Il Giornale dei Biologi - N.5 - Maggio 2022

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Giornale dei Biologi

Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132

Maggio 2022 Anno V - N. 5

VAIOLO DELLE SCIMMIE. UNA INSIDIA SOTTO OSSERVAZIONE Non è la prima volta che il virus esce dalle sue aree endemiche. Ma stavolta sta “sconfinando” in maniera significativa

www.onb.it


IL PRESENTE E FUTURO DEL BIOLOGO NELLA FILIERA DEL PRODOTTO COSMETICO 9 giugno 2022


Sommario

Sommario EDITORIALE 3

Gli indifferenti di Vincenzo D’Anna

PRIMO PIANO 6

27

Vaiolo delle scimmie. Al momento sorveglianza e tracciamento di Rino Dazzo

18

Macchie pericolose. Casi in aumento di Elisabetta Gramolini

20

Melanoma riprodotto per terapie più efficaci di Domenico Esposito

22

Tumore al pancreas, nuova chiave per comprenderlo di Elisabetta Gramolini

24

Un caso di demenza su 50 correlato a difetti della vista di Domenico Esposito

26

Il diabete dei genitori e lo sviluppo cognitivo dei figli di Domenico Esposito

27

L’uomo sviluppa più tumore degli altri primati di Domenico Esposito

28

Donare il sangue abbassa i livelli di Pfas di Michelangelo Ottaviano

INTERVISTE

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10

Giuseppe Novelli e l’alba della rivoluzione genetica di Elisabetta Gramolini

Cosmesi “vegetale” di Carla Cimmino

34

La farmacologia cosmetica nell’antichità di Barbara Ciardullo

12

Svelata la funzione antidiabetica del tessuto adiposo bruno

36

Tinture e capelli di Biancamaria Mancini

8

Covid, ottimismo ma aumenti i soggetti che hanno bisogno del booster di Rino Dazzo

20

di Chiara Di Martino

14

Quei capelli sono davvero di Napoleone Chi lo dice? Il Dna (delle discendenti) di Chiara Di Martino

SALUTE 16

Miastenia, quando la fatica è insostenibile di Elisabetta Gramolini

23


Sommario

AMBIENTE 40

Agricoltura strategica di Gianpaolo Palazzo

42

Il ruolo di boschi e foreste di Pieralisa di Felice et al.

46

Montagna da riabitare di Gianpaolo Palazzo

49

Il cambiamento climatico minaccia per nuovi virus di Domenico Esposito

50 51 52 53

65 SPORT

INNOVAZIONE

60

La salute del frumento si valuta con un’app di Pasquale Santilio

I segreti di Alcaraz predestinato del tennis di Antonino Palumbo

62

V per Vittoria. la “freccia” azzurra si racconta di Antonino Palumbo

64

Volley, rammarico per Conegliano e Trento di Antonino Palumbo

65

Dainese-Oldani, la “prima” al giro non si scorda mai di Antonino Palumbo

67

Favole da serie A. Il finale di stagione di Michelangelo Ottaviano

Il particolato si combatte con le piante di Pasquale Santilio Nuove terapie per il medulloblastoma di Pasquale Santilio Lesioni del midollo spinale: ecco riseup di Pasquale Santilio

LAVORO 68

Concorsi pubblici per Biologi

SCIENZE 70

Risolvere il disturbo post traumatico da stress di Lorenzo Varriano

76

La “doppia vita” della vimentina per nuove terapie antitumorali di Cinzia Boschiero

80

Noi mangiamo in modo sostenibile? (parte II) di Antonella Pannocchia

40 BENI CULTURALI 54

Castel Grumello vista sul patrimonio 44 dell’umanità di Rino Dazzo

57

La Sardegna tra i protagonisti del turismo culturale di Pietro Sapia

58

Stampa 3D e nanomateriali per monumenti di Gianpaolo Palazzo

ECM 86

Il ruolo del nutrizionista negli sport di squadra di Fabrizio Spataro e Natale Gentile


Editoriale

Gli indifferenti di Vincenzo D’Anna Presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi

S

i riesce a rompere più facilmente un

plici eventi e delle conquiste realizzate negli ulti-

atomo che un radicato pregiudizio.

mi anni per il tramite dell’opera alacre e silenzio-

Parole, queste ultime, proferite da

sa realizzata dal Consiglio dell’Ordine in carica e

Albert Einstein che di atomi se ne

che si approssima a concludere il proprio man-

intendeva. Nel corso della propria

dato alla fine di quest’anno. Per maldicenti devono inten-

esistenza, il grande scienziato ebbe modo di constatare quanto fossero numerose le resistenze da vincere in un ambiente che rifiutava di abbandonare stereotipi e pregiudizi tramandati, nel corso del tempo, quasi

Sono stati potenziati tutti i consueti canali di comunicazione dell’ente: sito istituzionale, giornali (uno online, l’altro cartaceo), area riservata, OnbTV

dersi, invece, tutti quei colleghi che, avendo ignorato le fonti d’informazione istituzionali messe in piedi da ONB, hanno continuato e tuttora continuano a considerare l’Ordine come

sempre per “sentito dire”. Appunto il “sentito

un’entità lontana e disattenta, limitandola ad un

dire”, in sintesi, la forma di apprendimento più

mero gabello da pagare per poter esercitare la

scadente e approssimativa, oltre che una modali-

professione. Ora, proprio per evitare che questa

tà di facile acquisizione soprattutto se l’opinione

condizione psicologica e cognitiva del tutto ina-

è propalata da ignoranti e maldicenti. Nel caso

deguata potesse (ancora) circolare liberamente

che qui interessa i Biologi, per “ignoranza” deve

facendo proseliti, nel corso di questa consiliatura

intendersi solo la “non conoscenza” dei molte-

(iniziata, lo ricordiamo, a dicembre 2017) sono GdB | Maggio 2022

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Editoriale

stati potenziati tutti i consueti canali di comuni-

un ufficio di collocamento per “camici bianchi”

cazione dell’ente di via Icilio: sito istituzionale,

disoccupati atto a risolvere i singoli problemi. In-

giornali (uno online, l’altro cartaceo: il magazine

somma: un ufficio di servizi erogati agli iscritti in

bimestrale Bio’s), area riservata, OnbTV.

cambio di una quota d’iscrizione. Nulla di più fal-

Inoltre, sono stati promossi plurimi sondag-

so, nulla di più dannoso che continuare a ritenere

gi di opinione e si è accelerato sul percorso che

validi ed operativi i vecchi schemi e le antiche cri-

ha condotto al decentramento amministrativo

ticità di un Ordine professionale che vive isolato

(apertura delle delegazioni regionali dell’Ordine

dalla realtà e dai problemi dei Biologi.

ed insediamento dei loro gruppi di lavoro). E tut-

Chi non trova il tempo e la passione di consultare i media ufficiali predisposti

tavia, pur avendo rintracciato e “recuperato” alla causa la gran parte dei colleghi assenti e disinteressati, resta ancora una certa aliquota del tutto estranea all’opera del Consiglio dell’Ordine. Peggio ancora quanti, tra questi,

Molti biologi ancora ritengono l’ONB non un organo sussidiario della PA, bensì un ufficio di collocamento per “camici bianchi” disoccupati

ritengono l’ONB non un orga-

a beneficio di tutti, chi snobba le nuove opportunità create da ONB, la formazione gratuita, le centinaia di eventi finora proposti da Nord a Sud della Penisola, i master, le summer school, la formazione sul campo, le bor-

no sussidiario della pubblica amministrazione,

se di studio e i sussidi copiosamente elargiti, non

non un ente pubblico di rappresentanza dell’in-

può che brancolare nel buio. Quindi perdendosi

tera categoria professionale dei Biologi italiani, in

nella commiserazione di se stessi e nella perpetua

grado di tutelare gli interessi generali degli iscritti

lamentazione. Se non si riduce tutto questo ad

(incrementandone la protezione dagli abusivi e

una minima percentuale, è pressoché impossibile

dalle altre professioni concorrenti, ottenere attra-

creare lo spirito di categoria, l’identità professio-

verso le leggi nuove competenze professionali ed

nale, la massa critica per elevare l’autorevolezza

opportunità di inserimento professionale, rappre-

della Biologia e dei Biologi. Per potersi intendere

sentare la categoria nelle varie istituzioni sanitarie,

e per potersi migliorare, sotto ogni punto di vi-

ed ambientali in tutte le loro espressioni ), bensì

sta, sia per essere informati che formati a nuovi

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GdB | Maggio 2022


Editoriale

inserimenti professionali, occorre intendersi e ri-

dei colleghi. Eppure molti di questi ultimi pre-

spettarsi, ovvero prestare attenzione a quello che

feriscono parlarsi addosso su siti e blog dedicati

negli ultimi anni è stato fatto. A beneficio degli

per specifica attività lavorativa, associazioni cre-

smemorati e di coloro che, per insipienza, si sono

ate per autogestioni e informazioni “volanti”,

estraniati dai contatti con l’ONB, il Consiglio

ignorando ogni altra più consona modalità messa

dell’Ordine ha predisposto un apposito “Libro

loro a disposizione dall’ente di categoria. Non

Bianco” riepilogativo delle molteplici e diverse

si tratta di addossare agli iscritti ogni responsa-

attività svolte in questi ultimi cinque anni. Un ren-

bilità per evitare critiche e responsabilità della

diconto, insomma, che sarà recapitato a ciascuno

dirigenza, in quanto essa non è onnisciente ed onnipotente, ma di sprecare le

degli iscritti, il cui numero - vale sempre la pena ricordarlo - si è incrementato del 15% in questa consiliatura. Parliamoci chiaro: se qualcuno opera e qualcun altro se ne disinteressa, non c’è via per poter aumentare l’inter-

Il Consiglio dell’Ordine ha predisposto un apposito “Libro Bianco” riepilogativo delle molteplici e diverse attività svolte in questi ultimi cinque anni

scambio tra dirigenza ed iscrit-

occasioni per sfruttare opportunità che di continuo l’Ordine dei Biologi realizza. Insomma: a fine anno si voterà per costituire un’ultima rivoluzione operativa quali sono, in effetti, i nuovi Ordini Regionali e la Federazione

ti, né per recepire critiche costruttive evitando

Nazionale dei medesimi, ma se i colleghi non

lamentele e recriminazioni dovute all’ignoranza

sfrutteranno quest’occasione per emanciparsi su-

dei fatti. Questi ultimi, come tali, sono opinioni

gli scenari gestionali ed autonomi loro riservati,

testarde sulle quali si infrangono polemiche spe-

rendendosi protagonisti nella scelta dei propri

ciose, critiche ingenerose, oltre alla possibilità di

dirigenti (ne saranno eletti 165 in tutte le undi-

interagire e controllare l’operato di quanti ci am-

ci regioni autonome, 15 per ciascuna di esse), la

ministrano. Chi scrive tiene, ogni mese, una ru-

prossima tornata elettorale avrà effetti limitati e

brica online trasmessa in diretta sugli spazi social

marginali. La libertà, quella di contare e di sape-

(Facebook, Youtube) di pertinenza dell’ONB,

re, è una conquista di tutti i giorni. Non la si potrà

attraverso la quale risponde a tutte le domande

mai garantire agli agnostici ed agli indifferenti. GdB | Maggio 2022

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Primo piano

VAIOLO DELLE SCIMMIE AL MOMENTO SORVEGLIANZA E TRACCIAMENTO A differenza del Sars-Cov-2, che è un virus a rna, si tratta di un virus a dna con una ricombinazione genetica meno rapida. La buona notizia è che non è asintomatico di Rino Dazzo

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eppure il tempo di tirare un sospiro di sollievo per la piega favorevole presa dalla lotta al Covid, che è scattato un nuovo allarme. A destare preoccupazioni è un altro virus, il cui nome fa riaffiorare antichi timori: vaiolo delle scimmie, o monkeypox. Si tratta di un’infezione zoonotica, trasmessa cioè dagli animali all’uomo, causata da un virus della stessa famiglia del vaiolo tradizionale, da cui si differenzia per la minore trasmissibilità e anche per la minor gravità della malattia che provoca. Non inganni la specifica “delle scimmie”: in realtà si tratta di un virus diffuso sì tra i primati, ma anche tra topi e altri piccoli roditori, che poi sono i maggiori diffusori verso l’uomo. Sino a qualche settimana fa il vaiolo delle scimmie sembrava confinato nelle sue aree endemiche, un ventaglio di paesi dell’Africa equatoriale: Benin, Camerun, Repubblica Centrafricana, i due Congo, Gabon, Ghana, Costa d’Avorio, Liberia, Nigeria, Sierra Leone e Sud Sudan. Dal 13 al 21 maggio, però, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha confermato 92 casi, più un’altra trentina di episodi dubbi, in dodici paesi in cui la malattia non è endemica, tra cui l’Italia. Numeri

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relativamente bassi, soprattutto se rapportati a quelli della pandemia Covid, ma che hanno subito fatto alzare il livello d’allerta. Dalle prime analisi (la sequenza genomica del virus è stata sequenziata per la prima volta in Portogallo), la costante sembra essere rappresentata dalle Canarie, luogo dove sono transitati molti degli individui contagiati, quasi tutti – ma non esclusivamente – giovani e MSM, vale a dire maschi che fanno sesso con maschi. La malattia, infatti, si trasmette principalmente attraverso il contatto stretto con fluidi corporei o lesioni cutanee di una persona infetta: i rapporti intimi, insomma, come veicolo privilegiato di infezione. Possibile in ogni caso, ma meno frequente, anche il contagio attraverso droplets o contatti prolungati faccia a faccia con oggetti contaminati come vestiti o lenzuola. Ma che tipo di malattia provoca il virus del vaiolo delle scimmie? Nell’uomo si presenta con manifestazioni cutanee quali vescicole, crosticine e pustole, associate a febbre, stanchezza, dolori muscolari, cefalea e rigonfiamento dei linfonodi. In genere si risolve spontaneamente in un periodo compreso tra due o quattro settimane, con il riposo: non esistono infatti trattamenti specifici.


Primo piano

Il tasso di mortalità è basso per il ceppo del virus localizzato in Africa occidentale (quello riscontrato negli ultimi tempi anche in Europa, Australia e Nord America): 1-3,6%. Numeri più alti per il ceppo endemico nella Repubblica Democratica del Congo, con una mortalità dell’11% per i bambini non vaccinati. Gli immunosoppressi, ma anche i bimbi di età inferiore ai 12 anni e le donne in gravidanza, sono le categorie maggiormente a rischio di sviluppare forme gravi della malattia. Una certa protezione è assicurata alle persone con qualche anno in più dal vaccino contro il vaiolo, obbligatorio in Italia fino al 1977 e definitivamente sospeso nel 1981: gli anticorpi sono efficaci anche contro il monkeypox. E tutti gli altri, devono correre a vaccinarsi? Il ministero della Salute, per il momento, attraverso la circolare del 25 maggio ha precisato come «la vaccinazione post-esposizione (idealmente entro quattro giorni dall’esposizione) può essere presa in considerazione per contatti a rischio più elevato come gli operatori sanitari, compreso il personale di laboratorio, previa attenta valutazione dei rischi e dei benefici». La sorveglianza e il tracciamento dei casi sospetti sono a cura dell’Istituto Superiore di Sanità. La prescrizione è che «i contatti devono essere monitorati almeno quotidianamente per l’insorgenza di segni/sintomi riferibili a MPX per un periodo di 21 giorni

La prescrizione è che «i contatti devono essere monitorati almeno quotidianamente per l’insorgenza di segni/ sintomi riferibili a MPX per un periodo di 21 giorni dall’ultimo contatto con un paziente o con i suoi materiali contaminati durante il periodo infettivo».

© Tatiana Buzmakova/shutterstock.com

© Pavlova Yuliia/shutterstock.com

dall’ultimo contatto con un paziente o con i suoi materiali contaminati durante il periodo infettivo». La buona notizia è che «dei sei casi di vaiolo delle scimmie accertati in Italia, i primi già stanno guarendo», ha spiegato Francesco Vaia, direttore generale dello Spallanzani, durante un incontro dell’Associazione Stampa estera. «Vero che abbiamo fatto un salto in avanti, perché il virus ora si trasmette da uomo a uomo, ma non ci dobbiamo preoccupare più di tanto». Del resto, non è la prima volta che il vaiolo delle scimmie fa capolino al di fuori delle sue aree endemiche, anche se mai prima d’ora con una portata così significativa. Il virus, scoperto nelle scimmie in un laboratorio danese nel 1958, è stato identificato per la prima volta come patogeno umano nel 1970 nel Congo e nel 2003 è arrivato anche negli Stati Uniti. La differenza principale tra il virus del monkeypox e il Sars-Cov-2 è che mentre quest’ultimo è un virus a rna, capace di produrre in tempi relativamente brevi numerose varianti, quello del vaiolo delle scimmie è un virus a dna piuttosto grande, dalla ricombinazione genetica meno rapida e meno capace di selezionare varianti. Altro dettaglio favorevole: il vaiolo delle scimmie non si diffonde in maniera asintomatica ed è dunque più facile da rintracciare. GdB | Maggio 2022

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Primo piano

COVID, OTTIMISMO MA AUMENTANO I SOGGETTI CHE HANNO BISOGNO DEL BOOSTER Calano le degenze in rianimazione, nei reparti ordinari e diminuiscono anche i decessi Il maggior numero dei casi tra i 10 e i 19 anni. La variante prevalente rimane la Omicron 2

I

numeri sono confortanti e inducono all’ottimismo, ma allo stesso tempo indicano che non è ancora il caso di allentare completamente la guardia. La situazione in Italia, per quanto riguarda il Covid, è sempre più sotto controllo, con i livelli di occupazione delle terapie intensive e degli stessi reparti ordinari che si fanno progressivamente più bassi. È il raffronto con i periodi precedenti a dare la misura della situazione. La media dei nuovi contagi giornalieri nell’ultima settimana di maggio è di poco superiore ai 20mila casi, mentre quella dell’ultima settimana di aprile raggiungeva quota 52.676. In picchiata pure i decessi: 85 a fine maggio, 128 un mese prima. E anche il numero degli attualmente positivi, di poco superiore alle 700mila unità, ha finalmente raggiunto i livelli di fine dicembre, quelli immediatamente precedenti alla quarta ondata che ha interessato la Penisola. Nella quasi totalità dei casi si tratta di infezioni che si risolvono in pochi giorni e in modo non problematico. Pochissime, sempre di meno, quelle che portano al ricovero. L’ultimo rapporto settimanale della Fondazione Gimbe (18-24 maggio) segnala una diminuzione del 13,9% delle degenze in rianimazione, del 16,2% nei reparti ordinari e del 17% dei decessi rispetto alla settimana precedente. La diminuzione nel numero dei contagi è invece del 29,6%. Ma chi è che si

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GdB | Maggio 2022

ammala ancora di Covid in Italia? Lo spiega Anna Teresa Palamara, direttore Malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità, nel video di commento all’ultimo monitoraggio settimanale: «L’esame della distribuzione dei contagi per fascia d’età ci mostra che anche questa è in chiara diminuzione in tutte le fasce d’età, compresa la fascia 10-19 anni che è quella dove oggi si osserva il maggior numero di casi». La variante prevalente nel paese rimane Omicron 2, anche se si segnalano percentuali poco significative di nuove mutazioni del virus, in particolare dei sottolignaggi BA.4 (Omicron 4) e BA.5 (Omicron 5), presenti in ogni caso in misura inferiore rispetto ad altri paesi europei dove hanno guadagnato maggiore terreno. Varianti che, precisa Palamara, «non sono comunque associate a un aumento della severità dei casi». Un fenomeno già osservato nelle settimane precedenti e in lento ma progressivo aumento è quello delle reinfezioni, che si fa sempre più rilevante. Dall’Iss fanno sapere che il numero di infezioni ripetute ha superato quota 6%, un trend strettamente associato all’elevata contagiosità delle varianti Omicron e – anche in questo caso – non correlato a un incremento de casi severi. A mettere in guardia sul futuro a breve e medio termine è però Nino Cartabellotta, presidente di Gimbe, che pone l’indice sul


Primo piano

numero di persone rimaste scoperte dalla protezione vaccinale. «In meno di un mese le persone candidate a ricevere subito la dose booster sono più che raddoppiate (da 1,83 milioni il 28 aprile a oltre 4 milioni il 25 maggio) in quanto trascorsi 120 giorni dal completamento del ciclo primario o dalla guarigione dopo il ciclo primario. In tal senso – puntualizza Cartabellotta – considerato l’attuale stallo della campagna vaccinale, nelle prossime settimane aumenterà ulteriormente la popolazione suscettibile, vista la limitata efficacia della vaccinazione con due dosi nei confronti della variante Omicron». In totale sono più di sei milioni e 850mila le persone che non hanno ricevuto alcuna dose di vaccino in Italia, delle quali due milioni e 850mila guarite da meno di 180 giorni e dunque ancora protette a livello anticorpale. Procedono a rilento le somministrazioni della quarta dose agli over 80 e ai soggetti fragili, con una copertura di poco superiore al 30%. E che il pericolo non sia ancora del tutto scampato lo suggerisce pure l’ultimo aggiornamento della mappa a colori dell’Ecdc, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie. Mappa realizzata sulla base dei nuovi casi registrati nelle ultime due settimane ogni 100mila abitanti e del tasso di positività ponderato per il tasso di vaccinazione, in cui tutta l’Italia rimane colorata di rosso scuro, che indica la fascia di maggior

Procedono a rilento le somministrazioni della quarta dose agli over 80 e ai soggetti fragili, con una copertura di poco superiore al 30%.

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rischio Covid. Colore che l’Italia condivide con numerosi altri paesi (buona parte di Francia e Spagna, il Portogallo, vaste regioni di Austria e Grecia), mentre in rosso chiaro sono Belgio, Islanda, Irlanda, Slovenia, Estonia e alcune zone di Francia, Spagna, Croazia e Irlanda. Le uniche aree gialle, indicative di regioni a basso rischio Covid, sono alcune province irlandesi e danesi, oltre alla Lettonia. Nessuna regione europea è contrassegnata dal colore verde (rischio zero), mentre sono tante quelle colorate di grigio, a causa dell’insufficienza dei dati relativi al tasso dei vaccinati e al numero di casi attivi. La stessa Germania figura tra i paesi in grigio. La strada delle riaperture e del ritorno alla piena normalità è comunque tracciata e, da questo punto di vista, non si tornerà indietro. Lo ha chiarito ai microfoni di Sky il sottosegretario alla Salute Andrea Costa, auspicando anzi l’abbattimento delle ultime, marginali restrizioni attive: «Grazie al 92% dei cittadini che si sono vaccinati, la convivenza con il virus è molto vicina. Io confido – è la speranza del sottosegretario – che il 15 giugno possano decadere le ultime restrizioni ancora in vigore». Gli esami di terza media e di maturità, come ipotizzato da più parti, potrebbero ad esempio essere svolti senza mascherine: un piccolo, ma significativo segnale del ritorno alla vita di sempre. (R. D.) GdB | Maggio 2022

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Intervista

GIUSEPPE NOVELLI E L’ALBA DELLA RIVOLUZIONE GENETICA La quarta edizione del trattato Genetica medica illustra tutte le tappe di un cambiamento che ha influenzato la medicina. Un volume che “dovrebbe stare sul tavolo di ogni biologo e medico”

di Elisabetta Gramolini

È

difficile trovare un ambito di indagine clinica che non abbia necessità di attingere alla fonte di conoscenze sul patrimonio rappresentato dai nostri geni. Solo in una manciata di decenni la medicina è stata radicalmente influenzata dalla genetica. La quarta edizione del volume Genetica medica (Edizioni Scientifiche Falco), appena arrivata in libreria, parla proprio di questa rivoluzione. Gli autori sono Giuseppe Novelli, direttore della scuola di specializzazione in Genetica Medica dell’Università di Roma Tor Vergata, e Bruno Dallapiccola, direttore scientifico dell’IRCCS Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Il trattato si rivolge principalmente agli studenti dei corsi di laurea in medicina e delle scuole di specializzazione ma, come spiega al Giornale dei biologi il professor Novelli, “dovrebbe stare sul tavolo di ogni biologo e medico”. Professore, già nella presentazione del volume viene ricordato il potere della rivoluzione genetica che ha profondamente influenzato la medicina. Ormai non si torna più indietro: il medico non può più prescindere dall’avere conoscenze di genetica. Allo stesso tempo, il genetista deve condividere con altre discipline le scoperte nel suo campo. Non solo il medico ma chiunque si affacci a un esame biologico deve considerare la genetica. Gli acidi nucleici sono alla base di

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tutti gli esseri viventi. Ormai tanti specialisti, anche non appartenenti al settore della scienza, come ad esempio il magistrato, si affidano alle indagini genetiche. Negli anni 80, quando io e il professor Dallapiccola eravamo fra i primi in Italia a seguire la rivoluzione genetica, facendo l’analisi dei cromosomi, ricordo che Sidney Brenner (premio Nobel 2002 per la fisiologia e medicina), disse in una conferenza che la genetica sarebbe scomparsa come branca della medicina perché tutti sarebbero divenuti genetisti. E aveva ragione. Oggi negli ospedali nessuno specialista può fare a meno di conoscere la genetica. Quella di Brenner era una visione profetica. Sono quindi convinto che il nostro manuale dovrebbe stare sul tavolo di ogni medico e ogni biologo perché tutti diventeranno genetisti. Con la pandemia, anche l’opinione pubblica ha visto quanto il sequenziamento genico sia importante. Proprio la ricerca sul virus, ci ha offerto la possibilità di inserire nell’edizione del testo, per la prima volta, un capitolo dedicato alla suscettibilità genetica individuale alle malattie infettive, vale a dire la condizione in cui se si hanno certe caratteristiche genetiche, e si viene infettati dal Covid-19, si può sviluppare una forma grave della malattia. Inoltre c’è un capitolo di immunogenetica che abbiamo completamente riscritto rispetto alla


Intervista

Chi è

G

iuseppe Novelli ha insegnato nelle Facoltà di Scienze e di Farmacia dell’Università di Urbino e dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. È stato preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Roma Tor Vergata dal 2008 al 2011 e Rettore dello stesso Ateneo dal 2013 al 2019. È stato presidente dell’Osservatorio Nazionale delle professioni sanitarie presso il ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e componente del Consiglio direttivo dell’Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione delle Università e Ricerca) dal 2010 al 2013. È attualmente direttore della Scuola di Specializzazione in Genetica Medica dell’Università di Roma Tor Vergata. Socio di numerose società scientifiche nazionali ed internazionali tra cui l’Academia Europaea. È membro del Comitato Nazionale per la Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze della Vita. È autore di oltre 600 pubblicazioni internazionali che hanno riguardato la scoperta di geni mendeliani associate a malattie genetiche nell’uomo.

10 anni di distanza dalla pubblicazione della terza edizione del

libro, abbiamo accolto le sollecitazioni dei colleghi, degli amici e, soprattutto, di molti studenti, di aggiornare i contenuti del

nostro trattato di Genetica Medica. Lo abbiamo fatto seguendo i criteri di essenzialità e rigore, richiesti dai programmi e dai requisiti didattici del Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia, dei Corsi di Laurea e Laurea Magistrale relativi alle Professioni Sanitarie e delle Scuole di Specializzazione dell’Area Sanitaria.

uesto nuovo testo, significativamente rinnovato nei contenuti

e nelle immagini, è stato pensato e sviluppato seguendo l’idea che aveva decretato il successo delle precedenti edizioni, quella

di raccontare le nozioni fondamentali della nostra disciplina utilizzando

un linguaggio semplice ma rigoroso, capace di raggiungere il lettore, per fornirgli gli strumenti necessari a comprendere la Genetica Medica moderna e il suo impatto sulla salute dell’uomo. Una formula questa, che

abbiamo a lungo sperimentato sul campo e che è l’elemento fondativo del nostro modo di considerare la didattica universitaria.

Bruno Dallapiccola Giuseppe Novelli

Bruno DALLAPICCOLA – Giuseppe NOVELLI

Genetica Medica

Bruno DALLAPICCOLA – Giuseppe NOVELLI

prima edizione perché mentre dieci anni fa si limitava ai gruppi sanguigni nel frattempo si è aperto un mondo sui difetti immunitari. Ne è un esempio il fatto che ogni giorno sentiamo parlare di immunodepressione oppure delle terapie immunitarie dei tumori. Il completamento della mappatura del genoma umano è solo l’inizio delle conoscenze che potremo sviluppare? Sì. Purtroppo non siamo riusciti a inserire A in questa edizione del testo l’ultimissimo passo compiuto in avanti, ovvero, il recente stuQ dei geni. La dio sull’atlante dell’espressione prossima tappa per la ricerca sarà comprendere che non solo esistono differenze fra organi e tessuti ma anche fra le singole cellule. Il futuro sarà sempre più una medicina personalizzata? Non c’è dubbio. Gli oncologi hanno la necessità di avere presto i test genetici per decidere i farmaci più adatti per trattare il tumore, come ad esempio quello alla mammella. Questa è una rivoluzione. Prima si dava un farmaco uguale per tutti, oggi invece siamo in grado, grazie alla genetica, di associare la differenza individuale ai farmaci. Avremo terapie in questo modo sempre più precise, efficaci e con meno effetti collaterali. Un capitolo è dedicato alla terapia delle malattie geniche. La portata delle conquiste della genetica per il trattamento delle malattie rare, come noto, è significativa.

Genetica Medica

Giuseppe Novelli.

ISBN 979-12-8077-401-9

e 75,00 (i.i.)

Il trattato si rivolge principalmente agli studenti dei corsi di laurea in medicina e delle scuole di specializzazione.

Abbiamo evidenziato con delle tabelle tutte le terapie geniche per malattie che fino a pochi anni fa si pensava non si potessero trattare. Abbiamo dei risultati straordinari per l’atrofia muscolare spinale, la fibrosi cistica, l’emofilia, la talassemia, la distrofia muscolare di Duchenne. Solo poco fa erano incurabili mentre oggi abbiamo una speranza. È la seconda tappa del grande progetto che riguarda il genoma. L’ultimissimo capitolo è dedicato alla consulenza genetica in cui compaiono paragrafi sullo studio della probabilità. Non vogliamo che venga confusa la genetica con gli oroscopi: la genetica non prevede il futuro. Non può essere eseguito un test genetico senza una adeguata consulenza che stabilisca quale sia il rischio, quale esame fare a valle dell’interpretazione che è prerogativa esclusiva dello specialista di genetica medica. Molte persone fanno i test genetici richiedendoli sul web mandando campioni biologici ma l’interpretazione del dato non può essere lasciata al caso. Ad esempio, sulla immunodeficienza combinata variabile è stato visto recentemente che oltre il 70-80 per cento delle alterazioni del DNA del gene sono degli effetti funzionali neutri, quindi se si legge il DNA e si vede la mutazione si potrebbe pensare che la persona sia malata ma non è così e solo un genetista può spiegarlo. GdB | Maggio 2022

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Intervista

SVELATA LA FUNZIONE ANTIDIABETICA DEL TESSUTO ADIPOSO BRUNO La scoperta guidata da due ricercatori di Roma Tor Vergata: Katia Aquilano e Daniele Lettieri-Barbato. All’orizzonte nuovi farmaci contro le malattie metaboliche legate all’età

di Chiara Di Martino

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l “tessuto adiposo bruno” ha un ruolo essenziale nel mantenimento della temperatura corporea: è infatti ricco di “mitocondri”, organelli responsabili della produzione di calore, che viene generato attraverso l’azione di una proteina specializzata chiamata “termogenina”. È presente in grandi quantità nei neonati, ma man mano che si va avanti con l’età le sue caratteristiche vengono in gran parte perse. Per funzionare, il tessuto adiposo bruno utilizza le riserve di grassi immagazzinati all’interno degli adipociti o cellule adipose brune, il glucosio e altri lipidi che provengono dal flusso sanguigno, “bruciandoli” all’interno dei mitocondri per produrre calore. Oggi, un nuovo meccanismo di regolazione di questo tessuto, basato sull’interazione degli adipociti con cellule immunitarie, è stato svelato da un team di ricercatori italiani e stranieri coordinati da Katia Aquilano, che dirige il Laboratorio di Biochimica della Nutrizione, e Daniele Lettieri-Barbato, a capo del Laboratorio di Fisiologia, entrambi del Dipartimento di Biologia dell’Università di Roma “Tor Vergata” (nel box il team al completo). Quello che hanno scoperto è che gli adipociti bruni, quando stimolati a produrre calore a seguito di un’e-

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sposizione al freddo, espellono nell’ambiente extracellulare parti di mitocondrio danneggiate dal funzionamento massivo. Ed è proprio Katia Aquilano a spiegarci le sfumature più innovative dello studio pubblicato su Cell Metabolism, che appare promettente per lo sviluppo di terapie contro diverse malattie metaboliche correlate all’età come l’obesità e il diabete di tipo 2. Ci spiega brevemente cosa si intende per tessuto adiposo bruno e quali sono le differenze con quello bianco? Il tessuto adiposo bruno è un tessuto composto da cellule specializzate, chiamate adipociti bruni, che al loro interno presentano numerose gocce contenenti lipidi. Gli adipociti bruni contengono anche un gran numero di organelli ricchi di ferro, i mitocondri, che conferiscono il colore brunastro al tessuto. Al contrario, il tessuto adiposo bianco è un tessuto contenente adipociti bianchi, che posseggono un’unica grande goccia lipidica che occupa la quasi totalità del volume cellulare e hanno pochi mitocondri. Il compito del tessuto adiposo bianco è quello di conservare l’energia sotto forma di lipidi e di rilasciarli quando aumenta la richiesta energetica da parte degli altri tessuti, come ad esempio du-


Intervista

Katia Aquilano.

Il team

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rante lunghi periodi di digiuno. Che ruolo svolge nel corpo? Cos’è la termogenesi? Svolge un ruolo molto importante nel mantenere la temperatura corporea a seguito di un’esposizione al freddo, mediante il processo di termogenesi, vale a dire quel processo in cui i grassi sono bruciati all’interno dei mitocondri degli adipociti bruni per produrre calore. Che rapporto c’è tra il tessuto adiposo bruno e malattie come l’obesità o il diabete di tipo 2? Il tessuto adiposo bruno è molto abbondante nei neonati e nell’adulto permane in alcune regioni del corpo come la regione del collo, paravertebrale e in prossimità dei reni. È stato osservato che, in individui obesi o diabetici, il tessuto adiposo bruno non è più presente. Numerosi studi hanno ormai dimostrato che ha un ruolo molto importante nel mantenere la nostra salute metabolica. Infatti, grazie alla sua elevata attività metabolica, è in grado di captare i glucidi e i lipidi nel sangue, prevenendo il diabete. Quando è iniziato lo studio? È cominciato circa 5 anni fa, dall’osservazione che gli adipociti bruni erano in grado di rilasciare delle vescicole contenenti del materiale di provenienza mitocondriale. Quali tasselli aggiunge alla conoscenza di questo tessuto e del suo funzionamento? Le

Il tessuto adiposo bruno è molto abbondante nei neonati e nell’adulto permane in alcune regioni del corpo come la regione del collo, paravertebrale e in prossimità dei reni.

Daniele Lettieri-Barbato.

o studio che svela la nuova funzione antidiabetica e termogenica del tessuto adiposo bruno è stato coordiImmagine metabolismo, © F. Rufini nato da Katia Aquilano e Daniele Lettieri Barbato (Dipartimento di Biologia dell’Università di Roma “Tor Vergata”), con i quali hanno collaborato Simona Arena, Giovanni Renzone e Andrea Scaloni dell’Istituto per il Sistema Produzione Animale in Ambiente Mediterraneo (Cnr-Ispaam), e Valerio Chiurchiù dell’Istituto di Farmacologia Traslazionale (Cnr-Ift) del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

evidenze emerse sono state una conferma o una sorpresa? Il nostro studio ha dimostrato che, quando il processo di termogenesi è attivo nel tessuto adiposo bruno, i mitocondri degli adipociti bruni sono sottoposti a un elevato stress metabolico ed ossidativo andando incontro ad un danneggiamento. I frammenti di mitocondri danneggiati vengono prontamente eliminati attraverso il rilascio di vescicole nell’ambiente extracellulare. Alcune cellule immunitarie specializzate presenti nel tessuto, i macrofagi, agendo da veri e propri “spazzini”, sono coinvolti nella rimozione di questi detriti mitocondriali allo scopo di garantire che il processo termogenico possa andare avanti. Quindi il nostro studio ha messo in luce un nuovo ruolo dei macrofagi all’interno del tessuto adiposo bruno, finora del tutto sconosciuto. Quali sono le implicazioni di questa scoperta? Potrebbero avere un impatto su eventuali terapie future? Vista la straordinaria importanza che ha la corretta funzionalità del tessuto adiposo bruno nel contrastare il diabete, si potrebbe pensare di sviluppare dei farmaci in grado di incrementare l’attività termogenica di questo tessuto agendo sulla capacità dei macrofagi di rimuovere le vescicole contenenti i mitocondri danneggiati. GdB | Maggio 2022

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Intervista

QUEI CAPELLI SONO DAVVERO DI NAPOLEONE. CHI LO DICE? IL DNA (DELLE DISCENDENTI) Un complesso e lungo studio guidato da Elena Pilli, antropologa molecolare forense, ha portato alla conferma che il reperto dell’Archivio di Stato di Milano fosse autentico

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rano conservati nell’Archivio di Stato di Milano ed erano attribuiti a Napoleone Bonaparte. La certezza scientifica che quei capelli (3 ciocche, per la precisione) fossero realmente dell’imperatore, però, non c’era. Così sono state richieste le competenze di uno dei laboratori italiani più all’avanguardia per l’analisi del DNA – afferente al Dipartimento di Biologia dell’Università di Firenze – per dare una risposta inconfutabile alla domanda di partenza. Quei capelli erano stati confiscati dalla polizia austriaca a un collaboratore di Napoleone, Natale Santini, e nei verbali risultavano attribuiti all’imperatore. Poi dal deposito dell’Archivio di Stato, dove sono arrivati, sono finiti nelle “mani” preziose di Elena Pilli, antropologa molecolare forense, e dei colleghi David Caramelli e Donatella Lippi, che hanno avuto l’arduo compito di individuare il metodo migliore per arrivare al risultato. E il match, alla fine, è stato trovato: quei capelli sono effettivamente di Napoleone. Circostanza che, oltre a dare rigore scientifico al reperto, consentirà con le ulteriori indagini che il laboratorio sta portando avanti anche di ricostruire con maggiore precisione l’aspetto esteriore dell’imperatore. Ma a spiegarci cosa è accaduto dal primo contatto con l’Archivio di Stato è Elena Pilli, che ha al suo attivo indagini molecolari di impatto significativo relative sia a casi forensi a lungo irrisolti quali ad esempio quello di Elisa

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Claps, Melania Rea, Yara Gambirasio, Chiara Poggi e Serena Mollicone, sia all’identificazione delle vittime delle Fosse Ardeatine e della Strage di Bologna. Professoressa Pilli, qual è stata la prima domanda che ha voluto indagare? Più che voluto, direi dovuto. L’ipotesi originaria era che quelle formazioni pilifere appartenessero a Napoleone e la richiesta che ci veniva fatta era quella di una conferma scientifica. Pertanto, per iniziare, abbiamo dovuto ricercare dei campioni di confronto certi (discendenti di Napoleone) con cui poter confrontare il DNA delle formazioni pilifere. Parallelamente abbiamo anche dovuto selezionare il marcatore migliore per le analisi molecolari: i marcatori del DNA nucleare non erano adatti, sia per la natura della formazione pilifera (DNA degradato) sia per il tempo trascorso. Da Napoleone a oggi non avremmo avuto possibilità di verificare l’appartenenza delle formazioni pilifere. Abbiamo inoltre scartato anche i marcatori uniparentali del cromosoma Y, che passano invariati dal padre ai figli maschi, sempre per motivi legati alla natura del campione biologico e pertanto abbiamo scelto il DNA mitocondriale, che si trasmette dalla madre ai figli (maschi e femmine) ma poi a sua volta viene trasmesso a cascata solo dalle figlie femmine. Quali gli step per trovare le risposte? Passo successivo è stato quello di ricostruire l’albero genealogico di Napoleone e trovare


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Intervista

Chi è

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ntropologa Molecolare Forense, docente di Antropologia Forense del Dipartimento di Biologia dell’Università di Firenze, Elena Pilli è laureata in Scienze Biologiche, ha conseguito con lode un Master di II livello in Scienze Forensi e un Dottorato in Biologia curriculum Antropologia. Per due anni ha fatto parte del Reparto Investigazioni Scientifiche dei Carabinieri di Roma Elena Pilli come Ufficiale della riserva selezionata. Esperta di campioni complessi, Pilli è stata coinvolta in diversi casi forensi di interesse nazionale, fra i quali, i più noti alla cronaca, il caso di Elisa Claps, Melania Rea, Yara Gambirasio, Chiara Poggi, Lidia Macchi e Serena Mollicone. Come anche nell’identificazione delle vittime delle Fosse Ardeatine e nella identificazione di una delle vittime della Strage di Bologna. Attualmente sta partecipando all’identificazione dei migranti morti nel mar Mediterraneo.

familiari in vita per linea materna che dessero l’autorizzazione al prelievo di un loro tampone salivare per consentirci di effettuare una comparazione dei profili mitocondriali. E così abbiamo incrociato la discendenza di Carolina Bonaparte, sorella di Napoleone e moglie di Gioacchino Murat, la loro figlia Letizia fino ad arrivare, di generazione in generazione, a tre sorelle romane, una delle quali aveva avuto due figlie. I tamponi salivari su cui effettuare le analisi erano perciò cinque. Come è avvenuto il confronto con i capelli di Napoleone? Avevamo tre ciocche; per ciascuna, abbiamo analizzato una formazione pilifera. I profili di due formazioni pilifere sono apparsi perfettamente sovrapponibili; per la terza, abbiamo ripetuto le analisi su una seconda formazione che ci ha dato conferma della presenza dello stesso profilo mitocondriale: probabilmente la prima che avevamo analizzato era stata oggetto di una contaminazione. Va detto che sono campioni complessi, come le ossa: per loro natura le formazioni pilifere presentano infatti un DNA degradato ed in scarsa quantità. La tecnologia, però, ci è venuta in soccorso – in particolare con il Next Generation Sequencing - e siamo riusciti a sequenziare le 16.569 “lettere”

Il tessuto L’ipotesi originaria era che quelle formazioni pilifere appartenessero a Napoleone e la richiesta che ci veniva fatta era quella di una conferma scientifica. Pertanto, per iniziare, abbiamo dovuto ricercare dei campioni di confronto certi (discendenti di Napoleone) con cui poter confrontare il DNA delle formazioni pilifere.

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Napoleone nel suo studio (Jacques Louis David, 1812)

del genoma mitocondriale. Dopo aver effettuato le analisi sulle formazioni pilifere abbiamo analizzato, in un laboratorio differente, anche i tamponi delle discendenti di Napoleone. I loro profili mitocondriali erano perfettamente sovrapponibili fra di loro e con quello delle formazioni pilifere. Ecco come siamo giunti a confermarne l’appartenenza a Napoleone. E ora? Le analisi stanno proseguendo e sono volte alla ricostruzione del genoma completo di Napoleone tramite, stavolta, il DNA nucleare (e questa è una sfida altamente innovativa visto che solo fino a non molto tempo si credeva che nel fusto di una formazione pilifera non vi fosse materiale nucleare), da cui potremmo trarre informazioni anche per esempio circa i tratti fenotipici e il suo stato di salute. Questo studio si può annoverare tra i suoi fiori all’occhiello? È stato certamente uno studio fonte di grande soddisfazione, soprattutto se si considerano le ripercussioni che questo studio ha su campioni di interesse storico culturale. Questo è l’ennesimo esempio di come la scienza/la ricerca possano valorizzare i beni di interesse storico culturale e offrire anche strumenti per la loro conservazione o il restauro. (C. D. M.) GdB | Maggio 2022

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Salute

MIASTENIA, QUANDO LA FATICA È INSOSTENIBILE La malattia è poco nota, per questo viene diagnosticata spesso con ritardo I sintomi sono vari e possono rendere difficile la vita ai pazienti ma le cure esistono

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ebolezza e fatica sono i principali sintomi della miastenia gravis, una malattia neuromuscolare che colpisce in Italia circa 15-20 mila pazienti. Subdola e imprevedibile, la miastenia può avere un esordio rapido. Uno dei problemi che rallentano la diagnosi è proprio la comprensione precoce dei sintomi. La persona che ne soffre, infatti, spesso si rivolge tardivamente al medico, nonostante subisca un peggioramento della propria qualità di vita. Accade di frequente poi che il paziente non ne abbia mai sentito parlare anche se, di recente, un contributo per far conoscere la malattia è stato dato dalla testimonianza di un personaggio noto del mondo del calcio, l’allenatore Rino Gattuso, che ha condiviso la sua esperienza di oltre dieci anni con una forma oculare di miastenia. La debolezza muscolare è causata da anticorpi circolanti che bloccano i recettori post-sinaptici dell’acetilcolina della giunzione neuromuscolare, riducendo la validità della contrazione muscolare. L’esordio può avvenire in maniera precoce, prima dei 40 anni, e tardiva, sopra i 50. La malattia è annoverata nell’elenco delle rare, visto che la prevalenza è di 80-100 casi per milione di abitanti e l’incidenza registrata è di 21 casi ogni milione di abitanti. La miastenia gravis può interessare ogni muscolo volontario, come i muscoli che controllano l’occhio e i movimenti delle palpebre, l’espressione facciale, la masticazione, fino ad arrivare al coinvolgimento dei mu-

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scoli che controllano la respirazione, il collo e i movimenti degli arti. A causa delle varie manifestazioni spesso vengono coinvolti differenti specialisti (oculista, otorino laringoiatra psichiatra, fisiatra) con il rischio che la malattia non venga riconosciuta e che venga ritardato il corretto iter diagnostico e terapeutico. Ma anche le manifestazioni cliniche possono essere molto diverse da paziente a paziente e pure nello stesso individuo. C’è poi un altro dato significativo che riguarda i pazienti italiani: si stima che nel nostro Paese siano circa 13mila le persone sofferenti di miastenia gravis che non fanno riferimento a centri esperti di malattie neuromuscolari. Il dato risulta dalla differenza fra la stima, emersa dall’ultimo Congresso mondiale di Neurologia, di 17mila malati in Italia e il numero dei pazienti effettivamente diagnosticati nei centri di riferimento, che arriva a circa 4mila persone. «Si tratta di una popolazione a rischio che, senza un inquadramento diagnostico adeguato, non può iniziare una corretta terapia in tempi utili per ridurre il più possibile il danno generato da questa rara malattia neuromuscolare, tenendo conto che la malattia, se non curata in modo opportuno, può portare anche alla morte del paziente», sottolinea Renato Mantegazza, dirigente medico del dipartimento di Neuroimmunologia e Malattie Neuromuscolari Fondazione IRCCS Istituto Neurologico Carlo Besta Milano. La malattia, nella maggior parte dei casi, può essere tenuta sotto controllo con una


Uno dei problemi che rallentano la diagnosi è proprio la comprensione precoce dei sintomi. La persona che ne soffre, infatti, spesso si rivolge tardivamente al medico, nonostante subisca un peggioramento della propria qualità di vita.

verse parti d’Italia e presentata in occasione dell’evento che si è tenuto a Roma per fare il punto sulla patologia, si evidenzia che oltre la metà dei 42 centri di cura sul territorio nazionale, ma situati prevalentemente nel Nord, ha attivato un percorso dedicato alla malattia che coinvolge, oltre al neurologo, altri specialisti tra cui pneumologo, fisiatra e chirurgo toracico. Inoltre, la ricerca ha rilevato che in un gruppo multidisciplinare su cinque è presente uno psicologo, come parte integrante del percorso di cura. Dall’indagine emerge ancora che solo il 12 per cento dei centri ha in carico più di 50 pazienti mentre gli altri hanno un volume di attività più ridotto: un dato che indica come molti pazienti siano ancora parzialmente “sommersi” perché seguiti da singoli specialisti senza accedere a un unico centro di riferimento, dove è attivabile una presa in carico globale della malattia con l’avvio di un percorso adeguato. (E. G.)

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opportuna terapia farmacologica. Sono però necessari una corretta presa in carico multidisciplinare e un monitoraggio regolare. «Le manifestazioni cliniche sono molto diverse da paziente a paziente e possono modificarsi anche nello stesso individuo. Per questo motivo è importante non sottovalutare i propri sintomi, per non rischiare di ritardare il percorso diagnostico terapeutico con il pericolo di un ulteriore aggravamento clinico», spiega Amelia Evoli, professoressa associata di Neurologia Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e dirigente medico del Policlinico Universitario Gemelli di Roma. È necessario un approccio multidisciplinare di specialisti, dall’oculista all’otorino-laringoiatra, dal chirurgo toracico allo pneumologo, per intercettare i diversi segnali della malattia in fase precoce e per realizzare il necessario programma terapeutico e di monitoraggio. In una recente analisi, condotta da un gruppo di specialisti di di-

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Salute

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Salute

MACCHIE PERICOLOSE CASI IN AUMENTO L’incidenza del melanoma negli ultimi dieci anni è balzata del 15 per cento Fra le nuove armi c’è la terapia target anche contro la forma metastatica

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n puntino scuro sulla pelle. Piccolo ed indolore che compare dall’oggi al domani. Guai però a considerarlo insignificante. Secondo le stime dell’Associazione italiana registri tumori (Airtum), l’incidenza del melanoma è aumentata in modo rilevante negli ultimi dieci anni. In particolare, per il 2020, è stata pari a 14.863 nuovi casi, in incremento del 15 per cento rispetto al dato del 2011 e del 12 per cento, rispetto alla stima fatta nel 2011 per il 2020. Complici una maggiore attenzione e sensibilizzazione dell’opinione pubblica, anche le diagnosi dei tumori della pelle sono aumentate. Il fattore tempo gioca un ruolo cruciale: occorre osservare il proprio corpo, non trascurare i cambiamenti, e rivolgersi al dermatologo che oltre all’esame obiettivo compie una dermoscopia, per valutare grazie all’ingrandimento i colori e le strutture non visibili ad occhio nudo. Tutte le lesioni sospette devono essere sottoposte a biopsia ed è fondamentale l’analisi dello spessore. «Nel caso di melanomi sottili, cioè con uno spessore sotto ad un millimetro – afferma Mario Mandalà, professore di Oncologia Medica dell’Università degli Studi di Perugia – si guarisce in circa il 90 per cento dei casi». Le cose si complicano all’aumentare dello spessore. «In presenza di melanomi più avanzati con interessamento dei linfonodi regionali, cioè delle ghiandole linfatiche vicine al tumore – spiega – il rischio di ripresa della malattia va dal 30 fino al 70 per

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cento. Oggi però abbiamo terapie molto efficaci da somministrare a scopo preventivo dopo l’asportazione chirurgica della lesione che danno un beneficio importante nell’evitare le recidive». Molte le novità nella cura presentate in quest’ultimo anno anche per il melanoma metastatico. Tra le nuove “armi” per combattere questa forma, che fino a qualche anno fa aveva una prognosi di appena 6-7 mesi, ci sono l’immunoterapia e, nel caso di pazienti con mutazione del gene BRAF, le terapie a bersaglio molecolare (target therapy). «Farmaci e loro combinazioni – conclude Mandalà – che permettono di ottenere una sopravvivenza a 5 anni del 40 per cento con la terapia target, e del 56 per cento con la combo-immunoterapia a circa 6,5 anni». Le due terapie hanno una efficacia importante con profilo di tossicità diverso, per cui è importante discutere le due opzioni con il proprio oncologo. Un capitolo ancora poco noto è il Pregnancy associated melanoma (Pam), la forma che colpisce in gravidanza. Intervenire chirurgicamente è possibile e in linea generale non è consigliabile procrastinare dopo la nascita del bambino. Il melanoma infatti potrebbe dare luogo a metastasi placentari o fetali attraversando la placenta. Per questo è consigliabile che la donna effettui una visita dermatologica all’inizio e durante la gravidanza per monitorare i nei presenti. C’è poi il melanoma del cuoio capelluto che merita attenzione perché, se nei calvi o in chi ha pochi capelli c’è una chance in più


Salute

di individuarlo all’esordio, quando è nascosto tra i capelli la prognosi è spesso nefasta. Nonostante testa e collo rappresentino solo il 9,0 per cento della superficie corporea totale, ospitano tra il 20 per cento e il 30 per cento dei casi di questo tumore della pelle altamente aggressivo. Il tasso di sopravvivenza a dieci anni è del 60 per cento. Più comune tra gli anziani che tra i giovani, questa forma colpisce sei volte più frequentemente gli uomini rispetto le donne. L’età media dei pazienti è di 65 anni quasi dieci anni in più rispetto ai pazienti con melanoma localizzato sul tronco o sugli arti. Ciò è probabilmente correlato alla maggiore incidenza di alopecia androgenetica e a un danno ultravioletto cumulativo e intermittente più elevato sul cuoio capelluto. In generale, in questi pazienti sono frequenti segni di danno solare cronico e precedenti storie di cancro della pelle. «Recenti studi hanno individuato due scenari diversi per il suo sviluppo», spiega Ignazio Stanganelli, presidente dell’Intergruppo melanoma italiano (Imi) e direttore della Skin Cancer Unit IRCCS Istituto Romagnolo per lo Studio dei Tumori e professore associato dell’Università di Parma. «I pazienti anziani – continua - con alopecia androgena

Il fattore tempo gioca un ruolo cruciale: occorre osservare il proprio corpo, non trascurare i cambiamenti, e rivolgersi al dermatologo che oltre all’esame obiettivo compie una dermoscopia, per valutare grazie all’ingrandimento i colori e le strutture non visibili ad occhio nudo.

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e foto-danneggiamento tendono a sviluppare melanoma di tipo superficiale che, comparendo su aree visibili, vengono rilevati prima di diventare invasivi e inoltre sono di un sottotipo a crescita lenta. Il secondo scenario riguarda i melanomi che insorgono sul cuoio capelluto ‘peloso’ degli individui più giovani. Nonostante siano rari, data la posizione vengono o diagnosticati in ritardo o sono biologicamente più aggressivi e dunque sono più letali». (E. G.)

L’aiuto del parrucchiere

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’Imi ha dedicato al melanoma del cuoio capelluto un webinar dal titolo “Il melanoma nascosto tra i capelli” con il quale ha lanciato un appello agli operatori del benessere: fare squadra per la diagnosi precoce. «Parrucchieri ed estetisti – sottolinea Ignazio Stanganelli - possono infatti evidenziare la presenza di eventuali lesioni sospette, suggerendo all’interessato di fare una visita dermatologica».

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MELANOMA RIPRODOTTO PER TERAPIE PIÙ EFFICACI Testare farmaci sperimentali su parti del tessuto neoplastico riprodotte in laboratorio: è l’obiettivo del Working Group Melanoma di Alleanza Contro il Cancro

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Salute

Il professor Russo ha spiegato come all’interno di questo progetto vi sia anche «una parte divulgativa: questi protocolli sono stati standardizzati e messi a disposizione di tutti i partecipanti di Alleanza Contro il Cancro, in modo tale che se altri Istituti, oltre a quelli che partecipano al Working Group Melanoma, vorranno utilizzarli potranno farlo. Tutto questo verrà corredato da un video che aiuterà, anche tecnicamente, a realizzare questo tipo di tecniche».

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l Working Group Melanoma di Alleanza Contro il Cancro, la Rete Oncologica Nazionale fondata dal ministero della Salute e presieduta dal professor Ruggero De Maria, non cessa la propria lotta quotidiana contro questo temibile tumore, caratteristico della pelle. L’ultimo obiettivo in ordine di tempo, al quale stanno collaborando diversi Istituti associati, è lo sviluppo di terapie personalizzate e più efficaci, testando gli effetti dei farmaci - anche sperimentali e non per forza disegnati per quello specifico tumore - su parti dello stesso tessuto neoplastico riprodotte in laboratorio (organoide). Giandomenico Russo, già Direttore Scientifico dell’IDI di Roma e coordinatore del WG, ha spiegato che «predire un percorso terapeutico significa, da un lato, far guadagnare tempo prezioso al paziente evitandogli terapie che non funzionerebbero e, dall’altro, risparmiare ingenti risorse dirottabili altrove». Nella speranza di avere a disposizione sempre nuove terapie, spesso purtroppo costosissime, risulterebbe dunque fondamentale «sapere già all’inizio quali sono efficaci sui pazienti, senza sprecare soldi e tempo». Il professor Russo non manca di definire quello dei ricercatori «un sogno», ma evidentemente alla portata se nell’arco dei decenni molti scienziati si sono cimentati, concentrandosi in particolare sulle singole cellule tumorali. Queste, però, estrapolate dal proprio microambiente, non consentono agli studiosi di riprodurre la malattia. Da qui, ha spiegato Russo, la svolta: utilizzare dei pezzi di tessuto, soprattutto del melanoma metastatico, per studiarlo in vitro e verificare come i farmaci funzionano sulle colture organoidi. Gli Istituti coinvolti – IDI e IFO di Roma, IRCCS Giovanni Paolo II di Bari, IEO e Istituto Nazionale Tumori di Milano e IRCCS Irst Dino Amadori di Meldola, tutti associati alla Rete – stanno applicando quattro diverse tecnologie di tipo organoide. Il motivo è il seguente: «Non sappiamo quali reagiscono meglio, perciò abbiamo deciso di applicarle tutte e quattro. Si parte dal paziente con il melanoma, si ottiene dall’anatomia patologica e dai chirurghi un piccolo pezzo di tumore e lo si tratta». Il coordinatore dello studio ha cercato di spiegare in maniera semplice in cosa consistono le quattro tecnologie e cosa viene fatto della coltura prelevata. La prima prevede che il pezzo di tumore venga «imbevuto in particelle di collagene; nella seconda è posizionato in una camera micro-fluidica dove vengono somministrate sostanze differenti; nella terza vengono mesco-

late cellule della cute con quelle tumorali; nella quarta viene utilizzato un bioreattore - una sorta di cilindro rotante - dove le cellule cancerogene vengono fatte crescere affinché si stabilizzino con quelle accessorie. Non potendole portare a più lunga coltura di una decina di giorni, vi è la necessità di trattarle farmacologicamente con i vari protocolli esistenti in quel momento per il melanoma o, anche, non specificamente disegnati per la cura di questa patologia». A questo punto si effettuano delle analisi: «Le cellule del melanoma e accessorie vengono uccise da questi trattamenti? Sono resistenti? Possono rispondere a nuove combinazioni di farmaci?» Ottenere queste risposte è possibile alla luce dell’analisi genetica preventiva mirata alla personalizzazione terapeutica. In caso di risposta positiva si potrà procedere sul paziente, soprattutto quelli in fase terminale per i quali non si dispone più di farmaci ufficiali utilizzabili. Il professor Russo ha osservato come purtroppo la pandemia abbia rallentato pesantemente il progetto, soprattutto per quanto riguarda la fase di acquisizione di materiale tumorale, poiché molti interventi sono stati ritardati. In ogni caso, assicura Russo, «noi siamo andati avanti con tutte le nostre forze, con tutto l’impegno anche di giovani ricercatori che si sono realmente prodigati per dare il massimo. Per ora abbiamo una biobanca che vanta intorno ai 120 campioni di materiale anche congelato: è una cosa importante. Abbiamo anche stabilito una serie di protocolli per il trasporto in maniera vitale di questi campioni, e per l’utilizzo» degli stessi «congelati in tempi successivi, cosa estremamente importante perché non ci obbliga a svolgere gli esperimenti nello stesso giorno in cui raccogliamo il materiale». Il coordinatore dello studio ha aggiunto come il gruppo di lavoro sia attualmente impegnato nella realizzazione di «una serie di protocolli per quanto riguarda le terapie». Quelle su cui gli scienziati stanno concentrando i loro sforzi sono “target therapy” e terapia immunologica. «Nella nuova fase - ha concluso Giandomenico Russo - stiamo già introducendo una serie di farmaci già in studio in fase II per la terapia del melanoma per vedere se possono essere utilizzati da soli (è dubitabile) o soprattutto in combinazione. Diversi li abbiamo già testati. Abbiamo dati su 46 pazienti: alcuni sono confermatori della risposta e questo ci conforta. Per la fine dell’anno abbiamo intenzione di ottenere risultati anche per quanto riguarda la combinazioni con nuovi farmaci». (D. E.). GdB | Maggio 2022

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TUMORE AL PANCREAS, NUOVA CHIAVE PER COMPRENDERLO I ricercatori del Centro di Biotecnologie Molecolari dell’Università di Torino hanno identificato il ruolo della proteina p130Cas che potrebbe aprire a nuovi lavori per studiare la neoplasia

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a ancora paura, più degli altri. Il tumore al pancreas in tutte le tabelle, sia nazionali sia internazionali, mostra tassi di mortalità elevati. E se nelle altre sedi il cancro, secondo l’ultimo rapporto Aiom-Airtum, miete meno vittime in generale in Italia (in calo del 10 per cento negli uomini e dell’8 per cento nelle donne, tra il 2015 e il 2021), nel caso del pancreas, la mortalità rimane stabile. Ogni anno il censimento “I numeri del cancro in Italia”, a cura dell’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom), descrive gli aspetti relativi alla diagnosi e terapia delle neoplasie. I numeri che riguardano il 2020, riportano come nel nostro Paese siano morte 12.900 persone solo per il carcinoma al pancreas. Il tipo di tumore non è solo particolarmente letale ma è anche complesso da individuare. La scarsa percentuale di sopravvivenza è principalmente dovuta al fatto che la malattia, nelle sue fasi iniziali, non si manifesta con sintomi eclatanti. E anche per la prevenzione, dato che non sono noti ancora i fattori di rischio certi, gli esperti possono solo consigliare l’astensione dal fumo e una dieta sana ed equilibrata. La comprensione delle fasi di progressione è inoltre ancora limitata, così come la conoscenza di marcatori molecolari per la diagnosi precoce. La rapidità e l’aggressività della diffusione del carcinoma nei tessuti vicini, la refrattarietà alla chemioterapia standard e la tendenza a recidivare ne fanno uno dei tumori più difficili e impegnativi da trattare. Anche per tutta questa serie di motivi, la ricerca condotta dagli scienziati del Centro

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di Biotecnologie Molecolari dell’Università di Torino, pubblicata dalla rivista internazionale “Gastroenterology”, è importante. I ricercatori hanno infatti scoperto un fattore indispensabile per l’insorgenza della neoplasia, identificato nel ruolo della proteina chiave p130Cas. I tumori pancreatici hanno origine a partire dalle cellule esocrine, responsabili della produzione degli enzimi pancreatici, che permettono la digestione: tali cellule possono andare incontro a una metaplasia acino-duttale (termine che indica la trasformazione di una tipologia cellulare in un’altra differente), che rappresenta il primo step nella progressione tumorale sostenuta dall’oncogene Kras. Gli oncogeni sono geni che, se subiscono delle mutazioni, causano lo sviluppo del tumore. In più del 90 per cento dei tumori pancreatici sono state infatti individuate mutazioni dell’oncogene Kras. Tramite screening genetici ad ampio spettro, la proteina adattatrice p130Cas è emersa come un potenziale interattore di Kras e possibile candidato per predire la suscettibilità allo sviluppo del tumore pancreatico. Coordinati dalle professoresse Miriam Martini e Sara Cabodi, i ricercatori dell’ateneo torinese hanno analizzato campioni umani di tumore pancreatico e generato modelli sui topi di cancro del pancreas di crescente aggressività per studiare la relazione fra p130Cas e la tumorigenesi nel pancreas. La scoperta di proteine chiave che regolano le fasi iniziali della tumorigenesi è fondamentale per comprendere a fondo questa patologia e identificare possibili marker molecolari utili nella diagnostica e nella terapia. Il primo auto-


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Lettera all’Aifa

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ltre duecento oncologi italiani hanno firmato una lettera indirizzata all’Agenzia italiana del farmaco per chiedere di tornare sui suoi passi. La richiesta degli specialisti mira a rivalutare la posizione espressa dall’ente regolatorio su Olaparib, il medicinale negli ultimi due anni somministrato “a uso compassionevole” ai pazienti affetti da tumore al pancreas con la mutazione dei geni Brca1/2. In due anni la terapia è stata usata per trattare complessivamente 101 pazienti con queste caratteristiche. “Il capitolo – scrivono gli oncologi - è stato chiuso dall’Aifa nel mese di novembre, quando la Cts si è espressa dicendo che il farmaco non era di interesse per i pazienti”. © Klaudia Oczeretko/shutterstock.com

Il tipo di tumore non è solo particolarmente letale ma è anche complesso da individuare. La scarsa percentuale di sopravvivenza è principalmente dovuta al fatto che la malattia, nelle sue fasi iniziali, non si manifesta con sintomi eclatanti.

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re dello studio, il dottor Andrea Costamagna, utilizzando topi suscettibili al tumore al pancreas e privi della proteina p130Cas, ha osservato che un’elevata espressione di p130Cas è frequente nel tumore pancreatico e ha quindi una stretta correlazione con un maggiore sviluppo del tumore e una peggior prognosi. Al contrario, i topi in cui p130Cas è stata rimossa non sviluppano il tumore nonostante l’attivazione dell’oncogene Kras. Nello studio, si è dimostrato che la perdita di p130Cas sopprime la tumorigenesi poiché blocca la metaplasia acino-duttale, tramite l’inibizione della via di segnalazione PI3K-AKT, coinvolta nei meccanismi di crescita e sopravvivenza e fondamentale per la progressione tumorale. Grazie a una stretta collaborazione con la professoressa Elisa Giovannetti del VU University Medical Center di Amsterdam, è stato inoltre possibile dimostrare che l’elevata espressione della proteina p130Cas si correla a una peggior prognosi e a una minore aspettativa di vita dei pazienti. Queste scoperte hanno dimostrato come p130Cas agisca a valle dell’oncogene Kras per aumentare la segnalazione della linea PI3K-AKT, richiesta per la metaplasia acino-duttale e il successivo sviluppo del tumore. In questo modo, la ricerca contribuisce a fare ulteriore luce su aspetti ancora poco chiari dello sviluppo del tumore in questa sede. Ma non solo, lo studio potrebbe aprire la strada per futuri lavori volti a comprendere se la proteina p130Cas potrà essere utilizzata come marcatore molecolare per l’individuazione della neoplasia ancora letale in misura maggiore rispetto alle altre. (E. G.)

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no nuovo studio americano ha messo in luce una possibile correlazione fra problemi alla vista e deterioramento cognitivo. Secondo il lavoro di ricerca, condotto da un team di esperti dell’University of Michigan di Ann Arbor, circa un caso di demenza su 50 potrebbe essere prevenuto provvedendo semplicemente a correggere i difetti della vista. Per compiere lo studio, che è stato pubblicato sulle pagine della rivista specializzata “Jama Neurology”, gli scienziati hanno messo sotto la lente di ingrandimento le cartelle cliniche e gli stili di vita di un vasto campione, composto da circa 17mila statunitensi. Obiettivo degli studiosi a stelle e strisce, valutare l’impatto di diversi fattori sul rischio di decadimento cognitivo. È stato proprio questo lavoro di analisi, il confronto dei dati dei partecipanti, a far dedurre ai ricercatori che i problemi di vista potrebbero essere responsabili dell’1,8% di casi di demenza, termine generico impiegato per descrivere un declino delle facoltà mentali sufficientemente grave da interferire con la vita quotidiana, di cui il morbo di Alzheimer rappresenta la tipologia più comune. Sebbene la percentuale dell’1,8% possa apparire a primo impatto marginale, gli esperti chiariscono come in realtà il dato sia tutto meno che trascurabile, osservando come soltanto negli Stati Uniti questa percentuale corrisponda a circa centomila casi di demenza aggiuntivi. Inoltre, rimarcano i ricercatori, «stimiamo che, date le attuali proiezioni per i prossimi decenni, questo numero aumenterà a circa 250.000 entro il 2050». Il riferimento è ai diversi studi che prevedono una epidemia di demenza nei prossimi anni. Gli autori dello studio dell’University of Michigan di Ann Arbor si spingono ad affermare che «poiché circa nove casi su dieci di disabilità visiva sono prevenibili o possono essere trattati con interventi di comprovata efficacia ed economici, la disabilità visiva può rappresentare un importante fattore di rischio modificabile». Lo studio è servito in ogni caso anche a confermare il ruolo di altri fattori di rischio già noti in relazione allo sviluppo di demenza. L’ipertensione, ad esempio, gioca un ruolo nel 12,4% dei casi, seguita dall’obesità (9,2%), dalla depressione (9,1%), dal calo dell’udito (7%), da traumi cranici (6,1%) e dal diabete (5,1%). La comunità scientifica è da anni impegnata nella ricerca per prevenire e

Tra gli ultimi a fotografare la situazione un lavoro dell’Institute for Health Metrics and Evaluation pubblicato su “Lancet”, secondo cui il numero di persone affette da demenza arriverà quasi a triplicare nel giro di 30 anni, passando dai 57 milioni del 2019 agli oltre 153 milioni del 2050. Stime che vengono spiegate da una parte con l’invecchiamento e la crescita della popolazione, ma dall’altra con stili di vita non salutari. In particolare a preoccupare, in quanto responsabili dell’aumento previsto per oltre sei milioni di casi, sono fattori di rischio sui quali è necessario intervenire con urgenza come alti tassi di fumo, diabete ed obesità.

curare la demenza, una condizione che oltre ad affliggere i pazienti rappresenta una tragedia per le famiglie. Il tutto senza considerare il forte impatto che la demenza, e le condizioni ad essa associate, riversano sul sistema sanitario. Da qui la produzione di uno sforzo che investe più ambiti di ricerca. Tra gli ultimi risultati del settore, ad esempio, meritevole di menzione è lo studio realizzato dagli esperti dell’Università di Cambridge. Dal loro lavoro è infatti emerso che il litio, un noto stabilizzatore dell’umore generalmente prescritto per il trattamento di disturbo bipolare e depressione, potrebbe essere in grado di rivestire un ruolo chiave nel prevenire l’insorgere della demenza. A questa conclusione, gli scienziati sono giunti dopo aver analizzato i registri sanitari di quasi 30mila pazienti nel Regno Unito: di questi, 548 erano stati trattati con il litio e 29.070 no. Nel primo gruppo 53 pazienti, ovvero il 9,7% del totale, avevano ricevuto una diagnosi di demenza; nel secondo gruppo, quello non trattato col litio, le diagnosi di demenza erano risultate invece 3.244, con una percentuale più alta sul campione pari all’11,2%. Prendendo poi in considerazione fattori di rischio quali il fumo, il consumo di farmaci e altre malattie fisiche e mentali, gli studiosi hanno concluso che l’utilizzo del litio si associa ad un rischio inferiore di sviluppare demenza. Si tratta però, spiegano i ricercatori, di un dato che dovrà essere confermato da più ampi studi randomizzati. In Italia si stima che ad essere affette da demenza siano oltre 1,2 milioni di persone: numeri destinati ad aumentare, secondo le stime, arrivando fino a 1,6 milioni nel 2030. Nel 6070% dei casi, la diagnosi è quella di Alzheimer, morbo che generalmente interessa le persone anziane, ma che non esclude (anzi, la tendenza è in aumento) i casi precoci. Oltre al sintomo maggiormente noto, ovvero la perdita della memoria, i segni caratteristici di questa condizione includono difficoltà nell’eseguire i compiti quotidiani, afasia, disfagia, cambiamenti dell’umore e della personalità. Un insieme di problematiche che finisce per rendere la persona disabile e non in grado di badare a se stessa. A prendersene cura sono dunque il più delle volte i familiari, anche noti come caregivers, portati da questa malattia devastante a farsi carico non tanto delle incombenze quotidiane, quanto dell’enorme bagaglio di dolore e impotenza che una malattia senza cura porta sempre con sé.


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UN CASO DI DEMENZA SU 50 CORRELATO A DIFETTI DELLA VISTA Esperti americani sostengono che basterebbe correggerli per evitare il deterioramento cognitivo

di Domenico Esposito GdB | Maggio 2022

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IL DIABETE DEI GENITORI E LO SVILUPPO COGNITIVO DEI FIGLI Uno studio danese spiega come la malattia nella mamma e nel papà possa impattare anche sul rendimento scolastico dei bambini

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è un motivo in più per scongiurare il rischio diabete conducendo uno stile di vita sano: non solo per la propria salute, ma anche per il futuro dei propri figli. Secondo un recente studio condotto dai ricercatori del Copenaghen University Hospital, infatti, il diabete dei genitori può influenzare lo sviluppo cognitivo dei bambini, impattando in qualche modo anche sul loro rendimento scolastico. La teoria, esposta sulla rivista “Plos Medicine”, ha rimarcato come il fenomeno non riguardi solamente gli effetti sul feto in caso 26 GdB | Maggio 2022

di madre con diabete di tipo 1, ma possa avere delle ripercussioni sul rendimento scolastico del bambino, con performance peggiori, anche in presenza di papà diabetico. Per giungere a questa conclusione, gli scienziati hanno coinvolto in uno studio oltre 600mila bambini e ragazzi danesi, per la precisione 622.073 studenti fra i 6 e i 18 anni, sottoponendoli ad alcuni test di valutazione scolastica e suddividendoli in tre diversi gruppi. Il primo composto da quelli con la madre affetta da diabete di tipo 1, il secondo formato dai bambini con il padre colpito da diabete di tipo 1 e il terzo da

quelli con entrambi i genitori sani. I risultati emersi hanno consentito ai ricercatori di dimostrare come i figli di genitori con diabete di tipo 1 riportassero dei punteggi simili nei test, leggermente inferiori rispetto a quelli fatti registrare dai bambini con un genitore che non soffre di diabete. Nello specifico, il punteggio medio nei test è stato di 54,2 per i bambini con madre diabetica e di 54,4 per i figli di padre diabetico. Il punteggio medio dei bambini facenti parte del gruppo di controllo è stato invece di 56,4. A detta di Anne Lærke Spangmose, prima firmataria dello studio del Copenaghen University Hospital, «i punteggi sembrano riflettere un impatto negativo legato al fatto di avere un genitore con diabete di tipo 1 piuttosto che un effetto avverso specifico sul feto del diabete di tipo 1 materno durante la gravidanza». Per questo motivo, i ricercatori ipotizzano che essere figli di un genitore affetto da una grave malattia cronica fin dalla più tenera età possa in qualche modo causare livelli di stress nei bambini tali da comportare anche un peggioramento del rendimento scolastico. Le persone con diabete in Italia sono più di tre milioni e mezzo, con un incremento pari al 60% dal 2000 al 2019. In questo arco di tempo i pazienti diabetici sono passati a rappresentare dal 3,8% della popolazione al 5,8%. Un trend in preoccupante crescita che viene confermato anche a livello europeo e pone pesanti interrogativi sull’impatto degli stili di vita condotti nel Vecchio Continente. Fra il 2008 e il 2014 il numero di cittadini europei con diabete è aumentato di 4,6 milioni, ovvero del 28% in sei anni. A delineare questo quadro allarmante l’Italian Diabetes Barometer Report, realizzato da Italian Barometer Diabetes Observatory (IBDO) Foundation, in collaborazione con Istat e Coresearch. (D. E.).


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l patrimonio genetico di un essere umano differisce da quello degli scimpanzé solo per l’1%, ma, forse, secondo quanto riportato dal team di scienziati del Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, mai come in questo caso quell’1% ha un peso specifico molto rilevante. L’articolo dei ricercatori, pubblicato sulla rivista Cell Reports, spiega come in quella piccola percentuale di patrimonio genetico risieda una diversità che può aver aumentato in maniera significativa la nostra propensione a sviluppare tumori rispetto a quanto avviene negli altri primati. In base alle informazioni ad ora disponibili, le altre specie di primati non sono particolarmente inclini a sviluppare tumori. Un dato particolarmente interessante è quello rilevato tra il 1901 e il 1932 nello zoo di Philadelphia in Pennsylvania: su 971 autopsie effettuate su corpi di primati non umani, furono trovate neoplasie sono in 8 esemplari. Se si considera che è stato stimato che circa un essere umano su cinque svilupperà un cancro nel corso della sua vita, la differenza è particolarmente consistente e, purtroppo, abbastanza scoraggiante. L’artefice di questo triste destino, ciò che ha attirato l’attenzione degli scienziati, è il gene oncosopressore BRCA2. È un gene molto famoso in ambito medico, poiché le sue mutazioni nell’essere umano aumentano in maniera considerevole il rischio di sviluppare tumori (in particolare al seno e alle ovaie). I ricercatori newyorkesi, passando in rassegna centinaia di geni umani e mettendoli a confronto con i loro omologhi in altre 12 specie di primati, hanno constatato che BRCA2 umano è leggermente diverso rispetto a quello degli altri primati non umani. Nello specifico, c’è una singola base azotata (quindi una sola lettera del codice genetico) che è cambiata, ma ciò è sufficiente a modificare le

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L’UOMO SVILUPPA PIÙ TUMORI DEGLI ALTRI PRIMATI Un “compromesso evolutivo” avrebbe generato nell’essere umano una maggiore propensione all’insorgenza del cancro, in favore del miglioramento della sua fertilità

caratteristiche di uno degli aminoacidi della proteina corrispondente. L’alterazione aminoacidica cade nel sito (o dominio) di legame con un’altra proteina (DSS1), che serve a stabilizzare il gene in questione, diminuendone l’affinità. In altre parole la proteina BRCA2 umana legherebbe meno DSS1, sarebbe più instabile e, dunque, meno attiva nel riparare i danni al DNA rispetto a quella degli scimpanzé. I motivi per cui l’alterazione di BRCA2 sia stata selezionata e si sia fissata nell’essere umano non sono stati appurati, ma gli scienziati ipo-

tizzano che possano aver a che fare con il miglioramento della fertilità. Alcuni studi, infatti, evidenziano come le donne con varianti di BRCA2 legate ad un aumento del rischio di cancro, abbiano anche maggiori chance di rimanere incinte. È un classico esempio di quello che gli scienziati definiscono “compromesso evolutivo”. Tale scoperta apre quindi a innumerevoli prospettive di indagine: in futuro potrebbero essere intraprese nuove strade nell’ambito dei trattamenti oncologici, o potrebbe essere effettuato un editing del gene. (D. E). GdB | Maggio 2022

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DONARE IL SANGUE ABBASSA I LIVELLI DI PFAS Lo studio, pubblicato su Java, ha evidenziato che donare regolarmente contribuirebbe ad abbassare i livelli di Pfas nel sangue del donatore

di Michelangelo Ottaviano

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importanza delle donazioni del sangue è indiscussa, e i donatori non sembrano essere mai abbastanza. Per avere un’idea concreta di quest’affermazione, l’AVIS (Associazione Volontari Italiani del Sangue) ha dichiarato che per raggiungere un livello sufficiente di sangue disponibile in una città come Milano occorrerebbero 135 donazioni in più per ogni giorno feriale dell’anno. Purtroppo tra le diverse conseguenze negative della pandemia c’è stata anche la sensibile diminuzione del sangue donato. Un incoraggiamento signi-

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ficativo potrebbe però essere dato dai risultati di uno studio australiano condotto su un gruppo di vigili del fuoco del Fire Rescue Victoria. Lo studio, pubblicato su Java, ha evidenziato un beneficio legato alla donazione finora nascosto: donare regolarmente contribuirebbe ad abbassare i livelli di Pfas nel sangue del donatore. I Pfas (sostanze perfluoro-alchiliche) sono presenti in moltissimi oggetti di uso quotidiano (saponi, vernici, capi di abbigliamento, mobili), e alcuni studi degli ultimi anni hanno segnalato la loro pericolosità. Queste sostanze contaminano l’organismo essenzialmente

per via alimentare, e sono considerate “interferenti endocrini” in grado di alterare funzioni ormonali, con ricadute sulla salute. Un altro elemento allarmante riguarda le difficoltà legate alla loro degradazione, particolarmente lunga e complicata, e al fatto che possono permanere a lungo nell’ambiente e negli organismi viventi. Il team di ricercatori australiani ha condotto test del sangue su 285 vigili del fuoco che hanno donato il sangue o il plasma più volte nell’arco di un anno. La categoria scelta dai ricercatori per condurre lo studio non è ovviamente casuale: i Pfas, vista la loro resistenza termica, sono utilizzati anche come componenti delle schiume ignifughe, e i vigili del fuoco, proprio perché così esposti a questi prodotti, solitamente hanno livelli di Pfas nel sangue più alti rispetto al resto della popolazione. Secondo le indicazioni degli autori dello studio i vigili del fuoco sono stati divisi in 3 gruppi: 95 vigili del fuoco hanno donato sangue ogni 12 settimane; altri 95 hanno donato plasma ogni 6 settimane; e i restanti 95, corrispondenti al gruppo di controllo, non hanno donato né sangue né plasma. I livelli di Pfas di quest’ultimo gruppo sono rimasti invariati, mentre negli altri sono diminuiti. In particolare, i ricercatori hanno osservato che le donazioni di plasma sembrano essere più efficaci, con una diminuzione di queste sostanze che arriva fino al 30%. Ma perché la donazione ridurrebbe la quantità di Pfas nel sangue? Queste sostanze si legano alle proteine sieriche del sangue, dunque una diminuzione di questa componente può contribuire a ridurre i livelli di Pfas. Chiaramente si tratta di uno studio iniziale, che necessita di ulteriori approfondimenti. Allo stesso tempo rafforza però il legame tra un gesto caritatevole ed importante come la donazione, e tutto il sistema di esami e controlli finalizzato a tutelare anche la salute del donatore.


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IL RUOLO DEl BIOLOGO NUTRIZIONISTA IN AMBITO SPORTIVO GdB | Maggio 2022

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COSMESI “VEGETALE” Per utilizzare le piante come ingredienti cosmetici si può utilizzare la metodica di “fingerprinting” del DNA di Carla Cimmino

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olti cosmetici come creme viso e corpo, solari ecc hanno come ingrediente principale le piante officinali. In Italia cresce a dismisura la richiesta di prodotti cosmetici naturali, infatti essa è tra le più grandi importatrici di erbe officinali. Col termine “officinale” si indica quella pianta utilizzabile dalle officine farmaceutiche, che può avere o meno proprietà medicinali; col termine “medicinale” si indica invece quella pianta contenente sostanze utilizzabili per fini terapeutici, tali sostanze possiedono una specifica attività biologica. Prima di utilizzare le piante come ingredienti cosmetici, è indispensabile identificarle e autenticarle, a tale scopo viene utilizzata la metodica di “fingerprinting” del DNA, che può essere applicata a materie prime processate. L’utilizzo di materie prime nei cosmetici risale all’antichità, in questi anni sono stati perfezionati i metodi di estrazione di fitocomplessi attivi lipo-idrosolubili, che si possono ottenere dal fitocomplesso oppure con la droga. Le droghe vegetali sono piante intere o parti di piante tagliate, alghe, funghi, licheni, non trattate, in forma essiccata ma anche fresche. Possono essere utilizzate così come si presentano o come estratti fluidi, se si aggiungono eccipienti naturali come yogurt, latte, miele, ecc., che supportano la veicolazione dei principi attivi si otten-

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gono cosmetici funzionali naturali. Tra queste ricordiamo: l’altea (emollienti); lavanda, timo, salvia, rosmarino (stimolanti); calendula e carota (bioattivatori). Anche gli oli essenziali ottenuti per distillazione delle piante aromatiche officinali, diluiti in solventi vengono utilizzati in estetica a seconda della loro proprietà, il timo e la lavanda hanno proprietà antisettiche; la maggiorana serve per trattare pelli grasse, per quelle senescenti invece è bene utilizzare il basilico ecc. Fino a qualche anno fa c’era molta confusione


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nell’utilizzo di termini per indicare i vari tipi di prodotti fitocosmetici, così per chiarire le idee al consumatore e garantire una linea guida ufficiale per i produttori di cosmetici biologici, sono entrate in vigore due nuove certificazioni europee – Cosmos e NaTrue – che distinguono due tipologie di cosmetici in base al tipo e alla quantità di ingredienti in essi contenuti: il biologico e il naturale. CosmOS, ovvero Cosmetics Organic Standard, è il disciplinare CE promosso dai principali enti certificatori biologici

europei – Ecocert e Cosmebio (Francia), Bdih (Germania), Soil Association (Regno Unito), Bioforum (Belgio) e Icea (Italia) – con lo scopo di ottenere una cosmesi sostenibile su tutto il ciclo produttivo, dall’origine delle materie prime fino ad arrivare al packaging. Secondo CosmOS i cosmetici biologici e quelli naturali devono riportare in etichetta il logo – rispettivamente CosmOS Organic e CosmOS Natural – e l’ente che ha certificato il prodotto. Per quelli biologici è richiesta una specifica percentuale di ingredienti biologici, per quelli naturali non è indispensabile; entrambi i prodotti però non devono avere più del 2% di materie prime di sintesi, per quanto riguarda gli ingredienti ammessi, lo Standard si rifà ai singoli organismi certificatori. Alcuni organismi certificatori: CCPB (Italia), Bio.Inspecta (Svizzera), EcoControl (Germania), hanno dato vita e aderito a NaTrue, disciplinare che offre un marchio per guidare il consumatore verso la scelta di prodotti realmente naturali. I cosmetici naturali hanno il logo NaTrue una stella, quelli biologici NaTrue tre stelle, quelli naturali con complementi biologici Natrue due stelle, quest’ ultimo richiede livelli minimi più alti di sostanze naturali non trasformate, di cui il 70% deve essere di agricoltura biologica. Per garantire la qualità delle droghe vegetali, che si ottengono dalle piante, è indispensabile seguire procedure il campionamento, coltivazione, raccolta, essiccamento, frammentazione, conservazione e titolazione. Il primo controllo qualità avviene all’inizio della produzione, qui le materie prime devono essere prive di fattori inquinanti, pesticidi, diserbanti; il secondo controllo si effettua sui semilavorati per controllare i range stabiliti; il terzo sui prodotti finiti per verificare che il prodotto sia così come era stato stabilito secondo i canoni e non abbia subito alterazioni, a questo punto è possibile dichiarare in etichetta il controllo di qualità, essendo questo un elemento importante nella valutazione complessiva del prodotto. Il prodotto finito in etichetta riporta la composizione e il titolo dei principi attivi; la denominazione, col nome botanico e con quello scientifico della specie; il luogo di coltivazione, il periodo di raccolta; riferimenti alla droga, parte della pianta utilizzata e il termine massimo di utilizzo e certificazione della provenienza; la data e il numero di lotto della preparazione; il nome del produttore, il nome dell’importatore o del responsabile dell’immissione in commercio. GdB | Maggio 2022

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L’autenticazione delle materie prime per origine e purezza è importante per tutte le aziende che creano cosmetici naturali al 100%. L’analisi delle piante officinali può essere fatto o con metodiche chimiche: utilizzo di tecniche cromatografiche o spettrofotometriche, verificano la presenza del principio attivo e/o del fitocomplesso; o con metodiche botaniche, che identificano ii caratteri peculiari dei vari generi e specie attraverso il microscopio, queste però presentano dei limiti, 32 GdB | Maggio 2022

perché alcune materie prime prima di essere analizzate vengono triturate o trattate e quindi se ne altera il riconoscimento, così non è possibile risalire all’area geografica di provenienza. Per sopperire a queste mancanze, da un po’ di anni si utilizzano metodiche molecolari su base genomica, che leggono il DNA delle piante attraverso la tecnica di amplificazione (PCR). Si identificano così: la specie e la varietà di origine della materia prima anche quando questa è stata processata (essiccata, spremuta, triturata, polverizzata) quindi anche nel prodotto semilavorato o finito; si l’origine geografica dei prodotti; la presenza di OGM nel prodotto finito o allergeni nelle piante utilizzate. L’industria cosmetica utilizza molti prodotti naturali di origine vegetale, molte di queste specie vegetali sono selvatiche, crescono soltanto in specifiche condizioni climatiche, in determinate posizioni geografiche. Solo alcune tra queste accumulano i metaboliti o fitocomplessi con proprietà lenitiva, antinfiammatoria. Le tecnologie di fingerprint del DNA permettono, in assenza di documentazione o di altre tecniche analitiche, di poter assegnare la specie di appartenenza di un lotto di materia prima anche se già processata (liofilizzata, sterilizzata ecc.), perché sfrutta le variazioni (polimorfismi) specie o varietà-specifiche presenti nell’intero genoma, che risultano essere impronte caratteristiche. Con le analisi del DNA si accorciano i tempi di controllo qualità delle materie prime (normalmente 24-48 ore), permettendo quindi una volta ottenuto il risultato di poter dare il via alla produzione. L’altro settore di applicazione delle tecnologie di fingerprint del DNA è quello relativo alle specie di interesse cosmetico che possono essere coltivate. Tramite le analisi del DNA, mediante programmi di miglioramento genetico, sono state selezionate specifiche varietà di camomilla e Matricaria recutita, in grado di accumulare alti livelli di principio attivi di rilevanza per le formulazioni cosmetiche. Queste analisi permettono di prediligere alcune specie rispetto ad altre di minore interesse, per le loro ridotte performance sia a livello agronomico sia di qualità/quantità dei fitocomplessi presenti in specifici organi della pianta. I metodi di fingerprinting del DNA sono risultati di grande utilità, per evidenziare in modo rapido ed efficiente l’errata identificazione di materie prime, che possono essere scartate senza ulteriori esami morfologici o fisico-chimici, non rallentando i processi di produzione aziendale riducendo anche gli sprechi.


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LA FARMACOLOGIA COSMETICA NELL’ANTICHITÀ: GRECIA E ROMA L’ideale di bellezza del corpo nella società antica riguardava uomini e donne I canoni estetici durarono millenni e si diffusero in tutta Europa di Barbara Ciardullo

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el quarto secolo a.C. nella Grecia classica erano abbastanza noti i principi che regolavano l’estetica. Per i Greci, in base alle nostre conoscenze, l’ideale di bellezza del corpo dominava all’interno della società e riguardava uomini e donne: questo canone estetico durò millenni, dato che ebbe larga diffusione in tutta Europa. Nell’antica Grecia la bellezza di un corpo doveva essere accompagna-

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ta da equilibrio, simmetria e armonia tra tutte le sue parti. Non mancarono allora artisti, che cominciarono a produrre statue in marmo, ferro, rame o bronzo raffiguranti la bellezza corporea. Specialmente la statua della Venere di Milo, fine del II secolo a.C., veniva considerata come rispondente all’ideale di perfezione e di armonia delle forme del corpo. E a conferma di quanto riferito, oggi nel Museo Nazionale di Reggio Calabria vengono


celebrati e ammirati i bronzi di Riace per l’armonizzazione di tutte le parti del corpo. Ma ci furono anche artisti di letteratura e poesia, che rappresentavano e magnificavano nei loro scritti gli atleti che gareggiavano nelle gare organizzate per festeggiare riti e divinità, e conosciamo tale metodologia attraverso la lettura tra l’altro delle odi istmiche e olimpiche di Pindaro. Nella storia letteraria greca questo è un fatto eccezionale, dato che non vengono glorificati eroi vincitori di battaglia, ma eroi vincitori di competizioni sportive. Nella Grecia antica uomini e donne, per ripulire il corpo dalla polvere e dal sudore, ricorrevano allo strigile, uno strumento in metallo a forma di mezzaluna, che veniva passato sul corpo accompagnata da unguenti e oli onde rendere più lucente e privo di sporcizia il corpo stesso; per allontanare e prevenire i cattivi odori si ricorreva all’olio di mastice ed unguenti, mentre i capelli venivano colorati con tinture e unguenti a base vegetale, perché si rinforzasse e fossero protetti dai raggi del sole. Per la depilazione uomini e donne usavano strumenti, che oggi chiamiamo rasoi, ma anche pinzette e un miscuglio di liquido a base di solfuro di arsenico. Le donne curavano con pignoleria e accortezza la propria pelle per renderla liscia profumata in modo da essere una parte attrattiva: sul viso mettevano maschere a base vegetale, prima di andare a dormire, per tenere lontane rughe ed eventuali macchie. Il mattino dopo detergevano e pulivano il viso con versamenti di latte e, poi, se il corpo presentava una leggera peluria, la cospargevano di olio d’oliva e strofinavano con pietra pomice e soda allo stato naturale. I profumi erano considerati importanti per destare attenzione e attrazione in ogni tipo di consesso o riunione. Tra i profumi più adoperati vi erano quelli che derivavano dalla mirra, dal pino, dallo zafferano, dal giglio, dalla viola: lo stesso Omero, quando nell’Iliade ha parlato del funerale che si stava apprestando per l’eroe Troiano Ettore, ucciso in duello dell’eroe greco Achille, ha accennato ad un’essenza profumata, originata dalla rosa. I Romani, dopo aver colonizzato nel 146 a.C. la Grecia, cercarono di assorbire nei loro costumi non solo le dottrine concer-

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Nell’antica Grecia la bellezza di un corpo doveva essere accompagnata da equilibrio, simmetria e armonia tra tutte le sue parti. Non mancarono allora artisti, che cominciarono a produrre statue in marmo, ferro, rame o bronzo raffiguranti la bellezza corporea. Specialmente la statua della Venere di Milo, fine del II secolo a.C., veniva considerata come rispondente all’ideale di perfezione e di armonia delle forme del corpo. E a conferma di quanto riferito, oggi nel Museo Nazionale di Reggio Calabria vengono celebrati e ammirati i bronzi di Riace per l’armonizzazione di tutte le parti del corpo.

nenti discipline umanistiche, giuridiche e scientifiche, ma anche le norme che riguardavano l’estetica maschile e femminile. Lo scrittore latino Plinio il Giovane, in una sua epistola, tratta dall’Epistolario dedicata all’imperatore Traiano, scriveva quasi scandalizzato come nell’impero romano gli uomini curassero il proprio corpo e il proprio aspetto similmente alle donne. Ma nello stesso tempo riconosceva che gli uomini impegnati nel servizio militare al servizio dell’imperatore mostravano tanto coraggio in battaglia. Come i soldati, dice Plinio, dedicavano tempo alla cura del corpo con massaggi e truccavano il viso per avere sempre un aspetto pieno di attrattiva, così allo stesso modo si comportavano i cittadini comuni, compresi uomini e donne, che frequentavano quotidianamente scuole di estetica in modo da dare risalto alla bellezza e all’armonia del proprio corpo. Oggi, potremmo dire che i Romani sono stati i primi a creare il moderno concetto di “beauty centre”: un importante ruolo a questo proposito furono le Terme di Caracalla, che erano aperte a tutti e talora anche gratuite. Le Terme, a partire dal II secolo a.C., divennero un’istituzione pubblica perché lo Stato voleva favorire i vantaggi di una buona igiene, mettendo ai margini l’ideologia conservatrice, che criticava le abitudini legate alla cura del corpo, come se fossero sintomi di fiacchezza o scarsa attitudine. Con questa critica i conservatori contestavano l’assorbimento nei costumi romani delle usanze estetiche dei Greci, che addirittura venivano definiti portatori di effeminatezza. Le donne adoperavano maschere che erano costituite da tante sostanze come il miele, lupini e altri legumi: di queste maschere abbiamo notizie negli scritti di Plinio il Giovane, il medico Galeno e il poeta Ovidio. Altre sostanze, come l’antimonio, la nivea cerussa, l’alcanna, il succo di more e il solfuro di arsenico, erano utilizzate rispettivamente per gli occhi, la pelle, le guance e le labbra; i capelli, inoltre, venivano infoltiti con altri posticci e acconciati con riccioli che si sovrapponevano; i denti venivano strofinati con polvere di corno e l’alito veniva profumato con il prezzemolo, mentre le imperfezioni sul volto venivano celate con finti nei. GdB | Maggio 2022

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Le diverse colorazioni dei fusti dei capelli sono dovute alla melanina contenuta nella corteccia e prodotta dei melanociti, e in particolare la feomelanina è responsabile del tipico colore giallognolo, presente nelle tonalità dei capelli biondi, l’eumelanina è il pigmento più scuro tipico dei mori e infine, la tricosiderina da una colorazione rossa, caratteristica dei capelli ramati. Le diverse tonalità naturali dei capelli sono dovute alla diversa concentrazione di queste tipologie di melanina e quindi alla qualità delle melanine presenti nel capello e a quale di queste predomina.

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capelli permettono di esprimere spesso la propria personalità giocando su lunghezze, tagli e soprattutto colore. In natura il fusto del capello è composto da tre strati: la cuticola esternamente, poi la corteccia e internamente il midollo. La corteccia è lo strato più resistente del capello ed è quello in cui si trovano le molecole che ne determinano il colore naturale. Lo strato più esterno invece è composto da delle cellule appiattite e parzialmente sovrapposte come le tegole di un tetto: se queste squame si sollevano aprendosi l’aspetto del capello è opaco, destrutturato e perde più velocemente idratazione apparendo secchi. Viceversa, se le scaglie sono chiuse tra loro, la luce viene riflessa bene dalla superficie del capello e questo appare lucente e sano. L’apertura e la chiusura delle scaglie possono essere determinate da agenti esterni come ad esempio la temperatura dell’acqua che usiamo per lavarci i capelli o il pH: sostanze acide fanno chiudere le scaglie e sostanze basiche le fanno sollevare. Le diverse colorazioni dei fusti sono dovute proprio alla melanina contenuta nella corteccia e prodotta dei melanociti, e in particolare la feomelanina è responsabile del tipico colore giallognolo, presente nelle tonalità dei capelli biondi, l’eumelanina è il pigmento più scuro tipico dei mori e infine, la tricosiderina da una colorazione rossa, caratteristica dei capelli ramati. Le diverse tonalità naturali dei capelli sono dovute alla diversa concentrazione di queste tipologie di melanina e quindi alla qualità delle melanine presenti nel capello e a quale di queste predomina. L’intensità del colore è data poi dalla quantità di melanina presente. Il colore naturale dei capelli dipende quindi dalla qualità, dalla quantità, dalla densità e dalla distribuzione delle diverse tipologie di melanina. E’ molto frequente, sia in uomini che donne, il ricorrere a tinture per coprire i capelli bianchi o per cambiare il proprio colore naturale e ci si domanda spesso se tale pratica è nociva per i capelli. A tal scopo ho intervistato la dottoressa Caterina Marcucci, biologa esperta in tricologia e nutrizionista, che sull’argomento ha tenuto un intero webinar nelle ultime settimane. La dottoressa spiega che esistono diverse tipologie di tintura che si distinguono tinture temporanee, permanenti, semipermanenti e “naturali”.

Le tinture temporanee donano una colorazione temporanea perché i coloranti al loro interno hanno un pH acido, non aprono le squame, e tendono a legarsi sulla struttura esterna del capello con legami deboli che vengono spezzati durante il primo lavaggio. Questo genere di tinta non modifica in alcun modo la struttura del capello. Le tinture permanenti, rappresentano circa l’80% delle tinture per capelli presenti sul mercato. danno un colore definitivo che non si può lavare via in quanto penetrano nel fusto del capello. Grazie a composti basici come l’ammoniaca vengono sollevate le scaglie della cuticola permettendo alle molecole presenti nella tintura di penetrare all’interno del fusto. Nelle tinture permanenti è inoltre necessaria l’acqua ossigenata che, grazie all’apertura della cuticola da parte dell’ammoniaca, riesce a penetrare nella corteccia del capello per rompere la melanina naturale presente e quindi decolorare parzialmente i capelli. Inoltre l’acqua ossigenata agisce anche sui precursori dei coloranti presenti e li ossida rendendo attiva la colorazione. La scurezza del colore finale ottenuto dipende dalla proporzione tra l’acqua ossigenata e i coloranti presenti nella miscela, maggiore è la presenza di acqua ossigenata più il colore sarà chiaro. Le molecole così prodotte al termine della reazione chimica sono più grandi ed ingombranti rispetto a com’erano all’inizio e non riescono ad uscire più dalla struttura del fusto del capello. L’ultima fase del processo prevede l’applicazione di un balsamo acido sui capelli per fare richiudere le squame esterne della cuticola, in modo da intrappolare bene le molecole di colore e rendere l’aspetto dei capelli lucente e sano. Le tinture semipermanenti hanno delle caratteristiche intermedie tra quelle temporanee e quelle permanenti. I coloranti contenuti in questo tipo di tinture si depositano sia all’interno che all’esterno del fusto. Il colore dura per circa 30-40 lavaggi. Contengono poca acqua ossigenata e per questo decolorano poco, quindi non si prestano a cambi di


Salute

col o r e importanti. Sulla sicurezza di tali prodotti sono stati condotti degli studi e in effetti alcune sostanze presenti nelle tinture sono classificate come cancerogene, ma lo sono a concentrazioni molto più elevate di quelle presenti nelle tinture e per tempi di esposizioni molto lunghi di quelli suggeriti. Nessuno studio ha invece dimostrato un legame tra utilizzo personale di tinture per capelli e aumento di rischio di ammalarsi di cancro, ad eccezione di un minimo rischio emerso per tinture in commercio prima degli anni ’80, ora bandite. Oltre la sicurezza per uso personale dobbiamo considerare la sicurezza per gli operatori che sono sempre a contatto con questi prodotti. Alcuni studi infatti, segnalano un possibile aumento di rischio di tumori alla vescica e al seno per i parrucchieri o operai frequentemente a contatto

c o n queste sostanze. Un aspetto a cui fare molta attenzione continua la dott.ssa Marcucci, è anche quello delle allergie per la presenza della parafenilendiammina (PFD o PPD), un colorante scuro ad ossidazione, uno dei più potenti allergeni da contatto, che può provocare rossore, gonfiore, prurito e dermatiti

TINTURE E CAPELLI Gli estratti botanici che supportano salute, consistenza e integrità di pelle e capelli di Biancamaria Mancini GdB | Maggio 2022

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I coloranti contenuti nell’hennè (come lawsone, indigotina, crisofanolo) si legano alla cheratina dei capelli con un legame stabile tramite una reazione chimica che si chiama reazione di Michael.

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anche gravi, fino ad arrivare a ulcerazioni, ferite e infezioni con esito cicatriziale. In assenza di PDF, bisogna comunque fare attenzione che non ci siano delle molecole simili che possono lo stesso dare allergia, per questo è buona norma, prima di procedere con l’applicazione della tintura, fare una prova su una piccola porzione di pelle. Negli ultimi anni è stato suggerito di utilizzare tinture senza ammoniaca, ma la tinta per penetrare deve necessariamente aprire le squame, quindi le tinture senza ammoniaca contengono un’altra molecola che svolge la stessa funzione. Spesso la molecola alternativa è un derivato stesso dell’ammoniaca, la monoetanolammina (MEA) che non è volatile e quindi è più difficile da rimuovere al lavaggio. In più l’assenza dell’odore pungente può avere lo svantaggio che, non accorgendosi della sua presenza, è più probabile non sciacquarla bene e quindi farla rimanere involontariamente su cute e capelli.

Passiamo ora a quella categoria di tinture che di solito vengono chiamate “naturali” perché derivano da piante erbacee, come ad esempio l’hennè. Questa tipologia di tintura si trova sotto forma di polvere miscelata in acqua e la durata è semipermanente. Questo dipende dal fatto che, al contrario di quanto avviene con le tinture permanenti come abbiamo visto prima, I coloranti contenuti nella polvere di hennè vengono liberati per ossidazione da parte dell’aria. I coloranti contenuti nell’hennè (come lawsone, indigotina, crisofanolo) si legano alla cheratina dei capelli con un legame stabile tramite una reazione chimica che si chiama reazione di Michael. A differenza di quanto avviene con le tinture permanenti, le molecole di colorante dell’hennè non penetrano ma si stratificano e aumentano lo spessore del capello. Anche il lawsone può essere una sostanza potenzialmente pericolosa, ma solo a concentrazioni elevate e il Comitato per la sicurezza dei consumatori ha dichiarato l’uso dell’hennè sicuro per concentrazioni inferiori fino all’1,4%. Un altro aspetto da tenere a mente è che l’hennè è estratto da delle piante e per questo motivo può contenere metalli pesanti, come rame, nichel e ferro assorbiti dal terreno tramite le radici. Questi metalli pesanti si depositano sui capelli e se poi successivamente si decide di fare una tintura permanente, questi possono reagire con l’acqua ossigenata e degradare la struttura dei capelli con risultati disastrosi. Quindi anche in questo caso, la cosa migliore è utilizzare un hennè puro e se si ha il minimo dubbio fare sempre prima una prova su una ciocca di capelli e sulla pelle per ogni tipo di tintura prima di proseguire.


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Le aziende agricole chiamate a partecipare, dall’inizio di novembre e fino alla prima settimana di gennaio, sono circa 15mila e vengono selezionate dal registro statistico gestito da Istat tra quelle che dichiarano almeno una coltivazione di cereali e una SAU maggiore di dieci ettari e inferiore a cinquecento. Circa un terzo fra le presenti nel campione hanno partecipato anche all’indagine relativa all’annata agraria precedente, mentre i due terzi sono “nuove”, col fine di assicurare una graduale rotazione delle strutture intervistate.

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hi pota di Maggio e zappa d’Agosto, non raccoglie né pane né mosto. I proverbi raccontano una parte di quello che siamo stati, così come i dati ricevuti ed elaborati dall’Istat (Istituto Nazionale di Statistica) sulle previsioni di semina per le coltivazioni cerealicole in quest’anno. Dopo aver vissuto l’inizio e le conseguenze dell’emergenza sanitaria da Covid-19, il settore agricolo ci dà ancora un andamento essenzialmente positivo. Se, tra gli effetti della pandemia certificati nel 2021, è emersa più di ogni altra cosa la riduzione nei prezzi di vendita legati al proprio prodotto (17,8% delle aziende agricole con colture cerealicole) e un calo nella domanda (17,4%), la congiuntura negativa sembra non toccare considerevolmente le superfici coltivate e i raccolti. Lo scorso anno la superficie agricola utilizzata (SAU) decresce di 1,9 punti percentuali rispetto al 2019 e di 1,7 sul 2020; anche quella dedicata a seminativi rivela una tendenza similare. L’influsso dei seminativi sulla SAU, che fra 2019 e 2020 è stazionario al 52,6%, nel 2021 ha avuto un lieve assottigliamento rispetto al 2020 (-0,8). Le aree con le trasformazioni più notevoli sono il Centro (dal 58,7% al 58,1%) e il Sud (dal 46,6% al 44,5%). A dispetto del segno meno rilevato per le superfici investite a coltivazioni cerealicole rispetto all’annata agraria precedente (-2,5), i cereali si riconfermano più importanti: costituiscono, difat-

ti, il 43,9% dei seminativi; in questo Giro d’Italia agricolo seguono a distanza erbai e pascoli temporanei (35,4%). A livello nazionale, il peso relativo dei cereali è in salita di 0,3 punti, tendenza opposta rispetto al calo del 2020 (-0,8 sul 2019). L’annata agraria 2019-2020 verrà ricordata per la flessione dei cereali sui seminativi in tutte le aree geografiche con unica eccezione per le Isole (+1,9). Le riduzioni più evidenti rispetto all’anno precedente sono visibili nel Nord-Est (-1,4) e nel Sud (-2,9). Il Nord-Ovest ha avuto un progresso dei cereali sui seminativi pari a 0,6, simile a quello delle Isole, ma inferiore a quello del Sud (+3,3), che ha mandato le ipotetiche lancette di un orologio allo stesso posto occupato nel 2019. La rilevanza dei cereali decresce al Nord-Est (-0,7) e soprattutto al Centro (-2,4). Circa le intenzioni di semina per l’annata agraria 2021 - 2022, il pronostico è fermo alla voce ribasso di un punto percentuale sui suoli coltivati a cereali. Le informazioni sono state ricevute in un periodo anteriore allo scoppio della nuova guerra in Ucraina che, senz’altro, peserà e non poco sull’import/export dei prodotti e restringerà la quantità di grano e cereali da importare. Soffermandosi sulle superfici delle principali coltivazioni cerealicole, nell’ultimo biennio si notano alcuni elementi. In particolare, per il 2022, il ribasso è attribuibile alla riduzione di 1,4 per il frumento duro e di 4,8 su quella a mais, cifre che non sono controbilanciate dall’incremento delle aree impegnate


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a orzo (+8,6) e a frumento tenero (+0,5). L’ampliamento atteso a livello nazionale delle terre coltivate a frumento tenero potrebbe essere sollecitato dagli aumenti nel Nord-Ovest e nel Nord-Est, dove, nel 2021, si sono messe a coltura più del 75% delle superfici. Rovescio della medaglia di segno opposto per il frumento duro, dato che i suoli nel Sud e nelle Isole sono il 73,8% di quelli a frumento duro. Per il mais si presume una flessione, mentre per l’orzo, fatta eccezione per Sud e Isole, si attende un rialzo. In particolare, nel Nord-Est è previsto un balzo del 19,5% per la quota delle zone a orzo, che passa dal 7,2% all’8,6%. Tale buon risultato è legato alla notizia, diffusa dai media nel luglio dello scorso anno, sull’apertura nel 2023 della più grande malteria d’Italia a Loreo (Ro), in grado di produrre, secondo le stime, 40 mila tonnellate di malto da birra all’anno, pari al 20 per cento del fabbisogno nazionale. Per diverse tipologie di coltivazioni vengono individuati indicatori di produzione addizionali: in particolare, riguardo l’olio di oliva e il vino si tiene conto anche dei litri prodotti. Nell’indagine Istat, portata avanti sin dagli anni ’50, grazie al supporto degli uffici di statistica delle Regioni e Province Autonome, alle aziende del campione sono state proposte quattro domande su eventuali variazioni osservate durante l’annata agraria 2020 - 2021. In relazione alle zone, la maggior parte degli intervistati afferma che non hanno subito variazioni e prevedono una tendenza analoga per l’annata successiva, mentre

il 36,1% segnala una riduzione subita nel periodo precedente. Dando un’occhiata ai profitti, il 49% dichiara di non aver avuto differenze tra 2020 e 2021, il 27,8% li ha aumentati. Considerando il 2021 - 2022 il 46,9% non prevede variazioni, il 12,7% immagina un peggioramento e il 20,5% si aspetta un aumento; il 7% non ha risposto. Tutte le cifre sulle coltivazioni annuali sono macro-stime aggregate per provincia e tipologia di specie vegetale e non sono disponibili a livello di singola impresa agraria.

AGRICOLTURA STRATEGICA Le coltivazioni su cui s‘investe sono il frumento duro, il mais, il frumento tenero e l’orzo di Gianpaolo Palazzo

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IL RUOLO DI BOSCHI E FORESTE L’importanza naturalistica, culturale, terapeutica e scientifica dei polmoni verdi

di Pieralisa di Felice, Giuliano Russini, Francesco Aru 42 GdB | Maggio 2022

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e foreste e i boschi rivestono importantissimi ruoli sotto l’aspetto biologico-naturalistico, scientifico, ecologico, etnoantroplogico e anche terapeutico e non rappresentano esclusivi bacini di sfruttamento e di gestione del legname. Un importantissimo ruolo ecologico delle foreste risiede nella loro azione sull’atmosfera con produzione di ossigeno, sottrazione di anidride carbonica, liberazione di vapore acqueo essenziale per il ciclo idrologico dell’H2O. Degradare le foreste, abbatterle, o non permettere loro di riformarsi, produce quindi effetti negativi rilevanti anche a grandi distanze temporali e spaziali. I substrati forestali costituiscono un filtro attivo per l’acqua e, la presenza di aree fortemente boscate contribuisce a prevenire l’inquinamento di quelle superficiali. Le foglie degli alberi, inoltre, sono filtri attivi per i gas, le particelle inquinanti e i particolati atmosferici (PM 10, PM 2,5) presenti nell’aria. Gli alberi più longevi (vetusti) ed alti, sono più efficaci delle giovani piante. Una foresta in ottima salute, in condizioni di forti precipitazioni è in grado di regolare il deflusso superficiale delle acque e il dilavamento del suolo. Gli organi aerei delle piante del bosco catturano forti percentuali di pioggia (stem flow), gli apparati fogliari acquistano una grande importanza nella riduzione della forza viva delle gocce d’acqua piovana, eccezionalmente elevata durante le piogge violente. Nel contenere questa energia, con gli alberi concorrono il sottobosco e la copertura morta. Le radici degli alberi trattengono il terreno impedendo di fatto frane ed erosione del suolo. L’azione anti-erosiva risiede nel complesso sistema integrato foresta, costituito dalla chioma e dai differenti livelli (arboreo, arbustivo, erbaceo, fungino, muscinale e lettiera) e del rapporto suolo-radici. Una foresta in ottima salute mitiga le condizioni di eccessiva calura e siccità durante la stagione estiva, creando un proprio microclima con estremi più attenuati rispetto l’ambiente esterno. Un’altra proprietà straordinaria è la protezione dal vento, un agente atmosferico negativo per la produzione agricola, perché sottrattore di umidità, sfavorendo la traspirazione delle piante che vi si oppongono, chiudendo gli stomi delle foglie; ciò riduce l’assorbimento del biossido di carbonio (CO2) rallentando il processo di fotosintesi e quindi la resa produttiva della pianta. Un bosco quindi non è solo una semplice piantagione di alberi, ma è un insieme di complesse e delicate interazioni tra organismi viventi,

ambiente e sistema abiotico. Anche la cosiddetta “Terapia forestale” che molti psichiatri, psicologi e psicoterapeuti stanno utilizzando per migliorare la vita di molti pazienti affetti da turbe depressive e problemi esistenziali, dimostra alla luce della “ONE HEALTH” l’enorme ruolo psicofisico che hanno i boschi, tanto che già dopo pochi minuti che si è entrati in un’area boschiva, ci si sente meglio, la pressione sanguigna si normalizza, come la glicemia e ci si sente più rilassati, come la medicina ambientale sta dimostrando su migliaia di persone. La informazione non del tutto veritiera ed esaustiva proposta dal CREA e molto spesso pubblicata su diverse testate giornalistiche, interpellando solo una tipologia di tecnici e scienziati che si occupano di questo campo (forestali, agronomi), ignorando invece un settore enorme che da tempi antichi se ne occupa in modo esaustivo (botanici, ecologi, zoologi ovvero biologi), secondo cui i boschi in Italia stanno aumentando? Ma come? In realtà non è del tutto precisa, principalmente perché (dati FAO e WWF) è la superficie e non la volumetria che sta aumentando (dati satellitari lo dimostrano)! Trattasi poi di aree rurali, utilizzate a scopo agricolo fino a qualche anno fa, poi abbandonate, da cui si sta avendo una colonizzazione di specie pioniere vegetali e animali, formanti boschi, o foreste secondarie a basso valore ecologico e seriale, con fauna, flora e vegetazione di base. Perché questi progrediscano a boschi, o foreste primarie, occorreranno decenni, sempre che il disturbo e la pressione antropica che può esercitarsi in vari modi, non le facciano regredire al punto di partenza. Perché poi diventino boschi o foreste vetuste, occorreranno centinaia di anni, sempre nelle condizioni di assenza di disturbo antropico; è ben noto e documentato in letteratura, che un bosco vetusto, con la presenza di un sottobosco completo, di tronchi in decomposizione a terra, spontaneamente caduti, fondamentali come nicchie ecologiche per numerose specie animali invertebrate e vertebrate, ove svolgeranno gran parte del loro ciclo biologico e dalla cui decomposizione ad opera della lettiera forestale, verranno mantenuti i cicli biogeochimici del terreno grazie alla pedoflora, pedofauna e funghi epigei ed ipogei, rappresenti la forma più attiva ecologica tra i vari tipi di boschi e foreste, con i maggiori tassi fotosintetici, la maggior capacità di stoccaggio del carbonio, proveniente dalla CO2 atmosferica assorbita, formando serbatoi di C, il cosiddetto Carbon Sink nel terreno,

I substrati forestali costituiscono un filtro attivo per l’acqua e, la presenza di aree fortemente boscate contribuisce a prevenire l’inquinamento di quelle superficiali. Le foglie degli alberi, inoltre, sono filtri attivi per i gas, le particelle inquinanti e i particolati atmosferici (PM 10, PM 2,5) presenti nell’aria. Gli alberi più longevi (vetusti) ed alti, sono più efficaci delle giovani piante. Una foresta in ottima salute, in condizioni di forti precipitazioni è in grado di regolare il deflusso superficiale delle acque e il dilavamento del suolo. Gli organi aerei delle piante del bosco catturano forti percentuali di pioggia (stem flow), gli apparati fogliari acquistano una grande importanza nella riduzione della forza viva delle gocce d’acqua piovana, eccezionalmente elevata durante le piogge violente.

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depositato in alcuni casi da millenni. Il taglio anche se turnale (ogni 7-10 anni o anche ogni 20-25 in dipendenza del tipo di ceduo se biologico o fisiocratico in una situazione di stazione vegetativa, o se tecnico, o commerciale etc.), utilizzandoli come boschi cedui, che in Italia poi contrariamente alla Francia e Germania, prevede sempre un taglio raso, quasi mai l’utilizzo a fustaia con taglio a sterzo dei polloni rendendo minima la competizione tra i polloni migliori lasciati liberi di svilupparsi, preferendo invece un ceduo a stecchino, con un determinato numero di matricine per particella boschiva, creando dopo l’intervento aree brulle, sottoposte all’erosione del vento e all’azione termica del sole e la conversione da ceduo raso a ceduo fustaia necessiterebbe di almeno 70-90 anni, comporta il rilascio di C (carbonio) dai serbatoi di stoccaggio 44 GdB | Maggio 2022

nel terreno, che combinandosi con l’O2 atmosferico riforma CO2, la forma più acida del carbonio (C) i cui livelli atmosferici aumenteranno di nuovo; il mettere a dimora nuovi alberi, spesso giovani (subadulti) con un tasso fotosintetico inferiore, non permetterà neanche di bilanciare l’incremento dell’anidride carbonica precedentemente descritta! Quindi si contribuirà in questo modo non solo all’aumento di CO2 atmosferica, non solo al dissesto idrogeologico per la perdita di sistemi di reti di radici stabilizzanti meccanicamente colline, pendii montani, coste marine, argini fluviali etc., ma si contribuirà con il taglio irrazionale dei boschi e foreste alla rottura del ciclo idrologico dell’H2O, ove foreste e boschi, non solo nella componente arborea ma anche in quella arbustiva, erbacea sono fondamentali (quindi l’apparente disordine ad opera del sotto-


bosco, che tanto è odiato da agronomi e forestali che vanno parlando di pulizia dei boschi, ha una funzione ecologica primaria), sono indispensabili nel mantenerlo integro. “L’essere umano, non serve ai boschi, o alle foreste così imperativamente come si vuole far credere, questi ecosistemi sanno autonomamente mantenere l’omeostasi ed evolvere”; mentre la perdita di boschi e foreste, contribuisce alla presenza di fenomeni atmosferici violenti (tempeste piovane, bombe d’acqua, esondazione dei fiumi e bacini idrici, perdita della regimentazione naturale delle acque di afflusso e deflusso, siccitosi, progressione della desertificazione -riduzione della fertilità del suolo- e desertizzazione, nascita di aree desertiche), che determinano danni per miliardi di euro. Il contributo maggiore della perdita del manto vegetale terrestre, per depauperamento dei boschi e delle foreste a scopo puramente redditizio (per foraggiare la filiera del legno e le biomasse) è nei cambiamenti climatici su scala planetaria e nella perdita di ecosistemi e del tasso di diversità biologica, determinando la estinzione di specie animali e vegetali ancor prima che vengano scoperte. Si stima che l’attuale biodiversità (fauna e flora), in termini di “Capitale Naturale”, vale metà del PIL planetario, cioè circa 40.000 mld di Euro! (Dati UNEP) Viene da sé, quanto tali attività lucrative su boschi e foreste, trattandoli come campi di grano, deterioreranno in breve tempo anche l’economia mondiale. Oggi inoltre, risulta sempre più chiaro, che la perdita di boschi e foreste per opera antropica, può produrre il cosiddetto fenomeno dello “Spillover”, ovvero il salto di specie di un patogeno, ad esempio virale (vedi recentemente la pandemia da SARS Covid-19), per cui una determinata zoonosi che può nascere in una specie animale all’interno di un bosco-foresta integro, al venire meno dell’effetto barriera e filtro che l’ecosistema forestale predispone naturalmente, per il suo abbattimento, può far nascere una epi-

Il contributo maggiore della perdita del manto vegetale terrestre, per depauperamento dei boschi e delle foreste a scopo puramente redditizio (per foraggiare la filiera del legno e le biomasse) è nei cambiamenti climatici su scala planetaria e nella perdita di ecosistemi e del tasso di diversità biologica.

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Ambiente

zozia trasmissibile all’essere umano stesso. I boschi, le foreste, sono ECOSISTEMI che devono evolversi naturalmente, “non necessitano di atti coercitivi di pulizia dei boschi etc.” non sono sistemi da sfruttare e utilizzare a scopo di lucro e a uso umano. L’ Homo sapiens esiste da 300.000 anni, boschi e foreste da 500 mln di anni; si sono evolute e mantenute indipendentemente dall’essere umano, il quale in soli 300.000 anni è riuscito a ridurre il patrimonio forestale a solo 1/4, di quello che ricopriva le terre emerse prima della sua comparsa. Se non si cambierà approccio verso questi ecosistemi, smettendo di sfruttarli solamente (il legname si può ricavare coltivando a monocoltura arborea, aree agricole abbandonate), i danni saranno irreversibili e andremo sempre più verso (ma già probabilmente lo abbiamo superato) un punto di non ritorno, dove il disastro ecologico globale sarà definitivo, tanto quanto quello che otterremo continuando a deteriorare oceani, mari e le acque continentali. Si deve utilizzare l’approccio biologico-naturalistico conservativo a sostituzione di quello agronomico-forestale consumistico.

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MONTAGNA DA RIABITARE Censite 66 strutture fatiscenti che potrebbero essere riqualificate

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eta turistica, ma anche luogo in cui risiedere, sfruttando le possibilità del lavoro a distanza. Il dossier primaverile di Legambiente dal titolo “Abitare la montagna nel post Covid” analizza il problema delle strutture costruite, ma abbandonate. Il censimento degli edifici in rovina ne esamina 66 di piccole dimensioni o complessi significativi che richiedono un disegno mirato; si tratta d’immobili legati all’industria dello sci, ma an-

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che hotel, colonie e caserme di confine, lasciati senza una possibilità abitativa. Tra le cause più frequenti ci sono: il cambiamento della domanda turistica per mancanza di neve, la necessità di sostanziosi reinvestimenti di ammodernamento, mancati adeguamenti tecnici, scelte sbagliate rispetto ai flussi turistici, speculazioni. L’associazione ambientalista vuole favorire la riqualificazione sfruttando lo slancio del mercato immobiliare in montagna, controllando, tuttavia, che di pari passo non riparta pure il consumo di suolo. Secondo i dati del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA), in Italia, abbiamo fame di terreni sui quali costruire e non ci fermiamo neanche davanti ad ambiti montani pericolosi per frane e alluvioni, alle aree protette, alle sponde dei fiumi o laghi e alle valli dove il suolo è più produttivo. Tra le 66 schede raccolte da Legambiente, alcuni casi simbolo sono stati racchiusi in una cartina: in Piemonte il complesso alberghiero di Viù nella frazione di Tornetti (TO), opera mastodontica la cui realizzazione, iniziata negli anni ‘80, è rimasta incompiuta; in Sicilia l’ex hotel “La Montanina Piano Battaglia” (PA), edificio chiuso


dagli anni ’90, oggi fatiscente e a rischio crollo. E ancora altri casi di hotel dismessi in Veneto con “Passo Tre Croci” a Cortina d’Ampezzo (BL), Campania con il “4 camini” a Laceno (AV), in Abruzzo il complesso “Campo Nevea” a L’Aquila, nell’Umbria l’ex “hotel del Matto Monteluco” di Spoleto (PG), in Lombardia le “Terme Bagni” di Val Masino (SO), in Valle D’Aosta il “Busca Thedy Gressoney la Trinitè” ad Aosta, in Sardegna lo “Sporting Club” a Monte Spada Fonni (NU), in Calabria il “Rifugio Monte Curcio” a Camigliatello Silano (CS). Passando all’ambito militare, in Trentino-Alto Adige ci sono le caserme austro-ungariche nella piana delle Viote, sul Monte Bondone (TN), eloquente esempio dell’architettura militare primo novecentesca, dal 2008 completamente abbandonate. Fra le ex colonie, spiccano in Liguria quella di Monte Maggio Savignone (GE) e in Toscana quella di Abetina di Prunetta Piteglio (PT), entrambe malridotte. Secondo argomento del dossier è “Il mercato immobiliare sulle alpi: tra turismo e smart working” in cui vengono messe sotto la lente d’ingrandimento 303 località alpine italiane, “consacrate” al turismo o più colpite dallo spopolamento, incrociando gli ultimi dati Istat disponibili per tracciare un quadro del costruito in alta quota e, in particolare, studiare il fenomeno delle seconde case. Infatti, se fino al periodo pre-pandemia non erano vissute tranne che per qualche giorno all’anno o per specifici

periodi festivi, gravando troppo su infrastrutture e servizi, la diffusione dello smart working sta cambiando le abitudini e influisce anche su alcune dinamiche sociali e economiche. Per il cigno verde occorre pensare ad una moderna dimensione urbanistica della montagna nella quale l’uso intelligente di quanto c’è già, unito alla rigenerazione del patrimonio edilizio dismesso o sottoutilizzato, possono avviare una strategia nazionale e non solo che metta in atto una nuova abitabilità del territorio. Tra le soluzioni proposte ci sono il rilancio e l’innovazione nell’agricoltura di montagna, lo sviluppo di strategie energetiche innovative, il potenziamento dei servizi di prossimità, la nascita di centri per la cultura e la socialità. Temi che sono stati affrontati nella postfazione “Quale futuro per il patrimonio edilizio alpino sottoutilizzato?” a cura di Cristian Dallere, Roberto Dini, Matteo Tempestini dell’Istituto di Architettura Montana IAM. «Attraverso questo report, che aggiunge la dimensione abitativa al racconto delle infrastrutture abbandonate di Nevediversa, vogliamo rilanciare il dibattito sul vivere in montagna. Proprio la ricerca di soluzioni e prospettive future su quanto costruito - dice Vanda Bonardo, responsabile nazionale Alpi Legambiente - pensiamo possa giocare un ruolo chiave nell’arrestare il crescente consumo di suolo in montagna. Ma c’è di più: il riuso funzionale di queste ampie volumetrie può costituire un’occasione straordinaria per ripensare l’organizzazione delle comunità in un’ottica di sostenibilità e di sviluppo. Per migliorare i servizi e soprattutto per rendere più efficiente questo straordinario patrimonio edilizio». (G. P.).

Il mercato delle seconde case in montagna sta ripartendo, sia per la vendita sia per l’affitto, complice anche il Superbonus 110% per la riqualificazione energetica e antisismica. Secondo i dati dell’Ufficio Studi Tecnocasa, nel primo semestre del 2021 la percentuale di chi ha acquistato una seconda abitazione è stata del 6,4%, mentre il livello pre-pandemia era del 5,5%. I prezzi medi sono saliti dello 0,6%, ma si prevede un aumento, legato anche alla richiesta crescente di alloggi in affitto e all’aumento dei canoni. Cresce la domanda e aumentano i costi nelle località più rinomate, come Cortina d’Ampezzo, grazie alle Olimpiadi invernali 2026, ma anche in paesi meno noti. I più richiesti sono i trilocali, le soluzioni indipendenti e gli appartamenti spaziosi con terrazza o giardino.

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INDAGINI DIAGNOSTICHE: AMBITI E PECULIARITÀ 24 Giugno 2022 Rettorato Università di Palermo

Info www.onb.it 48 GdB | Maggio 2022


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l cambiamento climatico come miccia per la comparsa di nuovi virus. Non è la tesi di un ambientalista radicale, ma lo scenario ipotizzato in uno studio dell’americana Georgetown University, i cui esiti sono stati pubblicati sulla rivista “Nature”. La ricerca ha chiarito come siano numerose le specie animali note per essere portatrici di virus che, per effetto diretto dei cambiamenti climatici - e in particolare dell’aumento delle temperature - potrebbero essere portate a lasciare le aree in cui hanno vissuto finora e ad entrare a contatto con altre specie, portatrici di differenti virus. Si creerebbero così le condizioni ideali per i cosiddetti salti di specie, processi durante i quali un virus subisce una mutazione finendo per completare lo “spillover” e attaccare una nuova specie. Uno scenario che potrebbe comportare all’occorrenza un’insidia anche per l’uomo, come la pandemia di coronavirus tuttora in corso, dovrebbe suggerire. Gli scienziati a stelle e strisce hanno delineato un quadro per cui una temperatura di circa due gradi superiore a quella attuale, entro il 2027 potrebbe portare al rilevamento di ben 15mila nuovi virus. Una cifra esorbitante, se si pensa che ad oggi ne sono in circolazione circa diecimila. Ad essere coinvolti nel quadro ipotizzato pipistrelli, ma anche diverse specie di mammiferi e di uccelli, che venendo a contatto potrebbero veicolare malattie mai rilevate prima. Secondo la spiegazione fornita dagli scienziati, infatti, il clima dispone di tutto il potenziale per divenire una forza determinante nella trasmissione virale tra specie diverse, moltiplicando il rischio di trasmissione di malattie infettive all’uomo. Non sarebbero soltanto gli esseri umani, però, ad essere minacciati da questa svolta negativa. I futuri virus, spiegano gli scienziati, potrebbero mettere a repentaglio anche la

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IL CAMBIAMENTO CLIMATICO MICCIA PER NUOVI VIRUS Un aumento della temperatura di circa due gradi potrebbe portare al rilevamento di 15mila nuovi virus

salute degli animali, determinando epidemie lesive per gli allevamenti. I ricercatori sono giunti a queste conclusioni partendo dall’analisi del modo in cui le aree geografiche, oggi popolate da 3.870 specie di mammiferi, potrebbero subire delle modifiche rispetto a diversi scenari climatici, da qui al 2070. Nel procedere, poi, gli studiosi hanno impiegato un modello relativo alla trasmissione di virus fra specie, applicandolo ad un sottoinsieme di 3.139 animali. Sulla base di quanto emerso, probabilità di mix biologici possono verificarsi ovunque nel mondo, ma corrono un

rischio maggiore le aree più densamente popolate dall’uomo, come l’Africa tropicale e il Sud-Est asiatico. Protagonisti di queste contaminazioni potrebbero essere, ancora una volta, proprio i pipistrelli. A detta dei ricercatori questi animali rappresentano infatti il serbatoio naturale di virus potenzialmente abili nel diventare trasmissibili all’uomo. Cosa si può fare per ovviare al dilagare di nuovi virus? Secondo la conclusione degli esperti è necessario attuare una sorveglianza capillare delle zone in cui potrebbero trovarsi a convivere specie diverse. (D. E.). GdB | Maggio 2022

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Innovazione

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LA SALUTE DEL FRUMENTO SI VALUTA CON UN’APP Sviluppato un software per monitorare le colture di grano duro. Si tratta di un’applicazione che riconoscere oltre 100 problematiche

di Pasquale Santilio

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ranoScan è un modello di intelligenza artificiale a servizio dell’agricoltura. Si tratta di un’applicazione in grado di riconoscere oltre 100 problematiche che possono colpire la crescita del grano duro attraverso l’analisi dell’immagine scattata dall’agricoltore direttamente sul campo. I modelli di IA, sviluppati dall’Istituto per la BioEconomia e dall’Istituto di Scienza e Tecnologie dell’Informazione del Cnr in collaborazione con Barilla e Yoo-no Lab, rappresentano un valido aiuto a portata di smartphone utili

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all’individuazione di infestanti, insetti e fitopatie, la cui diagnosi iniziale non è così immediata. Il progetto di GranoScan è stato coordinato da Davide Moroni, ricercatore del Cnr e responsabile del Signals and Images Laboratory, che ha dichiarato:” In Italia l’Agritech sta compiendo dei grandi passi in avanti, partendo dalle colture più redditizie come olio e vino, dove le tecnologie hanno trovato maggiore spazio per valorizzare le eccellenze italiane. Tuttavia, si sta allargando ad altre coltivazioni importanti come il grano duro o i pomodori, spostandosi dalle grandi

aziende ai coltivatori più piccoli, anche grazie all’abbassamento del costo della tecnologia”. La tecnologia applicata all’agricoltura consente di compiere scelte mirate ed ottimali, come intervenire con uno specifico trattamento e avere informazioni pratiche per il lungo termine. Sarebbe interessante poter condividere i dati, metterli in rete per conoscere l’evoluzione di una malattia e lanciare un’allerta in una particolare area, mitigando i danni per le coltivazioni. Il ricercatore del Cnr ha proseguito: «GranoScan è un’app gratuita per IOS e Android che fornisce un supporto immediato agli agricoltori nel campo; è come avere un agronomo nella propria tasca, che può fornire informazioni in tempo reale sulla coltivazione di grano duro. Il funzionamento è semplice: basta scattare una foto di una pianta ed inviarla al nostro cloud, dove un motore di intelligenza artificiale, sviluppato dal Cnr la analizza. Nello specifico, è l’elaboratore del Cnr di Pisa, attraverso i modelli di IA ad identificare la problematica, fornendo all’utente il nome specifico del problema, in appena 100 millisecondi. Il sistema è stato sviluppato per lavorare in aree poco coperte dalla connessione Internet, quindi è in grado di rispondere anche in differita, appena ritorna la connessione di rete». GranoScan è in grado di riconoscere circa 100 problematiche dannose per il grano duro. Nel dettaglio 20 fitopatie, 26 tipi di insetti, 36 infestanti e stress abiotici, come i danni provocati dal meteo. Per esempio, c’è una fitopatia che si chiama ruggine: GranoScan, dopo l’analisi dell’immagine in cui c’è la porzione di una foglia infestata, riesce a riconoscerla e trasmette l’informazione al coltivatore. Davide Moroni ha concluso: «Stiamo applicando GranoScan anche in ambito sottomarino per analizzare la presenza di pesci e coralli e in campo biomedico per l’analisi di ecografie e patologie polmonari».


Innovazione

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on il termine particolato atmosferico ci si riferisce a quelle particelle sospese e presenti nell’aria che ogni giorno respiriamo e che di solito sono chiamate polveri sottili. La sigla PM deriva dalle iniziali delle due parole inglesi Particulate Matter, cioè materiale particolato, mentre il numero 10 sta ad indicare la grandezza del diametro della particella che può variare fino a 10 micron o micrometri. Il PM10 è chiamato anche frazione toracica in quanto, passando per il naso, è in grado di raggiungere la gola e la trachea (localizzate nel primo tratto dell’apparato respiratorio). Del progetto “Veg-Pm10- Azioni multidisciplinari ed integrate per il monitoraggio e la riduzione del particolato atmosferico nella piana lucchese”, a cui partecipa il Cnr, sono stati presentati i dati preliminari e le piante che proteggono meglio i nostri polmoni dal particolato: alloro, fotinia, ligustrum lucidum e olivo. Queste rappresentano le specie vegetali diffuse in Lucchesia, che potrebbero costituire la migliore barriera naturale “verde” al diffondersi del PM10 nei territori dei comuni di Lucca, Capannori, Altopascio e Porcari. Per questi motivi, queste specie vegetali devono essere valorizzate. Le cause che incidono sull’inquinamento da particolato sono molteplici e sono monitorate dal progetto Veg-Pm10, sostenuto con 180mila euro dalla fondazione cassa di risparmio di Lucca e condotto da un coordinamento scientifico composto da: Università di Firenze ( capofila del progetto), dipartimenti di biologia e di scienze e tecnologie agrarie, alimentari, ambientali e forestali, che stanno conducendo analisi sulla vegetazione; Cnr di Pisa, che ha fornito centraline di monitoraggio della qualità dell’aria e sta eseguendo studi sulla vegetazione e sulla qualità dell’aria in prossimità delle abitazioni nei quattro comuni coinvolti, in

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IL PARTICOLATO SI COMBATTE CON LE PIANTE Alloro, fotinia, ligustrum lucidum e olivo proteggono meglio i nostri polmoni perché costruiscono una barriera naturale al diffondersi del PM10

collaborazione con Arpat. Un progetto a misura di questo territorio, che mira innanzitutto ad individuare le specie vegetali già presenti nella zona e più utili dal punto di vista del contributo alla pulizia dell’aria, oltre a comprendere le cause e le incidenze della presenza del particolato nell’aria che in questi comuni si respira. Per lo studio di quest’ultimo aspetto, i dati ambientali rilevati vengono messi in relazione con quelli sanitari dal dipartimento di ricerca traslazionale e delle nuove tecnologie in medicina e chirurgia dell’Università di Pisa.

In molte occasioni è stata espressa la soddisfazione degli amministratori dei Comuni coinvolti in relazione all’attivazione delle varie fasi del progetto e si è rinnovata da ultimo in coincidenza con la presentazione dei primi dati. Risultati che sono preziosi per la progettazione urbanistica e viaria di tutti i territori coinvolti e che costituiscono una banca dati di estrema importanza per progettare politiche di intervento “green” e che tengano in considerazione, in modo adeguato, delle esigenze di salute dei cittadini, soprattutto, delle aree a maggior intensità di fonti PM10. (P. S.). GdB | Maggio 2022

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Innovazione

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NUOVE TERAPIE PER IL MEDULLOBLASTOMA I risultati della ricerca pubblicati sulla rivista International Journal of Molecular Sciences, che racconta il progetto NANOCROSS sostenuto da Fondazione AIRC

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l medulloblastoma è il tumore cerebrale più frequente in età pediatrica. Un gruppo di ricercatori dell’Enea ha sperimentato un nuovo approccio terapeutico per il trattamento di questa patologia nell’ambito del progetto NANOCROSS sostenuto da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro. I risultati ottenuti si basano sull’utilizzo di virus vegetali ingegnerizzati come veicoli per la somministrazione mirata di chemioterapici, in grado di raggiungere in modo selettivo il tumore, di ridurre le dosi del farmaco e i suoi

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effetti collaterali. Autore della ricerca, che ha visto impegnata anche l’Università della Tuscia, un team multidisciplinare di studiosi con esperienza ultra ventennale sui meccanismi regolatori dell’insorgenza e dello sviluppo del medulloblastoma oltre a biotecnologi specializzati nel settore del “Plant Molecular Farming”. Mariateresa Mancuso, responsabile del Laboratorio Tecnologie Biomediche di Enea e Principal investigator del Progetto NANOCROSS, ha dichiarato: «Per curare questo tipo di tumore solido, con tendenza a metastatizzare e

a recidivare, il trattamento convenzionale include una combinazione di chirurgia, radioterapia e/o chemioterapia. Si tratta di terapie che possono causare danni neurologici e diffusi effetti collaterali. Obiettivo della nostra ricerca è stato valutare in esperimenti di laboratorio una nuova strategia terapeutica volta a limitare e ridurre questi effetti attraverso un approccio integrato e biotecnologico». Un virus del pomodoro, innocuo per gli esseri umani, è stato ingegnerizzato in modo da poter essere utilizzato come veicolo per la somministrazione mirata di farmaci diretti in modo selettivo e non invasivo verso le cellule tumorali del medulloblastoma. Il metodo si è rivelato efficace per ridurre la vitalità delle cellule tumorali con dosi di chemioterapico ridotte rispetto a quelle necessarie per ottenere lo stesso effetto con il farmaco in forma libera. Chiara Lico del Laboratorio Biotecnologie di Enea, ha evidenziato: «I virus vegetali così ingegnerizzati sono innocui, sicuri, biocompatibili e biodegradabili e possono essere prodotti rapidamente e a basso costo utilizzando le piante come biofabbrica. Per queste qualità si sono rivelati dei candidati particolarmente idonei allo scopo della ricerca. Per la produzione su larga scala delle nanoparticelle virali vegetali opportunamente progettate per attraversare la barriera ematoencefalica e puntare al medulloblastoma, sono state utilizzate piante di Nicotiana benthamiana, un tipo di pianta del tabacco». Mariateresa Mancuso ha concluso: «Nel complesso i risultati raggiunti, che sono stati integrati con analisi di simulazioni molecolari al computer, sono un primo passo verso nuove prospettive per l’uso di questa piattaforma di somministrazione mirata di farmaci, che potrebbe contribuire a ridurre drasticamente gli effetti collaterali, sia acuti che tardivi, delle terapie antitumorali per il trattamento del medulloblastoma, ma anche di altri tipi di tumori solidi». (P. S.).


Innovazione

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uest’anno, il progetto europeo RISEUP, che riunisce in un consorzio a guida Enea partner italiani, spagnoli e francesi, sta mettendo a punto un prototipo di supporto elettrificato necessario al trapianto delle cellule staminali per la rigenerazione delle lesioni del midollo spinale. Claudia Consales, ricercatrice Enea del Laboratorio Salute e Ambiente e coordinatrice del progetto, ha sottolineato:” L’obiettivo finale del progetto RISEUP è di realizzare un trattamento innovativo delle lesione spinale, basato su trapianto e stimolazione con impulsi elettrici di cellule staminali, che potrebbe migliorare la qualità della vita dei pazienti. La stimolazione elettrica delle cellule staminali, infatti, può indurre il differenziamento di queste cellule in neuroni, favorendo il loro attecchimento nel tessuto lesionato”. Enea ha coordinato le attività degli altri partner che, nello specifico, hanno riguardato: simulazioni per stimare la distribuzione del campo elettrico che verrà generato dal supporto trapiantato a livello delle lesione midollare (Università della Sapienza); selezione e produzione di uno specifico materiale adatto a creare un supporto biocompatibile che favorisca l’innesto delle cellule nel tessuto lesionato (Universitat Politecnica de Valencia); progettazione e costruzione dell’elettrodo da posizionare sul supporto, necessario alla stimolazione delle cellule staminali con gli impulsi elettrici ultra-brevi (RISE Technologies). CNRS e CIPF si sono occupati insieme a Enea della caratterizzazione degli aspetti biologici e hanno messo a punto le migliori condizioni di crescita e di differenziamento delle cellule staminali in cellule neuronali, presupposto fondamentale per la successiva validazione del protocollo di stimolazione elettrica a livello del supporto. Claudia Consales ha aggiunto:” In questo primo anno di attività i gruppi del consorzio hanno lavorato alla messa a punto dell’elettrodo e del protocollo

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LESIONI DEL MIDOLLO SPINALE: ECCO RISEUP Una cura innovativa basata sulla stimolazione elettrica delle cellule staminali che induce il differenziamento di queste cellule in neuroni

di stimolazione, mediante frequenti riunioni virtuali, per fornire il corretto scambio di informazioni necessarie allo sviluppo della parte sperimentale del progetto. Questo ha consentito il progredire delle attività, nonostante la diffusione ancora in corso della pandemia. Nel secondo anno la proof of concept del progetto troverà la sua massima realizzazione nella caratterizzazione, mediante esperimenti in vitro, della risposta biologica delle cellule staminali alla stimolazione mediante l’elettrodo appena realizzato”. L’intero consorzio si riunirà a giu-

gno a Valencia per il review meeting con la Commissione europea, che ha l’obiettivo di valutare il lavoro svolto in questo primo anno. “Sarà un momento molto importante, durante il quale la commissione europea dovrà giudicare il corretto svolgimento delle procedure progettuali, nonché l’appropriatezza dello svolgimento della parte sperimentale. Un aspetto molto importante di RISEUP è stata l’assunzione di giovani ricercatori con un numero preponderante di ricercatrici”, ha concluso Consales. (P. S.). GdB | Maggio 2022

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Beni culturali

CASTEL GRUMELLO VISTA SUL PATRIMONIO DELL’UMANITÀ Un raro esempio di fortilizio gemino, costituito da due corpi speculari, domina la Valtellina. Il panorama che si ammira è impareggiabile, con gli antichi vigneti nell’elenco UNESCO di Rino Dazzo

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all’alto delle sue mura si gode una vista senza pari della Valtellina, una sorta di balconata con sguardo privilegiato su uno degli angoli più belli e suggestivi dell’intero arco alpino. Sono tante le cose che si possono ammirare da questo poggio in quota, in grado di far scorrere piacevolmente gli occhi da Sondrio fino ai passi dell’Aprica e dell’Adamello. Incastonato tra le Alpi Retiche e le Orobie, però, Castel Grumello, non è solo un meraviglioso punto di osservazione. È anche e soprattutto un raro, magnifico esempio di castello gemino, costituito cioè da due corpi speculari ma con funzioni ben distinte: uno votato a uso militare, l’altro con funzioni residenziali. Un castello che rimanda a un passato lontano e nebuloso, fatto di gloria e di decadenza, di lotte per il potere e di spietate repressioni, come quella che nel 1526 aveva posto fine allo stesso castello, ridotto a poco più di un ammasso di rovine. Il passaggio al Fondo Ambiente Italiano, nel 1990, con donazione effettuata da Fedital, ha dato l’inizio a una lunga serie di lavori di ristrutturazione che si sono protratti per undici anni, fino al 2001, quando finalmente il castello è stato riaperto al pubblico. Da allora, il viaggio

verso le rocche gemelle si è trasformato quasi in un’elevazione fisica e spirituale, visto che la pace e il senso di appagamento che si godono da lassù hanno davvero pochi eguali. Tutto è cominciato nel XIII secolo, periodo storico in cui la Valtellina si riempì di rocche e di fortezze a causa della sua particolare posizione strategica, di passaggio tra l’Italia e il cuore dell’Europa. Anche il ghibellino Corrado de Piro, la cui famiglia era riparata tra le montagne in seguito alle lotte di fazione tra Milano e Como, si costruì la sua fortezza proprio alla sommità di una ripida altura sulla valle, un «grumo» (da cui il nome di Castel Grumello), vale a dire un grosso dosso roccioso dalle pareti a strapiombo attraverso cui controllare tutto ciò che avveniva al di sotto. Ultimata nei primi anni del XIV secolo, la rocca – che per qualche tempo è stata conosciuta come Castello de Piro – rappresentò un’ardita novità per i tempi. Era infatti costituita, come anticipato in precedenza, da due corpi distinti, circondati da alte mura. Il corpo posto a oriente assolveva funzioni di tipo militare, difensive e di avvistamento, testimoniate dalla presen-

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Beni culturali


Tra i vini DOCG più apprezzati e conosciuti della zona c’è proprio il Grumello, che prende il nome dall’omonimo castello che domina la vallata.

antiche rovine del forte e quella del bellissimo paesaggio circostante. Le alte cime delle Alpi Retiche e Orobie sono lo sfondo che fa da cornice al belvedere, mentre Sondrio si può apprezzare in lontananza. Più ravvicinata è la vista del verde della valle e soprattutto dell’imponente successione di arditi terrazzamenti di muretti a secco, dove sono presenti vigneti coltivati dichiarati Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. Tappa obbligata di un tour sul Grumello è la visione della piccola e graziosissima chiesa di Sant’Antonio a Montagna, spostata a est rispetto alla rocca e posta idealmente nei secoli a protezione dei vigneti sottostanti. Tra i DOCG più apprezzati e conosciuti della zona c’è proprio il Grumello, che prende il nome dall’omonimo castello che domina la vallata, ma in pochi chilometri ci si può imbattere in altre varietà storiche come il Sassella, l’Inferno, il Maroggia, il Valtellina Superiore, il Rosso e lo Sforzato di Valtellina. E insieme alle delizie di Bacco, c’è spazio anche per i piaceri della tavola. Le alternative sono due: preparare il pranzo a sacco con i prodotti tipici della zona, dalla bresaola alla polenta taragna, e consumarlo sui tavoli, oppure recarsi nel vicino ristoro dove gustare pizzoccheri, sciatt, taroz e altre prelibatezze della cucina locale in tutta comodità. © Antonio Losa/shutterstock.com

za di un’imponente torre a pianta quadrata e dalle fondamenta di una seconda torre, di analoga destinazione. L’altro edificio, posto a occidente, era invece preposto a compiti residenziali. Lo confermano le pietre da costruzione sbozzate con una cura decisamente maggiore, oltre che la presenza di un camino all’interno di una sala. Un castello dalla doppia anima, dunque, feudo per qualche tempo della famiglia de Piro e poi passato, poco dopo il 1350, ai suoi rivali più acerrimi, i Capitanei, non come frutto di una conquista ma di un vero e proprio acquisto, con tanto di atto di vendita. Per oltre un secolo e mezzo Castel Grumello fu uno dei centri propulsivi della Valtellina, prima di finire progressivamente in bassa fortuna e di essere definitivamente distrutto nel 1526 dalle armate delle Lega Grigia, i Grigioni, al pari di altri castelli e fortilizi della zona. Per secoli del suggestivo castello gemino non rimasero che dei resti, che solo lontananamente ricordavano il suo aspetto originario. A tutto questo ha posto fine il Fai con il suo provvidenziale lavoro di restauro e di recupero. Oggi il castello ha l’aspetto di un piccolo borgo che si erge vezzoso tra i monti, da cui si gode un panorama unico. Tavoli e panchine consentono di fermarsi in tutta comodità e di godere di una doppia vista rassicurante: quella delle

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Beni culturali

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Beni culturali

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a soprintendenza Archeologica, belle arti e paesaggio della città metropolitana di Cagliari ha individuato due nuove sculture nella necropoli nuragica di Mont’e Prama, nel comune di Cabras, identificate come “pugilatori del tipo Cavalupo” per lo scudo flessibile avvolto davanti al tronco e del tutto simili e riconducibili alle due sculture note come i Giganti, rinvenute nel Sinis nel 2014 e oggi conosciute in tutto il mondo ed esposte nel Museo civico della città. Il noto gruppo dei Giganti di Mont’e Prama, pertanto, si arricchisce di altre due unità, con l’auspicio che i ritrovamenti possano aumentare, date le ottime condizioni di conservazione dei resti archeologici sepolti nell’area. Il Ministro della Cultura, Dario Franceschini, ha definito il ritrovamento «una scoperta eccezionale alla quale ne seguiranno altre, a conferma del significativo impegno del Ministero su questo sito straordinario che non ha eguali nel Mediterraneo. Il ritrovamento di altri due Giganti, infatti, avviene a poco meno di un anno dalla nascita della Fondazione che vede il MiC, il Comune di Cabras e la Regione Sardegna impegnati nella valorizzazione di una delle maggiori testimonianze di un’antica civiltà mediterranea». La storia dei Giganti di Mont’e Prama è ricca di misteri circa la loro funzione sociale e la loro distruzione. Si tratta di reperti che non hanno eguali nella Sardegna nuragica e che sembrano il risultato di un ingigantimento di bronzetti votivi. Gli studi datano le tombe e le sculture tra la fine del IX e la prima metà dell’VIII secolo a.C., in piena età del ferro. La ricerca, come ha spiegato la Soprintendente, Monica Stochino, ha da un lato indagato alcune sepolture della fase più antica per scovare le informazioni scientifiche fondamentali alla ricostruzione del mondo in cui si svilupparono i fenomeni culturali che portarono alla creazione del sito, dall’altro ha esteso gli scavi a sud delle *

Consigliere tesoriere dell’Onb

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LA SARDEGNA TRA I PROTAGONISTI DEL TURISMO CULTURALE Ritrovati altri due Giganti nel sito nuragico di Mont’e Prama Il Ministro Franceschini «Saranno un’attrazione unica»

di Pietro Sapia*

aree già ispezionate per confermare l’estensione della zona monumentale. Secondo alcune interpretazioni, i Giganti rappresentavano il ceto sociale più in vista, identificando negli arcieri i valori militari, nei pugilatori la sfera religiosa e nei modelli dei nuraghi quella politica. Altre ipotesi, invece, riconoscono nelle statue la raffigurazione degli antenati dell’epoca, evocati come eroi mitici delle leggende nuragiche, e nei modelli dei nuraghi il simbolo dell’identità e della compattezza della comunità in un momento di transizione caratterizzato da profonde tensioni e trasformazioni. Avrebbero quindi una forte valenza simbolica, ri-

volta sia alle comunità locali sia a quelle provenienti dal Mediterraneo orientale che in quel periodo giungevano sulle coste della Sardegna occidentale. «Siamo particolarmente soddisfatti dei primi esiti dell’intervento di scavo archeologico che, per l’unicità del sito in Sardegna e nel Mediterraneo, ha richiesto un intenso lavoro di preparazione scientifica e tecnica– ha dichiarato Stochino –. Il ritrovamento premia la costanza e la validità del metodo archeologico di esplorazione progressiva attraverso fasi di sondaggio preliminare e di indagine sistematica, misurate ed eseguite nei modi e nei tempi consentiti dalla disponibilità delle risorse». GdB | Maggio 2022

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Beni culturali

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er i Romani Giano (Ianus) era il dio del passaggio, che si compie, in origine, attraverso una porta, (ianua) e proteggeva gli inizi di un’attività umana o naturale, oppure di un periodo. A lui era dedicato non solo il primo giorno di ogni mese, ma anche l’apertura dell’anno: gennaio (ianuarius). Non sembra un caso, quindi, se i primi interventi di risanamento con stampa 3D e nanomateriali ci saranno a Rocca Janula di Cassino (Frosinone), toponimo che indica la piccola porta, e nel Palazzo Orsini ad Amatrice (Rieti). A finanziare il progetto “3DH-solutions” è la Regione Lazio, che riunisce enti di ricerca come Enea, Università degli Studi Roma Tre (coordinatore) e Università di Cassino e del Lazio Meridionale, in collaborazione con imprese specializzate nel restauro e nella stampa come Araknia Labs Srl e Nadir Srl. Saranno riprodotte parti mancanti di edifici ed elementi scultorei che hanno subito le “ingiurie” del tempo o degli

eventi estremi, rispettando reversibilità, durabilità e riconoscibilità dei materiali a tutto vantaggio di protezione e conservazione, regali dovuti al nostro prezioso patrimonio culturale. «I fenomeni naturali, i fattori antropogenici così come gli eventi catastrofici e atmosferici possono deteriorare - spiega Rosaria D’Amato, ricercatrice del Laboratorio Enea di micro e nanostrutture per la fotonica - i manufatti e le costruzioni esposte in ambiente esterno. Tale deterioramento può influire sia sull’estetica del monumento che sulla sua stabilità, rendendo quindi difficoltosa o addirittura impossibile la sua fruibilità al pubblico. La ricostruzione delle lacune architettoniche o strutturali di un edificio può contribuire a conservare il monumento e a restituire alla collettività il godimento del bene, sia in termini estetici sia prestazionali». Negli ultimi dieci anni la tecnologia per la stampa 3D ha compiuto passi da gigante, con

STAMPA 3D E NANOMATERIALI PER RIPARARE MONUMENTI DANNEGGIATI Saranno ricostruiti elementi scultorei e parti mancanti degli edifici 58 GdB | Maggio 2022


realizzazioni in molti settori, tra cui quello dei beni culturali non solamente per la ricostruzione di opere incomplete, ma anche nei musei per regalare ai visitatori una sensazione “interagente” dell’opera d’arte e come argomento per lo studio e l’analisi. Oggi siamo capaci di concretizzare riproduzioni fisiche con un’eccellente attenzione ai dettagli. Inoltre, rispetto alle tecniche tradizionali, c’è la possibilità di duplicare esattamente elementi di qualsiasi forma e complessità, assicurando un’equivalenza fruttuosa tra peso e prestazioni meccaniche, molto importante negli edifici storici costruiti in zona sismica o con difficoltà strutturali. A tutto ciò possiamo aggiungere pure la possibilità di usare materiali ecosostenibili, la riduzione dei tempi e dei costi, particolari non di poco conto nei ripristini o restauri. Il progetto si concentra su due tipologie: la “riedificazione” parziale di pareti in muratura regolare e la ricostruzione degli elementi decorativi, ad esempio i cornicioni, le decorazioni dei palazzi storici o le merlature. «Il punto di partenza della ricerca - continua D’Amato - è la fase di conoscenza del bene architettonico attraverso il suo rilievo e la sua rappresentazione digitale. La combinazione del rilievo tridimensionale e della stampa 3D costituiscono,

infatti, un binomio indispensabile per garantire la comprensione sia del bene in ogni dettaglio che delle sue lacune. Inoltre, durante la riproduzione delle parti mancanti, questa associazione consente di correggere eventuali errori apportando le necessarie modifiche, con l’obiettivo di assicurare una perfetta corrispondenza tra le parti dell’oggetto, che diventano un’alternativa più precisa e più veloce ai manufatti realizzati con processi manuali». Un’altra innovazione viene dalla sperimentazione di nuovi nanomateriali grazie ai quali possono prendere vita gli oggetti del passato. Le nanoparticelle ceramiche potenziano le proprietà meccaniche della matrice in cui sono disperse e aggiungono al materiale proprietà funzionali come idrofobicità, abilità autopulenti e biocide, ma anche capacità di abbattere gli inquinanti atmosferici. «Sono già state effettuate alcune stampe di prova. Così come sono già stati realizzati diversi provini in materiale termoplastico mediante la tecnologia di stampa 3D a deposizione fusa del filamento (fused deposition modelling FDM) e sono state eseguite delle prove sperimentali, a trazione e a flessione, per studiare il comportamento meccanico del materiale in funzione di alcuni parametri di stampa. Seguirà - conclude D’Amato - la fase di progettazione vera e propria su provini additivati con nanoparticelle». Il progetto, della durata di due anni, ha visto collaborare e mettere in comune le competenze interdisciplinari di ricercatori, ingegneri, chimici e architetti, oltre che abilità tecnico-industriali, con l’intento di avvantaggiare l’industrializzazione dei processi e l’estensione del campo di applicazione. (G. P.).

Rocca Janula di Cassino è una fortezza medievale del X secolo ed è uno dei più eloquenti monumenti per la comunità locale e della Terra Sancti Benedicti. Il bene, già oggetto dopo i bombardamenti del 1944 di risistemazione, ha ancora una torre con numerose lacune strutturali. Palazzo Orsini ad Amatrice fu costruito nel XVII secolo ed è stato quasi completamente distrutto dal terremoto del 2016. Aveva elementi decorativi sulla facciata ed era caratterizzato da un’epigrafe posta su un architrave, recentemente recuperata dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici del Lazio insieme ad altri fregi. La stampa 3D degli elementi decorativi mancanti permetterà di apporli senza compromettere le nuove caratteristiche sismiche e strutturali.

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Sport

I SEGRETI DI ALCARAZ PREDESTINATO DEL TENNIS A 19 anni il talento spagnolo sta vincendo un torneo l’altro dietro e scalando la classifica Atp di Antonino Palumbo

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ma allenarsi a piedi nudi sulla sabbia o arrampicandosi su una fune, la sera precedente un match mangia riso e pesce, è appassionato di puzzle e scacchi. Ma, soprattutto, Carlos Alcaraz è il nuovo predestinato del tennis mondiale, erede del connazionale Rafael Nadal e già vincitore, a soli 19 anni, di cinque titoli ATP su altrettante finali disputate. Ad avere un saggio delle sue capacità sono stati, fra gli altri, gli azzurri Matteo Berrettini e Jannik Sinner, il primo sconfitto sia a Vienna nel 2021 sia a Rio de Janeiro quest’anno, il secondo battuto ai Rolex Paris Masters. Nato a El Palmar (Murcia), Alcaraz ha iniziato a giocare a tennis a tre anni nella scuola del Club de Campo, di cui il padre era responsabile e il nonno tra i soci più anziani. Pure loro si chiamano Carlos. A dieci anni, Carlitos ha vinto il primo torneo. A fare il salto di qualità lo ha aiutato però Alfonso Lope Rueda, amministratore delegato di Postres Reina, azienda murciana di dolci derivati dal latte, che gli ha finanziato un Master Under 10 a Pola. A quindici anni, poi, Alcaraz è entrato nella “scuderia”

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dell’ex numero uno mondiale Juan Carlos Ferrero, ovvero l’accademia Equelite di Villena. Grazie all’ex vincitore del Roland Garros, Carlos è cresciuto atleticamente e caratterialmente, diventando più duro in campo. Il 2021 è stato l’anno del “boom” di Alcaraz: la prima semifinale Atp a Marbella, l’ingresso nella Top 100 mondiale, l’approdo al terzo turno di uno Slam (a Parigi), il primo titolo Atp a Umago grazie al 6-2, 6-2 in finale su Richard Gasquet. A 18 anni, due mesi e 20 giorni, il secondo atleta più giovane di sempre a vincere un torneo di primo livello della Association of Tennis Professionals. Nella seconda parte di stagione ha battuto il numero 3 al mondo, Stefanos Tsitsipas, poi i


Sport

“nostri” Matteo Berrettini e Jannick Sinner, ha vinto le Next Gen Atp Finals ma ha dovuto saltare la fase finale di Coppa Davis per positività al Covid. Prodromi di un’ascesa diventata da capogiro nel 2022. Battuto da Berrettini agli Australian Open, si è rifatto a Rio de Janeiro eliminandolo ai quarti e andando a vincere il primo Atp 500 in carriera, grazie al successo in due set nella finale con Diego Schwartzmann. Fermato in semifinale da Rafa Nadal a Indian Wells, ha stabilito un altro record nel successivo Miami Open, vincendo il Masters 1000 grazie alle vittorie in serie su Fucsovic, Cilic, il “solito” Tsitsipas, Kecmanovic, il campione uscente Hurkacz e in due set Casper Ruud. Stesso numero di set nella finale dell’Atp 500 di Barcellona, vinta contro Pablo Carreño Busta, cui ha concesso solo cinque game. Centoundici posizioni scalate in un anno, un vero e proprio ciclone

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sul circuito tennistico mondiale, Alcaraz appare settimana dopo settimana sempre più solito, sia fisicamente sia mentalmente. Sa di essere un fenomeno. E lo fa capire anche con frasi a effetto, vere e proprie massime, tipo: “Le finali non si giocano, si vincono”, proprio dopo quella dominata a Barcellona. L’autentico capolavoro del 19enne iberico, sinora, è stato il Masters 1000 di Madrid, inaugurato con le vittorie al meglio dei tre set su Nikoloz Basilasvili e Cameron Norrie nei primi due turni. Ai quarti di finale, ad attendere Carlos, c’era il suo predecessore Rafa Nadal, numero 4 al mondo, che l’aveva battuto in entrambi i precedenti. Stavolta il maiorchino ha fatto il padrone solo nel secondo set, cedendo il match al suo “delfino” che ha vinto il primo parziale 6-2 e il terzo e decisivo per 6-3, malgrado una caviglia malconcia. Recuperato in fretta dall’infortunio, Alcaraz ha dovuto scalare un’altra montagna, un certo Novak Djokovic, numero 1 al mondo e concentrato di tecnica, freddezza e cattiveria agonistica. Una battaglia lunga tre ore e mezza, con due tie-break nel primo e nel terzo parziale, vinti l’uno dal murciano e l’altro dal serbo, che ha ceduto anche il secondo set per 7-5. In condizioni fisiche e mentali clamorose, Alcaraz ha poi spazzato via l’ultimo ostacolo verso la vittoria, un Alexander Zverev che pure a tennis se la cava, visto che è numero 3 al mondo e difendeva il titolo vinto a Madrid nel 2021. Niente da fare: Carlos gli ha concesso appena quattro game, mandandolo a casa con un impietoso 6-1, 6-3 e guadagnando altre posizioni nella classifica mondiale. E quel sesto posto è destinato a migliorare ulteriormente. Oggi Alcaraz è seguito da uno staff di dieci persone fra fisioterapista, sparring partner, mental coach e nutrizionista. A occuparsi della sua mindfulness è Isabelle Balaguer, che incontra periodicamente. E’ lei che lo ha aiutato a non fossilizzarsi su vittorie e sconfitte e a non permettere alle emozioni di durare più a lungo del necessario. Il traumatologo Juanio Lopez ha invece contribuito a guarire un problematico tendine del braccio grazie a una cura di plasma arricchito di piastrine. GdB | Maggio 2022

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Sport

V PER VITTORIA: LA “FRECCIA” AZZURRA SI RACCONTA La 22enne Fontana, sprinter dei Carabinieri, rivela i segreti del record italiano sui 150m piani strappato dopo 19 anni alla Levorato, e le sue ambizioni per le Olimpiadi di Parigi 2024

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record sono fatti per essere sfidati e battuti. Fa però notizia quando questo accade dopo quasi quattro lustri, com’è accaduto per il primato italiano di Manuela Levorato sui 150 piani. A batterlo lo scorso 30 aprile è stata Vittoria Fontana, atleta dei Carabinieri, prima azzurra di sempre a scendere sotto i 17 secondi (16”99), lungo un percorso che la porterà la prossima estate ad affrontare i Mondiali di atletica a luglio e gli Europei ad agosto. La sprinter di Gallarate, 22 anni il prossimo 23 luglio, racconta la sua passione per la corsa, i suoi allenamenti e i suoi salutari piaceri alimentari. Come nasce la passione per l’atletica e la velocità? È successo a 14 anni, in prima superiore, quando mio fratello praticava atletica con il mio attuale allenatore e io andavo con i miei genitori a prenderlo, al campo. Ero già portata verso questa disciplina, come struttura sportiva, ma inizialmente era un hobby. Poi, quando sono arrivati i primi risultati, ho iniziato a prenderla sul serio. Qual è stato l’elemento determinante nella tua scelta di vita? All’inizio non mi faceva impazzire. Avendo praticato equitazione, arrivando però a un livello dove questa passione iniziava a diventare impegnativa economicamente. E poi pallavolo, nuoto e scherma. Ma nell’atletica ho trovato un bellissimo gruppo. Quando si è trasformato da passione in “lavoro”? Partivo da un personale da 12:60, ma sono scesa in brevissimo tempo a 11:65 e

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sono migliorata costantemente, finché due anni dopo sono entrata nei Carabinieri. Nel 2019 il record italiano juniores nei 100m piani (11”40) ti ha fruttato l’oro europeo Under 20 a Boras... Un po’ me l’aspettavo, perché avevamo buoni riscontri in allenamento. Mi ero già fatta il “film” mentale della vittoria, anche se in gara può succedere di tutto, dalla tua giornata no all’exploit di un’avversario. Era la prima volta in Nazionale e sono arrivata lì veramente in forma e tranquilla a livello mentale. Quando era in batteria con l’olandese che aveva fatto 11”36 mi sono un po’ preoccupata, ma ho capito che aveva sempre tirato e avrebbe potuto pagare dazio. In finale i due centesimi di differenza sono stati il frutto di un’ottima gestione dei tre turni. Dopo gli Europei ti sei fermata per una frattura allo scafoide: cosa è successo? Avevo male al piede già al ritorno dagli Europei. Si pensava a un’infiammazione ma io sentivo male all’osso. Non riuscivo nemmeno a corricchiare. C’era una microfattura latente che pare si sia trasformata in frattura dello scafoide. Ci ha meso sei mesi per andare a posto e poi non ho fatto riabilitazione, anche perché con il lockdown è stato problematico. Questo mi ha dato qualche problema posturale, portandomi a correre sull’esterno del piede. Problemi che sto risolvendo solo ora. Alle Olimpiadi di Tokyo sono mancati tre centesimi per la finale della 4x100 femminile... Purtroppo sì, l’atletica è così. Abbiamo stabilito il record italiano ma non è bastato.


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Che esperienza è stata, quella olimpica? Le ho preparate in un anno. Non pensavamo che riuscissi a passare da 11”70 a quei tempi lì. Per la staffetta è stata un’altra cosa, l’idea era partecipare all’individuale per forza, ho dovuto fare tantissime gare per rimanere nel ranking. Non sono arrivata al top della forma, ma rifarei tutto. Non avevo un obiettivo, semifinale o finale, ma capire come è un’Olimpiade, confrontarmi alle altre. Cosa rappresenta per te il record italiano sui 150m piani? Mi aspettavo di fare questo tempo, ma è una distanza che si fa talmente poche volte, da non avere riferimenti. Vedere che il tempo è vicino a quello di Mujinga è ancora più stimolante. Prossimo passo, il record dei 200? Quest’anno sarà di transizione, correrò sia i 100 sia i 200 metri piani. L’idea è gareggiare nei 200m al mondiale, avendo un minimo più accessibile rispetto ai 100m, che invece proverò all’Europeo. Se dico Parigi 2024...? Parigi è l’obiettivo principale a cui già ambisco adesso, tutta la preparazione del 2021 e del 2022 è già in ottica Parigi. Arrivarci con un’Olimpiade già fatta mi dà più consapevolezza e determinazione. Lo scorso anno non avevo chiare quale fossero le mie capacità. Nei prossimi due anni affinerò ancora di più al tecnica, il sogno sarebbe la finale olimpica anche se non sappiamo come sarà la velocità mondiale fino ad allora. Quali sono i tuoi riferimenti o idoli sportivi? Allyson Felix, la donna più medagliata di sempre alle Olimpiadi. Oltre a essere una bravissima atleta, è un grande personaggio e, fra l’altro, si è battuta per i diritti delle mamme-atlete. Come ti alleni, in pista e non? Mi piace tanto fare palestra perché è un modo per superare limiti. Quando ero piccola facevo squat con 30 chili, ora lo faccio con 160. E poi abbiamo tutto un allenamento in pista, in questo periodo il lavoro è più tecnico e di sviluppo della velocità, si correggono le piccole cose. In inverno si guarda meno la tecnica e si cerca di immagazzinare più lavoro possibile. Quest’anno ho lavorato più sulla parte aerobica e sulla potenza lattacida e questo ha pesato sui 150 metri.

Vittoria Fontana.

Mi piace tanto fare palestra perché è un modo per superare limiti. Quando ero piccola facevo squat con 30 chili, ora li faccio con 160.

E come cambia l’alimentazione? Hai dovuto fare rinunce o modificare qualche abitudine, per essere più performante? Ho sempre mangiato sano, non ho mai esagerato e ho sempre solo bevuto acqua, tanto che mi prendono tutti in giro. Non ho mai avuto grossi problemi, quindi posso concedermi senza problema una pizza quando ne ho voglia. Sicuramente in questo momento della stagione cerco di mantenere una dieta abbastanza fissa. La mia alimentazione è mediterranea, mangio un po’ di tutto, a fine stagione mangio ciò che ora non mi concedo. Non vivo questo come una privazione: è solo un appuntamento rimandato. (A. P.) GdB | Maggio 2022

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Paola Egonu ha giocato la sua ultima partita con il Conegliano

VOLLEY, RAMMARICO PER CONEGLIANO E TRENTO Coppa Campioni solo sfiorata per le due squadre italiane, nelle Super Final di Lubiana: trentini battuti dallo Zaksa, venete battute turche della Vakifbank

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un passo dal sogno. Si è fermata all’ultimo step, sul campo della Stozice Arena di Lubiana (Slovenia), la rincorsa di Conegliano e Trento alla Coppa dei Campioni di volley. In un palazzetto gremito all’inverosimile, incoraggiati da tantissimi tifosi giunti dal Veneto (per le donne) e dal Trentino (per gli uomini), le due squadre italiane hanno ceduto il passo rispettivamente alle turche della Vakifbank Istanbul di Giovanni Guidetti e ai polacchi dello Zaksa, anche questi ultimi sostenuti da un pubblico assai numeroso e caloroso. L’Imoco Conegliano chiude così un grande ciclo mancando il bis dopo la vittoria della

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CEV Champions League 2020/2021. Per la Trentino Volley, re d’Europa fra il 2009 e il 2011, si tratta invece della seconda finale consecutiva chiusa con l’argento, la terza nelle ultime sei edizioni della massima competizione maschile europea per club. Nell’ultima partita di Paola Egonu, oltre che di molte altre ragazze del roster, Conegliano non è riuscita a sfruttare la solita mole di punti della stella azzurra. Troppe le leggerezze del team targato Imoco, soprattutto nei primi due set, quando gli errori-punto sono stati 22 (su 50 punti totali) e le turche ne hanno approfittato per mettere il match in discesa. Non è certo di regali che aveva-

no bisogno, peraltro, avendo già vinto - prima della finale - tutte e quattro le competizioni cui hanno preso parte, fra cui il Mondiale per club contro la stessa Conegliano. Avanti di quattro punti a metà del primo set, Plummer e compagne si sono fatte rimontare commettendo quattro errori negl ultimi cinque punti. Il black-out è proseguito all’inizio (7-13) e alla fine del secondo parziale, dopo una serie di servizi della Egonu che avevano temporaneamente ristabilito l’equilibrio. Sul 10-15 del terzo e decisivo set, è venuta fuori la vera Conegliano, che si è portata sull’1-2. Sulle ali dell’entusiasmo, le ragazze di Santarelli sono volate sull’83 nel quarto set, ma l’illusione è durata poco. Trascinate da Gabi (miglior giocatrice del match), Haak e Gunes, le turche hanno invertito il trend e chiuso i conti, meritandosi la coppa. Se per la Vatifbank si tratta del quinto successo nelle ultime undici edizioni, squadra più vincente da quando la competizione ha cambiato nome in CEV Champions League, tra gli uomini lo Zaksa ha confermato il successo dello scorso anno, quando riportò la Coppa dei Campioni in Polonia dopo oltre quarant’anni. Un po’ un riflesso di quanto accade a livello di nazionali, con la Polonia campione del mondo sia nel 2014, sia nel 2018 e quest’anno chiamata a difendere il titolo in casa. Squadra completa in ogni fondamentale, lo Zaksa ha reso la vita durissima a Trento sin dalle prime fasi, sporcando quasi tutti gli attacchi e sfruttando al meglio la regia di Janusz e la gran verve di Kamil Semeniuk, che sarà premiato come “Mvp” della finale: sorridono i tifosi di Perugia, pronti ad abbracciarlo assieme a coach Gheorghe Cretu. Quando la battuta di Trento è calata d’intensità, per il club di Kędzierzyn-Koźle la strada si è fatta letteralmente in discesa. La squadra italiana ha chiuso a testa alta nel terzo set, portato ai vantaggi. Anche in questi frangenti, però, è apparso chiaro come lo Zaksa andasse a punto molto più facilmente. E il 32-30 finale è stato l’epilogo già scritto. Peccato, ma giusto così. (A. P.)


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l ballo dei “debuttanti” nel Giro d’Italia degli ultimi valzer. Si possono raccontare con una metafora danzante gli exploit di alcuni atleti italiani nella Corsa Rosa partita da Budapest (Ungheria) lo scorso 6 maggio e conclusa domenica 29 all’Arena di Verona. Sembrava un digiuno senza fine, quello degli atleti italiani, a secco per ben dieci tappe. Poi, però, sono arrivati dei sorrisi resi ancora più speciali dall’unicità dell’evento. Sia Alberto Dainese, sia Stefano Oldani, vincitori rispettivamente dell’undicesima e della dodicesima tappa, non avevano mai conquistato un successo al Giro d’Italia prima d’ora. Alberto Dainese, 24enne di Abano Terme, da piccolo guardava il ciclismo in tv assieme ai nonni, ma come primo sport aveva scelto il basket. Poi il ciclismo, che gli ha fatto posticipare il percorso universitario, anche se dopo la prima stagione da professionista aveva già iniziato a interrogarsi sul futuro. I risultati, infatti, non arrivavano e forse Alberto non aveva previsto un passaggio così drastico dall’oro europeo U23 alla categoria professionistica. Quella attuale è la sua terza stagione fra i big, quella decisiva, nella quale sta evidentemente giocando le sue migliori carte, come si può notare nella volata vincente di Reggio Emilia. Ce n’erano di favoriti, eccome. Ed erano tutti lì sul filo, pronti ad affidare al fotofinish l’ultimo colpo di reni. Da Gaviria a Démare, dall’eterno Cavendish a Ewan, passando per gli italiani Consonni, Modolo e Nizzolo, intenzionati a rompere il digiuno italiano al Giro d’Italia 2022. Poi è sbucato Dainese, apparentemente dal nulla, ma in realtà pilatato da un grande Romain Bardet fino all’ultima curva: una soluzione che alla Vuelta a Espana 2021 aveva fruttato ad Albertone un secondo e due terzi posti. Fra la prima vittoria da professionista, all’Herald Sun Tour in Australia, e la seconda al Giro d’Italia 2022, sono passati 833 giorni. Ora ci sarà da abbattere l’attesa per la prossima, ma il successo di Reggio Emilia può essere il “clic” che fa svoltare una carriera.

Sport

Stefano Oldani (immagine di repertorio).

DAINESE-OLDANI, LA “PRIMA” AL GIRO NON SI SCORDA MAI Mentre Nibali annuncia l’addio nella sua Messina e Pozzovivo si fa tentare dal futuro, l’Italia ciclistica applaude il primo successo di due 24enni alla Corsa Rosa

Da un veneto a un milanese di Busto Garolfo: ventiquattro ore più tardi, è stato Stefano Oldani - 24 anni pure lui - a vincere la tappa numero 12, la più lunga di questo Giro d’Italia: 204 km da Parma a Genova. Oldani ha colto la sua prima vittoria da professionista precedendo, sul traguardo di via XX Settembre, Lorenzo Rota e l’olandese Gijs Leemreize, residui compagni della fuga di giornata. Come tanti della sua generazione, Stefano ha pagato lo scotto del passaggio fra i pro’. L’ex campione italiano a cronometro juniores si è posto obiettivi crescenti, al Giro: arrivare alla fine nel 2020, qualche piazzamento di tappa poi, riuscendo a cogliere delle Top 10 parzia-

li in entrambe le edizioni. Quest’anno è passato dalla Lotto Soudal alla Alpecin del fenomeno Mathieu Van der Poel, squadra più avventuriera di tutte, sempre all’attacco così come “insegna” il capitano. Ci ha provato sull’Etna, ci è riuscito a Genova, credendoci fino alla fine. Portando all’Italia il secondo successo nell’edizione numero 105 della Corsa Rosa. E mentre Vincenzo Nibali ha ha annunciato il ritiro dall’attività agonistica a fine stagione, il Giro d’Italia 2022 ha visto ritagliarsi nuova visibilità anche a Domenico Pozzovivo, quarant’anni il prossimo novembre. Che, al contrario, ha lasciato aperta una porta all’attività agonistica negli “Anta”. (A. P.) GdB | Maggio 2022

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FATTORE NES NUTRIZIONE, ESERCIZIO E SONNO.

I 3 PILASTRI PER LA SALUTE E LA PERFORMANCE. â

Delegazione dell’Onb della Sardegna

CONFERENZA SCIENTIFICA E DIVULGATIVA Parte del progetto «Multisport di Quartiere» della Sport.ER per Sport e Salute

9.30 - Saluti Istituzionali Enrico Tinti - Commissario Straordinario ONB Regione Sardegna Maria Cristina Dore - Consigliere Enpab Stefano Esu - Segretario Regionale Sport e Salute spa. Stefano Masala - Presidente Sport.ER , progetto Sport e Salute PRIMO FATTORE NES: La nutrizione 9.45 | Alberto Bazzu Biologo e Chinesiologo (ONB Sardegna) «La nutrizione per la salute e per lo sport: punti di forza e debolezza» SECONDO FATTORE NES: L’esercizio sico 10.30 | Marco Pinna Preparatore atletico nazionale «Lo sport dalle fasce giovanili verso le Olimpiadi: cosa ci manca?» Pausa TERZO FATTORE NES: Il Sonno 11.15 | Gian Mario Migliaccio Dottore di ricerca e Biologo (ONB Sardegna) «L’integratore più efficace per la salute e la prestazione»

Sabato, 11 Giugno 2022

Registrazione ore 8.30 Auditorium Provinciale Via Monte Grappa 2 Sassari

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12.30 | Discussione Moderatore: Dott.ssa Maria Sorrentino - Ordine Nazionale Biologi

Evento gratuito con registrazione su https://fattorenes.eventbrite.it Consente di ottenere CFU, Crediti a Scelta Autonoma Riconosciuti dal Corso di Laurea in Scienze Motorie dell’Università degli Studi di Sassari


Sport

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l Milan vince 3 a 0 a Reggio Emilia ed è campione d’Italia. Vana la vittoria casalinga dell’Inter contro la Samp. Per Napoli e Juve la Champions è proverbio da qualche giornata, con Lazio e Roma che si accontentano dell’Europa League. La Fiorentina vola in Conference e beffa l’Atalanta. Si salva la Salernitana: il Cagliari annega in Serie B con Genoa e Venezia. San Siro è vuota, tutti i diavoli sono al Duomo. 4033 giorni dopo l’ultima volta, il Milan si laurea campione d’Italia e conquista il diciannovesimo scudetto della sua storia. Dal 7 maggio 2011, di cose e di persone, a Milanello, ne sono cambiate davvero tante. Tante ma non una: Zlatan Ibrahimovic. Il Milan vince in un arco di tempo che va da Ibra a Ibra, dai suoi ventinove ai suoi quarant’anni. Ma lungo questo percorso, ornato di rosso e di nero, bisognerebbe fermarsi più volte, perché la “Favola dello svedese che più invecchia e più diventa giovane” (o, se si preferisce, “più diventa buono come il vino”) non è l’unica che si può ascoltare. C’è per esempio quella che racconta il tramonto di un’epoca segnata da due signori del calcio come Berlusconi e Galliani, o quella che parla dell’ingresso in società di Paolo Maldini, il Milan fatto persona. C’è poi la storia di Stefano Pioli, uno dei simboli della rinascita rossonera. Nessuna di queste sarebbe però diventata favola senza il lieto fine di Reggio Emilia, senza il trionfo contro un Sassuolo costretto ad inginocchiarsi. E allora, mentre il diavolo fa festa, il biscione serba il suo veleno per la prossima stagione. Per l’Inter, stavolta, sono ombre a San Siro. A testimoniare è il troppo silenzioso Meazza nonostante il 3 a 0 alla Samp. Una vittoria vana, che serve ad Inzaghi e ai suoi solo a non avere alcun rimpianto. La dirigenza nerazzura ha comunque considerato la stagione positiva, che ha visto l’Inter conquistare la Supercoppa e la Coppa Italia. Andando un po’ più a Sud in classifica, Napoli e Juventus si sono guadagnate un posto in Champions League senza troppe fatiche, ma… con qualche rimpianto. Se i guaglioni di Spalletti sono usciti dalla corsa

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FAVOLE DA SERIE A IL FINALE DI STAGIONE Il racconto della stagione calcistica 2021-2022 e i retroscena di un campionato i cui esiti si sono definiti al novantesimo minuto

al tricolore troppo presto, i “bischeracci” (come li chiama Max) di Allegri non hanno praticamente mai gareggiato. A Roma regnano le certezze: che la sponda del Tevere dove si passeggi sia biancoceleste o giallorossa, poco importa, si scorgerà sempre l’Europa League nel futuro delle romane. Ma per i “ragazzi di vita” di Josè Mourinho la stagione non è ancora terminata: il condottiero lusitano, sulla scia di predecessori più celebri, marcerà verso l’Illiria alla conquista di Tirana. Riuscirà lo Special One a scrivere una nuova pagina sul libro della storia di Roma? … chiedo scusa, della Roma? A Firenze i fiorentini hanno osato sfidare la Dea, e con un po’ di

quell’astuzia e di quella sana spavalderia che li contraddistingue, sono anche riusciti a beffarla: la Fiorentina soffia il settimo posto ad un’Atalanta che, per la prima volta dopo cinque anni, non parteciperà ad una competizione europea. E se quindi i diavoli sono al Duomo, chi c’è all’inferno? La salvezza della Salernitana ha il volto e il nome di Davide Nicola: dopo il miracolo di Crotone e nonostante la serataccia di Salerno, il tecnico piemontese lo ha fatto ancora. Al Pierluigi Penzo, invece, contro il già retrocesso Venezia, il Cagliari non va oltre lo 0 a 0 e sprofonda in Serie B, trascinando nell’oblio le meraviglie della sua isola. (M. O.). GdB | Maggio 2022

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Lavoro

CONCORSI PUBBLICI PER BIOLOGI AZIENDA OSPEDALIERA NAZIONALE “SS. ANTONIO E BIAGIO E CESARE ARRIGO” DI ALESSANDRIA Scadenza, 2 giugno 2022 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di dirigente biologo a tempo indeterminato, disciplina di patologia clinica. Gazzetta Ufficiale n. 35 del 03-05-2022.

UNIVERSITÀ POLITECNICA DELLE MARCHE DI ANCONA Scadenza, 16 giugno 2022 Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato, settore concorsuale 05/E1 - Biochimica generale, per il Dipartimento di scienze della vita e dell’ambiente. Gazzetta Ufficiale n. 39 del 17-05-2022.

ISTITUTO NAZIONALE TUMORI IRCCS - FONDAZIONE G. PASCALE DI NAPOLIMOBILITÀ Scadenza, 2 giugno 2022 Mobilità, per titoli e colloquio, per la copertura di un posto di dirigente sanitario biologo con specializzazione in microbiologia e virologia. Gazzetta Ufficiale n. 35 del 03-05-2022.

UNIVERSITÀ DI BOLOGNA “ALMA MATER STUDIORUM” Scadenza, 21 giugno 2022 Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato della durata di trentasei mesi e pieno, settore concorsuale 05/I1 - Genetica, per il Dipartimento di farmacia e biotecnologie. Gazzetta Ufficiale n. 39 del 17-05-2022.

UNIVERSITÀ DI BOLOGNA “ALMA MATER STUDIORUM” Scadenza, 4 giugno 2022 Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato della durata di trentasei mesi e pieno, settore concorsuale 05/D1 - Fisiologia, per il Dipartimento di farmacia e biotecnologie. Gazzetta Ufficiale n. 34 del 29-04-2022.

UNIVERSITÀ DI BOLOGNA “ALMA MATER STUDIORUM” Scadenza, 24 giugno 2022 Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato della durata di trentasei mesi e pieno, settore concorsuale 06/A3 - Microbiologia e microbiologia clinica, per il Dipartimento di medicina specialistica, diagnostica e sperimentale. Gazzetta Ufficiale n. 40 del 20-05-2022.

UNIVERSITÀ “LA SAPIENZA” DI ROMA Scadenza, 12 giugno 2022 Procedura di selezione, per titoli e colloquio, per la copertura di un posto di ricercatore a tempo pieno e determinato della durata di tre anni, eventualmente prorogabile per ulteriori due, settore concorsuale 05/B1, per il Dipartimento di biologia e biotecnologie «Charles Darwin». Gazzetta Ufficiale n. 38 del 1305-2022.

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CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO PER L’ENDOCRINOLOGIA E L’ONCOLOGIA “GAETANO SALVATORE” DI NAPOLI Scadenza, 3 giugno 2022 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Scienze Biomediche” da

usufruirsi presso l’Istituto per l’Endocrinologia e l’Oncologia Sperimentale del CNR di Napoli, nell’ambito di: “PROGETTI TRASFERIMENTO TECNOLOGICO E DI PRIMA INDUSTRIALIZZAZIONE PER LE IMPRESE INNOVATIVE AD ALTO POTENZIALE PER LA LOTTA ALLE PATOLOGIE ONCOLOGICHE CAMPANIA TERRA DEL BUONO – Titolato: “Valutazione di nuovi mediatori dell’interazione tumore-stroma nei Carcinomi del colon”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI RICERCA SUGLI ECOSISTEMI TERRESTRI DI NAPOLI Scadenza, 3 giugno 2022 È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 “Assegno Professionalizzante” per lo svolgimento di parte dell’ attività di ricerca inerente l’Area Scientifica “Risorse Naturali ed Ecosistemi” da svolgersi presso l’Istituto di Ricerca Sugli Ecosistemi Terrestri sede di Napoli del CNR e di parte della stessa attività presso l’Istituto di Scienze dell’Alimentazione di Avellino nell’ambito del PROGETTO DTA.AD002.674 IRPINIAESSENZIALE” “GAE P0000182 DTA.AD002.674 Responsabile scientifico: Dr. Francesco La Cara per la seguente tematica: “Caratterizzazione di olii essenziali ottenuti con innovative pratiche agronomiche da piante aromatiche ed ortive e valorizzazione dei by-products”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI SCIENZE E TECNOLOGIE DELLA COGNIZIONE DI ROMA


Lavoro

Scadenza, 3 giugno 2022 È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 (uno) “Assegno di ricerca professionalizzante” per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area Scientifica “Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche” da svolgersi presso l’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR, che effettua ricerca nell’ambito del programma di ricerca “Human Brain Project Specific Grant Agreement 3” (G.A. 945539)”, per la seguente tematica: “Supporto allo sviluppo di reti neurali artificiali bio-ispirate per la segmentazione visiva, con particolare riferimento all’applicazione a sistemi automatici di presa di oggetti”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI BIOLOGIA E PATOLOGIA MOLECOLARI DI ROMA Scadenza, 6 giugno 2022 È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 assegno “professionalizzante” per lo svolgimento di attività di ricerca inerente l’Area Scientifica di Scienze Biologiche da svolgersi presso l’Istituto di Biologia e Patologia Molecolari del CNR che effettua ricerca nell’ambito del progetto di ricerca finanziato da AIRC (cod. progetto IG 2017 Id 20528) dal titolo “Exploiting the Drosophila model system to investigate the function of human proteins involved in telomere maintenance” per la seguente tematica: “Analisi del danno cromosomico e telomerico prodotto da mutanti di Drosophila che alterano la trascrizione”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI NEUROSCIENZE DI PARMA Scadenza, 7 giugno 2022 È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 Assegno di ricerca Senior per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area Scientifica “Medicina e Biologia” da svolgersi presso l’Istituto di Neuroscienze

del CNR, UOS di Parma, nell’ambito del Progetto “Il Meccanismo mirror nell’uomo, sue funzioni specifiche e sue alterazioni”, per la seguente tematica: “Studio della fisiologia del sistema motorio in soggetti in età pediatrica a sviluppo tipico e con disturbi dello spettro autistico”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO PER LE RISORSE BIOLOGICHE E LE BIOTECNOLOGIE MARINE DI LESINA (FOGGIA) Scadenza, 9 giugno 2022 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Scienze del Sistema Terra e Tecnologie per l’Ambiente” da usufruirsi presso l’Istituto per le Risorse Biologiche e le Biotecnologie Marine del CNR di Lesina (Fg), nell’ambito dell’Accordo di Collaborazione tra l’ARPA Puglia e il CNR-IRBIM, stipulato in data 04/08/2021, inerente il programma di “Monitoraggio delle acque di balneazione e delle acque di transizione delle lagune di Lesina e Varano e di eventuali fenomeni distrofici negli stessi ambienti di transizione”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO PER LE RISORSE BIOLOGICHE E LE BIOTECNOLOGIE MARINE DI ANCONA Scadenza, 13 giugno 2022 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 (una) borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti all’Area scientifica “Scienze del Sistema Terra e Tecnologie per l’Ambiente” da usufruirsi presso l’Istituto per le Risorse Biologiche e le Biotecnologie Marine del CNR sede di Ancona, nell’ambito del programma di ricerca: “Innovazione, sviluppo e sostenibilità nel settore della pesca e dell’acquacoltura per la Regione Campania (ISSPA)” – FEAMP 2014-2020 Regione Campania – Misura 2.47”, sotto la respon-

sabilità scientifica del Dr. Luca Bolognini. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI BIOLOGIA E BIOTECNOLOGIA AGRARIA DI MILANO Scadenza, 15 giugno 2022 È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di un assegno di tipologia Professionalizzante per lo svolgimento di attività di ricerca inerente all’Area Scientifica Area Scientifica 07 Scienze agrarie e veterinarie - AGR/07 Genetica agraria, presso la sede di Milano dell’Istituto di Biologia e Biotecnologia Agraria del CNR che effettua ricerche nell’ambito del Programma di ricerca “BIO-BELIEF - BIOfortification of common Bean to promote heaLthy dIEt and Food security in a context of climatic variation” - Bando ERANET FOSC COFUND 2019 Progetto ID 288, per la seguente tematica: “Sviluppo di materiali genetici di fagiolo migliorati per la qualità nutrizionale e la tolleranza alla siccità attraverso tecnologie tradizionali ed innovative”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI BIOFISICA DI PALERMO Scadenza, 16 giugno 2022 È indetta una selezione pubblica per titoli e colloquio ai sensi dell’art. 8 del “Disciplinare concernente le assunzioni di personale con contratto di lavoro a tempo determinato” per l’assunzione, con contratto di lavoro a tempo determinato ai sensi dell’art. 83 del CCNL del Comparto “Istruzione e Ricerca” 2016-2018, sottoscritto in data 19 aprile 2018, di una unità di personale con profilo professionale di Ricercatore – III livello, fascia stipendiale iniziale, presso la Sede Secondaria di Palermo dell’Istituto di Biofisica per lo svolgimento della seguente attività di ricerca scientifica “Modeling the mouse and human hippocampus” nell’ambito del progetto denominato Human Brain Project citato nelle premesse. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. GdB | Maggio 2022

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Risolvere il disturbo post-traumatico da stress Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari (EMDR): un possibile meccanismo d’azione su base neurobiologica

di Lorenzo Varriano*

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l Disturbo Post-Traumatico da Stress, altrimenti detto PTSD (dall’inglese Post-Traumatic Stress Disturb), si presenta come un fastidioso disordine del funzionamento mentale, caratterizzato da sintomi quali evitamento, flashback, ricordi intrusivi, disturbi del sonno e sindromi ansiose, innescati da particolari elementi o circostanze [1]. Tutto ciò a cui pensa il soggetto che sia in qualche modo collegato all’evento traumatico, porta alla manifestazione del quadro sintomatologico. Ipotizziamo che il nostro sfortunato paziente, una sera, tornando a casa dal cinema, subisca un’aggressione sulla strada del rientro. Un ladro dal volto scavato, armato di coltello, gli afferra il polso con una stretta ferrea e lo minaccia di morte: «o la borsa, o la vita!»; così il nostro povero amico è costretto a consegnare tutti i suoi averi per avere salve le penne. Torna a casa piuttosto scosso, ma sano e salvo, senza apparenti danni o lesioni di alcun tipo. Trascorre quella stessa notte nell’irrequietezza, eppure giorno dopo giorno, l’agitazione si placa. Tempo dopo, quando tutto sembra essere dimenticato, il nostro amico si trova ad attraversare la stessa strada della fatidica sera. Un senso di angoscia lo assale, al punto da impedirgli di proseguire; sente sul polso una stretta, la stessa di quella notte, come se qualcuno l’avesse di nuovo afferrato, eppure la strada è vuota… Lo sventurato sente le gambe tremare, ma con un grande sforzo si trascina lungo il percorso parallelo, gremito di negozi e luci colorate che lo distraggono e lo riportano nel presente. Ancora una volta il nostro povero amico ha avuto salva la vita, questa volta da una minaccia inesistente. Tuttavia, una volta tornato a casa, non riesce a dormire, si sveglia continuamente; tutto sembra riportarlo a quella sera: il

Psicologo Clinico, collaboratore di BioPills: il vostro portale scientifico.

buio della notte, i coltelli da cucina, il paio di pantaloni che indossava quel giorno, ormai vuoti del portafoglio… Quando il poverino si rende conto di non riuscire a superare da solo la cosa, decide di rivolgersi ad uno specialista, il quale gli suggerisce di prendere accordi con un clinico esperto di EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), una tecnica psicoterapeutica realizzata appositamente per il trattamento di disturbi con base traumatica. Dopo qualche seduta, la sintomatologia del paziente va in remissione, fino a scomparire del tutto: cos’è successo? Nascita e sviluppo della tecnica EMDR Era il 1987 quando Francine Shapiro, l’inventrice della tecnica, ebbe un’illuminazione. Stava camminando nel parco mentre ripensava ad alcuni eventi disturbanti della

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Figura 1. Relazione tra valenza bioelettrica (Z, K, A), emotività e cognizione durante il processo di elaborazione [2].


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sua vita, contemporaneamente spostava gli occhi da una parte all’altra del proprio campo visivo. Al termine della passeggiata prese coscienza di un avvenimento importante: i ricordi su cui rimuginava non la preoccupavano più tanto quanto all’inizio, sembrava avessero perso la carica emotiva che li accompagnava [2]. A partire da questa esperienza, seguirono una lunga serie di studi, ideati con lo scopo di realizzare e raffinare un metodo manualizzato con il quale fosse possibile ridimensionare l’attivazione emotiva abnorme associata ad alcuni ricordi, come nel caso del PTSD. Nacque così la tecnica EMDR, trattamento d’eccellenza per i disturbi con base traumatica. Nonostante la sua efficacia in ambito clinico sia notevole ed ormai certificata da svariati RCT (Randomized Clinical Trial) [3], ancora oggi non è del tutto chiaro il meccanismo neurobiologico che le soggiace. I cultori del metodo notarono che la terapia portava ad una vera e propria «trasformazione» delle cognizioni nel paziente. Purtroppo, le vittime di abusi il più delle volte finiscono per giudicarsi e colpevolizzarsi a causa del trauma («ho sbagliato tutto», «sono sporco», «non sono degno di amore»); dopo il trattamento, queste cognizioni negative misurate con scale apposite, svaniscono, e cognizioni con valenza positiva le sostituiscono («ho fatto il possibile», «non sono un fallito», «sono degno di amore») [2]. A partire da queste evidenze, una tra le prime ricerche propose un’ipotesi di funzionamento basata sulla relazione tra cognizioni e potenziale sinaptico (valenza bioelettrica). In seguito ad un trauma, le cognizioni a valenza positiva rimarrebbero isolate dal punto di vista mnestico per via di un minore potenziale sinaptico dei neuroni rispetto agli altri della rete, fenomeno esacerbato dall’evento traumatico; dunque, andrebbero ad associarsi solamente

le popolazioni cellulari da cui dipende il ricordo contestuale e quelle responsabili delle cognizioni negative, entrambe con potenziale maggiore. Le correnti generate dai movimenti oculari durante la terapia EMDR andrebbero ad interferire con il potenziale delle cognizioni a valenza positiva, incrementandolo e consentendo agli elementi mnestici di legarsi al resto della rete. In questo modo otterremmo un ricordo realistico, equilibrato e ben integrato (Figura 1). Eye Movement… Benché l’ipotesi descritta dalla Figura 1 suoni interessante, risale comunque al secolo scorso e non prende in considerazioni tante variabili introdotte a posteriori nel sistema. Ad esempio, l’intera argomentazione dello studio si basa sull’idea secondo cui l’EMDR è funzionale sulla base dei movimenti oculari. Tuttavia, pare che il metodo possa anche prescindervi. Generalmente il clinico, durante la rievocazione del ricordo traumatico, chiede al paziente di seguire con lo sguardo uno stimolo visivo che si sposta nello spazio tra destra e sinistra alla frequenza di 1-2 Hz; può capitare però che il soggetto non riesca ad eseguire il task, così è necessario applicare una stimolazione differente, ad esempio input sonori alternati oppure tapping bilaterale [2]. In tutti i casi il trattamento pare abbia esito positivo, sembra dunque che i movimenti oculari non siano indispensabili per il successo della terapia. È probabile che l’efficacia sia dovuta ad altro, ad esempio all’attenzione impiegata nello svolgimento del compito comportamentale, qualunque esso sia. Difatti, che si tratti di seguire uno stimolo con gli occhi oppure «con il pensiero» (nel caso di stimoli bilaterali alternativi), comunque l’attenzione del soggetGdB | Maggio 2022

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to viene distolta dal ricordo traumatico e viene spostata in parte sull’esecuzione del task [5]. A grandi linee, una seduta tipo procede per fasi nel seguente modo: (1) Il clinico e il paziente identificano insieme il ricordo target; (2) Viene valutata l’intensità delle cognizioni negative/ positive ad esso associate; (3) Al paziente viene chiesto di rievocare il ricordo, anche se può essere doloroso; contemporaneamente gli viene chiesto di eseguire il compito comportamentale, che si tratti di movimenti oculari o di altro; (4) Al termine della seduta vengono valutate nuovamente le cognizioni per verificare l’eventuale miglioramento della condizione. Il cambiamento avviene durante la fase tre del processo, perciò è durante quella fase che si attua la desensibilizzazione. Greenwald condusse una serie di studi sul cosiddetto Progressive Counting (PC), un trattamento simile all’EMDR ed altrettanto efficace, che sostituisce i movimenti oculari con un altro «distrattore» [6]. In questo caso viene chiesto al paziente di rievocare il ricordo target, ma mentre esegue il compito, è distratto dal terapeuta che conta a gran voce da 1 a 10, poi da 1 a 20 e così via… In questo modo l’attenzione del paziente viene in parte distolta dal ricordo e viene impiegata per ascoltare il conteggio. Non è diverso il risultato finale della seduta. …desensitization and reprocessing Il nome della terapia identifica tutti gli elementi che la costituiscono: desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari. Francine Shapiro non fu la prima a parlare di desensibilizzazione, Wolpe prima di lei propose una terapia di «desensibilizzazione sistematica», pensata con lo scopo di risolvere le fobie dei pazienti. L’idea era quella di sfruttare i processi sinaptici di condizionamento al fine di sovrascrivere l’associazione disfunzionale con una nuova associazione adattiva. In altre parole, se il paziente era terrorizzato dai ragni, Wolpe lo esponeva gradualmente a stimoli man mano più similari (l’immagine del ragno, un peluche…) fino ad arrivare al ragno stesso. Dopo ogni esposizione, seguiva una fase di rilassamento, in questo modo si andava a creare un’associazione tra lo stimolo fobico e la condizione di tranquillità. Sebbene anche l’EMDR sfrutti il meccanismo di desensibilizzazione, il meccanismo biologico alla base è differente. In questo caso, seduta dopo seduta, non si formano circuiti complementari a quelli delle associazioni fobiche; il processo sembra essere ben più immediato, quantomeno una parte di esso. Se il momento durante cui avviene la desensibilizzazione coincide con la fase tre della terapia, il reprocessing è un processo più lungo che può avvenire in un intervallo di tempo variabile. Vi sono pazienti che rielaborano l’evento a casa, alla fine della seduta, altri durante la seduta stessa, al termine della quale entrano in uno stato di quiescenza fino all’incontro successivo [2]. 72 GdB | Maggio 2022

Tali informazioni riguardo desensibilizzazione e rielaborazione sono molto utili per comprendere il meccanismo di azione sottostante al trattamento. Parliamo di un processo indebolimento della carica emotiva associata al ricordo che avviene nel giro di poco tempo, durante la fase tre, ma tendenzialmente richiede più di una seduta per consolidarsi. Possiamo osservare lo stesso fenomeno di cancellazione e sovrascrittura del ricordo nelle condizioni sperimentali di riconsolidamento della memoria. Riconsolidamento della memoria Gli studi sul riconsolidamento sono andati ad arricchire la pletora di informazioni che riguardano l’apprendimento, aprendo la strada a nuove ricerche cliniche. Fino all’inizio del secolo, la scienza era piuttosto certa del fatto che le memorie, una volta consolidate, diventavano ben salde e pressoché irremovibili. Per citare Ecker, Ticic & Hulley [6]: «Gli apprendimenti generati in presenza di un’emozione intensa, come ad esempio le credenze di base e gli schemi cognitivi generati durante l’infanzia, sono bloccati nel cervello da sinapsi straordinariamente durevoli». Gli stessi autori hanno realizzato l’opera Sbloccare il cervello emotivo. Eliminare i sintomi alla radice utilizzando il riconsolidamento della memoria, in cui spiegano come mai il fenomeno di consolidamento non è definitivo, nonostante la notevole forza sinaptica che definisce alcuni circuiti mnestici. È probabile che nel PTSD si creino associazioni sinaptiche particolarmente forti tra gli elementi mnestici che definiscono il ricordo traumatico nel suo insieme. Di conseguenza, è sufficiente che anche solo uno di essi venga rievocato affinché vi sia un’attivazione dell’intero pattern sinaptico [7]. Da qui deriva il quadro clinico tipicamente post-traumatico, dove un solo stimolo vagamente collegato al ricordo, è sufficiente per riportarlo alla mente del paziente per intero. L’EMDR, così come altre tecniche descritte nell’opera di Ecker, Ticic & Hulley, andrebbero a desensibilizzare il ricordo sfruttando il riconsolidamento della memoria, secondo cui, dopo ogni rievocazione, segue una fase di stallo in cui il ricordo diviene labile e può essere modificato o addirittura cancellato chimicamente prima di essere nuovamente consolidato [8]. Torniamo sull’EMDR, ricordiamo che al paziente viene chiesto di rievocare il ricordo traumatico durante la seduta, al contempo lo si distrae con un compito cognitivo di vario tipo, generalmente gli si chiede di seguire uno stimolo con lo sguardo. Se si limitasse a rievocare il ricordo, questo avrebbe la sua completa attenzione, perciò verrebbe rievocato in ogni sua parte, con la carica emotiva originale. Tuttavia, il fatto di accompagnare la rievocazione con un task cognitivo, la rende meno efficace. In questo caso la memoria di lavoro del soggetto, che sappiamo avere capacità di calcolo limitata, è divisa su due fronti: da un lato la


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rievocazione del ricordo, dall’altro l’esecuzione del compito [4]. In questo modo il ricordo viene rievocato con una carica emotiva inferiore rispetto a quella originale, dal momento che parte dell’attenzione è rivolta altrove; ne consegue un riconsolidamento di quello stesso ricordo con la nuova carica emotiva associata, di intensità minore [9]. Ciò che era disturbante verrebbe dunque rielaborato sulla base di una nuova consapevolezza, meno patologica. Le cognizioni positive, estromesse dal circuito e soffocate dall’emotività negativa, verrebbero ripescate tra una seduta e l’altra fino ad essere completamente integrate nel sistema di memoria: in questo modo si arriverebbe alla risoluzione del trauma. Riattivazione del sistema di elaborazione Se le evidenze coincidono con la realtà dei fatti, allora il compito dell’EMDR non è quello di risolvere il trauma in prima persona, quanto piuttosto quello di sbloccare un meccanismo di elaborazione pre-esistente nel cervello umano, alteratosi per via dell’evento traumatico. Difatti, Shapiro nella sua opera ci dice che esiste un sistema insito in ogni persona che fisiologicamente è in grado di elaborare le informazioni fino al raggiungimento di uno stato di salute mentale [2]. L’uomo sarebbe infatti programmato per elaborare spontaneamente i ricordi disturbanti

in modo tale da consentirne la corretta integrazione nel flusso cosciente; tuttavia, un’emozione in acuto particolarmente forte, sarebbe in grado di squilibrare il sistema di elaborazione al punto da alterarne il funzionamento. Potremmo ricondurre ai sogni una manifestazione fenomenologica di questo meccanismo. Quando sogniamo, ripeschiamo eventi di vita del passato, recenti o remoti, e li arricchiamo di elementi fantastici, fittizi o addirittura grotteschi, con lo scopo di mitigare la carica emotiva dei ricordi principali. Pare infatti che la fase REM (Rapid Eye Movement) del sonno, dove vi è una maggior concentrazione di sogni e movimenti oculari, svolga un ruolo chiave nella rielaborazione delle memorie emotive [10], mentre la fase NREM (Non Rapid Eye Movement) sarebbe centrale nei processi di consolidamento dei ricordi. Nel PTSD i disturbi del sonno non mancano e la fase REM sembra essere compromessa [11]. I pazienti sono soliti svegliarsi nel mezzo della notte in preda agli incubi e alla paura, come se qualcosa nel sistema di elaborazione stesse funzionando male. Non solo il paziente non riesce ad elaborare il ricordo durante la notte, ma il terrore che prova nel rivivere quelle emozioni altera ancor di più il suo funzionamento mentale, rendendo il sistema di elaborazione ancor più inefficiente. In questo modo il soggetto entra in un circolo di autoalimentazione

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e potenziamento della paura che non sembra avere fine. L’EMDR, eliminando un anello dalla catena, andrebbe a spezzarla, interrompendo questo loop infernale, così il meccanismo di elaborazione riprenderebbe a funzionare correttamente. È solo un caso che la fase REM del sonno sia caratterizzata da saccadi simili a quelli dell’EMDR? Forse, dopotutto abbiamo visto che nel caso dell’EMDR i movimenti oculari non sono fondamentali… Tuttavia, sarebbe interessante approfondire la questione. Ricerche future potrebbero persino pensare di applicare le tecniche reconsolidation-based ad altre psicopatologie, ad esempio i disturbi depressivi, o di personalità, dove il più delle volte la disfunzione dipende dall’accumulo di microtraumi in età infantile [12]. Se da un lato l’assenza di traumi maggiori rende più difficile l’applicazione dei trattamenti, dall’altro rende tutto più intrigante. L’incerta natura del trattamento Quando si parla di EMDR, non manca l’incertezza all’interno della comunità scientifica. La suddetta proposta è solo un’ipotesi di funzionamento, che insieme a tante altre, anche dissimili tra loro, prova a spiegare il mito di questa tecnica [4]. Per citare Steven Novella, c’è anche chi ritiene che «L’EMDR, come l’agopuntura, probabilmente non è altro che un rituale che provoca effetti terapeutici non specifici», anch’essi facilmente contestabili. Ad esempio, uno studio del 2020 ha mostrato come l’EMDR è risultato effettivamente più efficace di altre terapie, fatta eccezione per gli studi con basso rischio di bias [13]. Sappiamo che il cervello possiede capacità plastiche, ma è difficile immaginare come una procedura così semplice possa avere un effetto significativo sulla plasticità. Henri Ellenberger in La scoperta dell’inconscio, ci racconta come per anni l’uomo ha curato i disturbi mentali con trattamenti sciamanici o pseudoscientifici che sotto molti aspetti ricordano l’EMDR; la stessa Francine Shapiro racconta nel suo libro che i bambini, dopo il trattamento, riferiscono di non provare più alcun disturbo «come per magia» [2]. Eppure questa volta non si parla di riti, né di incantesimi, bensì di compiti comportamentali mirati, con una propria motivazione scientifica alla base. Dagli studi di risonanza magnetica funzionale (fMRI), pare infatti che l’EMDR sia davvero in grado di agire sulla plasticità in modo puntuale, al fine di ristrutturare la connettività cerebrale e risolvere efficacemente i traumi alla base del condizionamento alla paura [14], tant’è vero che, insieme alla CBT (Cognitive Behavioral Therapy), rientra tra i trattamenti di prima linea per il PTSD [15]. Difatti non sono ricordi randomici quelli che vengono desensibilizzati, bensì quelli disturbanti che il paziente rievoca 74 GdB | Maggio 2022

nel momento il trattamento; tuttavia, il modo con cui questo accade resta poco chiaro. Che sia coinvolto il meccanismo di riconsolidamento della memoria? Ai posteri l’ardua sentenza; compito delle ricerche future sarà quello di approfondire la questione sulla base delle conoscenze scientifiche più aggiornate.

Bibliografia [1] American Psychiatric Association. (2014). Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Quinta edizione. Raffaello Cortina Editore. [2] Shapiro, F., Fernandez, I., & Goldwurm, G. F. (2000). EMDR: desensibilizzazione e rielaborazione attraverso movimenti oculari. Mc-Graw-Hill Libri Italia. [3] de Jongh, A., Amann, B. L., Hofmann, A., Farrell, D., & Lee, C. W. (2019). The status of EMDR therapy in the treatment of posttraumatic stress disorder 30 years after its introduction. Journal of EMDR Practice and Research, 13(4), 261-269. [4] van den Hout, M. A., & Engelhard, I. M. (2012). How does EMDR work?. Journal of Experimental Psychopathology, 3(5), 724-738. [5] Baek, J., Lee, S., Cho, T., Kim, S. W., Kim, M., Yoon, Y., ... & Shin, H. S. (2019). Neural circuits underlying a psychotherapeutic regimen for fear disorders. Nature, 566(7744), 339-343. [6] Ecker, B., Ticic, R., & Hulley, L. (2018). Sbloccare il cervello emotivo: Eliminare i sintomi alla radice utilizzando il riconsolidamento della memoria. FrancoAngeli. [7] Dunsmoor, J. E., & Paz, R. (2015). Fear generalization and anxiety: behavioral and neural mechanisms. Biological psychiatry, 78(5), 336-343. [8] Doyère, V., Dębiec, J., Monfils, M. H., Schafe, G. E., & LeDoux, J. E. (2007). Synapse-specific reconsolidation of distinct fear memories in the lateral amygdala. Nature neuroscience, 10(4), 414. [9] Crestani, A. P., Zacouteguy Boos, F., Haubrich, J., Ordoñez Sierra, R., Santana, F., Molina, J. M. D., ... & Quillfeldt, J. A. (2015). Memory reconsolidation may be disrupted by a distractor stimulus presented during reactivation. Scientific reports, 5(1), 1-9. [10] Murkar, A. L., & De Koninck, J. (2018). Consolidative mechanisms of emotional processing in REM sleep and PTSD. Sleep medicine reviews, 41, 173-184. [11] Pace-Schott, E. F., Germain, A., & Milad, M. R. (2015). Sleep and REM sleep disturbance in the pathophysiology of PTSD: the role of extinction memory. Biology of mood & anxiety disorders, 5(1), 1-19. [12] Pietrek, C., Elbert, T., Weierstall, R., Müller, O., & Rockstroh, B. (2013). Childhood adversities in relation to psychiatric disorders. Psychiatry research, 206(1), 103-110. [13] Cuijpers, P., Veen, S. C. V., Sijbrandij, M., Yoder, W., & Cristea, I. A. (2020). Eye movement desensitization and reprocessing for mental health problems: A systematic review and meta-analysis. Cognitive Behaviour Therapy, 49(3), 165-180. [14] Rousseau, P. F., El Khoury-Malhame, M., Reynaud, E., Boukezzi, S., Cancel, A., Zendjidjian, X., ... & Khalfa, S. (2019). Fear extinction learning improvement in PTSD after EMDR therapy: An fMRI study. European Journal of Psychotraumatology, 10(1), 1568132. [15] Lewis, C., Roberts, N. P., Andrew, M., Starling, E., & Bisson, J. I. (2020). Psychological therapies for post-traumatic stress disorder in adults: Systematic review and meta-analysis. European journal of psychotraumatology, 11(1), 1729633.


Prelievi per finalità diagnostiche, acquisizione e gestione dei campioni biologici e delle attività preanalitiche Il Corso si svolge ai sensi della direttiva DIRP/III/BIQU/OU10014 / 2002 e delle note prot. DIRS/3/4296 del 17/11/2004, prot. 9316 del 16/11/2011, prot. 23770 del 22/05/2020. Il corso in oggetto è pertanto in corso di autorizzazione dal Servizio Formazione Assessorato Salute Dipartimento ASOE

Prima edizione: 25-28 maggio 2022 Seconda edizione: 7-10 giugno 2022 Palermo, Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sicilia Via Gino Marinuzzi 3, Aula Magna, gazebo esterni drive-in tamponi dell’Istituto

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La “doppia vita” della vimentina per nuove terapie anti tumorali Sulla rivista Nucleic Acids Research i risultati di uno studio che indica come il legame tra la proteina vimentina e il DNA possa essere funzionale alla proteina stessa per far crescere le cellule tumorali

di Cinzia Boschiero

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ono stati pubblicati di recente sulla rivista Nucleic Acids Research i risultati di uno studio sviluppato da un gruppo di ricercatori dell’Università di Padova che indicano come il legame tra la proteina vimentina e il DNA possa essere funzionale alla proteina stessa per far crescere e muovere le cellule tumorali. L’articolo è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista Nucleic Acids Research, con il titolo “Vimentin binds to G-quadruplex repeats found at telomeres and gene promoters” dal gruppo coordinato dalla professoressa Claudia Sissi, del Dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università degli Studi di Padova. “Le prospettive sono: trovare una nuova strategia per bloccare la trasformazione metastatica delle cellule tumorali. Riteniamo che la prroteina vimentina possa essere attiva per trattare comunque anche gli stadi precoci”. La vimentina è una proteina del filamento intermedio altamente espressa all’interno delle cellule migratorie che sono presenti nella fase iniziale dello sviluppo embrionale. La sua espressione postnatale è ristretta alle cellule mobili come i fibroblasti, le cellule endoteliali, i linfociti e le cellule di Swann. E’ degno di nota il fatto che le cellule epiteliali si basino sull’espressione di Vimentina per acquisire una morfologia simile a quella dei fibroblasti e una maggiore capacità migratoria durante la transizione epiteliale-mesenchimale, il che si verifica sia durante lo sviluppo/ rigenerazione fisiologica dei tessuti che durante la progressione patologica del cancro verso la metastasi. Nel presente studio è stato scoperto che la frazione di Vimentina che era presente all’interno di estratti nucleari di cellule HGC-27 indifferenziate, si lega al DNA in modo dipendente dalla struttura/sequenza indipendente. In effetti, interagisce in modo efficiente con diverse sequenze di DNA ripiegate con G4 senza quasi alcun legame con le corrispondenti conformazioni spiegate/du-

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plex. La vimentina esiste in uno stato altamente dinamico all’interno delle cellule viventi, dove le modificazioni post-traduzionali guidano l’assemblaggio/smontaggio del filamento, in risposta ai cambiamenti che si verificano nell’ambiente extracellulare. Nel presente studio è stato dimostrato che la vimentina si lega alle ripetizioni del DNA G4 nella forma tetramerica, la stechiometria dei complessi è un tetramero di vimentina ogni due G4 adiacenti. Degno di nota è che questa interazione sposta l’equilibrio dell’assieme di Vimentin verso la frazione solubile naturalmente presente. L’elevata affinità di Vimentin per le ripetizioni G4 si adatta alla sua associazione già segnalata con telomeri e centromeri. L’evidenza in vitro acquisita, grazie al presente studio, del legame di Vimentina alle ripetizioni G4 ai promotori genici suggerisce che la stessa interazione possa verificarsi anche all’interno delle cellule viventi. Il gruppo di ricerca ha identificato la proteina del filamento intermedio Vimentin come legante selettivo per le ripetizioni G4. Il fatto che Vimentina non si leghi ai singoli G4 isolati potrebbe fornire un modo per contattare il DNA in specifici loci genomici, inclusi telomeri, centromeri e un sottoinsieme distinto di promotori genici. Sono necessari ulteriori studi per svelare il significato biologico di tale interazione all’interno delle cellule viventi umane. L’ ipotesi di lavoro del gruppo di ricercatori è che le ripetizioni G4 possano esistere come elementi strutturali primari, in grado di guidare il reclutamento di proteine architettoniche per rimodellare infine il ripiegamento del genoma di ordine superiore durante importanti processi fisiologici come lo sviluppo cellulare, la differenziazione e la migrazione, favorendo così l’instaurazione del programma di espressione genica richiesto. La vimentina è la prima proteina selettiva segnalata per le ripetizioni G4 rispetto ai singoli G4. Ciò indica che G4 si ripete come elementi strutturali unici coinvolti nell’architettura del genoma di ordine superiore.


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Tra tutte le strutture secondarie non canoniche del DNA, i quadruplex G (G4) sono disposizioni tetra-elicoidali che si formano all’interno di tratti ricchi di guanina. Qui, quattro guanine interagiscono attraverso legami idrogeno Hoogsteen per formare array planari (G-tetradi) che si impilano l’uno sull’altro, costruendo il nucleo della struttura. I quadruplex G possono adottare diverse topologie a seconda dell’orientamento relativo dei filamenti di DNA (parallelo, antiparallelo, ibrido) e della forma delle anse che collegano le G-tetradi. I quadruplex G sono stati rilevati all’interno del genoma umano. Per identificare le proteine nucleari che interagiscono con la ripetizione di KIT2KIT* G4, sono stati eseguiti saggi di pull-down con estratti nucleari dalla linea cellulare HGC-27 positiva per KIT. Le sfere paramagnetiche rivestite con streptavidina sono state derivatizzate con l’oligonucleotide biotinilato e successivamente incubate con estratti nucleari. Per convalidare il legame di Vimentin al KIT2KIT* ripiegato con G4, sono stati eseguiti saggi di spostamento della mobilità elettroforetica (EMSA) con la proteina ricombinante purificata. L’oligonucleotide è stato equilibrato in KCl 150 mM per promuovere la formazione di G-quadruplex prima dell’aggiunta di proteine. Per evitare la polimerizzazione della vimentina in filamenti, le reazioni di legame sono state eseguite a pH 8,4. Infatti, in queste condizioni sperimentali, il Vimentin è organizzato stabilmente in tetrameri. I tetrameri di Vimentina liberi migrano verso l’anodo così come i complessi di Vimentina-DNA. Vimentin si è dimostrato in grado di legarsi a KIT2KIT*, portando a una banda ben definita appartenente al complesso. Una frazione del DNA libero è apparsa come una banda ri-

tardata a causa della parziale dissociazione del complesso durante la corsa. Degno di nota, nessun complesso è stato osservato quando Vimentin è stato incubato con i KIT2 e KIT* G-quadruplex isolati. Per identificare i domini di Vimentina coinvolti nell’interazione con le ripetizioni G4, sono stati eseguiti esperimenti di proteolisi limitati su Vimentina tetramerica in assenza e in presenza di quantità stechiometriche di 2TEL. I dati sono stati ottenuti nell’ambito di una linea di ricerca in cui si tenta di utilizzare alcune peculiarità strutturali di porzioni del genoma per nuovi approcci terapeutici in campo oncologico. Nel DNA ci sono sequenze in grado di ripiegarsi in modo anomalo in strutture definite non canoniche, tra cui quelle note come G-quadruplex sono quelle a oggi più ampiamente studiate. Ma perché in alcuni segmenti del genoma queste sequenze si sistemano vicine l’una all’altra? Ci sono utili per identificare nuovi bersagli terapeutici? «La voglia di rispondere a queste domande ci ha spinto a metterci in rete e, all’Ateneo Padova, abbiamo costituito un gruppo interdisciplinare”, ha detto la dott.ssa Claudia Sissi del Dipartimento di Scienze del Farmaco, “Le competenze sullo studio e la caratterizzazione degli acidi nucleici e delle proteine, presenti nel Dipartimento di Scienze del Farmaco, si sono arricchite delle capacità bioinformatiche del gruppo del Prof. Stefano Toppo, del Dipartimento di Medicina Molecolare, e dell’esperienza in ambito cellulare del gruppo della Prof.ssa Mery Giantin, del Dipartimento di Biomedicina Comparata e Alimentazione». Questo modo di lavorare ha consentito di rivelare la “doppia vita” della vimentina. Questa proteina è nota per formare dei filamenti che creano una sorta di rete, GdB | Maggio 2022

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Bibliografia la quale rinforza la struttura della cellula e le consente di spostarsi. La vimentina è presente anche nel nucleo delle cellule dove è conservato il DNA. Studiando alcuni frammenti di DNA, che sappiamo essere importanti per controllare la crescita di cellule tumorali, è stato dimostrato che questa proteina si lega in modo specifico a siti del genoma dove due o più strutture G-quadruplex sono vicine. La distribuzione della proteina che ne risulta non è casuale: il gruppo di ricerca padovano ha osservato che si concentra proprio su quei geni necessari a vimentina per far crescere e muovere le cellule tumorali. «Questa visione di ricerca integrata ci ha consentito di identificare un nuovo bersaglio terapeutico che può ora essere utilizzato per mettere a punto un nuovo approccio terapeutico in campo oncologico”, spiega la dott.ssa Claudia Sissi del Dipartimento di Scienze del Farmaco,”impedendo il legame della proteina a questi siti del DNA si potrebbe forse inibire la formazione delle metastasi da parte delle cellule tumorali. Da un lato si eviterebbe così che la malattia si estenda a vari organi, dall’altro si limiterebbe la replicazione delle cellule tumorali. Questo rallentamento potrebbe dare più tempo per intervenire in modo mirato ed efficiente». Lo studio è stato sostenuto da Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro. Il team ha partecipato a diversi progetti europei tra cui nel 2004-2006 il progetto CEE-STREP cofinanziato dal sesto programma quadro europeo di ricerca della Commissione europea, intitolato “Development of New Gyrase Inhibitors by Combinatorial Biosynthesis”, di cui era coordinatore europeo il Prof. Lutz Heide dell’Università di Tuebingen; mentre nel periodo 1999-2002 il team di ricerca ha partecipato ad un progetto europeo di ricerca sempre cofinanziato dal quinto programma quadro della Commissione europea in un progetto coordinato dal prof. Juan A. Subirana intitolato “Antracene coniugati come sonde della struttura e della funzione dei telomeri”. Inoltre, il team di ricerca ha anche partecipato a due progetti europei COST (2008-2012 Self-assembled Guanosine, MP0802; 2016-2020 MuTaLig, CA15135). 78 GdB | Maggio 2022

- Schonhoft J.D., Bajracharya R., Dhakal S., Yu Z., Mao H., Basu S. “Direct experimental evidence for quadruplex-quadruplex interaction within the human ILPR. Nucleic Acids Res. 2009; 37:3310– 3320. - Monsen R.C., DeLeeuw L., Dean W.L., Gray R.D., Sabo T.M., Chakravarthy S., Chaires J.B., Trent J.O.The hTERTcore promoter forms three parallel G-quadruplexes. Nucleic Acids Res.2020; 48:5720–5734 - Amato J., Madanayake T.W., Iaccarino N., Novellino E., Randazzo A., Hurley L.H., Pagano B. HMGB1 binds to the KRAS promoter G-quadruplex: a new player in oncogene transcriptional regulation? . Chem. Commun. Camb. Engl.2018 ; 54:9442–9445. - Li L., Williams P., Ren W., Wang M.Y., Gao Z., Miao W., Huang M., Song J., Wang Y. YY1 interacts with guanine quadruplexes to regulate DNA looping and gene expression. Nat. Chem. Biol.2021; 17:161–168. - Shen J., Varshney D., Simeone A., Zhang X., Adhikari S., Tannahill D., Balasubramanian S. Promoter G-quadruplex folding precedes transcription and is controlled by chromatin . Genome Biol.2021; 22:143. - Falk M., Feodorova Y., Naumova N., Imakaev M., Lajoie B.R., Leonhardt H., Joffe B., Dekker J., Fudenberg G., Solovei I.et al. . Heterochromatin drives compartmentalization of inverted and conventional nuclei. Nature . 2019; 570:395–399. - Lieberman-Aiden E., van Berkum N.L. Williams L., Imakaev M., Ragoczy T., Telling A., Amit I., Lajoie B.R., Sabo P.J., Dorschner M.O. et al. Comprehensive mapping of long-range interactions reveals folding principles of the human genome. Science. 2009; 326:289–293 - Colucci-Guyon E., Giménez Y Ribotta M., Maurice T., Babinet C., Privat A. Cerebellar defect and impaired motor coordination in mice lacking vimentin. Glia. 1999; 25:33–43. - Perlson E., Hanz S., Ben-Yaakov K., Segal-Ruder Y., Seger R., Fainzilber M. Vimentin-dependent spatial translocation of an activated MAP kinase in injured nerve. Neuron. 2005; 45:715–726. - Palumbo S.L., Ebbinghaus S.W., Hurley L.H. Formation of a unique end-to-end stacked pair of G-quadruplexes in the hTERT core promoter with implications for inhibition of telomerase by G-quadruplex-interactive ligands. J. Am. Chem. Soc. 2009; 131:10878–10891.


INQUINANTI, ALIMENTAZIONE E FERTILITÀ:

SABATO 11 GIUGNO 2022

Valutazione dell’impatto ambientale e dello stile di vita

HOTEL EXCELSIOR BARI

Moderatori

DR. FABIO LA GRUA, Direttore di Laboratorio NOVOLI (LE) DR.SSA VALENTINA GALIAZZO, Biologo Nutrizionista LECCE DR.SSA ELVIRA TARSITANO, Biologo Ambientale, Università degli Studi “A. Moro” BARI 9.00 - 9.30 Saluti istituzionali ed introduzione al corso Dott. Sen Vincenzo D’Anna 9.30 - 10.15 L’influenza dei Pfas nella fertilità Prof. Carlo Foresta, Andrologo – Università degli studi di PADOVA 10.15 - 11.00 Stress ossidativo, frammentazione del DNA e fertilità Dr.ssa Maria Vincenza Savoia, Embriologa Centro PROLAB Molfetta 11.00 - 11.45 PMA e diagnosi prenatale: un adeguato percorso genetico Dr. Sergio Carlucci, Genetista - S.I.R.U. (Società Italiana per la riproduzione umana) 11.45 - 12.30 Interferenti endocrini e qualità ovarica Dr.ssa Maria Giulia Minasi, Embriologa Università Tor Vergata ROMA 12.30 - 13.15 La comunicazione nella coppia Dr.ssa Agata Battinelli, Psicologa psicoterapeuta, LECCE 13.30 - 14.30 light lunch 14.30 - 15.15 La ricetta per la fertilità Dr. ssa Veronica Corsetti, Biologa Nutrizionista, Gruppo Nutrizione S.I.R.U. 15.15 - 16.00 Microbiota ed epigenetica: le influenze nella PMA Dr.ssa Marina Baldi, Genetista, Coordinatrice Enpab ROMA 16.00 - 16.45 Risoluzione dell’infiammazione nella ricerca della gravidanza Dr.ssa Veronica Di Nardo, Biologa Nutrizionista, NAPOLI 16.45 - 17.30 Tavola rotonda 17.30 - 18.00 Chiusura dei lavori e compilazione Quiz Ecm Responsabile scientifico: Dr.ssa Valentina Galiazzo GdB | Maggio 2022

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Noi mangiamo in modo sostenibile? (parte II) L’influenza che il consumo di cibi animali può avere sull’ambiente e le conseguenze possibili sul piano ambientale con l’adozione di diete a basso contenuto di proteine animali

di Antonella Pannocchia

4.1 Fonti di gas serra nella produzione zootecnica

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i sono diversi fattori responsabili della generazione di gas serra implicati nella produzione zootecnica. Il metano originato dal processo digestivo e prodotto dalle flatulenze e dalle deiezioni degli animali allevati rappresenta il fattore principale, contribuendo per il 55% del totale delle emissioni prodotte nel settore zootecnico [17]. Un’altra importante causa di emissione di gas nocivi collegata all’allevamento è la distruzione delle foreste: la deforestazione e la desertificazione provocate dall’industria zootecnia contribuiscono per il 35% del totale delle emissioni prodotte nel settore dell’allevamento. Le piante assorbono e convertono CO2 nel processo di fotosintesi clorofilliana: quando muoiono, o quando vengono abbattute o bruciate, rilasciano nell’atmosfera il carbonio accumulato anche nel corso di centinaia di anni. La sola foresta amazzonica contiene, nei propri alberi, circa 75 miliardi di tonnellate di carbonio: quando gli alberi vengono abbattuti e bruciati per fare posto al pascolo o alle coltivazioni ad uso zootecnico, emettono nell’atmosfera elevate quantità di CO2. Vi sono infine altri fattori responsabili in proporzioni minori delle emissioni di gas nocivi. Il moderno settore agricolo-zootecnico è altamente meccanizzato e consuma elevati quantitativi di energia (per la maggior parte durante la produzione e il trasporto dei mangimi), la cui generazione necessita l’uso di combustibili ad alto contenuto di carbonio, che quando bruciati emettono anidride carbonica o altri gas serra. È stato stimato che la produzione di proteine animali richiede un consumo di energia da 2,5 a 50 volte superiore rispetto alla produzione di proteine vegetali. Inoltre, il vasto impiego di fertilizzanti petrolchimici per le coltivazioni intensive ad uso zootecnico è causa dell’emissione di ossido di azoto, ossido di azoto e ammoniaca [16]. Nonostante spesso sia un fattore trascurato, anche il

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consumo degli animali marini incide in maniera significativa sull’equilibrio ambientale. Il consumo globale di pesce è cresciuto costantemente a partire dalla seconda metà del Novecento, passando da 9,9 kg pro capite annui nel 1960 a 11,5 kg nel 1970, 12,6 kg nel 1980, 14,4 kg nel 1990, 17 kg nel 2000, fino ad arrivare a 18,4 kg nel 2009, una quota quasi doppia rispetto al 1960, per un totale di 125,6 milioni di tonnellate di pesce consumate in un anno in tutto il mondo [18]. 5. Pesca [18] La pesca marittima è considerata il principale fattore antropogenico di impatto sugli ecosistemi marini di tutto il mondo, e lo sfruttamento intensivo operato nel corso dei decenni dall’industria della pesca rappresenta, insieme all’inquinamento dei mari, la principale causa di devastazione della vita marina. Dal 1950 al 2006 il 29% delle specie marine commerciali è collassata (ovvero ha subito una perdita del 90% o oltre), il numero di zone di pesca giunte al collasso è cresciuto grandemente, e per il 2050 alcuni ricercatori hanno previsto un collasso definitivo di tutte le specie commerciali.La pesca è inoltre responsabile del fenomeno delle catture accidentali, ovvero la cattura di esemplari marini non commerciabili che rimangono intrappolati nelle reti usate e poi scartati e gettati in mare morti o morenti. Il tasso di mortalità legato alle catture accidentali è tale che in alcuni casi può avere

Tabella 4. Consumo di pesce pro capite all’anno (kg) in diverse regioni del mondo.


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Fig.1. Piramide alimentare e piramide ambientale a confronto. Elaborazione propria

ripercussioni sull’ecosistema marino stravolgendo l’equilibrio delle popolazioni ittiche e dell’ambiente. Si stima che, a livello globale, circa l’8% del pescato totale viene scartato, e in alcuni casi si arriva a percentuali di scarto molto elevate, ad esempio in alcuni tipi di pesca a strascico dei gamberi il tasso di catture accidentali può raggiungere anche il 90% del pescato (vedi tab. 4) La cattura accidentale riguarda sia esemplari di specie bersaglio ma di taglia inferiore alla media e quindi privi di valore commerciale,sia altri animali di specie non utili al mercato, quali squali, cetacei, tartarughe marine, uccelli marini e altri animali. Si stima che ogni anno quasi 100 milioni di squali e di razze e circa 300 000 cetacei (balene, delfini e altre specie) siano vittime della pesca accidentale. Gli uccelli marini invece vengono attratti dalle esche superficiali usate in alcune tecniche di pesca, vi si lanciano contro per mangiarle, ingoiano gli ami e vengono trascinati sott’acqua annegando: circa 100 000 esemplari di Albatros ogni anno muoiono in questo modo. 6. Acquacoltura A seguito dello stato di semi-collasso delle zone di pesca, va diffondendosi sempre più velocemente l’acquacoltura, ovvero l’allevamento di animali marini in stabilimenti chiusi o in gabbie disposte in mare aperto: in soli 5 anni, dal 2000 al 2005, la produzione globale di acquacoltura è passata da 35,5 a 47,8 milioni di tonnellate, con un incremento del

34,65%, e l’acquacoltura fornisce, a livello mondiale, il 43% del pesce per uso alimentare[84]. In Europa, in due decenni la produzione è raddoppiata, passando da 642 000 tonnellate del 1980 a 1,3 milioni di tonnellate nel 2001[19]. L’acquacoltura viene spesso invocata come una soluzione ecologicamente sostenibile al sovra-sfruttamento delle specie ittiche marine. Tuttavia è stato osservato che la quantità di mangime necessario ad allevare pesci carnivori e molto diffusi sul mercato come salmoni, orate o spigole, è tale da determinare un considerevole prelievo di specie ittiche marine. Normalmente occorrono dai 2,5 ai 5 kg di pesce pescato e trasformato in mangime per produrre un solo chilo di pesce d’acquacoltura, ma per alcune specie la quantità di pesce necessario è maggiore: ad esempio, per ingrassare un tonno di un solo chilogrammo, sono necessari da 20 a 25 kg di pesce. Si stima che, solo nel Mediterraneo, per l’ingrasso dei tonni vengano utilizzate ogni anno 225 000 tonnellate di pesce, proveniente per lo più dai mari dell’Africa occidentale, dell’Oceano Atlantico e dell’America [19]. Inoltre la necessità di elevate quantità di mangime per l’industria dell’acquacoltura incentiva la pesca illegale di esemplari al di sotto della taglia ammessa per la cattura e induce la pesca verso la predazione di specie marine prive di interesse commerciale e di importanza vitale per la sopravvivenza di altre specie che si nutrono di questo pesce [19], in altri casi gli animali allevati vengono invece prelevati direttamente dal mare. GdB | Maggio 2022

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È il caso ad esempio dell’allevamento dei tonni rossi, che vengono catturati in mare e poi trasferiti in allevamento per l’ingrasso. Il prezzo sul mercato del tonno ingrassato in allevamento è molto alto e questo spiega la crescita del numero e della capacità degli impianti riservati al tonno: solo gli impianti di acquacoltura siti nella zona del Mediterraneo arrivano ad una capacità complessiva che in peso di animale vivo supera le 50 000 tonnellate, e l’attività di pesca necessaria per rifornire questi allevamenti ha portato nelle acque del Mediterraneo ad una riduzione degli esemplari di tonno rosso stimata tra l’80 e il 95%. Un altro grave problema è rappresentato dalla dispersione nell’ambiente di sostanze e microorganismi nocivi: dalle reti di allevamento poste in mare aperto, additivi chimici, residui antibiotici, disinfettanti, deiezioni e scarti di mangime, insieme a parassiti di vario genere, si depositano sui fondi o si disperdono nel mare, contaminando le acque e decimando la popolazione ittica locale. Per gli allevamenti di salmone, una delle specie allevate con il maggior incremento produttivo, sono stati accertati vari casi di impatto sull’ambiente, che comprendono una notevole riduzione (fino al 50%) della biodiversità nei dintorni delle gabbie, una diminuzione del livello di ossigeno nelle acque e una crescita eccessiva di alghe planctoniche responsabili della produzione di tossine nocive sia per gli organismi marini che per gli esseri umani. Inoltre, spesso alcuni pesci riescono a fuggire dalle reti di allevamento, alterando l’equilibrio della fauna locale, e poiché frequentemente si tratta di animali malati, essi rappresentano anche un grave rischio di contagio per i pesci che vivono nel territorio. Gli allevamenti d’acquacoltura sono poi anche responsabili di una vasta distruzione delle foreste marine, fondamentali per la sopravvivenza di numerose specie, come avvenuto ad esempio in paesi come Vietnam, Thailandia, Filippine, Bangladesh, Ecuador e Brasile, dove gli allevamenti di gamberoni tropicali hanno causato notevoli danni alla fascia costiera delle foreste di mangrovie [19]. 7. Esortazioni dal mondo della scienza Anche a causa del processo di incremento demografico in atto da alcuni decenni su scala globale, gli stili di vita tendono ad incidere in misura crescente sull’equilibrio ecologico del Pianeta. Soprattutto in ambito alimentare, si osserva l’affermarsi di modelli di consumo incoerenti con gli obiettivi di tutela dell’ambiente: - l’aumento nel consumo di carne, anche in corrispondenza dell’innalzamento del livello di benessere economico di interi popoli e dell’esasperazione di alcuni modelli nutrizionali occidentali; - la destagionalizzazione dei consumi di beni ortofrutticoli, attraverso la “forzatura” di processi naturali; - la globalizzazione del commercio di beni agricoli, a sca82 GdB | Maggio 2022

Tabella 5. Colonna 1 = giorni di astensione dalla carne; Colonna 2 = risparmio di emissioni di CO2 (megatonn); Colonna 3 = misure equivalenti.

pito dei consumi di prossimità, con il conseguente incremento del rilascio di gas ad effetto serra derivanti dai trasporti. Sono stati svolti un gran numero di studi sul cosiddetto consumo sostenibile, che hanno offerto ai consumatori un numero crescente di informazioni relative all’impatto sull’ambiente in generale, e sul clima in particolare, delle scelte personali di consumo [20 e 21]. Molti di questi studi hanno concluso che l’impatto dei singoli individui è dovuto a tre fattori principali: il cibo, l’energia usata in casa e i trasporti, e di questi tre fattori, il cibo, ovvero ciò che il singolo decide di mangiare, rappresenta il più importante, poiché è quello che ha il maggiore impatto sull’ambiente, si trova sul più alto livello di scelta personale poiché non dipende da normative nazionali o sovranazionali, dalla disponibilità di mezzi pubblici o di fonti di energia alternativa, ecc., ma solo dalla decisione del singolo consumatore, e può essere modificato immediatamente, in quanto non occorre attendere i tempi che possono essere necessari per altre soluzioni che implicano cambiamenti nelle infrastrutture, nei beni disponibili o nella tecnologia usata. Queste conclusioni hanno contribuito a determinare un crescente interesse della comunità scientifica sull’influenza che il consumo di cibi animali può avere sull’ambiente, e diversi autori hanno indicato come la riduzione del consumo di carne debba considerarsi una necessità per contrastare i gravi effetti avversi della produzione zootecnica. Uno studio condotto nel 2007 e pubblicato su The Lancet [17] ha esaminato la correlazione tra cibo, allevamenti, energia, cambiamenti climatici e salute. Dai calcoli eseguiti, i ricercatori hanno rilevato una media globale dei consumi di carne di 100 grammi al giorno per persona, con variazioni di circa 10 volte tra le varie regioni del mondo e con la quota


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più alta (224 grammi) nei paesi sviluppati. Nell’articolo [17] i ricercatori propongono come soluzione realizzabile una convergenza globale verso un livello di consumo sostenibile fissato a 90 grammi di carne al giorno pro capite, tale da comportare una riduzione del 60% dei consumi di carne nei paesi sviluppati, contemporaneamente evitando che i paesi in via di sviluppo, nei quali il consumo di carne va costantemente crescendo, superino tale soglia. Secondo gli autori dello studio, la proposta porterebbe a molti effetti collaterali positivi: una dieta più sana, una migliore qualità dell’aria, una maggiore disponibilità di acqua e, inoltre, sarà possibile raggiungere una razionalizzazione nell’uso dell’energia e della produzione di cibo.Il consumo di carne pro-capite all’anno sarebbe secondo questo suggerimento di 33 kg medi /anno. Come noto la piramide alimentare fornisce un modello di alimentazione corretto (ed ispirato alla dieta mediterranea) basato sulle frequenze consigliate di assunzione di alcune tipologie di alimenti. Alla base della piramide sono alimenti per i quali e’ consigliata l’assunzione giornaliera in 3-4 porzioni al giorno, al piano soprastante gli alimenti per i quali e’ consigliata una assunzione di un paio di porzioni giornaliere e cosi’ via. Come e’ evidente il suggerimento per una alimentazione bilanciata prevede che una assunzione di carne e salumi quantificabile in 3-4 volte /settimana. D’altro canto si ricorda che attualmente i nutrizionisti raccomandano un consumo di carne settimanale totale (rossa, bianca, pesce) che non ecceda i 500 gr/settimana e che preferenzialmente si attesti intorno ai 350 gr/settimana.. Secondo tali raccomandazioni, che mirano a proteggere la nostra salute nell’ambito di una dieta onnivora quale quella modellizzata nella piramide alimentare, il consumo di carne dovrebbe attestarsi intorno ai 22 kg/pro-capite anno e comunque non eccedere i 26 kg/anno. Come e’ evidente nel confronto con la piramide ambientale ( nella quale gli “scalini” della piramide corrispondono ad un valore via via crescente di Impronta ecologica, una dieta salubre e’ in linea di massima anche una dieta sostenibile in quanto gli alimenti per i quali è consigliata l’assunzione di numerose porzioni settimanali, sono anche tra le meno impattanti dal punto di vista ambientale. Nel 2006 il programma di ricerca PROFETAS (Protein Foods, Environment, Technology and Society) [5], finanziato dal Netherlands Organization for Scientific Research, ha esplorato, attraverso un approccio multidisciplinare, la possibilità di un mutamento radicale nei modelli alimentari, concludendo che è essenziale un cambiamento che ti a diete basate su proteine di origine vegetale. Secondo i ricercatori, tale passaggio avrebbe solo vantaggi, ad esempio, gran parte del terreno utilizzato per la coltivazione di mangime potrebbe essere convertita nella produzione di biomassa a fini energetici, tanto da

coprire un quarto dei consumi elettrici mondiali e frenando in tal modo la crescente distruzione delle foreste e, anzi, invertendo tale processo. Alla medesima conclusione sono giunti nel 2009 dei ricercatori del Royal Institute of Technology di Stoccolma in uno studio dove sono state valutate le emissioni di gas serra di diversi alimenti di uso comune per dimostrare come le scelte alimentari possano fare la differenza [22]. Nell’articolo gli autori affermano che «a livello di emissioni di gas serra, il modo più efficiente di consumare proteine è mangiare cereali, legumi e pesce pescato in modo efficienti.Analogamente, in un report pubblicato dall’UNEP (United Nations Environment Programme) nel 2010 [23] si evidenzia come il consumo di cibi animali sia una delle principali cause di impatto ambientale, e gli autori, nelle conclusioni, affermano: «Si prevede che gli impatti dell’agricoltura aumentino in modo sostanziale a causa dell’aumento di popolazione, che comporterà un aumento del consumo di prodotti animali. A differenza dei combustibili fossili, è difficile vedere delle alternative: la gente deve mangiare. Una riduzione sostanziale degli impatti sarà possibile solamente attraverso un drastico cambiamento dell’alimentazione globale, scegliendo di allontanarsi dai prodotti animali.» 8. Riduzione dei consumi di carne e CO2 Nel 2008 l’Institute for Environmental Studies della VU University di Amsterdam ha compiuto uno studio per quantificare la riduzione di emissioni di CO2 in relazione ad un minor consumo di carne, fornendo un confronto con la riduzione di emissioni di CO2 ottenibile applicando altre misure più note al grande pubblico, come un ridotto utilizzo dell’auto, l’uso di lampadine a basso consumo energetico, l’installazione di doppi vetri [24]. I risultati hanno dimostrato come il semplice cambiamento delle proprie abitudini alimentari possa risultare molto più efficace nel determinare una riduzione delle emissioni di gas serra globali rispetto a tutti gli altri accorgimenti applicabili. I calcoli sono stati eseguiti prendendo come paese di riferimento l’Olanda) e i risultati nel dettaglio sono mostrati nella tabella 5. 8.2 Un problema poco considerato Nel 2012, nel corso della settimana mondiale dell’acqua, il SIWI (Stockholm International Water Institute) ha presentato un report in cui ha avvertito che «non ci sarà abbastanza acqua disponibile per produrre cibo per una popolazione di 9 miliardi di persone prevista per il 2050, se si continueranno a seguire le attuali tendenze verso la dieta comunemente adottata nei paesi occidentali», e proponendo una drastica riduzione del consumo di proteine animali fino ad arrivare ad una quota pari al 5% delle proteine totali assunte con la dieta. Gli scienziati, nella presentazione del report, hanno affermato che l’adozione di una dieta vegetariana può offrire la possibilità di aumentare la disponibilità di acqua per proGdB | Maggio 2022

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Tabella 6. Emissioni di gas serra in relazione a diversi tipi di dieta, comparate con le emissioni di Co2 nelle percorrenze chilometriche indicate

durre più cibo [9; 25]. Per quanto riguarda gli effetti sul riscaldamento globale, nello studio precedentemente citato condotto dall’ Institute for Ecological Economy Research di Berlino [21], dai risultati ottenuti emerge che, per il consumo di cibo di una persona per un anno intero, una dieta a base di cibi animali con prodotti ottenuti da agricoltura convenzionale produce una emissione di gas serra equivalente a quella prodotta guidando un’auto per 4758 km, mentre scegliendo prodotti ottenuti da agricoltura biologica si ottiene una emissione di gas serra pari a 4377 km, con una riduzione di gas emessi non molto significativa dell’8%. Per una dieta latto-ovo-vegetariana, si passa da 2427 km con prodotti da agricoltura convenzionale a 1978 km con prodotti da agricoltura biologica, con una riduzione in percentuale già maggiore (18%). Infine, per una dieta vegana con prodotti da agricoltura convenzionale si ottiene una emissione di gas serra pari a 629 km, una quota già inferiore rispetto ai risultati ottenuti per gli altri due modelli alimentari considerati anche quando questi prevedono il solo consumo di cibi da agricoltura biologica. Inoltre, in una dieta vegana, nel passaggio da prodotti da agricoltura convenzionale a prodotti da agricoltura biologica, si giunge ad una emissione di gas serra pari a soli 281 km, con una riduzione di oltre la metà (55,2%). Da questi risultati emerge dunque come la scelta di prodotti da agricoltura biologica risulti molto vantaggiosa in una dieta vegana, discretamente utile in una dieta latto-ovo-vegetariana ma poco significativa in una dieta a base di cibi animali. Nonostante l’evidenza scientifica sull’impatto ambientale provocato dall’allevamento degli animali e la maggiore attenzione al problema negli anni più recenti, molte persone ignorano o minimizzano questo aspetto centrale della crisi ambientale. Nello studio precedentemente citato dei ricercatori del Royal Institute of Technology di Stoccolma, gli autori notano con perplessità che, benché un’alimentazione orientata verso un maggiore consumo di cibi vegetali avrebbe un decisivo effetto nel mitigare le emissioni di gas serra, «nelle molte azioni attualmente proposte ai consumatori per ridurre 84 GdB | Maggio 2022

l’effetto serra, difficilmente viene incoraggiato un maggiore consumo di cibi vegetali [22]». Perfino il noto documentario con Al Gore Una scomoda verità, nel quale vengono esaminate le cause e gli effetti del riscaldamento globale, ignora completamente il ruolo della zootecnia moderna nell’emissione di gas serra, e nelle raccomandazioni che l’ex-vicepresidente degli Stati Uniti rivolge al pubblico non viene fatto alcun riferimento all’influenza che il consumo di cibi animali ha sul riscaldamento globale [26]. 9. Allevamento biologico Spesso, anche l’uso di cibi animali da allevamento biologico viene proposto come una soluzione ecologicamente sostenibile. Ma, come è stato precedentemente fatto notare in più punti, anche l’allevamento biologico, basato sui sistemi estensivi, comporta un impatto ambientale rilevante e in alcuni casi addirittura superiore ai sistemi di allevamento intensivo, in cui l’intero processo di produzione è studiato su criteri di massimizzazione delle risorse e concentrazione dei tempi. Secondo gli autori dello studio l’allevamento biologico non sarebbe di per sé una soluzione al problema delle emissioni di gas serra del settore zootecnico, poiché sarebbe in grado di ridurre le emissioni solo del 15-20%, inoltre una completa conversione degli allevamenti attuali in sistemi di tipo estensivo necessiterebbe del 60% di superficie in più, che in Europa non sarebbe comunque disponibile. Quindi, concludono gli autori, l’allevamento biologico potrebbe essere considerato un’alternativa realistica solo a patto che la produzione e il consumo di carne e latte si riducano del 70%, in modo da rendere possibile il pascolo degli animali sulle terre disponibili. Analogamente, nello studio innanzi citato condotto dai ricercatori italiani [27] volto ad indagare tutti i possibili impatti ambientali derivanti da diete vegetariane e non-vegetariane, gli autori ritengono che una dieta a base di cibi animali, per essere ecologicamente sostenibile, deve essere basata esclusivamente su prodotti di origine biologica e, rispetto alle abitudini del cittadino medio italiano, deve comportare una riduzione di circa l’80% di cibi animali. 10. Cibo a chilometro zero In altri casi si focalizza l’attenzione su cause minori, ad esempio sul fronte alimentare, si consiglia la scelta del cosiddetto “cibo a chilometro zero” (ovvero cibo acquistato da produttori locali), in quanto comporterebbe una drastica riduzione delle emissione di gas nocivi. Tuttavia uno studio del 2008 di due ricercatori della Carnegie Mellon University [28] ha rilevato che le emissioni di gas serra associate al cibo sono determinate principalmente dalla fase di produzione, che contribuisce per


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l’83% del totale, mentre il trasporto delle materie prime contribuisce per l’11% e il trasporto finale dal produttore al consumatore contribuisce invece solo per il 4%, e nel calcolo del “cibo a chilometro zero” viene considerato solo quest’ultimo passaggio, che ha quindi influenza poco significativa. Nelle conclusioni dello studio gli autori hanno calcolato inoltre che una famiglia media che consumi per un anno intero solo “cibo a chilometro zero” può riuscire ad ottenere una riduzione di emissioni di gas serra equivalente alle emissioni prodotte guidando un’auto per 1600 chilometri, una famiglia media che consumi solo cibi vegetali per un solo giorno alla settimana per un anno intero può riuscire ad ottenere una riduzione di 1860 chilometri equivalenti, una quota già più alta, mentre una famiglia media che consumi solo cibi vegetali per un anno intero può riuscire ad ottenere una riduzione di 13000 chilometri equivalenti, una quota otto volte superiore a quella ottenibile con il solo consumo di “cibo a chilometro zero”.

Bibliografia 1. Worldwatch Institute, Meat - Now, it’s not personal! Archiviato il 7 settembre 2012 in Internet Archive. World Watch magazine, July/August 2004, pag. 12 2. Le Scienze, Meno proteine animali per l’umanità Archiviato il 30 agosto 2007 in Internet Archive. 3. FAO, Livestock’s long shadow 4. GLiPHA , statistiche del 2007 5. NWO, Protein Foods, Environment, Technology and Society (PROFETAS) Archiviato il 6 giugno 2008 in Internet Archive 6. Francis Moore Lappè, Diet for a small planet. Cit. in: J. Rifkin, Ecocidio, Arnoldo Mondadori Editore, 2001, pag. 186. 7. WHO/FAO, Diet, nutrition, and the prevention of chronic disease 8. UNESCO-IHE Institute for Water Education, The green, blue and grey water footprint of farm animals and animal products, pag. 19, Table 1 9. SIWI, Feeding a thirsty world: Challenges and opportunities for a water and food secure world 10. Worldwatch Institute, Antibiotic Overuse in Animal Agriculture. 11. FAO, Livestock impacts on the environment Archiviato il 28 agosto 2015 in Internet Archive 12. Billie R. DeWalt, The Cattle are Eating the Forest, in Bulletin of the Atomic Scientist, gennaio 1983. Cit. in: J. Rifkin, Ecocidio, Arnoldo Mondadori Editore, 2001, pag. 220. 13. USDA, Foreign Agriculture Service, cit. in Scott Lewis, The hamburger connection revisited: the status of tropical deforestation and conservation in central americaand southern mexico, San Fran-

cisco, Rainforest Action Network, 1991. Cit. in: J. Rifkin, Ecocidio, Arnoldo Mondadori Editore, 2001, pag. 220. 14. Mongabay.com, Amazon Destruction: Why is the rainforest being destroyed in Brazil?. 15. WorldWatch Institute, Livestock and Climate Change - What if the key actors in climate change are… cows, pigs, and chickens? Archiviato il 17 aprile 2017 in Internet Archive., November/ December 2009. 16. FAO, Livestock’s long shadow, Tab. 3.12, pag. 113. 17. Anthony J McMichael, John W Powles, Colin D Butler, Ricardo Uauy, Food, livestock production, energy, climate change, and health. The Lancet, September 13, 2007. 18. FAO, The State of World Fisheries and Aquaculture 2012, pagg. 82-89. 19. Confagricoltura, La filiera dell’acquacoltura. 20. Tukker, A., Jansen, B., Environment impacts of products - A detailed review of studies, J. Ind. Ecol. 2006 10 3 159 182. Cit. in: Christopher L. Weber e H. Scott Matthews, Food-Miles and the Relative Climate Impacts of Food Choices in the United States, Environ. Sci. Technol., 2008, 42 (10), pp 3508–3513. 21. Weber, C. L., Matthews, H. S., Quantifying the Global and Distributional Aspects of American Household Carbon Footprint, Ecol. Econ. Cit. in: Christopher L. Weber e H. Scott Matthews, Food-Miles and the Relative Climate Impacts of Food Choices in the United States, Environ. Sci. Technol., 2008, 42 (10), pp 3508–3513. 22. Carlsson-Kanyama A, González AD., Potential contributions of food consumption patterns to climate change, Am J Clin Nutr. 2009 May;89(5):1704S-1709S. 23. UNEP, Assessing the Environmental Impacts of Consumption and Production Archiviato il 2 dicembre 2013 in Internet Archive. 24. Harold J Marlow, William K Hayes, Samuel Soret et al., Diet and the environment: does what you eat matter?, Am J Clin Nutr May 2009. 25. Valori calcolati dalla tabella a pag. 1258 di: Anthony J McMichael, Food, livestock production, energy, climate change, and health. The Lancet, September 13, 2007. 26. NaturalNews.com, Al Gore criticized for eating meat diet that contributes to global warming. 27. L Baroni, L Cenci, M Tettamanti, M Berati, Evaluating the environmental impact of various dietary patterns combined with different food production systems, European Journal of Clinical Nutrition, 11 October 2006; Raffaella Ravasso e Massimo Tettamanti, Valutazione dell’impatto ambientale di diverse tipologie di alimentazione. 28. Christopher L. Weber, H. Scott Matthews, Food-Miles and the Relative Climate Impacts of Food Choices in the United States, Environ. Sci. Technol., 2008, 42 (10), pp 3508–3513. GdB | Maggio 2022

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Ecm Questo articolo dà la possibilità agli iscritti all’Ordine di acquisire 4,5 crediti ECM FAD attraverso l’area riservata del sito internet www.onb.it.

Il ruolo del nutrizionista negli sport di squadra L’articolo assegna i crediti Ecm in modalità Fad se scaricato dall’area riservata MyOnb

di Fabrizio Spataro*

I

l ruolo del nutrizionista negli sport di squadra, ha subito nel corso degli ultimi decenni, una rapida evoluzione. Negli anni ’90 la gestione della nutrizione era prerogativa dei medici dello sport, l’integrazione nutrizionale, era invece un campo spesso trascurato, oppure lasciato in mano ai preparatori atletici, o a discrezione del singolo atleta. Dall’inizio degli anni 2000, due fenomeni hanno contibuito principlamente a modificare lo scenario; Da una parte l’incremento dell’intensità delle partite, ha richiesto doti di maggiore fisicità ai giocatori (adattamento comune in tutti gli sport di squadra) con caratteristiche fisiche sempre più evolute (giocatori sempre più atletci, con parametri sempre più mesomorfi). Dall’altra parte i calendari sempre più congestionati (basti pensare che nel basket un top team italiano impegnato in competizioni nazionali ed europee, può arrivare a giocare anche 90 partite, superando di gran lunga anche una squadra NBA), hanno portato un numero sempre maggiore di team ad avvalersi della figura del nutrizionista. In questo contesto, bisogna essere consapevoli del ruolo della nutrizione negli sport di squadra, la parole di R. J. Maughan sono quanto mai adatte: “le buone scelte alimentari non faranno di un atleta mediocre un campione, ma scelte alimentari sbagliate possono imepdire al campione potenziale di realizzare le sue potenzialità”. Per cui, la nutrizione negli sport di squadra non ha il potere di fare vincere una singola partita, ma il suo contributo seppur piccolo, è potenzialmente prezioBiologo nutrizionista. Consulente del settore di nutrizione dell’Area di Performance della FIGC. Responsabile della nutrizione e della supplementazione della Nazionale A femminile di calcio. *

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so per il benessere dell’atleta. Infatti, in presenza di una buona genetica, di un corretto allenamento e di un appropriato riposo, la nutrizione basata sulle evidenze scientifiche facilita il raggiungimento di tre fondamentali obiettivi: salute, benessere e performance. Quest’ultima sarà solo una conseguenza indiretta di un atleta in salute, che si sente bene e che per questo motivo è in grado di esprimere al massimo il proprio potenziale. Bisogna invece porsi più di qualche domanda, di natura etica, circa la ricerca ostinata dalla prestazione sportiva e deplorare tutti quei tentativi di ricerca della performance che mettono a rischio la salute o il benessere dell’atleta. In questo scenario, è necessario ricordare che l’utilzzo di un integratore alimentare, deve avvenire solo dopo avere ponderato accuratamente i rischi e i benefici. Gli integratori nutrizionali, andrebbero quindi utilizzati “cum grano salis”, solo in casi specifici, selezionando con attenzione la qualità delle materie prime. Al nutrizionista che lavora in una squadra è riservato, inoltre, il compito di ampliare la cultura e la consapevolezza nutrizionale dei singoli giocatori, colmando il gap tra linee guida e pratiche quotidiane. In questa ottica è necessaria sviluppare un’approfondita consocenza delle tecniche di valutazione della composizione corporea, per stimare con un buon


grado di precisione la massa grassa, la massa magra, e lo stato di idratazione. Infatti nello sport di squadra, il ruolo del nutrizionista non è solo limitato al dimagrimento dell’atleta, bensì al compito molto più difficile, e per questo interessante, di aiutare a preservare lo stato di salute ed il benessere compartecipando alla riduzione del rischio di infortuni. Il supporto del nutrizionista per la performance del calciatore / calciatrice Dr. Natale Gentile Consulente del settore di nutrizione dell’Area di Performance della FIGC. Responsabile della nutrizione e della supplementazione della Nazionale A femminile di calcio. Il supporto del nutrizionista per la prestazione fisica del calciatore/calciatrice si concentra essenzialmente su tre aspetti fondamentali: 1)valutare la composizione corporea; 2)fornire adeguati introiti calorici e dei macronutrienti per sostenere la prestazione fisica favorendo il recupero energetico e muscolare post partita e post allenamento utilizzando il corretto timing d’assunzione dei macronutrienti; 3)implementare, interagendo ed integrandosi con altre professionalità, strategie volte alla prevenzione degli infortuni o volte ad accelerare il recupero dagli infortuni sia nella fase iniziale di immobilizzazione sia in quella successiva di riabilitazione. Come metodica per la valutazione della composizione corporea facilmente realizzabile e non invasiva si predilige la plicometria, a dispetto di metodiche anche gold standard ma di difficile utilizzo e trasporto. Il plicometro viene utilizzato per la valutare lo spessore del pannicolo adiposo in varie zone del corpo (punti di repere); tali valori possono essere poi utilizzati in equazioni specifiche sia per sport sia per genere per ottenere una stima della percentuale di massa grassa o più correttamente viene presa in considerazione la sommatoria di pliche; viene di solito utilizzata la sommatoria cioè la somma algebrica di sette pliche cutanee (nello specifico quella addominale, sovrailiaca, coscia

mediana, polpaccio, sottoscapolare, tricipitale e bicipitale) che deve essere inferiore ad un valore di cutoff diverso per calciatori e calciatrici. Il calciatore <<moderno>> copre una maggiore distanza percorsa ad alta intensità rispetto al passato a parità rispetto sempre al passato di distanza percorsa totale nel corso di un match; tale osservazione determina tutta una serie di conseguenze in termini d’aumento dell’insulto infiammatorio e dello stress ossidativo per le maggiori sollecitazioni eccentriche a cui è sottoposto l’ atleta; inoltre va considerato il sempre maggiore affollamento del calendario agonistico con tanti impegni agonistici ravvicinati. Pertanto è fondamentale fornire adeguati introiti calorici e dei macronutrienti, favorire il recupero nel post partita che spesso rappresenta già l’inizio dell’approccio all’evento agonistico successivo. Considerare gli aspetti degli apporti calorici, dello stato di idratazione, delle deficienze dei micronutrienti, dei livelli di vitamina D e dello stress ossidativo è fondamentale nell’ottica di un approccio integrato a 360° che metta al centro l’atleta allo scopo di ridurre il rischio d’infortunio muscolare. É fortemente consigliato di evitare di ridurre l’apporto calorico al di sotto di determinati limiti; Loucks et al. hanno dimostrato che introiti calorici ridotti accentuano la fatica, hanno effetto immunosoppressivo e predispongono quindi agli infortuni; inoltre la restrizione calorica ha come effetto secondario anche quello di provocare deficienze di micronutrienti, alcune delle quali, come accade per il ferro, il calcio e la vitamina D sono molto frequenti prevalentemente nelle calciatrici. E’ essenziale, altresì, garantire uno stato di corretta idratazione; infatti esiste una correlazione diretta tra riduzione di peso per disidratazione e scadimento della prestazione fisica oltre che un aumento del rischio d’infortunio muscolare. L’alimentazione occidentale contemporanea è caratterizzata da un rapporto omega6/omega3 fortemente sbilanciato verso i primi con una conseguente maggiore produzione di molecole ad effetto proinfiammatorio. Pertanto ancora di più risulta necessario negli atleti riequilibrare questo rapporto rivedendo le abitudini alimentari ed evitando di abusare di alimenti ricchi di omega 6 e favorendo una maggiore introduzione di omega 3 sia attraverso la dieta sia attraverso la supplementazione. Una integrazione con antiossidanti atti a ridurre gli effetti del <<muscle damage>> indotto dall’allenamento è da consigliare solo in soggetti con una provata deficienza di un micronutriente, in soggetti in restrizione calorica per un considerevole intervallo temporale, in soggetti che per gusto o convinzione hanno limitato o del tutto escluso alimenti fornitori di molecole con effetto antiossidante. Negli altri casi è preferibile agire andando a rivedere le abitudini alimentari con un consumo di dosi adeguate di frutta e verdura. GdB | Maggio 2022

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Anno V - N. 5 Maggio 2022 Edizione mensile di AgONB (Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi) Testata registrata al n. 52/2016 del Tribunale di Roma Diffusione: www.onb.it

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Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132

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VAIOLO DELLE SCIMMIE. UNA INSIDIA SOTTO OSSERVAZIONE Non è la prima volta che il virus esce dalle sue aree endemiche. Ma stavolta sta “sconfinando” in maniera significativa

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