorendo lo scambio di buone pratiche e l’innovazione condivisa.
Nel suo intervento, Daniela Arduini, presidente dell’Ordine dei Biologi del Lazio e dell’Abruzzo, ha voluto sottolineare l’impegno dell’Ordine per la transizione digitale, illustrando la «strategia strutturata per accrescere le competenze digitali dei propri iscritti». Dalla creazione di un Osservatorio permanente su IA e biologia computazionale al programma formativo “Biologi Digitali”, dagli accordi con università e centri di ricerca per master specialistici e percorsi post-laurea dedicati fino all’organizzazione, nel 2026, del primo Hackathon dei Biologi, un evento nazionale per promuovere l’innovazione trasversale tra biologia, tecnologia e ambiente.
cui ci sono almeno tre ambiti che resisteranno all’avanzata dell’intelligenza artificiale, offrendo nuove opportunità professionali: programmazione, biologia ed energia.
«Secondo Gates la biologia è oggi al centro della ricerca scientifica: le sfide sanitarie globali - pandemie, virus emergenti, malattie degenerative -richiederanno competenze sempre più avanzate per essere affrontate. L’intelligenza artificiale potrà essere di supporto, ma non potrà mai sostituire la comprensione profonda del corpo umano».
«La transizione digitale è una sfida che riguarda tutti noi - ha concluso la Presidente Arduini -. Come Ordine, abbiamo il dovere di accompagnare i nostri iscritti in questo percorso di evoluzione, fornendo strumenti concreti per integrare le tecnologie emergenti nella pratica quotidiana. Solo così potremo garantire una biologia moderna, competente e pienamente inserita nel futuro della sanità e della tutela ambientale».
«Come già accaduto con i social network, l’intelligenza artificiale trasformerà i processi, il nostro lavoro, le nostre vite - ha aggiunto Elvira Tarsitano, vicepresidente dell’Ordine dei Biologi di Puglia e Basilicata -. Dobbiamo essere protagonisti dell’innovazione e pronti a guidare il cambiamento; dobbiamo essere il cervello pensante dell’AI, consapevoli che resta indispensabile la supervisione di esperti capaci di orientare e ottimizzare gli strumenti digitali».
E, ha citato un recente intervento del cofondatore di Microsoft, Bill Gates, secondo
«L’Acquedotto Pugliese è un’opera imponente, mastodontica, da salvaguardare. Così come è necessario salvaguardare il patrimonio idrico, che non va sprecato» - ha dichiarato il presidente FNOB Vincenzo D’Anna, nel suo intervento, aggiungendo che «la sinergia tra Acquedotto Pugliese e la Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi si inserisce in questa ottica di tutela e valorizzazione».
«Ringrazio sentitamente, a nome mio e del direttore generale di Arpa Puglia, Vito Bruno, gli organizzatori per l’invito a questo importante momento di confronto su temi strategici per il futuro del nostro sistema sanitario e ambientale - ha sottolineato Nicola Ungaro, direttore della Unità Operativa Complessa Ambienti Naturali e del Centro Regionale Mare di Arpa Puglia -. L’aggiornamento continuo sulle competenze digitali anche alla luce dell’introduzione dell’intelligenza artificiale rappresenta un’opportunità preziosa per il rafforzamento delle attività di controllo, monitoraggio e prevenzione ambientale. Arpa Puglia è da sempre impegnata nell’adozione di strumenti tecnologici innovativi per garantire una tutela efficace dell’ambiente e della salute pubblica. Inoltre, eventi come questo sono fondamentali per costruire sinergie tra istituzioni, professionisti e comunità scientifica, con l’obiettivo comune di promuovere un sistema integrato e sostenibile basato su dati di alta qualità utili per analisi avanzate».
Il convegno - che rappresenta solo il primo step di un percorso che si articolerà in altri eventi sempre più attenti alla realtà operativa in ambito sanitario e ambientale - ha offerto un importante momento di confronto e formazione, volto a delineare le strategie per un’efficace integrazione delle competenze digitali e dell’intelligenza artificiale nel settore sanitario e a promuovere l’innovazione tecnologica a beneficio di un sistema sanitario moderno ed efficiente. (M. A.).
Francesca Portincasa e Vincenzo D’Anna.
LE NUOVE FRONTIERE DELLA BIOLOGIA
Dalla genomica alla genetica, dalla microbiologia alla medicina predittiva: sono tante le opportunità di crescita
Tra i maggiori punti di forza della biologia, che rendono questa scienza tra le più adatte ad affrontare le sfide del futuro, ci sono i suoi ambiti applicativi potenzialmente infiniti. Tutto può diventare oggetto di indagine e di intervento per i biologi, vista la versatilità e la multidisciplinarità d’approccio alla disciplina e alla professione. Tra le nuove frontiere della biologia ci sono settori e categorie che stanno vivendo una fase d’espansione notevole e che sono oggetto di attenzioni sempre più consistenti. La genomica è uno di questi. Il sequenziamen-
to, l’analisi del genoma, lo studio del materiale genetico umano sono stati oggetto di investimenti notevoli negli ultimi anni, anche perché essenziali per lo sviluppo e la messa in campo di soluzioni mediche e terapeutiche via via più cruciali e complesse. E la genomica al suo interno comprende diverse aree di ricerca, collegate ma dalle caratteristiche peculiari, ciascuna con una propria anima e con incredibili potenzialità di sviluppo.
La genetica, ad esempio, studia la struttura del materiale ereditario e le modalità della sua trasmissione, la citogenetica mette in relazione i dati
ricavati dallo studio dei caratteri genetici e quelli frutto dell’osservazione diretta dei cromosomi, la somatica si occupa del funzionamento e della trasmissione dei caratteri da cellule ad altre dello stesso organismo. Notevoli sono anche le potenzialità offerte dalla bioinformatica, che integra al suo interno dati, strumenti di analisi e tecnologie informatiche, tutto finalizzato alla comprensione di meccanismi e informazioni di natura biologica.
La biologia, per definizione, è la scienza che studia e preserva la vita. Fondamentale, in questo senso, è il contributo della microbiologia, che studia i microrganismi come funghi, batteri, virus o protozoi, troppo piccoli per essere visti a occhio nudo; qual è la loro struttura, cosa regola le loro interazioni, in che modo si sviluppano o possono essere limitati o frenati, sono tutte domande cruciali per la stessa salute umana.
E a proposito di vita e di salute dell’uomo, tra le missioni più intriganti della biologia del XXI secolo rientra senza dubbio il contributo che essa può fornire alla PMA, la procreazione medica assistita. Il ruolo dell’embriologo, il biologo della riproduzione, è importantissimo per la gestione di gameti, ed embrioni, per l’analisi dei dati, ma anche per l’utilizzo e la messa in campo di tecnologie via via più complesse e specialistiche.
Non trascurabile, inoltre, il ruolo dei biologi nella medicina predittiva, l’approccio medico che intende identificare in anticipo le probabilità che un individuo possa sviluppare una determinata malattia individuando possibili fragilità, difetti o anomalie di natura genetica e consentendo interventi mirati e personalizzati.
La predisposizione e lo studio dei biomarcatori adatti, in questo senso, sono aspetti di primaria importanza per identificare i fattori di rischio prima dell’insorgenza di patologie potenzialmente gravi. (R. D.).
Non solo gli esseri viventi, anche il posto in cui vivono è importante. E il discorso vale per uomini, animali e vegetali. L’ambiente, la salvaguardia degli ecosistemi marini e terrestri, la lotta all’inquinamento, la tutela della biodiversità sono altri ambiti molto importanti dell’attività dei biologi. E possono costituire un’incredibile opportunità.
La ricerca scientifica, la valutazione degli impatti dell’inquinamento su ecosistemi, habitat e gli stessi organismi viventi, le relative azioni di sensibilizzazione e di tutela ambientale, le opportune strategie da mettere in campo per mitigare gli effetti nocivi e dannosi di politiche o comportamenti sbagliati sono solo alcuni esempi dell’importanza del lavoro dei biologi relativamente a questa tematica cruciale. Ma in che modo la biologia può scendere in campo al servizio del pianeta? Quali sono gli strumenti e le tecniche attraverso cui i biologi danno il loro contributo anche su questo versante?
La ricerca e il monitoraggio sono le modalità attraverso cui è possibile studiare gli effetti dell’inquinamento sull’ambiente. Il biomonitoraggio, ad esempio, è la tecnica che consente di valutare l’impatto ambientale di sostanze inquinanti attraverso l’analisi dei parametri biologici degli organismi viventi. Ma i biologi sono chiamati anche a operazioni di tutela ambientale, suggerendo e favorendo le più efficaci strategie di conservazione, protezione e ripristino di specie a rischio o di ecosistemi inquinati e danneggiati.
Anche la sostenibilità è una direzione obbligata per i biologi che si occupano di ambiente. L’agricoltura bio, oggi tanto ricercata da consumatori e aziende, è il modo più efficace per ridurre l’inquinamento e difendere la salute di uomini e animali, soprattutto se rapportata alle pratiche tradizionali, specie quelle meno rispettose dell’ambiente. Anche la capacità di sensibilizzazione del pubblico è una
I BIOLOGI AL SERVIZIO DELL’AMBIENTE
L’importanza della ricerca, del monitoraggio, della sostenibilità e della sensibilizzazione a tutela del pianeta
prerogativa dei biologi, sia relativamente all’importanza della tutela del pianeta sia alla necessità di adottare comportamenti virtuosi e sostenibili.
Istituito a gennaio del 2024, il CNBA, acronimo che sta per Coordinamento Nazionale dei Biologi Ambientali, è l’organo operativo della FNOB che promuove attività e iniziative volte a favorire la crescita professionale dei biologi che si occupano di ambiente. Un ruolo cruciale per la società civile, considerata l’importanza e la necessità che riveste, per ciascun individuo, la possibilità di crescere e relazionarsi in un ambien -
te sano. Numerosi i corsi e i convegni organizzati su queste tematiche, in presenza e in e-learning.
Le «microplastiche dagli ambienti acquatici, con le principali metodiche di monitoraggio e analisi e la valutazione dell’impianto ambientale e sanitario», oppure «l’applicazione normativa dell’END OF WASTE» o ancora l’introduzione alla «microbiologia ambientale», solo per citare gli eventi dei mesi di giugno e luglio, sono esempi dell’attenzione rivolta dalla FNOB a tematiche quali l’inquinamento e le micro e nanoplastiche, spesso ingerite inconsapevolmente. (R. D.).
“ GLIOBLASTOMA SVOLTA CONTRO LA RESISTENZA AI FARMACI
La professoressa Giuliana Pelicci, coordinatrice dello studio firmato dall’Istituto Europeo di Oncologia, ci spiega come il suo gruppo di ricerca ha scoperto la chiave per disinnescare l’immortalità delle TICs
Professoressa Pelicci, cos’è il glioblastoma e in quali aspetti si differenzia rispetto agli altri tumori?
strugge, tutto si trasforma”, riavvolgiamo il nastro: da quali basi è partito questo studio?
I l glioblastoma è un tumore altamente aggressivo e complesso del sistema nervoso centrale, classificato come un glioma di grado 4. Nonostante gli sforzi della ricerca e i trattamenti attuali, che includono chirurgia, chemio e radioterapia, il GBM rimane purtroppo incurabile, con miglioramenti solo modesti nella sopravvivenza dei pazienti.
Il glioblastoma è un tumore altamente aggressivo e complesso del sistema nervoso centrale, classificato come un glioma di grado 4. Si distingue dagli altri tumori per diversi aspetti fondamentali. Innanzitutto, è estremamente eterogeneo: ogni tumore è costituito da una varietà di cellule con caratteristiche molecolari e funzionali diverse, che evolvono nel tempo e in risposta ai trattamenti. Una delle sue peculiarità più rilevanti è la presenza di cellule iniziatrici del tumore (TICs), considerate responsabili dell’insorgenza e della crescita del glioblastoma, nonché della resistenza alle terapie.
Queste cellule mostrano una notevole plasticità: possono cambiare stato cellulare, adattarsi all’ambiente tumorale e sopravvivere anche in condizioni metaboliche sfavorevoli. Nonostante gli sforzi della ricerca e i trattamenti attuali, che includono chirurgia, chemio e radioterapia, il GBM rimane purtroppo incurabile, con miglioramenti solo modesti nella sopravvivenza dei pazienti.
Poiché anche in campo medico vale il principio secondo cui “nulla si crea, nulla si di -
Questo studio prende le mosse da una ricerca precedente, condotta dal nostro gruppo, che ha evidenziato come l’inibizione dell’enzima LSD1 (Lysine-specific demethylase 1A) attraverso l’uso del composto sperimentale DDP_38003 (LSD1i) possa influenzare in modo significativo il trattamento del glioblastoma, agendo direttamente sulle cellule iniziatrici del tumore.
Come si è articolata la ricerca che vi è valsa la pubblicazione su Science Advances?
La ricerca si è sviluppata attraverso un approccio multidisciplinare che ha combinato analisi molecolari, studi sulle cellule tumorali e modelli preclinici. Abbiamo analizzato la risposta delle TICs all’inibizione dell’enzima LSD1 tramite il composto sperimentale LSD1i ed abbiamo scoperto che non tutte le TICs sono ugualmente sensibili a questo trattamento: alcune riescono ad adattarsi e sopravvivere. Per comprendere questo fenomeno, abbiamo studiato i processi metabolici attivati da queste cellule resistenti, identificando i geni coinvolti in vie metaboliche chiave come il metabolismo della glutammina, dei lipidi e la biosintesi dei nucleotidi. L’obiettivo è stato
di Ester Trevisan
capire come queste cellule eludano l’azione di LSD1i integrando dati genetici, metabolici e funzionali per comprendere i meccanismi alla base della risposta terapeutica.
A quali risultati siete approdati?
I nostri risultati hanno mostrato che le TICs resistenti all’inibizione di LSD1 attivano specifici processi metabolici per sopravvivere, suggerendo che la sola inibizione di LSD1 non è sufficiente a eliminare completamente il tumore. Abbiamo identificato geni che regolano vie metaboliche fondamentali, molti dei quali sono già oggetto di sperimentazioni cliniche, e ipotizzato che una combinazione di LSD1i con farmaci che agiscono su questi percorsi metabolici potrebbe limitare la plasticità delle TICs e prevenire la resistenza al trattamento.
Questo approccio combinato potrebbe rappresentare una strategia promettente per migliorare l’efficacia delle terapie e rallentare la progressione del glioblastoma.
Cosa si intende per plasticità metabolica?
La plasticità metabolica è la capacità delle cellule, in questo caso delle cellule tumorali iniziatrici del glioblastoma, di adattare e modificare il proprio metabolismo in risposta a diversi stimoli ambientali o terapeutici.
In pratica, queste cellule possono cambiare il modo in cui producono energia o utilizzano nutrienti, passando da una via metabolica all’altra per sopravvivere anche in condizioni sfavorevoli o sotto pressione da parte delle terapie. Questa flessibilità le rende particolarmente resistenti ai trattamenti e difficili da eliminare.
Quali sono i possibili risvolti terapeutici della vostra scoperta?
I possibili risvolti terapeutici della nostra scoperta riguardano l’idea di sviluppare trattamenti combinati in grado di colpire contemporaneamente più vie metaboliche delle cellule TICs. Poiché alcune TICs riescono a sfuggire all’inibizione dell’enzima LSD1 attivando vie metaboliche alternative, l’utilizzo di farmaci che agiscono su questi percorsi, in combinazione con LSD1i, potrebbe ridurre la capacità di adattamento delle cellule tumorali. Questo approccio potrebbe limitare
la resistenza alle terapie tradizionali, rallentare la progressione del tumore e aprire la strada a trattamenti più efficaci e mirati contro il glioblastoma.
I prossimi step?
I prossimi step prevedono di approfondire ulteriormente questi risultati attraverso studi sperimentali e preclinici più ampi, per confermare l’efficacia delle combinazioni terapeutiche proposte. In particolare, sarà importante testare l’associazione tra LSD1i e farmaci che modulano il metabolismo delle TICs.
Inoltre, si punterà a identificare i biomarcatori che permettano di riconoscere quali pazienti potrebbero beneficiare maggiormente di questi trattamenti personalizzati. Infine, l’obiettivo è tradurre queste scoperte in nuove terapie più mirate, in grado di superare la resistenza e migliorare la prognosi del glioblastoma.
Giuliana Pelicci è una ricercatrice nel campo dell’oncologia molecolare, specializzata nello studio dei glioblastomi e delle metastasi cerebrali. Laureata in Medicina e Chirurgia con lode all’Università di Perugia nel 1984, ha conseguito la specializzazione in Medicina Interna e il dottorato in Biologia Molecolare e Cellulare nello stesso ateneo. Dal 1996, è membro del Dipartimento di Oncologia Sperimentale dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) di Milano, dove ha ricoperto ruoli di crescente responsabilità, fino a diventare Direttrice dell’Unità Biologia dei Glioblastomi e delle Metastasi Cerebrali e Target Terapeutici Potenziali nel 2015. La sua ricerca si concentra sull’identificazione dei meccanismi biologici alla base dell’insorgenza dei tumori primitivi e metastatici del cervello, con l’obiettivo di sviluppare trattamenti innovativi. Utilizza approcci di biologia cellulare e molecolare, sequenziamento di nuova generazione e modelli xenotrapianto per studiare come i tumori cerebrali vengono mantenuti. Dal 2013, è Professore Associato di Biologia Molecolare presso l’Università del Piemonte Orientale di Novara.
I possibili risvolti terapeutici della nostra scoperta riguardano l’idea di sviluppare trattamenti combinati in grado di colpire contemporaneamente più vie metaboliche delle cellule TICs. Poiché alcune TICs riescono a sfuggire all’inibizione dell’enzima LSD1 attivando vie metaboliche alternative, l’utilizzo di farmaci che agiscono su questi percorsi, in combinazione con LSD1i, potrebbe ridurre la capacità di adattamento delle cellule tumorali. Questo approccio potrebbe limitare la resistenza alle terapie tradizionali, rallentare la progressione del tumore e aprire la strada a trattamenti più efficaci e mirati contro il glioblastoma.
Grazie alla microbiologia, la scienza che studia microrganismi come virus e batteri, sono stati compiuti passi da gigante negli ultimi anni. Tanto nel far luce su malattie infettive quanto nello sviluppo di vaccini e antibiotici. Tra le scoperte recenti che hanno avuto maggiore risalto quella relativa alla memoria dei batteri. Proprio così: alcuni di essi, come ad esempio il bacillus subtilis, sono in grado di ricordare stimoli ambientali - è il caso dell’esposizione alla luce - per diverse ore.
Ciò suggerisce che i batteri possiedono forme primitive di memoria cellulare, con potenziali implicazioni per la comprensione
dei processi cognitivi di base. Ma entriamo nei dettagli della scoperta fatta nel 2020 dai biologi dell’Università della California a San Diego e pubblicata sulla rivista scientifica Cell Systems.
La portata di ciò che ha dimostrato il team di esperti guidato dal biologo molecolare Gurol Suel è talmente rilevante da essere considerato uno dei risultati più sorprendenti della microbiologia moderna. Già, perché prima del lavoro dei ricercatori californiani si pensava che solo gli organismi complessi fossero capaci di ricordare. Invece non è affatto così. «Essendo cellule molto diverse, nessuno avrebbe potuto immaginare che batteri e neuroni avessero qualcosa in comune. Ma con questa scoperta si ha la possibilità di capire alcune caratteristiche chiave del cervello in un sistema molto più semplice» ha spiegato Suel.
Quando si fa riferimento alla memoria dei batteri, non bisogna cadere nell’errore di immaginare che siano capaci di pensare. No, piuttosto riescono a conservare informazioni su eventi passati, come appunto stimoli ambientali, e modificare il loro comportamento futuro in base a queste esperienze. È proprio ciò che è venuto a galla al lavoro certosino del team di Suel, che ha conseguito il dottorato di ricerca in biofisica molecolare presso l’Università del Texas per poi condurre i suoi studi post-dottorato presso il Dipartimento di biologia e fisica applicata del California Institute of Technology diretto dal professor Michael Elowitz.
Nel laboratorio di San Diego è stato rilevato che le cellule batteriche stimolate dalla luce ricordavano l’esposizione anche ore dopo lo stimolo iniziale. Successivamente i ricercatori sono riusciti a manipolare il processo in modo che emergessero modelli di memoria. La scoperta, come sottolineato dall’ateneo americano, fa emergere sorprendenti parallelismi tra organismi unicellulari di basso livello e neuroni sofisticati che elaborano la memoria nel cervello umano.
Nei biofilm batterici, utilizzando cambiamenti del potenziale di membrana indotti dalla luce nel bacillus subtilis è stato possibile osservare come le impronte ottiche persistessero per ore dopo lo stimolo iniziale. In particolare, i ricercatori hanno utilizzato l’e -
sposizione alla luce per imprimere uno schema complesso (l’ex logo della Geisel Library dell’Università della California a San Diego San Diego, distribuito su un’area leggermente più piccola dello spessore di un capello umano) su una comunità di biofilm, composta da centinaia di singoli batteri, che ricordava lo stimolo luminoso iniziale, in modo simile a come i neuroni formano la memoria.
«Quando abbiamo stimolato questi batteri con la luce, hanno ricordato e da quel momento in poi hanno reagito in modo diverso - ha detto ancora Suel -. Quindi per la prima volta possiamo visualizzare direttamente quali cellule hanno memoria. Ed è qualcosa che non possiamo visualizzare nel cervello umano». Il biologo sottolinea come i batteri siano la forma di vita predominante sulla Terra, motivo per il quale «essere in grado di immagazzinare memoria in un sistema batterico facendolo in modo complesso è uno dei primi requisiti per essere poi capaci di fare calcoli usando le comunità batteriche».
Ancora una volta, dunque, va rimarcato il ruolo centrale della microbiologia in ambito scientifico, perché il risultato raggiunto attraverso questo studio rivoluzionario sostenuto dal National Institute of General Medical Sciences e dalla Howard Hughes Medical Institute-Simons Foundation taglia i ponti col passato e apre nuove strade nella comprensione della biologia microbica oltre a offre potenziali applicazioni in medicina e biotecnologia. Inoltre ha fatto da apripista a nuove ricerche sull’argomento, come quello condotto successivamente dall’Università del Texas di Austin e pubblicato da Nursetimes, da cui è emerso che i batteri sono capaci di sfruttare la loro memoria per formulare strategie in grado di causare infezioni pericolose sulla base del pregresso.
Il riferimento, in questo caso, è alla capacità del batterio Escherichia coli di conservare informazioni su esperienze passate attraverso variazioni nei livelli di ferro all’interno delle cellule. Da qui la possibilità di arrivare a sviluppare nuove terapie: manipolando i livelli di ferro, infatti, si potrebbe influenzare i comportamenti batterici come la formazione di biofilm o la resistenza agli antibiotici.
Nel laboratorio di San Diego è stato rilevato che le cellule batteriche stimolate dalla luce ricordavano l’esposizione anche ore dopo lo stimolo iniziale. Successivamente i ricercatori sono riusciti a manipolare il processo in modo che emergessero modelli di memoria. La scoperta, come sottolineato dall’ateneo americano, fa emergere sorprendenti parallelismi tra organismi unicellulari di basso livello e neuroni sofisticati che elaborano la memoria nel cervello umano.
UTILI O DANNOSE?
SPIEGATO IL PARADOSSO DELLE CELLULE CUTANEE ZOMBIE
Ricercatori americani hanno scoperto che le cellule senescenti della cute non sono tutte uguali Nuovi farmaci potrebbero eliminare i tipi nocivi e lasciare inalterati quelli utili
di Sara Bovio
Le cellule senescenti della pelle sono utili o dannose?
Con l’invecchiamento tutte le cellule del nostro organismo vanno incontro a un processo di senescenza legato a molti fattori e a una serie di diversi stress. Tra queste, le cellule cutanee senescenti, chiamate anche cellule zombie, pur avendo esaurito le loro funzioni restano nel corpo umano dando origine a un apparente paradosso: causano infiammazioni favorendo malattie come il cancro, ma sono anche di supporto al sistema immunitario nel guarire le ferite.
Un nuovo studio dei ricercatori della Johns Hopkins University potrebbe spiegare perché ciò accade: gli scienziati hanno scoperto che le cellule senescenti della pelle non sono tutte uguali e ne hanno identificati tre sottotipi con forme, biomarcatori e funzioni distinte. Grazie ai risultati della ricerca, pubblicati sulla rivista Science Advances, gli scienziati potrebbero riuscire a individuare ed eliminare i tipi dannosi, lasciando integri quelli utili.
«Sapevamo - ha affermato Jude Phillip, autore responsabile dello studio - che le cellule senescenti della pelle sono diverse dalle cellule senescenti del sistema immunitario o da quelle dei muscoli. Ma all’interno di uno stesso gruppo, esse sono spesso considerate uguali: per esempio, in sostanza, le cellule della pelle sono senescenti o non lo sono. Ma con le nostre ricerche stiamo scoprendo che quando una cellula della pelle entra in senescenza, o in uno stato simile a quello di uno zombie, la cellula può seguire uno dei tre percorsi diversi, ciascuno dei quali porta a un sottotipo leggermente diverso».
All’interno dello studio i ricercatori hanno sfruttato i nuovi progressi nel campo dell’apprendimento automatico e della tecnologia di imaging, per confrontare campioni di cellule cutanee provenienti da 50 donatori sani di età compresa tra i 20 e i 90 anni. Gli scienziati hanno estratto i fibroblasti, cellule del tessuto connettivo che producono la matrice connettivale, associati al tessuto cutaneo e li hanno spinti verso la senescenza danneggiando il loro DNA, simulando ciò che accade con l’invecchiamento. Poiché le cellule senescenti si accumulano naturalmente nei tessuti con l’avanzare dell’età, i campioni invecchiati contenevano un mix di fibroblasti sani non senescenti e senescenti.
Utilizzando specifici coloranti, i ricercatori hanno potuto catturare immagini delle forme delle cellule e degli elementi colorati che sono noti per indicare le cellule zombie. Dai risultati sono emerse 11 forme e dimensioni diverse dei fibroblasti, tre delle quali sono distintive delle cellule cutanee senescenti. Solo un sottotipo di fibroblasti senescenti, che i ricercatori hanno chiamato C10, era più diffuso nei donatori più anziani.
Gli autori hanno poi esposto ogni sottotipo nelle capsule di Petri a regimi farmacologici noti progettati per colpire e uccidere le cellule zombie. Sebbene siano necessarie altre ricerche per verificare quale sottotipo di fibroblasti sia dannoso e quale sia utile, i risultati dello studio hanno mostrato che i farmaci possono colpire un sottotipo e non gli altri.
Gli scienziati intendono proseguire le ricerche per esaminare i sottotipi di senescenza all’interno dei campioni di tessuti per vedere come tali sottotipi potrebbero essere associati a varie malattie della pelle e malattie legate all’età. «Speriamo che, con un successivo sviluppo, la nostra tecnologia possa essere utilizzata per aiutare a prevedere quali farmaci potrebbero funzionare bene per colpire le cellule senescenti che contribuiscono a specifiche malattie»
«Grazie alle nostre scoperte, abbiamo strumenti pronti per sviluppare nuovi farmaci o terapie che prendono di mira in modo preferenziale il sottotipo di senescenza che causa infiammazione e malattie non appena viene identificato», ha detto Phillip. Secondo gli autori dello studio, sviluppare una terapia che punti sulla senescenza potrebbe essere utile anche per migliorare i trattamenti contro il cancro. Alcune terapie a bersaglio molecolare sono state progettate per innescare la senescenza nelle cellule tumorali, convertendo le cellule tumorali che si replicano in modo incontrollabile in cellule zombie. Sebbene queste terapie possano arrestare la crescita del tumore, lasciano dietro di sé cellule senescenti.
Anche le chemioterapie convenzionali spingono cellule come i fibroblasti verso la senescenza come effetto collaterale. L’accumulo di cellule senescenti durante il trattamento può essere un problema, poiché tali cellule possono favorire l’infiammazione in un momento in cui il sistema immunitario del paziente è più vulnerabile. Secondo i ricercatori, i pazienti potrebbero invece trarre beneficio da un farmaco somministrato dopo la chemioterapia in grado di rimuovere le cellule senescenti dannose e lasciando quelle utili.
Gli scienziati intendono proseguire le ricerche per esaminare i sottotipi di senescenza all’interno dei campioni di tessuti, non solo in provette e piastre di Petri, per vedere come tali sottotipi potrebbero essere associati a varie malattie della pelle e malattie legate all’età. «Speriamo che, con un successivo sviluppo, la nostra tecnologia possa essere utilizzata per aiutare a prevedere quali farmaci potrebbero funzionare bene per colpire le cellule senescenti che contribuiscono a specifiche malattie» - ha detto Phillip. «Alla fine - ha concluso l’autoreil nostro obiettivo è quello di poter fornire maggiori informazioni in ambito clinico per aiutare nelle diagnosi individuali e migliorare i risultati sanitari».
Uno studio su gemelli monozigoti rileva la presenza di specifici batteri nell’intestino tenue che svolgono un ruolo nello sviluppo della mallattia
SCLEROSI MULTIPLA TROVATI I FATTORI SCATENANTI NELLA FLORA INTESTINALE
Uno studio internazionale guidato dai ricercatori del Max Planck Institute for Biological Intelligence di Monaco ha sviluppato una strategia sperimentale per identificare i batteri intestinali funzionalmente collegati allo sviluppo della sclerosi multipla.
La sclerosi multipla è una malattia neurodegenerativa che colpisce il sistema nervoso centrale. È caratterizzata da una reazione anomala delle cellule immunitarie dell’organismo che attaccano la mielina, la guaina protettiva che circonda le fibre nervose, danneggiandone la funzione. La patologia è anche conosciuta come la malattia dai mille volti in quanto, in funzione di dove avviene la demielinizzazione, possono insorgere una grande varietà di sintomi tra cui disturbi della vista, altri disturbi sensoriali e paralisi. Secondo l’Associazione Italiana Sclerosi Multipla le persone affette dalla malattia nel mondo sono circa 2,8 milioni, di cui 1.200.000 in Europa e circa 144.000 in Italia.
La sclerosi multipla è una patologia multifattoriale: non esiste un’unica causa scatenante, ma piuttosto diversi fattori che devono combinarsi affinché la malattia si sviluppi. Oltre alle componenti genetiche, vari fattori ambientali come il fumo, la carenza di vitamina D, alcune malattie infettive e, in particolare, i microrganismi presenti nell’intestino sono stati tutti collegati allo sviluppo della sclerosi multipla.
Studi precedenti hanno identificato numerosi ceppi batterici che distinguono la flora intestinale dei pazienti malati da quella degli individui sani. Tuttavia, il peso di queste differenze nel successivo decorso della malattia è finora rimasto poco chiaro. Inoltre, è spesso difficile interpretare correttamente i risultati, poiché le differenze genetiche o le diverse abitudini alimentari dei soggetti sottoposti al test possono influenzare significativamente i risultati.
Per ridurre al minimo i fattori di confondimento, gli scienziati di Monaco hanno pensato di coinvolgere un
La sclerosi multipla è una malattia neurodegenerativa che colpisce il si- stema nervoso centrale. È caratterizzata da una reazione anomala delle cellule immunitarie dell’organismo che attaccano la mielina, la guaina protettiva che circonda le fibre nervose, danneggiandone la funzione.
ampio gruppo di gemelli monozigoti. Sebbene i gemelli identici condividano quasi lo stesso corredo genetico, in alcuni casi un gemello può sviluppare la malattia mentre l’altro può restare asintomatico, formando quella che viene definita una coppia discordante per la sclerosi multipla.
Circa 100 coppie di gemelli di questo tipo stanno partecipando allo studio MS TWIN STUDY presso l’Istituto di Neuroimmunologia Clinica dell’Ospedale Universitario dell’Università Ludwig-Maximilians di Monaco, consentendo di studiare la malattia in condizioni più comparabili. Oltre alle loro minime differenze genetiche, i gemelli hanno vissuto insieme fino alla prima età adulta, il che significa che sono stati esposti a molti degli stessi fattori ambientali.
I ricercatori hanno esaminato campioni di feci di 81 coppie di gemelli e hanno confrontato la composizione della loro flora intestinale. All’interno dei campioni sono stati identificati 51 taxa, ovvero gruppi di microrganismi, che differivano in abbondanza tra gemelli con e senza sintomi di sclerosi multipla.
Questi includevano taxa precedentemente descritti come collegati alla sclerosi multipla come Anaerotruncus colihominis ed Eisenbergiella tayi, insieme a taxa recentemente identificati, come Copromonas e Acutalibacter.
In secondo luogo, i ricercatori hanno esaminato l’habitat intestinale e l’impatto funzionale dei singoli taxa sullo sviluppo di malattie simili alla sclerosi multipla. Alcune delle coppie di gemelli hanno, infatti, acconsentito al prelievo di campioni dal loro intestino tenue mediante enteroscopia. Si è scelta questa sede di prelievo perché si ritiene che le interazioni patogene tra i microrganismi e le cellule immunitarie dell’organismo avvengano proprio qui.
Grazie a un’innovativa strategia sperimentale, i ricercatori sono stati poi in grado per la prima volta di caratterizzare funzionalmente questi batteri e fornire prove della loro patogenicità.
Dai risultati dello studio è emerso che il microbiota ileale derivato dalla sclerosi multipla induceva la malattia a tassi più elevati rispetto al materiale analogo proveniente da gemelli sani. In particolare i risultati hanno indicato due membri della famiglia Lachnospiraceae, ovvero Eisenbergiella tayi e Lachnoclostridium, come probabili responsabili di un aumento dell’incidenza della malattia. Gli scienziati sottolineano che, oltre a quelli da loro individuati, potrebbero esserci altri microrganismi in grado di scatenare la malattia e che sono necessari ulteriori studi per ottenere un quadro più completo ed esaminare in dettaglio la patogenicità dei due candidati identificati finora.
Tuttavia, terminano i ricercatori, se si scoprisse che solo un numero limitato di microrganismi scatena la malattia, si potrebbero identificare e attivare approcci terapeutici innovativi. In conclusione i ricercatori tedeschi sono riusciti a dimostrare il ruolo che le abitudini di vita svolgono nello sviluppo della sclerosi multipla e a fornire nuove strategie sperimentali per indagare ulteriormente i loro effetti. (S. B.).
MILANO, PARAPLEGICO TORNA A CAMMINARE
Al San Raffaele è stata dimostrata per la prima volta al mondo l’efficacia della neurostimolazione midollare
Non un miracolo, ma certamente un capolavoro dettato dal progresso della ricerca in campo medico. A sei mesi dall’intervento chirurgico, Andrea, un paziente di 33 anni colpito quattro anni fa da una grave lesione midollare a livello toracico basso, è riuscito a camminare autonomamente per un chilometro, utilizzando soltanto un deambulatore e dei tutori.
Sembrava impossibile rimettere in piedi il paziente data la situazione di partenza: la sua paralisi agli arti inferiori, causata da un trauma esteso al segmento T11-T12 e al cono midol-
lare, lasciava davvero margini minimi per ipotizzare una ripresa motoria. Eppure, grazie all’applicazione di un neurostimolatore impiantato nel 2023 al San Raffaele di Milano, oggi Andrea rappresenta un caso clinico eccezionale, il primo al mondo.
Il percorso di questo ragazzo si colloca all’interno di un programma di ricerca condotto dal team multidisciplinare del MINE Lab, che vede coinvolti i medici, i fisioterapisti e i ricercatori dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano e Università Vita-Salute San Raffaele insieme ai bioingegneri della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa co-
ordinati dal professor Silvestro Micera. Il paziente era stato vittima di un incidente sul lavoro che gli aveva provocato una paralisi da lesione traumatica del midollo spinale, aggravata anche da un danno alle radici nervose, che avevano coinvolto sia il sistema nervoso centrale sia quello periferico.
Il tentativo di riabilitazione attraverso i metodi tradizionali, con due cicli intensivi di terapie, non era andato a buon fine: Andrea non era più in grado né di camminare né di reggersi in piedi. È stato quindi incluso nel trial clinico Neuro-SCS-001, che mira a valutare gli effetti della stimolazione epidurale combinata con una riabilitazione altamente personalizzata. L’intervento chirurgico ha previsto l’impianto del neurostimolatore nello spazio epidurale, al quale ha fatto seguito l’applicazione di protocolli specifici mirati a recuperare la forza muscolare, la deambulazione e il controllo motorio.
«Con questo case study abbiamo dimostrato, per la prima volta, l’efficacia della stimolazione elettrica epidurale nel ripristinare le funzioni motorie degli arti inferiori in un paziente con lesione grave del cono midollare» - spiega Luigi Albano, neurochirurgo e ricercatore del San Raffaele, nonché primo autore dello studio pubblicato sulla rivista Med-Cell Press.
In soli tre mesi, grazie al programma di riabilitazione condotto dai fisioterapisti dell’Unità di Riabilitazione disturbi neurologici-cognitivi-motori del San Raffaele, il paziente ha mostrato un netto miglioramento dell’articolazione dell’anca, una maggiore mobilità degli arti inferiori e un incremento del controllo posturale. Come sottolineato dal direttore dell’Unità di Neurochirurgia Fabio Mortini, questo risultato apre nuove prospettive nel trattamento delle lesioni spinali più complesse. «I risultati offrono nuove speranze ai pazienti immobilizzati da tempo, grazie alla sinergia tra neuromodulazione avanzata e riabilitazione mirata». (D. E.).
Igiovani italiani fanno sempre più ricorso alle sigarette elettroniche, che hanno addirittura superato le tradizionali bionde, tanto da diventare il prodotto a base di nicotina più utilizzato. È quanto emerge dai risultati dello studio Espad Italia 2024 condotto dal Laboratorio di Epidemiologia dell’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr-Ifc) in occasione del recente “No tobacco Day” promosso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Partiamo da un dato sul fumo che è stato evidenziato dal Cnr e che dimostra quanto la situazione sia allarmante nonostante gli sforzi profusi dalle istituzioni per contrastare il fenomeno: quasi la metà degli studenti italiani, ossia il 48%, ha provato le sigarette tradizionali almeno una volta nella vita, con prevalenze più elevate tra le ragazze (51%). Per intenderci: si fa riferimento a circa un milione e 180 mila adolescenti.
E le statistiche relative al consumo corrente di sigarette non lasciano affatto tranquilli: oltre 750mila ragazzi, cioè il 30%, hanno infatti dichiarato di aver fumato nell’ultimo mese, con valori più elevati nelle regioni del Sud e nelle Isole, in particolare in Sardegna e Calabria. Non solo. Cala anche l’età media della prima volta: il 60% di chi ha provato la nicotina e il 38% degli adolescenti che fumano quotidianamente hanno iniziato entro i 14 anni. Stesso discorso vale per le sigarette elettroniche. E veniamo al nocciolo della questione. Il 69% ha testato l’ecig per curiosità, il 22% perché offerta da amici, l’8,7% per provare a smettere con il fumo tradizionale.
Secondo Sonia Cerrai, ricercatrice del Cnr-Ifc ed ESPAD communication manager, «questi prodotti presentano spesso aromi accattivanti, odori meno intensi rispetto al fumo tradizionale e modalità d’uso che sono percepite come più moderne e discrete. Caratteristiche che si rivelano particolarmente attraenti per i giovani,
E-CIG, BOOM TRA
I GIOVANI: È ALLARME
Bionde superate, la sigaretta elettronica è il prodotto a base di nicotina più utilizzato dai teenager italiani
inducendo spesso anche chi non ha mai fumato sigarette tradizionali ad avvicinarsi alla nicotina». Non a caso, le sigarette elettroniche hanno messo la freccia su quelle tradizionali per diffusione, diventando il prodotto a base di nicotina più utilizzato tra i giovani. Ad averle provato almeno una volta il 50% degli studenti, mentre il 40% ne ha fatto uso nell’ultimo anno.
Sardegna (44%) e Veneto (43%) le Regioni in cui l’e-cig è più in voga, ma i dati sono in costante crescita, soprattutto tra le ragazze. Il Cnr sottolinea un aspetto che non deve passare inosservato: l’uso esclusivo di questi
dispositivi è poco diffuso, al contrario è sempre più frequente il consumo combinato con tabacco tradizionale, con implicazioni preoccupanti in termini di dipendenza e normalizzazione dell’abitudine al fumo. Il fenomeno del policonsumo preoccupa non poco gli esperti e, infatti, «la sfida maggiore resta quella di contrastare un mercato in continua evoluzione, capace di immettere costantemente nuovi prodotti pensati per attrarre i giovani, alimentando una percezione di normalità e attrattività verso l’uso di nicotina» - chiosa la coordinatrice dello studio Sabrina Molinaro. (D. E.).
IL GLIFOSATO È CANCEROGENO
Pubblicato su Environmental Health lo studio del team della dottoressa Belpoggi - Istituto Ramazzini “Ha vinto la nostra determinazione”
Il glifosato è cancerogeno. Lo dice uno studio pubblicato su Environmental Health a cura di Simona Panzacchi ed Eva Tibaldi con Philip J. Landrigan, Fiorella Belpoggi e Daniele Mandrioli del Centro di Ricerca sul Cancro dell’Istituto Ramazzini di Bologna fra le più grandi e importanti cooperative sociali italiane di ricerca (sostenuta da 40.000 soci) e fondata dal professor Cesare Maltoni. Una sfida vinta grazie alla determinazione e al talento di una squadra capitanata dalla dottoressa Fiorella Belpoggi, ricercatrice biologa e figura di spicco della Fondazione Italiana Biologi (FIB). Trentuno pagine nero su bianco che dimostrano in maniera scientifica la tossicità del glifosato, un erbicida ampiamente utilizzato e che negli anni aveva suscitato preoccupazioni riguardo alla sua possibile cancerogenicità.
Se la IARC (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) lo aveva classificato come “probabile cancerogeno per l’uomo”, l’EFSA (Autorità europea per la sicurezza alimentare) aveva affermato che non era probabile che il glifosato costituisse un pericolo di cancerogenicità per l’uomo. Lo studio della dottoressa Belpoggi e dello staff di ricerca offre un ulteriore contributo a dipanare la matassa e a fugare dubbi. E dai dati forniti dalla ricerca del team Ramazzini la correlazione tra glifosato e cancro esiste.
«Quello raggiunto è il risultato di più di dieci anni di lavoro che il team ha svolto con entusiasmo e forza - ha dichiarato la dottoressa Belpoggi -. Non abbiamo mai mollato e i nostri sforzi sono stati premiati». Dalla ricerca dei fondi, al reclutamento del personale e dei partner scientifici anche internazionali, al disegno sperimentale: tutti tasselli riuscitissimi di un mosaico che impreziosisce il campo della ricerca ambientale indipendente.
Abstract (tradotto)
• Contesto
Gli erbicidi a base di glifosato (GBH) sono i diserbanti più utilizzati al mondo. Le preoccupazioni per la salute pubblica sono aumentate da quando l’Agenzia
Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) ha classificato il glifosato come probabile cancerogeno per l’uomo nel 2015. Per approfondire gli effetti sulla salute del glifosato e dei GBH, l’Istituto Ramazzini ha avviato lo Studio Globale sul Glifosato (GGS), concepito per testare un’ampia gamma di esiti tossicologici. Qui sono riportati i risultati del braccio cancerogeno del GGS.
• Metodi
Il glifosato e due formulazioni GBH (Roundup Bioflow usato nell’UE e RangerPro usato negli USA) sono stati somministrati a ratti Sprague–Dawley (SD), maschi e femmine, a partire dal 6° giorno di gestazione (tramite esposizione materna) fino a 104 settimane di età. Il glifosato è stato somministrato tramite acqua potabile a tre dosi: la dose giornaliera accettabile (ADI) UE di 0,5 mg/kg di peso corporeo/giorno, 5 mg/kg/giorno, e il livello senza effetti avversi osservati (NOAEL) UE di 50 mg/kg/giorno. Le due formulazioni GBH sono state somministrate a dosi equivalenti in glifosato.
• Risultati
In tutti e tre i gruppi di trattamento, sono stati osservati aumenti statisticamente significativi correlati alla dose o
aumenti di incidenza di tumori benigni e maligni in più sedi anatomiche rispetto ai controlli storici e concorrenti.
Questi tumori sono insorti in tessuti emolinfopoietici (leucemia), pelle, fegato, tiroide, sistema nervoso, ovaie, ghiandola mammaria, ghiandole surrenali, reni, vescica urinaria, ossa, pancreas endocrino, utero e milza (emangiosarcoma). Gli aumenti di incidenza si sono verificati in entrambi i sessi. Molti di questi tumori sono rari nei ratti SD.
• Conclusioni
Il glifosato e i GBH, a livelli di esposizione corrispondenti all’ADI e al NOAEL dell’UE, hanno causato aumenti dose-dipendenti nell’incidenza di numerosi tumori benigni e maligni nei ratti SD di entrambi i sessi. Sono stati osservati insorgenza precoce e mortalità per diversi tumori. Questi risultati forniscono prove solide a supporto della conclusione dell’IARC che esistono “prove sufficienti di cancerogenicità [del glifosato] negli animali da esperimento”. Inoltre, i nostri dati sono coerenti con le evidenze epidemiologiche sulla cancerogenicità del glifosato e dei GBH.
Il numero uno dei biologi D’Anna annuncia l’intesa con la FIGC «Presto i nutrizionisti nelle scuole calcio»
In Italia sono tredicimila i biologi nutrizionisti che si occupano di alimentazione e salute dei cittadini. Una buona parte ha partecipato al convegno dal titolo “Nutrizione e Sport”, curato da Natale Gentile con il coordinamento scientifico di Annalisa Giordano e Vincenzo Cosimato e promosso dalla Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi con l’Ordine dei Biologi di Campania e Molise, che si è svolto presso il Gran Hotel di Salerno lo scorso 14 giugno. Un’occasione per sottolineare il ruolo di primo piano del biologo nutrizionista che, come ha dichiarato il presidente della FNOB Vincenzo D’Anna «diverrà una figura fondamentale nel mondo dello sport e nella vita dell’atleta anche agonista».
A tal riguardo la Federazione Nazionale dei Biologi (FNOB) e la Federazione Italiana Giuoco Calcio (FGCI) stanno definendo un protocollo d’intesa per inserire la figura dei biologi nutrizionisti all’interno delle scuole calcio: «i colleghi nutrizionisti che supereranno la selezione saranno inseriti in un elenco a disposizione delle scuole calcio - spiega il presidente della FNOB -. In tal senso auspichiamo anche il tesseramento di questi professionisti come avviene per il medico sportivo e il fisioterapista».
Ma l’intesa con la FIGC potrebbe estendersi anche al Coni, «perché è dotata di una formidabile banca dati da cui si evince che l’attenzione alla tipologia di nutrizione è una delle caratteristiche degli atleti più importanti - prosegue D’Anna -. Questo connubio tra buon funzionamento dell’organismo e quindi delle prestazioni degli atleti e la regolazione del ciclo del metabolismo e della nutrizione sono elementi imprescindibili per ottenere risultati» - conclude. Protagonisti della giornata esperti del settore, un momento di grande rilevanza è stato quello della lectio magistralis a cura del professor Menotti Calvani dal titolo “Interpretazione dei dati di laboratorio nell’atleta”. L’accento è stato quindi posto sulla giusta nutrizione e la dieta dello sportivo. È necessario contrastare i messaggi sbagliati degli anni scorsi dai beveroni ai cibi iper proteici sino alla demonizzazione dei carboidrati: «perseverano i falsi miti
legati a condotte alimentari che possono danneggiare non soltanto la performance dell’atleta ma addirittura la salute - spiega Natale Gentile organizzatore del convegno -. Ecco perché dobbiamo favorire la cultura della nutrizione sportiva».
È questo l’obiettivo della commissione nutrizione sportiva della FNOB presieduta da Matteo Vincella. Le strategie nutrizionali per migliorare la prestazione sportiva, il ruolo di macronutrienti e integratori, nonché l’impatto della dieta su infortuni, malattie e benessere generale: sono tanti i temi affrontati nel corso dell’evento. Sulla corretta dieta è poi intervenuto Vincenzo Cosimato del coordinamento scientifico dell’evento: «Nella dieta dell’atleta devono sempre essere presenti quegli alimenti che sono il paradigma della dieta mediterranea, la linea guida della buona alimentazione - rivela Cosimato -. A questi bisogna aggiungere altri nutrienti che fanno parte del fabbisogno proteico dello sportivo». Il ruolo dei grassi: «Non vanno demonizzati - sottolinea Cosimato -, anzi. Alimenti come il burro di arachidi viene molto utilizzato nella dieta dello sportivo perché ha un’alta densità calorica ma una buona quantità di proteina. Quindi il burro di arachidi restituisce all’atleta l’energia per svolgere quell’attività fisica nell’immediatezza».
La FNOB e la FIGC stanno definendo un protocollo d’intesa per inserire la figura dei biologi nutrizionisti all’interno delle scuole calcio: «i colleghi nutrizionisti che supereranno la selezione saranno inseriti in un elenco a disposizione delle scuole calcio - spiega il presidente della FNOB. Auspichiamo anche il tesseramento di questi professionisti come avviene per il medico sportivo e il fisioterapista».
I CAMPIONI AZZURRI DATOME E SITO
«IL NUTRIZIONISTA È UNA FIGURA CENTRALE NELLA VITA DELL’ATLETA »
Nel corso del convegno sono state presentate le nuove tecnologie per il monitoraggio nutrizionale e l’uso della nutrigenomica per personalizzare le diete.
L’evento ha riunito oltre i professionisti del settore anche atleti come Gigi Datome ex capitano della nazionale di basket oggi coordinatore delle attività del settore squadre nazionali maschili: «Negli anni ho maturato maggiore consapevolezza sugli alimenti - ha dichiarato Datome -, ho sempre saputo che nutrendomi in un certo modo avrei ottenuto benefici sia in termini di buon riposo, di recupero, di energia e prestazione. Quindi mi sono sempre confrontato con la figura del nutrizionista per raggiungere i miei obiettivi e ottenere i risultati».
Per Datome, il nutrizionista non è un costo, «ma un in -
vestimento che salvaguarda la salute e l’integrità fisica dello sportivo».
L’atleta azzurro spiega poi l’importanza di nutrirsi bene, in maniera costante: «il corpo cambia con il passare del tempo, così cambia il rendimento delle gambe. Il segreto - ha proseguito Datome -, è ottimizzare. Sono sempre stato convinto del valore enorme della nutrizione anche adesso che non gioco più. Nutrirmi bene oggi significa avere energia per il mio lavoro».
E sull’importanza della corretta alimentazione è intervenuto anche l’olimpionico Luca Sito primatista dei 400 metri piani: «Grazie alla figura del nutrizionista avevamo un programma di recupero da seguire dopo ogni gara - ha detto Sito -. un programma dinamico questo ha contribuito in maniera incredibile a farci recuperare e a tornare in forma». (M. A.).
Luigi Datome. Luca Sito.
SCOPERTO UN TRATTAMENTO PER PATOLOGIE MITOCONDRIALI GRAVI
Ricercatori di Stanford hanno scoperto una molecola capace di contrastare lo stress ossidativo che provoca la frammentazione dei mitocondri e li rende inutilizzabili dalla cellula
Icomposti ossidanti possono danneggiare i mitocondri, le centrali energetiche della cellula, causando uno stress ossidativo che può compromettere la loro funzionalità e contribuire allo sviluppo di patologie neurodegenerative come il morbo di Parkinson, la SLA, malattie cardiache, diabete, cancro e altre ancora. Per questo, la recente scoperta di una piccola molecola chiamata SP11, capace di contrastare lo stress ossidativo, potrebbe rappresentare un grande passo avanti nella lotta contro le malattie associate ai danni mitocondriali.
La scoperta è stata pubblicata da un team di ricercatori dello SLAC (National Accelerator Laboratory), laboratorio situato presso l’Università di Stanford, insieme con altri colleghi dello stesso ateneo, sulla rivista Nature Communications e apre a nuove possibilità terapeutiche per il trattamento di molte malattie. I mitocondri trasformano il cibo di cui ci nutriamo in energia per le nostre cellule. Ma quando c’è un eccesso di specie ossidanti nell’organismo, lo stress aumenta, e i mitocondri subiscono una frammentazione in più parti e si spostano tra le cellule. Questi passaggi da una cellula all’altra possono generare disfunzioni e l’insorgenza di una vasta gamma di malattie.
Cercando di comprendere meglio gli effetti dei mitocondri danneggiati sulla nostra salute, gli scienziati hanno condotto esperimenti su cellule renali umane e riferito che l’aggiunta di SP11 ai mitocondri frammentati li ha resi nuovamente integri e sani. «Se riusciamo a mantenere i mitocondri integri, possiamo davvero arrivare a curare molte malattie croniche: ecco perché abbiamo intrapreso questo progetto» - ha affermato la professoressa Daria Mochly-Rosen autore responsabile della ricerca.
Come spiegano gli autori dello studio, sebbene i mitocondri siano noti soprattutto per la produzione di energia, questo non è il loro unico ruolo. «Sono così impegnati! Questo organello è
davvero fondamentale» - ha sottolineato Mochly-Rosen. «Ad esempio - ha proseguito la ricercatrice - i mitocondri sono responsabili della costruzione di alcuni dei mattoni molecolari della cellula e dell’eliminazione delle cellule il cui DNA è danneggiato».
Per molto tempo gli scienziati hanno pensato che i mitocondri fossero confinati nelle loro cellule ospiti, ma recentemente hanno scoperto che non è così. «Ora sappiamo che possono uscire da una cellula ed entrare in un’altra» - ha spiegato Mochly-Rosen. Questo fatto, secondo la ricercatrice, cambia radicalmente il paradigma su come avviene la comunicazione cellulare e offre nuove prospettive nella medicina rigenerativa e nella lotta a molte malattie.
Gli autori hanno indagato nel dettaglio la struttura dei mitocondri, spesso descritti come piccoli organelli la cui forma non cambia mai, scoprendo che, in realtà, essi formano una rete in continuo movimento. Migliaia di essi circondano il nucleo di ogni cellula e si dividono e si fondono costantemente tra loro. I mitocondri devono mantenere un equilibrio tra divisione e fusione per rimanere sani, aumentare il loro numero e produrre energia a sufficienza. Nei mitocondri sani, una proteina chiamata Drp1 si attacca alla membrana mitocondriale e avvia la divisione. Ma quando i mitocondri inviano segnali di soccorso, ad esempio se sono stati attaccati da una molecola di ossigeno reattivo come il perossido di idrogeno e non riescono a riparare il danno abbastanza rapidamente, Drp1 si attacca a una proteina chiamata Fis1 e la utilizza come intermediaria. Fis1 dirotta il normale processo che i mitocondri utilizzano per dividersi ordinatamente a metà e li schiaccia in pezzi irregolari che si frammentano in parti ancora più piccole che non producono energia a sufficienza.
Attraverso ripetuti cicli di simulazioni al computer, esperimenti biochimici, cristallografia a raggi X e altre tecniche, il team ha scoperto che Fis1
I mitocondri trasformano il cibo di cui ci nutriamo in energia per le nostre cellule. Ma quando c’è un eccesso di specie ossidanti nell’organismo, lo stress aumenta, e i mitocondri subiscono una frammentazione in più parti e si spostano tra le cellule. Questi passaggi da una cellula all’altra possono generare disfunzioni e l’insorgenza di una vasta gamma di malattie.
cambia forma in risposta allo stress ossidativo lasciando esposto un singolo sito chiamato Cys41 in grado di rilevare il danno ossidativo delle cellule e diventando un potenziale bersaglio per i farmaci. Questi siti Cys41 uniscono poi coppie di molecole di Fis1, e questa configurazione permette loro di afferrare Drp1 e avviare il processo di fissione anomala che separa i mitocondri in frammenti.
Secondo Soichi Wakatsuki, uno degli autori dello studio, la scoperta di un farmaco che si leghi a Cys41 e impedisca alle molecole di Fis1 di formare coppie, potrebbe prevenire la frammentazione mitocondriale indotta dallo stress. Dopo aver esaminato 6.000 molecole per trovare quella che si adattasse al sito Cys41, il team ha trovato una corrispondenza: SP11. Quando SP11 è stata aggiunta a cellule renali umane coltivate in vitro i cui mitocondri erano stati frammentati dall’esposizione al perossido di idrogeno, gli organelli sono tornati sani e integri.
Studiando attentamente la struttura di SP11 gli autori hanno anche scoperto che è probabile che SP11 abbia buone proprietà farmacologiche. Ma come per tutti i farmaci, sono necessarie altre ricerche e nuovi sviluppi per utilizzare SP11 per trattare in modo sicuro specifiche condizioni di salute. (S. B.).
Creati in laboratorio organoidi del pancreas con sistema vascolare funzionante Il modello più realistico mai ottenuto apre la strada a terapie personalizzate
di Carmen Paradiso
Un traguardo scientifico di grande rilievo è stato recentemente raggiunto nel campo della medicina rigenerativa e della ricerca sul diabete: per la prima volta, un team di ricercatori è riuscito a creare in laboratorio organoidi delle isole del pancreas dotati di un sistema vascolare funzionante.
Si tratta di un modello tridimensionale semplificato che riproduce in modo sorprendentemente realistico le funzioni delle isole di Langerhans, ovvero quei raggruppamenti cellulari specializzati nella produzione di ormoni come l’insulina. Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Developmental Cell, porta la firma di un gruppo internazionale di scienziati guidati da Maike Sander presso il Centro Max Delbrück per la medicina molecolare di Berlino.
Il risultato apre nuove prospettive nello studio dei meccanismi alla base del diabete e nella messa a punto di terapie più efficaci, con l’ambizione di avvicinarsi sempre di più a cure personalizzate e mirate. Gli organoidi sono strutture cellulari tridimensionali ottenute da cellule staminali, capaci di mimare in parte l’architettura e la funzione degli organi da cui derivano. Da alcuni anni, gli organoidi pancreatici vengono utilizzati in laboratorio come modello per lo studio delle malattie metaboliche, in particolare del diabete di tipo 1 e di tipo 2. Tuttavia, fino a oggi questi mini-organi presentavano un limite significativo: le cellule endocrine contenute al loro interno, tra cui quelle beta che producono insulina, restavano immature e incapaci di replicare appieno il comportamento delle cellule umane nel corpo.
«È come se mancasse loro l’ambiente giusto per maturare - spiega Maike Sander -. Le cellule crescevano, ma non diventavano funzionali come quelle del pancreas umano. Serviva un contesto più realistico, in cui potessero ricevere i segnali biologici necessari». La svolta è arrivata grazie all’integrazione, all’interno dell’organoide, di un sistema vascolare artificiale. Questo elemento, finora
mai replicato con successo nei modelli delle isole pancreatiche, si è rivelato cruciale per stimolare la maturazione delle cellule produttrici di insulina. I vasi sanguigni creati in laboratorio non solo forniscono ossigeno e nutrienti, ma riproducono anche l’interazione dinamica tra le cellule e il microambiente che caratterizza i tessuti vivi.
La svolta è arrivata grazie all’integrazione, all’interno dell’organoide, di un sistema vascolare artificiale. Questo elemento, finora mai replicato con successo nei modelli delle isole pancreatiche, si è rivelato cruciale per stimolare la maturazione delle cellule produttrici di insulina.
Il processo non è stato semplice: «Ci sono voluti cinque anni di sperimentazioni- racconta Sander - durante i quali abbiamo provato numerose condizioni diverse. È stato un lavoro corale, che ha visto la collaborazione stretta tra biologi, bioingegneri e specialisti in medicina molecolare. Solo grazie a questo approccio multidisciplinare siamo riusciti a ottenere un risultato così sofisticato».
Il diabete colpisce centinaia di milioni di persone in tutto il mondo e rappresenta una delle principali sfide sanitarie del nostro tempo. Le forme più diffuse, tipo 1, di origine autoimmune, e tipo 2, legata all’insulino-resistenza, hanno in comune un malfunzionamento nella produzione o nell’utilizzo dell’insulina, ormone chiave nella regolazione dei li-
velli di glucosio nel sangue.
Fino a oggi, la possibilità di testare farmaci e terapie su modelli affidabili era limitata. I nuovi organoidi vascolarizzati, invece, si comportano in modo molto simile al tessuto pancreatico umano. Questo consente di osservare in tempo reale come le cellule rispondono a stimoli specifici, come variazioni di glucosio, farmaci ipoglicemizzanti, oppure agenti infiammatori.
«Siamo di fronte a una piattaforma che potrà rivoluzionare la ricerca- sottolinea Sander -. Potremo non solo testare nuovi farmaci in modo più preciso, ma anche capire meglio perché certi pazienti sviluppano forme di diabete più gravi o resistenti alle terapie». Un’altra prospettiva entusiasmante è la possibilità di creare organoidi a partire dalle cellule dei singoli pazienti. In questo modo, si potrebbero sviluppare trattamenti personalizzati, testando in laboratorio la risposta del proprio tessuto pancreatico a diversi approcci terapeutici. In futuro, gli organoidi potrebbero perfino essere impiantati per sostituire le isole danneggiate, aprendo la strada alla terapia cellulare per il diabete.
Nonostante l’importanza della scoperta, restano numerosi ostacoli da superare prima che questi organoidi possano essere utilizzati su larga scala in ambito clinico. La complessità della vascolarizzazione, la stabilità a lungo termine delle cellule e la possibilità di produrre organoidi in quantità sufficiente per applicazioni terapeutiche sono solo alcune delle sfide che attendono i ricercatori.
Ma l’entusiasmo è palpabile nella comunità scientifica. Questo risultato rappresenta una dimostrazione concreta di come l’ingegneria dei tessuti possa avvicinarsi sempre di più alla biologia umana reale. Un piccolo laboratorio di cellule può diventare, un giorno, la chiave per riparare o sostituire organi malati.
E nel caso del diabete, una malattia cronica che cambia la vita di chi ne soffre, potrebbe significare un futuro con meno punture, meno farmaci e, forse, una cura definitiva.
PRIMA PROTEINA MUTAFORMA PROGETTATA IN LABORATORIO
Per la prima volta, una proteina artificiale reagisce a stimoli e cambia conformazione Una possibile rivoluzione per medicina, ambiente e agricoltura
Per la prima volta nella storia della bioingegneria, è stata creata in laboratorio una proteina artificiale capace di cambiare forma in modo controllato, proprio come avviene naturalmente nelle cellule viventi. Un risultato di rilievo ottenuto dal team dell’Università della California a San Francisco, guidato dalla professoressa Tanja Kortemme, e pubblicato sulla prestigiosa rivista Science. Questa innovazione apre scenari completamente nuovi per la progettazione di molecole dinamiche con applicazioni potenzialmente rivoluzionarie nella medicina, nell’agricoltura e nella tutela dell’ambiente.
Dagli anni ’80 in poi, la scienza è riuscita a progettare e costruire in laboratorio proteine sintetiche sempre più complesse. Tuttavia, fino ad oggi si trattava di molecole strutturalmente rigide, la cui forma era fissa e invariabile. Nonostante queste proteine statiche abbiano trovato impieghi cruciali (basti pensare all’insulina artificiale o a numerosi agenti chemioterapici) rimanevano comunque molto lontane dalle capacità delle loro controparti naturali più versatili. Le proteine naturali, infatti, non sono strutture statiche. Al contrario, svolgono le loro funzioni biologiche proprio grazie alla loro capacità di cambiare conformazione: possono ruotare, piegarsi, trasformarsi e poi tornare alla configurazione originale.
Questa plasticità strutturale è ciò che consente loro di interagire in modo altamente selettivo e dinamico con altre molecole, di trasmettere segnali cellulari, o di catalizzare reazioni chimiche con estrema precisione. Queste proteine dinamiche sono definite mutaforma, e rappresentano i veri protagonisti della biologia molecolare. Molti dei farmaci più efficaci oggi in uso mirano proprio a bersagliare proteine di questo tipo, interferendo con i loro cambiamenti strutturali.
Tuttavia, fino ad ora, nessuno era mai riuscito a progettarne una ex novo. Il motivo di questa difficoltà è principalmente computazionale. Simulare i movimenti di una proteina, anche solo per pochi secondi, richiede una potenza di calcolo enorme, perché ogni atomo coinvolto può interagire con molti altri in modi complessi e imprevedibili.
Il grande salto in avanti è arrivato con l’utilizzo di sofisticati strumenti di intelligenza artificiale, in particolare grazie ad AlphaFold, il sistema sviluppato da DeepMind (gruppo Google), che nel 2024 ha valso ai suoi creatori il Premio Nobel per la Chimica. AlphaFold ha permesso di predire con grande accuratezza la struttura tridimensionale delle proteine a partire dalla loro sequenza genetica. Il team della Kortemme ha sfruttato queste capacità per andare oltre: non solo prevedere una struttura statica, ma progettarne una che possa cambiare nel tempo. La proteina mutaforma creata dai ricercatori è stata intenzional-
Le proteine naturali non sono strutture statiche. Al contrario, svolgono le loro funzioni biologiche proprio grazie alla loro capacità di cambiare conformazione: possono ruotare, piegarsi, trasformarsi e poi tornare alla configurazione originale. Questa plasticità strutturale è ciò che consente loro di interagire in modo altamente selettivo e dinamico con altre molecole, di trasmettere segnali cellulari, o di catalizzare reazioni chimiche con estrema precisione. Queste proteine dinamiche sono definite mutaforma, e rappresentano i veri protagonisti della biologia molecolare.
mente progettata con una struttura relativamente semplice, in modo da poter studiare e controllare con precisione le sue trasformazioni. È in grado di assumere due stati differenti: uno che le consente di legarsi a uno ione di calcio e un altro in cui questo legame non è possibile. Questo cambiamento non è casuale: avviene secondo uno schema preciso e reversibile, dimostrando che la proteina non solo può cambiare forma, ma lo fa in risposta a uno stimolo specifico, proprio come avviene nelle proteine naturali coinvolte nei meccanismi di segnalazione cellulare o nella regolazione metabolica. Sebbene, questa prima proteina mutaforma rappresenti ancora una versione base, il valore scientifico dell’impresa è importante. «Questo studio è solo il primo passo di un lungo percorso - ha dichiarato Tanja Kortemme -, ma apre le porte alla possibilità di progettare molecole con comportamenti complessi, su misura per affrontare sfide in molti ambiti diversi».
Le applicazioni potenziali sono vastissime. In ambito biomedico, proteine dinamiche potrebbero essere usate per sviluppare farmaci più selettivi e intelligenti, in grado di attivarsi solo in presenza di determinati segnali biologici, riducendo così gli effetti collaterali. In agricoltura, potrebbero portare a nuovi tipi di pesticidi o fertilizzanti intelligenti, attivi solo in presenza di specifici patogeni o condizioni ambientali. Nel campo ambientale, infine, si potrebbero immaginare enzimi capaci di degradare inquinanti in maniera selettiva e controllata.
Questa scoperta segna una svolta per la biologia sintetica, un campo in rapida espansione che mira a progettare nuovi sistemi biologici artificiali. Se finora la costruzione di proteine era stata limitata a forme statiche, da oggi gli scienziati potranno cominciare a lavorare su molecole vive, capaci di adattarsi, rispondere e trasformarsi. (C. P.).
Un nuovo studio svela il sofisticato meccanismo di mimetismo di Entamoeba histolytica Un parassita capace di eludere il sistema immunitario indossando i resti delle sue vittime
C’è un parassita che non si limita a distruggere le cellule umane: le usa. Dopo averle ridotte a brandelli, ne utilizza i frammenti come un travestimento, indossando parti delle loro membrane per passare inosservato nel corpo umano. Non è la trama di un film di fantascienza, ma il risultato di un’accurata ricerca scientifica che getta nuova luce su uno degli agenti infettivi più subdoli e letali del nostro tempo: Entamoeba histolytica.
Questo protozoo parassita, responsabile di una grave infezione chiamata amebiasi, infetta ogni anno circa 50 milioni di persone nel mondo, provocando fino a 70mila decessi. La sua azione si concentra principalmente sul colon, ma può diffondersi anche al fegato, al cervello e ai polmoni, con conseguenze spesso fatali. Per anni, gli scienziati hanno cercato di comprendere in che modo questo parassita riuscisse a sfuggire alle difese dell’organismo. Il sistema immunitario umano è infatti progettato per riconoscere e distruggere gli agenti esterni, eppure questo parassita sembrava riuscire a muoversi indisturbato, talvolta per mesi, all’interno del corpo.
La risposta a questo mistero è arrivata da un gruppo di ricerca dell’Università della California a Davis, guidato da Katherine Ralston, che ha pubblicato i risultati del proprio studio sulla rivista Trends in Parasitology. Gli scienziati hanno scoperto che l’ameba non solo distrugge le cellule umane, ma ingloba e riutilizza frammenti specifici delle loro membrane, in particolare le proteine che si trovano sulla superficie esterna. Una volta inglobate, queste molecole vengono esposte sulla superficie del parassita, permettendogli di mascherarsi da cellula umana. Questo travestimento molecolare non è casuale.
Le proteine selezionate dal parassita sono quelle che normalmente servono come cartellino identifica -
tivo delle cellule sane: una sorta di lasciapassare che le protegge dalle componenti più aggressive del sistema immunitario, in particolare dal cosiddetto complemento, un complesso di proteine plasmatiche che agisce come una prima linea di difesa contro le infezioni. Nel 2014, lo stesso team di ricerca aveva già messo in discussione l’idea che E. histolytica uccidesse le cellule iniettando sostanze tossiche. Era stato dimostrato, invece, che il parassita agiva strappando letteralmente frammenti dalle cellule vive, un comportamento definito trogoctosi (dal greco tr ō g ō , mordere). Ma è solo nel 2022 che la Ralston ha osservato come l’ingestione di quei frammenti conferisse al parassita una sorprendente resistenza al complemento.
Entamoeba histolytica, un protozoo parassita, è responsabile di una grave infezione chiamata amebiasi e infetta ogni anno circa 50 milioni di persone nel mondo, provocando fino a 70mila decessi. La sua azione si concentra principalmente sul colon, ma può diffondersi anche al fegato, al cervello e ai polmoni, con conseguenze spesso fatali.
Il tassello mancante è stato ora identificato: ciò che rende E. histolytica immune alla risposta immunitaria non è solo l’atto di ingerire pezzi di cellula, ma la capacità di selezionare e riutilizzare proteine specifi -
che di superficie per camuffarsi come una cellula umana. È una strategia di mimetismo molecolare straordinariamente efficace, simile a quella di un ladro che si traveste da guardia per aggirare i controlli. Grazie a questa strategia, il parassita non solo si insinua nel colon, dove inizialmente arriva attraverso acqua o cibo contaminati, ma può penetrare in profondità nei tessuti, formando ascessi e disseminandosi fino a organi vitali. «E. histolytica può uccidere qualsiasi cosa gli capiti a tiro, qualsiasi tipo di cellula umana» - afferma la Ralston.
Quando il travestimento funziona, il sistema immunitario diventa cieco, lasciando campo libero all’infezione. La comprensione di questo meccanismo non è solo una conquista accademica. Aprire la scatola nera del mimetismo di E. histolytica offre nuove possibilità per sviluppare vaccini e terapie mirate. Intervenire sul processo con cui il parassita seleziona e incorpora le proteine umane potrebbe rappresentare una via per renderlo nuovamente visibile alle difese dell’organismo, facilitando l’eliminazione dell’infezione.
«È come togliere il mantello dell’invisibilità a un nemico nascosto» - spiegano gli autori dello studio. Un obiettivo ambizioso, ma realistico, ora che si conosce il trucco molecolare utilizzato dal parassita.
L’amebiasi è una malattia spesso sottovalutata, ma che colpisce in modo significativo le aree del mondo con scarse condizioni igieniche, in particolare in Asia, Africa e America Latina. I decessi, sebbene concentrati in Paesi a basso reddito, non escludono gli altri. Con l’aumento della mobilità globale e il cambiamento climatico, anche il rischio di diffusione geografica del parassita è destinato a crescere. La ricerca californiana rappresenta dunque un passo importante verso un approccio più efficace nella lotta contro le malattie parassitarie. (C. P.).
A preoccupare è soprattutto l’antibiotico resistenza che per l’Aifa potrebbe diventare la prima causa di morte nel 2050
Microbiologia: cos’è e perché è importante
La microbiologia è la branca della biologia che studia i microrganismi, ovvero quegli organismi così piccoli da non essere visibili ad occhio nudo come batteri, virus, funghi e protozoi. Questa disciplina è fondamentale per comprendere i meccanismi delle malattie infettive, sviluppare nuove terapie e migliorare la prevenzione. In un’epoca in cui le minacce sanitarie globali sono in aumento, la microbiologia diventa pertanto cruciale nella salvaguardia della salute pubblica, nell’agricoltura, nell’industria alimentare e nell’ambiente in generale.
Il panorama delle emergenze sanitarie in Italia si presenta oggi sempre più complesso tra virus emergenti, infezioni diffuse e minacce legate alla crescente resistenza agli antibiotici. Tra le principali criticità delle quali tener conto, la dengue e l’influenza aviaria, alle quali va aggiunta la sfida globale della resistenza antimicrobica, che sta rallentando l’efficacia dei trattamenti contro le infezioni batteriche. Una battaglia non facile da vincere, che vede in prima linea i microbiologi.
Di tutti questi fenomeni si è parlato di recente e in maniera approfondita in occasione della 52esima edizione del Congresso nazionale di Amcli Ets - Associazione microbiologi clinici italiani che ha visto la partecipazione di 1.700 esperti, tra cui la professoressa Tiziana Lazzarotto, direttrice della Microbiologia del Policlinico Sant’Orsola di Bologna. Si è partiti dalla dengue, malattia virale trasmessa principalmente dalla zanzara tigre. Sebbene si ritenga un problema geograficamente a noi lontano, in realtà costituisce una minaccia in espansione anche in Italia. Il virus non si trasmette direttamente da persona a persona, ma tramite la puntura delle zanzare infette, che proliferano a causa del cambiamento climatico e dell’urbanizzazione. Nel 2024, in Emilia-Romagna sono stati registrati 615 casi sospetti, di cui 97 confermati come infezione da dengue.
La maggior parte erano casi importati da viaggi in aree endemiche come il Sud-Est asiatico, l’America Latina e il Pacifico Occidentale. Tuttavia, un elemento preoccupante è stato il rilevamento di 36 casi autoctoni nel Modenese, a testimonianza di un focolaio locale, fenomeno che non era mai stato osservato prima con questa diffusione. A livello nazionale, la situazione non è migliore: su 693 casi confermati nel 2024, circa un terzo (213) erano autoctoni, con le Marche in testa per incidenza. Questi numeri sottolineano l’urgenza di pianificare delle strategie di controllo efficaci sia per la sorveglianza delle zanzare sia per la sensibilizzazione della popolazione sul tema. Gli esperti avvertono che senza interventi mirati, la dengue potrebbe diventare un problema endemico in alcune regioni dello Stivale. Altri rischi potenziali per la salute umana provengono dall’influenza aviaria, soprattutto nelle sue forme ad alta patogenicità come il sottotipo A(H5N1). Questo virus continua a causare focolai tra gli uccelli domestici e selvatici, con danni gravi all’industria avicola. L’Italia, con l’Emilia-Romagna tra le regioni più colpite, ha visto
nel 2024 un aumento dei casi negli allevamenti, con misure di contenimento rigorose messe in atto al fine di prevenire la trasmissione all’uomo. Nonostante il rischio di infezione diretta tra persone resti basso, questo tipo di influenza è costantemente monitorato perché potrebbe subire delle mutazioni, acquisendo capacità di trasmissione interumana, come è successo ad esempio con altri virus zoonotici. Ecco perché diventano fondamentali la sorveglianza veterinaria e la collaborazione tra istituzioni sanitarie e agricole. Inoltre, il fenomeno evidenzia l’importanza di un approccio One Health, che considera la salute umana, animale e ambientale come interconnessa e da tutelare per questo motivo in modo congiunto. Alle due minacce va aggiunta un’altra sfida cruciale rappresentata dalla resistenza antimicrobica, un fenomeno che rende inefficaci molti antibiotici, complicando la cura di infezioni anche comuni. L’uso eccessivo e non corretto degli antibiotici in medicina umana, veterinaria e agricoltura ha favorito la selezione di batteri resistenti, alcuni dei quali responsabili di infezioni ospedaliere gravissime.
È fondamentale sottoporsi a controlli specifici, anziché sottoporsi a terapie fai da te o prescritte a cuor leggero. «Esami e screening mirati consentono di individuare l’esatto responsabile della malattia così da impostare poi terapie di precisione»
I dati recenti dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) hanno evidenziato in tal senso una preoccupante ripresa dei consumi di antibiotici e dei livelli di resistenza dopo una temporanea riduzione osservata durante i primi anni della pandemia da Covid-19. Va da sé che questa situazione rende urgente un rafforzamento delle politiche di uso responsabile degli antibiotici e investimenti nella ricerca per lo sviluppo di nuovi farmaci e tecnologie diagnostiche rapide. Risulta quindi fondamentale sottoporsi a controlli specifici, anziché sottoporsi a terapie fai da te o prescritte a cuor leggero. Lo evidenzia Tiziana Lazzarotto, direttrice scientifica del Congresso Nazionale di Amcli Ets: «Esami e screening mirati consentono di individuare l’esatto responsabile della malattia così da impostare poi terapie di precisione». In riferimento agli Arbovirus, la microbiologa spiega che «i dati non devono generare allarmismo, ma testimoniano come la sanità pubblica sia attenta al tema e pronta a identificare virus emergenti e ri-emergenti».
Le sfide presenti e future non sono certo facili da affrontare e lo certifica l’allarme lanciato dall’Aifa, secondo cui - se non si invertirà al più presto il trend - nel 2050 l’antibiotico resistenza diverrà la prima causa di morte in Italia. In virtù della crescente complessità delle emergenze sanitarie è dunque necessario un approccio sempre più multidisciplinare e integrato. (D. E.).
Individuata la famiglia di proteine che apre le cellule umane al parassita Plasmodium falciparum
MALARIA SCOPERTE LE CHIAVI MOLECOLARI DEL PARASSITA
Un nuovo studio pubblicato su Nature
Microbiology accende una luce nel lungo tunnel della lotta alla malaria. Il gruppo di ricerca guidato dal Francis Crick Institute di Londra ha individuato una famiglia di proteine molecolari, chiamate Fikk, che il parassita Plasmodium falciparum utilizza come vere e proprie chiavi per penetrare e modificare le cellule umane. Uno sviluppo che potrebbe rivoluzionare il trattamento della malattia, soprattutto in un contesto in cui la resistenza ai farmaci sta diventando una minaccia sempre più seria. Ogni anno, la malaria colpisce oltre 200 milioni di persone nel mondo e provoca più di mezzo milione di decessi, con un impatto devastante soprattutto nei paesi a basso reddito dell’Africa sub-sahariana. Nonostante i progressi nella prevenzione e nei trattamenti, il parassita ha sviluppato nel tempo sofisticati meccanismi di evasione delle terapie, rendendo molti farmaci inefficaci. In questo contesto, la scoperta della famiglia Fikk rappresenta una svolta di grande rilievo scientifico e medico. Il team di scienziati, guidato da Moritz Treeck, ha analizzato oltre duemila campioni clinici provenienti da pazienti malarici, riuscendo a individuare 18 proteine fondamentali per il ciclo vitale del parassita. Queste proteine Fikk si rivelano cruciali per la capacità di P. falciparum di infettare i globuli rossi umani: una volta entrato nella cellula, il parassita ne modifica l’ambiente interno per favorire la propria sopravvivenza e moltiplicazione. Le proteine Fikk funzionano proprio come strumenti di manipolazione genetica e biochimica, indirizzando specifici bersagli molecolari all’interno della cellula ospite. Secondo Hugo Belda, ricercatore al Francis Crick Institute e all’Istituto Gulbenkian per la Medicina Molecolare di Lisbona, e David Bradley, dell’Università Laval in Canada «i farmaci attuali prendono di mira singole proteine, il che favorisce l’emergere di mutazioni resistenti». L’approccio suggerito dallo studio è diverso: colpire le strutture comuni a tutte le proteine Fikk, riducendo drasticamente la possibilità che il parassita sviluppi resistenza. Ciò che rende questa scoperta particolarmente promettente è il fatto che, pur essendo ciascuna proteina Fikk specifica per un determinato bersaglio, tutte condividono delle strutture ricorrenti. Queste sequenze strutturali comuni rappresentano un punto vulnerabile: un farmaco in grado di colpire simultaneamente tutte le proteine Fikk
potrebbe impedire al parassita di prendere il controllo delle cellule umane, bloccandone l’infezione alla radice. Per arrivare a questa conclusione, i ricercatori hanno utilizzato anche AlphaFold 2, il rivoluzionario sistema di intelligenza artificiale sviluppato da DeepMind (Google), che permette di prevedere con grande accuratezza la struttura tridimensionale delle proteine. Questo strumento ha consentito al team di osservare con precisione le differenze e le somiglianze tra le proteine Fikk, individuando le regioni altamente conservate, ovvero identiche in tutte le varianti.
«È come se il parassita avesse una serie di grimaldelli, ognuno specializzato per aprire una diversa porta nella cellula - spiegano Belda e Bradley - ma tutti questi strumenti condividono un manico identico. Ecco, noi possiamo colpire quel manico.» Uno degli ostacoli più gravi nella lotta alla malaria è la crescente resistenza del plasmodium falciparum ai farmaci antimalarici di prima linea, come l’artemisinina e i suoi derivati. Mutazioni genetiche emergono rapidamente, rendendo inefficaci le terapie e costringendo i sistemi sanitari a rincorrere l’evoluzione del parassita. In questo contesto, un farmaco multi-bersaglio che agisca su tutte le proteine Fikk potrebbe rappresentare una nuova strategia di intervento, non solo più efficace, ma anche più duratura. Attaccando simultaneamente più elementi essenziali del parassita, si ridurrebbe significativamente la probabilità che esso possa adattarsi e sviluppare resistenza.
Lo studio apre dunque la strada alla progettazione razionale di nuove molecole terapeutiche, che potranno essere testate nei prossimi anni. Sarà necessario un intenso lavoro di ricerca e sviluppo per identificare composti che riescano a interagire con le regioni strutturalmente conservate delle proteine Fikk senza danneggiare le cellule umane. «La malaria è una delle grandi sfide sanitarie del nostro tempo - conclude Moritz Treeck - e comprendere i meccanismi molecolari con cui il parassita agisce ci dà finalmente un vantaggio. È come se avessimo individuato il centro di comando del nemico. Ora possiamo pensare a come disattivarlo».
Se confermata da ulteriori studi e seguita da applicazioni cliniche, questa scoperta potrebbe segnare un punto di svolta nella storia della lotta alla malaria, restituendo speranza a milioni di persone nel mondo e avvicinandoci all’obiettivo globale dell’eradicazione della malattia. (C. P.).
Ogni anno, la malaria colpisce oltre 200 milioni di persone nel mondo e provoca più di mezzo milione di decessi, con un impatto devastante soprattutto nei paesi a basso reddito dell’Africa sub-sahariana. Nonostante i progressi nella prevenzione e nei trattamenti, il parassita ha sviluppato nel tempo sofisticati meccanismi di evasione delle terapie, rendendo molti farmaci inefficaci. In questo contesto, la scoperta della famiglia Fikk rappresenta una svolta di grande rilievo scientifico e medico. Queste proteine Fikk si rivelano cruciali per la capacità di P. falciparum di infettare i globuli rossi umani: una volta entrato nella cellula, il parassita ne modifica l’ambiente interno per favorire la propria sopravvivenza e moltiplicazione.
TEST GENETICI COSA SONO, QUANDO SERVONO E COME USARLI
Dalla diagnosi alla terapia personalizzata, stanno trasformando la medicina Uno strumento potente che richiede competenze, rigore clinico ed etica per garantire benefici reali e sicurezza per i pazienti
1Professore - Università degli Studi di Napoli Federico II
2Direttore UOC Genetica Medica - Casa Sollievo della Sofferenza
di Davide Cacchiarelli 1 e Marco Castori 2
Itest genetici rappresentano strumenti fondamentali nella medicina moderna. L’analisi di DNA, RNA o prodotti genici consente di identificare alterazioni associate a patologie ereditarie o a predisposizioni a malattie complesse. La loro applicazione varia: dalla diagnosi (per confermare o escludere una malattia genetica), alla stima del rischio (test predittivi o presintomatici), fino alla farmacogenetica, che guida scelte terapeutiche in base al profilo genetico individuale.
I test del portatore sono proposti a individui sani per valutare il rischio di trasmettere patologie recessive ai figli. Questi test, spesso eseguiti in coppie in età riproduttiva, rivestono un ruolo chiave nella prevenzione e nella pianificazione familiare. I test di suscettibilità genetica, invece, stimano il rischio relativo di sviluppare malattie comuni, come diabete o ipertensione, sulla base di varianti genetiche comuni. Sebbene promettenti, la loro applicazione clinica è ancora limitata per motivazioni logistiche, economiche e culturali. Ogni test genetico deve rispondere a criteri ben definiti: validità analitica (accuratezza nel rilevare la variante), validità clinica (capacità di predire il fenotipo) e utilità clinica, intesa non solo come impatto terapeutico, ma anche come beneficio diagnostico, gestionale e psicologico per il paziente e i familiari.
Una distinzione chiave è tra test germinali e somatici. I primi riguardano varianti ereditarie, presenti in tutte le cellule e trasmissibili alla progenie; i secondi analizzano mutazioni acquisite, tipicamente nei tumori. I test germinali sono fondamentali per identificare sindromi ereditarie (es. BRCA1/2, sindrome di tumori ereditari seno/ovaio), con implicazioni cliniche e riproduttive anche per i familiari. I test somatici, invece, sono centrali in oncologia per guidare terapie personalizzate, come nel caso di mutazioni EGFR o difetti di riparo del DNA (cd HRD), e per determinare prognosi e resistenze.
Negli ultimi anni, si è affermata l’integrazione tra analisi germinale e somatica. L’identificazione di una variante ad alta frequenza nel tumore può suggerire una predisposizione ereditaria, richiedendo conferma con un test su sangue. Viceversa, la conoscenza di una variante germinale può influenzare la scelta terapeutica. Questo ha favorito l’adozione di modelli integrati in cui lo specialista può avviare direttamente il test, con il supporto della consulenza genetica per la corretta interpretazione. Questa rapida evoluzione tecnologica è potuta avvenire grazie all’avvento delle tecnologie di Sequenziamento di Nuova Generazione (Next-Generation Sequencing, NGS) che ha rivoluzionato la genetica clinica.
I test NGS difatti consentono di analizzare simultaneamente decine o centinaia di geni (pannelli), l’intero esoma (WES) o genoma (WGS), offrendo diagnosi sempre più estese e rapide. In ambito oncologico, il WES/WGS forniscono un profilo molecolare dettagliato utile per la stratificazione terapeutica, che include anche i cosiddetti marcatori agnostici, non direttamente correlati ad una singola variante (es, mi-
I test genetici rappresentano uno strumento potente e in continua evoluzione. Per garantire un impiego sicuro, efficace e rispettoso della dignità della persona, è essenziale un percorso clinico rigoroso e la guida di professionisti esperti.
crosatellite instability MSI o tumor mutation burden TMB). In maniera complementare, nelle malattie rare, WES/WGS permettono di risolvere casi complessi, anche laddove la clinica non orienti chiaramente verso una specifica condizione. Il NGS si sta anche affermando nella farmacogenetica, consentendo di prevedere la risposta individuale ai farmaci e personalizzare le terapie, riducendo effetti avversi. Inoltre, l’analisi poligenica di rischio (Polygenic Risk Score) apre scenari innovativi nella prevenzione di malattie comuni legate alla co-presenza di piu’ varianti genetiche. Tuttavia, la mole di dati prodotti rende necessaria una solida competenza interpretativa, poiché la maggior parte delle varianti presenti nel nostro genoma risultano varianti di significato incerto (VUS) e risultati secondari, che richiedono una comunicazione attenta e un percorso di gestione eticamente adeguato. L’impiego clinico dei test genetici deve seguire un percorso definito: prescrizione da parte di medici con competenze genetiche, esecuzione in laboratori autorizzati e con procedure certificate (es. ISO15189), referti conformi a linee guida internazionali (ACMG/AMP), e soprattutto una consulenza genetica qualificata prima e dopo l’analisi. Questo processo garantisce appropriatezza, qualità e tutela del paziente, che deve essere informato sui risultati, le implicazioni ed i potenziali limiti del test.
Al di fuori di questo percorso regolamentato si collocano i test genetici Direct-to-Consumer (DTC), accessibili online o in altre sedi senza prescrizione, promettendo informazioni su salute, nutrizione, ascendenza o “benessere”. L’esecuzione di test genetici puo’ essere effettuata solo per scopi di ricerca o diagnosi, solo se accompagnata da una adeguata consulenza pre- e post-test da parte di un medico o di un biologo esperti di branca. L’esecuzione di questi test, oltre a creare criticità sotto il punto di vista normativo possono generare risultati errati, ansie infondate, rassicurazioni errate o decisioni inappropriate. Inoltre, l’affidamento dei dati genetici fuori dal perimetro normativo solleva importanti preoccupazioni in termini di privacy e possibili abusi sull’uso del dato più sensibile, il nostro codice genetico.
In conclusione, i test genetici rappresentano uno strumento potente e in continua evoluzione. Per garantire un impiego sicuro, efficace e rispettoso della dignità della persona, è essenziale un percorso clinico rigoroso e la guida di professionisti esperti. Le tecnologie come il NGS ampliano enormemente le potenzialità della genetica, ma rendono ancora più centrale il ruolo della consulenza genetica e dell’etica nella pratica medica.
Negli ultimi anni, parlare di protezione solare ha acquisito maggiore rilevanza, ormai oggetto di discussioni in ambito scientifico e tra i consumatori. È in aumento la consapevolezza di proteggere la pelle dai raggi solari e dai danni ad esso associati, così come l’evidenza di tutti quelli che sono gli effetti negativi derivanti dai raggi UV, non è da sottovalutare però il potenziale terapeutico e benefico che il sole ha sulla salute.
I benefici legati all’esposizione solare È fondamentale riconoscere i benefici fisiologici, tra i più noti ci sono:
• Sintesi della vitamina D, indispensabile per la salute delle ossa e il corretto funzionamento del sistema immunitario;
• Il miglioramento dell’umore,
grazie all’azione della luce solare sui neurotrasmettitori cerebrali;
• Miglioramento di alcune patologie cutanee: psoriasi, acne, lichen planus, che beneficiano dell’esposizione controllata soprattutto in alcune particolari ore della giornata.
Non bisogna però dimenticare né sottovalutare che l’irradiazione solare è spesso responsabile di patologie dermatologiche (tumori cutanei e fotoinvecchiamento).
I danni legati alla radiazione solare: soprattutto allo spettro
È ben noto che la radiazione ultravioletta (UV) (UVA, UVB) provoca danni al DNA cellulare, mutazioni genetiche e aumenta la comparsa di tumori cutanei es. carcinomi basocellulari,
spinocellulari e melanoma. La ricerca però ha evidenziato, che non sono solo i raggi UV a danneggiare la pelle, ma:
• La luce visibile ad alta energia (HEVL), la fascia della luce blu (380–455 nm), dà un sostanziale contributo al danno ossidativo, aumenta la produzione di radicali liberi, mediatori infiammatori e metalloproteinasi (MMP);
• La radiazione infrarossa (IR), banda A (700–1400 nm), influisce sull’espressione genica e degrada il collagene dermico;
• La banda intermedia tra UV e luce visibile (385–405 nm) contribuisce a cambiamenti dei geni coinvolti nello stress ossidativo, nei processi infiammatori e nella senescenza cutanea. In conclusione la protezione solare tradi-
FOTOPROTEZIONE E RADIAZIONE SOLARE NECESSITÀ, LIMITI E PROSPETTIVE FUTURE
I soliti prodotti destinanti alla protezione non bastano più: servono formulazioni all’avanguardia, che offrano copertura per tutti i tipi di radiazione, rispettino l’ambiente e valorizzino anche il potenziale benefico della luce solare
di Carla Cimmino*
zionale, che serve a schermare soprattutto UVA e UVB, oggi risulta incompleta.
Alla luce di quanto evidenziato, risulta strettamente necessario rimodulare l’idea di fotoprotezione, cercando di estendere la copertura all’intero spettro elettro -
magnetico, e non limitarla solo ai raggi UV. Questo tipo di visone avanzata dovrebbe includere:
• Ingredienti antiossidanti (es. vitamina E, polifenoli, carotenoidi) per contrastare l’azione dei radicali liberi e i processi infiammatori;
• Filtri solari con spettro più ampio, che devono proteggere da UV, luce visibile e IR;
• Formulazioni personalizzate studiate in base al fototipo, età, stile di vita ed eventuali patologie cutanee preesistenti;
• Strategie integrate, che aggiungono all’applicazione topica della protezione l’assunzione di integratori specifici.
È indispensabile ribadire il concetto fondamentale, che la protezione solare topica, nonostante possa essere applicata in maniera costante e correttamente, da sola non riesce ad offrire una barriera assoluta, per questo, la ricerca scientifica è impegnata nello sviluppo di nuovi filtri, che siano efficaci, fotostabili, sicuri e soprattutto sostenibili per l’ambiente.
Oggi sotto la lente di ingrandimento c’è l’impatto ambientale dei filtri solari, in particolare alcuni ingredienti, sono ritenuti responsabili di alterare gli ecosistemi marini, e soprattutto sono identificati come “interferenti endocrini”. Oxybenzone e octinoxate, riconosciuti come filtri chimici tradizionali, sono già stati vietati in alcune zone protette con l’intento di preservare coralli e biodiversità marina. Tutto ciò è spinge la ricerca alla scoperta di alternative più ecocompatibili, come filtri minerali (l’ossido di zinco e il biossido di titanio), e nuove molecole più sicure, mantenendo un’efficacia foto-protettiva alta, senza compromettere la tollerabilità cutanea e l’impatto ambientale.
In concomitanza alla protezione, si è sempre più concentrati sulla foto-bio-modulazione
* Comitato Centrale FNOB
L’approccio moderno alla protezione solare non si può ridurre alla semplice applicazione di un filtro UV, è necessaria una visione più ampia che tenga conto e non sottovaluti la complessità dello spettro elettromagnetico, dell’impatto ambientale, delle differenze individuali e dei potenziali benefici terapeutici della luce.
(PBM): tecnica terapeutica, che sfrutta specifiche lunghezze d’onda dello spettro elettromagnetico (luce visibile, rossa e infrarossa), grazie alle quali si modulano le funzioni cellulari e si trattano diverse condizioni cutanee, (es. la luce blu esercita un effetto antibatterico sul Propionibacterium acnes, ne riduce infiammazione, sebo e perdita di acqua trans-epidermica).
La PBM è molto efficace anche nel:
• Ringiovanimento cutaneo, stimola la produzione di collagene ed elastina;
• Guarigione di ferite e cicatrici, perché modula la risposta infiammatoria;
• Terapia tricologica, nel trattamento dell’alopecia androgenetica e areata, e di forme cicatriziali come il lichen planopilaris.
In conclusione l’approccio moderno alla protezione solare non si può ridurre alla semplice applicazione di un filtro UV, è necessaria una visione più ampia che tenga conto e non sottovaluti la complessità dello spettro elettromagnetico, dell’impatto ambientale, delle differenze individuali e dei potenziali benefici terapeutici della luce.
Le sfide moderne sono quelle di sviluppare sistemi intelligenti di fotoprotezione, che mostrano capacità di bloccare le radiazioni dannose, e di lasciare passare selettivamente quelle utili, rispettando la cute e la salute dell’individuo. Con questa nuova visione, la fotoprotezione del futuro sarà sempre più personalizzata, integrata, efficace e sostenibile, ovvero un insieme di benessere e prevenzione dermatologica a 360 gradi.
ADRIATICO-JONIO UN MARE D’IMPEGNI FILIERA ITTICA
Con 1,7 milioni di euro, Fishimpact favorirà nell’acquacoltura, valorizzando la produzione
ADRIATICO-JONIO D’IMPEGNI PER LA CONSAPEVOLE
favorirà pratiche responsabili nella pesca e produzione locale e le scelte alimentari più salutari
Un profondo soffio di rinnovamento sta per attraversare l’Adriatico e lo Jonio, portando con sé l’ambizione di un settore ittico non solo più produttivo e competitivo, ma profondamente radicato nei principi della responsabilità ambientale e sociale. È con questa visione che prende forma il progetto europeo “Fishimpact”, un’iniziativa dal respiro transnazionale che, con un investimento di 1,7 milioni di euro, mira a ridefinire il futuro della pesca e dell’acquacoltura.
Dieci istituzioni da sei Paesi dell’area adriatico-ionica si sono unite in questa missione, con un ruolo di spicco per l’Italia, rappresentata dall’Enea e dallo spinoff dell’Università degli Studi di Padova e di Sinloc Spa, “CibuSalus”, affiancati da realtà importanti come Assoittica e il Gruppo Europeo di Interesse Economico Spes (Spread european safety and sustainability). L’obiettivo è chiaro: supportare le imprese del comparto nell’adozione di standard elevati, sia a livello organizzativo sia per i prodotti stessi, promuovendo una cooperazione internazionale, superando le frammentazioni e rispettando le peculiarità geopolitiche e normative delle nazioni coinvolte.
In questo contesto dinamico, la collaborazione transfrontaliera emerge come fattore importantissimo per superare le frammentazioni e costruire un futuro comune. Al centro dell’impegno, Enea assume un ruolo di coordinamento cruciale. Si occuperà di scandagliare l’attuale panorama delle etichette e certificazioni nutrizionali e di sostenibilità che contraddistinguono i prodotti ittici nell’Europa e nei Paesi IPA (Instrument for Pre-accession Assistance), ovvero quelle nazioni come Albania, Montenegro e Bosnia-Erzegovina che beneficiano dell’assistenza preadesione dell’Unione Europea.
L’azione, tuttavia, non si ferma all’analisi. Per le piccole e medie imprese del settore, un pilastro dell’economia marittima, verrà sviluppato un innovativo strumento di autovalutazione multilingue. Agile e intuitivo, sarà arricchito da una banca dati di buone pratiche, offren-
do alle aziende un prontuario di suggerimenti concreti per un miglioramento continuo. «Metteremo a punto anche un nuovo modello di comunicazione chiara e trasparente per i consumatori - spiega Sara Cortesi, referente Enea del progetto, ricercatrice del Laboratorio strumenti per la sostenibilità e circolarità di sistemi produttivi e territoriali -, per evidenziare le caratteristiche ambientali, sociali e nutrizionali dei prodotti ittici venduti. Questo approccio non solo migliorerà la competitività delle imprese, ma potrà anche incentivare abitudini alimentari più salutari e acquisti più responsabili da parte dei consumatori». La trasparenza diviene, così, un elemento cardine per un acquirente sempre più esigente e attento.
L’orizzonte è ampio e ambizioso, delineando un percorso di sviluppo a più livelli. Verrà implementata un’azione pilota transnazionale, un laboratorio a cielo aperto che vedrà coinvolte circa cento aziende ittiche impegnate a testare lo strumento di autovalutazione. Il progetto prevede, inoltre, la stesura di linee guida dettagliate, concepite per agevolare l’introduzione dei nuovi requisiti di qualità e ambientali, armonizzando le pratiche a livello regionale. Un ulteriore tassello sarà la sottoscrizione di un memorandum d’intesa per la cooperazione internazionale tra i Paesi aderenti. Questo accordo formale garantirà la continuità e la longevità dei risultati del progetto, trasformando le buone pratiche in standard consolidati.
«Organizzeremo, inoltre, programmi di formazione specifici su temi chiave come Impronta Ambientale di Prodotto, Analisi del Ciclo di Vita, economia circolare e etichettatura, per trasferire i risultati ottenuti a tutti gli attori della filiera, dalle PMI alle organizzazioni di settore fino ai consumatori e alle amministrazioni». L’obiettivo è disseminare gli esiti raggiunti e le competenze acquisite verso tutti gli attori della filiera, dalle singole aziende alle organizzazioni di categoria, dai consumatori alle pubbliche amministrazioni, creando un ecosistema di competenze diffuse.
Il contesto adriatico-ionico si rivela un crocevia di opportunità. Con quasi 300mila tonnellate di pesce all’anno, Italia, Grecia e Croazia rappresentano quasi il 30% dell’acquacoltura europea. È significativo notare come in quest’area oltre la metà della produzione totale provenga dall’allevamento controllato di specie come pesci, molluschi e crostacei, superando la pesca tradizionale.
Il contesto adriatico-ionico si rivela, infatti, un crocevia di opportunità. Con quasi 300mila tonnellate di pesce all’anno, Italia, Grecia e Croazia rappresentano quasi il 30% dell’acquacoltura europea (Fonte Eurostat, 2025). È significativo notare come in quest’area oltre la metà della produzione totale provenga dall’allevamento controllato di specie come pesci, molluschi e crostacei, superando la pesca tradizionale. In particolare, la maricoltura, in mare aperto, si conferma la pratica più diffusa e rilevante. «Pesca e acquacoltura - conclude la ricercatrice Enea - rappresentano un motore potente per lo sviluppo dell’economia blu nell’area adriatico-ionica. È, però, indispensabile una gestione coordinata e orientata per evitare conflitti con altri settori strategici della blue economy, quali il turismo e il trasporto marittimo. Settori che, solo nel 2021, hanno generato in Europa più di 1,3 milioni di posti di lavoro e quasi 95 miliardi in euro di valore aggiunto lordo».
Il successo si misurerà proprio nella capacità di armonizzare queste diverse anime del mare, trasformando il potenziale in prosperità duratura e rispettosa dell’ambiente. Si configura, quindi, come un ponte tra tradizione e innovazione, tra sfruttamento delle risorse e la loro salvaguardia. Il suo intento è chiaro: disegnare un avvenire in cui il pesce che arriva sulle nostre tavole non sia solo un alimento, ma il simbolo di un’economia responsabile e di una collaborazione internazionale fruttuosa, concretizzando una visione ecosostenibile.
COORDINAMENTI PROFESSIONALI
Coordinamento Nazionale Biologi Specialisti Ambulatoriali
PICCOLE PERLE D’ITALIA FRA SFIDE AMBIENTALI E LENTEZZA NEL LORO SVILUPPO
Il report “Isole Sostenibili 2025” mostra una transizione ecologica insufficiente, con un indice al 46,8% Il fotovoltaico cresce, ma rimangono dipendenze energetiche
Le gemme d’Italia avanzano a fatica verso l’armonia ecologica, come emerge dal rapporto “Isole Sostenibili 2025” di Legambiente e l’Istituto sull’Inquinamento Atmosferico del CNR (CNR-IIA). L’indice complessivo di sostenibilità, che racchiude indicatori cruciali come consumo di suolo, gestione energetica e idrica, rifiuti, mobilità e aree protette, si attesta a un timido 46,8% nel 2025, con un incremento irrisorio dell’1,3% rispetto all’anno precedente.
Tra i più virtuosi, spicca San Pietro con il 62% (+8%), seguita da Capri (61%, ma con un -1%), Sant’Antioco (57%, -3%) e le Tremiti (55%, stabili). Il documento, frutto del lavoro dell’Osservatorio isole
sostenibili, ne ha analizzate 26 abitate, amministrate da 33 Comuni con oltre 188.000 residenti, basandosi su dati del 2023.
Dai dati emerge un percorso che rivela un alternarsi di luci e ombre. Da un lato, il fotovoltaico segna un balzo incoraggiante, con un aumento del 116% della potenza installata tra il 2021 e il 2023, superando in media il 50% del target fissato dal Dm 2017. Esempi virtuosi includono Ustica (+153%) e Ventotene (+93%).
Dall’altro, tuttavia, permangono gravi criticità. Solo 7 delle 26 analizzate erano interconnesse alla rete elettrica nazionale; le altre 19 dipendono ancora da costosi e inquinanti gruppi elettrogeni a gasolio (fonte Terna).
La raccolta differenziata stenta a decollare, attestandosi al 58%, con un misero +2% rispetto al 2022, ben al di sotto dell’obiettivo europeo del 65% (dati Ispra). Nonostante questo, alcune si distinguono, come Ustica (93%) e Favignana (85%). Un altro tallone d’Achille è il consumo di suolo: tra il 2022 e il 2023 ha raggiunto 7,8 ettari, pari a circa 11 campi da calcio. Le carenze nella gestione idrica sono altrettanto preoccupanti: dal 2020 al 2022, le perdite d’acqua salgono al 42,3%, pari a 11,8 milioni di m³, con picchi angosciosi a Ventotene (77% di dispersione), Capraia (69%), Pantelleria (67%) e le Pelagie (58%).
Inoltre, il 22,5% della popolazione residente non è ancora servito da rete fognaria, con situazioni particolarmente critiche a Salina (solo il 2% servito), Ischia (28%) e Pantelleria (45%). La mobilità, infine, è dominata dall’uso individuale dell’auto: 186.399 veicoli privati circolanti a fronte di circa 188.000 residenti (99 ogni 100 abitanti), mentre gli autobus pubblici sono appena 398 (0,2 ogni 100 abitanti). Il parco auto è anche obsoleto: in media il 61% dei veicoli è di classe Euro 4 o inferiore, con punte del 73% a Pantelleria e 72% nelle Pelagie e a Salina.
ne efficienti tutto l’anno, sfruttando per esempio i fondi del PNRR Isole Verdi; ridurre le perdite delle condutture, implementare i dissalatori per l’approvvigionamento idrico al posto delle navi cisterna e i sistemi di raccolta e riutilizzo delle acque piovane; un impegno concreto per raggiungere l’obiettivo del 30% di territorio tutelato entro il 2030, valorizzando le aree protette già esistenti e i piani di conservazione delle specie endemiche.
Il terzo pilastro è legato a innovazione e digitalizzazione: il potenziamento della connettività ultraveloce, come previsto dal Piano isole minori finanziato dal Pnrr, potrà promuovere il ritorno dei residenti, migliorando anche il monitoraggio ambientale, la gestione dei rifiuti e delle reti, contribuendo a una transizione ecologica davvero integrata.
«La transizione energetica, oggi ostacolata da ritardi normativi, vincoli ambientali e carenze infrastrutturali, insieme alla tutela del patrimonio naturale, devono diventare il cuore di un nuovo modello di sviluppo. Per garantire un futuro sostenibile e di qualità a questi territori e alle comunità che li abitano»
Legambiente e CNR-IIA, forti dell’approvazione del Piano del Mare 2023-2025, che promuove il coordinamento delle politiche legate all’insularità, hanno acceso i riflettori sulla necessità di un Piano nazionale dedicato alla transizione ecologica insulare, integrato e strutturato, basato su quattro pilastri con azioni prioritarie specifiche.
Il primo è la transizione energetica: connessione alla rete elettrica nazionale per le terre più vicine alla terraferma e microreti intelligenti per quelle non interconnesse; lo sviluppo delle rinnovabili, estendendo l’uso di solare, eolico e nuove tecnologie come il moto ondoso, e di Comunità Energetiche Rinnovabili (CER); la promozione della mobilità sostenibile e l’efficienza energetica degli edifici pubblici.
Segue la gestione sostenibile delle risorse naturali: garantire l’accesso all’acqua potabile e a servizi di depurazio-
Infine, il turismo sostenibile: occorre un coordinamento nazionale e regionale che tenga conto delle specificità insulari, per garantire servizi e collegamenti tutto l’anno; strategie di promozione che valorizzino identità, tradizioni e produzioni locali, attraverso il coinvolgimento attivo di cittadini, operatori e associazioni. Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente, ha dichiarato: «Le isole minori italiane sono scrigni di biodiversità e cultura, ma anche territori fragili, esposti agli effetti della crisi climatica e al rischio di spopolamento. Questa consapevolezza ha guidato il lavoro che portiamo avanti dal 2018 con il nostro Osservatorio Isole Sostenibili, nato per colmare la scarsa attenzione, in termini di dati e politiche dedicate, nei confronti di questi territori unici, che hanno tutte le carte per essere laboratori avanzati di transizione ecologica. Ma per farlo serve una strategia nazionale coraggiosa, concreta e continuativa, che possa adattarsi alle specificità insulari. La transizione energetica, oggi ostacolata da ritardi normativi, vincoli ambientali e carenze infrastrutturali, insieme alla tutela del patrimonio naturale, devono diventare il cuore di un nuovo modello di sviluppo. Per garantire un futuro sostenibile e di qualità a questi territori e alle comunità che li abitano». (G. P.).
Corso Fad Teorico-Pratico
MICROBIOLOGIA AMBIENTALE
02-03 luglio 2025
Direzione Scientifica: Dr.ssa Carla Cimmino
Dr.ssa Teresa Rosaria Verde
18 crediti Ecm
Con il patrocinio di
PER I SITI CONTAMINATI C’È UN SOFTWARE ITALIANO
CHE OTTIMIZZA LE RISORSE PUBBLICHE
Grazie a un sistema di valutazione scientifico, si definisce un ordine di urgenza per le bonifiche, potenziando l’attrattiva dei luoghi per investimenti futuri e sviluppo
Un’innovazione sorprendente, frutto dell’ingegn o di un team Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) interamente al femminile, è pronta a rivoluzionare la gestione del risanamento legato ai siti contaminati in Italia. Si chiama “Rocks” (Risk ordering for contamination key sites) ed è il primo software interamente progettato e sviluppato nel nostro Paese con l’obiettivo di affrontare in modo efficace le complesse problematiche legate all’inquinamento ambientale. Già collaudato con successo in sette regioni e in un comune, si propone come uno strumento efficace per supportare la pianificazione regionale negli interventi di risanamento prioritari, ottimizzando l’impiego delle risorse disponibili. Il suo impatto è duplice: tutela la salute pubblica, l’Ambiente e, contemporaneamente, promuove lo sviluppo sostenibile, rendendo i territori più attraenti per nuovi investimenti e opportunità.
Il problema del disinquinamento, difatti, è vasto e le risorse sono spesso limitate. In questo scenario, diventa cruciale che le Regioni possano predisporre gli interventi concentrandosi sui siti potenzialmente più critici dal punto di vista sanitario-paesaggistico. Il Testo Unico Ambientale riconosce questa esigenza, stabilendo che i Piani regionali per la bonifica delle aree inquinate debbano indicare “l’ordine di priorità degli interventi, basato su un criterio di valutazione del rischio elaborato Ispra”. “Rocks” risponde a questa precisa necessità, offrendo soluzioni scientificamente fondate. È il primo in Italia a identificare quali zone, tra quelle censite nei Piani Regionali, richiedano interventi più urgenti, assegnando a ciascuna di esse un punteggio, l’Indice di Rischio Relativo. Questa metodologia permette di definire una graduatoria delle priorità costruita su solide basi e criteri chiari e verificabili. Tale approccio si fonda sui Criteri di priorità nazionali definiti dall’Istituto con il supporto determinante di Regioni, Arpa e altre Amministrazioni, garantendo così una visione unificata e coerente a livello nazionale.
L’importanza della programmazione strategica degli interventi si acuisce nei “siti orfani”, ovvero quei territori dove non è possibile identificare il responsabile dell’inquinamento o dove, per diverse ragioni, non s’interviene. In questi casi, l’onere ricade sul settore pubblico. Occorre, quindi, uno strumento che consenta alle amministrazioni d’indirizzare le risorse limitate verso le situazioni più urgenti e ad alto rischio. La capa-
Un ecosistema risanato è più sicuro e attrattivo, capace di stimolare l’economia locale e migliorare la qualità della vita nelle comunità. In questo senso, “Rocks” dimostra in maniera inequivocabile come la ricerca possa essere un motore propulsivo di progresso, offrendo soluzioni concrete e ispiratrici per le sfide ecologiche del nostro tempo.
cità del software di fornire una chiara e oggettiva scala di priorità si traduce in una maggiore efficacia degli interventi, massimizzando l’impatto positivo sulla salute dei cittadini e sull’Ambiente, e assicurando un utilizzo più oculato dei fondi pubblici. Questo è un passo cruciale per garantire che nessuna area venga trascurata, anche in assenza di un responsabile diretto, dimostrando l’impegno dello Stato verso la salvaguardia.
La creazione di criteri validi per tutta Italia, pur tenendo conto delle specificità e delle esigenze dei vari suoli, ha rappresentato una sfida significativa. Il gruppo di lavoro ha operato instancabilmente per costruire un percorso di larga condivisione, coinvolgendo attivamente Regioni, Arpa e altre amministrazioni. Tale approccio collaborativo ha permesso di sviluppare una piattaforma non solo tecnicamente avanzata, ma anche pratica e facilmente adattabile alle diverse realtà regionali. Il successo è una testimonianza dell’eccellenza nata dalla ricerca italiana e della sua capacità di tradurre le competenze scientifiche in soluzioni concrete e applicabili, superando le complessità legate alla varietà dell’indole nostrana e delle località. Comprendere come funziona è fondamentale e il progetto è stato portato avanti pensando all’utente. L’inserimento dei dati è un processo guidato dal software, che avvisa immediatamente l’operatore in caso di errori, incongruenze o informazioni mancanti. Ciò assicura un’esperienza intuitiva e immediata, riducendo la possibilità di imprecisioni.
È una soluzione on-premise, il che significa che viene installato direttamente sui server dell’ente che lo utilizza. È, inoltre, configurabile per l’installazione multiutente, permettendo a più operatori di accedere e lavorare contemporaneamente anche da remoto, all’interno del dominio intranet regionale. Questa flessibilità garantisce che diversi team distribuiti possano collaborare in modo efficiente. Va notato che, sebbene il cuore del sistema risieda direttamente in sede, all’interno degli ambienti IT, alcune informazioni amministrative sono pre-caricate e periodicamente aggiornate in un ambiente cloud, unendo la sicurezza di un’installazione locale con la praticità dell’accesso a dati comuni e sempre al passo con la realtà. L’adozione promette di generare benefici tangibili: oltre a proteggere la salute collettiva e gli ecosistemi, contribuisce a riqualificare i territori, rendendoli più appetibili per operazioni finanziarie e opportunità di sviluppo. (G. P.).
Il volume d’affari illecito nel settore primario ha superato i 25 miliardi di euro Infiltrandosi in ogni fase, dal reclutamento di manodopera allo smercio di prodotti adulterati
L’ombra del malaffare si allunga sul comparto agroalimentare italiano, un business illecito che ha visto i suoi introiti quasi raddoppiare in appena un decennio, raggiungendo l’astronomica cifra di 25,2 miliardi di euro, recuperando con sorprendente rapidità il terreno perduto a causa della crisi pandemica e ramificandosi in ambiti sempre più eterogenei, dal caporalato alla sofisticazione e falsificazione dei prodotti, dal controllo delle catene logistiche all’appropriazione indebita di terreni coltivati e risorse pubbliche, fino all’usura, ai furti e alla criminalità informatica. La fotografia impietosa emerge dal “Rapporto sui crimini agroalimentari in Italia”, frutto della sinergia tra Eurispes, Coldiretti e la Fondazione Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e su quanto finisce nei piatti. Il mondo agricolo e del cibo, con l’intrinseca vitalità e le sue risorse, è diventato un obiettivo prediletto per le consorterie malavitose, le quali moltiplicano i tentativi di estendere le loro espansioni su ogni aspetto legato al cibo, ad esempio, lo sfruttamento di lavoratori migranti attraverso il caporalato, gestito da reti di diverse nazionalità. Tali gruppi utilizzano le pieghe della burocrazia per promuovere il credito usuraio, acquisire imprese agricole in difficoltà finanziarie e riciclare proventi illeciti, mentre imprenditori onesti subiscono intimidazioni e danni economici per cedere terre e attività, aggravati dalla crisi globale e dall’incremento nei costi di produzione che ha fiaccato molte realtà produttive negli ultimi anni.
L’obiettivo primario resta l’accesso a finanziamenti statali e il dominio di mercati e gare d’appalto, spesso con la connivenza di professionisti compiacenti e l’utilizzo di documentazione contraffatta; tuttavia, le infiltrazioni si estendono alla ristorazione, ai mercati ortofrutticoli e alla grande distribuzione, senza trascurare le vere e proprie frodi alimentari, con prodotti adulterati o privi di etichetta, frequentemente venduti nei discount; i comparti più colpiti comprendono vino, olio, mangimi e
riso, con l’impiego di fitofarmaci vietati e certificazioni biologiche mendaci provenienti dall’Europa orientale. Un capitolo a parte è dedicato alla diffusione capillare dell’italian sounding e dalle frodi sull’imballaggio.
Una rivelazione significativa del documento consiste nell’emergere di associazioni transnazionali tra l’Italia e nazioni extra-europee, che operano come agenzie informali per l’intermediazione illecita di manodopera agricola; recenti indagini hanno svelato come tali reti, sfruttando anche i decreti flussi, organizzino l’arrivo di lavoratori dal subcontinente indiano, principalmente India e Bangladesh, in cambio di cospicue somme di denaro; una volta nel nostro Paese, questi lavoratori sono sottoposti a sfruttamento, privi di ogni protezione, e costretti a operare per saldare il debito contratto, talvolta destinati ad altri settori, mentre gli agricoltori si trovano senza forza lavoro. Il meccanismo si fonda prevalentemente sul fenomeno delle “imprese senza terra”: entità che assumono la forma giuridica di cooperative e che si offrono come fornitori di addetti per le diverse attività, soprattutto stagionali; ai lavoratori viene imposta l’adesione formale alla cooperativa, ma ciò non comporta alcun vantaggio reale; al contrario, le retribuzioni possono risultare inferiori fino al 40% rispetto a quanto previsto dai contratti collettivi nazionali o provinciali, all’insaputa delle stesse aziende agricole che versano il compenso del servizio direttamente alla cooperativa.
Se l’Italia possiede un apparato sanzionatorio e di supervisione all’avanguardia, c’è il rischio concreto che il fenomeno delle “agromafie” sia sottostimato nel resto d’Europa, un pericolo ancor più grave se si considera la dimensione ormai sopranazionale dei sodalizi delinquenziali; la rilevazione nel continente europeo, denunciano gli esperti, risulta estremamente carente; oltre che in Italia, raggruppamenti criminali organizzati attivi nel settore primario sono stati individuati in Austria, Belgio, Germania, Slovacchia, Spagna e Paesi Bas-
Il mondo agricolo e del cibo è diventato un obiettivo prediletto per le consorterie malavitose, le quali moltiplicano i tentativi di estendere le loro espansioni su ogni aspetto legato al cibo, ad esempio, lo sfruttamento di lavoratori migranti attraverso il caporalato, gestito da reti di diverse nazionalità.
si; tuttavia, le loro attività non vengono sorvegliate e classificate con sistematicità. Un discorso peculiare merita il caso delle operazioni legate alle mafie cinesi, le quali starebbero manifestando un crescente interesse, attraverso l’acquisto di appezzamenti di terreno, piccole società e per la logistica stessa. Un’ulteriore pratica insidiosa è l’italian sounding, ossia la commercializzazione di prodotti che presentano un nome o segni distintivi italiani sulla confezione, ma che, in realtà, non possiedono alcun legame produttivo con la nostra Penisola; il caso più lampante è quello dell’agropirateria internazionale, di cui il “Parmesan”, imitazione del “Parmigiano Reggiano” e del “Grana Padano”, o le diverse contraffazioni del Prosecco, l’ultima delle quali, il “Calsecco” californiano, costituiscono i simboli più celebri; un mercato che ha raggiunto la cifra record di circa 120 miliardi di euro, pari a quasi il doppio del totale per le esportazioni alimentari. A danneggiare agricoltori e consumatori è anche il falso autoctono, quella zona grigia dove, grazie al principio di “ultima trasformazione” sancito dall’attuale Codice doganale, è concesso spacciare per cibo italiano ciò che non lo è affatto. La posta in gioco è cruciale: il tempo a venire dell’eccellenza agroalimentare e la dignità del lavoro agrario dipendono dalla nostra capacità di spezzare la stretta del crimine organizzato. (G. P.).
ETNA: I SEGRETI
DELLE ONDE SISMICHE
Alcuni ricercatori hanno ricostruito il sistema magmatico del vulcano, rivelando la rete di fratture che guida il magma
L’Etna, il vulcano più alto e attivo d’Europa, cela sotto la sua superficie un mondo in continuo movimento, un sistema magmatico complesso che interagisce con la crosta terrestre in modi ancora poco conosciuti.
Grazie a un innovativo metodo di tomografia sismica, un team di ricercatori ha ricostruito la struttura del sistema magmatico sottostante, rivelando dettagli di fondamentale interesse circa le dinamiche del magma e le vie preferenziali della sua risalita. Attraverso l’analisi di oltre 37.000 segnali sismici raccolti tra il 2006 e il
2016, gli scienziati hanno realizzato una sorta di TAC geologica dell’Etna, utilizzando le onde dei terremoti al posto dei raggi X. I risultati hanno mostrato l’esistenza di una rete di dicchi verticali (fratture riempite di magma) che si estende tra i 6 e i 16 km di profondità, che costituisce una sorta di autostrada sotterranea che il magma percorre in risalita.
Queste strutture formano un sistema radiale che spiega perché le eruzioni non si manifestano solo dai crateri sommitali, ma anche dalle bocche laterali, spesso imprevedibili. Inoltre, tale configurazione potrebbe fornire
indizi sui meccanismi eruttivi di altri vulcani attivi nel mondo. Il metodo di tomografia sismica utilizzato dai ricercatori ha permesso di mappare l’orientamento delle fratture e di stimare lo stato di stress nella crosta terrestre. In particolare, l’anisotropia elastica, ovvero la variazione della velocità delle onde sismiche in base alla direzione, ha fornito dati importantissimi sulla pressione del magma e sulle sue possibili vie di fuga.
Lo studio, intitolato “Pressurized magma storage in radial dike network beneath Etna volcano evidenced with P-wave anisotropic imaging”, pubblicato sulla rivista Communications Earth & Environment, ha dimostrato come la configurazione delle fratture nel sottosuolo dell’Etna è fortemente influenzata dallo stato di stress della crosta terrestre.
Quando la pressione del magma aumenta, queste fratture possono allargarsi, creando nuovi passaggi per la risalita del materiale magmatico, e ciò spiega perché alcune eruzioni avvengono in punti inaspettati e lontani dai crateri principali, modificando di volta in volta l’evoluzione del vulcano stesso.
Il fenomeno osservato nell’Etna potrebbe verificarsi in altri vulcani con strutture geologiche simili: il modello ricostruito dai ricercatori è dunque di fondamentale importanza, poiché potrebbe migliorare la comprensione dei processi eruttivi globali e contribuire allo sviluppo di sistemi di allerta più precisi.
Conoscere dettagliatamente la rete di fratture e il comportamento del magma aiuterà a prevedere con maggiore accuratezza le future eruzioni, e a implementare protocolli di gestione del rischio più efficaci, proteggendo meglio le comunità locali. La possibilità di mappare con precisione la rete sotterranea del magma dell’Etna apre nuove prospettive per una convivenza sicura e sostenibile tra l’uomo e il vulcano.
Biologi e ambiente un binomio inscindibile quando si parla di ecosostenibilità e salute. È lo spirito che ha animato i corsi FAD promossi dalla FNOB e CNBA per il mese di giugno, percorsi formativi che sono un’opportunità di crescita del tracciato professionale del biologo che gli consente di allargare gli orizzonti per arricchire competenze e trovare nuovi settori di impiego.
Il primo corso dal titolo “Microplastiche dagli ambienti acquatici: principali metodiche di monitoraggio e analisi, valutazione dell’impatto ambientale e sanitario”, ha incontrato un ampio consenso di iscritti tant’è che in breve è stato raggiunto il sold out. Non è un caso. Il tema delle microplastiche è un campo di lavoro molto interessante e dinamico per la categoria dei biologi tant’è che la Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi insieme
In questi ultimi tempi la Federazione è impegnata a promuovere iniziative che pongono all’attenzione del pubblico la pericolosità delle micro e nano plastiche e dei biologi l’attualità di una materia che è terreno fertile anche per la biologia. Il biologo fa la differenza per il novero delle competenze che vanno dalla conoscenza della biologia marina e ambientale, alla comprensione degli ecosistemi acquatici e terrestri e degli impatti delle microplastiche su di essi, dall’acquisizione delle competenze di laboratorio cioè nell’abilità nel condurre esperimenti e analizzare campioni per rilevare la presenza di microplastiche, alla capacità di analizzare e interpretare i dati relativi alla presenza di microplastiche.
con la Fondazione dei Biologi hanno promosso in quest’ultimo anno convegni e sessioni di lavoro dedicate alle microplastiche. «Il lavoro dei biologi diviene più che mai prezioso - ha dichiarato il presidente della FNOB Vincenzo D’Anna -, perché condurre ricerche sulle microplastiche, sul loro impatto ambientale e sulla salute, monitorare la loro presenza in ambienti acquatici e terrestri significa trovare anche soluzioni.
In questi ultimi tempi la Federazione è impegnata a promuovere iniziative che pongono all’attenzione del pubblico la pericolosità delle micro e nano plastiche e all’attenzione dei biologi l’attualità di una materia che è terreno fertile anche per la biologia». Il biologo fa la differenza per il novero delle competenze che vanno dalla conoscenza della biologia marina e ambientale, alla comprensione degli ecosistemi acquatici e terrestri e degli impatti delle microplastiche su di essi, dall’acquisizione delle competenze di laboratorio cioè nell’abilità nel condurre esperimenti e analizzare campioni per rilevare la presenza di microplastiche, alla capacità di analizzare e interpretare i dati relativi alla presenza di microplastiche.
Negli ultimi appuntamenti promossi dalla FNOB è emerso che le microplastiche possono avere impatti significativi sull’ambiente: gli animali possono ingerire microplastiche, che possono causare danni fisici o tossici, possono quindi entrare nella catena alimentare e raggiungere gli esseri umani. Il futuro è la ricerca, il biologo è così lo scienziato d’eccellenza per contribuire a ridurre l’impatto delle microplastiche. Il corso di formazione per i biologi è nato proprio dall’esigenza di fornire conoscenze avanzate nell’ambito di inquinamento da microplastiche in ambiente acquatico.
Il corso “Introduzione all’Applicazione Normativa dell’END OF WASTE” nasce dall’esigenza di fornire conoscenze avanzate nell’ambito del percorso «non semplice» dell’applicazione dell’End of Waste. Gli argomenti trattati forniscono una panoramica sui criteri che determinano la Cessazione dello Status di Rifiuto, i Requisiti di Qualità, il processo autorizzativo, il Ruolo della P.A. nella definizione dei Criteri End of Waste e l’analisi di un caso studio al fine di rendere più comprensibile la disciplina.
IL CONVEGNO FIB DI TRIESTE “ONE HEALTH MICRO/NANO PLASTICHE”
Il biologo marino figura centrale per la salvaguardia dell’ecosistema marino
Il mare rischia di diventare la pattumiera del mondo. È allarme sulle plastiche e microplastiche che pervadono non soltanto i mari ma anche gli esseri viventi che lo compongono. Preservare l’eco sistema marino è il compito dei biologi. Se n’è parlato a Trieste il 23 e 24 maggio scorso, nel cor-
so del primo convegno promosso dalla Fondazione Italiana Biologi (FIB) di Bologna dal titolo “One Health micro/ nanoplastiche: impatto sull’ambiente e sulla salute umana”. Relatori dell’evento organizzato da Franco Andaloro, Elisabetta Edalucci e Bruna Scaggiante insieme al presidente FIB e FNOB, Vincen-
zo D’Anna i massimi esperti del settore, gli scienziati, i biologi che si occupano di un settore delicato e ancora da esplorare come la biologia marina.
La scelta di Trieste città sede di una importante università non è casuale. «La biologia - come ha più volte sottolineato il presidente D’Anna -, si conferma essere la scienza del futuro per la salvaguardia della salute umana». Il tema delle micro plastiche è quanto mai attuale e ci riguarda da vicino: dall’ambiente esterno al corpo umano. «E infatti - come ha dichiarato il professor Andaloro -, ingeriamo anche inconsapevolmente le micro plastiche che invadono i nostri mari e le sue creature finendo sciaguratamente nella catena alimentare».
La presenza delle microplastiche nei diversi tessuti, le correlazioni con patologie infiammatorie e degenerative sono un dato preoccupante che desta scalpore e fa paura. A riguardo di estremo interesse la relazione della professoressa Bruna Scaggiante del Dipartimento Scienze della Vita, Università degli Studi di Trieste sulle correlazioni con i tumori derivanti da micro e nano plastiche. La biologia è una scienza aperta a nuove scoperte e i biologi hanno notevoli opportunità di scelta. Durante le sessioni del convegno ampio spazio è stato riservato allo stato di salute dei mari. I biologi sono impegnati a trecentosessanta gradi in settori importanti. Nel corso del convegno sono stati presentati gli effetti delle micro e nano plastiche negli ecosistemi marini e terresti, le tecniche per il monitoraggio, gli interventi di bonifica e le proposte per ridurre l’impatto delle micro e nano plastiche sulla salute di ambiente, animali e uomo.
La convention di Trieste è stata l’occasione per parlare anche della rivoluzionaria scuola di biologia marina e biodiversità di Reggio Calabria, un polo d’eccellenza per la ricerca e la formazione scientifica ed un’opportunità per i giovani e gli scienziati. Un progetto che mira alla tutela e valorizzazione dell’ecosistema dello Stretto di Messina, considerato uno dei mari con la più alta biodiversità al mondo. (M. A.).
LA POLIDATINA CONTRASTA
LA SINDROME DI DOWN
Uno studio ha approfondito gli effetti di un polifenolo di origine vegetale noto per le sue proprietà antiossidanti
Una ricerca dell’Istituto di biomembrane, bioenergetica e biotecnologie molecolari del Consiglio nazionale delle ricerche di Bari (Cnr-Ibiom) ha approfondito gli effetti della somministrazione della polidatina, un polifenolo di origine vegetale noto per le sue proprietà antiossidanti, nel contrastare le alterazioni cellulari della sindrome di Down, patologia determinata da una particolare aberrazione cromosomica, vale a dire la presenza di una triplice copia (trisomia) del cromosoma 21, che ogni anno colpisce circa 3.000-
5.000 bambini nel mondo. Lo studio, pubblicato su Free Radical Biology and Medicine, si inserisce nel filone di ricerca del Cnr-Ibiom coordinato da Rosa Anna Vacca, che da molti anni studia le alterazioni molecolari alla base del complesso quadro clinico della sindrome con l’obiettivo di individuare principi attivi naturali in grado di migliorare le disfunzioni dei mitocondri, cioè le “centrali energetiche” delle nostre cellule, ripristinare il corretto metabolismo energetico cellulare e ridurre lo stress ossidativo, fattori considerati chiave per l’insorgenza
del deficit nello sviluppo neurologico nei bambini con sindrome di Down, e dell’invecchiamento precoce negli adulti. In questo studio, in particolare, effettuato su cellule provenienti da aborti spontanei di feti, in parte caratterizzati da trisomia 21 e in parte sani, cioè privi di alterazioni cromosomiche, è stato dimostrato che la polidatina è in grado di riattivare l’attività bioenergetica dei mitocondri riducendo la produzione eccessiva di radicali dell’ossigeno e che può, inoltre, prevenire i danni al DNA e l’invecchiamento cellulare causati da stress ossidativo indotto con stimoli esterni: questa attività di prevenzione del danno ossidativo avviene sia nelle cellule con sindrome di Down, sia in quelle sane.
Rosa Anna Vacca del Cnr-Ibiom, ha affermato: «La polidatina, polifenolo estratto dalla pianta Polygonum cuspidatum da secoli usata nella medicina tradizionale asiatica, è al centro dei nostri studi da tempo, essendo già note le sue proprietà antinfiammatorie e antiossidanti: aiuta, cioè a proteggere le cellule dai danni causati dai radicali liberi, molecole instabili che accelerano l’invecchiamento e le malattie. L’idea è quella di utilizzarla come integratore alimentare per gestire alcuni dei sintomi della sindrome di Down, da somministrare già nella primissima infanzia. Benché siano diversi i composti naturali di origine vegetale che oggi vengono proposti nel trattamento della patologia, siamo convinti che la polidatina possa diventare un candidato ideale per applicazioni cliniche future legate alla prevenzione dei disturbi associati alla sindrome: ha, infatti, dimostrato di non avere effetti tossici collaterali, e in più è stabile, idrosolubile, e si distribuisce meglio nel nostro corpo. Inoltre, è un precursore del resveratrolo, un altro composto naturale noto per i suoi effetti benefici in particolare come coadiuvante nel trattamento di malattie neurologiche».
Un gruppo di ricerca congiunto, composto da ricercatori e ricercatrici dell’Istituto dei sistemi complessi del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma (Cnr-Isc) e dell’Istituto Superiore per la Ricerca Ambientale (ISPRA) di Ozzano dell’Emilia (Bologna) ha messo a punto una nuova metodologia per stimare in modo accurato ed economicamente sostenibile le popolazioni di ungulati selvatici, applicabile sia in aree protette sia in aziende faunistiche.
Un primo test è stato condotto nella Game Management Area di Sandwe, una zona protetta dello Zambia, e ha riguardato il monitoraggio di popolazioni dei grandi erbivori: qui è stato testato il metodo di campionamento basato sulla teoria del “distance sampling”, con osservazioni effettuate da autovetture: tale metodo modellizza la distribuzione della visibilità degli animali e la loro distribuzione spaziale intorno alle strade. È un metodo di stima della densità di una popolazione biologica. Il parametro fondamentale è la densità.
Esso estende l’approccio classico per il censimento di una popolazione finita, attraverso cui si definiscono delle aree di forma quadrata e si contano tutti gli individui presenti al loro interno. Questi risultati sono poi integrati in un modello di densità, compensando così la distribuzione non casuale delle strade nell’area di studio, così da ottenere dati non viziati e sufficientemente precisi. L’approccio utilizzato nella ricerca ha consentito di accelerare i tempi di rilevamento, ridurre i costi di monitoraggio e aumentare la sicurezza degli operatori rispetto ad altri metodi usati in Africa, come il foto-trappolaggio o censimenti da aeromobili.
Stefano Focardi del Cnr-Isc ha spiegato: «In queste zone, il monitoraggio degli animali, che spesso rientrano tra specie minacciate o vulnerabili, è condotto senza un solido supporto
Un nuovo metodo basato sulla teoria del “distance sampling” Resi noti i risultati sull’African Journal of Ecology
scientifico, e le operazioni di gestione vengono svolte senza una base conoscitiva adeguata: la ragione di questa situazione è legata alla carenza di conoscenze tecnico-scientifiche da parte dei responsabili delle aree protette e delle aziende faunistiche, e ad una cronica mancanza di risorse finanziarie che impediscono l’impiego di metodi statistici affidabili».
I risultati ottenuti sono sufficientemente precisi da poter supportare decisioni gestionali fondamentali, per esempio per determinare la presenza di trend di popolazione o fissare le quote di prelievo. Per facilitare l’ap-
plicazione pratica, l’articolo è corredato da un software che semplifica l’analisi dei dati da parte dei responsabili locali della gestione faunistica, anche se privi di una formazione statisticomatematica avanzata. Il metodo potrebbe essere utilizzato in molti altri contesti, più vicini a noi.
Valentina La Morgia dell’ISPRA ha aggiunto: «Anche la gestione della fauna selvatica in Italia potrebbe avvalersi di tali metodologie per rendere i monitoraggi più accessibili e sostenibili, sia dentro sia fuori dalle aree protette, migliorando la gestione della fauna selvatica». (P. S.).
SCREENING DEL MELANOMA
SI FA CON TELEMO
Concluso il progetto TELEMO dell’Istituto di fisiologia
clinica del Cnr di Pisa e finanziato dalla Regione Toscana
TELEMO (An innovative TELEmedicine system for the early screening of Melanoma in Overall Population) ha avuto l’obiettivo di supportare, accelerare e ottimizzare lo screening delle lesioni cutanee, per una diagnosi precoce del melanoma nella popolazione generale. Cuore del progetto è stato lo sviluppo di un’infrastruttura digitale innovativa di telemedicina, che affianca alla diagnosi tradizionale un sistema automatico per l’analisi di immagini ottiche e multi-spettrali, insieme a una piattaforma per la gestione dei big data dermatologici.
Tra gli obiettivi principali, rendere la diagnosi sempre più smart: la stima automatica delle caratteristiche delle lesioni cutanee permette una maggiore standardizzazione del processo diagnostico, agevolando l’identificazione tempestiva dei pazienti a rischio.
La piattaforma TELEMO, costituita da un ampio database di immagini e dati clinici, si è rivelata uno strumento prezioso non solo per l’addestramento dell’intelligenza artificiale nel riconoscimento e nella classificazione del melanoma rispetto ad altri tumori cutanei, ma anche per la formazione dei giovani medici e la
ricerca di nuovi indici diagnostici. Nel corso dello studio sono stati arruolati 426 volontari (54% donne e 46% uomini), tra cui sono stati individuati 55 casi di melanoma. Di ciascun partecipante sono stati raccolti dati anagrafici, caratteristiche fenotipiche, storia clinica e familiare della patologia, eventuali terapie in corso e modalità di esposizione al sole. Sono state registrate sia la diagnosi preliminare della lesione, effettuata dal medico tramite dermatoscopio, sia quella istopatologica, basata sull’analisi dei campioni prelevati chirurgicamente. Le immagini dermatoscopiche e istopatologiche delle lesioni caricate sulla piattaforma sono state analizzate da algoritmi di intelligenza artificiale, addestrati per riconoscere automaticamente i melanomi e stimare alcuni indici prognostici associati alla patologia.
Nel processo di sviluppo del modello di classificazione, la diagnosi istopatologica effettuata dall’anatomopatologo è stata utilizzata come riferimento per l’addestramento dell’algoritmo. L’intelligenza artificiale apprende a distinguere le lesioni cutanee a partire da specifiche caratteristiche visive (features), associate alle rispettive diagnosi istopatologiche. Una volta addestrato, il modello è in grado di classificare nuove immagini dermatoscopiche mai analizzate in precedenza.
L’accuratezza del classificatore automatico si è rivelata molto elevata, raggiungendo l’86,79%. In confronto, l’accuratezza della sola diagnosi preliminare effettuata dal medico tramite dermatoscopio si attesta all’80,55%.
Nello studio TELEMO è stata utilizzata anche la spettroscopia Raman, tecnica avanzata disponibile presso l’Istituto di biofisica del Cnr di Pisa, in grado di fornire un’impronta molecolare dei tessuti biologici. Irradiando i campioni con luce laser, è possibile ottenere informazioni dettagliate sulla loro composizione chimica. (P. S.).
Una ricerca condotta dall’Istituto per lo studio degli impatti antropici e sostenibilità in ambiente marino del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ias) in collaborazione con l’Istituto di studi sul Mediterraneo (Cnr-Ismed), ha analizzato la biodiversità marina a livello planctonico presente di fronte alla costa meridionale della Sicilia, nel Canale di Malta.
Le risultanze, pubblicate sulla rivista Frontiers in Earth Science, evidenziano la stretta relazione tra l’andamento delle correnti marine superficiali con la variazione della presenza in situ della comunità ittica locale a livello larvale.
Bernardo Patti, ricercatore del Cnr-Ias e primo autore della ricerca, ha spiegato: «L’area a sud di Capo Passero, dove abbiamo realizzato lo studio, è una zona che offre condizioni favorevoli per lo sviluppo di un grande numero di specie ittiche, configurandosi come un importante hotspot di biodiversità marina. Analizzando i campioni raccolti in 16 anni di campagne oceanografiche estive abbiamo notato un andamento ciclico per quanto riguarda la presenza di larve di pesce, che è direttamente legato all’alternanza della modalità ciclonica e anticiclonica delle correnti nel Mar Ionio.
Questa alternanza è causata dal BiOS, il cosiddetto sistema bimodale adriatico-ionico, che prevede un’oscillazione delle correnti superficiali ioniche, le quali periodicamente invertono la direzione della loro circolazione». Il BiOS è un argomento di studio attivo per gli scienziati, che utilizzano modelli matematici e dati osservazionali per comprendere meglio questo fenomeno e le sue conseguenze per la circolazione termoalina del Mediterraneo.
Gli effetti di questo movimento alternato delle acque dello Ionio hanno un impatto considerevole sulla variazione di densità e biodiversità delle larve studiate dai ricercatori dell’I-
LA BIODIVERSITÀ MARINA
NEL MEDITERRANEO
Il legame con le correnti marine
I risultati su Frontiers in Earth Science
smed. Patti ha così concluso: «La modalità ciclonica, con il suo movimento antiorario, è in grado di intensificare la struttura frontale che caratterizza l’area di studio. Questo fenomeno, frutto dell’aumento di salinità e di densità dell’acqua che si osserva procedendo verso est, crea una sorta di barriera naturale per gli organismi trasportati dalla corrente.
Ciò favorisce la ritenzione e la sopravvivenza delle larve, il cui aumento di biodiversità può essere influenzato anche da un meccanismo di trasporto proveniente dalle aree settentrionali ioniche. Al contrario, la modalità
anticiclonica indebolisce la struttura frontale facilitando lo spostamento e la conseguente dispersione delle larve in mare aperto, nello Ionio, dove le condizioni oligotrofiche, caratterizzate da scarsità di nutrienti e di sostanze organiche, sono sfavorevoli allo sviluppo larvale».
Lo studio apre la strada a ulteriori ricerche sulla relazione tra i modelli di circolazione superficiale e le popolazioni ittiche, anche in funzione dell’impatto che il cambiamento climatico, in termini di aumento delle temperature delle acque, potrà avere su questi processi nel prossimo futuro. (P. S.).
Le nuove tecnologie per batterie sostenibili si ispirano ai processi biologici per ridurre l’impatto ambientale
L’energia è il motore di ogni attività umana e le batterie si stanno affermando come una fonte che avrà un ruolo sempre più determinante nella transizione verso un futuro sostenibile. Tuttavia, la produzione e lo smaltimento delle batterie “tradizionali” comportano costi ambientali elevati.
Per affrontare questa sfida, gli scienziati stanno esplorando soluzioni bio-ispirate, prendendo spunto dai processi naturali per sviluppare unità di alimentazione più efficienti e meno impattanti. Le batterie tradizionali si basano su reazioni di ossidoriduzio-
ne per generare energia, un principio che, curiosamente, è alla base di molti processi biologici. Gli organismi viventi utilizzano meccanismi simili per produrre energia, come avviene ad esempio nella respirazione cellulare. Questo ha spinto i ricercatori a studiare approfonditamente i sistemi biologici per lo sviluppo di nuove fonti sostenibili. Tra gli approcci più promettenti vi è l’uso di materiali biodegradabili e rinnovabili: alcune ricerche hanno infatti dimostrato che è possibile utilizzare polimeri naturali derivati da piante per creare elettroliti ecologici, che insieme all’impiego
di batteri capaci di generare elettricità potrebbero aprire nuove strade per la produzione di energia pulita. Le prospettive offerte dalle batterie bio-ispirate sono veramente varie ed interessanti. Ad esempio, il progetto “Orangees”, sviluppato in collaborazione con il Consiglio Nazionale delle Ricerche e altri istituti italiani, sta studiando l’utilizzo di scarti organici per la produzione di batterie “verdi”: materiali come caseina, cheratina e cellulosa vengono analizzati per verificare la loro efficienza nella creazione di membrane ed elettrodi ecosostenibili.
Parallelamente, alcuni studi pubblicati su “MDPI” hanno evidenziato il potenziale delle bio-batterie basate su processi bio-catalitici e biomateriali. Queste ricerche suggeriscono che l’impiego di proteine capaci di facilitare il trasferimento di elettroni potrebbe migliorare la capacità di accumulo energetico, mentre l’uso di batteri elettrogenici potrebbe rivoluzionare il modo in cui produciamo energia. Queste innovazioni potrebbero trasformare il settore energetico rendendolo meno dipendente da materiali rari e inquinanti.
Tuttavia, ci sono ancora diversi nodi da sciogliere, ad esempio sulla stabilità dei materiali biologici, sull’autonomia di queste fonti energetiche e, ovviamente, sulla possibilità di una loro produzione in larga scala. Nonostante questa serie di aspetti fondamentali da risolvere affinché tali tecnologie possano affermarsi, la crescente domanda di soluzioni sostenibili sta spingendo la ricerca sempre più avanti, e nei prossimi anni potremmo assistere a una svolta significativa nel settore energetico.
Ispirandosi ai processi naturali gli scienziati stanno sviluppando soluzioni innovative che contribuiranno con decisione a un futuro più pulito e sostenibile, e le batterie bio-ispirate sono una frontiera molto promettente e pienamente partecipe in questo futuro. (M. O.).
La lotta contro il cancro ha compiuto un significativo passo avanti grazie a una nuova tecnologia sviluppata dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), in collaborazione con La Sapienza Università di Roma. Si tratta di una sonda innovativa, capace di individuare tumori in fase iniziale con una precisione senza precedenti, aumentando le possibilità di una diagnosi precoce e di un intervento tempestivo.
Questo strumento, denominato Beta Probe 1, sfrutta particelle emesse da radiofarmaci per guidare i chirurghi con estrema accuratezza, riducendo il rischio di lasciare cellule tumorali residue. La sua tecnologia si basa sul principio della chirurgia radioguidata, che utilizza l’emissione di particelle β (positroni/elettroni) da un radiofarmaco capace di legarsi selettivamente alle cellule tumorali.
Questo permette ai medici di identificare con precisione anche le lesioni microscopiche più difficili da distinguere dai tessuti sani, migliorando la qualità dell’asportazione chirurgica e riducendo le possibilità di recidive post-intervento. Inoltre, la sua natura meno invasiva contribuisce a migliorare il benessere post-operatorio dei pazienti, riducendo loro il dolore e le complicazioni legate alla chirurgia tradizionale.
A questo si aggiunge il potenziale utilizzo della sonda in ambiti diagnostici ancora inesplorati, come il trattamento di tumori rari o particolarmente aggressivi, dove la necessità di una rimozione precisa è fondamentale per garantire il successo terapeutico. La sonda è il risultato di anni di studi condotti nei laboratori dell’INFN e dell’ateneo romano, in collaborazione con esperti di medicina nucleare e chirurgia oncologica. A guidare il progetto sono stati i ricercatori Riccardo Faccini e Francesco Collamati, che hanno sviluppato questo straordinario dispositivo attraverso l’utilizzo di
SONDA INNOVATIVA
CONTRO I TUMORI
Un dispositivo rivoluzionario rileva con precisione tumori nascosti, migliorando la chirurgia oncologica
tecniche di imaging tradizionali. Beta Probe 1 rappresenta anche un esempio virtuoso di trasferimento tecnologico, dimostrando come la ricerca scientifica possa tradursi in innovazioni concrete per la salute pubblica. Radiantis Research, uno spin-off dell’INFN, ha acquisito il brevetto della sonda e sta lavorando alla certificazione CE, passaggio fondamentale per la sua commercializzazione e distribuzione a livello internazionale. L’obiettivo è quello di rendere questa tecnologia disponibile nei principali centri oncologici, affinché possa essere utilizzata nella pratica clinica quo -
tidiana. L’introduzione di Beta Probe 1 potrebbe rivoluzionare la chirurgia oncologica, e oltre ai benefici diretti per i pazienti, questa tecnologia potrebbe anche ridurre i costi sanitari legati a interventi ripetuti o a trattamenti prolungati dovuti a recidive tumorali.
La salvaguardia del patrimonio artistico può diventare un’opportunità professionale Tecniche veloci e non invasive per proteggere libri, tessuti, giardini e reperti storici
BIOLOGI E BENI CULTURALI PRESTO LA SCUOLA DI RESTAURO DELLA FNOB
Un fascio di raggi gamma per restituire tutto il suo splendore alla riproduzione della testa di Ramses II. Il restauro della testa della mummia del faraone più grande, acclamato e potente dell’impero egizio, vissuto tra il XIV e il XIII secolo a.C. ed eseguito nella facility di irraggiamento Calliope presso il centro ricerche ENEA di Casaccia, a Roma, è solo l’ultimo esempio, in ordine di tempo, delle incredibili potenzialità offerte dal binomio tra biologia e beni culturali. Un’accoppiata vincente che potrebbe dischiudere interessanti opportunità. I biologi infatti, in virtù della loro formazione multidisciplinare, nonché della combinazione tra le loro conoscenze e le tecniche di conservazione più innovative, possono intervenire con grande efficacia nella protezione, nel recupero e nel restauro delle opere d’arte. Ne è convinto il presidente FIB e FNOB Vincenzo D’Anna, che in occasione di un convegno tenuto a fine febbraio a Roma ha annunciato una splendida iniziativa. «Abbiamo intenzione di aprire una scuola per i biologi restauratori», l’annuncio del presidente. «Riteniamo che l’immenso patrimonio artistico dell’Italia, che rappresenta il 60% di tutti i beni architettonici e monumentali del mondo, possa assorbire questi professionisti nell’opera di salvaguardia e conservazione di questo immenso patrimonio italiano». Un modo per mettere al servizio dei beni culturali il bagaglio di competenze degli studenti di biologia e per offrire agli stessi biologi, in particolare ai più giovani, un nuovo sbocco professionale: «C’è la volontà di indicare ai giovani biologi che intendono riconvertire la loro professione un’altra strada di formazione, un’opportunità professionale nel campo dei beni monumentali, architettonici, delle opere d’arte. I biologi in quanto tali sono in grado di decontaminare queste opere, soprattutto quelle che sono a contatto con gli agenti atmosferici, affinché si preservino e si possano restaurare riportandoli all’originaria bellezza».
visitatori ha trasferito su questo modello della mummia», ha spiegato la dottoressa Alessia Cemmi, responsabile della facility Calliope del dipartimento nucleare ENEA. «La testa del faraone è stata sottoposta a un irraggiamento con radiazioni gamma che ha rimosso la patina stessa che l’aveva danneggiata. Nei prossimi mesi tratteremo le altre parti della riproduzione, completando il trattamento e rimuovendo patine e microorganismi da tutto il corpo». I tessuti, i libri, le pergamene e più in generale tutti i beni culturali costituiti da materiali naturali sono esposti al rischio di essere danneggiati da muffe, insetti, funghi e da altri organismi. L’intervento dei biologi è efficace perché consente il recupero e la salvaguardia dei beni attraverso metodi assolutamente naturali, senza l’utilizzo di prodotti chimici oppure pericolosi per la salute. «La tecnica dei raggi gamma non produce radiattività, non fa diventare radiattivo nulla di quello che si irraggia», ha aggiunto la dottoressa Cemmi. «Queste tecnologie sono applicate da decenni in paesi europei ed extraeuropei, mentre in Italia soltanto da due anni». La tecnica è veloce e non invasiva: «I beni da trattare sono esposti alle radiazioni gamma all’interno di un impianto di irraggiamento, le radiazioni passano attraverso il materiale e durante il passaggio distruggono a livello di DNA tutti i microorganismi o gli insetti dannosi per il bene. La durata del trattamento varia a seconda delle dimensioni e della consistenza dell’opera».
D’Anna: «Abbiamo intenzione di aprire una scuola per i biologi restauratori, riteniamo che l’immenso patrimonio artistico dell’Italia, che rappresenta il 60% di tutti i beni architettonici e monumentali del mondo, possa assorbire questi professionisti nell’opera di salvaguardia e conservazione di questo immenso patrimonio italiano»
Quello della testa della mummia del faraone egiziano è un esempio emblematico delle possibilità di intervento dei biologi. La riproduzione tridimensionale in scala 1:1 della testa di Ramses, realizzata per la mostra multisensoriale dell’Università Roma Sapienza dal titolo «La mummia di Ramses, il faraone immortale», si era infatti ricoperta di una patina biancastra in seguito all’esposizione e al contatto con il pubblico. «Una conseguenza inevitabile dell’azione dei microorganismi che la pelle delle mani dei
Oltre alla riproduzione della testa di Ramses, nel centro di ricerche ENEA si è intervenuti su dei libri antichi: «Anche dei libri provenienti dall’Abbazia di Montecassino sono stati trattati allo stesso modo, dei volumi del XV secolo sottoposti all’azione dei microorganismi e ora perfettamente recuperati». L’irradiazione gamma, finalmente adottata anche in Italia, è già una realtà consolidata in Francia, dove nel passato più e meno recente si è intervenuti con successotra le altre cose - su un piccolo di mammut congelato, colpito dal batterio dell’antrace. Ma gli strumenti a disposizione e i campi d’intervento dei biologi sono potenzialmente infiniti. Basti pensare non solo alle opere conservate al chiuso, ma a quelle situate all’aperto come orti e giardini storici, reperti sottomarini, resti di cibo ritrovati all’interno di anfore o vasi antichi: tutti esempi utili a comprendere le smisurate possibilità d’azione e di messa in campo di strumenti efficaci, volti alla salvaguardia del patrimonio artistico. (R. D.).
AZZURRO PALLIDO GATTUSO NUOVO CT PER “DESTARE” L’ITALIA
DEL CALCIO
La sconfitta con la Norvegia, l’esonero di Spalletti e poi la scelta dell’ex campione del mondo È stato un mese movimentato per la Nazionale
di Antonino Palumbo
Gennaro Gattuso.
L’Italia non s’è desta e forse che la Nazionale di calcio torni agli antichi fasti non importa proprio a tutti. Nei desideri si, magari nei proclami. Ma se gli azzurri rischiano seriamente di mancare il terzo mondiale consecutivo (malgrado un Europeo vinto quattro anni fa) e mai nulla cambia nel sistema, se i candidati ct fanno a gara a non accettare, i giocatori s’impermalosiscono o giocano a marce ridotte, se i club la vedono come un intralcio agli interessi aziendali (e del resto di società italiane ne sono rimaste poche), ecco, sono in tanti i segnali decisamente poco incoraggianti anche per il futuro.
Sembravamo tornati in carreggiata, dopo un Europeo pieno di errori, che aveva visto gli azzurri rischiare di uscire ai gironi prima del gol di Mattia Zaccagni con la Croazia, per poi salutare nel primo dei match a eliminazione diretta contro una Svizzera apparsa - al confronto - gigantesca. Certo, qualche segnale di preoccupazione c’era perché, dopo un brillante e quasi netto percorso nel girone di Nations League, l’Italia era caduta per 3-1 a Milano con la Francia a novembre, per poi essere eliminata dalla Germania ai quarti. Imbarazzante il 3-0 rimediato nel primo tempo della sfida di ritorno a Dortmund, parzialmente lenito dalla reazione e dal 3-3 finale che aveva comunque qualificato i tedeschi.
A segnare, però, la fine dell’esperienza di Luciano Spalletti sulla panchina della Nazionale di calcio è stato il 3-0 rimediato dalla Norvegia, al debutto delle qualificazioni per i prossimi Mondiali di calcio. Testa a testa non banale, perché solo la prima del girone passa il turno senza dover transitare dagli spareggi, e gli scandinavi guidati dal fortissimo centravanti Haaland sono i rivali numero 1 dell’Italia. Non a caso, dopo quattro partite hanno già inanellato 12 punti e vantano una differenza reti (prima voce da considerare, in caso di arrivo ex-aequo) nettamente migliore degli azzurri, che si sono ul-
teriormente complicati la vita battendo solo per 2-0 la modesta Moldavia cui la Norvegia ha segnato ben cinque gol in trasferta al debutto nel girone.
Non ci siamo arrivati al meglio, ai primi due appuntamenti del girone che mette in palio il pass per il Mondiale. A cominciare dalla difesa, base per costruire le vittorie, almeno quelle azzurre. Priva del napoletano Buongiorno, dell’ex bolognese Calafiori, snobbata dall’interista Acerbi ancora risentito con il ct (ormai ex) Spalletti, la Nazionale ha dovuto rinunciare anche al milanista Gabbia, allo juventino Gatti acciaccato, a Scalvini e a Leoni. A Oslo ha giocato Coppola, un debuttante. Fra i convocati è rientrato Rugani, da tempo fuori dai radar.
A centrocampo si è dovuto rinunciare allo juventino Locatelli, davanti a Moise Kean. Non ché i presenti, va detto, siano stati meno assenti. In tanti sono arrivati spremuti all’appuntamento, come gli interisti Bastoni, Barella e Di Marco, lontani parenti dei brillanti interpreti di calcio spesso paragonati ai top mondiali dei rispettivi ruoli.
Ai ragazzi è spesso imputata la mancanza di attaccamento alla maglia, di determinazione, di abnegazione.
Eppure sono gli stessi che lo scorso autunno espugnavano per 3-1 Parigi e ridimensionavano il Belgio. Spalletti è stato accusato di essere troppo spigoloso e non aver dato armonia al gruppo. Il presidente federale Gravina è invece bersagliato per non aver fatto abbastanza per cambiare, davvero, un sistema che stenta a produrre e lanciare talenti, malgrado nelle varie nazionali under arrivino successi e podi a livello continentale e mondiale.
La Nazionale, almeno quella di oggi, sembra quasi una “rottura di scatole”, un’Indesiderata anche per chi è chiamato ad allenarla. Pensare che un allenatore possa declinare l’invito ad allenarla, suona quasi blasfemo. Eppure. La candidatura di Stefano Pioli sembra essere tramontata per l’impegno preso con la Fiorentina, quella di Claudio Ranieri - dopo, pare, un accordo che riguardava anche i collaboratori - si è scontrata con un inatteso “No, grazie”.
Le stesse reazioni dei tifosi verso gli interessati - imbufalite prima, grate e sollevate una volta appreso del rifiuto - sono la fotografia del fatto che si vorrebbe “la botte piena e la moglie ubriaca”, ovvero una Nazionale che ci riempia gli occhi e provochi caroselli per le strade, a patto però di non rompere le uova nel paniere al club per cui si tifa.
In attesa di capire se e come si può tornare a sfornare centravanti che fanno gol, centrocampisti completi, difensori che difendono, uomini che danno il 100 per cento per la maglia azzurra, in attesa insomma di ridare qualità alla “rosa”, la FIGC ha passato la prima parte di giugno a sfogliare la margherita per trovare un nuovo commissario tecnico.
La Nazionale, almeno quella di oggi, sembra quasi una “rottura di scatole”, un’Indesiderata anche per chi è chiamato ad allenarla. Pensare che un allenatore possa declinare l’invito ad allenarla, suona quasi blasfemo.
Si è parlato di un ritorno di Mancini, il ct dell’Europeo vinto e del secondo Mondiale mancato di fila, pentito dopo le dimissioni del 2023. E si è parlato di soluzioni “esotiche” come Mourinho, Benitez e Tedesco. Il 15 giugno è stato annunciato il “sì” di Gennaro Gattuso: il 23esimo ct della Nazionale italiana.
Dal 5 luglio torna la “Grande Boucle” con l’atteso duello fra Pogacar e Vingegaard nel quale proverà a inserirsi Evenepoel L’Italia tifa per Ganna e Milan
Jonas Vingegaard.
Un Tour de France tutto francese, dall’inizio alla fine. Il ritorno sugli Champs Elysées per il gran finale, quello del Mont Ventoux lungo il percorso. E un’altra grande battaglia sportiva all’orizzonte fra due giganti come Tadej Pogacar e Jonas Vingegaard, l’uno campione del mondo e vincitore dell’edizione 2004, l’altro capace di battere il rivale per due volte sul podio finale della Grande Boucle.
Quella al via il 5 luglio, insomma, si prospetta come un’altra edizione memorabile, impreziosita da altri corridori (come il bi-olimpionico Remco Evenepoel e gli italiani Filippo Ganna per le cronometro e Jonathan Milan per gli sprint) pronti a dire la loro su diversi terreni. E intanto la seconda parte della primavera ci ha regalato un Giro d’Italia incerto ed emozionante fino alla fine, seppur privo di “fenomeni” assoluti, nonché un Giro del Delfinato dove i vari Pogacar, Vingegaard, Evenepoel e Mathieu Van der Poel non hanno certo lesinato lo spettacolo, sin dalle primissime tappe.
Non sono stati certo i pronostici a trionfare al Giro d’Italia. I grandi favoriti, l’esperto e poliedrico Primoz Roglic e l’arrembante spagnolo Juan Ayuso sono stati fiaccati dalle cadute (anche se Ayuso si è ritirato per gli effetti della puntura di un calabrone) e hanno ceduto il campo ad altri protagonisti. Primo fra tutti il messicano Isaac Del Toro, compagno di squadra dell’iberico all’Uae Team Emirates Xrg. E poi Richard Carapaz, ecuadoregno, già vincitore del Giro d’Italia e secondo a 43” a due tappe della fine, ovvero alla partenza della Verrès-Sestriere. La frazione che ha stravolto l’ordine d’arrivo.
È stato il britannico Simon Yates della Visma-Lease a Bike a prendersi il Giro d’Italia, proprio sugli sterrati di quel Colle delle Finestre che nel 2018 lo avevano visto cedere lo scettro a beneficio di Chris Froome. Tappa incredibile, tattica perfetta del team olandese che ha mandato in fuga un gigantesco Wout van Aert e ha beneficiato sia del
suo lavoro per Yates, sia del vicendevole e letale marcamento fra Del Toro e Carapaz, incapaci di reagire e finiti a oltre cinque minuti da Yates. A festeggiare la vittoria di tappa è stato l’australiano Chris Harper, davanti al generoso e inconsolabile lucano Alessandro Verre. Terzo Yates a 1’58” e strada spianata per il trionfo a Roma. Menzione speciale, comunque, per Wout van Aert. Vincitore della tappa con arrivo a Siena, dopo lo spettacolo sugli sterrati della “Strade Bianche”, secondo a Vicenza dietro Mads Pedersen (che ha chiuso con 4 successi parziali), il belga si è confermato prezioso cesellatore di sogni dei compagni, dopo essere già stato decisivo per i Tour di Vingegaard nel 2022 e nel 2023.
Al Giro del Delfinato Tadej Pogacar ha aggiornato i suoi record, arrivando a quota 99 vittorie e “riservando” la centesima per il prossimo Tour de France. Ha iniziato presto, in una prima tappa che ha visto i Big 4 suonarsele di santa ragione e lo sloveno imporsi su Vingegaard, Van der Poel ed Evenepoel. Poi, digerito il distacco nella cronometro vinta da quest’ultimo, gli ha sfilato la maglia nella sesta frazione, con striscione a Combloux, a coronamento di una prestazione devastante.
Sulla Cote de Domancy si è tolto di ruota Vingegaard senza neppure alzarsi sui pedali, guadagnando un minuto sul danese in otto chilometri e quasi due su Evenepoel, potenziale “terzo incomodo” al prossimo Tour de France. Il giorno dopo, ai 1800 metri di Valmeinier, il campione del mondo si è ripetuto vincendo in solitaria, Jonas (che era al rientro dopo tre mesi) ha limitato i danni a 14 secondi, gli altri sono arrivati molto più dietro. Come sottolineato da alcuni commentatori, fra cui l’ex ct azzurro Davide Cassano, senza miglioramenti in salita difficilmente Evenepoel potrà inserirsi nel duello Pogacar-Vingegaard alla Grande Boucle 2025.
Dal 5 luglio torna il Tour de France. E ci sarà subito una chance per l’italiano Milan, nella frazione con partenza e
Dal 5 luglio torna il Tour de France. E ci sarà subito una chance per l’italiano Milan, nella frazione con partenza e arrivo a Lille. Il Mont Ventoux, il Gigante della Provenza, attende il Tour il 22 luglio con i suoi 15,7 km dalla pendenza media dell’8,7 per cento.
arrivo a Lille. La concorrenza è elevata, ma la qualità c’è. Dedicata a specialisti puri la prima cronometro del Tour, 33 km in quel di Caen, il 9 luglio. Previste scintille nella sesta tappa, che si concluderà a Vire Normandie dopo oltre 200 km e 3500 metri di dislivello, ideale per gli attaccanti anche la successiva con conclusione a Mure de Bretagne Guerlédan. Nel giorno della festa della Repubblica francese, il 14 luglio, si preannuncia spettacolare anche lo show nel cuore della Francia, con sette salite e ascesa finale a Le Mont-Dore. Per gli aspiranti al successo finale, da segnare in rosso è però la tappa numero 12, con ascesa finale verso Hautacam. Sui Pirenei anche la cronoscalata del Peyresourde e la frazione che termina, in salita, a Luchon-Superbagnères.
Il Mont Ventoux, il Gigante della Provenza, attende il Tour il 22 luglio con i suoi 15,7 km dalla pendenza media dell’8,7 per cento. Due giorni dopo, le Alpi, con la Vif-Courchevel Col de la Loze, la più impegnativa del Tour con 5.500 metri di dislivello in 171 km. E se ancora ci sarà qualcosa da decidere, ci penseranno le cinque salite sui 130 km della terzultima tappa. (A. P.).
NUOTO, TADDEUCCI REGINA
D’EUROPA NEL FONDO
Oro nella 5 km agli Europei di Stari Grad, argento nella 10 km e in staffetta. Successo anche per Paltrinieri
L’argento all’esordio nella 10 km, quello nella staffetta mista e il bronzo solo sfiorato nella 3 km knockout sprint. Ma, soprattutto, la splendida medaglia d’oro nella 5 km, prima vittoria continentale in una gara individuale.
Quelli disputati a Stari Grad, alias Cittàvecchia, in Croazia sono stati anche gli Europei di Ginevra Taddeucci, 28enne nuotatrice di fondo fiorentina, già iridata a squadre e bronzo olimpico a Parigi. C’è senz’altro il suo nome, fra quelli di magnifici professionisti come Kristóf Rasovszky, Bettina Fábián, Viktória Mihályvári-Farkas
e Dávid Betlehem, trascinatori di un’Ungheria “piglia-quasi-tutto”, cinque ori su sette (più due piazze d’onore) ad eccezione, appunto, della 5 km femminile firmata da Taddeucci e di quella maschile vinta da Gregorio Paltrinieri. Quel po’ che restava l’hanno preso la Francia di Logan Fontaine e Marc Antoine Olivier, due argenti e due bronzi, terza nel medagliere dietro l’Italia che ha chiuso con due ori e due argenti, e poi la Spagna con un argento e un bronzo e la Germania con due terzi posti.
Dopo l’argento nella 10 km a meno di tre secondi da Mihályvári-Farkas,
Ginevra Taddeucci ha vinto la medaglia d’oro nella seconda giornata della manifestazione, chiudendo la 5 km con il crono di 59’51”95. La 27enne fiorentina, tesserata per Fiamme Oro e AC Group Canottieri Napoli e allenata da Giovanni Pistelli, ha disputato una gara da assoluta protagonista, mantenendo la leadership sin dai primi passaggi e resistendo fino alle ultime bracciate agli attacchi della stessa Mihályvári-Farkas, staccata infine di 1”99.
A completare il podio la spagnola Maria De Valdes Alvarez, terza in 59’55”03. Già a podio in gare individuali in Coppa del Mondo anche quest’anno, Ginevra Taddeucci consolida così ulteriormente il suo status tra le grandi del fondo: «Sono molto contenta - ha commentato l’azzurraper il mio primo titolo europeo. È stata una gara molto dura dopo le fatiche della 10 km nella giornata d’apertura. Cercavo la scia, ma c’era confusione nelle retrovie. Pensavo di partire prima, ma avevo risorse limitate e quindi negli ultimi 800 metri ho cercato di spingere il più possibile. Ci ho creduto fino alle fine ed è andata bene».
Taddeucci sta vivendo un momento apicale della carriera, che gli appassionati confidano possa durare a lungo. Campionessa d’Europa con la staffetta a Roma 2022, negli ultimi tre anni Ginevra ha vinto l’oro mondiale in staffetta a Fukuoka 2023 e conquistato una serie di podi (anche individuali) fra Europei e Mondiali, oltre al magnifico bronzo alle Olimpiadi lo scorso agosto. Prossimo appuntamento, a brevissimi, i Campionati mondiali di nuoto in programma a Singapore dall’11 luglio al 3 agosto. Con lei, fra gli altri, nel fondo ci sarà anche un “Greg” Paltrinieri in cerca di riscatto nella 10 km, dopo il quarto posto al fotofinish agli Europei che gli ha lasciato un certo amaro in bocca. Il fuoriclasse emiliano era del resto il campione uscente. La concorrenza, per entrambi, sarà decisamente agguerrita ma se la giocheranno. (A. P.).
Ventitré anni ancora da compiere, diciotto di medaglie continentali e un oro che sa di consacrazione. Lei è Chiara Pellacani, tuffatrice romana tesserata per Fiamme Gialle ed Mr Sport F.lli Marconi, fresca medaglia d’oro nel trampolino da un metro ai Campionati europei di tuffi. Una gara perfetta, quella dell’azzurra, già bronzo a Budapest 2021 e Roma 2022, che stavolta ha inanellato una serie di tuffi ampiamente sopra la sufficienza e un doppio salto mortale e mezzo rovesciato raggruppato praticamente perfetto, che le ha fruttato 64 punti e mezzo. Grazie alle routine extralusso, l’azzurra ha trionfato con 283,75 punti, facendo nettamente meglio della svedese Elna Widerström (267,10) e della svizzera Michelle Heimberg (265,90).
Giovane di anni, Chiara. Ma esperta di tuffi. E di azzurro. Il suo esordio in nazionale maggiore l’ha fatto a 14 anni, agli Europei di Kiev nel 2017, classificandosi quarta nella gara sincronizzata dalla piattaforma, in coppia con Noemi Batki, e al quinto nel Team Event con Vladimir Barbu. L’anno dopo, agli Europei di Glasgow, a soli 15 anni e 11 mesi ha vinto l’oro nel sincro 3 metri, in coppia con Elena Bertocchi. E nel 2019 si è ripetuta nella piattaforma 10 metri, con Noemi Batki. Poi non si è più fermata, mentre proseguiva i suoi studi negli Stati Uniti, prima alla Louisiana State University, poi nel 2023 alla University of Miami.
Cinque podi totali a Euro 2020 a Budapest, prima medaglia mondiale sempre nella capitale ungherese due anni dopo nel sincro 3m misto con Matteo Santoro, seguita da quelle di Fukuoka e Doha. E nella rassegna continentale di Roma 2022 ha chiuso con due ori, un argento e due bronzi. L’anno scorso, alle Olimpiadi di Parigi, si è piazzata quarta sia nel sincro con Bertocchi, sia nel trampolino 3 metri. Ma l’ha presa con filosofa: “Spero di emulare Tania (Cagnotto) che dopo i due quarti posti di Londra 2012, conquistò due bronzi alle
PELLACANI, COSÌ GIOVANE MA GIÀ ESPERTA
La 22enne romana ha emulato Cagnotto e Bertocchi nel trampolino 1 metri, andando a podio anche in altre due gare
Olimpiadi successive di Rio”. Già vincitrice della medaglia d’oro nel trampolino 1 metro nel campionato universitario Usa Ncaa a Seattle, a inizio primavera, Pellacani ha regalato numeri d’alta scuola agli Europei. Prima di lei, a vincere l’oro dal metro erano state, più volte, solo Tania Cagnotto ed Elena Bertocchi. All’oro di questa specialità Chiara ha sommato un argento nel sincro 3 metri misto con Santoro e il bronzo nella prova a squadre con lo stesso Santoro, Riccardo Giovanni e Sara Jodoin Di Maria nella giornata d’apertura. L’argento nel mixed, in realtà, sa di beffa perché Chiara e Matteo erano in testa
fino alla quarta routine, prima di essere scavalcati dai tedeschi Avila-Hentschel che li hanno battuti per tre centesimi di punto: 289,74 a 289,71.
L’Italia ha chiuso gli Europei con otto medaglie, due ori, quattro argenti e due bronzi, chiudendo terza nel medagliere alle spalle di Ucraina (5,1,1) e Germania (3,5,4). Oltre a Pellacani, a conquistare la vittoria è stata Sara Jodoin Di Maria nella piattaforma 10 metri. Argenti anche per Lorenzo Marsaglia nel trampolino 1 metri, l’accoppiata Tocci-Marsaglia nel sincro 3 metri e il duo Jodoin Di Maria-Giovannini nel sincro 10 metri. (A. P.).
NEL TEMPO E NELLO SPAZIO NESSUNO È IMMUNE ALL’OMBRA
Dalla letteratura alla scienza sulle tracce di un elemento tanto affascinatne quanto sfuggente
di Anna Lavinia
Lauretta Colonnelli
La vita segreta delle ombre
Marsilio, 2025 - 20,00 euro
Non aveva torto Shakespeare quando scriveva che la vita altro non è che un’ombra che cammina. Sono tante le forme dell’ombra eppure la sua chiave di lettura è sempre connotata nell’oscurità e nel brutto per via di quella caratteristica naturale che la contrappone indissolubilmente alla magnifica luce.
La nefasta ombra fa paura nonostante sia nostra compagna fedele, è attaccata costantemente al nostro corpo e nascosta perfino dentro di noi. Nella nostra parte più oscura, quella che trova spazio nell’inconscio. Non esiste al mondo individuo senza ombra e nessun uomo può dirsi davvero completo se non l’accetta e la fa interagire con la sua luce.
Per l’autrice, l’ombra è una fascinazione (e forse un’ossessione), un fenomeno dato troppo per scontato che cela scoperte e conoscenze rivoluzionarie. All’ombra dell’ulivo è nata la cultura del Mediterraneo, sotto quella del platano ha insegnato la sua filosofia Platone e solo calcolando la misura dei piedi nell’ombra riflessa a terra si è potuto conoscere l’ora nei diversi periodi dell’anno. Un’indagine letteraria alla ricer-
ca dell’assenza-presenza più curiosa del mondo. C’è anche quando non si vede: è la prova della realtà, esiste al buio e dà il meglio di sé alla luce.
Non tutti sanno che Totò ha girato gran parte dei suoi film nell’oscurità, ovvero da cieco. Nel buio ha attuato la sua arte, molte delle opere sono state realizzate nell’ombra più nera. Le tenebre, il colore nero, il visibile e l’invisibile hanno attraversato il cinema, la sua storia ha inizio proprio nella penombra di un seminterrato a Parigi una sera di fine dicembre del 1895. Dal Limbo nero di Anish Kapoor ai “calamari” sotto gli occhi di Anna Magnani fino al prodigio di Viganella, nel tempo e nello spazio nessuno è immune all’ombra.
Nella cultura occidentale, questa è legata all’oscurità e al male. Ma non è così per tutti, soprattutto per l’Oriente dove un tempo i giapponesi preferivano vivere nell’ombra più totale. Le loro case costruite interamente al riparo dalla luce, venivano tirate su a partire dal tetto per poi passare all’interno.
È proprio nelle costruzioni che si insinua una particolare superstizione lucana che metteva in guardia chi passava accanto ad una casa
in fabbricazione: ad essi avrebbero rubato l’ombra per assicurare una dimora solida e durevole. Una sorta di sacrificio umano, i malcapitati erano destinati a morire entro l’anno.
C’è poi chi trova nell’ombra un rifugio, quelli che sono profondamente attratti dal buio. Una propensione significativa nello scavare sotto terra per puro piacere. Alcuni di questi casi vengono considerati una terapia per l’essere umano, nel ventre della terra scoprono la loro felicità.
Un scrittura curiosa e coinvolgente ti catapulta nel mito dell’ombra. Vicende e personaggi della letteratura, dell’arte e della scienza legano indissolubilmente la loro vita all’energia oscura più reale che c’è.
Persino l’astrofisica si basa sulla misurazione delle ombre, è proprio così che gli studiosi riescono a misurare l’universo e i suoi confini come la distanza tra le stelle, tra la Terra e il Sole, quella tra le galassie e così via.
Ma se le ombre sono “sorelle della luce” ancorate ai piedi di qualsiasi essere vivente e non vivente, come mai nessuno ne parla? Forse perché come sosteneva Hegel “ciò che è noto non è conosciuto”.
George G. Szpiro
I paradossi del nostro tempo
Apogeo editore, 2025 – 25,00 euro
Nella vita quotidiana può succedere uno strano cortocircuito: quello che in apparenza sembra ovvio si rivela totalmente sbagliato. Attraverso umorismo e matematica, il divulgatore di fama internazionale, guida il lettore nel mondo dei paradossi e illustra sapientemente come dietro ognuno di questi si nasconda una storia avvincente. (A. L.).
Elisa Valteroni
Anoressie
Ponte alle Grazie, 2025 – 20,00 euro
Non lascia spazio ad equivoci il titolo dell’opera della psicologa e psicoterapeuta che fa riferimento alle diverse forme della complessa problematica che appartiene alla vita contemporanea. Domande e soprattutto risposte su anoressia nervosa, bulimia, binge eating, vomiting e alimentazione notturna incontrollata. (A. L.).
Maggie Nelson
Pathemata. O, la storia della mia bocca Nottetempo, 2025 – 14,00 euro
Questa è una storia di ossessione, di paura e di dolore profondo più di quello fisico che attanaglia la bocca quando soffre. Ma la rara patologia della mascella di cui l’autrice è afflitta è solo uno spunto che muove una delle più originali scrittrici contemporanee americane. Come in un diario di una paziente scava nelle passioni del corpo e della vita. (A. L.).
MANGIAMO CON GUSTO MANGIAMO CONSAPEVOLE
Vademecum della sana alimentazione
Ecco il libro di Mariailaria Verderame, una guida preziosa alla corretta nutrizione che mette in guardia dai falsi miti
di Matilde Andolfo
Mariailaria Verderame
Mangiamo con gusto, mangiamo consapevole
D’Amato editore, 2025 - X euro
Si intitola “Mangiamo con gusto mangiamo consapevole”, vademecum della sana alimentazione il libro di Mariailaria Verderame, docente di biologia presso l’Università degli Studi di Salerno e dottore di ricerca in biologia avanzata e biologia nutrizionista.
Presentato al Salone del libro di Torino, l’opera della professoressa Verderame si presenta come una guida precisa e affidabile sul giusto modo di alimentarsi. Un punto di vista importante che coniuga la competenza, la professionalità e la scienza. Un libro da cui si evince che la materia dell’alimentazione appartiene ai soli professionisti della nutrizione soprattutto quando si affrontano tematiche delicate legate a patologie o intolleranze.
A riguardo la professoressa Verderame apre uno squarcio di luce sull’importanza di una dieta corretta per chi è affetto da intolleranze e da malattie fino a poco tempo fa ignora-
te o addirittura negate quali la fibromialgia oppure l’allergia alimentare al nichel offrendo ai pazienti, spesso vittime di una frustrante di sindrome di Cassandra, soluzioni al problema. La scienza della nutrizione continua a progredire nella direzione della salute e del benessere del cittadino.
Pur tuttavia deve fare i conti con una letteratura che di scientifico non ha nulla e che trova terreno fertile per la diffusione di una errata e cattiva informazione nei canali incontrollati dei social e del web: la terra di nessuno dove girano slogan acchiappa like e falsi miti che promettono miracoli. L’autrice mette in guardia il lettore dalle diete modaiole e dalle bufale: una su tutta, la demonizzazione della pizza, il lievito che dovrebbe addirittura lievitare nella pancia.
Il ripristino della verità e della corretta informazione spingono quindi alla riflessione su quanto sia importante affidarsi ai professionisti della nu-
trizione per non incorrere in dannose diete fai da te, soluzioni rapide che possono arrivare a compromettere la salute innescando meccanismi pericolosi come i disturbi del comportamento alimentare. A riguardo la professoressa Verderame dimostra grande competenza dei DCA, i disturbi del comportamento alimentare, epidemia silenziosa, a cui è dedicato un capitolo del libro: disturbi come ortoressia (quando il benessere diventa ossessione) e anoressia sono un problema.
«In Italia - scrive l’autrice -, si stima che circa due milioni di persone soffrono di disturbi del comportamento alimentare e l’incidenza in particolare tra le adolescenti e giovani donne dai 12 ai 25 anni è allarmante». Illuminante il passo in cui si sottolinea che «negli ultimi anni oltre gli aspetti psicologici e socioculturali sono emerse evidenze che suggeriscono una componente genetica biologica nell’insorgenza dei DCA di ricerca scientifica».
Libri
L’insorgenza dell’anoressia potrebbe essere legata a una predisposizione genetica: «si è scoperto che in molte pazienti anoressiche sono presenti anticorpi che agiscono contro gli ormoni che regolano l’appetito, il metabolismo come l’alfa MSH». E poi la fame emotiva quando il cibo diventa una forma di auto consolazione, un tentativo di colmare un vuoto che non ha nulla a che vedere con la necessità di nutrirsi fisicamente, «ma col desiderio di scacciare emozioni dolorose».
Il libro della Verderame è uno spazio in cui il cibo è protagonista ed è in alleato dell’uomo. Non esistono cibi proibiti e non esistono alimenti da bandire. Pane, pasta, farina bianca, fritture e gelato non solo il male assoluto neanche per chi è a dieta. Anzi. Il pane fa ingrassare? «La risposta è no, spiega l’esperta, il pane non è responsabile dell’aumento di peso come per
qualsiasi altro elemento è l’eccesso calorico, indipendentemente, dalla fonte che porta l’accumulo di grasso». Nel libro viene fuori proprio il concetto di armonia tra gusto e piacere personale perché accontentarsi del merluzzo scaldato o della fettina di pollo alla griglia non appaga. Secondo la professoressa Verderame le fritture stimolano il metabolismo e favoriscono addirittura la riduzione del grasso in eccesso. Uno studio, spiega la scrittrice, portato avanti dai ricercatori guidati da Sara Ferretti dell’Università Cattolica di Roma ha dimostrato che «i cibi cotti nell’olio determinano una riduzione della secrezione di inulina e di peptide C con conseguente minore accumulo di grasso soprattutto a livello addominale».
Il trucco sta nel friggere a regola d’arte: coprire totalmente gli alimenti nell’olio con una temperatura di 170 - 180° con un tempo di cottura che deve essere il più breve possibile. Nelle circa duecento pagine, l’autrice affronta molte tematiche anche quelle che fanno discutere dalla pillola anti obesità, Vibes, che vibra stimolando le terminazioni nervose dello stomaco agli alimenti del futuro e di ultima generazione: i grilli, ottima fonte di proteine e sali minerali e la discussa “carne sintetica”. La nuova frontiera dell’alimentazione è la nutrigenetica, secondo l’autrice non siamo solo ciò che mangiamo, ma siamo anche il nostro DNA e la nostra genetica quindi «il nostro
peso spesso non dipende dalle calorie che ingeriamo e bruciamo». In realtà la nostra capacità di perdere o guadagnare peso potrebbe essere influenzata da vari fattori, quella genetica gioca un ruolo fondamentale. Nutrigenetica e nutrigenomica, due discipline che studiano l’interazione tra geni e alimentazione, la nutrigenomica in particolare studia come gli alimenti influenzano i nostri geni: «ognuno di noi è geneticamente unico».
Nel libro grande attenzione è dedicata ai cibi che sono anche una coccola dal caffè al gelato, dalla frutta al cioccolato «il cacao, una storia che affonda le radici oltre il 1500 anni prima di Cristo, dono degli dei coltivato in Messico dalle antiche civiltà Maya, Incas e Aztechi».
“Mangiamo con gusto mangiamo consapevole” si rivolge al lettore curioso che cerca risposte. Il punto fermo del libro Mariailaria Verderame è la dieta personalizzata, fatta su misura per ciascuno. Ma il libro è anche una carrellata di piatti e alimenti che raccontano le tradizioni popolari che si perdono nella notte dei tempi, le religioni, le tipicità regionali. Non mancano i consigli. Così anche il panino mangiato in ufficio nella pausa pranzo può diventare una esperienza di alimentazione sana «a patto che sia equilibrato con la farcitura che deve essere più del 50% del totale con un corretto bilancio tra proteine e verdure».
Tra cibi nuovi e antichi, per sineddoche, prendiamo ad esempio il tamarindo, pianta appartenente alle leguminose, noto come dattero dell’India che nei ricordi d’infanzia delle vecchie generazioni, almeno fino a quelle degli anni ’80, era associato agli sciroppi quali orzata e menta. La professoressa Verderame gli dedica un intero paragrafo sottolineando le eccellenti proprietà tra cui antinfiammatorie e rilassanti, fonte di sali minerali e amico del cuore. E così il ricordo si arricchisce di scientificità e diviene emozione che si rinnova.
TECNOLOGIE INGERIBILI PER DIAGNOSTICARE LE MALATTIE INFIAMMATORIE INTESTINALI
Capsule intelligenti che attraversano l’intestino e forniscono dati in tempo reale
La malattia di Crohn e la colite ulcerosa sono patologie infiammatorie croniche dell’intestino (Inflammatory Bowel Disease, IBD) che causano una progressiva compromissione della mucosa gastrointestinale. Solo la malattia di Crohn presenta in Europa occidentale un’incidenza di 10,5 nuovi casi ogni 100.000 persone all’anno. Il percorso terapeutico inizia solitamente con una fase di induzione della remissione, grazie all’uso di corticosteroidi orali o sistemici oppure di farmaci biologici.
Ma l’uso prolungato dei corticosteroidi è sconsigliato per le tante reazioni avverse che sono state osservate. La fase di mantenimento prevede terapie immunosoppressive che possono includere farmaci tradizionali come metotrexato o azatioprina, oppure terapie biologiche come gli anti-TNF (inibitori del fattore di necrosi tumorale). Questi ultimi restano la prima scelta per i pazienti ad alto rischio, grazie alla loro efficacia, sicurezza e all’ampio utilizzo ormai consolidato in clinica.
I pazienti affetti da IBD prsentano una risposta immunitaria anomala nei tessuti intestinali e un aumento della permeabilità della barriera mucosale. Questa condizione favorisce il passaggio di batteri e sostanze potenzialmente nocive all’interno dell’organismo, contribuendo al peggioramento dei sintomi nel tempo. Questo fenomeno è noto come “intestino permeabile” ed è spesso associato
* Comunicatrice scientifica e Medical writer
ad altre patologie, come il diabete di tipo 1, la celiachia, la sclerosi multipla e altre malattie autoimmuni [1,2,3].
I dispositivi diagnostici disponibili non sono in grado di monitorare in modo preciso l’insorgenza e la progressione della disfunzione della mucosa oltre l’esofago. L’endoscopia consente di visualizzare i tessuti gastrointestinali nei pazienti affetti e di individuare eventuali displasie (lesioni precancerose). Ma la sua capacità di raggiungere i tratti più distali del tratto gastrointestinale è limitata, e non può quindi essere utilizzata per misurare la permeabilità intestinale o l’iniziale infiammazione.
Al momento, la misurazione della permeabilità epiteliale avviene tramite procedure invasive, come biopsie intestinali o test in vitro (ad esempio la misura della resistenza transepiteliale/TEER, o l’impiego delle camere di Ussing su tessuti prelevati). Sebbene affidabili in ambito sperimentale, questi metodi sono difficilmente applicabili nella pratica clinica. Esistono anche approcci non invasivi, come l’impiego di sonde molecolari ingeribili che vengono successivamente rilevate nelle urine, ma questi test risultano poco specifici e non forniscono informazioni precise [4,5].
Per tutte queste ragioni, lo sviluppo di nuove tecnologie sensoriali in grado di misurare in maniera precisa e non invasiva l’integrità della mucosa intestinale è considerato una priorità. La possibilità di monitorare localmente la permeabilità epiteliale consentirebbe una diagnosi precoce delle malattie infiammatorie croniche intestinali, un follow-up mirato e la personalizzazione della terapia.
di Daniela Bencardino*
Dispositivi elettronici ingeribili
Le capsule intelligenti ingeribili sono veri e propri dispositivi elettronici che possono essere ingeriti senza arrecare alcun danno alla salute della paziente. Grazie a un sistema di localizzazione, un controller interattivo e la trasmissione di segnali wireless, consentono il rilascio di farmaci, il monitoraggio dello stato di salute e l’invio di informazioni all’esterno.
Nel caso delle malattie croniche intestinali, rappresentano un’alternativa promettente all’endoscopia o ai cateteri esofagei, consentendo la visualizzazione e il continuo monitoraggio delle regioni inaccessibili del tratto gastrointestinale. In molti casi è necessaria anche una fonte di alimentazione interna, solitamente una batteria.
Le tecnologie attuali stanno aumentando il potenziale di questi dispositivi attraverso l’integrazione di sistemi utili per localizzarne con precisione la posizione nel tratto gastrointestinale o per mantenerli in una determinata area. La PillCam™ Crohn (Medtronic, USA), per esempio, è una capsula ecografica che offre la possibilità di visualizzare direttamente l’intestino tenue e la mucosa del colon in un’unica procedura [6].
Ma la sola visualizzazione spesso non è sufficiente per quantificare la progressione della malattia. Così sono state proposte capsule sensoriali fisiologiche per misurare biomarcatori come pH, gas intestinali, temperatura e motilità, offrendo il vantaggio di riportare continuamente valori numerici in modalità wireless sia per fini diagnostici o per un riscontro in tempo reale. Questi strumenti, però, non forniscono informazioni dettagliate sulle proprietà dei tessuti utili alla caratterizzazione della barriera mucosale [7].
La bioimpedenza è una tecnica che può aiutare a superare questo limite perché consente di misurare la risposta elettrica dei tessuti biologici e quindi può essere utilizzata per valutare la permeabilità della mucosa intestinale. Nei pazienti con infiammazione intestinale, le giunzioni tra le cellule dell’epitelio si indeboliscono: questo rende la mucosa più permeabile e, allo stesso tempo, ne riduce la resistenza elettrica. Più l’infiammazione aumenta, più la mucosa diventa conduttiva, con aumenti della conducibilità anche superiori al 400% nei casi più gravi.
A differenza delle tecniche tradizionali, come la camera di Ussing che richiede campioni di tessuto e quindi procedure invasive, oggi si stanno studiando soluzioni innovative come le capsule ingeribili con elettrodi integrati. Queste potrebbero consentire di rilevare i cambiamenti elettrici della mucosa direttamente dall’interno dell’intestino, offrendo una misura precisa e non invasiva [8].
Il ruolo diagnostico delle capsule elettroniche ingeribili
Negli ultimi anni, le capsule elettroniche ingeribili
hanno rivoluzionato l’approccio alla diagnosi delle malattie gastrointestinali, trasformandosi da semplici strumenti di esplorazione a veri e propri mini-laboratori in grado di raccogliere dati, campioni e immagini direttamente dall’interno dell’intestino.
Grazie a tecnologie sempre più sofisticate, oggi queste capsule permettono di osservare e analizzare con precisione le alterazioni del tratto gastrointestinale. Una delle funzioni più promettenti delle capsule intelligenti è il campionamento del contenuto intestinale, particolarmente utile per comprendere la composizione del microbiota (la comunità di microrganismi che colonizza l’intestino) e la sua relazione con diverse patologie, come le malattie infiammatorie croniche intestinali [9].
A differenza di quanto si possa pensare, queste capsule non sono un prodotto dei nostri giorni. Fin dal 1963, infatti, vengono utilizzate per il campionamento e utilizzate per diagnosticare malattie e raccogliere informazioni sul
microbiota e sul chimo (la porzione di cibo parzialmente digerito). Recentemente, sono stati sviluppati dispositivi in grado di raccogliere con precisione microlitri di liquido intestinale. Alcuni modelli si attivano tramite campi magnetici esterni, altri utilizzano valvole unidirezionali e rivestimenti enterici sensibili al pH per raccogliere fino a 400 µL di fluido. Tecniche avanzate impiegano anche idrogeli superassorbenti per facilitare la raccolta [10,11].
Le capsule diagnostiche possono essere suddivise in quattro categorie principali: sensori di pH, di temperatura, di pressione e dell’attività enzimatica. Quelle progettate per il monitoraggio del pH sono nate inizialmente per valutare la motilità gastrointestinale e registrare i livelli di acidità lungo il tratto digestivo, ma oggi vengono utilizzate anche per rilevare alterazioni del pH associate a diverse patologie gastrointestinali. Le capsule dotate di sensori di temperatura inizialmente erano state sviluppate per monitorare la temperatura corporea in condizioni come l’attività fisica intensa, oggi hanno trovato applicazioni anche in ambito biomedico.
Per esempio, alcuni studi hanno sfruttato la diminuzione della temperatura dopo l’ingestione di acqua fredda per stimare il tempo di svuotamento gastrico [12]. Anche quelle con sensori di pressione sono state ampiamente studiate e impiegate per valutare la motilità gastrointestinale. L’introduzione di una recente tecnologia consente alla capsula di navigare in autonomia all’interno del tratto digestivo e di rilevare le pressioni di contatto tra il dispositivo e le pareti intestinali, migliorando la mappatura dell’intero tratto gastrointestinale.
Infine, un nuovo tipo di capsula è stata sviluppata per valutare l’attività della lipasi pancreatica nell’intestino tenue. Il dispositivo è lungo 35 mm e ha un diametro di 12,5 mm, rivestito da un film enterico che si dissolve in modo selettivo a livello duodenale. Al suo interno sono presenti degli elettrodi rivestiti di trigliceridi che rilevano le variazioni della costante dielettrica dei fluidi intestinali: quando la lipasi pancreatica interagisce con i trigliceridi avviene l’idrolisi dei legami esterei segnalando così la presenza e l’attività dell’enzima [13].
Biosensore microbico
Di recente, al MIT Synthetic Biology Center del Massachusetts Institute of Technology (Cambridge, USA) è stato sviluppato un biosensore microbico ingeribile, capace di rilevare in tempo reale biomarcatori direttamente nel tratto gastrointestinale man mano che vengono prodotti. Questa tecnologia apre nuove prospettive per la gestione remota delle malattie, offrendo un monitoraggio continuo e personalizzato che consenta di fornire informazioni riguardanti il ruolo del microbioma intestinale in specifiche condizioni patologiche.
Per testare l’efficacia del biosensore i ricercatori hanno combinato batteri modificati geneticamente con un sistema di memoria basato su una tecnica di ricombinazione. Questo sistema registra le informazioni non appena i metaboliti vengono prodotti nel tratto intestinale, attivando “interruttori genetici” in pochi minuti. Grazie a questo meccanismo, l’interruttore fornisce una risposta precisa che quantifica l’intensità di un biomarcatore, fornendo così un indicatore della gravità dell’infiammazione.
Il monitoraggio continuo di questi biomarcatori nel tempo potrebbe rivelare pattern predittivi di episodi acuti, consentendo così di anticipare la comparsa dei sintomi. L’intera capsula, con un volume inferiore a 1,4 cm³, è in grado di rilevare più biomarcatori di malattia nello stesso momento e con un basso consumo energetico. Una sola batteria, infatti, può alimentare la capsula per un mese, il ché rende il dispositivo idoneo anche per gli impianti permanenti.
Si tratta di dispositivi non deformabili e rivestiti da film polimerici che proteggono sia la vitalità che la funzionalità dei batteri biosensori integrati, consentendo loro di
sopravvivere e funzionare correttamente anche durante il passaggio attraverso l’ambiente acido dello stomaco.
Questa membrana funge anche da barriera selettiva: trattiene le cellule biosensore all’interno del dispositivo ed esclude le cellule immunitarie e i microbi endogeni dell’ospite, evitando interazioni indesiderate.
L’accuratezza diagnostica e la specificità del dispositivo si basano sull’analisi simultanea di più biomarcatori legati all’infiammazione (come l’ossido nitrico e le specie reattive dell’ossigeno), gas intestinali (come H ₂ S, rilevato come tiosolfato) e altre molecole rilevanti per il microbioma, come il tetrationato.
I livelli di questi biomarcatori variano da persona a persona, pertanto si utilizza un pannello multiplo per diagnosticare con accuratezza le tante e diversificate malattie infiammatorie intestinali [14].
Conclusione
In futuro questi dispositivi potranno evolversi in uno strumento di screening domiciliare per monitorare in modo continuo e non invasivo la salute del paziente. Il
sistema potrà essere personalizzato per diverse patologie gastrointestinali e costituire una valida alternativa, più sicura ed economica, alla tradizionale endoscopia.
Inoltre, la possibilità di tracciare e quantificare più biomarcatori contemporaneamente potrebbe offrire ai pazienti e ai medici le informazioni utili per valutare l’impatto della dieta, dello stile di vita e di tutti gli altri interventi che hanno un impatto importante sulla salute.
Bibliografia
1. Holt, B.M., Stine, J.M., Beardslee, L.A. et al. An ingestible bioimpedance sensing device for wireless monitoring of epithelial barriers. Microsyst Nanoeng 11, 24 (2025)
2. Mu, Q., Kirby, J., Reilly, C. M. & Luo, X. M. Leaky Gut As a Danger Signal for Autoimmune Diseases. Front Immunol. 8, 598 (2017)
3. Hoffmann SV, O’Shea JP, Galvin P, Jannin V, Griffin BT. State-of-the-art and future perspectives in ingestible remotely controlled smart capsules for drug delivery: A GENEGUT review. Eur J Pharm Sci. 2024 Dec 1;203:106911
4. Jin, Y. & Blikslager, A. T. Myosin light chain kinase mediates intestinal barrier dysfunction via occludin endocytosis during anoxia/reoxygenation injury. Am. J. Physiol.-Cell Physiol. 311, C996–C1004 (2016)
5. Mishra, A. & Makharia, G. K. Techniques of functional and motility test: how to perform and interpret intestinal permeability. J. Neurogastroenterol. Motil. 18, 443–447 (2012)
6. Eliakim R, Spada C, Lapidus A, Eyal I, Pecere S, Fernández-Urién I, Lahat A, Costamagna G, Schwartz A, Ron Y, Yanai H, Adler S. Evaluation of a new pan-enteric video capsule endoscopy system in patients with suspected or established inflammatory bowel disease - feasibility study. Endosc Int Open. 2018 Oct;6(10):E1235-E1246
7. Lei, W.-Y., Vaezi, M. F., Naik, R. D. & Chen, C.-L. Mucosal impedance testing: A new diagnostic testing in gastroesophageal reflux disease. J. Formos. Med. Assoc. 119, 1575–1580 (2020)
9. Azehaf H, Benzine Y, Tagzirt M, Skiba M, Karrout Y. Microbiota-sensitive drug delivery systems based on natural polysaccharides for colon targeting. Drug Discov Today. 2023 Jul;28(7):103606
10. Shalon D, Culver RN, Grembi JA, Folz J, Treit PV, Shi H, Rosenberger FA, Dethlefsen L, Meng X, Yaffe E, Aranda-Díaz A, Geyer PE, Mueller-Reif JB, Spencer S, Patterson AD, Triadafilopoulos G, Holmes SP, Mann M, Fiehn O, Relman DA, Huang KC. Profiling the human intestinal environment under physiological conditions. Nature. 2023 May;617(7961):581-591
11. Nejati S, Wang J, Heredia-Rivera U, Sedaghat S, Woodhouse I, Johnson JS, Verma M, Rahimi R. Small intestinal sampling capsule for inflammatory bowel disease type detection and management. Lab Chip. 2021 Dec 21;22(1):57-70
12. Bongers CCWG, Daanen HAM, Bogerd CP, Hopman MTE, Eijsvogels TMH. Validity, Reliability, and Inertia of Four Different Temperature Capsule Systems. Med Sci Sports Exerc. 2018 Jan;50(1):169175
13. G. E. Banis, L. A. Beardslee, J. M. Stine, R. M. Sathyam and R. Ghodssi, “Integrated Capsule System For Gastroinitestinal PH Triggered Sampling And Sensing,” 2019 20th International Conference on Solid-State Sensors, Actuators and Microsystems & Eurosensors XXXIII (TRANSDUCERS & EUROSENSORS XXXIII), Berlin, Germany, 2019, pp. 314-317
14. Inda-Webb ME, Jimenez M, Liu Q, Phan NV, Ahn J, Steiger C, Wentworth A, Riaz A, Zirtiloglu T, Wong K, Ishida K, Fabian N, Jenkins J, Kuosmanen J, Madani W, McNally R, Lai Y, Hayward A, Mimee M, Nadeau P, Chandrakasan AP, Traverso G, Yazicigil RT, Lu TK. Sub-1.4 cm3 capsule for detecting labile inflammatory biomarkers in situ. Nature. 2023
Non solo solubili o insolubili: le fibre alimentari richiedono una visione più ampia, tra chimica, funzione e salute
LE FIBRE ALIMENTARI
STORIA DELLE DEFINIZIONI E UNA NUOVA PROPOSTA
di Livia Galletti*
Nonostante le fibre contenute nei cibi siano conosciute, soprattutto per il loro legame con la salute da secoli, definire cosa esattamente siano è estremamente difficile per diversi motivi. Innanzitutto, le fibre alimentari non possono essere definite come una singola entità chimica e nemmeno come un singolo gruppo di molecole correlate tra loro.
In seconda istanza, non possono essere definite in base alle loro funzioni sulla fisiologia o sui loro benefici per la salute, perché ciascuna può averne numerosi, alcuni o uno soltanto. Infine, alcune fibre abbiano proprietà salutistiche solo se assunte con il cibo di origine, altre anche se isolate e altre ancora hanno benefici diversi a seconda se sono nell’alimento o se sono isolate (1).
L’espressione “fibre alimentari” è stata introdotta solamente nel 1953 da Hipsley (2). Nel suo paper sulla “tossiemia gravidica” - ora gestosi o preeclampsia - Hipsley conferma l’importanza della dieta nella prevenzione del rischio di gestosi già identificato da altri studiosi prima di lui, facendo un passo avanti e individuando i cibi di origine vegetale, principalmente per il loro contenuto in fibre, come l’elemento dietetico fondamentale per la protezione da questa problematica in gravidanza.
Nel suo paper, egli intende le fibre alimentari come la lignina, la cellulosa e le emicellulose, cioè quelle parti delle cellule vegetali non digeribili dagli esseri umani (2). La definizione corrente di fibre alimentari risale al CODEX Alimentarius del 2009, alla quale si è giunti dopo circa vent’anni di discussioni e gruppi di lavoro (1):
Polimeri di carboidrati con dieci o più unità monomeriche, che non sono idrolizzati dagli enzimi endogeni dell’intestino tenue degli esseri umani e che appartengono alle seguenti categorie:
- Polimeri di carboidrati edibili naturalmente presenti nei cibi così come vengono consumati
- Polimeri di carboidrati che sono ottenuti dalla materia prima cibo tramite mezzi fisici, enzimatici o chimici e che hanno dimostrato di avere effetti fisiologici benefici per la salute grazie a evidenze scientifiche generalmente accettate dalle autorità competenti
- Polimeri sintetici di carboidrati che hanno dimostrato di avere dimostrato di avere effetti fisiologici benefici per la salute grazie a evidenze scientifiche generalmente accettate dalle autorità competenti (3)
Alcune sostanze come la lignina, polifenoli, frazioni proteiche o lipidiche intimamente associate alle fibre e che vengono estratte e quantificate con le fibre stesse tramite metodologie specifiche, sono considerate esse stesse come fibre alimentari. Se vengono invece isolate e poi
* Comitato Centrale FNOB
reintrodotte, no. Inoltre, la scelta se inserire polimeri di carboidrati tra i 3 e i 9 monomeri è lasciata alle singole autorità competenti nazionali (3).
Per FAO e WHO, quindi, le fibre alimentari sono quei polimeri di carboidrati di una certa lunghezza che non sono digeribili dagli esseri umani e che sono o naturalmente presenti nei cibi e da questi assunti direttamente o sono isolati e poi assunti, o sono sintetizzati (3).
In Europa, la direttiva 2008/100/EC, presenta una definizione per le fibre alimentari decisamente molto simile a quella poi adottata l’anno seguente dalla commissione del CODEX Alimentarius: “Le fibre alimentari sono tradizionalmente consumate come materie vegetali e hanno uno o più effetti fisiologici benefici, consistenti ad esempio nel ridurre la durata del transito intestinale, aumentare la massa fecale, poter essere fermentate dalla microflora del colon, ridurre la colesterolemia totale e la colesterolemia LDL, ridurre la glicemia postprandiale e l’insulinemia.
Dati scientifici recenti indicano che effetti benefici simili possono essere ottenuti con altri polimeri di carboidrati non digeribili e non naturalmente presenti negli alimenti consumati È pertanto opportuno che la definizione delle fibre alimentari includa i polimeri di carboidrati aventi uno o più effetti fisiologici benefici.
I polimeri di carboidrati di origine vegetale che corrispondono alla definizione delle fibre alimentari possono essere strettamente associati nel vegetale alla lignina o ad altri componenti non carboidratici come i composti fenolici, cere, saponine, fitati, cutina, fitosteroli. Queste sostanze, se strettamente associate a polimeri di carboidrati di origine vegetale ed estratte con i polimeri di carboidrati per l’analisi delle fibre alimentari, possono essere considerate fibre alimentari.
Se invece sono separate dai polimeri di carboidrati e addizionate ad alimenti, queste sostanze non possono essere considerate fibre alimentari” (4). In seguito alla pubblicazione del documento del CODEX Alimentarius, la comunità scientifica internazionale ha continuato a interrogarsi sull’appropriatezza e sulla completezza della definizione proposta.
Nello stesso anno di pubblicazione, il 2009, un editoriale a firma Victoria Betteridge sul Nutrition Bulletin della British Nutrition Foundation, analizza la storia che ha portato alla definizione da CODEX Alimentarius, ribadisce l’importanza delle definizioni a livello regolatorio, quindi per la tutela della salute delle persone tramite leggi, normative e regolamenti, anche se, in quel momento le definizioni di fibre alimentari erano pressoché esclusivamente di natura chimica.
Nello stesso editoriale, l’autrice sottolinea come il dibattito scientifico sulle fibre alimentari negli anni futu -
ri dovrà necessariamente essere una continua ricerca di equilibrio tra le normative dei vari paesi e le scelte di consumo delle persone (5).
Le fibre alimentari sono formate a partire da un numero ridotto di monosaccaridi: glucosio, galattosio, mannosio, fruttosio, arabinosio, xilosio, ramnosio e fucosio, che formano numerose strutture secondarie e terziarie a seconda dei legami presenti (6). Si parte quindi da un piccolo gruppo di monomeri, per arrivare a una grandissima varietà di strutture complesse.
Tra le fibre alimentari vanno annoverati anche i polisaccaridi non amidacei, gli amidi resistenti, gli oligosaccaridi non digeribili e le fibre sintetizzate in laboratorio (7). Oltre alla definizione prettamente chimica sulla quale si basa il CODEX Alimentarius, le fibre alimentari possono essere classificate in base alla struttura (molecole lineari o non lineari) o alla loro solubilità (solubili o insolubili) (7).
Le fibre insolubili sono principalmente componenti delle pareti cellulari, come cellulosa, lignina ed emicellulosa, mentre le fibre insolubili sono dei polisaccaridi non-cellulosici quali le pectine, le gomme, le mucillagini (7). Le fibre alimentari sono note per i benefici che apportano alla salute e sono oramai incluse in tutte le raccomandazioni nutrizionali delle organizzazioni sovranazionali e delle istituzioni nazionali (8, ministero salute).
Sia le fibre solubili che quelle insolubili migliorano la salute gastrointestinale, grazie a tre meccanismi principali: aumento della massa fecale, aumento della sua viscosità e fermentazione a carico del microbiota intestinale (7). In linea di massima, le fibre insolubili aumentano la massa fecale, migliorando il transito intestinale, anche grazie all’acqua intrappolata nella loro matrice, nonostante non siano fermentatili.
Le fibre solubili, che sono facilmente fermentativi dal microbiota intestinale, aumentano la massa fecale grazie all’aumento della massa individui batterici e ad alcuni prodotti secondari della fermentazione, quali gas e acidi grassi a corta catena. Questo promuove la formazione di feci di consistenza ottimale per l’evacuazione. La viscosità di alcune fibre solubili rallenta l’assorbimento di alcuni nutrienti a livello della mucosa intestinale, migliorando il profilo glicemico e quello lipidico (dai, 2017).
La razione raccomandata di fibre giornaliere è di 30 grammi in media (8). Un recente articolo pubblicato sulla rivista Food Research International da un gruppo di ricerca australiano e inglese propone di riclassificare le fibre perché la suddivisione tra solubili e insolubili, in termini di benefici per la salute, è utile solo quando si considerano le singole fibre isolate.
Le fibre pure isolate hanno effetti omogenei e quindi prevedibili, ma i cibi contengono numerosi tipi di fibre, pertanto con effetti misti e non prevedibili come quelli
delle fibre pure isolate. Inoltre, spesso si consumano alimenti cotti, con differenti metodi, e la classica ripartizione in fibre solubili e insolubili non prende in alcun modo in considerazione questo aspetto (9).
Per esempio, la pectina, che è una fibra classificata come solubile e vischiosa, quando è all’interno di un alimento presenta anche caratteristiche di insolubilità (10). Altri esempi portati a supporto della necessità di una riclassificazione delle fibre alimentari in base alle funzioni sulla fisiologia sono la completa fermentabilità delle fibre solubili, caratteristica non sempre vera, mentre alcuni studi riportano la capacità di lignina e cellulosa - considerate insolubili e non fermentativi - di venire fermentate nel colon degli esseri umani (11).
Un tentativo di ampliare la ripartizione delle fibre alimentari in solubili e insolubili è stato fatto con la proposta dei MAC: microbiota-accessible carbohyrates - carboidrati accessibili al microbiota, sostanze utilizzabili dalle colonie del microbiota e fondamentali per l’ecologia microbica intestinale. I MAC avrebbero un ruolo centrale nella prevenzione di patologie croniche quali diabete di tipo 2, obesità, tumori e nel mantenimento dell’omeostasi immunitaria (12).
Tuttavia, il profilo del microbiota intestinale è individuale, ogni persona ha una diversa composizione per quanto riguarda le colonie e le loro numerosità, quindi, questa definizione non può essere esaustiva quando il riferimento è la salute degli esseri umani (9).
Tabella 1 (Da Opperman et al, 2025) Classificazione migliorata delle fibre alimentari
Prendendo in considerazione le diverse tecniche analitiche presenti per determinare le caratteristiche strutturali e chimico-fisiologiche delle fibre alimentari, l’importanza del microbiota intestinale e le proprietà funzionali delle fibre stesse, il gruppo di ricerca diretto da Rajaraman Eri propone una nuova e più articolata classificazione delle fibre (Tab. 1).
Per quanto riguarda la struttura della catena, il grado di polimerizzazione e la ramificazione sono caratteristiche importanti per la capacità di ritenzione dell’acqua, l’aumento della massa fecale e l’efficacia nel rallentamento dell’assorbimento dei nutrienti a livello intestinale.
I gruppi funzionali che si legano alla catena principale determinano la carica complessiva della molecola e le sue proprietà in termini di salute cambiano. Le fibre a carica negativa, per esempio, sono più efficienti nel legame con cationi tossici, facilitandone l’eliminazione dal corpo. Le fibre a carica neutra aumentano la proliferazione di Bifidi e Lattobacilli. Quelle a carica negativa promuovono la produzione di butirrato e acetato.
La matrice della fibra, che è lo stato fisico in cui si trova la fibra quando entra nello stomaco, ha ripercussioni sulla capacità della fibra stessa di idratarsi. In termini di salute questo si riflette sul senso di sazietà, sul controllo della glicemia e della lipidemia, sulla capacità di essere fermentate dal microbiota. Le fibre con una matrice in gel tenderanno ad assorbire acqua, glucosio e colesterolo e sono più facilmente fermentativi dai microbi intestinali (9). Il tasso di fermentazione influisce su gonfiori intestinali, produzione di acidi grassi a catena corta, ma anche sulla protezione dal tumore al colon. La capacità di ritenere acqua determina per le fibre alimentari la capacità di ammorbidire le feci, la velocità del transito intestinale, l’assorbimento dei nutrienti e contribuisce all’equilibrio ecologico del microbiota intestinale (9).
La nuova classificazione proposta coinvolge e seleziona diverse proprietà strutturali, chimico-fisiche, fisiologiche e funzionali delle fibre alimentari. Contribuisce a uniformare le definizioni regolatorie nazionali e sovranazionali che, a oggi, considerano solamente le caratteristiche chimiche delle fibre alimentari. Inoltre, la nuova classificazione prende in considerazione in modo rilevante gli effetti sulla salute umana delle fibre alimentari, come molecole pure isolate, ma, soprattutto come componenti dei cibi.
Bibliografia
1. Jones, J. M. (2014). CODEX-aligned dietary fiber definitions help to bridge the ‘fiber gap’. Nutrition Journal, 13(1), 34. https://doi.org/10.1186/1475-2891-13-34
2. Hipsley, E. H. (1953). Dietary “fibre” and pregnancy toxaemia. British Medical Journal, (4833), 420–422. https://doi.org/10.1136/bmj.2.4833.420
3. Codex Alimentarius 2008. Report of the 30th session of the codex committee on nutrition and foods for special dietary uses, Cape Town, South Africa,3, 7 November 2008, ALINORM 09/32/26
4. DIRETTIVA 2008/100/CE DELLA COMMISSIONE EUROPEA
5. Betteridge, V. (2009), Dietary fibre: an evolving definition?. Nutrition Bulletin, 34: 122-125. https://doi.org/10.1111/j.1467-3010.2009.01757.x
6. Hamaker BR, Tuncil YE. A perspective on the complexity of dietary fiber structures and their potential effect on the gut microbiota. J Mol Biol. 2014 Nov 25;426(23):3838-50. doi: 10.1016/j. jmb.2014.07.028.
7. Dai FJ, Chau CF. Classification and regulatory perspectives of dietary fiber. J Food Drug Anal. 2017 Jan;25(1):37-42. doi: 10.1016/j.jfda.2016.09.006.
9. Opperman C, Majzoobi M, Farahnaky A, Shah R, Van TTH, Ratanpaul V, Blanch EW, Brennan C, Eri R. Beyond soluble and insoluble: A comprehensive framework for classifying dietary fibre’s health effects. Food Res Int. 2025 Apr;206:115843. doi: 10.1016/j.foodres.2025.115843.
10. Buttriss, J. L., & Stokes, C. S. (2008). Dietary fibre and health: An overview. Nutrition Bulletin, 33(3), 186–200. https://doi.org/10.1111/j.1467-3010.2008.00705.x
11. Carlsen, H., & Pajari, A. M. (2023). Dietary fiber - a scoping review for Nordic Nutrition Recommendations 2023. Food and Nutrition Research, 67, Article 10.29219/fnr. v67.9979
12. Ayakdas ¸, G., & A˘ Gagündüz, D. (2023). Microbiota-accessible carbohydrates (MACs) as novel gut microbiome modulators in noncommunicable diseases. Heliyon, 9(9), Article e19888. https://doi.org/10.1016/j.heliyon.2023.e19888
One Health (Una unica Salute), se ne parla ovunque in Italia, ma omettendo sempre che il suo propositore fu un biologo statunitense nel lontano 1969
Il concetto di “One Health” che letteralmente significa “una unica salute” è divenuto un mantra a livello planetario, lo stesso in Italia; il Ministero della Salute ha costituito un’apposita sezione, con un apposito comitato scientifico, alla stregua dei relativi ministeri della sanità, delle altre nazioni nel mondo.
Il concetto di salute pubblica dal secolo XX ad oggi, ha avuto una evoluzione, infatti per la Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), si è passati dal considerare la salute come “l’eliminazione della malattia e i suoi sintomi” a una condizione giustamente più ampia, o olistica, ove si considera in aggiunta e integrazione all’eliminazione della malattia, anche quello del mantenimento, o raggiungimento del benessere psicologico e sociale della persona, in sintesi il concetto di salute si è elevato di grado e viene considerato come una condizione di benessere bio-psico-sociologico.
La One Health ha ulteriormente completato questo approccio di pensiero, integrando il ruolo essenziale che l’ambiente, o meglio la biosfera 1 (l’insieme degli ecosistemi marini e terrestri) hanno nel garantire, se salubri, la salute di tutti gli organismi viventi che la popolano, tra cui l’essere umano.
Ma a onore di cronaca scientifica, le cose sono molto più complesse di come sembrano. Il concetto di salute unica in realtà ha radici più antiche. Negli anni ’50 del secolo scorso un grande biologo, René Jules Dubos (1901-1982), della Rockfeller University, produsse uno
* Biologo
1Per Biosfera si intende in biologia, quella piccola fascia (rispetto alle dimensioni complessive del pianeta Terra) di 20-30 km di spessore, composta dall’idrosfera, la litosfera e i primi strati dell’atmosfera, ove sono presenti le condizioni fisiche, chimiche, geologiche adatte perché possano vivere tutti gli organismi viventi, associandosi in biocenosi all’interno di biotopi, formando gli ecosistemi.
dei primi antibiotici la Gramicidina, utilizzando un approccio biologico, non chimico, ovvero coltivando intere cotiche (così tecnicamente vengono chiamate dai botanici) di sottobosco, all’interno dei suoi laboratori: cotiche a vaccinieto (è una porzione di una brughiera a mirtilli, caratterizzato da suoli acidi e poveri di nutrienti; questa vegetazione è prevalentemente costituita da mirtilli (Vaccinium myrtillus) e si trova principalmente in zone montane)), o provenienti da boschi mesofili, boschi termofili, tropicali pluviali etc., poiché era consapevole che all’interno del terreno era presente un “micro-cosmo” fatto di batteri, protozoi, funghi, tardigradi, platelminti, nematodi etc., che intessono relazioni fisiologiche ed ecologiche tra loro, ma anche battaglie serrate, con emissione di sostanze nocive per i nemici, tra cui appunto antibiotici da parte dei funghi; la Gramicidina venne utilizzata per molti anni come antibiotico topico sia nell’umano, che in veterinaria, per curare la mastite nelle vacche lattifere.
Passando poi allo studio della tubercolosi, la cosiddetta “piaga bianca” alla fine degli anni ’50 del secolo XX, questo biologo naturalizzato americano, di origine francese, incominciò a ipotizzare che le malattie negli
di Giuliano Russini*
organismi umano, animale, vegetale, fossero opera di determinanti ambientali corrotti, che avevano perso l’equilibrio, piuttosto che di una debolezza intrinseca dell’organismo medesimo, ma anche psichici; per dimostrarlo, intraprese per tre anni un viaggio in tutte le metropoli e megalopoli del mondo, andando a visitare i quartieri più poveri, flagellati da precarie condizioni sociosanitarie e quelli più ricchi, ove vedeva che anche in questi ultimi c’era un’assenza di felicità nelle persone che ricorrevano a stimoli artificiali (fisici, chimici, luminosi), per trovare una qualche forma di evasione e, che una donna incinta, soggetta a tristezza, depressione, affliggeva il nascituro sin dal livello embrio-fetale, per questo nascevano bambini sempre meno felici, meno concentrati, più ansiosi.
Le città erano degli agglomerati senza senso (era molto critico verso architetti e ingegneri, che secondo lui dovevano collaborare con i biologi nella progettazione dei centri urbani), privi di ogni elemento naturale, o se presente, falsato (fiori con colori non naturali, privi di profumo, assenza di corsi di acqua, del canto degli uccelli…) e, a lungo andare, la deprivazione dei suoni (come il rumore dell’acqua che scorre) e odori naturali, portavano a una condizione di ottundimento; propose il concetto di “Ecourbanoidi” ovvero città ove i biologi dovevano venire coinvolti con gli ingegneri e architetti alla loro progettazione, inserendo porzioni di bosco naturale al suo interno, ove i bambini potevano avere un rapporto intimo con la Natura.
Nel 1971, profetizzò che il disboscamento delle foreste tropicali pluviali, in primis l’Amazzonia, oltre a una perdita della biodiversità, avrebbero portato alla nascita e propagazione di nuove malattie infettive, che la foresta integra riusciva a mantenere intrappolate al suo interno, quello che poi si è verificato molti anni dopo, con tante epidemie e pandemie zoonotiche come l’HIV, l’Antrace, Ebola, la febbre Aviaria e il Covid-19 molti anni dopo, oggi definito Spillover. Il concetto di determinante ambientale corrotto nella genesi di patolo -
gie, della necessità di protezione degli ecosistemi etc., lo portarono a parlare di “Salute Globale”, quindi un concetto prodromo della One Health; R.J. Dubos coniò a tale proposito nel 1970 un motto, che è noto in tutto il mondo ambientalista: Think Globally, Act Locally, Pensa Globalmente, Agisci Localmente.
Calvin W. Schwabe, il biologo statunitense, padre della One Health nel lontano 1969
Poi nel 1969, un biologo americano Calvin W. Schwabe, dopo aver passato diversi anni nell’africa subsahariana e nel Medio Oriente, studiando le relazioni tra il pastoralismo indigeno con il bestiame di allevamento (bovini e ovicaprini), la presenza di una enorme varietà di specie silvestri sia predatrici (leoni, leopardi, ghepardi, iene, licaoni), o erbivore e quindi competitive per i pascoli (gazzelle, antilopi, equidi come zebre, suidi, pachidermi come rinoceronti, elefanti, ippopotami) e la trasmissione di patologie infettive da specie selvatica a specie di allevamento e da questa all’essere umano, il ruolo della vegetazione come tampone e quindi filtro di tali zoonosi, alcune delle quali neglette (chiamate patologie tropicali neglette 2), incominciò a tessere il manifesto scientifico che lo portò al concetto di One Health, una versione più specifica del concetto di Salute Globale, di René Jules Dubos, prima descritta.
2Gruppo eterogeneo di circa venti malattie infettive e parassitarie che colpiscono principalmente i paesi in via di sviluppo. Sono spesso dimenticate e sottovalutate a causa della loro prevalenza in aree povere e marginalizzate.
Curioso è il fatto che ogni volta che si cita la One Health in Italia (cosa che invece non non accade in nessun’altra parte del Mondo), ci si trova (vedi quello che avvenne nel periodo del Covid-19, dove anche in quel caso la sequenza genetica del virus venne determinata da una biologa italiana), ad assistere a battaglie tra medici chirurghi e medici veterinari, su chi deve esserne alla gui -
Foto 1: Uno dei libri di René Jules Dubos con cui espresse sin dal 1956, l’intima relazione tra ecosistemi sani e salute umana.
Foto 2: Un altro grande libro di R.J. Dubos dal titolo “Corteggiamo la Terra”, ove pone fortemente l’accento sulla intima relazione tra ecosistemi sani e salute pubblica.
da, sulla sua originale proposizione, tralasciando (o per ignoranza, o per malafede), che in realtà la One Health è stata proposta, come il concetto di Salute Globale, da un biologo e che questo è dovuto proprio al fatto che il biologo ha una preparazione “olistica”, poiché si occupa di tutte le forme di vita sia animali, compreso l’essere umano, che vegetali (metazoi, fanerogame e crittogame), sia unicellulari eucariotiche animali e vegetali, che procariotiche e delle biocenosi, dei biotopi che vanno a comporre gli ecosistemi e tutte le relazioni che intessono e della Biosfera che è costituita dagli N-ecosistemi presenti sul pianeta.
D’altronde anche gli organi preposti alla valutazione delle figure sanitarie, ignorano, o fanno finta di non saperlo, che il presidente della Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) è un biologo il Dr Tedros Adhanom Ghebreyesus, come anche che il Presidente della Food and Agriculture Organization (FAO) è un biologo, il Dr Qu Dongyu; OMS e FAO sono i due enti più importanti della UNEP e ONU.
Questo in Italia accade spesso, ma non si comprende perché e se è indice di ignoranza sulla storia della scienza, o volutamente fatto per malafede, eppure la laurea in Scienze Biologiche è molto antica esiste dal 1938 in Italia (con uno degli ordini più antichi nato nel 1967) ed ha sempre avuto un ruolo di primo ordine in ambito sanitario e ambientale (si pensi ai tanti biologi igienisti, epidemiologi, zoologi, botanici, antropologi sanitari etc.), quando altre lauree esistenti da solo 25 anni seppur importanti (fino al 1998 erano diplomi regionali), come quella in infermieristica, o quelle tecniche sanitarie, vengono quotidianamente messe in evidenza e godono di attenzione. In altre Nazioni come gli stessi USA e UK la laurea in Scienze Biologiche esiste addirittura dal 1820!
crobo, ovvero entità vivente, fu scoperto da un biologo russo, quindi né da un medico né da un veterinario.
Fino alla scoperta del virus del mosaico del tabacco ad opera del biologo e botanico russo Dmitrij Iosifovi č Ivanovskij che dimostrò l’esistenza di un microrganismo che attraversava i filtri sterilizzanti in porcellana e infettava le piante di tabacco e chiamò virus (veleno in latino) e gli stessi si trovavano negli animali e nell’essere umano, fondando la virologia, si credeva che le malattie in animali, esseri umani e piante opera dei virus, fossero causa di qualche tossina, o veleno nell’aria!
La stessa immunologia nasce grazie all’opera monumentale di un biologo zoologo russo Il’ja Il’i č Me č nikov (1845 Karkiv-1916, Parigi) che scoprì studiando le stelle marine e utilizzando spine di rose, il concetto di “Fagocitosi” per cui vinse il Premio Nobel nel 1908 e poi si dedicò a capire perché tutti gli organismi viventi invecchiano, piante, alberi, animali, umani e fondò la gerontologia animale e vegetale e capì studiando le popolazioni del Caucaso e greche, il ruolo del Kefir e Yogurt greco sul mantenere, o generare una eubiosi e ortobiosi positiva e riducendo patologie come anche l’invecchiamento, tutto questo già nei primi del ‘900!
Chi fu Calvin W. Schwabe
Il primo biologo fu Aristotele (Stagira, 384 a.C. o 383 a.C.-Calcide, 322 a.C.) e già nel 1700 i biologi lottavano contro malattie e studiavano la igiene e l’evoluzione poi successivamente, ed esploravano foreste, montagne, oceani, fiumi, laghi, deserti ed isole in giro per il pianeta. Come è curioso sempre in Italia, vedere le diatribe tra medici umani e medici veterinari, su chi conosce meglio i virus, ma mai sì notifica, ad esempio, il ruolo dei microbiologi e batteriologi e che il primo virus in quanto mi -
Come René Jules Dubos venne per la sua immensa cultura definito l’ultimo “grande umanista”, il biologo Calvin W. Schwabe fu definito un uomo del Rinascimento. Nacque nel New Jersey (USA) nel 1927, dopo la scuola superiore, ottenne un B.Sc in Biologia nel 1948 con onore al Virginia Polytechnic Institute, MSc in Zoologia nel 1950 nella università delle Hawaii, una laurea in veterinaria nel 1954 Università Auburn, poi un Master of Philosophy (MPH) in Salute Pubblica Tropicale alla facoltà di Scienze Biologiche nel 1955 e uno di Dottore in Scienze Biologiche (ScD) in Salute Pubblica e Parassitologia nel 1956, entrambi alla Harvard University; malgrado abbia 4 titoli come biologo e uno come veterinario, spesso lo si viene fatto passare in Italia solamente per questo ultimo, invece come quello per cui lui si definiva un biologo.
Permettetemi questa polemica dovremmo (chi sta nell’ambito della medicina e scienze della vita) imparare molto dai fisici, spesso molti fisici premi Nobel, dopo la laurea in fisica hanno acquisito anche una seconda laurea
Foto 3: Il’ja Il’ič Mečnikov biologo russo, padre della teoria della Fagocitosi e della gerontologia umana, animale, vegetale. (Foto di Giuliano Russini, su gigantografia dell’Istituto Pasteur).
in matematica, o ingegneria ma si sono sempre definiti fisici, poiché è la prima laurea quella caratterizzante, come molti matematici hanno poi conseguito una laurea in fisica lo stesso diversi ingegneri, ma si sono sempre definiti matematici o ingegneri.
Dopo l’ottenimento dei titoli accademici è partito per il Libano, Beirut per lavorare all’università americana in luogo, nella facoltà di Medicina; l’anno successivo al suo arrivo, ha fondato il dipartimento di “Salute Tropicale” di cui divenne direttore nel dipartimento di Salute Pubblica dell’Università, poi sempre nella Scuola di Salute Pubblica nel 1962, condivise il dipartimento di Epidemiologia e Biostatistica.
Nell’università Americana di Beirut si interessò alla ciste idatidea, conosciuta anche come Echinococcosi cistica o idatidosi: è una condizione patologica causata dall’infezione da larve di tenia del cane (Echinococcus granulosus) ed altre zoonosi parassitarie; nel 1960 divenne consulente della OMS, poi divenne direttore del programma per il controllo globale della Echinococcosi cistica o idatidosi dell’OMS e, lasciata l’università Americana di Beirut divenne permanentemente direttore del programma delle malattie parassitarie della OMS.
Nel 1966 accettò l’invito a divenire professore di Epidemiologia veterinaria, alla facoltà di Medicina veterinaria, ove creò il dipartimento di Epidemiologia veterinaria e Medicina Preventiva veterinaria, il primo del suo genere, quindi è ritenuto anche il fondatore della Epidemiologia veterinaria, molto successiva a quella medica; tramite la OMS divenne formatore in queste discipline in tutto il mondo; creò anche il Master in Medicina preventiva per veterinari, il primo esistente e il programma per il controllo e prevenzione massiva delle patologie per animali.
Si occupò di tematiche di ogni tipo, dal rapporto uomo-animali e trasmissione, simbiosi per le malattie infettive (zoonosi), da come incrementare la salute umana, al rapporto delle risorse alimentari e la crescita della popolazione umana, al ruolo della salubrità degli ecosistemi per una corretta salubrità degli esseri umani, al ruolo della integrità delle piante e fitosistemi e foreste per la salute animale e umana alla storia della biologia e biomedicina e epidemiologia nell’antico Egitto.
Il messaggio in cui credeva profondamente da buon biologo è quello che le “…civiltà umane possono miglio -
rare solo se co-evolvono con il regno vegetale e animale”. Aveva un profondo interesse anche per il ruolo etnologico e merceologico in termini di botanica economica, nella produzione di materie prime da cucinare secondo le varie tradizioni e civiltà, era sposato senza figli. La Biblioteca dell’Università di Bethesda Maryland ha raccolto tutti i suoi libri e materiali per conservarli, riconoscendone l’enorme contributo che come biologo ha avuto nello studio e protezione della salute umana, animale e degli ecosistemi, ma anche come professionista applicato in ambito sanitario e quotidiano in ospedali, centri sanitari nei paesi del Terzo Mondo e nella protezione della Natura (Ecosistemi)-Ambiente, Medicina Umana e Veterinaria, quindi nel rapporto Salute -Ambiente. Per tale ragione alla luce di questi evidenti e incontestabili contributi che biologi come Il’ja Il’i č Me č nikov (per cui ottenne un Nobel), R.J. Dubos e Calvin W. Schwabe e altri, hanno dato (e danno), non solo nella ricerca e la vincita di premi Nobel, ma anche nel concreto nella risoluzione di problemi pratici, nella professione pratica quotidiana in ambiente sanitario e in Natura e nel correlare salute e ambiente (Natura), nel proteggere tutte le forme viventi, nella lotta contro le catastrofi e calamità, contro la desertificazione e le carestie, contro le malattie più cruente, meriterebbero in Italia un rispetto maggiore, la considerazione c’è già da parte di chi obiettivo e studioso lo conosce da quasi 100 anni, d’altronde nel catalogo del Governo degli Stati Uniti d’America, come della UK per le professioni e anche nella Gazzetta Ufficiale italiana, la professione del biologo viene definita “…ad alto valore concettuale, ad alta complessità professionale e applicata al pari di quella del medico, sia in ambito sanitario con risoluzione quotidiana di problemi pratici e in campo ambientale!”
Bibliografia
3.
4.
5.
1. The accidental epidemiologist, Dr. Calvin W. Schwabe fathered a generation of veterinary epidemiologists By R. Scott Nolen, Published on June 19, 2013
2. IN MEMORIAM Calvin W. Schwabe Professor Emeritus of Veterinary Epidemiology, 1927-2006
Mirage of Health, René Jules Dubos, 1956
Courtisons la Terre, Rene Jules Dubos, 1957
The Prolongation of Life: Optimistic Studies, Elie Metchnikoff
Foto 4: Il biologo americano Calvin W. Schwabe, padre scientifico della One Health, proposta nel 1969.
Il corso Fad associato a questo articolo dà la possibilità agli iscritti all’albo dei biologi di acquisire 6 crediti Ecm Consulta l’area riservata MyBio
RICERCA CLINICA E PRINCIPI ETICI INTERNAZIONALI
L’articolo è associato al corso Fad da 6 crediti Ecm disponibile nell’area riservata MyBio
di Mirko Ragazzini*
In un contesto sanitario e scientifico in rapida evoluzione, dove le evidenze generate dalla sperimentazione clinica orientano terapie, diagnosi e politiche pubbliche, diventa essenziale per ogni biologo professionista acquisire competenze solide e aggiornate sulla conduzione, l’etica e la regolazione della ricerca sull’essere umano.
Il corso FAD Ecm “Ricerca Clinica: Principi Fondamentali ed Etica Internazionale della Ricerca”, promosso dalla FNOB e curato dal Dr. Mirko Ragazzini - responsabile scientifico del corso - e dalla Dr.ssa Giorgia Ruffilli, risponde a questa necessità con un percorso formativo preciso, autorevole e rigoroso.
Il biologo e la ricerca clinica: un ruolo sempre più centrale
Il biologo - grazie alla sua formazione trasversale tra scienze della vita, biotecnologie, biologia molecolare e genetica - è oggi una figura essenziale in tutti i processi di ricerca clinica, sia accademica che sponsorizzata.
Dalla progettazione metodologica alla gestione dei dati, dal laboratorio alla supervisione regolatoria, il biologo è (e può essere):
• Data manager e biostatistico in RCT e studi osservazionali
• Responsabile qualità nella gestione del laboratorio di prova
• Supporto scientifico per Comitati Etici e valutazione rischio/beneficio
• CRA o monitor clinico, a garanzia della conformità alle GCP
• Autore o co-autore nei report secondo CONSORT
• Referente per il trattamento biologico dei campioni umani, con obblighi etici e privacy
Formarsi significa essere pronti ad assumersi responsabilità professionali complesse, in un quadro normativo che richiede competenze tecniche, sensibilità etica e capacità di interfacciarsi con medici, sponsor, autorità e pazienti.
Etica e qualità: fondamenti irrinunciabili della sperimentazione
Il corso accompagna i partecipanti in un percorso articolato in otto moduli, dai principi della bioetica internazionale (Norimberga, Helsinki, Belmont) fino alla riforma CONSORT 2025, passando per le normative ICH-GCP, le linee guida CIOMS e il Regolamento europeo 536/2014.
* Biologo Nutrizionista
Le Good Clinical Practice (GCP) rappresentano oggi il linguaggio condiviso della ricerca clinica a livello globale. Accettate da EMA, FDA, AIFA e WHO, le GCP definiscono i requisiti per garantire:
• Protezione dei soggetti coinvolti, inclusi minori, disabili, fragili
• Aderenza al protocollo approvato e tracciabilità del dato
• Validità e trasparenza dei risultati scientifici
• Supervisione continua da parte dei Comitati Etici e delle autorità regolatorie
Il modulo dedicato al consenso informato - pilastro etico e giuridico della ricerca - analizza con rigore le modalità di comunicazione, le deroghe in urgenza, la gestione nei soggetti vulnerabili e il valore del recesso.
Un’opportunità concreta per i biologi italiani
Questo FAD rappresenta una risorsa unica per i biologi che desiderano entrare nel mondo della ricerca clinica con un profilo competente e aggiornato.
È gratuita per gli iscritti FNOB, accreditata Ecm, e costruita secondo i suoi standard formativi: con box di approfondimento, casi studio reali, glossario e strumenti pratici per la comprensione del corso e la professione.
Il corso fornisce conoscenze fondamentali per lavorare in:
• Istituti di ricerca traslazionale e ospedali universitari
• CRO (Contract Research Organizations) e centri sponsor
• Laboratori clinici e strutture di monitoraggio qualità
• Comitati Etici e organi di vigilanza scientifica
Un percorso utile anche per chi opera nel campo della formazione, divulgazione, consulenza bioetica o biostatistica applicata, e per i liberi professionisti che collaborano con centri privati e pubblici di ricerca.
“Una sperimentazione senza fondamento etico è non solo ingiusta, ma anche scientificamente inutile.”(CIOMS, Linea guida 1)
Formarsi per garantire integrità scientifica e rispetto della persona
In un tempo in cui la fiducia del cittadino nella scienza dipende dalla trasparenza e dalla correttezza della ricerca, il biologo ha l’opportunità e la responsabilità di essere parte attiva nella costruzione di una cultura della sperimentazione che sia etica, tracciabile, fondata sul rispetto e sull’evidenza.
Questo corso FAD della FNOB ne è lo strumento. Il momento è adesso.
Scienze
Il corso Fad associato a questo articolo dà la possibilità agli iscritti all’albo dei biologi di acquisire 4,5 crediti Ecm Consulta l’area riservata MyBio
LA CITOFLUORIMETRIA A SUPPORTO DELLA DIAGNOSI CITOLOGICA DEI LINFOMI A CELLULE B MATURE
L’articolo è associato al corso Fad da 4,5 crediti Ecm disponibile nell’area riservata MyBio
Ilinfomi a cellule B mature rappresentano un gruppo complesso e articolato di neoplasie ematologiche, che va dalle forme a crescita lenta come la leucemia linfatica cronica, a varianti più aggressive come il linfoma mantellare e il linfoma diffuso a grandi cellule B. Negli ultimi anni, la ricerca scientifica ha compiuto importanti progressi nella comprensione della loro biologia: lo sviluppo di tecniche di profilazione molecolare avanzata, la definizione di nuove entità nosologiche e l’identificazione di biomarcatori predittivi hanno aperto la strada a trattamenti sempre più mirati, nell’ambito di una medicina di precisione in continua evoluzione.
Tecnologie emergenti come la single-cell RNA sequencing, la citometria massiva (CyTOF) e gli algoritmi di intelligenza artificiale applicati alla classificazione cellulare stanno cambiando radicalmente il modo in cui si comprende e si tratta il linfoma. Tuttavia, accanto a questi strumenti d’avanguardia, resta ancora centrale il valore delle metodiche consolidate, quando impiegate in modo coordinato e intelligente.
In ambito laboratoristico, l’unione tra citodiagnostica tradizionale e citofluorimetria a flusso si conferma una strategia efficace, capace di garantire una diagnosi rapida, precisa e accessibile, anche in contesti dove le risorse
* Biologo responsabile settore di Citologia Diagnostica ASLVCO
Ospedale Castelli di Verbania
tecnologiche più avanzate non sono immediatamente disponibili.
L’agoaspirato linfonodale è spesso il primo passo nell’inquadramento di una linfoadenopatia. Lo studio morfologico e immunocitochimico del campione, attraverso colorazioni standard, permette di valutare la composizione cellulare sulla base di parametri come la dimensione nucleare, il rapporto nucleo/citoplasma, il pattern cromatinico, la presenza di nucleoli e la coesione della popolazione.
Sebbene l’esperienza del citologo consenta già un sospetto diagnostico in molti casi, alcune entità linfomatose - in particolare quelle a basso grado - possono mimare quadri reattivi, mentre forme aggressive possono essere indistinguibili da proliferazioni non neoplastiche. È proprio in questi contesti che la citofluorimetria a flusso assume un ruolo decisivo.
Questa tecnica consente di analizzare rapidamente migliaia di eventi cellulari, fornendo un’identificazione immunofenotipica dettagliata. Il primo obiettivo è la distinzione tra popolazioni B policlonali e monoclonali, tramite la valutazione della restrizione delle catene leggere di superficie (kappa o lambda).
L’evidenza di una popolazione monoclonale rappresenta il primo forte indizio di neoplasia. Successivamente, l’utilizzo di pannelli anticorpali mirati consente di inquadrare il fenotipo cellulare in modo più preciso, mediante l’analisi di antigeni fondamentali quali CD19, CD20, CD5, CD10, CD23, CD200, FMC7, CD38 e altri.
di Maria Cristina Pavanelli*
Questo profilo immunofenotipico, confrontato con il quadro morfologico, permette una classificazione diagnostica molto accurata.
Ad esempio, nel caso della leucemia linfatica cronica, l’immunofenotipo tipico comprende l’espressione congiunta di CD5 e CD23, con bassa intensità di CD20 e delle immunoglobuline di superficie, e positività per CD200. Il linfoma mantellare, sebbene anch’esso CD5 positivo, si distingue per la negatività di CD23 e CD200, la positività per FMC7, e un’espressione più intensa di CD20 e sIg.
Nel linfoma follicolare, la positività per CD10, associata alla restrizione clonale e spesso a una concomitante espressione di Bcl-2, orienta verso una diagnosi di derivazione germinativa. I linfomi a grandi cellule B, infine, presentano fenotipi variabili, ma spesso con forte espressione di CD20 e antigeni di attivazione come CD10 o MUM1.
In situazioni ambigue, la citofluorimetria può chiarire rapidamente dubbi diagnostici posti dal solo esame morfologico. È il caso, ad esempio, di popolazioni di piccole cellule B CD5 positive, in cui la citologia non sempre permette di distinguere tra CLL e linfoma mantellare. In questi casi, il pattern immunofenotipico diventa determinante. Analogamente, nei linfomi follicolari a basso grado, l’integrazione tra morfologia, immunofenotipo e, se necessario, indagini molecolari, consente una classificazione precoce e accurata.
Dal punto di vista operativo, l’efficacia di questo approccio integrato dipende dalla qualità della collaborazione tra citologi e citometristi. È fondamentale la raccolta ottimale del materiale, dedicando una quota del campione
all’analisi in citofluorimetria fin dalla fase preanalitica. La scelta dei pannelli anticorpali deve essere guidata dal sospetto clinico e dall’osservazione morfologica preliminare. In molti casi, anche su campioni cellularmente poveri o parzialmente degenerati, è possibile ottenere informazioni diagnostiche di rilievo grazie alla sensibilità della citofluorimetria e all’esperienza dell’operatore. Infine, non va dimenticato che la citofluorimetria non si limita alla fase diagnostica. Il suo impiego nel monitoraggio della malattia minima residua, nei linfomi trattati con immunochemioterapia, consente di valutare la risposta al trattamento e di anticipare eventuali ricadute. In quest’ottica, si inserisce sempre più chiaramente nel percorso della medicina personalizzata, offrendo una fotografia dinamica e sensibile dell’evoluzione della malattia.
La diagnostica dei linfomi a cellule B mature si sta muovendo sempre più verso un modello diagnostico integrato, in cui morfologia, immunofenotipo, genetica e profilo molecolare contribuiscono, ciascuno con il proprio linguaggio, alla definizione più precisa possibile della malattia. In questo contesto, la citofluorimetria a flusso continuerà ad avere un ruolo centrale, non solo per la sua rapidità e sensibilità, ma anche per la sua crescente integrazione con piattaforme digitali, analisi automatizzate e intelligenza artificiale.
Le prospettive più promettenti riguardano l’evoluzione verso la citofluorimetria digitale multiparametrica, con pannelli sempre più ampi e complessi, e l’utilizzo di algoritmi predittivi in grado di interpretare in tempo reale grandi quantità di dati immunofenotipici, anche su cellule rare. Parallelamente, l’introduzione di tecnologie single-cell sta offrendo nuove chiavi di lettura sulla clonogenesi, sull’eterogeneità intratumorale e sulla risposta immunitaria dell’ospite.
In un futuro prossimo, la sfida sarà saper armonizzare questi strumenti con l’esperienza clinica e morfologica, mantenendo la flessibilità e l’efficienza che da sempre caratterizzano il lavoro del laboratorio citologico. Una sinergia “aumentata”, in cui le tecniche storiche non verranno superate, ma potenziate dal dialogo con le nuove frontiere della ricerca, al servizio di una diagnosi sempre più precoce, personalizzata e consapevole.