Il Giornale dei Biologi - N.4 - Aprile 2025

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GIÙ LE MANI DAI BIOLOGI Giornale dei Biologi

Una scienza in espansione una categoria eccellente deve trovare spazi e non vederseli sottratti

Ecco le insidie della farmacia dei servizi

Il 13 maggio tutti a Roma per la difesa della categoria

INTERVISTE

Federfarma: “Accordo con i biologi, fondamentale tutelare ruoli e competenze” di Matilde Andolfo

PRIMO PIANO

In 400 mila ai funerali di Papa Francesco, il primo miracolo: l’incontro tra Trump e Zelensky di Matilde Andolfo

La morte di Papa Bergoglio di Matilde Andolfo

Adozione crioembrioni, desiderio del Papa di Matilde Andolfo

Melanoma, mix di batteri risveglia il sistema immunitario di Rino Dazzo

L’importanza della mappatura dei nei di Rino Dazzo

Il primo pericolo: i raggi ultravioletti di Rino Dazzo

Melanoma avanzato: mix di 9 batteri intestinali potenziano l’immunoterapia

Tutti a Roma per difendere il lavoro dei biologi dei laboratori di Matilde Andolfo

La legge sulla farmacia dei servizi di Matilde Andolfo

Pierino Di Silverio: “Accordo sbagliato, danneggia la sanità” di Matilde Andolfo

Theranos: la più

Carcinoma mammario: all’orizzonte nuove opportunità terapeutiche di Chiara Di Martino

Scoperto il motore alla base dell’aggressività del cancro al pancreas di Sara Bovio

Ripensare il cancro: verso una visione sistemica oltre la genetica di Carmen Paradiso

Tatuaggi e cancro: scatta l’allarme? di Domenico Esposito

Una diagnosi su sei è errata o tardiva di Domenico Esposito

Creato un nuovo strumento basato sull’IA utile per trattare il cancro di Sara Bovio

Le staminali del sangue possono abbassare la risposta immunitaria di Sara Bovio

Staminali nella retina: nuova frontiera per la rigenerazione visiva di Carmen Paradiso

Si riapre la lotta ai super batteri: scoperto un nuovo antibiotico di Domenico Esposito

Le microplastiche sono dappertutto: anche nelle gomme da masticare di Domenico Esposito

Nuove evidenze sul legame tra piacere alimentare e controllo del peso di Carmen Paradiso

Cibi fermentati: storia, proprietà e benefici per la salute di Livia Galletti

I gusci di pistacchio diventano una risorsa sostenibile di Carla Cimmino

Nuove cellule staminali nel capello: una scoperta che potrebbe rivoluzionare il trattamento dell’alopecia di Biancamaria Mancini

Alle origini dell’umanità: due popolazioni diverse nel dna dell’homo sapiens di Carmen Paradiso

Corso teorico-pratico di avviamento alla professione di biologo nutrizionista

AMBIENTE

Immobili efficienti protagonisti: svolta verde nel settore residenziale di Gianpaolo Palazzo

Qualità dell’aria: successi nell’industria, stallo nella mobilità di Gianpaolo Palazzo

L’archeo-ecologia marina una nuova frontiera per i biologi di Franco Andaloro

Erionite: svelati i segreti della fibra più pericolosa dell’amianto di Maria Elisabetta Gramolini

Anno record di piogge, ma la sete non si ferma. Il paradosso idrico italiano di Gianpaolo Palazzo

Tanti impianti sciistici sono ko. La montagna italiana soffre il caldo di Gianpaolo Palazzo

L’arte del viaggio secondo gli elefanti di Michelangelo Ottaviano

Il rumore del traffico minaccia le parule di Michelangelo Ottaviano

Il rischio nascosto dietro i terremoti di Michelangelo Ottaviano

INNOVAZIONE

Alzheimer e Parkinson: il ruolo del sesso di Pasquale Santilio

Osservata la prima pioggia quantistica di Pasquale Santilio

Birra, produzione più rapida e sostenibile di Pasquale Santilio

L’idrogeno liquido carburante per gli aerei di Pasquale Santilio

BENI CULTURALI

Giugliano, i tesori di Liternum: il mausoleo e l’addio al gladiatore di Rino Dazzo

Ciclismo, dalle classiche al giro d’Italia. Sfida Roglic-Ayuso di Antonino Palumbo

Aspettando Sinner, l’Italia del tennis atp fa 101 (titoli) di Antonino Palumbo

Antonelli: l’Italia torna protagonista in F1 di Antonino Palumbo

Azzurri star senza età ai mondiali indoor di Antonino Palumbo

Rubrica

SCIENZE

Storia naturale del rapporto tra uomo e animali (Parte II) di Giuliano Russini

L’azoto e le prime forme di concime sulla terra di Marco Saroglia

Corretti stili di vita e sana alimentazione a supporto della fertilità di Dario Incorvaia e Matteo Pillitteri

Informazioni per gli iscritti

Si informano gli iscritti che gli uffici della Federazione forniranno informazioni telefoniche di carattere generale dal lunedì al giovedì dalle 9:00 alle ore 13:30 e dalle ore 15:00 alle ore 17:00. Il venerdì dalle ore 9:00 alle ore 13:00

Tutte le comunicazioni dovranno pervenire tramite posta (presso Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi, via Icilio 7, 00153 Roma) o all’indirizzo protocollo@cert.fnob.it, indicando nell’oggetto l’ufficio a cui la comunicazione è destinata.

È possibile recarsi presso le sedi della Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi previo appuntamento e soltanto qualora non sia possibile ricevere assistenza telematica. L’appuntamento va concordato con l’ufficio interessato tramite mail o telefono.

UFFICIO CONTATTO

Centralino 06 57090 200

Ufficio protocollo protocollo@cert.fnob.it

Anno VIII - N. 4 Marzo 2025

Edizione mensile di Bio’s

Testata registrata al n. 113/2021 del Tribunale di Roma

Diffusione: www.fnob.it

Direttore responsabile: Vincenzo D’Anna

Giornale dei Biologi

GIÙ LE MANI

DAI BIOLOGI

Una scienza in espansione una categoria eccellente deve trovare spazi e non vederseli sottratti

Ecco le insidie della farmacia dei servizi

Questo magazine digitale è scaricabile on-line dal sito internet www.fnob.it

Questo numero del “Giornale dei Biologi” è stato chiuso in redazione il 29 aprile 2025.

Contatti: protocollo@cert.fnob.it

Gli articoli e le note firmate esprimono solo l’opinione dell’autore e non impegnano la Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi.

Immagine di copertina: @ Summit Art Creations/shutterstock.

Biologi alla prova decisiva

Come i colleghi già sanno, ovviamente riferito a coloro i quali non hanno perso l’abitudine di consulta -

Sono in itinere provvedimenti normativi e legislativi che possono risolvere le richiamate criticità oppure aggravarle

Lo scopo della kermesse è quello di difendere nonché di proporre nuove competenze professionali per i biologi, oltre a risolvere, di concerto con quanti hanno la responsabilità democratica di governare ma anche di “controllare” chi governa, alcune criticità che affliggono la nostra professione nei propri vari ambiti di esercizio.

re i numerosi canali informativi messi a loro disposizione dalla Fnob, il prossimo 13 maggio, dalle ore 10.30 fino alle 13.30, a Roma, è in programma una convention nazionale di categoria: l’appuntamento è nell’Auditorium della Musica, in viale Pietro De Coubertin, 30 (zona Parioli), con la presenza di varie autorità politiche e parlamentari (nazionali e regionali), rappresentanti degli Ordini, dei Collegi delle Professioni Sanitarie, delle Associazioni di Categoria e delle Società Scientifiche.

Sono in itinere, peraltro, provvedimenti normativi e legislativi che possono risolvere le richiamate criticità oppure aggravarle. L’uno oppure l’altro esito dipenderà dall’ascolto e dal recepimento delle nostre istanze da parte del legislatore. Ma vi è di più!

La biologia va sempre più configurandosi come una delle scienze più innovative dal punto di vista della ricerca

La biologia va sempre più configurandosi come una delle scienze più innovative dal punto di vista della ricerca e degli sbocchi lavorativi

ma anche per quanto concerne gli aspetti legati agli sbocchi lavorativi di cui

è in gioco non solo l’esistente ma anche quello che di qui a poco potrà nascere in termini di nuove figure professionali.

In quest’ultimo caso valga la massima che “il futuro non si aspetta ma si prepara”.

Ed è per questi motivi che la

FNOB, di concerto con gli Ordini dei Biologi Regionali, ha deciso di compiere lo sforzo organizzativo di un evento che richiami l’attenzione degli iscritti e ne mobiliti forze e capacità di rappresentanza. Allorquando un’intera categoria giunge al crocevia delle speranze e delle attese, infatti, è la categoria stessa a doversi mostrare compatta, partecipe e solidale.

Senza questi requisiti, niente e nessuno potrà tutelare l’esistente e migliorarlo. In un’epoca in cui il veloce evolvere della scienza e le ulteriori necessarie competenze ci chiamano ad una prova senza precedenti, sono le prerogative e le specifiche competenze professionali dei Biologi, insieme con quelle

di altre professioni sanitarie, ad entrare in gioco. Parole? Alati propositi? Nossignore! Si tratta semplicemente di uscire allo scoperto e di verificare se, dopo tanti sforzi e sacrifici profusi per migliorare sia l’organizzazione che l’immagine stessa dei biologi italiani, questi risponderanno all’appello!

Se per avventura

tale appello dovesse cadere nel vuoto o, peggio ancora, rimanere soffocato dall’individualismo, dalle beghe, dalle contrapposizioni, dall’indolenza e dal disinteresse, dovremmo constatare allora che esistono “i biologi” e non la categoria che li possa rappresentare.

ni né giustificazioni di sorta a sostegno di questa deprecabile condizione. Bando alle ciance: ciascuno è chiamato a fare i conti con sé stesso e con quei legittimi interessi che pure vanno tutelati ed adeguati ai tempi che corrono.

Quando un’intera categoria giunge al crocevia delle speranze e delle attese è la categoria stessa a doversi mostrare compatta e partecipe

Dalla nostra abbiamo l’ottimismo della volontà che si accompagna al pessimismo della ragione, la coscienza pulita di aver fatto quel che serve.

Nessuno però può godere della libertà e dell’emancipazione senza sapere che esse rappresentano una conquista di tutti giorni.

Fallita eventualmente la prova non ci saranno né motivazio -

Gli assenti hanno sempre torto. Se i biologi sono diventati finalmente una categoria rappresentativa? Lo scopriremo il 13 maggio a Roma.

IN 400 MILA AI FUNERALI DI PAPA FRANCESCO, IL PRIMO MIRACOLO: L’INCONTRO TRA TRUMP E ZELENSKY

Un addio raccontato dalle immagini: la solitudine, la pace invocata e l’abbraccio del mondo intero intorno a Francesco

Un funerale di immagini che hanno detto più delle parole. Il papato di Francesco verrà ricordato per molteplici aspetti: la devozione ai poveri, agli ultimi del mondo, a quegli scartati divenute testate d’angolo.

L’immagine del suo corpo esibito con le scarpe nere “usate”, il segno distintivo della sua missione, il “cammino” tra la gente tracciato all’insegna della consolazione, della conversione e della pace. Le immagini sono più eloquenti a raccontare l’uomo e il Pontefice: la sua solitudine nella via crucis durante la pandemia da covid ma anche il suo viso carico di sofferenza a causa delle guerre nel mondo. Fino all’ultimo Francesco ha invocato la pace e forse l’immagine che si staglia più di tutte, nella narrazione dei suoi funerali, è quella di sabato mattina, all’interno di San Pietro, che ritrae il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky a colloquio: «un incontro simbolico che ha il potenziale di diventare storico» - dirà Zelensky. Chissà, sarebbe il primo miracolo di Papa Francesco. Quel che è certo è che a Roma per i funerali del Papa si

è ritrovato il mondo, insieme a quelli italiani il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, 16 capi di governo (compreso il presidente argentino Milei), i rappresentanti delle altre religioni, i reali convenuti a Roma per omaggiare il Pontefice.

Oltre 160 le delegazioni ufficiali che hanno partecipato ai funerali in Piazza San Pietro posizionate tutte sul sagrato vaticano, a destra dell’altare guardando la facciata della basilica. Tra la folla anche Julian Assange, il fondatore di Wikileaks. L’immagine dall’alto restituisce una geografia di colori che evidenziano il rosso porpora del clero e il nero degli abiti in lutto dei Capi di Stato. E ancora il bianco delle rose e del marmo del colonnato. Un funerale per immagini.

E infatti suggestiva è l’immagine del Vangelo adagiato sulla bara dispiegato dal vento. E poi le immagini di Giovan Battista Re, il decano dei cardinali che

ha officiato la cerimonia funebre e nella sua omelia ha detto che «la decisione di prendere il nome Francesco apparve subito come la scelta di un programma e di uno stile su cui egli voleva impostare il suo Pontificato, cercando di ispirarsi allo spirito di San Francesco d’Assisi. Desideroso di essere vicino a tutti, con spiccata attenzione alle persone in difficoltà, spendendosi senza misura, in particolare per gli ultimi della terra, gli emarginati».

E poi l’esortazione finale: «Caro Papa Francesco, ora chiediamo a Te di pregare per noi e che dal cielo Tu benedica la Chiesa, benedica Roma, benedica il mondo intero, come domenica scorsa hai fatto dal balcone di questa Basilica in un ultimo abbraccio con tutto il popolo di Dio, ma idealmente anche con l’umanità che cerca la verità con cuore sincero e tiene alta la fiaccola della speranza».

La conversione è stato uno dei punti fermi di Francesco, l’esortazione a “costruire ponti e non muri”: è stato il Papa di tanti anche dei non credenti perché ha saputo essere anche un Papa laico cioè etimologicamente del popolo. In quattrocentomila hanno partecipato al rito funebre. Le immagini del viaggio verso Santa Maria Maggiore dove è stato sepolto sono le immagini commoventi della folla che lo accarezza: dai fori imperiali, lungo il Colosseo, l’alberata via Merulana e infine la chiesa di Santa Maria Maggiore: nella cappella paolina dinanzi all’icona bizantina mariana della “Salus Populi Romani”, una delle più venerate al mondo, adornata di lapislazzuli azzurri, quattro bambini hanno deposto fasci di rose bianche, secondo un rito che il Papa svolgeva sempre nella sua chiesa preferita. Il rito della sepoltura, avvenuto a porte chiuse, è durato circa 30 minuti ed è stato presieduto dal cardinale Kevin Joseph Farrell, camerlengo di Santa Romana Chiesa. Presenti anche altri ecclesiastici e i familiari del Pontefice. (M. A.).

© mshady1/shutterstock.com

La conversione è stato uno dei punti fermi di Francesco, l’esortazione a “costruire ponti e non muri”: è stato il Papa di tanti anche dei non credenti perché ha saputo essere anche un Papa laico. © Riccardo De LucaUpdate/shutterstock.com

LA MORTE DI PAPA BERGOGLIO

Nel referto che certifica il decesso si legge “ictus cerebri”

Ma il Pontefice era affetto da più patologie

Per giorni si è parlato delle cause di morte di Papa Francesco. Il responsabile della direzione di Sanità e Igiene del Vaticano, Andrea Arcangeli, ha scritto che la causa del decesso del Pontefice è da ricondurre a «ictus cerebri, coma e collasso cardiocircolatorio irreversibile».

La comparsa improvvisa di un deficit neurologico ha sorpreso papa Bergoglio a Casa Santa Marta. Poi è giunto il referto che ha certificato la morte del Santo Padre. Nel comunicato si aggiunge che Francesco era «affetto da pregresso episodio di insufficienza respiratoria acuta in polmonite bilaterale multimicrobica;

bronchiectasie multiple; ipertensione arteriosa; diabete tipo II». La cronaca si è aggiunta di nuovi particolari quando a parlare è stato Sergio Alfieri il professore che ha operato il Papa al colon e che ha seguito con la sua equipe l’ultima degenza all’ospedale Gemelli.

Il medico, primario di chirurgia oncologica al Gemelli, ha raccontato gli anni di amicizia, le cure e gli ultimi istanti vissuti accanto al Papa a Santa Marta: «Lunedì, 21 aprile, alle 5:30 mi ha chiamato Massimiliano Strappetti (infermiere del Papa ndr): “Il Santo Padre sta molto male, dobbiamo tornare al Gemelli”. Ho preallertato tutti e

venti minuti dopo ero lì a Santa Marta. Mi sembrava tuttavia difficile pensare che fosse necessario un ricovero», ha affermato il primario. «Ho constatato che non aveva problemi respiratori e allora ho provato a chiamarlo, aveva gli occhi aperti però non mi ha risposto».

Poi la difficile decisione: «Rischiavamo di farlo morire nel trasporto, ho spiegato che il ricovero sarebbe stato inutile. Strappetti sapeva che il Papa voleva morire a casa, quando eravamo al Gemelli lo diceva sempre. È spirato poco dopo. Ma posso dire con certezza che non ha sofferto». Subito si è fatta avanti l’ipotesi dell’ictus cerebrale, di un danno neurologico dovuto alla rottura di un’arteria o di un vaso: «è stato uno di quegli ictus che in un’ora ti portano via - ha ribadito il chirurgo -.

Forse è partito un embolo che ha occluso un vaso sanguigno del cervello. Forse c’è stata un’emorragia. Sono eventi che possono capitare a chiunque, ma gli anziani sono più a rischio, soprattutto se si muovono poco». Secondo gli esperti la polmonite e le crisi respiratorie che avevano portato il Papa al ricovero al Gemelli non c’entrano con quanto successo. Ricorda ancora il professor Alfieri che «durante l’ultimo ricovero il Papa ha espressamente domandato di non procedere in nessun caso all’intubazione».

Praticarla «lo avrebbe aiutato a respirare, ma sarebbe stato difficile tornare indietro ed estubarlo, con i polmoni infettati da virus, funghi, miceti. Avremmo solo prolungato la sua vita di qualche giorno». Intanto, al di là delle teorie, la memoria torna al giorno di Pasqua. Quando il Pontefice, secondo gli esperti, mostrava la facies hippocratica: gli occhi infossati, volto incavato e privo di espressione e di vitalità, colore grigio del viso. Ma il segnale inequivocabile della fine imminente era il suo naso «affilato, scarno, dimagrito e sottile». L’accertamento della morte di Papa Bergoglio è stato effettuato attraverso registrazione elettrocardiotanatografica. (M. A.).

In un’intervista al Corriere della Sera, Sergio Alfieri, direttore del Dipartimento di Scienze mediche e chirurgiche del Policlinico Gemelli di Roma e coordinatore dell’équipe che ha curato Papa Francesco durante il ricovero tra il 14 febbraio e il 23 marzo, ha raccontato alcuni dei progetti più cari a Bergoglio. «A gennaio – riferisce – Papa Francesco mi ha detto che dovevamo occuparci degli embrioni abbandonati.

È stato netto: “Sono vita, non possiamo consentire che siano utilizzati per la sperimentazione oppure che vadano persi. Sarebbe omicidio”». Stavano valutando, anche con il ministero della Salute, tra le varie opzioni, il modo per concederli in adozione, ma non c’è stato il tempo perché il Papa potesse rendere esecutiva la sua decisione. «Il mio impegno adesso sarà, se ci saranno le condizioni, realizzare questo suo desiderio».

A riguardo, la ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità Eugenia Roccella ha confermato che entro un mese sarà pronto il disegno di legge sull’adozione degli embrioni crioconservati in stato di abbandono. Insieme a lei stanno lavorando al testo il ministro della Salute Orazio Schillaci e il ministro della Giustizia Carlo Nordio. «Seguiremo la legge sulle adozioni, cercheremo di fare una norma in cui assimiliamo l’adozione dell’embrione a quella di un bambino. Seguendo, più o meno, la stessa procedura, con tutte le cautele del caso», ha detto a Ping Pong su Rai Radio1.

Anche Schillaci ha dichiarato: «Si valuta se per gli embrioni sarà adozione o donazione. Importante è istituire un Registro nazionale. Ne avevo parlato con Alfieri. Troveremo una sintesi tra le varie posizioni, nell’interesse comune su un tema che stava a cuore anche a Papa Francesco». Il disegno di legge e il Registro sono solo un primo passo. A sollevare la questione è anche Filomena Gallo, avvocata e segretaria nazionale dell’Associazione

Luca Coscioni: «Gli embrioni congelati non sono adottabili perché non sono persone. Non hanno personalità giuridi-

ADOZIONE CRIOEMBRIONI

DESIDERIO DEL PAPA

A breve un disegno di legge e un registro, ma

l’associazione Coscioni: «Si tratta di cellule, non di feti»

ca essendo cellule – spiega –. Solo i bambini in stato di abbandono, per legge, possono essere adottati.

Le cellule, secondo le normative italiane ed europee, sono equiparate ai tessuti e, se idonee, si donano, ma non possono avere personalità giuridica, requisito imprescindibile per l’adozione». Per l’esperta, attribuire personalità giuridica alle cellule – modificando l’art. 1 del Codice civile che la subordina alla nascita – «significherebbe bloccare trapianti, tecniche di Pma e le Ivg». Gli embrioni congelati sono blastocisti, il prodotto della fecondazione dei gameti: un ammasso di cellule in fase di sviluppo, non feti.

Resta la questione dei circa 3.700 embrioni prodotti prima del 2004 che, in base al decreto Sirchia, risultano abbandonati. «Non potranno essere utilizzati per l’eterologa totale – spiega Gallo – perché le norme che governano tracciabilità e sicurezza sono successive. Ma non possono essere adottati perché solo i bambini abbandonati, per legge, possono esserlo, e non delle cellule».

Secondo Gallo, i ricercatori nel mondo li utilizzano per studiare cure a malattie oggi incurabili, in alcuni casi già in fase clinica. «Dare speranza a tanti malati dovrebbe essere un impegno delle nostre istituzioni». (M. A.).

© Corona Borealis Studio/shutterstock.com

MELANOMA MIX DI BATTERI RISVEGLIA IL SISTEMA IMMUNITARIO

Primo trattamento di studio somministrato a un paziente del Pascale di Napoli

Bioterapia e anticorpi monoclonali contro le forme più resistenti e metastatiche

La ricerca è volta a verificare la capacità del mix di batteri, un vero e proprio prodotto bioterapeutico vivo chiamato MB097, di migliorare l’efficacia dell’immunoterapia. Mentre l’anticorpo monoclonale inibisce i meccanismi attivati dallo stesso melanoma per bloccare il sistema immunitario e non farsi riconoscere, il mix di batteri intestinali stimola e rafforza lo stesso sistema immunitario nell’attacco al tumore.

© 3dMediSphere/shutterstock.com

La sua incidenza è in costante aumento. Dai seimila casi registrati in Italia nel 2004 si è passati agli 11mila del 2014, fino ad arrivare ai 17mila del 2024. In cui, secondo il rapporto «I numeri del cancro in Italia» presentato dall’Associazione Italiana di Oncologia Medica, si sono registrati ben 4.300 casi in più rispetto ai 12.700 del 2023, con un incremento del 33,85%. Il melanoma, la forma più grave di tumore della pelle, è un nemico subdolo, che inizialmente non genera sintomi evidenti o comunque riconoscibili a un occhio poco esperto, ma che può essere molto pericoloso. Un tumore che ha la sua origine nella mutazione dei melanociti, le cellule situate nello strato basale dell’epidermide che contengono la melanina, il pigmento responsabile della colorazione della pelle. Tra i quattro tipi di melanoma cutaneo quello a diffusione superficiale è il più comune, riscontrato nel 70% dei casi. Altri melanomi superficiali sono la lentigo maligna e il melanoma acrale lentigginoso, mentre più profondo e aggressivo sin dalle sue prime fasi è il melanoma nodulare, che rappresenta il 1015% del totale.

La classificazione a quattro stadi, indicati coi numeri romani da I a IV, serve a valutare l’entità del tumore nel corpo del paziente e a

pianificare il trattamento migliore. Nei melanomi individuati in fase iniziale, o comunque nei primi stadi, l’intervento chirurgico di asportazione riesce spesso a curare definitivamente la malattia. Per i melanomi in fase metastatica, in cui la diffusione del tumore ha raggiunto uno stadio molto avanzato, il trattamento più utilizzato e che offre le maggiori possibilità di cura è costituito dall’immunoterapia, spesso in combinazione con altre azioni terapeutiche.

Si tratta di una terapia biologica volta a potenziare l’azione del sistema immunitario contro la malattia attraverso la somministrazionee di anticorpi monoclonali, che da un lato consente di rimuovere il freno che il melanoma attiva per non essere riconosciuto come una minaccia dal sistema immunitario, dall’altro aiuta a cronicizzare la malattia, tenendola per quanto possibile sotto controllo.

Non sempre, purtroppo, l’immunoterapia ha successo contro il melanoma avanzato resistente. Una fetta consistente di pazienti, oltre la metà, non risponde al trattamento o recidiva. In questo senso Melody-1, uno studio che coinvolge pazienti provenienti da 18 centri tra Italia, Regno Unito, Francia e Spagna, potrebbe offrire una nuova ed efficace opzione terapeutica. Il primo paziente a ricevere il trat-

Primo Piano
di Rino Dazzo

tamento, basato su un mix di nove batteri intestinali selezionati tra le oltre mille specie del microbioma, è in cura presso l’Istituto Nazionale Tumori Irccs Fondazione Pascale di Napoli, uno dei centri coinvolti nella ricerca sotto la supervisione di Paolo Ascierto, presidente di Scito (Società campana di immunoterapia oncologica) e della Fondazione Melanoma, nonché direttore dell’Unità di Oncologia Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative dello stesso istituto napoletano. Gli altri centri italiani interessati sono l’Istituto Europeo di Oncologia di Milano e l’Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.

La ricerca è volta a verificare la capacità del mix di batteri, un vero e proprio prodotto bioterapeutico vivo chiamato MB097, di migliorare l’efficacia dell’immunoterapia. Nel corso dello studio clinico di Fase I Melody-1 è prevista la somministrazione ai pazienti, per una volta al giorno e per via orale, del mix di batteri intestinali in combinazione con un inibitore dei checkpoint immunitari, il pembrolizumab. Il meccanismo di azione combinata dei due prodotti è piuttosto semplice: mentre l’anticorpo monoclonale inibisce i meccanismi attivati dallo stesso melanoma per bloccare il sistema immunitario e non farsi riconoscere, il

mix di batteri intestinali stimola e rafforza lo stesso sistema immunitario nell’attacco al tumore. Una doppia difesa che potrebbe rivelarsi utile sia nel trattamento dei melanomi non operabili sia nella prevenzione delle recidive. Saranno i risultati dello studio a indicare se il lavoro dei ricercatori si sia indirizzato verso la giusta direzione.

«Studi preclinici hanno dimostrato che MB097 è in grado di attivare i linfociti T citotossici e le cellule Natural Killer, i soldati del nostro sistema immunitario, affinché siano in grado di attaccare e uccidere le cellule tumorali. Inoltre, la ricerca ha indicato che i nove batteri di MB097, oltre ad attivare la risposta immunitaria, favoriscono la produzione di metaboliti che agiscono direttamente nel sito del tumore», spiega Margaret Ottaviano, presidente di Scito Young e organizzatrice del meeting in cui è stato illustrato il lancio dello studio. La speranza è che l’aggiunta di una terapia di precisione mirata sul microbioma intestinale, di cui in altre ricerche è stata certificata la stretta interazione con il sistema immunitario, possa rendere efficace il trattamento nei pazienti che non rispondono alle sollecitazioni, aumentando in modo significativo le possibilità di cura.

La speranza è che l’aggiunta di una terapia di precisione mirata sul microbioma intestinale, di cui in altre ricerche è stata certificata la stretta interazione con il sistema immunitario, possa rendere efficace il trattamento nei pazienti che non rispondono alle sollecitazioni, aumentando in modo significativo le possibilità di cura.

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L’IMPORTANZA DELLA

MAPPATURA DEI NEI

Un’efficace azione di prevenzione e la tempestività

nella diagnosi sono fondamentali, anche contro i melanomi

Come per tutti i tipi di tumore, anche nel caso del melanoma la tempestività della diagnosi è un aspetto cruciale, in grado di influenzare in modo significativo le possibilità di intervento e di cura.

La prevenzione è un fattore decisivo, a cominciare dall’adozione di comportamenti in grado di ridurre le possibilità di insorgenza della malattia, strettamente legate all’esposizione prolungata e senza adeguata protezione alla luce ultravioletta (raggi del sole, ma anche lampade abbronzanti e lettini solari), ma influenzate anche

da altri aspetti, in primis l’insufficienza del sistema immunitario. I soggetti maggiormente a rischio sono quelli di pelle chiara o che hanno parenti stretti che hanno sviluppato un melanoma cutaneo. Il controllo periodico della propria pelle e in particolare dei propri nei è la prima forma di difesa dai melanomi e più in generale da tutti i tumori cutanei.

Gli specialisti parlano di «metodo ABCDE», acronimo che racchiude cinque importanti segnali d’allarme. Il primo è l’asimmetria: i melanomi sono spesso asimmetrici e dividendo a metà il neo (o nevo, come dovrebbe essere

più correttamente definito), le due parti generalmente non coincidono. Il secondo è legato ai bordi: se sono irregolari come quelli di una carta geografica, vanno eseguiti controlli più approfonditi. Il terzo è il colore: se presentano più tonalità, con chiazze scure o rossastre, non è un buon segno. Occhio alla dimensione: i nevi che superano i sei millimetri vanno monitorati con attenzione. Quinto e ultimo segnale: l’evoluzione del nevo stesso.

Se nel corso del tempo si registra un cambiamento in uno o più parametri indicati, è il caso di rivolgersi a uno specialista. Uno strumento di prevenzione molto utile ed efficace è costituito dalla mappatura dei nei, un esame diagnostico che consente di avere un quadro completo dello stato di salute della propria pelle e che, soprattutto, permette di individuare eventuali anomalie. Si tratta di un esame indolore, non invasivo, che non necessita di preparazione preliminare e non presenta controindicazioni, chiamato anche dermatoscopia, dermoscopia o epiluminescenza e che consiste nel controllo accurato di nevi e lesioni pigmentate che compaiono sulla pelle, individuando possibili minacce attraverso l’utilizzo di un particolare strumento ottico, il dermatoscopio, che si avvale di una lente illuminata ed è in grado di ispezionare le formazioni cutanee localizzate tra epidemide, lo strato più superficiale della pelle, e derma, lo strato più profondo.

Le immagini sono memorizzate, in modo da controllare l’evoluzione nel tempo di macchie e nei. Tutti possono sottoporsi allo screening, a prescindere dall’età. In particolre, la mappatura dei nei è indicata in presenza di cambiamenti nell’aspetto e nel colore di uno o più nei, se si sono avuti casi di melanomi o altre neoplasie cutanee in famiglia, o se si hanno molti nei. La cadenza ideale della mappatura varia da un anno a due-tre anni, in base alle indicazioni del proprio medico specialista. (R. D.).

Pur costituendo soltanto il 5% dei tumori che colpiscono la pelle, il melanoma cutaneo è sicuramente il più aggressivo. Raramente si manifesta nei bambini, comparendo invece generalmente in età avanzata, anche se negli ultimi anni l’età media alla diagnosi si è notevolmente abbassata. In Italia il melanoma è il terzo tumore più frequente al di sotto dei 50 anni sia tra gli uomini sia tra le donne, un aspetto particolarmente preoccupante se si pensa a quanto maggiori siano, nel presente, le possibilità di protezione rispetto al passato, così come la stessa conoscenza relativa alle possibili conseguenze legate all’adozione prolungata di certi comportamenti.

Il principale fattore di rischio legato al melanoma è infatti strettamente associato all’eccessiva e ripetuta esposizione alla luce ultravioletta, veicolata in massima parte dai raggi solari, UVA (che penetrano più a fondo nell’epidermide, arrivando a toccare il derma, e sono responsabili dell’invecchiamento cutaneo) e UVB (che agiscono più superficialmente e possono essere filtrati dal vetro e da prodotti anti scottature).

La protezione della pelle attraverso l’applicazione di creme e lozioni non andrebbe limitata alla spiaggia, ma a tutte le situazioni che comportano esposizioni prolungate ai raggi solari.

L’esposizione eccessiva a sole e lampade è il fattore di rischio numero 1 per lo sviluppo di neoplasie cutanee Primo

Inoltre, dopo un certo periodo –generalmente un’ora o anche meno – lo stesso prodotto dovrebbe essere riapplicato per avere la stessa efficacia, soprattutto dopo aver fatto il bagno. Lo stesso discorso è valido per lampade abbronzanti e lettini solari, il cui uso è stato classificato come sicuramente cancerogeno dall’Organizzazione mondiale della sanità, secondo cui le lampade solari sono responsabili di circa 10mila casi di melanoma e ben 450mila casi di altri tumori cutanei solo negli Stati Uniti, in Australia e in Europa.

Cifre scioccanti e che puntualmente sollevano interrogativi sull’oppor-

IL PRIMO PERICOLO

I RAGGI ULTRAVIOLETTI

tunità di bandire questi trattamenti. Ma perché la luce ultravioletta è così pericolosa? Perché danneggia il DNA della pelle dando inizio alla trasformazione tumorale. Si tratta di un processo estremamente lento e lungo, ma che negli anni può portare all’insorgenza del melanoma. Questo tipo di tumore origina sia da una cute integra sia da nevi preesistenti, che possono essere congeniti, insorgere nella prima infanzia oppure più frequentemente in età più adulta. L’insufficienza funzionale del sistema immunitario, derivata anche da malattie, trapianti o chemioterapie precedenti, e alcune

malattie ereditarie così come il tipo di carnagione (gli individui caucasici e in particolare quelli di pelle chiara, con lentiggini e diversi nei) o l’assunzione di farmaci che potrebbero aumentare la fotosensibilità sono altri fattori di rischio accertati.

Importante è anche la familiarità con persone colpite da melanomi o da altre neoplasie della pelle come i carcinomi basocellulari o a cellule squamose, mentre meno frequente è la possibilità di ereditare da un genitore delle alterazioni in alcuni geni che possono predisporre all’insorgenza di un melanoma. (R. D.).

“ MELANOMA AVANZATO

MIX DI 9 BATTERI INTESTINALI

POTENZIANO L’IMMUNOTERAPIA

Lo studio internazionale MELODY-1 coinvolgerà decine di pazienti provenienti da 18 centri tra Regno Unito, Francia, Spagna e Italia Il primo paziente a ricevere il nuovo trattamento è in cura al Pascale di Napoli

SUn mix di 9 batteri intestinali, selezionati tra le oltre mille specie del microbioma, potrebbe migliorare l’efficacia dell’immunoterapia contro il melanoma avanzato resistente. Lo verificherà

MELODY-1, studio internazionale che coinvolgerà decine di pa-zienti provenienti da 18 centri tra Regno Unito, Francia, Spagna e Italia.

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econdo l’AIOM (Associazione Italiana Oncologia Medica), nel 2024 le diagnosi di melanoma, un tumore della pelle particolarmente aggressivo, hanno raggiunto quota 17.000, 4.300 in più rispetto al 2023. Ma grazie all’immunoterapia, il 50 per cento dei pazienti con melanoma metastatico sopravvive dopo 10 anni dalla diagnosi.

E un’altra buona notizia arriva dalla ricerca: un mix di 9 batteri intestinali, selezionati tra le oltre mille specie del microbioma, potrebbe migliorare l’efficacia dell’immunoterapia contro il melanoma avanzato resistente. Lo verificherà MELODY-1, studio internazionale che coinvolgerà decine di pa-zienti provenienti da 18 centri tra Regno Unito, Francia, Spagna e Italia.

I batteri possono indurre il microbioma ad attivare i linfociti T citotossici e le cellule Natural Killer, i “guerrieri” del nostro sistema immunitario, affinché siano in grado di attaccare e uccidere le cellule tumorali. Il primo paziente a ricevere il nuovo trattamento è in cura all’Istituto Nazionale Tumori Pascale di Napoli.

Ne abbiamo parlato con il professor Paolo Ascierto, direttore del Dipartimento Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Te -

rapie Innovative dell’IRCCS, presidente di SCITO (Società Campana di Immunoterapia Oncologica) e della Fondazione Melanoma.

Professor Ascierto, ci spiega cosa rappresenta lo studio Melody-1 e qual è il suo obiettivo principale?

MELODY-1 è uno studio clinico di Fase 1b che valuta la sicurezza e l’efficacia di MB097, un consorzio di batteri selezionati, in combinazione con pembrolizumab, un inibitore di PD-1. L’obiettivo è migliorare la risposta immunitaria nei pazienti con melanoma avanzato resistente all’immunoterapia.

Quali sono i criteri di selezione dei pazienti per la sperimentazione?

I partecipanti devono avere un melanoma avanzato resistente all’immunoterapia con anti- PD-1, devono essere in buone condizioni cliniche generali e avere almeno 18 anni. Sono esclusi pazienti con infezioni attive o altre patologie gravi.

Come si è arrivati all’individuazione dei 9 batteri che compongono MB097?

Attraverso analisi metagenomiche di coorti indipendenti, sono stati identificati 9 ceppi batterici associati a una maggiore ri -

di Ester Trevisan

sposta alla terapia anti-PD-1. Questi microrganismi modulano il sistema immunitario e favoriscono un microambiente tumorale più reattivo.

Come agisce questo mix di batteri nel contesto dell’immunoterapia per il melanoma?

MB097 è un prodotto bioterapeutico vivo che interagisce con il microbiota intestinale. Agisce potenziando la maturazione delle cellule dendritiche, aumentando l’infiltrazione di linfociti T nel tumore e migliorando la risposta agli inibitori di PD-1.

Quali saranno gli step dello studio?

Prima di tutto, si procede con lo screening per la selezione dei pazienti e successivamente si passerà alla randomizzazione in due gruppi: uno riceverà un pretrattamento antibiotico con vancomicina e un altro gruppo no. Lo step seguente consiste nel trattamento per 24 settimane con MB097 e pembrolizumab. Infine, il follow-up di 3 mesi per monitorare l’efficacia e gli effetti collaterali.

Potenziali effetti collaterali del trattamento?

MB097 è generalmente ben tollerato. Possibili eventi avversi includono disturbi gastrointestinali quali diarrea, gonfiore, nausea.

Quali sono le evidenze scientifiche che supportano il legame tra microbiota intestinale e risposta all’immunoterapia?

Studi recenti dimostrano che la composizione del microbiota intestinale influisce sulla risposta ai checkpoint immunitari. Un microbiota favorevole può, infatti, potenziare l’efficacia della terapia anti-PD-1.

Se lo studio Melody-1 avrà successo, come cambierà l’approccio al trattamento del melanoma avanzato? Quali benefici potrebbe portare ai pazienti?

Se MELODY-1 avrà successo, MB097 potrebbe ridurre la necessità di trattamenti più tossici, migliorando la qualità della vita dei pazienti. Inoltre, potrebbe essere integrato nelle strategie terapeutiche per il melanoma, ad esempio come trattamento adiuvante, per migliorare la risposta all’immunoterapia.

Questa ricerca potrebbe avere implicazioni anche per altri tipi di tumori?

In caso di esito positivo, MB097 potrebbe essere studiato anche in altri tumori, come quello polmonare, renale, gastrointestinale, aprendo così nuove prospettive per l’immunoterapia oncologica.

Il professore Paolo

Antonio Ascierto è nato a Solopaca, in provincia di Benevento, l’8 novembre 1964. Attualmente è Direttore del Dipartimento Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative dell’Istituto Tumori Pascale di Napoli. Si è laureato in Medicina e Chirurgia presso l’Università di Napoli nel luglio 1990, e si è specializzato in Oncologia sempre presso la stessa Università nel luglio 1994.

Ha partecipato come principal investigator a oltre 190 studi clinici internazionali e ha pubblicato più di 750 lavori scientifici con un impact factor > 8000 e un H-index di 110.

Recentemente, la classifica Expertscape lo ha posizionato come primo al mondo tra gli esperti nella cura del melanoma nel periodo 2012-2022 e 2013-2023.

Se MELODY-1 avrà successo, MB097 potrebbe ridurre la necessità di trattamenti più tossici, migliorando la qualità della vita dei pazienti. Inoltre, potrebbe essere integrato nelle strategie terapeutiche per il melanoma, ad esempio come trattamento adiuvante, per migliorare la risposta all’immunoterapia.

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TUTTI A ROMA PER DIFENDERE IL LAVORO DEI BIOLOGI DEI LABORATORI

Il 13 maggio la mobilitazione promossa dalla FNOB contro le criticità della farmacia dei servizi, i test capillari sono inattendibili

Un prelievo venoso di laboratorio non sarà mai equivalente a quello capillare della farmacia. Allo stesso modo il referto rilasciato dal farmacista non avrà mai l’autorevolezza del biologo laboratorista, il cui lavoro è sottoposto a leggi stringenti, controlli serrati e alla dotazione di una documentazione che attesti l’idoneità della struttura e il pieno e regolare funzionamento delle strumentazioni.

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Una mobilitazione corale e appassionata, un evento nato per sostenere il lavoro dei biologi di laboratorio, professione che richiede rigore, competenze e affidabilità e allo stesso tempo denunciare le molteplici insidie presenti nella cosiddetta “farmacia dei servizi”.

L’iniziativa promossa dalla Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi, Fnob, che si terrà a Roma, il prossimo 13 maggio, presso l’Auditorium Parco della Musica ha ricevuto le adesioni anche delle altre professioni sanitarie che si sentono danneggiate da alcuni “disegni normativi” ancora all’esame del Parlamento. Una manifestazione nata non per remare contro, ma per tutelare le professionalità e soprattutto garantire la salute dei cittadini. È quanto ha ribadito più volte il presidente della Fnob, Vincenzo D’Anna: «la questione - ha dichiarato -, non è nella estensione dei servizi fruibili in farmacia, quanto nello sconfinamento degli ambiti professionali per i quali non si posseggono le adeguate competenze».

Un prelievo venoso di laboratorio non sarà mai equivalente a quello capillare della farmacia. Allo stesso modo il referto rilasciato dal farmacista non avrà mai l’autorevolezza del biologo laboratorista, il cui lavoro è sotto-

posto a leggi stringenti, controlli serrati e alla dotazione di una documentazione che attesti l’idoneità della struttura e il pieno e regolare funzionamento delle strumentazioni: «Non vi è dubbio che per l’attività di refertazione sia necessaria l’assunzione di responsabilità anche per gli esami di prima istanza - spiega a riguardo il presidente D’Anna -, ma questa attività non può essere demandata al farmacista. Si deve dunque prevedere che le farmacie dove si intendano svolgere esami diagnostici, ancorché di prima istanza, siano tenute ad instaurare rapporti con laboratori accreditati, pubblici o privati, oppure con professionisti abilitati per legge».

Il discrimine tra laboratorio e farmacia sta nell’attendibilità e nell’affidabilità del risultato degli esami che nei laboratori sono ottenuti grazie ad apparecchiature sicure, anche di ultimissima generazione, sottoposte a rigorosi e ciclici controlli. Un aspetto che appare ancora più evidente quando si tratta di esami di complessa esecuzione quali i test ormonali, la rilevazione dei markers tumorali, esami di genetica, biologia molecolare, immunologia e coagulazione.

Attualmente i test delle farmacie non hanno la stessa affidabilità e attendibilità dei laboratori anche per la rilevazione di valori

di Matilde Andolfo

“semplici” quali la glicemia e il colesterolo: gli esiti degli esami restano piuttosto aleatori anche perché non vi è alcuna normativa che prevede controlli accurati degli esami e delle apparecchiature.

Intanto il tema è diventato di dominio pubblico e molte delle falle che presenta la “farmacia dei servizi” sono state documentate dai media attraverso articoli e inchieste giornalistiche. La domanda di fondo è: gli esami in farmacia sono attendibili? Già l’inchiesta apparsa sul Corriere della Sera, a fine febbraio, nella rubrica “Dataroom” a cura di Milena Gabanelli, aveva sollevato più di qualche dubbio, poi agli inizi di marzo è andato in onda, su Italia 1, il servizio de “Le Iene” a firma di Gaetano Pecoraro che ha evidenziato non poche criticità rilevando margini di errore fino al 200% nei test delle farmacie.

Nel video inchiesta, della durata di 6 minuti e mezzo, anonimi pazienti si recano in farmacia per sottoporsi ai cosiddetti esami di routine: il prelievo di una goccia di sangue capillare basterebbe per la misurazione di valori quali la glicemia, il colesterolo e i trigliceridi. A dispetto delle previsioni dichiarate dall’anonimo farmacista intervistato secondo cui il margine di errore era calcolato all’incirca sul 10%, che comunque rappresenta un valore alto, l’evidenza dei fatti ha invece dimostrato una discrepanza, tra gli esami in farmacia e gli esami in laboratorio, di gran lunga superiore, fino al 200% e con una spesa che si aggira intorno ai 90 euro.

Sul tema è intervenuto Daniele Morelli, direttore della Struttura Complessa Medicina di Laboratorio (analisi chimico-cliniche) dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano che ha dichiarato: «gli strumenti della farmacia sono molto compatti, tecnologicamente molto avanzati, però non sono controllati. Nei laboratori di analisi invece la qualità è misurata e controllata. Nella strumentazione utilizzata dalla farmacia non sappiamo nulla della qualità del dato che viene rilasciato».

In pratica è possibile che il dato della farmacia sia rispondente a quello del laboratorio, ma è possibile anche che il dato sia sballato e - come viene mostrato nel video - in maniera macroscopica. Il punto, spiega l’autore del servizio, è che poiché non ci sono norme che obbligano chi usa le strumenta -

Una manifestazione nata non per remare contro, ma per tutelare le professionalità e soprattutto garantire la salute dei cittadini. © rzymuR/shutterstock.com

zioni della farmacia a tararli e verificarli di continuo, così come invece accade nei laboratori di analisi, qualsiasi risultato esca non è verificato. Le farmacie, secondo il professor Morelli «dovrebbero quindi subire gli stessi controlli dei laboratori di analisi», ma non essendovi una norma l’errore non viene neanche rilevato. Al contrario l’attendibilità dei laboratori è certificata grazie a una legge molto stringente.

Di qui la decisione di istituire per il prossimo 13 maggio, una giornata di mobilitazione che coinvolga i biologi, ma anche le altre professioni sanitarie affinché queste criticità rilevate nella farmacia dei servizi possano avere l’avallo istituzionale per confermare l’assolutezza del ruolo del biologo laboratorista e chiarire tutte le incertezze e le ambiguità che la normativa sugli esami in farmacia presenta.

LA LEGGE SULLA FARMACIA DEI SERVIZI

Dubbi e perplessità Nessun sconfinamento, ambiguità sul concetto di “referto”

ÈQualunque sconfinamento di campo da parte del farmacista sarebbe non solo illegittimo ma addirittura illecito, poiché si risolverebbe nello svolgimento di attività che formano oggetto delle professioni di biologo o di chimico.

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stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 65 del 19 marzo 2025 l’intesa approvata dalla Conferenza Stato-Regioni sull’ACN per la disciplina dei rapporti con le farmacie pubbliche e private stipulato ai sensi dell’art. 8, comma 2, del D.lgs. n. 502/1992 tra Federfarma, Assofarm e SISAC del 6 marzo 2025.

Nell’Accordo, che – va detto – a una lettura più attenta non apporta affatto le sostanziali novità sbandierate in tema di esami diagnostici eseguibili dai farmacisti, vi è un passaggio che è però ambiguo e che, se non correttamente interpretato, potrebbe condurre a un inaccettabile sconfinamento delle competenze dei farmacisti.

L’allegato 4 all’accordo, infatti, all’art. 3, comma 3, prevede che il farmacista, prima dell’esecuzione del test diagnostico che preveda il prelievo di sangue capillare e/o il prelevamento del campione biologico a livello nasale, salivare o orofaringeo, “… fornisce informazioni adeguate all’utente, anche in forma orale, sulla tipologia di test da somministrare, su eventuali rischi e sul significato dell’esito positivo o negativo, consegnando referto o attestato di esito scritto all’assistito, anche in formato digitale, debitamente firmato su carta intestata della farmacia”.

Bisogna intendersi sul concetto di “referto”. La giurisprudenza, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di un accordo regionale che prevedeva la “refertazione” di esami su sangue capillare, ha chiarito che questi ultimi sono indicati nel monitoraggio di condizioni patologiche (tra cui la glicemia) e i test vengono effettuati per mezzo di strisce reattive, senza coinvolgere il laboratorio, fornendo una rapida misurazione, laddove il prelievo di sangue venoso è una procedura attraverso cui si raccoglie un campione di sangue, al fine di indagare lo stato di salute, il cui esame è effettuato in laboratorio.

Per i farmacisti, tuttavia, resta fermo il divieto di “attività di prescrizione e diagnosi, nonché il prelievo di sangue o di plasma mediante siringhe o dispositivi equivalenti”, ai sensi dell’art. 1, co. 2, lett. e), del d.lgs. n. 153/2009 e dell’espressa previsione dell’art. 1, co. 2, del D.M. 16/12/2010 “È vietato l’utilizzo di apparecchiature che prevedano attività di prelievo di sangue o di plasma mediante siringhe o dispositivi equivalenti, restando in ogni caso esclusa l’attività di prescrizione e diagnosi”.

La possibilità di effettuare il prelievo di sangue capillare si lega alla raccolta del dato sanitario, consentendo al farmacista il prelie -

vo di sangue capillare, con un dispositivo che emette lo scontrino con i valori riportati.

In questo limitato senso deve intendersi la “refertazione”, consistente nella certificazione dei risultati del lavoro svolto e, implicitamente, la corretta applicazione delle procedure, la buona prassi di laboratorio, i controlli di qualità interno ed esterno, la scelta dei kit, la manutenzione ordinaria della strumentazione etc., assumendo così integralmente la responsabilità di fronte all’utente della corretta esecuzione dell’analisi.

In definitiva, qualunque sconfinamento di campo da parte del farmacista sarebbe non solo illegittimo ma addirittura illecito, poiché si risolverebbe nello svolgimento di attività che formano oggetto delle professioni di biologo o di chimico. A tale ultimo riguardo, non pare superfluo ricordare che l’art. 20 dell’ACN opera un richiamo espresso in tema di responsabilità del farmacista e di obblighi informativi, rispettivamente, agli artt. 5 e 6 del d.m. Salute 16 dicembre 2010.

La prima norma lega la responsabilità del farmacista, in caso di inesattezza dei risultati, alle cattive installazione e manutenzione dell’apparecchiatura, il che sta a significare che egli non può interpretare l’esito del quesito diagnostico e non può, quindi, consegnare un “referto” propriamente detto. La seconda norma impone al farmacista: – di esporre nei suoi locali, in modo chiaro e leggibile, l’indicazione delle tipologie di prestazioni analitiche disponibili agli utenti, con la precisazione che gli avvisi “non possono contenere dizioni che richiamino espressamente o indirettamente esami di laboratorio non eseguibili presso le farmacie”; – di indicare all’utente, prima dell’esecuzione dell’esame, la differenza tra un test di prima istanza ed un’analisi svolta normalmente in un laboratorio autorizzato; – di informare il cittadino utente che i risultati dei test devono essere verificati con il medico prescrittore, che indicherà le opportune iniziative terapeutiche. (M. A.).

Nell’Accordo, che a una lettura più attenta non apporta affatto le sostanziali novità sbandierate in tema di esami diagnostici eseguibili dai farmacisti, vi è un passaggio che è però ambiguo e che, se non correttamente interpretato, potrebbe condurre a un inaccettabile sconfinamento delle competenze dei farmacisti.

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DANNEGGIA LA SANITÀ”

Sulla manifestazione del 13 maggio interviene il segretario nazionale dell’Anaao Assomed sindacato che riunisce i medici e i dirigenti sanitari

“ ” PIERINO DI SILVERIO “ACCORDO SBAGLIATO

Dottor Di Silverio perché è importante aver promosso questa mobilitazione?

“Che un prelievo arterioso non possa sostituire quello venoso lo dice la scienza, non noi. Che al momento i controlli cui sono sottoposti i laboratori non siano equiparabili a quelli, inesistenti o quasi, cui verrebbero sottoposte le farmacie è fuori di dubbio”.

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L’importanza delle rivendicazioni e delle manifestazioni sta nel far comprendere ai cittadini, ai colleghi e alle istituzioni quando sorgono gravi criticità, quando i provvedimenti adottati non sono in linea con la salvaguardia delle professioni sanitarie e del sistema di cure. Restare in silenzio vorrebbe dire avallare scelte che in questo caso appaiono in contrasto con il rispetto dei ruoli e dei professionisti nonché dei cittadini.

L’istituzione della farmacia dei servizi ha sollevato una levata di scudi da parte di molti ordini professionali. Quali sono le rivendicazioni di Anaao-Assomed?

Noi di Anaao-Assomed semplicemente rivendichiamo ruoli e responsabilità istituzionalmente e legalmente riconosciuti. Riteniamo che i medici e i dirigenti sanitari non possano essere privati di un ruolo professionale per cui si sono formati mantenendo al contempo però la responsabilità penale e civile conseguente.

L’equivoco sul referto rilasciato anche dai farmacisti può, secondo Lei, provocare danni arrivando anche a compromettere la salute dei cittadini? Indubbiamente produrrà attese più lunghe e

un ripetersi di prestazioni che non si riveleranno utili al sistema, al cittadino e alle liste di attesa.

Un prelievo venoso non potrà mai sostituire quello capillare, qual è la vostra posizione?

Che un prelievo arterioso non possa sostituire quello venoso lo dice la scienza, non noi. Che al momento i controlli cui sono sottoposti i laboratori non siano equiparabili a quelli, inesistenti o quasi, cui verrebbero sottoposte le farmacie è fuori di dubbio.

I biologi che lavorano nei laboratori di analisi sono sottoposti a controlli rigorosi mentre i farmacisti che effettuano test nelle farmacie no. Quali sono i rischi?

Le conseguenze potrebbero essere negative per la qualità degli esami e quindi per la prestazione resa al cittadino, peraltro in regime privato e non pubblico. Si rischia il paradosso che pago per avere una prestazione di qualità e di attendibilità inferiore a quella erogata nel pubblico peraltro che dovrei ripetere poi in un laboratorio. Insomma un accordo che reputiamo sbagliato nei modi e nei metodi oltre che nei contenuti quanto meno di dubbia interpretazione. La domanda è; non sarebbe stato più semplice e proficuo riunire gli stakeholder e cercare soluzioni a problemi per efficientare il sistema? (M. A.).

THERANOS LA PIÙ GRANDE TRUFFA NELLA DIAGNOSTICA SANITARIA

Dal sogno della rivoluzione del check-up completo con una sola goccia di sangue al crollo dell’impero miliardario fondato da Elizabeth Holmes

Si chiamava Theranos, azienda di tecnologia sanitaria nata nel 2003 nel cuore della Silicon Valley e prometteva l’impensabile: un check-up completo ricavato da una semplicissima goccia di sangue. Il colosso fondato dall’allora diciannovenne Elizabeth Holmes, ex studentessa di Stanford, si rivelò poi un castello di sabbia: un impero della truffa perché il metodo delle analisi attraverso il semplice prelievo di una goccia di sangue era totalmente farlocco.

Il dispositivo per automatizzare e miniaturizzare gli esami del sangue utilizzando volumi di sangue microscopici si rivelò inattendibile. Il contenitore di raccolta del sangue “nanotainer” e la sua macchina di analisi battezzata “Edison” erano imprecise. La lucida follia e mitomania della Holmes che ideò e coniò “Theranos”, nato dalla crasi di “therapy” e “diagnosis”, ovvero “terapia” e “diagnosi” ebbe numerosi accoliti anche facoltosi tant’è che l’impresa raccolse più di 700 milioni di dollari provenienti da capitalisti di rischio e investitori privati, con una valutazione di 9 miliardi di dollari al suo apice nel 2013 e nel 2014.

Dall’ascesa alla caduta. Dopo i danni recati a molte persone che si erano fidati dei risultati errati partoriti da “Edison” e per i quali molti avevano rischiato la vita, cominciò la parabola discendente. Grazie a un giornalista d’inchiesta del Wall Street Journal e a un gruppo di scienziati che, dati

alla mano, misero in dubbio la validità della tecnologia di Theranos, la verità venne fuori.

La società fu sciolta nel 2018: Holmes e l’ex presidente dell’azienda Sunny Balwani furono accusati di frode, di frode telematica e cospirazione. Nel gennaio 2022 Holmes è stata dichiarata colpevole di quattro capi d’imputazione e condannata a 11 anni e 3 mesi di prigione. Balwani è stato condannato per tutti i 12 capi d’imputazione a lui imputati nel luglio 2022 e nel dicembre 2022 è stato condannato a 12 anni e 11 mesi di prigione e 3 anni di libertà vigilata. (M. A.).

“ FEDERFARMA: “ACCORDO CON I BIOLOGI, FONDAMENTALE

TUTELARE RUOLI E COMPETENZE”

Per il presidente Cossolo la “professionalità è il termine-cardine sul quale poter costruire qualsiasi forma di collaborazione” Il prelievo venoso solo in laboratorio

Il lavoro dei biologi nelle diverse discipline di laboratorio è al centro del numero di aprile del magazine Il Giornale dei Biologi, anche in vista della mobilitazione che si terrà il 13 maggio a Roma, un momento di riflessione ma anche di sensibilizzazione sulle competenze e le peculiarità dei biologi laboratoristi. Un evento che nasce dalla stipula della convenzione per le farmacie, all’interno della quale è prevista la cosiddetta farmacia dei servizi che dà il via libera a esami e prelievi eseguiti nelle farmacie.

Un accordo a tratti generico e su alcuni punti vago che può indurre a errori e errate interpretazioni. In questo contesto Federfarma è disposta a una collaborazione con la FNOB per definire ruoli e competenze?

Farmacie e laboratori hanno norme diverse, che rispondono ad esigenze diverse. La Convenzione farmaceutica, rinnovata lo scorso marzo dalla Conferenza Stato/Regioni a oltre vent’anni di distanza dalla precedente, è lo strumento che regola i rapporti tra farmacie e SSN per quanto riguarda la dispensazione dei farmaci e l’erogazione di prestazioni sanitarie aggiuntive. Non si tratta di un accordo generico e vago, ma di un atto normativo che regolamenta l’attività della farmacia nell’ambito del SSN. La Convenzione non introduce nuovi servizi, ma definisce

ulteriormente le modalità di erogazione delle attività prevista dalla normativa sulla Farmacia dei servizi varata nel 2009 e integrata, durante il Covid, con l’esecuzione di vaccini e test diagnostici. Federfarma è pienamente disponibile a collaborare con la Federazione dei biologi nell’ottica di garantire la massima efficacia ed efficienza delle azioni di accertamento diagnostico della salute dei cittadini, tenendo conto dei ruoli e delle competenze di ciascun operatore.

La professionalità dei biologi che lavorano nei laboratori, nelle diverse tipologie di laboratorio, è un punto di partenza imprescindibile per trovare una intesa? Lei è d’accordo?

Professionalità è il termine-cardine sul quale poter costruire qualsiasi forma di collaborazione. Favorire l’interazione professionale tra biologi e farmacisti rappresenta il presupposto per delineare con certezza i rispettivi ruoli e competenze proprio nella prospettiva di ampliare le possibilità di accesso della popolazione a prestazioni diagnostiche di primo e secondo livello.

Qual è la sua opinione sull’ipotesi di istituire centri prelievo nelle farmacie convenzionate dipendenti da laboratori accreditati pubblici o privati?

Ormai da molti anni Federfarma opera in

stretta sinergia ed interazione con le Istituzioni e le Strutture sanitarie pubbliche. Il fatto di agire “sotto le insegne del Servizio Sanitario Nazionale” in regime di convenzione ha reso certamente più agevole per le farmacie soddisfare i bisogni di salute della popolazione. Anche per la collaborazione con la rete dei biologi la chiave di volta sarà quella di intercettare la domanda di salute della popolazione e seguire le indicazioni delle Istituzioni sanitarie competenti che dovranno definire i modelli organizzativi più efficaci nell’interesse del cittadino e del sistema.

Per procedere ad esami e prelievi è fondamentale garantire l’affidabilità delle strumentazioni e l’idoneità del personale, ma fondamentale è anche il controllo per evitare errori che pregiudicherebbero in primis la salute dei cittadini, è d’accordo?

La Convenzione farmaceutica prevede espressamente che “le farmacie assicurano l’utilizzazione di test e dispositivi strumentali conformi alla normativa di riferimento e che abbiano le caratteristiche minime di sensibilità e specificità definite dal Ministero della salute e dalle altre Autorità competenti, compresi i test ad uso professionale classificati come NPT e POCT”. Sono certo della professionalità e dello scrupolo che ogni collega pone nella verifica dei dispositivi, della strumentazione e delle procedure utilizzate per effettuare i test. Proprio per questo sono il primo fautore di controlli rigorosi e puntuali.

Ha generato polemiche la dubbia interpretazione della parola “referto” inserito nell’accordo legislativo con i farmacisti. Il referto lo rilascia soltanto, in laboratorio, un professionista abilitato. Come si supera lo stallo?

Il termine “referto” può aver ingenerato equivoci, dando luogo a polemiche prive di fondamento. Vorrei quindi chiarire alcuni aspetti. La Convenzione farmaceutica prevede che la farmacia consegni all’assistito referto o attestato di esito scritto del test effettuato. Questo attestato certifica semplicemente che in una certa data e ora il farmacista ha somministrato una certa tipologia di test, indicando il dispositivo utilizzato e l’esito del test stesso. Il farmacista si fa così garante della corretta effettuazione del test e degli standard di qualità applicati. Non è una novità, perché già il Protocollo d’Intesa del

28 luglio 2022 sull’esecuzione di test e vaccini stabiliva che la farmacia che somministra il test deve consegnare all’assistito l’esito scritto.

L’attestato rilasciato dal farmacista non può considerarsi un referto medico in quanto non può contenere alcuna diagnosi, alla luce del divieto previsto dal decreto legislativo 153/2009. Proprio per questo il decreto ministeriale del 16 dicembre 2010 relativo all’erogazione di prestazioni analitiche in farmacia stabilisce che il farmacista debba informare il cittadino che i risultati del test devono essere verificati con il medico prescrittore che indicherà le opportune iniziative terapeutiche.

Un altro punto imprescindibile è la modalità di prelievo. Una puntura su un polpastrello non sarà mai equivalente al prelievo venoso, come superare l’impasse?

L’importante è non confondere strumenti e obiettivi delle diverse prestazioni. In farmacia è consentito unicamente il prelievo di sangue capillare anche mediante l’utilizzo dei dispositivi ad uso professionale con finalità di screening e monitoraggio. Questo è solo uno dei molti servizi che, in un’ottica di una sanità sempre più vicina alle persone, lo Stato ha disciplinato in modo preciso integrando (e non sovrapponendo) quanto previsto per i laboratori di analisi. A legislazione vigente, il prelievo di sangue venoso non è eseguibile da parte del farmacista in farmacia.

Come avviare in concreto la collaborazione tra le farmacie e i laboratori?

È necessario partire dalle reciproche professionalità e avendo ben chiaro il punto di arrivo che deve essere condiviso: ampliare le possibilità di accesso della popolazione alle prestazioni diagnostiche e contribuire alla riduzione dei tempi di attesa per l’esecuzione degli esami. Mettersi insomma al servizio delle Istituzioni e intercettare le esigenze di salute della popolazione.

Nelle farmacie eventualmente adibite a centro prelievo saranno contemplate figure professionali come quelle degli infermieri e anche dei biologi?

Assolutamente sì. Si tratta di replicare le migliori esperienze già maturate e positivamente testate sul territorio e fare rete per ottimizzare servizi e assistenza. (M. A.).

Professionalità è il termine-cardine sul quale poter costruire qualsiasi forma di collaborazione. Favorire l’interazione professionale tra biologi e farmacisti rappresenta il presupposto per delineare con certezza i rispettivi ruoli e competenze proprio nella prospettiva di ampliare le possibilità di accesso della popolazione a prestazioni diagnostiche di primo e secondo livello.

Marco Cossolo.

“ CARCINOMA MAMMARIO ALL’ORIZZONTE NUOVE OPPORTUNITÀ TERAPEUTICHE

Il farmaco sotto i riflettori è il Sacituzumab Govitecan

A spiegarne i vantaggi Michelino de Laurentiis (Istituto Pascale di Napoli)

Il carcinoma mammario è il tumore più comune tra le donne a livello globale. La maggior parte dei casi - 90-94%insorge in forma precoce e guaribile; una piccola percentuale insorge in fase metastatica, ma a queste si aggiungono le malattie che, non raggiungendo la guarigione definitiva, recidivano sviluppando metastasi anche a distanza di anni dalla diagnosi iniziale. Complessivamente, si stima che in Italia insorgano ogni anno 12.000 tumori mammari metastatici. Nuove opportunità, però, si celano oggi dietro un farmaco, il Sacituzumab Govitecan, della categoria degli Antibody-Drug Coniugates (ADC), che ha infatti avuto nuova indicazione Aifa per la cura del carcinoma mammario metastatico HR+/HER2-.

Contemporaneamente, ne è stato anticipato l’impiego alla seconda linea per la cura di un’altra forma di tumore al seno metastatico, quello triplo negativo (mTNBC). A parlarne è Michelino De Laurentiis, direttore del Dipartimento Corp-S assistenziale e di ricerca dei percorsi oncologici del Distretto Toracico Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione G. Pascale di Napoli, che ne spiega i vantaggi.

Partiamo dalle definizioni

Il carcinoma mammario metastatico è lo

stadio più avanzato del tumore al seno, in cui le cellule si diffondono ad altri organi come ossa, fegato, polmoni o cervello. È considerato inguaribile, ma cronicizzabile e trattabile a lungo termine. Se ne distinguono diversi sottotipi in base ai recettori: ormonali (HR) e HER2. Il carcinoma HR+/HER2è generalmente meno aggressivo, risponde bene alle terapie ormonali e progredisce più lentamente.

Il tumore metastatico triplo negativo non esprime ER, PR né HER2; è molto aggressivo, progredisce rapidamente e ha meno opzioni terapeutiche; spesso si tratta con chemioterapia, anche se con benefici limitati nel tempo. Il carcinoma mammario metastatico HR+/ HER2- rappresenta la forma più comune e comprende circa il 70% di tutti i casi diagnosticati (circa 6-8mila/anno), mentre i mTNBC costituiscono circa il 10-15% di tutti i tumori al seno metastatici (circa 1500/anno).

In che direzione guarda oggi la ricerca?

Verso terapie sempre più mirate e personalizzate. Nel carcinoma HR+/HER2-, la resistenza alle terapie endocrine ha portato allo sviluppo di inibitori CDK4/6, mTOR, PI3K e più recentemente degli anticorpi farmaco-coniugati (ADC), molecole formate da un anti-

di Chiara Di Martino

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corpo monoclonale legato a un potente chemioterapico. Nel mTNBC, privo di recettori bersaglio, si sono esplorate l’immunoterapia, gli inibitori PARP (per pazienti BRCA-mutati) e gli ADC. L’anticorpo agisce come un “drone” che riconosce antigeni tumorali, come Trop-2, e rilascia il farmaco direttamente nella cellula tumorale. Questo consente una maggiore efficacia e una tossicità ridotta rispetto alla chemioterapia tradizionale.

Cosa può dirci di questo farmaco oggi sotto i riflettori?

Uno dei protagonisti degli ultimi anni è il Sacituzumab Govitecan. Si tratta di un anticorpo monoclonale sviluppato per colpire in modo selettivo le cellule tumorali esprimenti l’antigene Trop-2 (Sacituzumab), coniugato a un potente chemioterapico (SN-38 o Govitecan). Il meccanismo d’azione è duplice: l’anticorpo si lega a Trop-2, una proteina di superficie altamente espressa nei tumori mammari; una volta legato, il farmaco-coniugato viene internalizzato nella cellula, dove, come un ‘cavallo di troia’ farmacologico, rilascia il chemioterapico (SN-38, un derivato dell’irinotecano), determinando la morte cellulare.

Il Sacituzumab Govitecan è stato inizialmente sviluppato per il trattamento del mTNBC, ma è stato successivamente studiato anche nel carcinoma HR+/HER2- metastatico resistente alle terapie endocrine e chemioterapiche. Il farmaco ha ottenuto l’approvazione della FDA e dell’EMA per

il trattamento del mTNBC refrattario e, più recentemente, ha mostrato dati promettenti anche nella popolazione HR+/HER2-.

Qual è lo studio di riferimento?

Il TROPiCS-02, uno studio di fase III, randomizzato e internazionale, pubblicato su riviste scientifiche autorevoli. Ha confrontato l’efficacia e la sicurezza del farmaco con la chemioterapia standard (capecitabina, vinorelbina, eribulina o gemcitabina) in pazienti pretrattate con terapie endocrine e almeno due linee di chemioterapia.

Tra i risultati principali, un +34% di riduzione del rischio di progressione; -21% del rischio di morte; maggiore riduzione del tumore rispetto alla chemioterapia e migliore qualità della vita. Gli effetti collaterali più comuni sono stati neutropenia, diarrea e nausea, in genere ben gestibili. È una svolta per pazienti con malattia avanzata.

Cosa possiamo aspettarci dal prossimo futuro?

Il panorama terapeutico sta cambiando rapidamente. Per quanto riguarda gli ADC, il successo del Sacituzumab Govitecan e del Trastuzumab Deruxtecan (altro ADC indicato nei tumori HER2+ e nei tumori HER2low) ha aperto la strada a una nuova generazione di farmaci ADC. Diversi studi clinici sono in corso per testare ADC diretti contro nuovi bersagli molecolari, anche in combinazione con altre terapie, particolarmente l’immunoterapia.

Il carcinoma mammario metastatico è lo stadio più avanzato del tumore al seno, in cui le cellule si diffondono ad altri organi come ossa, fegato, polmoni o cervello. Nuove opportunità terapeutiche si celano oggi dietro un farmaco, il Sacituzumab govitecan, un anticorpo monoclonale sviluppato per colpire in modo selettivo le cellule tumorali esprimenti l’antigene Trop-2 (Sacituzumab), coniugato a un potente chemioterapico (SN-38 o Govitecan).

Michelino de Laurentiis.

Un nuovo studio identifica un processo evolutivo che provoca il “caos” nel DNA della cellula e la rapidità nella progressione di tanti tipi di tumori tra cui quello del pancreas

SCOPERTO IL MOTORE

ALLA BASE DELL’AGGRESSIVITÀ DEL CANCRO AL PANCREAS

Ricercatori italiani del MD Anderson Cancer Center (Texas, USA) hanno scoperto, insieme ai colleghi americani, un meccanismo che rende alcune cellule tumorali, come quelle del pancreas, particolarmente aggressive e capaci di sfuggire ai vari tipi di controllo. Gli scienziati hanno chiamato queste cellule, “transformer”, per la loro capacità di trasformarsi da cellule di tipo epiteliale a cellule di tipo mesenchimale, molto più aggressive.

Nello studio, pubblicato su Nature, gli autori spiegano come la difficoltà di trovare terapie efficaci per il cancro è legata principalmente all’eterogeneità e alla plasticità tipiche delle cellule tumorali. Le cellule cancerose, infatti, sono eterogenee per natura e i noduli tumorali sono costituiti da cellule molto diverse tra di loro e che in più accumulano mutazioni in continuazione. Ma in alcune cellule tumorali, come quelle del pancreas, a complicare ulteriormente le cose, compaiono nel tempo alcune componenti che sono più specifiche delle cellule mesenchimali, che non delle cellule epiteliali. Gli esperti la chiamano epitelial mesenchimal transition (EMT), una vera e propria transizione da cellula epiteliale a cellula mesenchimale che rende le cellule più aggressive perché capaci di promuovere la resistenza ai trattamenti e lo sviluppo di metastasi.

«Quando all’interno di un adenocarcinoma, un tumore che origina da un epitelio, è presente una componente mesenchimale – spiega Giampaolo Tortora, autore dello studio e Ordinario di Oncologia Medica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e Direttore del Comprehensive Cancer Center di Fondazione Policlinico Gemelli IRCCS - l’atteggiamento di quella neoplasia è più aggressivo. Ma non solo. La transizione da cellula epiteliale a cellula mesenchimale comporta il “caos” all’interno del DNA della cellula. Si verificano cioè alterazioni macroscopiche del DNA, che diventano talmente numerose da provocare la frammentazione dei cromosomi.

Questi “pezzi” rotti inoltre si ricompongono, si riarrangiano tra loro a caso, in maniera disordinata, creando ulteriori disastri. Questo studio ha evidenziato che l’acquisizione di queste caratteristiche mesenchimali

I meccanismi descritti nello studio sono anche alla base della metastatizzazione e della formazione di metastasi da metastasi, cioè di metastasi che diventano trampolino di lancio per altre metastasi. Più il tumore si adatta ed è plastico, più è in grado di infiltrare, di invadere, di acquisire resistenza al trattamento. «Questi meccanismi – conclude Tortora - potrebbero un giorno diventare target terapeutici o aiutarci nella diagnosi e nel monitoraggio della risposta alla terapia se riusciremo ad intercettare le sostanze che favoriscono questi adattamenti/ cambiamenti tipici della EMT, magari con l’aiuto dell’intelligenza artificiale».

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favorisce l’emergere di cellule tumorali instabili dal punto di vista genomico e porta a una maggior aggressività delle cellule tumorali». Per comprendere meglio il ruolo funzionale della transizione epiteliale-mesenchimale nella progressione e nell’evoluzione del cancro, Luigi Perelli, Giannicola Genovese, e collaboratori hanno creato modelli di laboratorio geneticamente modificati che hanno permesso di esaminare i tumori derivati direttamente dai lignaggi cellulari sottoposti a EMT. I risultati dello studio hanno chiarito che l’EMT è un passaggio necessario perché i tumori epiteliali diventino maligni e hanno confermato che il tumore non è un nemico unico da combattere, ma tanti diversi che, tra l’altro, si trasformano continuamente sotto i nostri occhi.

«Questa scoperta – prosegue Tortorarappresenta l’inversione del paradigma secondo cui “il genotipo determina il fenotipo”, cioè che la cellula appare e si comporta in un certo modo perché il suo DNA le ha detto di comportarsi così. Qui il discorso si inverte perché le caratteristiche delle cellule tumorali epiteliali, influenzate dal microambiente tumorale determinano delle modifiche radicali del DNA. A causa di questa situazione microambientale, avvengono quei fenomeni come le alterazioni del DNA e la frammentazione dei cromosomi, che a loro volta determinano una profonda alterazione dei comportamenti delle cellule. In questo caso, il fenotipo acquisisce delle caratteristiche che sono in grado di modificare il genotipo, che poi a sua volta dà origine a un nuovo fenotipo».

Oltre alla straordinaria importanza delle scoperte descritte nello studio, ci sono potenziali ricadute pratiche molto importanti. «Come ad esempio – afferma Tortora - l’individuazione futura di alcuni biomarcatori che identificano e intercettano questa plasticità della cellula tumorale, per sfruttarla in termini diagnostico-terapeutici, così da poter intervenire in modo tempestivo, ad esempio modificando la terapia». Secondo gli autori della ricerca, la transizione epitelio-mesenchimale è tipica di tanti tumori, ma è più evidente nel tumore del pancreas che potrebbe anche diventare un modello per capire gli altri. (S. B.).

Un nuovo studio propone un approccio integrato che considera ambiente, epigenetica e reti cellulari per comprendere e prevenire il cancro

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Per decenni, il cancro è stato considerato una malattia di origine genetica, causata principalmente da mutazioni che portano le cellule a proliferare in modo incontrollato. Questa teoria ha guidato la ricerca scientifica, orientando diagnosi e terapie verso l’identificazione e la correzione delle alterazioni genetiche responsabili della trasformazione tumorale. Le terapie a bersaglio molecolare, come gli inibitori delle tirosin-chinasi o gli anticorpi monoclonali, sono nate proprio da questa impostazione.

Tuttavia, un recente articolo pubblicato sulla rivista PLOS Biology propone una visione più ampia dell’origine del cancro. Il lavoro, guidato da Sui Huang dell’Istituto per la Biologia dei Sistemi (ISB) negli Stati Uniti, suggerisce che le mutazioni genetiche potrebbero non essere l’unica, o nemmeno la principale, causa della malattia. Gli autori evidenziano come numerosi tumori non presentino mutazioni considerate pericolose, mentre alcune mutazioni classificate come cancerogene sono state trovate in tessuti perfettamente sani. Queste osservazioni spingono a considerare altri fattori coinvolti nella genesi dei tumori. Huang e colleghi propongono un approccio più complesso, che tenga conto di meccanismi non genetici, come le alterazioni nelle reti di regolazione genica e i cambiamenti nell’ambiente cellulare e tissutale.

Questo modello è in linea con una visione sistemica della biologia, in cui il comportamento cellulare emerge da interazioni complesse tra geni, proteine e segnali esterni. Le reti di regolazione genica sono sistemi dinamici che controllano l’attivazione e la disattivazione dei geni. Piccoli squilibri in questi circuiti possono portare a grandi cambiamenti nel comportamento delle cellule, senza che vi sia necessariamente una mutazione genetica. In questo contesto, il cancro può essere visto come una rottura dell’equilibrio interno della cellula, più che come il risultato di un errore nel DNA. Un esempio è il fenomeno della plasticità cellulare, osservabile nei tumori più aggressivi, che permette alle cellule di cambiare stato e funzione in risposta all’ambiente circostante. Anche il microambiente tissutale gioca un ruolo chiave. Fattori esterni come infiammazioni croniche, esposizione a sostanze tossiche, inquinanti ambientali, additivi alimentari e mi-

croplastiche possono contribuire alla destabilizzazione dei tessuti e delle cellule. Questi elementi, alterando la comunicazione tra le cellule e l’organizzazione del tessuto, possono creare le condizioni favorevoli alla trasformazione tumorale. A conferma di ciò, studi epidemiologici hanno messo in evidenza un legame tra inquinamento atmosferico e aumento dell’incidenza di tumori polmonari, anche in individui non fumatori. Un rapporto dell’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) ha classificato l’inquinamento atmosferico come cancerogeno di gruppo 1, ossia con evidenze certe di cancerogenicità per l’uomo. Secondo gli autori, accettare che l’origine del cancro possa andare oltre le mutazioni genetiche è fondamentale per aprire nuove strade nella ricerca. Una prospettiva più ampia potrebbe stimolare lo sviluppo di trattamenti innovativi, basati non solo sulla correzione genetica, ma anche sul ripristino dell’equilibrio delle reti cellulari e sull’intervento sull’ambiente tissutale. Questo richiede un cambiamento nella progettazione degli studi clinici, che dovrebbero considerare anche parametri legati all’epigenetica, all’organizzazione cellulare e all’influenza dell’ambiente esterno. La medicina personalizzata potrebbe così evolvere in una medicina di precisione che tenga conto non solo del profilo genetico, ma anche del contesto biologico e ambientale del paziente. Sul piano della prevenzione, questa visione invita a una maggiore attenzione verso i fattori ambientali e lo stile di vita. Politiche di salute pubblica volte a ridurre l’esposizione a sostanze cancerogene e a promuovere ambienti sani potrebbero rivelarsi cruciali per la riduzione dell’incidenza dei tumori.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che oltre il 30% dei tumori possa essere prevenuto con interventi mirati su dieta, attività fisica, fumo e consumo di alcol, ma un approccio sistemico potrebbe ampliare ulteriormente questa percentuale. Interventi su larga scala per ridurre l’inquinamento dell’aria e regolamentare le sostanze chimiche industriali potrebbero avere un impatto significativo sulla salute pubblica. Una maggiore integrazione tra discipline come la biologia dei sistemi, l’epigenetica, l’ecologia della salute e la medicina ambientale potrebbe rafforzare la capacità del sistema sanitario di affrontare il cancro in modo più efficace. (C. P.).

Questo studio potrebbe portare a una comprensione più profonda e realistica della malattia, migliorando le strategie di cura e, soprattutto, potenziando le possibilità di prevenzione. Una medicina del futuro, più sistemica e attenta al contesto in cui le cellule vivono, potrebbe rivelarsi più efficace nel contrastare uno dei mali più complessi della nostra epoca. Integrare approcci biologici, ambientali e sociali rappresenta la sfida cruciale per trasformare la lotta contro il cancro in una reale possibilità di prevenzione e guarigione.

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TATUAGGI E CANCRO SCATTA L’ALLARME?

Da una ricerca danese è emerso che i tatuaggi potrebbero triplicare il rischio di tumori della pelle e linfomi.

Quella dei tatuaggi è una moda in costante crescita. Sarà per la voglia di emulare i propri idoli o più semplicemente per imprimere un ricordo (in alcuni casi ben più di un ricordo) sulla pelle, fatto sta che il numero delle persone che trasformano il proprio corpo in una vera e propria tela su cui dipingere scritte, disegni e simboli d’ogni sorta è sempre più in aumento.

E, a quanto pare, l’Italia è il Paese con il tasso più alto di tatuati. Lo rivela un sondaggio del 2018 di Dalia Research, secondo il quale il 48% della popolazione del Belpaese

ne avrebbe almeno uno. A seguire, la Svezia (47%) e gli Stati Uniti con il 46% a completare il podio di questa speciale classifica. Al di là delle tendenze amplificate dai social, la vera domanda che in molti si pongono è la seguente: i tatuaggi possono avere ripercussioni sulla salute?

All’interrogativo ha già fornito una risposta nel 2024 la Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro, che ha evidenziato come al momento non esistano prove del legame tra tatuaggi e tumori. Tuttavia sono in corso studi proprio per far luce su questa relazione. L’ultimo arriva dai Paesi scandina-

vi. Secondo la ricerca guidata dall’Università della Danimarca Meridionale e pubblicata su BMC Public Health farsi un tatuaggio potrebbe addirittura quasi triplicare il rischio di andare incontro ad alcuni tipi di tumore. Lo studio ha preso in esame i dati di 2.367 gemelli selezionati casualmente per valutare appunto la relazione tra tatuaggi e incidenza del cancro.

Le diagnosi di cancro sono state ottenute dal Danish Cancer Registry, mentre l’esposizione all’inchiostro dei tatuaggi è stata determinata tramite sondaggi condotti nel 2021. Dai risultati è emerso un rischio aumentato di cancro della pelle e linfoma tra le persone tatuate, in particolare quelle con tatuaggi più grandi. Nel caso del cancro della pelle i tatuati avevano un rischio più alto del 62%, mentre per quanto riguarda il linfoma è stato riscontrato un rischio aumentato di 2,73 volte negli individui con tatuaggi grandi.

Inoltre, il rischio di cancro alla pelle era più significativo per coloro che avevano tatuaggi più grandi del palmo di una mano. Gli esperti hanno spiegato che le particelle di inchiostro per tatuaggi potrebbero interagire con i tessuti circostanti e causare un’infiammazione cronica. Quest’ultima potrebbe a sua volta creare un ambiente che favorisce la proliferazione cellulare anomala fino allo sviluppo del cancro.

Sebbene lo studio suggerisca un collegamento tra tatuaggi e rischio di cancro, gli autori precisano che sono necessarie ulteriori ricerche per confermare queste scoperte e comprendere meglio i possibili meccanismi di questa relazione. Che potrebbe essere condizionata anche da altri fattori come l’esposizione al sole o il vizio del fumo.

Insomma, bisognerà andare avanti nelle ricerche per cercare di avere risposte certe sugli effetti dell’inchiostro, sull’impatto delle dimensioni del tatuaggio e anche sui potenziali rischi associati alla rimozione laser dei tatuaggi. (D. E.).

Ricevere una diagnosi in tempo per un paziente è di estrema importanza per una serie di ragioni, specie quando c’è da affrontare una patologia da cui possono derivare danni permanenti o che può portare addirittura alla morte se non intercettata in tempo. Le conseguenze di una diagnosi tardiva rischiano dunque di rivelarsi gravissime ed è il motivo per il quale la tempestività gioca un ruolo di primo piano.

Non è certo un mistero che malattie come il cancro o quelle cardiache sono più facilmente trattabili se identificate nelle fasi iniziali. Riconoscerle prima che sia troppo tardi contribuisce non poco a migliorare la qualità della vita del paziente, perché si può subito intervenire con una terapia mirata, meno invasiva - è ad esempio il caso dei tumori - e soprattutto più efficace. Purtroppo, però, non sempre ciò avviene. Anzi, in base al rapporto pubblicato dall’Ocse, quasi una diagnosi su sei è errata o arriva troppo tardi nei 36 Paesi membri dell’Organizzazione internazionale che ha sede a Parigi.

I dati sono allarmanti e fotografano uno scenario desolante tanto per i pazienti quanto per gli stessi sistemi sanitari, dal momento che gli effetti di questi errori si pagano a carissimo prezzo con costi che diventano inevitabilmente esorbitanti. Pensate: secondo le stime dell’Ocse, il peso economico di questi errori arriva a raggiungere il17,5% della spesa sanitaria, pari più o meno all’1,8% del Pil.

Le patologie che ricevono diagnosi tardive o sbagliate sono anche le più complesse. E, quindi, sepsi, malattie rare, tumori, problemi cardiovascolari nei giovani e sindromi post-virali come il Long Covid, sempre più sotto la lente degli esperti che sono intenzionati a far luce sulle conseguenze legate al virus che nel 2020 ha sconvolto il pianeta.

Sono tre i tipi di errori che sono stati analizzati nel rapporto. Il primo

UNA DIAGNOSI SU SEI È ERRATA O TARDIVA

A lanciare l’allarme è stata l’Ocse: conseguenze gravi tanto sulla salute dei pazienti quanto sui sistemi sanitari

è quello della sovradiagnosi, che si verifica quando sono individuate malattie che non avrebbero mai palesato sintomi. Il riferimento è a quei tumori diagnosticati attraverso screening precoci, per cui si dà il via a trattamenti inutili e in alcuni casi addirittura dannosi. Si parla, invece, di sottodiagnosi, quando una patologia non viene scoperta o magari è etichettata come una malattia meno grave.

Ciò si registra di solito al cospetto di disturbi psichiatrici o di patologie nuove come appunto il Long Covid. Terzo e ultimo caso è quello della diagnosi errata, ossia quando la malattia

scoperta è sbagliata: in tale circostanza il paziente si ritrova a dover seguire una terapia inefficace o nociva. L’Ocse informa che chi appartiene a fasce sociali più deboli corre rischi maggiori di imbattersi in sottodiagnosi.

Al contrario, chi dispone di ingenti risorse e può permettersi visite ed esami ha più probabilità di incappare nella sovradiagnosi. La soluzione, secondo l’Organizzazione internazionale, è migliorare sia la formazione clinica sia la comunicazione con i pazienti, sfruttando le tecnologie a disposizione, intelligenza artificiale inclusa. (D. E.).

CREATO UN NUOVO STRUMENTO BASATO SULL’IA

UTILE PER TRATTARE IL CANCRO

Il sistema permette ai medici di scoprire la “rete sociale” di una cellula e di ricevere in un’ora informazioni su alcune patologie e indicazioni per guidare le decisioni cliniche

Grazie all’intelligenza artificiale generativa è stato creato NicheCompass, uno strumento disponibile gratuitamente, in grado non solo di analizzare ma anche di interpretare i dati di milioni di cellule in poche ore, prevedendo i cambiamenti molecolari nei tessuti. Si tratta nello specifico, di una rete neurale basata sull’intelligenza artificiale, prima nel suo genere e potenzialmente utilizzabile anche per individuare e indicare a medici e ricercatori trattamenti personalizzati più efficaci per patologie come il cancro. NicheCompass, presentato in un recente di Sara Bovio

studio pubblicato su Nature Genetics, è stato creato dai ricercatori del Wellcome Sanger Institute, dell’Institute of AI for Health di Helmholtz Munich, dell’Università di Würzburg e da altri colleghi nell’ambito della più ampia Human Cell Atlas Initiative1. Si tratta del primo metodo di IA in grado di valutare e interpretare una serie di dati provenienti dalla rete sociale di una cellula per riconoscere e analizzare anche le vicine comunità cellulari.

«Disporre di un’enorme quantità di dati sul corpo umano - afferma Sebastian Birk, primo autore dello studio - è fondamentale per trovare nuovi modi di comprendere, prevenire e trattare le malattie. Tuttavia, abbiamo anche bisogno di strumenti che ci permettano di accedere a tutti i benefici che queste informazioni potrebbero fornire. NicheCompass rappresenta un salto in avanti importante in questo campo, sfrutta la potenza dell’IA ma offre anche la possibilità di interpretare i dati, consentendo a ricercatori e medici di porsi domande sui loro dati e di comprendere e trattare meglio le malattie».

Come spiegano gli autori dello studio, ogni cellula del corpo umano comunica con il proprio ambiente ed è coinvolta in una rete di interazioni più ampia. Il sequenziamento genomico di una singola cellula unito alle tecnologie spaziali che consentono agli scienziati di vedere dove si trovano le cellule in un ambiente, ad esempio in un tessuto, hanno rivoluzionato la nostra comprensione del corpo umano e hanno permesso la creazione di molteplici atlanti cellulari di diversi tessuti e organi.

Sebbene questi atlanti includano informazioni su dove si trovano le cellule e su come interagiscono all’interno delle loro specifiche reti, è difficile quantificare e interpretare queste reti e capire cosa guida le interazioni sociali delle cellule. È questo il motivo che ha spinto i ricercatori del Sanger Institute e i loro collaboratori a creare NicheCompass, modello di intelligenza artificiale ad apprendimento profondo che impara come le diverse cellule comunicano attraverso le loro reti e poi le confronta con cellule simili, individuando grazie a caratteristiche condivise, le reti vicine all’interno dei tessuti. «NicheCompass - chiarisce Mohammad Lotfollahi, coautore presso il Wellcome Sanger Institute

- è il primo modello di intelligenza artificiale generativa in grado di interpretare le reti “sociali” che legano le cellule e di rispondere a domande che potrebbero avere un impatto diretto sulla vita dei pazienti, come ad esempio scoprire come si sono sviluppate le loro condizioni di salute e prevedere come ogni persona potrebbe rispondere a determinati trattamenti».

I ricercatori hanno testato l’efficacia del nuovo strumento informatico nei pazienti affetti da cancro al seno e ai polmoni. Utilizzando NicheCompass, i ricercatori hanno combinato i dati di alcuni pazienti con cancro ai polmoni e sono stati in grado di individuare le somiglianze e le differenze tra gli individui. Secondo gli autori le somiglianze contribuiscono a migliorare la nostra comprensione generale del cancro, oltre a evidenziare eventuali cambiamenti trascrizionali che potrebbero essere utili per indirizzare nuovi trattamenti. Le differenze, invece, evidenziano nuove possibili strade per la medicina personalizzata. «Grazie a NicheCompass - aggiunge Carlos Talavera-López, coautore presso l’Università di Würzburg - siamo stati in grado di vedere le differenze nel modo in cui le cellule immunitarie interagiscono con i tumori del cancro al polmone nei pazienti. L’applicazione ha evidenziato un paziente il cui cancro ha interagito con il sistema immunitario in modo diverso». «In futuro - prosegue il ricercatore - NicheCompass potrebbe aiutare a creare trattamenti personalizzati che consentano al sistema immunitario del paziente di colpire direttamente i meccanismi tumorali». Ogni medico può aggiungere i dati dei propri pazienti in NicheCompass e ricevere in un’ora informazioni approfondite su una singola patologia e l’aiuto a guidare le decisioni cliniche.

L’équipe ha utilizzato NicheCompass anche sul cancro al seno, dimostrando la sua validità su più tipologie tumorali. Il team ha inoltre applicato lo strumento di IA a un atlante spaziale del cervello, riuscendo a identificare rapidamente e correttamente le sue sezioni creando una risorsa visiva dell’intero organo. Questo, secondo gli autori, dimostra come NicheCompass possa essere applicato agli atlanti spaziali di interi organi generati dai ricercatori di tutto il mondo.

NicheCompass è uno strumento disponibile gratuitamente in grado non solo di analizzare ma anche di interpretare i dati di milioni di cellule in poche ore, prevedendo i cambiamenti molecolari nei tessuti. Ogni medico può aggiungere i dati dei propri pazienti in NicheCompass e ricevere in un’ora informazioni approfondite su una singola patologia e l’aiuto a guidare le decisioni cliniche.

Uno studio internazionale ha “mappato” i percorsi di differenziamento delle cellule staminali emopoietiche e ha scoperto nuove proteine di superficie che inibiscono il rilascio di citochine

LE STAMINALI DEL SANGUE POSSONO ABBASSARE LA RISPOSTA IMMUNITARIA

Nel nostro sangue sono presenti diversi tipi di cellule specializzate che si sviluppano da staminali emopoietiche pluripotenti attraverso un processo di differenziamento che si svolge in più fasi. A regolare la maturazione di queste cellule ci sono diversi elementi tra cui fattori di crescita, ormoni e geni. Il processo di differenziamento ha ancora molti punti da chiarire ma un recente studio internazionale guidato dal Centro Medico Universitario di Francoforte e dalla Goethe University della stessa città, ha gettato nuova luce riuscendo a decodificare molecolarmente i percorsi di differenziazione delle staminali del sangue umano in tutti i tipi di cellule ematiche specializzate.

I ricercatori sono riusciti a ottenere una mappa molecolare del differenziamento precoce delle cellule staminali ematopoietiche nell’arco della vita umana. I risultati dello studio, pubblicato su Nature Communications, hanno inoltre riservato agli autori una sorpresa: le cellule staminali possiedono proteine di superficie che consentono loro di sopprimere l’attivazione di risposte infiammatorie e immunitarie nell’organismo. Questa scoperta si rivela particolarmente importante per i trapianti di cellule staminali, utilizzati per il trattamento ad esempio della leucemia.

Il nostro sistema sanguigno si caratterizza per essere altamente rigenerativo: ogni secondo, un adulto genera circa cinque milioni di nuove cellule del sangue per sostituire quelle invecchiate o morenti. Queste nuove cellule del sangue si formano nel midollo osseo a partire da cellule non specializzate, note come cellule staminali del sangue. Attraverso diversi stadi intermedi, le cellule staminali acquisiscono caratteri e funzioni specifiche dando origine a eritrociti che trasportano ossigeno, piastrine che coagulano il sangue e il grande gruppo di globuli bianchi responsabili della difesa immunitaria. Questo processo, noto come differenziamento, deve essere regolato con precisione per garantire una produzione equilibrata di cellule ematiche mature in tutti i tipi di cellule. In questo modo l’organismo può avere sempre a disposizione gli elementi figurati del sangue di cui ha bisogno, anche se questi hanno una durata di vita ben definita. Infatti, i globuli rossi hanno una vita di circa 120 giorni, trascorsi i quali devono essere so-

stituiti. I granulociti neutrofili, vivono molto meno e dopo sei ore sono destinati a essere rimpiazzati da nuovi elementi. L’intera popolazione di piastrine viene invece sostituita in media ogni 9,9 giorni.

Attraverso metodi di sequenziamento all’avanguardia, il team di ricerca tedesco ha identificato i modelli di espressione genica e proteica in oltre 62.000 singole cellule e ha analizzato i dati risultanti con un calcolo ad alte prestazioni. Michael Rieger, ricercatore presso il Centro Medico Universitario di Francoforte e la Goethe University, e autore responsabile dello studio spiega: «Siamo riusciti a ottenere una panoramica dei processi molecolari che regolano il differenziamento delle cellule staminali e a scoprire nuove proteine di superficie che sono cruciali per la complessa interazione tra le cellule staminali e il loro ambiente midollare». «Questo - continua il ricercatore - ci permette di capire nel dettaglio quali sono le caratteristiche uniche di una cellula staminale e quali geni regolano la differenziazione delle cellule staminali». Rieger si dichiara inoltre convinto che la nuova tecnologia recentemente introdotta nel suo laboratorio risponderà con straordinaria precisione a molte domande irrisolte nelle ricerche sulla salute.

Lo studio tedesco non ha permesso solamente di comprendere meglio come avviene il differenziamento delle staminali emopoietiche ma ha portato anche a una scoperta inaspettata: «Sulla superficie delle cellule staminali del sangue - spiega Tessa Schmachtel, autore dello studio - abbiamo trovato una proteina chiamata PD-L2 che sappiamo avere la funzione di sopprimere la risposta immunitaria delle nostre cellule di difesa, i linfociti T, impedendo la loro attivazione e proliferazione e inibendo il rilascio di sostanze infiammatorie chiamate citochine». L’idea che si sono fatti i ricercatori è che PD-L2 serva probabilmente a prevenire i danni immuno-mediati. «Questo - chiarisce Schmachtel - è particolarmente importante per proteggere le cellule staminali da potenziali attacchi da parte di cellule T reattive e probabilmente svolge un ruolo chiave nei trapianti di cellule staminali con innesti da donatori non correlati. PD-L2 potrebbe contribuire a ridurre la risposta immunitaria dell’organismo contro le cellule staminali trapiantate». Come si legge nello studio, (S. B.).

Scoprire i cambiamenti precoci della rete genica delle cellule staminali ematopoietiche umane che portano all’induzione del differenziamento è di estrema importanza per la manipolazione terapeutica. Rieger conclude sottolineando come importanti scoperte possono essere fatte solo grazie a una stretta collaborazione interdisciplinare tra medici, scienziati e bioinformatici e attraverso la creazione di reti internazionali.

STAMINALI NELLA RETINA

Scoperta una popolazione di cellule staminali nella retina umana

Possibile svolta nelle terapie per degenerazione maculare e retinite pigmentosa

Una scoperta scientifica potrebbe aprire nuove strade nella cura di gravi patologie oculari, come la degenerazione maculare senile e la retinite pigmentosa. Un team di ricercatori dell’Università Medica di Wenzhou, in Cina, ha identificato per la prima volta nella retina umana una popolazione di cellule staminali con la capacità di rigenerare i tessuti danneggiati. La ricerca, pubblicata sulla rivista Science Translational Medicine, apre importanti prospettive per lo sviluppo di terapie rigenerative in ambito oftalmologico.

La retina è una sottile membrana fotosensibile che riveste gran parte della superficie interna dell’occhio. La sua funzione principale è quella di trasformare la luce in segnali elettrici attraverso i fotorecettori – coni e bastoncelli – per poi inviarli al cervello tramite il nervo ottico. Danni alla retina, soprattutto alla macula (la sua porzione centrale), possono comportare una perdita progressiva della vista fino alla cecità. Patologie degenerative come la degenerazione maculare legata all’età (AMD) e la retinite pigmentosa – una malattia genetica che compromette i bastoncelli –sono tra le principali cause di disabilità visiva nel mondo. Ad oggi, le terapie disponibili si limitano a rallentare la progressione del danno: non esistono trattamenti capaci di rigenerare i tessuti danneggiati.

Il principale ostacolo era rappresentato dalla mancanza di una fonte efficace di cellule staminali retiniche capaci di integrarsi funzionalmente nel tessuto oculare. Il gruppo di ricerca guidato da Jia Qu e Jianzhong Su ha condotto un’analisi approfondita su tessuti retinici fetali umani e su organoidi della retina – strutture tridimensionali coltivate in laboratorio a partire da cellule staminali pluripotenti indotte (iPSC), che simulano lo sviluppo e l’organizzazione del tessuto retinico umano. Nel corso dello studio, è stata individuata nella zona periferica della retina una sottopopolazione cellulare con marcatori molecolari caratteristici delle cellule staminali neurali. Queste cellule, denominate retinal stem-like cells (RSCs), sono risultate in grado di proliferare e differenziarsi in diversi tipi cellulari retinici, inclusi fotorecettori e cellule gangliari.

Questa popolazione cellulare mostra le caratteristiche fondamentali delle cellule sta-

Nel corso dello studio, è stata individuata nella zona periferica della retina una sottopopolazione cellulare con marcatori molecolari caratteristici delle cellule staminali neurali. Queste cellule, denominate retinal stem-like cells (RSCs), sono risultate in grado di proliferare e differenziarsi in diversi tipi cellulari retinici, inclusi fotorecettori e cellule gangliari. Questa popolazione cellulare mostra le caratteristiche fondamentali delle cellule staminali: capacità di autorinnovarsi, plasticità e potenziale differenziativo. Inoltre, la loro origine retinica le rende particolarmente adatte all’integrazione funzionale nei circuiti visivi. © MicroScience/shutterstock.com

minali: capacità di autorinnovarsi, plasticità e potenziale differenziativo. Inoltre, la loro origine retinica le rende particolarmente adatte all’integrazione funzionale nei circuiti visivi, superando i limiti riscontrati nell’impiego di cellule staminali derivate da altri tessuti, come quelle ematopoietiche o cutanee. Il potenziale clinico delle RSCs è particolarmente rilevante. L’utilizzo di cellule già presenti nella retina umana, e dunque potenzialmente prelevabili in modo autologo, potrebbe ridurre il rischio di rigetto immunitario e migliorare l’integrazione cellulare in caso di trapianto. Questa caratteristica le rende una risorsa preziosa per future terapie personalizzate. Un altro aspetto della ricerca riguarda la possibilità di sviluppare protocolli di rigenerazione endogena, ovvero strategie terapeutiche mirate a stimolare direttamente queste cellule staminali all’interno dell’occhio del paziente, evitando così la necessità di un trapianto esterno. Le tecnologie di ingegneria tissutale e terapia genica potrebbero inoltre essere utilizzate in sinergia con le RSCs per aumentare la precisione del differenziamento cellulare e promuovere il ripristino selettivo delle funzioni visive compromesse. Sebbene questa scoperta rappresenti un punto di svolta, il passaggio alla pratica clinica richiede ulteriori fasi di validazione. I prossimi obiettivi dei ricercatori includono la possibilità di isolare queste cellule da tessuti retinici adulti, verificarne la sicurezza a lungo termine e sviluppare metodologie per il loro impiego in terapie mirate. Saranno fondamentali anche studi volti a comprendere i segnali molecolari e ambientali che regolano l’attivazione e il differenziamento delle RSCs. L’obiettivo finale è quello di poter controllare il processo rigenerativo in modo preciso e sicuro, evitando complicazioni come la crescita incontrollata o la formazione di tessuti non funzionali. La scoperta rappresenta un progresso significativo per la medicina oftalmologica. Per la prima volta, si intravede la possibilità concreta di sviluppare trattamenti in grado non solo di arrestare la perdita della vista, ma di ripristinare le strutture danneggiate. In futuro, rigenerare la retina potrebbe diventare una realtà terapeutica, aprendo nuove speranze per milioni di persone affette da malattie oculari invalidanti. (C. P.).

SI RIAPRE LA LOTTA AI SUPER BATTERI: SCOPERTO UN NUOVO ANTIBIOTICO

Il fenomeno dell’antibiotico resistenza minaccia la salute globale. Ma dal Canada arriva una buona notizia dopo 30 anni di buio: ecco come agisce la lariodicina

di Domenico Esposito

Il consumo di antibiotici in Italia è decisamente alto. Sebbene in calo rispetto al passato, la media resta comunque superiore a quella del resto dell’Europa. I consumi totali di antibiotici sono ammontanti a 23,1 dosi al giorno per mille abitanti, un dato che si colloca sopra la media europea (20 dosi/ die per mille abitanti) e che registra un aumento del 6,6% rispetto ai valori registrati nel 2022. Le dosi erogate tramite il Servizio sanitario nazionale sono state 15,3 milioni per mille abitanti (+6,3%), per una spesa complessiva di 985,3 milioni di euro. A prescriverli sono soprattutto i medici di base e i pediatri di libera scelta: solo il 10%, invece, proviene invece dalle strutture sanitarie pubbliche.

Altro elemento da evidenziare è che c’è differenza tra Nord e Sud: nel Mezzogiorno, infatti, il consumo è maggiore e, di conseguenza, si spendono più soldi per gli antibiotici. Man mano che si sale lungo lo Stivale la percentuale tende gradualmente a calare. Nel complesso, comunque, quattro persone su dieci hanno ricevuto almeno una prescrizione di antibiotici nel corso dell’anno, dato che sale a sei su dieci per i bambini nella fascia d’età 2-5 anni e negli over-85. Numeri che non vanno più sottovalutati, perché ogni anno in Italia circa 12mila pazienti muoiono a causa di infezioni da batteri resistenti agli antibiotici.

I dati, emersi dall’ultimo rapporto di sorveglianza del fenomeno pubblicato dal Centro europeo per il controllo delle malattie (Ecdc) in occasione della Giornata europea per la lotta all’antibiotico-resistenza dello scorso 18 novembre, sono allarmanti. Già, in Europa ogni anno si verificano più di 670mila infezioni correlate all’antibiotico-resistenza, che provocano oltre 35mila decessi. Di questi, un terzo si verifica proprio nel Belpaese. Se le cose dovessero proseguire in questa maniera, senza un’opportuna inversione di tendenza, nel 2050 l’antibiotico-resistenza potrebbe diventare la prima causa di morte nel nostro Paese, superando tumori e malattie cardiovascolari.

Si tratta di una questione quanto mai seria, ancor più per gli italiani, che sono legati a un utilizzo per certi versi estremo dell’antibiotico. Tra il 2022 e il 2023 sono stati ricoverati 430mila pazienti che hanno contratto infezioni durante la degenza: l’8,2% del totale, contro una media Ue del 6,5%. Peggio ha fatto

In un recente rapporto dell’OMS sui rimedi contro le infezioni, sono stati identificati 32 antibiotici in fase di sviluppo, ma solo 12 di questi possono essere considerati veramente innovativi. Inoltre, soltanto quattro sono efficaci contro almeno un patogeno classificato come critico secondo la black list dell’OMS.

solamente il Portogallo con una percentuale dell’8,9%. Tuttavia, in quest’ultimo caso, come precisato dall’Aifa, il Paese «ha una popolazione più giovane della nostra e quindi meno suscettibile». Proprio relativamente all’abuso di antibiotici l’Aifa rafforza il suo messaggio nei confronti del nostro Paese: l’uso così massiccio di antimicrobici fa nascere super batteri resistenti agli stessi farmaci.

Gli antibiotici sono somministrati al 44,7% dei degenti, a fronte di una media europea del 33,7%. Il trend è in aumento anche nella popolazione generale: il 35,5% delle persone ha ricevuto almeno un antibiotico negli ultimi due anni, contro il 32,9% del periodo 2016-17. Arrivano, però, anche buone notizie nella non facile lotta ai super batteri. Da campioni di terreno potrebbe arrivare un’arma contro quella che rappresenta una vera e propria minaccia alla salute globale. Il merito è di un gruppo di scienziati canadesi che ha scoperto un microrganismo in grado di produrre naturalmente un nuovo potente antibiotico chiamato Lariocidina, promettente non solo in quanto ha un meccanismo d’azione del tutto nuovo, ma anche perché ai primi test di laboratorio è risultato efficace contro batteri resistenti e non tossico. Il lavoro condotto dagli esperti della McMaster University guidati da Gerry Wright è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Natura e lascia ben sperare. Dita incrociate, dopo anni di vuoto. Proprio così: l’ultima volta che una nuova classe di antibiotici ha raggiunto il mercato è stato quasi tre decenni fa. Tutto nasce con la Lariocidina, una molecola prodotta da un batterio del suolo chiamato Paenibacillus. Secondo Wright, questa sostanza, un peptide, rappresenta una forte speranza contro alcuni dei batteri più resistenti al mondo, poiché agisce in modo diverso rispetto agli antibiotici tradizionali. Infatti, la Lariocidina si lega direttamente al sistema di sintesi proteica dei batteri, impedendo loro di crescere e sopravvivere. La scoperta di questa nuova classe di antibiotici risponde a una necessità urgente di farmaci antimicrobici innovativi, visto che i microrganismi si stanno evolvendo per resistere ai trattamenti esistenti. Questo fenomeno è conosciuto come resistenza antimicrobica (AMR) ed è considerato una delle principali minacce alla salute pubblica globale dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Secondo uno studio americano un singolo chewing gum da un grammo può rilasciare in media cento frammenti di plastica microscopica. Le cicche sono pericolose per la salute?

LE MICROPLASTICHE SONO DAPPERTUTTO: ANCHE NELLE GOMME DA MASTICARE

Le microplastiche sono dei minuscoli pezzi di materiale plastico, solitamente inferiori ai cinque millimetri, i cui danni coinvolgono tanto l’ambiente quanto la salute.

In base alla loro origine, possono essere suddivise in due categorie principali: le primarie, rilasciate direttamente nell’ambiente sotto forma di piccole particelle e che rappresentano il 15-31% delle microplastiche presenti nell’oceano, e le secondarie, prodotte dalla degradazione degli oggetti di plastica più grandi, come buste di plastica, bottiglie o reti da pesca. Ciò che preoccupa gli esperti sono le conseguenze legate alle microplastiche. Nel 2017 l’Onu ha dichiarato che ci sono 51mila miliardi di particelle di microplastica nei mari, 500 volte più numerose di tutte le stelle della nostra galassia. E quelle che hanno invaso i mari possono essere inghiottite dai pesci e, attraverso la catena alimentare, arrivare direttamente nel nostro cibo. Ma il fenomeno è ben più grave, perché ormai le microplastiche si trovano dappertutto, anche negli alimenti e nelle bevande. Dalla birra al miele, fino alla acqua del rubinetto. Un recente studio italiano coordinato dai ricercatori dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli ha rilevato per la prima volta la loro presenza perfino

nelle placche aterosclerotiche, depositi di grasso nelle arterie pericolose per il cuore, fornendo così una prova inedita della loro pericolosità. Anche perché lo studio ha evidenziato come le placche aterosclerotiche da inquinamento siano più infiammate della norma, quindi più friabili ed esposte a rischio di rottura con un aumento almeno due volte più alto del rischio di infarti, ictus e mortalità rispetto a placche aterosclerotiche che non sono infarcite di plastica.

Un altro studio, invece, pubblicato su Science Direct, ha evidenziato la possibilità che le microplastiche arrivino anche agli occhi, con conseguenti possibili implicazioni per la salute oculare. Che la plastica possa essere ovunque è ormai un dato di fatto, come emerge dai sempre più numerosi e dettagliati studi sull’argomento. Pensate: l’ultima ricerca presentata all’American Chemical Society Spring Meeting e condotta dall’Università della California di Los Angeles (Ucla) le ha trovate persino nelle gomme da masticare. «Sono state trovate microplastiche nelle gomme naturali quando invece non avrebbero dovuto esserci - hanno spiegato i ricercatori -. Inoltre c’è un’altra fonte di microplastiche che non aveva nulla a che fare con la gomma, ad esempio una contaminazione di laboratorio di qualche forma». Dal lavoro degli esperti

è venuto a galla che «una singola gomma da un grammo può rilasciare in media circa cento frammenti di plastica microscopica, con alcuni casi che arrivano a oltre 600 pezzi».

Per arrivare a questa conclusione i ricercatori hanno analizzato dieci marche diverse di gomme da masticare, testandone sette per ciascun marchio. Secondo i risultati, la maggior parte dei chewing gum in commercio è realizzata con gomma sintetica, che contiene polimeri derivati dal petrolio per ottenere la caratteristica consistenza elastica. Tuttavia, come osserva Sanjay Mohanty, principale autrice dello studio, la plastica non è mai indicata come ingrediente sulla confezione. Più semplicemente (o astutamente) è utilizzata la definizione “a base di gomma”. «Non intendo creare certo allarmismo - sottolinea Mohanty - però nessuno specifica realmente che cosa contengono le gomme da masticare». In merito ai possibili effetti di questi frammenti ingeriti, Oliver Jones, docente di Chimica presso la Rmit University, ha spiegato che «le quantità di microplastiche rilasciate dalle gomme sono davvero minime e il rivestimento intestinale è abbastanza spesso e ben regolato. Qualsiasi particella ingerita probabilmente non avrà alcun impatto». Tuttavia, Jones aggiunge: «Quello delle microplastiche è un aspetto che andrebbe monitorato, ma non credo che al momento si debba smettere di masticare gomme. È comunque importante smaltirle in maniera corretta, gettandole in un cestino dopo l’uso». Insomma, no all’allarmismo immotivato ma un netto e grande sì al monitoraggio di una situazione che spaventa.

A preoccupare è soprattutto l’incontrollabilità del fenomeno e anche le conseguenze che non sono ancora chiaramente identificabili. A conclusione, citiamo anche un altro studio pubblicato sulla rivista Nature Medicine che porta le firme degli scienziati della University of New Mexico Health Sciences. In base a quanto scoperto dagli autori della ricerca, esisterebbe anche una correlazione tra la presenza di microplastiche e alcune condizioni di salute legate all’attività cerebrale, come ad esempio la demenza. Nonostante la lotta alla plastica intrapresa negli ultimi anni, l’impegno delle associazioni ambientaliste in ogni angolo del pianeta e il monito dell’Organizzazione Mondiale della Salute che invita a porre un freno all’aumento dell’inquinamento da plastica, la battaglia si prospetta lunga e la strada da percorrere ancora in salita. (D. E.).

La maggior parte dei chewing gum in commercio è realizzata con gomma sintetica, che contiene polimeri derivati dal petrolio per ottenere la caratteristica consistenza elastica. Tuttavia, come osserva Sanjay Mohanty, principale autrice dello studio, la plastica non è mai indicata come ingrediente sulla confezione. Più semplicemente (o astutamente) è utilizzata la definizione “a base di gomma”. A preoccupare è soprattutto l’incontrollabilità del fenomeno e anche le conseguenze che non sono ancora chiaramente identificabili. ©

NUOVE EVIDENZE SUL LEGAME TRA PIACERE ALIMENTARE E CONTROLLO DEL PESO

Scoperta una molecola chiave nella perdita di piacere per il cibo in obesità

La neurotensina regola il sistema di ricompensa cerebrale

di Carmen Paradiso

Un recente studio pubblicato sulla rivista Nature ha identificato un meccanismo neurobiologico che potrebbe spiegare la perdita del piacere nel consumo di alimenti ad alto contenuto calorico in condizioni di obesità. La ricerca, condotta da un gruppo di neuroscienziati dell’Università della California a Berkeley, ha evidenziato il ruolo di una molecola chiave, la neurotensina, nella regolazione del sistema di ricompensa cerebrale, che media le sensazioni di piacere legate al cibo.

Il sistema dopaminergico centrale è da tempo riconosciuto come una struttura fondamentale nella regolazione del comportamento alimentare. In particolare, la dopamina è coinvolta nella motivazione, nella gratificazione e nella ricompensa associata all’assunzione di cibo. Il nuovo studio ha evidenziato come la neurotensina, un neuropeptide presente in specifiche regioni del cervello, agisca direttamente su questo sistema, modulando l’attività neuronale tra l’area tegmentale ventrale (VTA) e il nucleo accumbens laterale (NAcLat).

In condizioni di equilibrio metabolico, la neurotensina potenzia la segnalazione dopaminergica, facilitando la risposta positiva del cervello agli alimenti ad alto contenuto calorico. Tuttavia, è stato osservato che, in presenza di una dieta ricca di grassi e zuccheri protratta nel tempo, i livelli cerebrali di neurotensina si riducono significativamente. L’abbassamento dei livelli di neurotensina compromette la normale attivazione del sistema dopaminergico. Questo fenomeno porta a una diminuzione della gratificazione derivante dal consumo di alimenti altamente calorici, alterando la motivazione alimentare. In particolare, la risposta neuronale agli stimoli legati al cibo si riduce in maniera significativa, facendo ipotizzare che la perdita del piacere alimentare in soggetti con obesità possa essere correlata a una disregolazione della neurotensina.

I dati raccolti indicano che questo processo non è necessariamente irreversibile. Infatti, attraverso il ritorno a un regime alimentare bilanciato, è stato osservato un ripristino dei livelli di neurotensina nelle aree cerebrali coinvolte nella ricompensa. In parallelo, si è registrato un aumento della sensibilità agli stimoli alimentari e una normalizzazione del comportamento alimentare. L’identificazione del ruolo centrale della neurotensina nella mediazione

del piacere alimentare in condizioni di obesità suggerisce nuove prospettive per la gestione del peso corporeo. Interventi farmacologici mirati al ripristino della funzione di questa molecola potrebbero rappresentare una strategia per modulare il comportamento alimentare in soggetti con ridotta risposta dopaminergica. In particolare, le terapie volte ad aumentare i livelli di neurotensina o a potenziare i suoi recettori nelle regioni cerebrali coinvolte nella gratificazione potrebbero migliorare la risposta al cibo e favorire una regolazione più fisiologica dell’assunzione calorica. Tali interventi potrebbero risultare utili in associazione a programmi nutrizionali e comportamentali, con l’obiettivo di migliorare l’efficacia dei trattamenti per l’obesità. Sebbene i risultati ottenuti siano promettenti, è necessario approfondire la comprensione dei meccanismi molecolari e cellulari coinvolti. Attualmente, non esistono trattamenti clinicamente approvati che agiscano direttamente sul sistema della neurotensina per la gestione dell’obesità.

Tuttavia, il crescente interesse per il ruolo dei neuropeptidi nella regolazione dell’appetito e del comportamento motivazionale sta portando allo sviluppo di nuove classi di farmaci sperimentali.

Ulteriori ricerche saranno fondamentali per validare i risultati in contesti clinici e valutare la sicurezza e l’efficacia di potenziali terapie basate sulla modulazione della neurotensina. In particolare, sarà importante determinare se l’effetto osservato sulla percezione del piacere alimentare sia replicabile in soggetti umani con differenti profili metabolici, genetici e comportamentali.

L’associazione tra obesità e alterazioni del sistema di ricompensa cerebrale è da tempo oggetto di studio. Le nuove evidenze sul ruolo della neurotensina offrono un importante contributo alla comprensione dei meccanismi neurobiologici che regolano il piacere alimentare. Il declino dei livelli di questa molecola, indotto da una dieta squilibrata, può contribuire alla perdita di gratificazione nel consumo di cibo, influenzando negativamente il comportamento alimentare. La possibilità di ripristinare la funzione della neurotensina e, con essa, il normale funzionamento del circuito della ricompensa, apre nuovi scenari nella prevenzione e nel trattamento dell’obesità. Questo approccio potrebbe aiutare a ristabilire un equilibrio tra desiderio, sazietà e regolazione del peso corporeo, promuovendo un rapporto più sano con il cibo.

In condizioni di equilibrio metabolico, la neurotensina potenzia la segnalazione dopaminergica, facilitando la risposta positiva del cervello agli alimenti ad alto contenuto calorico. Tuttavia, è stato osservato che, in presenza di una dieta ricca di grassi e zuccheri protratta nel tempo, i livelli cerebrali di neurotensina si riducono significativamente. L’abbassamento dei livelli di neurotensina compromette la normale attivazione del sistema dopaminergico. Questo fenomeno porta a una diminuzione della gratificazione derivante dal consumo di alimenti altamente calorici, alterando la motivazione alimentare.

© Rimma Bondarenko/shutterstock.com

CIBI FERMENTATI

STORIA, PROPRIETÀ E BENEFICI PER LA SALUTE

I cibi fermentati migliorano il microbiota e sostengono il corpo a ogni età ©

di Livia Galletti*

La storia degli esseri umani si intreccia da lunghissimo tempo con quella dei cibi fermentati. Le prime prove archeologiche che si conoscono dell’utilizzo di cibi fermentati nella dieta risalgono a circa 8-9000 anni fa, in Asia. A tutt’oggi, si stima che gli alimenti ottenuti tramite fermentazione coprano dal 5 al 40% di tutti gli alimenti consumati per tutta la popolazione mondiale.

Il processo di fermentazione è un meccanismo cellulare tramite il quale le cellule distruggono il glucosio per ottenere energia in assenza di ossigeno. Quando le cellule che compiono questo processo sono dei microbi e lo compiono con gli zuccheri degli alimenti, si ottengono i cibi fermentati. Il vino e la birra sono ottenuti tramite la fermentazione, ma anche la lievitazione del pane. Quando si parla di cibi fermentati, però, ci si riferisce a quegli alimenti che non vengono cotti dopo il processo e che non contengono alcool.

Nella nostra tradizione alimentare troviamo yogurt, formaggi, verdure in salamoia, crauti e, negli ultimi anni si sono aggiunti kefir, skyr, kimchi, kombutcha. Yogurt e kefir sono ottenuti dalla fermentazione del latte, che può essere di mucca, capra o pecora. Nelle steppe dell’Asia centrale esistono prodotti simili al kefir che derivano dalla fermentazione di latte di cavalla (koumis) o di cammello (shoubat) e che hanno una lunghissima storia. Anche i formaggi - lo skyr è considerato un formaggio - sono prodotti dalla fermentazione di diversi tipi di latte.

Fermentare il latte ha prodotto numerosi vantaggi per quelle popolazioni che hanno iniziato a farlo, probabilmente per scoperta accidentale, nell’Asia di migliaia di anni fa. Questa pratica ha consentito di estendere la durata della possibilità del consumo del latte fermentato rispetto a quello appena munto, basta controllare le date di scadenza del latte fresco e dello yogurt al supermercato per averne conferma. Inoltre, trasportare una caciotta, a piedi o a cavallo, è più agevole che spostare la quantità di latte necessaria per produrla.

Alcuni alimenti, poi, se non vengono prima fermentati, hanno un sapore troppo

* Componente Comitato Centrale FNOB

I cibi fermentati, o cibi probiotici, come vengono spesso indicati nella letteratura scientifica a riguardo, posseggono numerosi benefici per la salute. Soprattutto per quanto riguarda yogurt, kefir, skyr, verdure fermentate, sono fonti di Lattobacilli, dei batteri che influenzano positivamente i microbioti del corpo umano.

amaro e non si riuscirebbe a mangiarli, per esempio le olive, che, fresche e crude, contengono una sostanza amarissima. La grande tradizione del bacino del mediterraneo delle olive in salamoia è in realtà una tradizione di fermentazione, perché la conservazione in acqua e sale degli ortaggi innesca questo processo microbiologico.

Fermentare le verdure, come per il latte, permette di estenderne la durata nel tempo, conservando specie vegetali stagionali anche per altri periodi dell’anno. Inoltre, l’azione dei microbi fermentativi, rende disponibili all’organismo umano sostanze che non lo sarebbero senza la loro attività, per esempio i famosi polifenoli.

I cibi fermentati, o cibi probiotici, come vengono spesso indicati nella letteratura scientifica a riguardo, posseggono numerosi benefici per la salute. Soprattutto per quanto riguarda yogurt, kefir, skyr, verdure fermentate, sono fonti di Lattobacilli, dei batteri che influenzano positivamente i microbioti del corpo umano. I microbioti sono ecosistemi di microbi (batteri, funghi e virus) che vivono nei corpi degli esseri umani e sono indispensabili per la salute, così lo stile di vita di ogni individuo è indispensabile per la loro.

Oltre a produrre alcune molecole indispensabili per la sopravvivenza degli esseri umani, per esempio la vitamina K, i microbi generano altre sostanze che modulano diversi aspetti della salute. Il tono dell’umore, grazie alla produzione di serotonina, il mantenimento delle funzioni immunitarie, neurologiche, metaboliche, tramite la creazione di acidi grassi a corta catena, sono due importantissimi esempi di come i microbioti rivestano un ruolo centrale nel mantenimento di una buona salute.

Per quanto riguarda la sana longevità, argomento di grande interesse anche per le ricerche scientifiche, le ultime scoperte che riguardano i cibi probiotici mostrano che il loro consumo regolare supporta la protezione del sistema nervoso centrale durante il processo dell’invecchiamento.

Pertanto, l’inserimento regolare e quotidiano di verdure fermentate, yogurt, kefir e skyr nella propria alimentazione, è una buona abitudine in termini di prevenzione e tutela della salute a ogni età.

Da scarto agricolo a risorsa preziosa: nuove tecnologie e nanotecnologia per valorizzare i gusci di pistacchio in ottica sostenibile e circolare © New Africa/shutterstock.com

di Carla Cimmino

Irifiuti agricoli sono una sfida ambientale significativa a livello globale, contribuiscono sia a salvaguardarci dall’inquinamento, che dall’esaurimento delle risorse. Non dimentichiamo però che, questi sottoprodotti spesso sono un immenso potenziale economico e industriale, attualmente non utilizzato come si dovrebbe.

Infatti, i gusci di pistacchio sono una risorsa importante ma poco considerata, in Iran se ne producono annualmente notevoli quantità, ma purtroppo vengono smaltiti in modo improprio, ciò provoca conseguenze ambientali: 1) inquinamento del suolo; 2) inquinamento dell’acqua; 3) perdita di materie prime preziose. Tutto ciò mette in risalto chè urgono strategie di gestione dei rifiuti sostenibili.

Il Potenziale Bioattivo dei Gusci di Pistacchio

I gusci di pistacchio sono ricchi di composti bioattivi (polifenoli, flavonoidi e antiossidanti), noti per le loro proprietà antinfiammatorie, antibatteriche e antiossidanti, che li rendono molto preziosi per applicazioni farmaceutiche e cosmetiche. Nonostante siano ricchi di innumerevoli e promettenti proprietà, l’utilizzo a livello industriale di questi è ancora scarso anche nei paesi produttori, come l’Iran.

Tecniche Avanzate di Estrazione per Massimizzare il Recupero

L’utilizzo efficace dei gusci di pistacchio dipende molto dai metodi che vengono utilizzati, per estrarre i composti bioattivi in essi contenuti, proprio l’evoluzione delle tecnologie di estrazione presentano soluzioni sostenibili, al fine di rendere al massimo il recupero di questi.

Le Tecniche come: 1) l’estrazione con fluidi supercritici (SFE), metodo ecologico, che per estrarre composti bioattivi con elevata purezza, utilizza anidride carbonica supercritica, riduce così l’uso di solventi tossici; 2) l’estrazione assistita da ultrasuoni (UAE), per garantire una migliore estrazione, utilizza

onde ultrasoniche, aumentando l’efficienza e diminuendo il consumo energetico. Entrambe le metodologie, migliorano la resa e la purezza dei composti bioattivi, e al contempo riducono l’impatto ambientale. Questi tipi di approcci innovativi, da una parte aumentano l’efficienza nell’utilizzo delle risorse, dall’altra si allineano con gli obiettivi globali di sostenibilità, minimizzando i rifiuti e promuovendo lo sviluppo di prodotti naturali ed ecocompatibili.

Il Ruolo Trasformativo della Nanotecnologia Attraverso alcuni studi approfonditi, si è visto come le tecnologie avanzate, tra queste soprattutto la nanotecnologia, offrano altre opportunità per migliorare l’efficacia e la biodisponibilità di tutti quelli che sono i composti bioattivi derivati dai gusci di pistacchio. Le nanoparticelle infatti hanno migliorato significativamente l’assorbimento, la stabilità e la funzionalità, per questo sono utilizzate per i cosmetici. La nanotecnologia, inoltre, offre una vastità di sistemi protettivi, infatti l’incapsulamento in nanoparticelle, aiuta a proteggere i composti bioattivi dalla degradazione, mentre, i nanocarriers (es. micelle e liposomi) migliorano la solubilità e l’assorbimento cellulare, potenziando gli effetti dei cosmetici con il rilascio controllato e prolungato dei composti bioattivi, questo risulta essere un vantaggio significativo per

I gusci di pistacchio sono ricchi di composti bioattivi (polifenoli, flavonoidi e antiossidanti), noti per le loro proprietà antinfiammatorie, antibatteriche e antiossidanti, che li rendono molto preziosi per applicazioni farmaceutiche e cosmetiche. Nonostante siano ricchi di innumerevoli e promettenti proprietà, l’utilizzo a livello industriale di questi è ancora scarso anche nei paesi produttori, come l’Iran.

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Dusan Petkovic/shutterstock.com

© KPixMining/shutterstock.com

Per utilizzare appieno il potenziale dei gusci di pistacchio, la ricerca futura dovrebbe concentrarsi sullo sviluppo di metodi di estrazione scalabili ed economicamente vantaggiosi, così come studi tossicologici e clinici approfonditi, creazione di quadri normativi internazionali armonizzati ed esplorazione di applicazioni più ampie, inclusa la produzione di energia rinnovabile e lo sviluppo di nutraceutici. © PeopleImages.comYuri A/shutterstock.com

le applicazioni dei prodotti.

L’integrazione della nanotecnologia nella lavorazione dei gusci di pistacchio, favorisce il mantenimento degli obiettivi di sostenibilità, riduce la dipendenza da sostanze chimiche sintetiche e da risorse non rinnovabili, contribuendo alla riduzione delle emissioni di carbonio e alla conservazione delle risorse naturali.

Integrazione nell’Economia Circolare e Benefici Ambientali

L’incorporazione dei gusci di pistacchio in modelli di economia circolare è un’opportunità significativa, per affrontare al contempo sfide ambientali ed economiche, infatti il riutilizzo può essere sfruttato per innumerevoli applicazioni.

Gli estratti dei gusci hanno evidenziato una notevole efficacia contro batteri dannosi, per questo, ideali per l’uso in conservanti naturali e prodotti per la cura personale, ma possono essere trasformati in fertilizzanti organici oppure convertiti in biogas, fornendo soluzioni sostenibili per l’energia e l’agricoltura. Anche le fibre e i composti in essi presenti, possono essere utilizzati per creare materiali di imballaggio biodegradabili, diminuendo l’utilizzo di plastica.

Questo approccio non solo riduce l’onere ambientale dei rifiuti agricoli, ma crea anche opportunità economiche nelle comunità rurali e agricole. Il potenziale economico dell’utilizzo dei gusci di pistacchio sta nella sua capacità intrinseca, di trasformare un sottoprodotto a basso valore in prodotti ad alto valore, in linea alla crescente domanda di alternative sostenibili e naturali per i mer-

cati globali, ed è proprio il settore cosmetico, che rappresenta un mercato promettente per i composti bioattivi derivanti dai gusci.

A questo si aggiunge la crescente preferenza dei consumatori per prodotti biologici ed ecocompatibili, infatti gli antiossidanti, i flavonoidi e i polifenoli naturali estratti sono un enorme vantaggio, di cui potrebbe beneficare anche l’industria farmaceutica, soprattutto per lo sviluppo di trattamenti topici destinati a particolari condizioni cutanee.

Conclusioni e Prospettive Future

I composti bioattivi identificati, uniti alle avanzate tecniche di estrazione e all’applicazione della nanotecnologia, offrono benefici sia ambientali che economici. Per utilizzare appieno il potenziale dei gusci di pistacchio, la ricerca futura dovrebbe concentrarsi sullo sviluppo di metodi di estrazione scalabili ed economicamente vantaggiosi, così come studi tossicologici e clinici approfonditi, creazione di quadri normativi internazionali armonizzati ed esplorazione di applicazioni più ampie, inclusa la produzione di energia rinnovabile e lo sviluppo di nutraceutici.

In definitiva, la trasformazione dei gusci di pistacchio da rifiuto a risorsa strategica rappresenta un modello per la valorizzazione dei sottoprodotti agricoli, in linea con i principi dell’economia circolare e con l’obiettivo di uno sviluppo sostenibile.

Systematic review of pistachio shell waste: Environmental applications, sustainable approaches, and nanotechnology insights di Nastaran Marzban Panah Maklavani, Mahdi Maskani, Saeed Karimi
Bibliografia

Nel panorama delle recenti innovazioni tricologiche, uno studio condotto presso l’Università del Texas (UVA) ha rivoluzionato la comprensione della rigenerazione follicolare identificando una nuova popolazione di cellule staminali localizzate nella parte superiore e centrale del follicolo pilifero. Questa scoperta, pubblicata su The Journal of Clinical Investigation, cambia radicalmente l’approccio scientifico e terapeutico verso la caduta dei capelli, mettendo in discussione il tradizionale paradigma che considerava le cellule del bulge, un rigonfiamento situato nella parte mediana del follicolo, come unica fonte di cellule staminali della rigenerazione capillare.

Attraverso avanzate tecniche di tracciamento genetico, il gruppo di ricerca ha individuato cellule staminali positive al fattore di trascrizione Krox20 (anche conosciuto come EGR2), localizzate nelle sezioni superiori del follicolo. Queste cellule si sono rivelate capaci non solo di dare origine alle classiche cellule staminali del bulge (CD34+, K15+), ma anche di partecipare direttamente alla formazione del fusto pilifero, fin dalle prime fasi dello sviluppo. È stato inoltre dimostrato che la deplezione di questa popolazione cellulare comporta un arresto immediato della crescita capillare, associato alla miniaturizzazione e perdita funzionale dei follicoli, contraddicendo

il modello gerarchico dominante fino a oggi.

L’aspetto più promettente della scoperta risiede nel fatto che queste cellule staminali superiori permangono nel cuoio capelluto anche in condizioni di calvizie e alopecia androgenetica, seppur in stato di quiescenza. Tale evidenza apre una nuova strada terapeutica per la riattivazione funzionale di cellule staminali dormienti, piuttosto che limitarsi alla stimolazione delle cellule già attive del bulge.

L’approccio emergente potrebbe prevedere, dunque, l’impiego di molecole bioattive in grado di modulare epigeneticamente Krox20, tecnologie di delivery mirate a raggiungere la parte

di Biancamaria Mancini

Questa scoperta segna un cambio di paradigma nella biologia del follicolo pilifero La crescita del capello dipende da cellule staminali situate nella parte superiore e media non nel bulge. Una nuova frontiera si apre nella terapia della calvizie.

NUOVE CELLULE STAMINALI NEL CAPELLO

UNA SCOPERTA CHE POTREBBE RIVOLUZIONARE

IL TRATTAMENTO DELL’ALOPECIA

superiore del follicolo, e l’utilizzo di composti postbiotici e attivi fermentati che dialogano specificamente con questa nuova nicchia staminale.

Come biologa esperta in tricologia, ritengo questa scoperta di estrema rilevanza, poiché impone una revisione dei tradizionali target terapeutici. Infatti, tale popolazione staminale superiore non solo rappresenta una riserva cellulare per il bulge, ma possiede una plasticità straordinaria che le consente di generare altre strutture follicolari come la guaina esterna e la ghiandola sebacea. Questo implica una visione del follicolo pilifero come organo dinamico e integrato, in cui la rigenerazione capillare dipende da interazioni

costanti tra i diversi comparti staminali, l’ambiente dermico circostante e il microbiota cutaneo.

Un aspetto correlato, ma non meno significativo, riguarda il ruolo delle cellule Krox20+ nella qualità strutturale e pigmentaria del capello. La loro perdita o riduzione precoce potrebbe essere correlata all’ingrigimento precoce e all’assottigliamento progressivo dei capelli, come suggerito dallo stretto legame che queste cellule hanno con la papilla dermica, la matrice proliferativa e i melanociti follicolari. Pertanto, i trattamenti futuri non dovrebbero limitarsi a stimolare la ricrescita quantitativa dei capelli, ma dovrebbero puntare anche a migliorarne la qualità strutturale, la pigmentazione e la vitalità.

A livello diagnostico, la possibilità di identificare e monitorare queste cellule tramite biomarcatori come Krox20, mediante tecnologie avanzate di imaging tricologico, potrebbe aprire scenari personalizzati per la valutazione della capacità rigenerativa residua nei pazienti. Si tratta di una vera e propria frontiera interdisciplinare che integra medicina rigenerativa, biologia molecolare e cosmetologia avanzata.

In termini applicativi, la formulazione di trattamenti cosmetici e clinici innovativi dovrà prevedere sistemi in grado di penetrare selettivamente nella porzione superiore del follicolo, modulando la micro-nicchia cellulare e stimolando la funzionalità delle cellule staminali Krox20+.

Attivi biotecnologici avanzati, carrier intelligenti e molecole epigenetiche saranno i protagonisti delle future strategie terapeutiche, in grado di ripristinare il corretto dialogo tra le cellule staminali follicolari e l’ambiente cutaneo circostante.

L’aspetto più promettente della scoperta risiede nel fatto che queste cellule staminali superiori permangono nel cuoio capelluto anche in condizioni di calvizie e alopecia androgenetica, seppur in stato di quiescenza. Tale evidenza apre una nuova strada terapeutica per la riattivazione funzionale di cellule staminali dormienti, piuttosto che limitarsi alla stimolazione delle cellule già attive del bulge.

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CAPELLO RIVOLUZIONARE

In conclusione, questa scoperta segna un passaggio evolutivo nella tricologia moderna, imponendo un cambio di paradigma che vede il follicolo non più come una struttura unidirezionale, ma come una complessa rete di interazioni cellulari e molecolari, con enormi potenzialità terapeutiche e diagnostiche da esplorare. La riattivazione mirata delle cellule staminali superiori apre dunque la strada a nuove prospettive concrete per contrastare efficacemente la caduta dei capelli.

Bibliografia

Ghotbi E. et al., The transcription factor KROX20 marks epithelial stem cell progenitors for hair follicle formation, Journal of Clinical Investigation, October 2024. NIH Grant Support: R01CA166593 and R01EY033344.

Un nuovo studio genetico svela che l’evoluzione dell’uomo moderno è frutto dell’unione di due popolazioni, separate per oltre un milione di anni e riunitesi circa 300.000 anni fa © U.P.SD/shutterstock.com

ALLE ORIGINI DELL’UMANITÀ DUE POPOLAZIONI DIVERSE

L’evoluzione dell’Homo sapiens si arricchisce di un nuovo, sorprendente capitolo. Secondo una ricerca pubblicata su Nature Genetics da un team dell’Università di Cambridge, le origini dell’essere umano moderno non derivano da un’unica popolazione ancestrale, bensì dalla fusione di due linee evolutive distinte, che si erano separate circa 1,5 milioni di anni fa per poi ricongiungersi intorno a 300.000 anni fa in Africa. Il lavoro, guidato da Richard Durbin, Trevor Cousins e Aylwyn Scally, mette in discussione il paradigma tradizionale dell’evoluzione lineare, proponendo una visione più complessa e ramificata della nostra storia genetica.

Lo studio si è basato sui dati del progetto internazionale 1000 Genomes Project, che ha raccolto e analizzato il genoma di oltre 2.500 individui appartenenti a 26 popolazioni diverse distribuite in Africa, Asia, Europa e Americhe. I ricercatori hanno sviluppato un sofisticato algoritmo in grado di simulare eventi di separazione, migrazione e ricombinazione genetica tra popolazioni antiche, confrontando milioni di varianti genetiche. I risultati indicano che la maggior parte del DNA degli esseri umani moderni, circa l’80%, deriva da una popolazione ancestrale che ha subito un collo di bottiglia demografico poco dopo la separazione iniziale.

Questa drastica riduzione della popolazione ha probabilmente facilitato la fissazione di alcune mutazioni chiave, contribuendo all’emergere di caratteristiche specifiche degli Homo sapiens. Secondo gli autori, questa popolazione sarebbe anche la linea madre da cui si sarebbero poi differenziati i Neanderthal e i Denisoviani. Il restante 20% del nostro genoma, invece, proviene da un secondo gruppo che si è evoluto separatamente per più di un milione di anni, prima di mescolarsi nuovamente con la prima popolazione.

La nostra storia evolutiva è tutt’altro che lineare: è fatta di intrecci, separazioni e ritorni, un vero mosaico genetico. Il fatto che oggi possiamo ricostruire eventi risalenti a centinaia di migliaia di anni fa semplicemente leggendo il nostro DNA è un segno del potere della genomica moderna.

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e sulle funzioni cognitive complesse. Alcuni di questi geni sono coinvolti nella trasmissione sinaptica e nei meccanismi di elaborazione delle informazioni, e potrebbero aver influenzato l’evoluzione di capacità cognitive superiori.

Tuttavia, molti di questi geni sono situati in regioni del DNA distanti da aree regolatorie attive, suggerendo una parziale incompatibilità con il resto del genoma umano. Questo avrebbe comportato una pressione selettiva che, nel tempo, ha portato all’eliminazione di parte di questo contributo genetico, lasciando sopravvivere solo le varianti più favorevoli.

«Quello che scopriamo è che la nostra storia evolutiva è tutt’altro che lineare: è fatta di intrecci, separazioni e ritorni, un vero mosaico genetico», afferma Scally. «Il fatto che oggi possiamo ricostruire eventi risalenti a centinaia di migliaia di anni fa semplicemente leggendo il nostro DNA è un segno del potere della genomica moderna.» Questo studio non solo riformula la nostra comprensione delle origini umane, ma apre nuove domande sull’evoluzione delle popolazioni moderne.

In che misura eventi simili di fusione genetica si sono verificati anche in epoche più recenti? Qual è il ruolo delle migrazioni e degli incroci interpopolazionali nella definizione delle caratteristiche umane odierne? Con l’avvento di tecnologie sempre più avanzate di sequenziamento e modellazione genetica, i prossimi anni potrebbero portare a scoperte ancora più radicali. «Non è solo una questione di ricostruire il passato – dice Durbin – ma anche di capire come la diversità genetica abbia plasmato l’adattabilità e la resilienza della nostra specie. La storia è scritta nel DNA, ma solo ora stiamo imparando a leggerla davvero.» (C. P.).

I candidati più plausibili per rappresentare queste due linee ancestrali sono Homo erectus e Homo heidelbergensis, entrambi presenti in Africa in quel periodo e noti per aver avuto una distribuzione geografica ampia e per essere stati precursori di più linee umane. Oltre alla distribuzione quantitativa del contributo genetico, lo studio ha rivelato aspetti qualitativi di grande interesse. I geni derivati dal gruppo minoritario – che rappresenta circa un quinto del nostro patrimonio genetico – sembrano avere avuto un impatto particolare sullo sviluppo del cervello © IR Stone/shutterstock.com

Negli ultimi quattro weekend di marzo, un gruppo di aspiranti nutrizionisti ha avuto l’opportunità di partecipare ad Agrigento presso la sede del Provider ISORS, a un corso di formazione eccezionale condotto dai Dottori Biologi Nutrizionisti, Pillitteri Matteo e Incorvaia Dario. Questi professionisti, noti per la loro bravura, passione e dedizione, hanno condiviso la loro vasta esperienza con noi, aiutandoci a comprendere meglio il mondo della nutrizione e le sue applicazioni pratiche attraverso questo corso teorico-pratico.

Il corso ha trattato diversi temi cruciali della nutrizione, affrontando casi patologici con esperti riconosciuti nel settore. La prima settimana è stata dedicata all’ambito dell’immenso mondo delle malattie gastrointestinali, con un intervento del Dott. Alessandro Cantone, gastroenterologo, che ha esplorato le patologie legate all’intestino e il loro legame con una corretta alimentazione. Questa sessione ha fornito una base solida per comprendere l’importanza della nutrizione nella salute digestiva, un aspetto fondamentale nella pratica quotidiana di un nutrizionista.

Il giorno successivo, abbiamo approfondito l’aspetto delle misure antropometriche con il Biologo nutrizionista Dr. Marcello Speciale. Questa lezione pratica ci ha permesso di familiarizzare con gli strumenti e le tecniche necessarie per una prima visita all’interno di uno studio nutrizionale, utilizzando tutte le strumentazioni richieste per svolgere il lavoro in modo professionale. L’approccio pratico è stato altamente valorizzato, consentendoci di applicare le conoscenze teoriche acquisite in un contesto reale.

In seguito, abbiamo avuto il privilegio di ascoltare la Dott.ssa Concetta Sala, pediatra, e la psicologa Angela Bruno, che hanno trattato tematiche legate alla pediatria e ai disturbi del comportamento alimentare (DCA). Questi incontri sono stati fondamentali per comprendere le implicazioni psicologiche e sociali della nutrizione, specialmente nei più giovani, e hanno messo in evidenza l’importanza di un approccio multidisciplinare nella cura dei pazienti.

Infine, il corso ha incluso una sessione sull’ambito oncologico condotta dall’oncologo Dr. Raimondo Scalia. Questa parte del programma ha trattato un tema attuale e sempre più rilevante: il collegamento tra alimentazio-

ne, prevenzione delle malattie oncologiche e della sarcopenia. Grazie a questi insegnamenti, abbiamo potuto esplorare come le scelte alimentari possano influenzare la salute a lungo termine e il benessere generale.

La formazione ricevuta rappresenta un trampolino di lancio verso un futuro di successi nel campo della nutrizione. A tutti i colleghi Biologi che desiderano intraprendere la professione di nutrizionisti, alla luce della nostra esperienza, consigliamo vivamente di intraprendere corsi di formazione teorico-pratici, coordinati da colleghi di provata esperienza e competenza.

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Un aspetto distintivo di questo corso è stata la sua impronta pratica. Abbiamo messo in atto tutte le conoscenze teoriche, elaborando piani nutrizionali in modo pratico nelle principali patologie di riscontro nello studio di nutrizione. Tuttavia, come nuovi nutrizionisti desiderosi di affermarci nel mondo del lavoro, sentiamo l’importanza di avere l’opportunità di applicare concretamente le nostre competenze affiancando professionisti della nutrizione. Questa esperienza diretta con pazienti reali sarebbe fondamentale per la nostra crescita professionale.

Desideriamo esprimere un sincero ringraziamento alla FNOB per aver finanziato questo corso e all’Ordine dei Biologi della Sicilia per il patrocinio, che si è rivelato estremamente utile per l’avvio della nostra carriera. Siamo entusiasti di portare avanti ciò che abbiamo appreso e di continuare a crescere nel nostro percorso professionale, sempre guidati dalla passione e dalla dedizione per il nostro lavoro. La formazione ricevuta rappresenta un trampolino di lancio verso un futuro di successi nel campo della nutrizione. A tutti i colleghi Biologi che desiderano intraprendere la professione di nutrizionisti, alla luce della nostra esperienza, consigliamo vivamente di intraprendere corsi di formazione teorico-pratici, coordinati da colleghi di provata esperienza e competenza.

Direttori del corso: Matteo Pillitteri, Dario Incorvaia

In foto: Airò Farulla Valentina, Buttigè Sharon Esmeralda, Colletto Francesco, Cusimano Martina, Esposito Alice, Gelo Roberta, Gurgiullo Lucia, Iacono Roberta, La Lisa Alessandra, Leoci Chiara, Licciardo Chiara, Pavone Silvia, Piccione Roberta, Pisciotta Giusi, Puma Giuseppe, Russo Federica, Sammartano Alessandro, Tandurella Davide Giacomo, Zappalà Giuliana.

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PROTAGONISTI

SVOLTA VERDE NEL SETTORE RESIDENZIALE

L’attenzione per le prestazioni energetiche delle abitazioni aumenta nel corso del 2024 (+4%) con un forte incremento nelle transazioni per le categorie meno energivore

Il settore immobiliare italiano ha finalmente invertito la rotta lo scorso anno, segnando una ripresa incoraggiante confermata dal “Report Fiaip Monitora Italia”, elaborato per il dodicesimo anno consecutivo dal Centro Studi della Federazione Italiana Agenti Immobiliari Professionale, su un campione di oltre 600 agenti del Real Estate, in collaborazione con Enea ed I-Com.

È stato presentato da Francesco La Commare e altri esperti, con un approfondimento su Gorizia Capitale Europea della Cultura 2025. L’aumento delle compravendite residenziali e, soprattutto, il boom delle prime case, sono il segnale di un mercato che ritrova slancio. Le previsioni per il 2025 diventano ancora più rosee, alimentate dalla prospettiva di tassi d’interesse sui mutui in calo. Tuttavia, di Gianpaolo Palazzo

L’efficienza energetica è diventata un tema centrale: l’apprezzamento per la qualità è aumentato del 4%, con un forte ampliamento nelle vendite di trilocali in classi C, D ed E. L’Ape (Attestato di Prestazione Energetica) è sempre più considerato uno strumento utile, e gli stabili indipendenti meno energivori hanno visto un aumento delle acquisizioni. Anche nel lusso, quelli in classe A1 hanno superato i fratelli in classe G. L’eccellenza e l’attenzione agli sprechi ora sono una priorità per gli acquirenti.

è importante considerare che tali proiezioni sono soggette a potenziali variabili macroeconomiche e geopolitiche le quali potrebbero influenzare l’andamento del mercato.

Nel dettaglio, il 2024 ha visto un +1,5% negli acquisti, con un notevole +5% per le abitazioni principali, andamento favorito dal calo dell’inflazione e dalla politica monetaria della Banca Centrale Europea, che ha reso il credito più accessibile, specialmente per i mutui sulla prima casa, le cui richieste sono aumentate del 10%. Sono state stimate circa 720mila transazioni residenziali, con il trilocale semicentrale usato come tipologia più richiesta. I valori di mercato sono cresciuti in media del 3%, con punte nelle grandi città come Torino (+3,1%), Roma (+4%), Napoli (+2,3%) e Milano (+1,6%). «I dati che emergono confermano ancora una volta come le sfide ambiziose della decarbonizzazione del settore immobiliare richiedano uno sforzo coordinato e sinergico tra iniziativa privata e supporto pubblico.

Gli operatori di mercato, sia dal lato della domanda sia dell’offerta, appaiono sempre più capaci - dichiara Ilaria Bertini, Direttrice del dipartimento Enea di efficienza energetica - di quantificare in maniera adeguata il valore aggiunto conferito a un immobile residenziale da prestazioni energetiche. Questo processo dev’essere favorito e rafforzato attraverso lo svolgimento di un ruolo guida da parte delle istituzioni. Ruolo che, dopo le profonde modifiche apportate ai meccanismi d’incentivazione delle detrazioni fiscali, comprende la necessità di attuare misure di promozione dell’efficienza energetica efficaci dal punto di vista degli obiettivi energetici e climatici, ma anche sostenibili dal punto di vista finanziario ed eque rispetto alle disparità socioeconomiche».

Il mercato delle locazioni abitative ha registrato un aumento del 2% nei contratti e un rafforzamento medio dei canoni del 7%, spinto dagli affitti brevi e transitori, con i contratti a canone concordato per bilocali e trilocali in zone centrali e semicentrali i più richiesti. Per l’uso diverso dall’abitativo, si è osservata una lieve flessione, ad eccezione delle locazioni che hanno finalmente mostrato un andamento positivo.

L’efficienza energetica è diventata un tema centrale: l’apprezzamento per la qualità è aumentato del 4%, con un forte ampliamento nelle vendite di trilocali in classi C, D ed E.

L’Ape (Attestato di Prestazione Energetica) è sempre più considerato uno strumento utile, e gli stabili indipendenti meno energivori hanno visto un aumento delle acquisizioni. Anche nel lusso, quelli in classe A1 hanno superato i fratelli in classe G. L’eccellenza e l’attenzione agli sprechi ora sono una priorità per gli acquirenti.

Gli immobili nuovi venduti sono, per lo più, in A4, mentre quelli ristrutturati in B. Nonostante l’impatto positivo del Superbonus 110%, la conoscenza degli incentivi per la riqualificazione rimane limitata. Nel 2025, le previsioni sui fabbricati ad uso abitativo sono ottimistiche, con una crescita attesa del 5% nelle transazioni e del 2% nei valori, grazie ad una moneta, si spera, più stabile e al desiderio di migliori requisiti. Anche gli affitti sono previsti in allargamento. Per l’uso diverso dall’abitativo si calcola un progresso più contenuto, ma positivo.

«Anche quest’anno - commenta Franco D’Amore, Vicepresidente I-Com - si possono riscontrare segnali incoraggianti rispetto a come il mercato immobiliare risponde al tema dell’efficientamento energetico degli edifici. Molti indicatori rivelano un aumento dell’attenzione verso questo tema da parte degli acquirenti e dei venditori. In alcuni segmenti - come il nuovo, il ristrutturato e gli edifici nelle zone di pregio - gli edifici compravenduti nelle classi energetiche più performanti guadagnano costantemente fette di mercato. Rimangono, però, segnali di un miglioramento incrementale, lontani dal cambio di passo sulle ristrutturazioni energetiche degli edifici previste dalla Direttiva sulla Prestazione Energetica degli Edifici del 2024». Altre richieste provengono da Gian Battista Baccarini Presidente Nazionale Fiaip: «La fotografia del mercato immobiliare ci indica tre priorità: riallargare la platea dei destinatari del Fondo di Garanzia Consap, accelerare la definizione di un Piano Nazionale sulla Casa assente da oltre 70 anni e definire un sistema ordinato di incentivi fiscali edilizi strutturali. Queste misure consentiranno di agevolare l’acquisto di alloggi meno energivori e a costi accessibili, favorendo la dinamicità virtuosa del mercato immobiliare, anche in ottica ‘green’, con conseguenze positive per l’intero sistema economico, sociale e occupazionale nazionale».

QUALITÀ DELL’ARIA SUCCESSI NELL’INDUSTRIA STALLO NELLA MOBILITÀ

UNonostante un calo nelle emissioni di gas serra del 26% dal 1990 i trasporti continuano a crescere, superando i livelli del ‘90 e vanificando, in parte, gli sforzi ©

n sospiro di sollievo e un campanello d’allarme. Risuonano grazie all’ultima fotografia scattata dall’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) alle emissioni di gas serra in Italia nel 2023. Da un lato registriamo un incoraggiante calo del 26% rispetto ai livelli del 1990 e un significativo -6.8% se si guarda all’anno precedente, raggiungendo un totale di 385 milioni di tonnellate di CO2 equivalente, ma dall’altro il settore dei trasporti continua a rappresentare una spina nel fianco della transizione ecologica.

L’onda verde nei settori industriali ha prodotto risultati tangibili, grazie a una maggiore efficienza energetica alimentata da fonti rinnovabili e al progressivo abbandono di combustibili ad alto contenuto di carbonio. La riduzione delle emissioni nelle aziende manifatturiere e delle costruzioni (-45,2%) ed energetiche (-47,3%) testimonia un cambio di passo significativo. Questo calo è ancora più rilevante se si considera il contemporaneo aumento nella produzione totale di energia (da 216,9 a 264,76 TWh) e nei consumi (da 218,7 a 287,4 TWh), suggerendo una decarbonizzazione in atto nel sistema nazionale.

Tuttavia, il quadro complessivo è tutt’altro che idilliaco. I trasporti, con una dipendenza da quello su gomma superiore al 90%, si confermano il principale freno alla transizione, evidenziando la necessità d’interventi urgenti per promuovere l’elettrificazione, il tpl e la mobilità sostenibile. I dati di questo comparto hanno continuato la loro inesorabile ascesa, superando del 7% i livelli di 35 anni fa. Il risultato è allarmante e indica una persistente difficoltà nel tradurre le direttive europee in azioni concrete. I livelli emissivi di macchine, autobus, tir e altro ancora si sono pericolosamente attestati sui valori del 2014, determinando uno scavalcamento del tetto massimo consentito.

Tale situazione critica si riflette sul rispetto degli obiettivi nazionali stabiliti dal regolamento europeo “Effort Sharing (ESR)”, che impone una riduzione del 43,7% rispetto al 2005 per quanto prodotto da trasporti, residenziale (riscaldamento), agricoltura, rifiuti e industria non-ETS (Emission Trading System sistema di scambio delle emissioni). La mancata flessione ha, inesorabilmente, avvicinato l’Italia ai limiti, fino al loro superamento, registrato per il terzo anno consecutivo con un’eccedenza di 8,2 milioni di tonnellate di CO2 equivalente, dopo quello del 2021 (5.5 MtCO2 eq) e del 2022 (5.4 MtCO2 eq), mettendo a rischio il raggiungimento di quanto promesso all’UE e comportando, potenzialmente, sanzioni.

L’analisi di quanto elaborato dall’Ispra svela anche la ripartizione tra i diversi ambiti. Oltre alla mobilità, che con il 28% rappresenta la fetta più consistente, la produzione di energia (21%), il settore residenziale (18%) e l’industria manifatturiera (13%) contribuiscono

con oltre la metà delle emanazioni nazionali di gas climalteranti. L’ultima edizione pubblicata dal titolo “Inventario nazionale delle emissioni dei gas serra” fa risaltare la necessità d’interventi in tutti i comparti per rendere l’economia italiana più amica dell’Ambiente.

«I dati pubblicati offrono un buon riscontro degli effetti della crescita delle fonti rinnovabili, su cui occorre accelerare ulteriormente, - dichiara Barbara Meggetto, presidente di Legambiente Lombardia - mentre ci dicono che il settore del trasporto di persone e merci è ancora lontano dalla realizzazione della transizione energetica: pesa il ritardo italiano sulla elettrificazione, la crescita del trasporto su gomma delle merci e la crescita dei Suv in circolazione. La Lombardia guida la classifica nazionale delle emissioni, ma può e deve intestarsi una sfida per guidare la decarbonizzazione nei settori nei quali il sistema Paese finora zoppica».

Un’altra nota dolente riguarda l’agricoltura, che ha registrato un aumento emissivo rispetto al 2022, portando il proprio peso sul totale nazionale all’8,4%. Al di là del dato numerico, l’aspetto più inquietante risiede nella natura dei gas. Nel settore primario, oltre i due terzi sono rappresentati dal metano, generato principalmente dagli allevamenti. Questo potente gas climalterante non è esclusivo dell’agronomia. Si ritrova anche nelle discariche e, nell’energia, sotto forma di perdite dagli impianti.

Con un Potenziale di Riscaldamento Climatico (GWP) ben 84 volte superiore a quello della CO2, è una minaccia significativa, soprattutto nel breve e medio termine. A differenza dell’anidride carbonica, che persiste in atmosfera per secoli, si degrada in pochi decenni. Questo significa che, sebbene in termini di CO2 equivalente costituisca solo il 14% delle emissioni nazionali, l’impatto sul riscaldamento globale è tutt’altro che trascurabile. La sua degradazione atmosferica innesca reazioni chimiche che portano alla formazione di ozono, dannoso per la salute umana e la vegetazione.

Tuttavia, proprio la relativa breve permanenza in atmosfera offre una speranza: la diminuzione può tradursi in un rapido abbassamento dell’effetto serra e, di conseguenza, delle temperature globali. (G. P.).

La strada verso la neutralità climatica è indubbiamente lunga e complessa, costellata di sfide significative, ma i numeri dell’Inventario Ispra non rappresentano un destino ineluttabile, bensì una mappa dettagliata delle priorità. Consapevole dei notevoli passi avanti compiuti da industria ed energia, l’Italia ha ora l’opportunità di dimostrare la stessa determinazione nel campo trasporti e agricoltura. Concentrando investimenti intelligenti e politiche mirate, il Paese può trasformare gli ostacoli in opportunità per essere più sostenibile e resiliente.

L’archeo-ecologia marina raccontata attraverso una storia di gente di mare e di relitti di antiche navi romane che dopo 2000 anni hanno ancora tanto da rivelarci ©

L’ARCHEO-ECOLOGIA MARINA UNA NUOVA FRONTIERA PER I BIOLOGI

di Franco Andaloro*
* Consiglio Scientifico Cluster Tecnologico Nazionale Growth e Fondazione Italiana Biologi

L’archeo-ecologia marina rappresenta una nuova frontiera della biologia e nasce dalla trasversalità del sapere e dall’empatia che unisce la gente di mare come i biologi e gli archeologi marini, che spesso condividono gli scenari delle loro ricerche E’ in uno di questi luoghi che si svolge questa storia che da vita all’archeo-ecologia. Va ricordato che i relitti di navi esercitano un enorme fascino sugli archeologi, che da loro traggono informazioni storiche, sui biologi, che ne studiano gli effetti sull’ambiente marino, e sui subacquei, per i quali il relitto rappresenta il luogo del mito.

Questa storia prende vita in primavera a Panarea, la più mondana delle isole Eolie, è per questo che si preferisce organizzare le campagne di ricerca in mare in questa stagione quando le condizioni meteomarine sono benevole e i turisti ancora lontani. Panarea ospita un intenso idrotermalismo sommerso che attraverso una unica e sorprendente attività microbica produce energia trofica al di fuori della sintesi clorofilliana, in altre parole batteri che producono sostanza organica in assenza di luce. Sui fondali di Panarea ci sono anche relitti di navi antiche e moderne.

Quella primavera la nave da ricerca Astrea dell’ISPRA era a Panarea perché avevamo scoperto che nei pesci dell’area del black-hole, un enorme soffione sommerso nei pressi dell’isolotto di Lisca Bianca, vi era un elevata concentrazione di arsenico e mercurio di origine naturale, trasportato in superficie dai fluidi geotermici e bioaccumulato nella catena alimentare. Volevamo usare i pesci come bioindicatori per cercare vent sommersi, camini idrotermali che i geologi di INGV ritenevano fossero presenti nell’area ma che non si trovavano strumentalmente. Il nostro piano di lavoro prevedeva di analizzare l’arsenico e il mercurio in pesci catturati in una vasta area e poi verificare con il ROV, la presenza di idrotermalismo nelle zone dove avessimo trovato nei pesci la maggiore concentrazione di contaminanti. Ad accompagnare la spedizione una troupe televisiva di Pianeta Mare ospite a bordo per documentare lo studio. Il giorno dopo, avrebbe, invece, dovuto intervistare Sebastiano Tusa, un famoso archeologo, che era già sull’isola. Sebastiano,invitato a venire a bordo ha partecipato con noi alla scoperta di uno delle più estese aree di vent idrotermali del Mediterraneo. Entusiasta della scoperta, ci ha detto che a Panarea erano stati segnalati dalla fondazione Aurora Trust con

cui la Sovrintendenza del mare, che lui dirigeva, conduceva il progetto “Archeorete Eolie 2010” alcune tracce che sembravano indicare dei relitti che giacevano sul fondale. Approfittando degli strumenti dell’Astrea abbiamo deciso di verificare insieme quei punti. Appena raggiunto il primo il multibeam, uno scandaglio multifascio, ha marcato una struttura sommersa, e poco dopo, il ROV, ha inviato a bordo le immagini di centinaia di anfore perfettamente allineate in quello che era il carico originario della nave a 120 metri di profondità. L’entusiasmo a bordo cresceva sino a diventare eccitazione, l’equipaggio e i biologi non riuscivano a togliere gli occhi dallo schermo. La ricerca non ha confini tra le scienze e sono le scoperte le emozioni più forti, quelle che fanno capire a un ricercatore che non potrà mai fare un altro mestiere, e ciò ripaga di anni di studio, di precariato e di sacrifici. Poco dopo tutto si è ripetuto nel secondo punto dove abbiamo trovato un altro relitto. La prima nave risaliva al III A.C e presentava un carico anforico del tipo greco-italico tardo di origine campana, probabilmente vinarie, mentre il secondo relitto era una nave romanica del I D.C. con anfore del tipo Dressel 21-22 per il trasporto dei derivati del pesce come il prezioso garum. Dal secondo relitto siamo riusciti a recuperare un’anfora con un gancio assicurato a una cima e manovrato dal ROV. Una volta a bordo con Sebastiano ne abbiamo svuotato il contenuto su un setaccio per benthos. L’anfora non aveva il carico originario ma era completamente piena di gusci di Denatalium, piccoli molluschi scafopodi depositati dalle correnti nell’anfora per duemila anni.

Mentre setacciavamo il contenuto con Sbastiano ipotizzavamo di potere usare la scala temporale del deposito per seguire attraverso i contaminanti nei gusci l’andamento dell’idrotermalismo eoliano negli ultimi duemila anni, capire quale fosse il clima nella serie temporale dell’accumulo. Pensavamo di utilizzare le immagini delle anfore riprese dal ROV per capire il tipo di incrostazioni cui erano andate incontro e se potessero rimanere sommerse in una musealizzazione in mare aperto. Auspicavamo di trovare in altre anfore i resti di pesce utilizzati per il garum per capirne i segreti custoditi nelle strutture ossee sull’archeoclima e la biodiversità. Stavamo dando vita all’archeo-ecologia che avrebbe animato tante serate passate insieme, anche con geologi e storici.

L’archeo-ecologia, a differenza della bio-archeologia, che è una scienza più consolidata, che si occupa della vita sul relitto e della sua conservazione, vede il biologo collaborare con l’archeologo per studiare gli scenari ecologici nel tempo. Il 10 marzo 2019 Sebastiano Tusa era sull’aereo dell’Ethiopian Airline caduto tragicamente a Biscioftu. Stava andando a Malindi per partecipare a un convegno dell’UNESCO sul Patrimonio culturale sommerso, ma l’arche-ecologia gli sopravvive, glielo dobbiamo.

Sebastiano Tusa (a sinistra) e Franco Andaloro (a destra).

ERIONITE SVELATI I SEGRETI DELLA FIBRA PIÙ PERICOLOSA DELL’AMIANTO

Uno studio di Sapienza, Università di Genova ed Enea ha indagato i meccanismi alla base della tossicità del minerale appartenente al gruppo delle zeoliti e diffuso sulla Terra

di Maria Elisabetta Gramolini

Ambiente

Centinaia di volte superiore alla pericolosità dell’amianto. L’erionite è un minerale appartenente al gruppo delle zeoliti, presenti principalmente in rocce vulcaniche e di ampio impiego in vari settori, dall’edilizia all’agricoltura. Sebbene le zeoliti, in generale, non siano dannose per l’uomo, l’erionite, al contrario, possiede un alto grado di tossicità se inalata.

A partire dalla metà degli anni settanta, il materiale è stato la causa di un’epidemia di mesotelioma pleurico maligno (Mpm) in alcuni villaggi della regione della Cappadocia, in Turchia centrale, dove le abitazioni erano costruite con materiali contenenti questo minerale. La forte attività tumorigenica per gli esseri umani è stata certificata, tanto che il minerale è stato incluso nell’elenco dei cancerogeni per l’uomo del Gruppo 1 dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc).

L’eccezionale potenziale dell’erionite nel causare il mesotelioma maligno è accertato ed è stato riportato che il suo potenziale di induzione è di diverse centinaia di volte maggiore di quello dell’amianto. Ad oggi, le ragioni della tossicità non sono ancora chiare, sebbene siano state proposte diverse ipotesi, fra le quali, che le fibre di erionite inducano la morte cellulare necrotica che porta al rilascio della proteina del gruppo ad alta mobilità 1 (HMGB-1) nello spazio extracellulare.

Un primo passo per conoscere i segreti del materiale killer è stato compiuto lo scorso anno, quando l’Istituto di Cristallografia del Cnr (Cnr-Ic), in collaborazione con l’Università di Modena e Reggio Emilia e il Sincrotrone di Grenoble, hanno studiato in dettaglio la struttura cristallina. Adesso, uno studio congiunto tra Sapienza Università di Roma, Università di Genova ed Enea, condotto nell’ambito del partenariato esteso “Return” e finanziato dall’Unione europea con i fondi del NextGenerationEU, ha indagato i meccanismi alla base della tossicità dell’erionite.

La ricerca, recentemente pubblicata sulla rivista internazionale “Journal of Hazardous Materials”, rappresenta il primo tentativo di coniugare l’analisi degli

effetti dell’assorbimento di fibre da parte dei macrofagi sia sulle cellule che sulle fibre per rivelare le possibili ragioni della tossicità del minerale.

Utilizzando un innovativo approccio interdisciplinare, il lavoro ha analizzato i cambiamenti strutturali e chimici che avvengono nelle fibre, una volta che queste sono fagocitate dalle cellule macrofagiche presenti nei polmoni e responsabili dell’internalizzazione e distruzione di sostanze estranee. Lo studio ha rilevato che quando le strutture di erionite vengono inglobate dagli “spazzini” del sistema immunitario innescano uno scambio ionico che determina l’innalzamento del pH e il malfunzionamento dei lisosomi, gli organelli cellulari responsabili della degradazione di corpi estranei. Il rilascio provoca una risposta infiammatoria cronica, il reclutamento di macrofagi e la secrezione di TNF-α che a sua volta attiva NF-κB, portando alla sopravvivenza complessiva delle cellule mesoteliali che hanno accumulato danni genetici a causa dell’esposizione alle fibre minerali.

“Il complesso processo di scambio ionico – precisa Paolo Ballirano, docente presso l’Ateneo romano – è stato rivelato attraverso esperimenti di diffrazione dei raggi X su polveri, condotti presso i laboratori del Dipartimento di Scienze della Terra di Sapienza Università di Roma, su quantità di fibre dell’ordine di frazioni di milligrammo, recuperate dall’interno delle cellule dopo diverse tempistiche di incubazione da un minimo di 24 ore ad un massimo di 14 giorni”. La distruzione, fino alla morte cellulare, è dovuta a una successiva fase: “l’innalzamento del pH cellulare – spiega Sonia Scarfì, docente presso l’Università di Genova – provoca inoltre un’elevata richiesta energetica, la quale viene soddisfatta da un’iperattivazione dei mitocondri, centrale energetica della cellula. Il risultato di questa iperattivazione dopo qualche giorno dalla fagocitosi è un aumento di produzione dei radicali dell’ossigeno nei mitocondri e, successivamente, una sofferenza mitocondriale che può portare alla morte cellulare”. La pericolosità della fibra è dunque attestata dalla ripetizione del meccanismo.

“Data la notevole stabilità chimica dell’erionite nei fluidi biologici, questo meccanismo che porta alla morte delle cellule può ripetersi potenzialmente all’infinito: infatti l’erionite, una volta liberata nuovamente in ambiente extracellulare, è in grado di riacquistare il suo potenziale tossico. Ne consegue – concludono Ballirano e Scarfì –che questo fenomeno porta a un’infiammazione cronica e al potenziale sviluppo di cancro”.

ANNO RECORD DI PIOGGE

MA LA SETE

NON

SI

FERMA

IL PARADOSSO IDRICO ITALIANO

Piovosità media nazionale +10% grazie al Nord, incremento che non si traduce in sollievo diffuso; l’emergenza sete al Sud persiste e impone un piano delle acque strutturale

© Julia Sudnitskaya/shutterstock.com

Lo specchio si è incrinato nel 2024, riflettendo l’immagine di una profonda frattura idrica, con il Nord devastato da eccessive precipitazioni e il Sud afflitto da una siccità cronica. Sebbene il cambiamento climatico sia un fattore determinante, questa situazione è esacerbata da infrastrutture idriche obsolete, una gestione delle risorse spesso inefficiente e modelli di consumo che non sempre tengono conto della disponibilità locale. La diagnosi impietosa emerge dall’analisi del “Bigbang”, (Bilancio Idrologico GIS Based a scala Nazionale su Griglia regolare) il modello avanzato gestito dall’Ispra (https://www.isprambiente.gov.it/pre_ meteo/idro/BIGBANG_ISPRA.html).

Attraverso dati che risalgono fino al 1951, l’istituto non solo fotografa una contingenza allarmante, ma proietta ombre preoccupanti sul futuro della nostra risorsa vitale. L’anno ha visto riversarsi sull’intera penisola un volume complessivo di 319 miliardi di metri cubi d’acqua, traducibili in 1.056 millimetri di precipitazioni, valore che supera di oltre il 10% la media annua riferita all’ultimo trentennio climatologico 1991 - 2020, stimata in circa 285 miliardi di metri cubi (951 mm).

Quest’abbondanza nazionale, tuttavia, è stata distribuita in modo drammaticamente diseguale e incostante: basti pensare al picco di umidità a febbraio, con un’anomalia pluviometrica del +72% sulla media storica, seguito da un novembre insolitamente secco, che ha segnato un sorprendente -72%, invertendo le tendenze stagionali attese. È scendendo nel dettaglio territoriale, però, che il paradosso si manifesta in tutta la propria crudezza. Il Nord Italia è stato letteralmente investito da apporti meteorici straordinari, con regioni come Piemonte, Veneto e Liguria che hanno superato del 40% le loro medie storiche di lungo periodo; un’abbondanza che si è trasformata in calamità, scatenando eventi alluvionali distruttivi in Lombardia a maggio e mettendo in ginocchio l’Emilia-Romagna tra settembre e ottobre.

Mentre il Settentrione fronteggiava le piene, il Mezzogiorno e le Isole sprofondavano ulteriormente nella morsa dell’aridità. Deficit pluviometrici severi hanno aggravato una preesistente e cronica carenza d’acqua, innescando allarmi. La Sicilia ha vissuto a lungo sulla pelle degli isolani questa tragedia: costretta a dichiarare lo stato di emergenza già a maggio, ha chiuso l’anno con un ammanco pluviometrico del 25%, avendo

Nel nostro Continente, le acque continuano ad essere influenzate da sostanze contaminanti, in particolare dall’inquinamento atmosferico generato dalla produzione energetica tramite carbone e da emissioni diffuse derivate dalle attività agricole. Una situazione simile si osserva in Italia, dove le fonti prevalenti sono legate all’uso agrario e ha un notevole rilievo la presenza di agenti provenienti dagli scarichi urbani.

ricevuto poco più di 500 mm di pioggia (circa 13 miliardi di metri cubi), una frazione della sua media storica (665 mm, pari a 17,2 miliardi di metri cubi nel periodo 1951-2024). La sete ha messo a dura prova anche la Puglia (-23%), il Molise e la Basilicata (entrambe a -20%).

Nei distretti idrografici meridionali, la contrazione della risorsa disponibile rispetto alle medie storiche è stata drastica: -49% in Sicilia, addirittura -55% in Sardegna (nonostante isolati, intensi rovesci autunnali) e -39% nell’Appennino Meridionale. Sorprendentemente, a fronte di queste crisi localizzate, la stima aggregata della disponibilità idrica nazionale per il 2024 risulta superiore alla media storica (+14%, con 158 miliardi di metri cubi contro i 138 medi). Questo dato, comunque, è ingannevole, poiché quasi interamente “drogato” dai surplus settentrionali, e non deve far dimenticare la tendenza di fondo, ben più allarmante: il calo costante e progressivo della disponibilità annua su scala nazionale, trend negativo in atto fin dal 1951.

Confrontando questi numeri con il contesto europeo, tramite il Rapporto EEA 2024 analizzato da Ispra, si conferma che le acque continentali sono sotto forte stress: solo il 37% dei corpi idrici superficiali europei è in stato ecologico buono o elevato e appena il 29% in buono stato chimico. L’Italia si allinea per la salute ecologica (43% in stato buono o superiore), ma vanta una performance decisamente migliore sulla qualità chimica (75% in stato buono). Per le falde sotterranee, l’Europa registra un 77% in buono stato chimico e un 91% in buono stato quantitativo; l’Italia mostra percentuali leggermente inferiori (rispettivamente 70% e 79%).

In questo scenario di estremi e fragilità crescenti, amplificati dal cambiamento climatico, la direzione da intraprendere è una sola: investire massicciamente sulla manutenzione dei sistemi idraulici, come indicato dalla strategia “EU Water Resilience”, accelerare la piena implementazione della Direttiva Quadro sulle Acque e, soprattutto, rafforzare l’intero tessuto sociale ed economico, dalle istituzioni ai singoli cittadini, con una cultura pervasiva di uso responsabile, efficiente e sostenibile dell’oro blu. È questo il compito ineludibile per ricomporre la frattura idrica nel Paese fra Nord - Sud, centro - periferie e assicurare un futuro all’acqua italiana, bene comune oggi pericolosamente conteso e vulnerabile. (G. P.).

Il dossier di Legambiente rivela che sono numero raddoppiato dal 2020, sintomo di

SCIISTICI SONO KO

sono 265 le strutture non più funzionanti di una crisi climatica in rapida evoluzione

Lo scenario è sempre più desolante: impianti di risalita fantasma che arrugginiscono contro un cielo sempre più azzurro, laddove un tempo dominava il bianco. Dalle Alpi agli Appennini, la neve si ritira inesorabilmente, lasciando dietro di sé una montagna fragile e un’industria sciistica in profonda trasformazione. Il campanello d’allarme suona forte nel nuovo dossier “Nevediversa 2025” di Legambiente, che rimarca una situazione critica: il numero di quelli dismessi è raddoppiato in soli quattro anni, mentre la corsa all’innevamento artificiale, costosa e energivora, appare sempre più come un palliativo di fronte all’avanzata inesorabile della crisi climatica. Si evidenzia come in Italia siano ormai 265 le strutture ferme, un dato allarmante se si considera che nel 2020 erano 132. Il Piemonte (76), la Lombardia (33), l’Abruzzo (31) e il Veneto (30) sono le regioni che pagano il prezzo più alto di questa metamorfosi, con nevicate in diminuzione e temperature in aumento le quali

stravolgono il tradizionale turismo invernale. Aumenta, di contro, la “fabbricazione”, con 165 bacini di innevamento artificiale censiti, per una superficie totale di quasi 190 ettari. Il Trentino-Alto Adige (60) guida questa classifica, seguito da Lombardia e Piemonte (23 ciascuna), mentre la Valle d’Aosta, pur con 14 bacini, detiene il primato per estensione.

Centododici impianti sono temporaneamente chiusi, 128 in bilico tra apertura e chiusura, e ben 218 definiti sotto «accanimento terapeutico», più del doppio rispetto al 2020. Lombardia (59), Abruzzo (47) ed Emilia-Romagna (34) hanno il maggior numero di strumentazioni in agonia. Solo 31 strutture sono state smantellate e riutilizzate, mentre si contano 80 edifici fatiscenti e 15 progetti giudicati negativamente per l’impatto ambientale.

La crisi del turismo invernale, però, non è solo italiana. Legambiente ha analizzato dati di Mountain Wilderness Francia, rilevando 101 abbandonati in 56 siti sulle Alpi francesi, mentre in Svizzera si contano oltre 55 skilift e funivie fuori servizio da anni. «Quanto sta accadendo ad alta quota è solo la punta di un iceberg - commenta Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente - la crisi climatica sta avanzando a ritmi preoccupanti, la fusione dei ghiacciai da un lato, la diminuzione delle nevicate, ma anche la chiusura di diversi impianti insieme a quelli che faticano spesso a restare aperti, dall’altro, sono facce della stessa medaglia su cui va aperta una importante riflessione che dev’essere accompagnata da interventi concreti. Si continua ad alimentare la pratica dell’innevamento artificiale, che comporta consistenti consumi di acqua e di energia, senza, invece, mettere in campo una chiara strategia di adattamento e mitigazione alla crisi climatica. È da qui che bisogna partire, se si vuole arrivare ad una migliore gestione del territorio».

A pesare sulla situazione è la “crisi del meteo”, con inverni sempre più caldi e nevicate in calo. I dati della Fondazione CIMA al 13 febbraio 2025 sono eloquenti: sulle Alpi tra i 1000 e i 2000 metri la riduzione dell’innevamento è del 71%, sugli Appennini addirittura del 94%. Anche a quote superiori il deficit è marcato (Alpi -43%, Appennini -78%). Nonostante tale scenario, il Governo ha stanziato ingenti risorse (430 milioni di euro) per so-

L’innevamento artificiale rappresenta un costo sempre più elevato per la sopravvivenza delle stazioni: il Bellunese ha speso due milioni di euro a metà febbraio, Sestriere oltre dieci in quattro anni e il Friuli-Venezia Giulia circa 5,3 a stagione. A fronte di queste spese, i costi della settimana bianca sono in costante aumento.

stenere i comprensori sciistici e continuerà a finanziare impianti di risalita a fondo perduto fino al 2028. Il prossimo anno potremmo già scoprire se tali aiuti siano mirati a una transizione verso modelli più sostenibili o se rischino di perpetuare un sistema non più economicamente e ambientalmente sostenibile.

L’innevamento artificiale rappresenta un costo sempre più elevato per la sopravvivenza delle stazioni: il Bellunese ha speso due milioni di euro a metà febbraio, Sestriere oltre dieci in quattro anni e il Friuli-Venezia Giulia circa 5,3 a stagione. A fronte di queste spese, i costi della settimana bianca sono in costante aumento.

I riflettori rimangono puntati anche sulle Olimpiadi invernali Milano-Cortina 2026, dove la sostenibilità sembra un miraggio, con spese in vertiginoso aumento (5,7 miliardi di euro) e ritardi nelle infrastrutture. Infine, Legambiente denuncia il fenomeno dell’overtourism e l’avanzata del turismo di lusso in località come Cortina, ma che potrebbe estendersi ad altre aree, con il rischio di trasformare quelle destinazioni in esclusive per élite, compromettendo l’accessibilità per le famiglie e la qualità della vita per i residenti. Come spiega il professor Alberto Lanzavecchia, dell’Università di Padova: «le proprietà non vengono acquistate dagli italiani, ci sono investitori stranieri, oggi solo un terzo degli alberghi è gestito da famiglie di residenti. L’offerta turistica diventa più costosa ed espelle le famiglie italiane, che non possono godere più di quella valle».

Di fronte a questo scenario in rapida evoluzione, la montagna si trova a un bivio cruciale. La neve, un tempo pilastro dell’economia nelle valli alpine e appenniniche, è sempre più un ricordo sbiadito, mettendo a rischio non solo il settore ludico-sportivo, ma anche l’intero tessuto socio-economico di quelle aree. È cruciale esplorare e rinforzare alternative finanziarie che valorizzino le risorse naturali e culturali, garantendo nuove opportunità di lavoro e sviluppo. Il dossier di Legambiente lancia un monito chiaro: è tempo di abbandonare la logica del “business as usual” e abbracciare un nuovo modello di escursionismo montano, più sostenibile, rispettoso dell’ambiente e attento alle esigenze delle comunità locali. Solo così si potrà evitare che le nostre vette si trasformino in tristi monumenti di un’era glaciale ormai lontana. (G. P.).

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L’ARTE DEL VIAGGIO SECONDO GLI ELEFANTI

Gli elefanti africani pianificano gli spostamenti per risparmiare energia e proteggere l’equilibrio del loro habitat

In molte culture dell’Africa sub-sahariana, gli elefanti sono animali venerati in virtù della loro “saggezza”, della loro forza e della connessione con la natura che li circonda. Per alcune tribù e popolazioni indigene sono simbolo di prosperità, protezione e guida spirituale, e vengono chiamati “custodi della terra” proprio per il loro ruolo all’interno dell’ecosistema.

In altre tradizioni, ancora, simboleggiano la regalità, la leadership in cui le guide tribali si rispecchiano, e vengono narrate leggende che raccontano come gli elefanti abbiano condotto

i popoli verso territori fertili, di come abbiano protetto le comunità nei momenti difficili. Pur essendo scontato rilevare l’importanza e il fascino che animali così maestosi occupano nella cultura indigena, questi non smettono di esercitarli nemmeno nei confronti della scienza. Uno studio recente ha infatti rivelato un aspetto sorprendente del loro comportamento: la capacità di pianificare i viaggi in modo strategico per risparmiare energia.

Una scoperta che non solo getta luce sulla loro vita quotidiana, ma offre anche spunti preziosi per la conservazione della specie e del loro

fragile habitat. Lo studio, pubblicato sul Journal of Animal Ecology ha analizzato i dati di tracciamento GPS di 157 elefanti monitorati tra il 1998 e il 2020, rivelando come questi scelgano degli itinerari che minimizzano il dispendio energetico.

I ricercatori dell’Università di Oxford, del Centro tedesco per la ricerca integrativa sulla biodiversità (iDiv) e della Friedrich-Schiller-University, hanno scoperto che il 94% degli elefanti evita pendii ripidi e terreni accidentati, preferendo paesaggi con costi energetici inferiori. Inoltre, il 93% degli esemplari seleziona attivamente aree con maggiore produttività della vegetazione, dimostrando una consapevolezza ambientale sorprendente. Questa capacità di pianificazione è paragonabile a quella degli uccelli che sfruttano le correnti termiche per ridurre i costi energetici del volo.

Gli elefanti utilizzano un approccio simile per ottimizzare i loro spostamenti, bilanciando il fabbisogno alimentare con il consumo energetico. Questo comportamento è stato rilevato grazie a un innovativo metodo chiamato ENERSCAPE, che integra i dati sulla massa corporea, la pendenza del terreno e la produttività della vegetazione. Le implicazioni di questa scoperta sono molteplici: comprendere come gli elefanti si muovono nel paesaggio è essenziale per progettare strategie di conservazione corrette.

La frammentazione dell’habitat e le attività umane continuano a minacciare le popolazioni di elefanti, rendendo essenziale la creazione di corridoi di migrazione e aree protette. Inoltre, i risultati dello studio potrebbero aiutare a prevedere come gli spostamenti degli elefanti risponderanno ai cambiamenti climatici, fornendo strumenti preziosi per la gestione della fauna selvatica.

La loro capacità di pianificare i viaggi non è solo un esempio di adattamento evolutivo, ma anche un avvertimento.

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di Michelangelo Ottaviano

L’arcipelago delle Galápagos, paradiso naturale noto per la sua biodiversità unica e straordinaria, sta affrontando una nuova minaccia, tutt’altro che silenziosa: l’inquinamento acustico. Tale fenomeno, che all’apparenza si penserebbe essere sconosciuto a un luogo così remoto, sta influenzando il comportamento delle Setophaga petechia aureola, dei piccoli uccelli canori noti comunemente con il nome di parule gialle, una specie endemica dell’arcipelago equatoriale.

Uno recente studio, ha infatti ha rivelato come il disturbo sonoro, oltre ad alterare il loro canto sta anche rendendo più aggressiva questa specie; e, tale atteggiamento, potrebbe essere conduttore di potenziali ripercussioni sull’intero ecosistema. L’aumento del traffico stradale, dovuto alla crescita demografica e al turismo, sta inquinando le abitudini della fauna locale.

Il paper, pubblicato sulla rivista

Animal Behaviour e condotto dai ricercatori dell’Anglia Ruskin University in collaborazione con il Konrad Lorenz Research Centre, ha analizzato il comportamento di questi uccelli in 38 siti delle isole Santa Cruz e Floreana. Gli scienziati hanno riprodotto i canti registrati e i rumori del traffico per osservare le reazioni delle parule.

I risultati sono stati sorprendenti: gli uccelli che vivono vicino alle strade mostrano livelli di aggressività significativamente più alti rispetto a quelli che abitano in aree più tranquille. Il rumore del traffico interferisce con la comunicazione vocale delle parule, il cui canto melodioso è utilizzato principalmente per la demarcazione del territorio e l’attrazione dei partner.

Tale circostanza, le costringe a modificare i loro canti per farsi sentire, e l’adattamento ha un costo: l’aumento dell’aggressività, infatti, potrebbe influire negativamente sulla competizione per il territorio e le risorse, mettendo a rischio la sopravvivenza

IL RUMORE DEL TRAFFICO MINACCIA LE PARULE

Il disturbo sonoro antropico sta alterando il comportamento delle parule gialle delle Galápagos rendendole aggressive

della specie. Il canto della parule gialle, e più in generale il loro benessere, è un elemento fondamentale per l’ecosistema, poiché esso contribuisce, ad esempio, al controllo degli insetti dell’area e alla dispersione dei semi. La plasticità comportamentale delle specie non sempre è un segnale positivo, ma, anzi, è spesso spia di trasformazioni dannose.

Le implicazioni di questi cambiamenti comportamentali vanno infatti valutate non solo sull’impatto che stanno avendo nelle Galápagos. L’inquinamento acustico è un problema globale, che sta colpendo di -

verse specie di animali sparsi in tutti le aree, alterandone i comportamenti e minacciando gli equilibri ecologici. Gli esperti sottolineano l’importanza di sviluppare strategie per la riduzione dell’impatto del rumore sugli habitat naturali, anche in aree remote come le Galápagos.

Lo studio di Animal Behaviour risuona come un campanello d’allarme per la conservazione della biodiversità e dell’ecosistema dell’arcipelago. Proteggere le parule gialle e il loro habitat significa preservare non solo una specie unica, ma anche l’equilibrio di un ecosistema fragile e prezioso. (M. O.).

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IL RISCHIO NASCOSTO

DIETRO

I TERREMOTI

La liquefazione del terreno durante i terremoti è un fenomeno distruttivo che amplifica i danni e altera il paesaggio

Lo spaventoso boato della terra di magnitudo 7.7 che lo scorso 28 marzo ha colpito il Myanmar, paese del Sud-est situato tra India, Cina, Thailandia e Bangladesh, ha causato danni molto gravi a infrastrutture, edifici storici e abitazioni del luogo, e ha tragicamente procurato un numero altissimo di vittime e dispersi.

Nel dettaglio scientifico, il drammatico fenomeno che si è manifestato in quest’area e che ha esacerbato gli effetti devastanti del sisma, viene chiamato liquefazione del terreno. Essa è un fenomeno geotecnico,

chiamato anche fluidificazione del suolo, che si verifica quando i suoli sabbiosi, saturi d’acqua, perdono temporaneamente la loro resistenza al taglio, comportandosi, appunto, come un fluido.

Ciò avviene durante le scosse di alta intensità, quando le vibrazioni causate dalle onde sismiche aumentano la pressione dell’acqua intrappolata tra strati impermeabili di sedimenti limoso-argillosi, e portano il terreno a perdere coesione.

Le conseguenze, come purtroppo si è potuto registrare, sono spesso devastanti: oltre al collasso di edifici

ed infrastrutture, e tutto ciò che ne deriva, le ripercussioni più significative sono legate all’alterazione definitiva del paesaggio.

Eventi simili a quello avvenuto in Myanmar si sono già verificati in passato, mettendo in evidenza la gravità del fenomeno. Il terremoto di Kobe, avvenuto in Giappone nel 1995, è un esempio emblematico in cui la liquefazione del terreno ha inciso moltissimo sulla distruzione di infrastrutture e sulla perdita di vite umane.

Un altro caso significativo è quello del terremoto dell’Emilia-Romagna che ha colpito l’Italia nel 2022: in entrambi gli eventi, gli studi scientifici hanno sottolineato la necessità di migliorare le tecnologie di monitoraggio e le pratiche di costruzione per ridurre i rischi associati alla liquefazione. Questo processo è stato oggetto di numerosi studi condotti da geologi e ingegneri civili, che hanno evidenziato come la valutazione della vulnerabilità sismica dei terreni sia fondamentale per prevenire disastri futuri.

I ricercatori e le istituzioni scientifiche, come l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), continuano a sviluppare modelli predittivi e tecnologie avanzate, in grado di identificare le aree a rischio e che permettano di adottare misure preventive, come la compattazione del suolo o la stabilizzazione mediante iniezioni di materiali chimici. La collaborazione tra geologi, ingegneri e responsabili delle politiche ambientali risulta dunque essere fondamentale per la realizzazione di infrastrutture resilienti e, quindi, la protezione delle comunità vulnerabili.

La liquefazione del terreno è uno dei sintomi che evidenziano quanto sia fragile l’equilibrio tra l’uomo e la natura che lo circonda. Comprendere e affrontare questo fenomeno è essenziale per proteggere le persone che vivono in questi luoghi più sensibili, nonché per preservare il paesaggio. (M. O.). ©

ALZHEIMER E PARKINSON

IL RUOLO DEL SESSO

L’intelligenza artificiale, per la diagnosi di patologie neurodegenerative, svela le differenze tra uomini e donne

Una ricerca condotta dall’Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del Cnr di Roma ha utilizzato, per la prima volta, l’Intelligenza Artificiale per individuare i fattori più importanti per la diagnosi precoce dell’Alzheimer e del Parkinson, differenziando uomini e donne.

In particolare, sono stati sottoposti a un algoritmo di IA l’esito di una serie di test neuropsicologici, dati neurofisiologici e genetici su un campione misto, composto da uomini e donne sia sani, sia malati e, con la finalità di identificare e diffe -

renziare in base al sesso i principali fattori predittivi associati all’insorgenza delle due malattie. I risultati della ricerca sono stati pubblicati in due distinti articoli del Journal of the Neurological Sciences.

Daniele Caligiore, Dirigente di Ricerca al Cnr-Istc e Direttore della Advanced School in Artificial Intelligence, ha spiegato: «La novità dello studio consiste nell’avere adottato un approccio integrato nell’analisi dei test, coerentemente con la teoria che abbiamo sviluppato al Cnr-Istc, secondo cui entrambe le patologie, cioè Alzheimer e Parkinson, potrebbero

essere manifestazioni di una sola malattia, denominata Neurodegenerative Elderly Syndrome (NES). Nell’analisi dei test siamo partiti dall’analizzare le differenze tra pazienti sani e pazienti malati, indipendentemente dal fatto che fossero uomini o donne. Le nostre ricerche affrontano per la prima volta questo problema mediante un algoritmo di machine learning spiegabile, in grado cioè di rendere trasparente il processo decisionale usato, aumentando l’affidabilità e favorendo l’adozione in ambito medico».

Nel caso dell’Alzheimer, l’algoritmo ha analizzato l’esito di semplici test neuropsicologici volti a stimare la probabilità di insorgenza della patologia a seconda del sesso sulla base di parametri “predittori” come la memoria, l’orientamento, l’attenzione e il linguaggio (MMSE); la memoria verbale a breve termine (AVTOT); e la memoria episodica a lungo termine (LDELTOTAL).

Il ricercatore ha proseguito: «Il sistema di machine learning che abbiamo sviluppato mostra come MMSE è un predittore più efficace dell’Alzheimer nelle donne, mentre negli uomini è essenziale per il monitoraggio a lungo termine. LDELTOTAL è più predittivo nelle donne per l’insorgenza della malattia, mentre AVTOT è più rilevante negli uomini. Inoltre, il livello di istruzione incide in modo diverso sul rischio di Alzheimer, con le donne che presentano un rischio maggiore».

Il modello di machine learning sviluppato per la ricerca sul Parkinson ha, invece, identificato caratteristiche chiave, neuropsicologiche, genetiche e corporee, che possono essere legate all’insorgenza della patologia. Per quanto riguarda gli uomini, emerge che tra i principali predittori dell’insorgenza del Parkinson sono da considerare dati che misurano la rigidità muscolare e le disfunzioni del sistema nervoso autonomo; mentre per le donne sono più rilevanti i dati sulle disfunzioni urinarie per predire la malattia.

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di Pasquale Santilio

Un team di ricercatori e ricercatrici del Cnr, dell’Università di Firenze e del Laboratorio europeo di spettroscopie non lineare (Lens) ha osservato nel laboratorio di Miscele Quantistiche dell’Istituto nazionale di ottica del Cnr, il fenomeno dell’instabilità capillare in un liquido non convenzionale: un gas quantistico ultra-diluito. Questo risultato riveste importanti implicazioni per la comprensione e manipolazione di nuove forme di materia. Nella fisica dei fluidi è noto che la tensione superficiale di un liquido, dovuta alle forze di coesione intermolecolari, tende a minimizzare la superficie di interfaccia. Questo meccanismo è alla base di fenomeni macroscopici come la formazione delle gocce di pioggia o delle bolle di sapone.

La tensione superficiale è anche all’origine del fenomeno dell’instabilità capillare, nota anche come instabilità di Plateau-Rayleigh, per cui un sottile getto liquido si rompe formando una sequenza di goccioline. L’instabilità capillare è un meccanismo caratteristico dei liquidi con importanti applicazioni in campo industriale, biomedico e nelle nanotecnologie.

«In un gas atomico raffreddato a temperature prossime allo zero assoluto, gli atomi perdono la loro individualità e seguono le leggi della meccanica quantistica. In particolari condizioni questi sistemi, benchè rimangano nella fase gassosa, si comportano come liquidi».

Grazie alla capacità di controllare con grande precisione le interazioni fra gli atomi, i fisici sono capaci, già da alcuni anni, di formare gocce quantistiche, da gas ultrafreddi. Questi piccoli cluster di atomi, stabilizzati da effetti puramente quantistici, hanno proprietà analoghe ai liquidi classici. Il team sperimentale, guidato dalla ricercatrice del Cnr-Ino Alessia Burchianti, ha studiato, con tecniche di imaging e manipolazione ottica, l’evoluzione dinamica di una singola

OSSERVATA LA PRIMA PIOGGIA QUANTISTICA

Una formazione di file di gocce quantistiche in miscele di atomi ultrafreddi. Lo studio su Physical Review Letters

goccia quantistica formata a partire da una miscela ultrafredda di atomi di potassio e rubidio. La goccia rilasciata in una guida d’onda, realizzata con un fascio di luce laser, si allunga formando un filamento, il quale, superata una lunghezza critica, si rompe in gocce più piccole. Il numero di queste gocce secondarie è proporzionale alla lunghezza del filamento al momento della rottura.

Chiara Fort, ricercatrice dell’Università di Firenze, ha affermato: «Combinando esperimento e simulazioni numeriche è stato possibile descrivere la dinamica di rottura di

una goccia quantistica in termini di instabilità capillare. L’instabilità di Plateau-Rayleigh è un fenomeno comune nei liquidi classici e osservato anche nell’elio superfluido, ma mai finora nei gas atomici».

Luca Cavicchioli, primo autore dell’articolo, e ricercatore del Cnr-Ino, ha aggiunto: «Le misure condotte nel nostro laboratorio da un lato permettono una comprensione sempre più accurata di questa peculiare fase liquida, dall’altro mostrano come sia possibile realizzare array di quantum droplet per future applicazioni nel campo delle tecnologie quantistiche». (P. S.).

BIRRA, PRODUZIONE PIÙ

RAPIDA E SOSTENIBILE

L’utilizzo della cavitazione idrodinamica per la produzione di mosto di birra elimina la necessità di bollitura

Uno studio condotto dall’Istituto per la bioeconomia del Consiglio nazionale delle ricerche di Firenze ha portato alla produzione di mosto di birra pronto per la fermentazione bypassando la fase della bollitura, conservando dello stesso tutte le caratteristiche chimiche ed organolettiche. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista Beverages.

Francesco Meneguzzo, primo ricercatore del Cnr-Ibe e coordinatore dello studio, ha sottolineato: «La cavitazione idrodinamica permette di scaldare il mosto a 94°C, diversamente da

quanto avviene con le produzioni tradizionali, che prevedono una bollitura a 100°C per 90 minuti. Questo garantisce un abbattimento significativo dei tempi e del consumo di energia pari ad oltre l’80%. Oltre a questo risultato, la cavitazione elimina il precursore del dimetilsolfuro, un composto che restituisce odori e sapori sgradevoli alla bevanda, con una velocità tre volte maggiore rispetto a quanto ci saremmo inizialmente aspettati.

Attraverso questo metodo, il dimetilsolfuro viene immediatamente espulso dal mosto della birra e alla fine del processo l’amaro di luppoli si

trasferisce al mosto, modificandone il colore. Soltanto attraverso la cavitazione idrodinamica, che concentra un grande quantitativo di energia, è stato possibile ottenere questi importanti risultati».

Ricordiamo, che la cavitazione è un fenomeno di formazione, accrescimento e implosione di bolle di vapore in un liquido a temperature inferiori rispetto al punto di ebollizione, che genera microambienti caratterizzati da temperature localmente elevatissime e intense onde di pressione e getti idraulici. Per anni è stat considerata un fenomeno indesiderato ed è stata studiata unicamente per limitarne gli effetti negativi, come la corrosione di parti meccaniche (eliche, turbine, componenti sommersi). Negli ultimi decenni è stata, invece, “riscoperta” per le sue grandi potenzialità per l’intensificazione di una serie di processi fisici, chimici e biochimici.

L’utilizzo di questo procedimento, considerata la possibile applicazione su scala industriale, delinea un modo nuovo di produrre la birra, economicamente e ambientalmente più sostenibile. Le risultanze di questo studio dimostrano le potenzialità di un brevetto che il Cnr ha depositato nel 2016 e che ha continuato a sviluppare nel tempo.

Maria Carmela Basile, responsabile dell’Unità valorizzazione della ricerca del Consiglio nazionale delle ricerche, la struttura che gestisce e tutela la proprietà intellettuale dell’Ente, ha dichiarato: «Fin dall’inizio, 10 anni fa, abbiamo sostenuto con convinzione lo sviluppo delle ricerche relative a questo brevetto e i risultati raggiunti ci danno ragione. La possibilità di utilizzare soltanto energia elettrica, potenzialmente generata da fonti rinnovabili, rappresenta una svolta e un impulso concreto alla decarbonizzazione di uno tra i settori alimentari più energivori».

Lo studio è stato finanziato da Cavitek S.r.l., l’azienda che ha acquisito il brevetto Cnr. (P. S.).

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L’obiettivo è la significativa riduzione dell’impatto ambientale del settore aereo attraverso lo sviluppo di tecnologie basate sull’utilizzo di idrogeno liquido come carburante. È quanto si propone di realizzare il progetto europeo HASTA, finanziato con oltre 3 milioni di euro dal programma Horizon Europe, che coinvolge un consorzio di 15 partner provenienti da 8 Paesi (7 europei e il Sudafrica), tra cui Airbus, Ariane Group e, per l’Italia, Enea, Cnr, Sapienza Università di Roma e l’Università degli Studi Niccolò Cusano.

Antonio Agresta, ingegnere aerospaziale del Laboratorio Idrogeno e nuovi vettori energetici del Dipartimento Tecnologie Energetiche e Fonti Rinnovabile, referente Enea del progetto, ha spiegato: «L’idrogeno liquido potrebbe giocare un ruolo chiave nel futuro dell’aviazione, consentendo agli aerei di utilizzarlo come carburante per la propulsione ed emettendo in atmosfera vapore acqueo riducendo così l’impatto ambientale del settore».

Nei prossimi tre anni, il gruppo di ricerca studierà lo stoccaggio dell’idrogeno liquido per il suo utilizzo nell’aviazione civile e svilupperà un innovativo serbatoio in grado di contenerlo in sicurezza. L’idrogeno liquido è infatti uno dei candidati a sostituire il cherosene nei futuri aerei a zero emissioni.

Il ricercatore Enea ha sottolineato: «Uno degli aspetti più complessi è la gestione del fenomeno dello sloshing, ovvero il movimento del liquido all’interno del serbatoio, durante il volo. Le sollecitazioni dell’aereo possono generare miscelazioni termiche tra le fasi liquida e gassosa, causando variazioni rapide della pressione nel serbatoio. Si tratta di un aspetto di termo-fluidodinamica molto complesso, di cui si occuperà Enea con simulazioni al supercomputer per studiare l’interazione del fluido con il serbatoio».

Il progetto HASTA, per affrontare

L’IDROGENO LIQUIDO

CARBURANTE PER GLI AEREI

Anche Enea nel progetto mirato a ridurre l’impatto ambientale del settore aereo. L’idrogeno nel futuro dell’aviazione

la sfida, svilupperà un modello digitale sperimentale di un serbatoio di idrogeno liquido per aeromobili, capace di simulare le variazioni di pressione e di temperatura al suo interno, che rappresenta il primo passo verso la creazione del gemello digitale del serbatoio e, successivamente, di un prototipo sicuro ed efficiente, pronto a ospitare il nuovo carburante finora impiegato solo nel settore spaziale. Per consentire quantità maggiori di idrogeno in spazi ridotti, un aspetto cruciale per l’aviazione sostenibile, l’idrogeno deve essere raffreddato a bassissime temperature (-252,87°C),

in modo da renderlo molto più denso rispetto alla sua forma gassosa.

Il ricercatore Antonio Agresta ha così concluso: «L’utilizzo dell’idrogeno offre il grande vantaggio di non produrre emissioni di CO2, poiché il principale prodotto della combustione è il vapore acqueo (H2O). Tuttavia, la sua gestione e conservazione rappresentano una sfida significativa in termini di materiali e geometrie dei serbatoi per il suo stoccaggio poiché richiedono il mantenimento di temperature criogeniche estreme e il controllo dei fenomeni di sloshing durante il trasporto e il volo». (P. S.).

GIUGLIANO, I TESORI DI LITERNUM: IL MAUSOLEO E L’ADDIO AL GLADIATORE

Tombe, monete e oggetti quotidiani nella necropoli sulle sponde del Lago Patria Tra le iscrizioni in marmo ce n’è anche una che celebra la scomparsa di un lottatore

Beni culturali
SABAP Napoli

Dopo la Tomba del Cerbero, coi suoi straordinari affreschi tra cui quello dell’infernale cane a tre teste della mitologia greca, il comprensorio del comune di Giugliano continua a restituire tesori e testimonianze dell’antica Liternum. Una necropoli di oltre 150 metri quadrati, situata a poca distanza dall’area del Foro e dell’Anfiteatro, è stata riportata alla luce nel corso delle campagne di scavo condotte dalla Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio per l’Area Metropolitana di Napoli, guidate dalla dottoressa Simona Formola. Due i recinti funerari emersi, entrambi ancora recanti ancora dei lacerti di intonaco bianco decorati qualche tempo dopo in rosso, separati da uno spazio chiuso, uno dei quali conserva al centro un mausoleo quadrangolare in opera reticolata di cubilia in tufo grigio, lungo tre metri per lato, con nicchie lungo i lati per ospitare delle urne cinerarie. Una ventina le tombe individuate, della tipologia a cappuccina, a enchystrismòs e a cassa di tegole, tutte disposte intorno ai setti murari.

La diversità dei tipi di tombe - quelle alla cappuccina, con tegole a spiovente, sono tipiche del periodo imperiale, quelle a enchystrismòs, in vaso o anfora, sono riservate agli infanti, mentre quelle a cassa di tegole sono le più comuni in età tardoantica - è indice della pluralità di usanze funerarie nel sito, oltre che dell’uso continuativo dello stesso dalla fine del I secolo a.C. al III secolo d.C .La presenza di un pozzo in muratura molto profondo è legata con tutta probabilità a ragioni di culto, mentre l’imponente mausoleo doveva contenere i resti di una personalità o di una famiglia particolarmente illustre. Molto significative le varie iscrizioni funerarie in marmo, alcune delle quali perfettamente integre e pienamente apprezzabili. Una reca l’epitaffio, un omaggio funebre contenente l’ode del defunto, dedicato a un anonimo gladiatore, molto probabilmente un reziario, combattente dotato di rete, tridente e pugnale all’opera nel vicino anfiteatro cittadino. Il gran numero di oggetti di corredo rinvenuti nel corso degli scavi, dalle monete ai piccoli vasi, dalle lucerne a minuscoli monili, fornisce invece informazioni preziose, sicuramente utili a ricostruire abitudini, pratiche di vita quotidiana e le stesse dinamiche sociali delle comunità che popolavano quest’antica colonia marittima romana sul litorale domizio, edificata sulla sponda meridionale del Lago Patria. Fondata nel 194 a.C. insieme a Puteoli e Volturnum (le attuali Pozzuoli e Castel

Il gran numero di oggetti di corredo rinvenuti nel corso degli scavi, dalle monete ai piccoli vasi, dalle lucerne a minuscoli monili, fornisce invece informazioni preziose, sicuramente utili a ricostruire abitudini, pratiche di vita quotidiana e le stesse dinamiche sociali delle comunità che popolavano quest’antica colonia marittima romana sul litorale domizio, edificata sulla sponda meridionale del Lago Patria.

Volturno), Liternum fu popolata con le famiglie dei reduci della II guerra punica: inizialmente con trenta, poi con altri 300 nuclei familiari di veterani delle campagne contro i Cartaginesi. Lo stesso Scipione l’Africano, vincitore di Annibale a Zama, si ritirò in esilio in una villa fortificata nel territorio cittadino, dove secondo la tradizione vi fu sepolto. Seneca, che a Liternum ha soggiornato nel corso del I secolo, descrisse sia la villa sia la tomba in una delle sue Epistole morali. «Il territorio di Giugliano sta vivendo un momento particolarmente fecondo dal punto di vista della ricerca archeologica, prima con la scoperta della Tomba del Cerbero e ora con questa necropoli», osserva con soddisfazione il soprintendente di Napoli, Mariano Nuzzo, a proposito degli ultimi rinvenimenti. «Una necropoli che, grazie anche all’ottimo stato di conservazione delle strutture murarie e delle sepolture, aggiunge un tassello importante alle nostre conoscenze relative alla vicenda insediativa della colonia di Liternum e costituisce un’opportunità unica per approfondire lo studio della civiltà antica e del contesto storico e culturale dell’epoca». La presenza di una necropoli contenente tombe tanto significative, tra l’altro, pone nuovi interrogativi a proposito del tracciato dell’antica Via Domitiana, la strada consolare che da Sinuessa, corrispondente all’attuale Sessa Aurunca, conduceva fino a Pozzuoli, ai lati della quale dovevano essere collocate tali sepolture.

Domande che si aggiungono a quelle relative alla stessa fisionomia del paesaggio antico e agli effettivi limiti urbani della colonia, forse più estesi rispetto a quanto ipotizzato fino a oggi, e a cui potrebbero dare risposte esaurienti gli stessi scavi che, iniziati a gennaio 2025, proseguiranno nei prossimi mesi in una zona già sottoposta a tutela da vincolo ministeriale diretto, con fondi garantiti dal PNRR nell’ambito di un progetto di più ampio respiro. «Grazie al prosieguo dell’indagine, unito allo studio approfondito di materiale d’archivio, sarà possibile raggiungere risultati importanti nell’ambito della conoscenza di un territorio di rilevanza cruciale dal punto di vista storico e archeologico», assicura il soprintendente Nuzzo. Tutti i reperti ritrovati saranno sottoposti a restauro e successivamente musealizzati, con apertura al pubblico prevista per il 2026. La Liternum di ieri, coi suoi tesori affioranti dal terreno, può diventare un’importante occasione di sviluppo per la città di oggi e di domani. (R. D.).

SABAP Napoli

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CICLISMO, DALLE CLASSICHE AL GIRO D’ITALIA

SFIDA ROGLIC-AYUSO

Dopo un inizio di primavera illuminato dai duelli fra Pogacar e Van der Poel torna la Corsa Rosa con l’atteso duello fra l’esperto sloveno e il talento spagnolo

Dalla meravigliosa primavera delle Classiche alla stagione dei Grandi Giri. Il ciclismo si prepara a scrivere nuove pagine di quest’epoca d’oro, impreziosita da diamanti come Tadej Pogacar e Mathieu Van der Poel che hanno disegnato capolavori nelle ultime “Monumento” (e non solo) vincendo la concorrenza di tenaci avversari come Pedersen, Van Aert, Stuyven e il nostro Pippo Ganna, mai vicino quanto quest’anno al successo nella Milano-Sanremo.

Prima il domani, però. E l’immediato domani delle due ruote è il Giro d’Italia 2025, centottesima edizione della corsa, in programma in ventuno tappe dal 9 maggio al 1º giugno 2025. Sono poco più di 3.410

di Antonino Palumbo
Primoz Roglic.

Tadej Pogacar sarà invece al Tour de France, che l’anno scorso è tornato a vincere dopo essersi preso da padrone anche il Giro. L’edizione 2025 è in programma dal 5 al 27 luglio, con partenza da Lille e arrivo a Parigi, sugli Champs-Elysées. Il percorso racconta di sette tappe pianeggianti, sei collinari, sei di montagna (tre nella settimana finale) e cinque arrivi in salita. Il principale rivale di Pogacar dovrebbe essere, come consuetudine degli ultimi anni, il danese Jonas Vingegaard, trionfatore sia nel 2022, sia nel 2023. © Radu

i chilometri da percorrere, con partenza da Durazzo, in Albania, e arrivo a Roma. Non ci sarà Pogacar, ma si prevede un duello decisamente interessante fra lo sloveno Primoz Roglic, capitano della Red Bull Bora Hansgrohe, e il talento più che emergente Juan Ayuso, spagnolo. Uno ha 35 anni, l’altro 22: un duello generazionale.

Già vincitore del Giro d’Italia due anni fa, oltre che quattro volte principe della Vuelta a Espana, Roglic è reduce dal bis alla Vuelta a Catalunya (già vinta proprio nel 2023) proprio davanti al giovane collega valenciano, scavalcato nell’ultima tappa sul circuito del Montjuic a Barcellona. Dal canto suo, Ayuso ha risposto presente al maggior carico di responsabilità conferitegli dall’Uae Team Emirates-Xrg, inaugurando la stagione con i successi nella Faun Drome Classic, in solitaria, e al Trofeo Laigueglia in una volata a quattro. E poi “rischiando” di vincere una Tirreno Adriatico interpretata con grande autorità, con un assolo dirompente a Frontignano e il successo in classifica generale. Poi il duello con Roglic in Catalogna, antipasto del Giro d’Italia.

Accanto ad Ayuso, l’Uae Team Emirates-Xrg ha anche la carta Adam Yates. Altri papabili per la maglia rosa sono l’ecuadoriano Richard Carapaz (Ef Education EasyPost), vincitore nel 2019, e il colombiano Egan Bernal (Ineos Grenadiers), che in Italia è crescito e al Giro ha trionfato nel 2021. Ambizioni di podio anche per lo spagnolo Mikel Landa (Soudal Quick Step) e i francesi Romain Bardet (Picnic PostNl) e David Gaudu (Groupama Fdj), per lo spettacolo - e qualche successo parziale - occhio a Tom Pidcock (Q36.5) e al belga Wout van Aert (Visma Lease a Bike).

Fra gli italiani, riflettori puntati sull’abruzzese Giulio Ciccone (Lidl-Trek) e in classifica generale sul laziale Antonio Tiberi (Bahrain Victorius), che lo scorso anno è stato quinto assoluto e miglior giovane. L’eventuale partecipazione di Filippo Ganna darebbe ulteriore linfa alla speranza di successi parziali, non solo a cronometro.

Prime tre tappe in Albania, con salite al debutto da Durazzo a Tirana e prova contro il tempo il giorno dopo nella capitale, prima della Valona-Valona. Poi si va in Italia e si

risale partendo dalla Puglia e passando dalla Basilicata, dalla Campania, dall’Abruzzo e dall’Umbria, prima della Gubbio-Siena, tappa Bartali di questa edizione, con cinque settori di strade bianche (30 km) e arrivo in Piazza del Campo.

La frazione di Asiago, alla fine della seconda settimana, è l’antipasto delle montagne che domineranno la terza settimana, a partire dal tappone trentino con arrivo sul Monte Baldo. A decidere la corsa per la maglia rosa potrebbero essere la tappa da Biella a Champoluc, con quasi 5mila metri di dislivello, e quella da Verrès-Sestriere con il Colle delle Finestre, Cima Coppi 2025. Ma ci sarà da divertirsi, magari con qualche “eroe di giornata”, anche sugli arrivi di Bormio (nella frazione col Mortirolo, “Montagna Pantani”) e di Cesano Maderno. Gran finale a Roma, con lo spettacolare circuito cittadino.

Tadej Pogacar sarà invece al Tour de France, che l’anno scorso è tornato a vincere dopo essersi preso da padrone anche il Giro. L’edizione 2025 è in programma dal 5 al 27 luglio, con partenza da Lille e arrivo a Parigi, sugli Champs-Elysées. Il percorso racconta di sette tappe pianeggianti, sei collinari, sei di montagna (tre nella settimana finale) e cinque arrivi in salita.

Il principale rivale di Pogacar dovrebbe essere, come consuetudine degli ultimi anni, il danese Jonas Vingegaard, trionfatore sia nel 2022, sia nel 2023. Due giganti del ciclismo di oggi, polivalente Pogacar, “animale” da Tour Vingegaard: negli ultimi cinque anni, del resto, la Grande Boucle riporta solo loro nomi. Fra loro due proverà a inserirsi Remco Evenepoel, detentore della maglia bianca di miglior giovane nonché primo atleta maschile nella storia ad aggiudicarsi l’oro sia a cronometro che in linea in un’edizione dei giochi olimpici, Parigi 2024.

Bisognerà capire come ci arriverà, visto che sta uscendo da un incubo lungo oltre quattro mesi - una bruttissima caduta in allenamento, con fratture multiple, una lussazione e contusioni ad entrambi i polmonidurante i quali è arrivato a dubitare del suo futuro in bici. Alla partenza ci sarà anche Primoz Roglic, reduce dal Giro. Ma penserà a una co(r)sa per volta.

Momento florido in campo maschile, con Musetti a un passo dalla Top 10 e Cobolli al primo successo Il numero 1 al mondo pronto al rientro dopo il caso Clostebol

Flavio Cobolli.

Aspettando Jannik Sinner, il tennis italiano non è stato con le mani in mano. E ha registrato nuovi successi, anche senza il suo numero 1, che è pure il leader della classifica mondiale da quasi un anno.

Intanto, però, maggio sarà un mese importante per l’altoatesino il 23enne di San Candido: il 4 maggio scadranno i tre mesi di squalifica patteggiati con l’Agenzia mondiale antidoping per il caso Clostebol (assunzione involontaria, ma parziale responsabilità per gli errori del suo team), pochi giorni dopo potrà tornare in campo agli Internazionali d’Italia in programma dal 7 al 18 maggio a Roma. Malgrado tre mesi senza competizioni, Jannik Sinner rientrerà alle competizioni da numero 1 al mondo. Ad assicurargli aritmeticamente la permanenza al top del ranking Atp è stato il “regalo” di un altro italiano, Matteo Berrettini, che ha battuto in rimonta il vice-leader mondiale Alexander Zverev nel secondo turno del recente Masters 1000 di Montecarlo.

Il 21 aprile Sinner ha raggiunto il grande Rafa Nadal nella speciale classifica dei tennisti con il “regno” più lungo quando sono diventati numero uno del mondo per la prima volta: 46 settimane. Meglio di Sinner hanno fatto in quattro: Roger Federer con 237 settimane, Jimmy Connors (160 settimane), Leyton Hewitt (75 settimane) e Novak Djokovic (53 settimane). Jannik arriverà sicuramente a 49 settimane al top del ranking ma potrebbe rimanerci anche dopo il Roland Garros di Parigi, dove i principali rivali Alcaraz e Zverev l’anno scorso furono rispettivamente vincitore e finalista e, dunque, hanno tanti punti da difendere.

Se Sinner continua a “comandare” e far discutere anche senza giocare – fra le altre, sono recenti le polemiche sollevate dalle opinioni dell’ex numero 1 femminile Serena Williams e di Federica Pellegrini, membro della Commissione atleti del Comitato olimpico internazionale – ci sono stati tuttavia nelle scorse settimane altri tennisti italiani che hanno dato continuità ai risultati del nostro movimento.

Primo fra tutti Lorenzo Musetti, 23enne di Carrara, che dopo lo splendido torneo di Montecarlo - sconfitta in finale contro Alca -

raz, assai sportivo nell’omaggiare l’avversario infortunato - ha raggiunto il suo miglior piazzamento in carriera, l’11esimo posto. Al momento di chiudere quest’edizione del giornale, Musetti sta per iniziare il torneo Masters 1000 di Madrid con una proiezione che lo vede ancora più su, al nono posto. Perché ciò si verifichi, però, dovranno incolonnarsi una serie di risultati di vari antagonisti, da Tommy Paul a Daniil Medvedev, passando per Ben Shelton. Chi segue Musetti, però, è certo che la Top 10 sia solo questione di tempo, considerata l’evoluzione di Lorenzo da tennista di estremo talento a determinato lottatore.

È definitivamente tornato anche Matteo Berrettini, ex numero 6 al mondo. “The Hammer”, dieci titoli in singolare e unico italiano finalista sull’erba di Wimbledon, è risalito alla posizione numero 31 e ora cerca il primo titolo dell’anno dopo il tris dello scorso fra Marrakech, Gstaad e Kitzbuhel. Nei primi mesi del 2025 ha battuto Top 10 del calibro di Novak Djokovic e Alex De Minaur, rendendo la vita dura anche al numero 4 Taylor Fritz.

Lo scorso 6 aprile, sulla terra battuta di Bucarest, è stata premiata anche la rincorsa di Flavio Cobolli al primo titolo nel circuito maggiore, coinciso con il centesimo titolo Atp dell’Italia. Un conteggio subito aggiornato dalla seconda affermazione Atp in carriera per Luciano Darderi, doppio 7-5 su Griekspoor a Marrakech, dopo quello “rotto il ghiaccio” nel febbraio 2024 a Córdoba.

Su 101 titoli Atp in 54 anni, per l’Italia, 45 sono maturati dal 2018 a oggi. Il primo, l’8 agosto 1971, fu “firmato” da Adriano Panatta che si impose a Senigallia su Martin Mulligan.

Il 21 aprile Sinner ha raggiunto il grande Rafa Nadal nella speciale classifica dei tennisti con il “regno” più lungo quando sono diventati numero uno del mondo per la prima volta: 46 settimane. Meglio di Sinner hanno fatto in quattro.

©
Matteo Berrettini.

ANTONELLI: L’ITALIA TORNA PROTAGONISTA IN F1

Il 18enne pilota bolognese della Mercedes sta collezionando record alla sua prima stagione nel Circus

Il suo secondo nome è Kimi, ma non c’entra Raikkonen, ultimo pilota a vincere un Mondiale di Formula 1 su Ferrari, nel 2007. Con l’illustre finlandese, però, Andrea Kimi Antonelli condivide la passione per i motori e il mestiere nel Circus massimo della velocità. E a 18 anni il pilota bolognese ha già riscritto alcuni record e fatto rispolverare precedenti ormai datati in Formula 1. Pazienza, per i tifosi ferraristi, che (per ora) lo stia facendo in Mercedes e non con il conterraneo Cavallino rampante.

Al debutto in F1, nel GP d’Australia a Melbourne, Antonelli è passato

sotto la bandiera a scacchi al quarto posto. Piazzamento confermato, poi, grazie al ricorso del suo team contro la penalità per “unsafe release” (manovra pericolosa in fase di uscita dalla sosta ai box) che gli avrebbe fatto perdere una posizione a beneficio di Alexander Albon su Williams. Era dal Gp del Brasile del 2019 che un italiano non concludeva una gara nelle prime cinque posizioni: in quell’occasione era stato il pugliese Antonio Giovinazzi a concludere quinto, miglior performance della sua carriera ai massimi livelli. Ma, soprattutto, era da 55 anni che un driver italiano non

debuttava in maniera così brillante in Formula 1. Era il 1970 e a concludere quarto, nel Gp del Belgio, fu Ignazio Giunti al volante di una Ferrari.

Non solo record nazionali, tuttavia. All’età di 18 anni e 203 giorni Kimi Antonelli è diventato il secondo più giovane pilota della storia ad andare a punti in Formula 1, dietro solo a Max Verstappen che ci riuscì non ancora maggiorenne. Il pluricampione del mondo, però, non riuscì a entrare in Top 10 all’esordio, impresa riuscita invece al brasiliano Felipe Nasr nel 2015, sempre a Melbourne, e Oliver Bearman lo scorso anno in Arabia, quando si è disimpegnato bene sulla Ferrari in sostituzione di Carlos Sainz.

Il 6 aprile, a Suzuka, Antonelli si è concesso addirittura una decina di giri al comando della terza gara stagionale (dal 22esimo a 31esimo), aggiornando i suoi primati. Uno su tutti, quello di più giovane pilota in testa a un gran premio d F1: a 18 anni, 7 mesi e 11 giorni, ha fatto meglio proprio di Verstappen, di appena quattro giorni. Non solo: in Giappone, Andrea Kimi è diventato anche il più giovane pilota a concludere una gara con il giro veloce e il primo esordiente, dai tempi di Lewis Hamilton, a chiudere tutti i primi tre gran premi disputati in Formula 1 andando a punti.

Tornando ai precedenti italiani, l’ultimo connazionale capace di comandare un Gp era stato il solito Antonio Giovinazzi, su Alfa Romeo, nel 2019 a Singapore. Ma quali sono le altre “ultime volte” tricolori in Formula 1 che Antonelli si augura possa aggiornare? Presto detto. Il podio di Jarno Trulli, in Giappone, il 4 ottobre 2009. La pole position di Giancarlo Fisichella, in Belgio, il 30 agosto dello stesso anno. La vittoria dello stesso Fisichella, in Malesia, il 19 marzo 2006. Poi, vabbé, ci sarebbe il campionato del mondo vinto da Alberto Ascari. Ma era il 1953. E per emularlo ci vorrebbe qualcosa di epocale. Un Sinner del volante, insomma. Chissà. (A. P.).

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Novantatré anni e non sentirli. Parola di Salvatore Trifirò, classe 1932, siciliano d’origine e milanese d’adozione, che ai Campionati Mondiali Master indoor di atletica leggera è stato il meno giovane dei medagliati dell’Italia. Avvocato per una vita, velocista da pochi anni, Trifirò ha vinto l’argento nei 60m piani, in un contesto che ha visto l’Italia tornare dalla Florida con 9 medaglie d’oro, 11 d’argento e 9 di bronzo. Trifirò si è affacciato alla corsa nel 2022, su suggerimento dell’amico e allenatore Valerio Gaudio, ed è stato subito campione italiano. Poi ha iniziato a confrontarsi con i pari fascia (M90) di tutto il mondo, egregiamente. E pensa al futuro più che al passato: “Forse la prossima volta sarò oro, così sento l’inno” ha dichiarato dopo Gainesville 2025.

L’unico oro al femminile della spedizione azzurra negli States è stato quello della bresciana Mariuccia Quilleri (Atl. Lonato), la più veloce del mondo sui 60 metri nella categoria W70 in 9”75, vicinissima al suo primato italiano. Quilleri che si è presa anche l’argento dei 200 metri. È tornato nelle Marche con ben quattro medaglie Luigi Del Buono della Sef Stamura Ancona, proveniente da una famiglia di atleti: il padre Gianni è stato primatista italiano su varie distanze, la sorella Federica è azzurra nel mezzofondo. In Florida, Del Buono si è aggiudicato l’oro nel Cross M45 e nei 1500m M45, l’argento nel Cross a squadre e il bronzo nei 3000m M45. È stata però la marcia a regalare gran parte dei successi agli italiani, a partire dai titoli individuali del calabrese Edoardo Alfieri (Track & Field Master Grosseto) nei 3000m M65 e del bresciano Claudio Penolazzi (Atl. Lonato), nei 30000m M70. Per i marciatori anche due titoli a squadre nei 10 km su strada, vinti dalla formazione M60 con Alfieri, Giuseppe Iaia (Gsp III Regione Aerea Bari) e Alessandro Volpi (Grosseto) e da quella M35 di Giancarlo Bartocci (Aoc Team Stadio Paolo Rosi), Andrea Romanelli (Grosseto) e

AZZURRI STAR SENZA ETÀ

AI MONDIALI

INDOOR

Doppietta di Del Buono, oro per Quilleri (over 70) e argento per Trifirò (93 anni): il bilancio in Florida

Gennaro De Lello (Grosseto). Doppia gioia nei 10 km di corsa su strada M35 con l’affermazione di Umberto Persi (At Running) e del team azzurro completato da Mattia Franchini (Sef Stamura Ancona) ed Emiliano Carloni (Atl. La Sbarra).

Non finisce più di stupire Amatore Michieletto, 83 anni nel mirino, pluricampione europeo master, argento nella marcia 3.000 metri fra gli M80 ai Mondiali di Gainesville. L’ennesima emozione della sua carriera, fatta anche di dispiaceri come la squalifica a traguardo ormai varcato ai Mondiali 2019: anche lì era giunto secondo.

Mondiale agrodolce per un altro Over 80, il grossetano Biagio Giannone, che ha conquistato il bronzo nella marcia 3.000 metri e si trovava in testa alla 10 km, quando causa maltempo l’organizzazione ha propeso per interrompere e successivamente annullare l’evento. Fra i 29 medagliati italiani anche qualche nome illustre come Lamberto Boranga, 82 anni, ex portiere che ha giocato a calcio fino al 2020. Ai Mondiali Master si è aggiudicato il bronzo nel salto triplo M80 con la misura di 7,74 metri, alle spalle dell’estone Jurgen Lamp (8,55) e del tedesco Eberhard Linke (8,40).

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ASSAGGI D’ARCOBALENO IL LESSICO DEL GUSTO

SECONDO NEZHUKUMATATHIL

Rambutan, litchi, cannella e riso: un viaggio tra meraviglie naturali, un boccone dopo l’altro

Anna Lavinia

Aimee Nezhukumatathil

Morso dopo morso

Nottetempo, 2025 – 19,00 euro

Con le sue dolci note di cacao e caramello che ricordano l’estate e il suo profumo inebriante che richiama le foreste tropicali, entra di diritto tra le spezie più buone al mondo. È solo alla straordinaria scoperta di uno schiavo di dodici anni che dobbiamo il privilegio di poterla assaporare in tutta la sua essenza: la stupefacente vaniglia.

Prima di lui era una pianta con steli, foglie e fiori che si rifiutava ostinatamente di dare frutti. Molti sanno che la Vanilla planifolia è il frutto dell’orchidea ma pochi sono informati sul fatto che questa è il prodotto di una impollinazione manuale di uno ragazzo creolo vivace e furbo che in una remota isola a 684 km a est del Madagascar ha sfatato tutti i pronostici già scritti della sua vita.

Edmond Albius “nato in piedi nella scomodità di un destino sbilenco” nel 1841 ha creato uno dei frutti più dolci e rari al mondo. Suo padre Pamphile e sua madre Melise non sapranno mai della sua scoperta, abbandonato a sé stesso a pochi giorni dalla nascita, è figlio di nessuno fino a quando una domenica mattina si ritrova davanti alla villa di Ferreol

Beaumont, un botanico vedovo appassionato di orchidee. Edmond con lui cresce, osserva le piante e scopre la botanica.

Al pari del più famoso Linneo che identificò da solo ottomila piante diverse, il ragazzo creolo passa di fiore in fiore, di pianta in pianta con una leggerezza e conoscenza senza precedenti. Ha solo otto anni quando impara dal suo padre adottivo come cogliere i fiori maschi e posarli con attenzione sui fiori femmina di una liana di zucca chiamata Jolifiat. Il giardino è il suo mondo esclusivo, un paradiso naturale vietato a tutti gli altri schiavi.

Cresciuto in balia del vento, con la fragilità di un’erba senza radici, vive aggrappato al suo tutore che lo inizia alla vita e in modo particolare alla natura dove si incrociano mosaici di spezie, frutta e verdura. Tra questi ce n’è una speciale, un’orchidea endemica unica nel suo genere che vive solo a Bourbon, l’antica Reunion francese.

È l’amore per quest’isola tropicale dell’Oceano Indiano la chiave di tutta la narrazione. È quello che ha portato la scrittrice francese nata a Saint-Benoît a dare voce ad un giova-

ne uomo che ha attraversato la storia, anche quella europea, senza quasi lasciare traccia. Un personaggio realmente esistito che ha vissuto nell’invisibilità più totale, venuto alla luce dal lato del mondo sbagliato dove si nasce solo per lavorare e soffrire.

Ma Edomond vive da bianco in un paese di neri: dimentica rapidamente rango ed origini mentre accresce la sua sete di piante. Ogni mattina, il fanciullo creolo giunge nel suo vaniglieto per manipolarne i fiori prima che muoiano nel pomeriggio ma dopo quattromila trecentottanta giorni di tentativi senza successo, ecco il miracolo. Nasce il primo baccello di vaniglia di Bourbon. Sarà il primo di una lunga serie di un vero e proprio bene di lusso che con meno di 200 produttori in poco più di 200 ettari di terreno ha generato una produzione eccezionale.

Con la sua vaniglia, Edmond ha creato l’oro nero dell’isola e ha cambiato la storia dei nostri piatti ma mai sé stesso. Lui è rimasto quello per cui era nato. O forse no, non è ancora tutto perduto: con la lettura di queste preziose pagine qualcuno probabilmente lo ricorderà e ringrazierà al prossimo assaggio di vaniglia.

Camilla Sten

L’erede

Fazi Editore, 2025 – 19,50 euro

Sarebbe già risolto l’omicidio della vecchia Vivienne se solo sua nipote non soffrisse di prosopoagnosia e non fosse stata l’unica a vedere in faccia l’assassino. L’incapacità di riconoscere i volti delle persone causa stress, ansia e una quantità incredibile di problemi a Eleanor, protagonista del nuovo thriller nordico firmato Sten. (A. L.).

Rosa Luxemburg

Herbarium

Elliot, 2024 – 50,00 euro

Anche con un nome così eloquente è passata sottotraccia la passione per la natura e le piante della rivoluzionaria e teorica del socialismo. Descrizioni e schizzi di quasi quattrocento specie botaniche formano il suo vasto erbario raccolto tra la primavera del 1913 e l’autunno del 1918, poco prima di essere assassinata. (A. L.).

Roberto Boffi

I tuoi scudi anti smog

Sonzogno, 2025 – 17,00 euro

La prima forma di protezione è la conoscenza contro fake news e negazionismo. Sapere come difendersi dall’inquinamento, non inquinando e come non essere inquinanti. Dal direttore del Centro antifumo all’Istituto nazionale dei tumori di Milano, un racconto pratico che offre nuove prospettive per proteggersi fuori e dentro casa. (A. L.).

Libri

STORIA NATURALE DEL RAPPORTO TRA UOMO E ANIMALI (PARTE II)

Indagine sul rapporto di scontro e collaborazione tra i membri di questi “mondi” lungo il corso della storia umana

di Giuliano Russini*

L’addomesticamento

Ogni animale domestico, qualunque sia il numero delle razze che lo caratterizzano, ha uno o più progenitori selvatici, dai quali spesso differisce, in misura più o meno notevole, per diversi caratteri fenotipici e morfologici. L’addomesticamento degli animali come descritto, cominciò probabilmente circa 10.000 anni fa, quando l’uomo era ancora nomade, cacciatore e raccoglitore. Tra gli animali che egli cacciava, c’era il lupo, che, come l’uomo, si spostava in gruppi e branchi. In quei tempi, il lupo era molto diffuso, con diverse razze geografiche. Esso, si aggirava minacciosamente intorno agli accampamenti dell’uomo, attirato dai suoi rifiuti e gli contendeva le sue stesse prede e non di rado lo uccideva. Talora l’uomo risparmiava i cuccioli, dopo averne ucciso le madri. Questi cuccioli venivano facilmente ammansiti e utilizzati come richiamo per altri lupi, i quali venivan ogradualmente addomesticati.

Finché gli uomini cambiavano continuamente terreno di caccia, essi avevano poche probabilità di addomesticare altre specie di mammiferi, poiché erano troppo preoccupati a provvedere al loro sostentamento. Il problema della sopravvivenza divenne ancora più acuto, a misura che essi divennero ancora più abili nella caccia, distruggendo interi branchi di animali. Ma verso la fine dell’ultima glaciazione del Wurm, circa 10.000 anni fa, l’uomo imparò a coltivare alcune pian-

* Biologo

te selvatiche, come il frumento e l’orzo e per questa ragione abbandonò il nomadismo, divenendo stanziale. Tracce dei più antichi insediamenti umani, sono state trovate nell’Asia occidentale; ed è qui, probabilmente, che per la prima volta pecore e capre, devono essere state separate dai loro branchi selvatici e mantenute per ucciderle al bisogno. In seguito, l’addomesticamento degli animali progredì, quando gli allevatori primitivi appresero intuitivamente e non razionalmente, né scientificamente, che le caratteristiche fisiche sono ereditabili, cominciando ad incrociare dei soggetti selezionati, al fine di ottenere nella loro discendenza, una serie di combinazioni dei caratteri più vantaggiosi.

É per effetto di questo tipo di allevamento “selettivo”, che molte specie di animali selvatici, si sono allontanati e differenziati dai loro progenitori selvatici. L’intenzione era di ridurre certe caratteristiche, come l’aggressività di un maschio verso gli altri maschi, della stessa specie, che sono d’importanza vitale per l’animale selvatico, ma inopportune per quello domestico. I cambiamenti fisici e psicologici che ne sono risultati rendono molti animali domestici completamente dipendenti dall’uomo, ad esempio i cani. L’attitudine degli animali a essere addomesticati varia in larga misura.

Alcune specie, che non si riproducono in cattività, devono essere catturate e poi domate. A questa categoria appartengono ad esempio, falchi, ghepardi e mangoste, che l’uomo ha cominciato ad ammaestrare sin dai tempi degli antichi egizi. Altri animali, possono essere allevati più facilmente: è il caso del furetto, forma domestica di (Mustela eversmanni), che viene impiegato per cacciare conigli e ratti e il marangone (Phala-

crocorax aristotelis), uccello appartenente alla stessa famiglia dei cormorani, ammaestrato alla pesca in Cina e Giappone.

Benché addomesticati dall’uomo per millenni, questi animali differiscono ben poco dalle forme selvatiche e, lasciate in libertà, tornano abbastanza facilmente allo stato primitivo, queste sono definite specie ferali. Si tratta, in effetti, di animali solitari, mentre quelli gregari o sociali, i cui antenati vivevano in gruppi o branchi dalle dimensioni consistenti, si prestano meglio all’allevamento selettivo. Sembra che questi animali, trasferiscano sull’uomo, loro padrone, la sottomissione che avevano verso l’animale dominante del gruppo.

Se si confronta ad esempio il cane domestico (Canis lupus domesticus), con il gatto domestico (Felis catus domesticus), si nota molto chiaramente questa differenza.Tutti i gatti domestici discendono dal gatto selvatico (Felis silvestris); benché stiano presso l’uomo fin dall’inizio della civiltà egizia e abbiano perso molto della loro selvatichezza, restano tuttavia solitari, indipendenti e appartati. Infatti un gatto non lavora mai per il suo padrone; così l’uomo non ha sviluppato un gran numero di razze per dei compiti precisi. I cani discendono per la maggior parte da piccole razze meridionali di lupo, come la razza del lupo indiano (Canis lupus pallipes). Sono animali socievoli, attaccati all’uomo e tuttora pronti a cacciare in muta, quando è necessario. I primi cani dovevano essere simili ai dinghi, discendenti diretti dei lupi, che gli uomini dell’età della pietra condussero dall’Asia, all’Australia, circa 8.000 anni fa. Anche le razze più dissimili, come il pechinese e il san bernardo, appartengono alla stessa specie e discendono dal lupo.

Nel secondo millennio avanti Cristo, gli Egiziani avevano creato delle razze di cani da caccia, i levrieri e di cani pastore, come anche razze ornamentali simili al corgi gallese e al pomer. Per le richieste dello sport e i concorsi delle razze canine, sono state prodotte in seguito numerose razze, come i cani da ferma e i cani da salotto. Alcuni animali domestici, come il cammello, la renna e lo yak, non hanno subito alterazioni notevoli, poiché il loro valore per l’uomo si basa sul loro perfetto adattamento naturale alle severe condizioni ambientali. Anche l’elefante africano (Loxodonta africana), non è stato selezionato, poiché ha un ciclo vitale troppo lungo (si riproduce ogni 4-5 anni) e perché troppo difficile da allevare; a causa di ciò non ha mai suscitato interesse di tipo economico, quindi zootecnico, lo stesso dicasi per il rinoceronte, poiché troppo aggressivo.

hanno crescita più rapida, una fecondità maggiore e s’ingrassano più facilmente e velocemente delle bestie da tiro, per le quale si cerca di far sviluppare soprattutto la forza muscolare.

Le razze di maiale (Sus scrofa domesticus), sono spesso il risultato di una lunga e accurata selezione. Tutte discendono dal cinghiale (Sus scrofa), animale di bosco e foresta, ma in apparenza ne sono dissimili, morfologicamente parlando. I maiali hanno zampe più corte, coda setolosa a spirale anziché dritta come nei cinghiali, padiglioni auricolari più grandi e cadenti, più grasso corporeo e sono molto meno pelosi dei cinghiali.

La testa è brachicefala, con mascelle più corte, rispetto a quella del cinghiale dove il muso è più lungo, i denti sono più piccoli, soprattutto i canini, che nei cinghiali sono a crescita continua e formano delle zanne frontali. La disposizione degli occhi nei maiali è più frontale. Infine il carattere dei cinghiali è molto più aggressivo e solitario di quello dei maiali domestici. Le capre e le pecore furono probabilmente i primi animali che gli uomini dell’età della pietra radunarono in greggi.

La capra selvatica (Capra hircus aegagrus) e la pecora selvatica dell’Asia orientale (Ovis ammon orientalis) hanno aspetto superbo con mantello rosso scuro e corna imponenti. Al confronto, le pecore e le capre domestiche sono più tozze, con vello bianco e corna ridotte o in alcune specie, sottospecie o razze inesistenti. L’allevamento delle pecore tendeva in passato a migliorare la qualità e la quantità della lana, delle carne e del grasso. Ma l’invenzione delle fibre sintetiche ha dato un duro colpo all’industria della lana, tanto che alcune razze, come la neozelandese, ottenuta per incrocio tra pecore Romney e arieti Southdown, sono oggi allevate soltanto per la carne.

I bovini, genere Bos, benché addomesticati qualche tempo dopo gli ovicaprini, sono senza dubbio, tra tutti gli animali domestici, quelli di maggior valore economico. Essi vengono sfruttati in base a diverse attitudini: per la carne, per il grasso, per il latte e le corna e per il lavoro come animali da soma. Anche lo sterco dei bovini viene utilizzato, non solo come concime in agricoltura, ma in alcuni paesi anche come combustibile e come materiale da costruzione, in particolare in Africa e Asia.

La maggior parte delle razze di bestiame è stata invece selezionata per fornire sia carne che cuoio, latte, come anche bestie da soma e da tiro. In generale, gli animali destinati al macello

Le razze Europee dei bovini domestici sono tutte derivate dall’uro (Bos taurus primigenius), di cui l’ultimo esemplare morì in Polonia nel 1627. Poi, fino a tempi recenti, il bue era largamente (e lo è ancore nei paesi del terzo e quarto mondo, ove l’agricoltura non ha subito una meccanizzazione e modernizzazione equivalente a quella dei paesi industriali), impiegato come animale da soma. Nell’Europa occidentale e nell’America del Nord, numerose razze

Una femmina con cucciolo “vitello” di rinoceronte nero (Diceros bicornis) al Wild Animal Park, Kent-Inghilterra. Foto di Giuliano Russini

sono state create sia per la carne, come la razza Hereford, sia per l’industria casearia, come la razza normanna e la razza frisona. Incrociando vacche lattifere, con buoi da carne, come quelli di Charollais, si ottiene una discendenza che risponde a entrambi i requisiti. In Asia, soprattutto in India, la razza principale è lo zebù (Bos indicus), che porta una gobba adiposa sul garrese e ha corna cave enormi. Tra il 3000 e il 2000 a.C., l’uomo addomestica il cavallo. Probabilmente questo avvenne per la prima volta ad opera di popolazioni dell’Asia centrale, i Traci. Tre tipi di equidi, di origine geografica diversa, furono probabilmente addomesticati a distanze di tempo relativamente vicine. In Egitto, i popoli della valle del Nilo addomesticarono l’asino selvatico dell’Africa (Equus asinus), come bestia da soma. Più ad est, fu addomesticato l’emione (Equus hemionus), fu attaccato dai Sumeri ai loro carri da guerra. I veri cavalli domestici, tuttavia, hanno come capostipite il cavallo selvaggio dell’Eurasia (Equus caballus), di cui la razza Equus caballus przewalskii è sopravvissuta ad oggi e vive nelle steppe della Siberia, Mongolia e Cina. In realtà una specie ancora più ancestrale, era rappresentata dal Tarpan (Equus gmelini) Euroasiatico, che insieme alla razza Equus caballus przewalskii, contribuì alla genesi delle attuali specie e razze equine; il Tarpan però, si è completamente estinto.

Per quanto riguarda l’addomesticamento degli uccelli, che in termini zootecnici confluisce nell’avicoltura, ha portato all’utilizzo di diverse specie e razze di questi animali a fini alimentari e vari. Alcune sono abitualmente lasciate razzolare nei campi in piccoli gruppi. Questo si verifica per varie razze di polli domestici, come la Wyandotte, il Rhode Island Red, l’Orpington e il Plymouth Rock, che hanno come progenitore, il gallo selvatico dell’India (Gallus gallus). Queste formano il ceppo da cui furono selezionate le razze, per la produzione di uova o di carne e, che purtroppo passano tutta la loro esistenza in capannoni per l’allevamento, in strutture chiamate batterie (allevamento intensivo).

Altri uccelli addomesticati ed allevati, sono le faraone e i palmipedi: anatre, oche. L’allevamento dei tacchini è pure diventato un caso tipico del rapporto uomo-animali, nell’addomesticamento, assoggettato a una selezione “intensiva”. Le forme domestiche sono tre volte più grandi del tacchino selvatico dell’America del Nord (Meleagris gallopavo) loro precursore zoologico, i quali pesano fino a 30 kg! Anche il mon-

do degli insetti ha subito l’invasione umana con una sorta di addomesticamento mediante zoocolture. L’apicoltura ne è un esempio; i primi tentativi di apicoltura primitiva, dove veniva usata l’Apis mellifera, risalgono a circa 4.500 anni fa! Quando gli Egiziani (sempre loro!) incitavano le api a fare il nido sui tronchi, appositamente incavati e poi le cacciavano con la “fumigazione”, per estrarne il miele dall’alveare, come anche la cera, il propoli e la pappa reale. Disponendo di tutti questi animali addomesticati, l’uomo non ha più considerato la possibilità di addomesticarne altri. Negli ultimi anni, tuttavia, si è tentato di addomesticare l’alce dell’Eurasia (Alces alces) e alcune specie di antilopi africane, soprattutto il Taurotrago o elano gigante (Taurotragus derbianus).

Gli Animali nell’immaginario della Cultura e Civiltà Umana Chiudiamo questo articolo, con gli aspetti etnobiologici che caratterizzano gli animali nella cultura umana. Gli animali hanno sempre suscitato nell’uomo sentimenti di timore, rispetto e curiosità, che hanno trovato spesso espressione nell’arte, nella letteratura e nella religione. Le testimonianze più antiche, archeologicamente parlando, che conosciamo circa operazioni relative agli animali, risalgono a circa 100.000 anni fa, quando alcuni cacciatori primitivi, rinchiusero crani di orso delle caverne, in casse di pietra, che poi sotterrarono nel fondo di una caverna, a Drachenloch, nelle Alpi Svizzere. La disposizione di alcuni di questi crani, in rapporto ad altre ossa, rivela un’intenzione, probabilmente magico-rituale.

Rizzato sulle zampe posteriori, l’orso delle caverne poteva raggiungere i 3,5-4,0 m di altezza e perciò costituiva un temibile predatore, per i cacciatori provvisti solamente di armi in pietra. Circa 70.000 anni più tardi, la caccia era ancora la principale fonte di sostentamento umana, come gli splendidi e magici dipinti, lasciati dagli uomini dell’età glaciale nelle grotte di Lascaux in Dordogna-Francia, o come quelli di Altamira in Spagna e in numerose altre località, ci mostrano. Sono dei veri e propri capolavori pittorici, rappresentanti quasi sempre animali feriti, presi in trappola o morenti. La precisione dei tratti e dei lineamenti, mostrano un’attenta capacità d’osservazione, fatto questo abbastanza naturale, se si pensa che la sopravvivenza dell’uomo primitivo dipendeva dalla perfetta conoscenza del comportamento animale.

Non sorprende quindi, che tale timore, venisse sfogato ed espresso nell’arte pittorica, nei riti e nei culti degli animali, né che anche ai giorni nostri, si ritrovano fenomeni di questo tipo, in tribù di cacciatori come in Africa, in Papua Nuova Guinea, nell’interno delle foreste delle Filippine, come anche nella Foresta Amazzonica o nel deserto australiano. In varie parti del mondo, le società primitive esistenti praticano ancora il totemismo, organizzazione sociale fondata sul culto di un animale, considerato come il protettore e l’antenato del clan.

In Africa, ad esempio, sono famose sette come gli uomini leopardo, gli uomini babbuino, gli uomini leone, gli uomini

Esemplare di Taurotrago o elano gigante (Taurotragus derbianus) allo zoo di Cincinnati-USA. Foto di Giuliano Russini

coccodrillo e gli uomini vipera (dalla vipera del Gabon) e così via, che sono spesso causa di vere e proprie stragi tribali. Le diverse tribù aborigene dell’Australia, venerano l’Emù (Dromaius novaehollandiae), i serpenti o diverse larve di insetti, mentre gli Asmar della Nuova Guinea, attribuiscono la loro origine a una specie di “mantide”! Il culto degli animali, in una forma o nell’altra, fu comune a tutti popoli primitivi. Molto tempo prima dei Faraoni, l’Egitto era popolato da cacciatori nomadi, i quali, veneravano come sacri il coccodrillo e il serpente.

Più tardi, quando la vita divenne più sedentaria e diversi animali furono addomesticati, l’ariete, l’uro furono ugualmente divinizzati. Con i progressi della Civiltà, gli dei, divennero meno simili agli animali e più simili agli umani, una forma di “teoantropocizzazione”; tuttavia le due nature (come accadde sia nella Civiltà Egizia, come anche in quella Inca, Maya, Azteca) furono per un lungo periodo combinate insieme. Ad esempio, gli Egizi, adoravano Knoum, il dio della creazione con la testa d’ariete e, la Sfinge, in parte leone e in parte uomo detta anche “Chimera”.

Gli ibridi di uomo e animale, come i centauri (busto umano e corpo di cavallo) e i satiri (busto di uomo e piedi equini), abbondano nella mitologia greca, dove gli dei assumevano frequentemente le forme di animali, si pensi al dio “Proteus” o “Proteo” il pastore del mare, il quale poteva assumere la forma di qualsiasi essere marino. Per contro, gli animali incarnavano spesso le forme malefiche della creazione. Secondo una legenda greca, Zeus, sovrano dell’universo, sopraffà Tifeo, che rappresenta le forze brute della natura. Tifeo era un mostro spaventoso, il corpo era coperto di penne, cento teste di serpente erano collocate fra le spalle e un nido di vipere era contenuto nelle sue cosce. Il Minotauro era un mostro invincibile, con la testa di toro e il corpo umano, che viveva nell’Isola di Creta all’interno di un edificio con labirinto. La sua uccisione da parte di Teseo divenne come altre leggende, uno dei soggetti preferiti da molti pittori, scultori e poeti. Nella mitologia indù invece, il dio Visnù è un uomo con la testa di leone e quattro braccia, per uccidere il suo nemico, il re dei demoni.

Nei temi letterari, si fa spesso riferimento agli animali, sia che fossero leggendari o meno. Dare loro attributi umani, specialmente la parola e servirsene per denunciare i vizi della società è un procedimento usato dallo scrittore e filosofo Greco Esopo (il padre del teatro greco), nelle sue favole, circa 500 anni a.C. Questo fu adottato anche da altri scrittori, molti secoli dopo, come dal britannico George Orwell con la “Fattoria degli animali”, o nel libro di Adams Richard “La collina dei conigli”, un tentativo da parte della letteratura moderna, di trovare la propria Iliade od Odissea, o con il “Libro della giungla” di Rudyard Kipling, uno dei più leggendari, in cui si fa riferimento a una società animale antropizzata.

Nel corso della storia, l’uomo esprime il suo interesse per gli animali selvaggi, inizialmente utilizzandoli purtroppo, in serragli, come quelli dell’antica Mesopotamia, in Egitto e in Cina;

molti animali selvaggi, erano portati nelle arene dell’Antica Roma imperiale ad esibirsi, come in quella più celebre dell’Anfiteatro Flavio, il “Colosseo”. L’imperatore Ottaviano Augusto (29 a.C.-14 a.C.), a un certo punto del suo regno, manteneva nei suoi serragli circa 420 tigri (come ci è noto da documenti dell’epoca), 260 leoni, 600 altri carnivori africani, un rinoceronte e un grosso pitone. Sin dal Medio Evo, medici e alchimisti, usavano alcuni animali per i loro studi clinici e alchemici, tentando ti trovare con essi ed in essi, rimedi e pozioni magiche. Le tribù indiane della Guiana utilizzano ancora oggi delle mandibole di formica, come grappe chirurgiche di sutura.

Certamente, soprattutto in passato, numerose scoperte mediche sarebbero state impossibili senza gli animali. Così la cura del diabete con l’insulina ha avuto origine dalla scoperta fatta da due ricercatori medici Canadesi, nel 1922, Frederick Grant Banting e Charles Herbert Best, su un cane malato di diabete (inizialmente la chiamarono Isletina, perché isolata dalle cellule β, presenti insieme alle cellule α -che producono glucagone- nelle Isole del Langerhans). L’insulina che viene prodotta oggi per sintesi mediante le l’utilizzo di batteri di E.coli, venne però inizialmente estratta dal Pancreas di cane.

Certamente con il progredire della scienza, si spera che l’utilizzo degli animali, cessi almeno in quei campi non così necessari, quali la cosmesi, per cui si possono utilizzare altre metodologie! Qui si conclude questo articolo, per molti aspetti incompleto, su quello che è stato ed è, come continuerà ad essere, il rapporto, o meglio la “Storia Naturale del Rapporto Uomo-Animali” (altrettanto ci sarebbe da dire su quella con le Piante, che tratteremo in un successivo articolo), sia che questo abbia una natura conflittuale, o collaborativa, o purtroppo di sfruttamento; la cosa certa è che uomini e animali, hanno sin dall’origine convissuto insieme, abbracciando la storia e l’evoluzione della vita e della specie su questo pianeta; senza ombra di dubbio, uomo-animali-piante sono interconnessi intimamente e ognuno è necessario alla sopravvivenza dell’altro, anche se animali e piante non generano problemi equivalenti a quelli che l’essere umano crea a loro, agli ecosistemi e alla Biosfera, per cui dovrebbe esserci da parte nostra, un RISPETTO crescente verso chi, oltre a essere necessario alla nostra sopravvivenza, rende il pianeta Terra unico nel suo genere, almeno fino ad oggi!

Bibliografia

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6. A.Morelli s.d. “DEI MITI enciclopedia dei miti universale”, Edizioni Librarie italiane.

L’AZOTO E LE PRIME FORME DI CONCIME SULLA TERRA

Presente in grande quantità nell’aria, non è facilmente utilizzabile come fertilizzante inorganico. Scopriamo perché

Circa 9.000 anni prima di Cristo, alla fine del periodo del freddo noto come Dryas recente e l’inizio dell’Olocene, l’uomo scopre la possibilità di ricavare cibi coltivando la terra (Weisdorf,2005). Nasce così la Rivoluzione Agricola.

Le prime coltivazioni sembrerebbero essersi sviluppate in quella regione del Medio Oriente nota come “Mezzaluna fertile”, corrispondente a Palestina, Siria, Turchia, ed Iraq, progredendo poi nelle regioni confinanti alla velocità di circa 1 chilometro all’anno, sebbene sembri molto plausibile che l’agricoltura si sia sviluppata indipendentemente anche in altre parti del mondo.

Le prime produzioni furono cereali (farro ed orzo) e legumi (lenticchie, piselli, ceci), successivamente lino, per la produzione di tessuti e di olio. Le coltivazioni segnarono l’inizio della transizione dall’economia di caccia e raccolta a quella agricola, permettendo agli esseri umani di stabilirsi in insediamenti permanenti e di sviluppare società più complesse.

La produttività di un ettaro di terreno coltivato era almeno cento volte superiore a quella di un ettaro di foresta selvatica, con una disponibilità di cibo in grado di sfamare un maggior numero di persone. Ne seguì una maggiore stabilità ed un aumento della fecondità che hanno favorito la crescita demografica.

Gli stessi prodotti coltivati, consentivano di alimentare anche gli animali già addomesticati ed al seguito, dai quali si ricavavano carni, latte, uova, pelli, utensili di osso o di corno, oltre a lavoro e letame. Ma le coltivazioni, come tutti gli organismi viventi, hanno necessità di assimilare azoto per la formazione di composti organici vitali, quali le proteine e gli acidi nucleici. E proprio l’azoto, di cui è ricca l’atmosfera, era limitante nei terreni.

L’azoto atmosferico, ad eccezione di particolari batteri detti azotofissatori, in simbiosi con i rizomi di alcune piante (leguminose) che con un processo riduttivo sono in grado di trasformare l’azoto molecolare (N2) in ammoniaca (NH3), non può essere direttamente assorbito dagli organismi. È un fattore limitante per lo sviluppo delle produzioni, ma in realtà anche le alte energie dei fulmini durante i temporali, ossidando l’azoto gassoso, formano ossidi di azoto (NOx) i quali raggiungono

* Professore

direttamente il suolo tramite l’acqua contenuta nelle precipitazioni, sotto forma di acido nitrico HNO3.

Le sole sorgenti di azoto in forma utile per le coltivazioni furono per molti millenni l’azotofissazione biologica, assieme alla limitata quantità di azoto reso disponibile dall’azione delle scariche elettriche atmosferiche. Nel corso del Medioevo, la pratica della rotazione triennale delle colture (maggese), permise una maggior produzione di alimenti, inducendo un nuovo aumento della popolazione. Soltanto verso il XV secolo, quando con i grandi viaggi verso le Americhe è iniziato lo sfruttamento dei depositi di guano trovati su isole al largo del Perù, oltre al “Nitro del Cile”, un importante

deposito naturale di nitrati, è stato possibile implementare le coltivazioni con nuove sorgenti di azoto.

Tuttavia, mentre la prima risorsa era esauribile, la seconda era in competizione con altre industrie, quali la produzione di acido nitrico e di vernici e la fabbricazione di esplosivi. Dal XVIII secolo, commercializzata come solfato d’ammonio, diventava disponibile l’ammoniaca dalle acque di lavaggio del gas di città, ricavata come sottoprodotto della trasformazione del carbone in coke. Si trattava di una valida sorgente di fertilizzante, ma era ancora disponibile in quantità limitate.

Quando alla fine dell’800 i più grandi depositi di guano sulle coste del Perù iniziarono a scarseggiare, per la popolazione umana in continuo aumento si temeva Malthusianamente il peggio. Senza l’aiuto dei concimi non ci sarebbero state risorse per sfamare tutti. Fu chiaro che l’unica possibilità di sopravvivenza consisteva nell’affidarsi alla ricerca scientifica, in modo da trovare un metodo per produrre artificialmente i composti di azoto sfruttandone l’enorme risorsa atmosferica e chiunque avesse scoperto il modo per fare ciò, sarebbe diventato il salvatore dell’umanità.

Nel 1904, il chimico tedesco Fritz Haber iniziò a cimentarsi su tale progetto, cercando di far reagire l’azoto atmosferico con l’idrogeno. La principale sfida nella sintesi dell’ammoniaca era rompere il legame triplo tra gli atomi di azoto (N2) che è molto stabile e poco reattivo in condizioni standard. Cinque anni dopo, la fuoriuscita dai suoi alambicchi delle prime gocce di ammoniaca (NH3) sintetica, determinarono il successo di Haber che era riuscito nell’impresa esponendo atomi di idrogeno e molecole di azoto a temperature e pressioni elevatissime (Modak, 2002). La reazione di sintesi sperimentata con successo, considerata una delle innovazioni più importanti nella storia umana, produceva 2 moli di ammoniaca (NH3) partendo dalla reazione di una mole di azoto molecolare (N2) con 3 moli di idrogeno molecolare (H2):

N2 + 3H2 ⇆ 2NH3

Il processo venne poi ottimizzato con l’intervento di Carl Bosh, un ingegnere chimico che si occupò di sviluppare il processo su scala industriale. Già nel 1911 diventava operativo in Germania il primo stabilimento per la produzione industriale di ammoniaca che a questo punto, poteva essere disponibile apparentemente senza limitazioni. La Prima guerra mondiale però, dirottò quasi subito l’ammoniaca sintetizzata verso la produzione di esplosivi, divenendo finalmente disponibile per l’agricoltura solamente al termine del conflitto.

Carl Bosh fu poi premiato col Nobel per la chimica nel 1931, mentre Fritz Haber, sebbene tra forti polemiche, aveva già ricevuto il Nobel nel 1918, sebbene gli alleati lo avessero da poco dichiarato criminale di guerra, per via delle sue responsabilità sull’ideazione e sull’impiego di armi chimiche utilizzate dall’esercito tedesco nel corso del

Nato nel 1868 a Breslavia da una facoltosa famiglia ebraica, Haber si appassionò alla chimica diventando poi professore di chimica fisica ed elettrochimica presso l’Istituto di tecnologia di Karlsruhe. Dopo aver sviluppato un processo per convertire il gas azoto presente nell’atmosfera terrestre in ammoniaca, un composto utilizzato nei fertilizzanti, sviluppa l’impiego del suo prodotto nella fabbricazione di esplosivi che la Germania utilizzerà nel primo conflitto mondiale.

Ma il più orribile e sconvolgente contributo di Haber al conflitto fu la produzione di armi chimiche di distruzione di massa, cloro gassoso e fosgene, per le quali egli stesso supervisionò la sperimentazione e l’applicazione sulle trincee nemiche. Haber era sposato con Clara Immerwarh, una chimica tedesca, prima donna in Germania a conseguire un dottorato in chimica. Lei stessa era disgustata dal lavoro del marito sulla guerra chimica e lo supplicò invano di fermarsi. Nell’aprile del 1015, il primo attacco con gas cloro ad Ypres nelle Fiandre causò in pochi minuti la morte di oltre 5000 soldati franco-algerini. Dopo i festeggiamenti di Haber per l’inatteso successo, la Immerwarh si suicidò con la stessa pistola militare di ordinanza del marito.

Sulla base della Convenzione dell’Aja del 1907, Friz Haber fu dichiarato criminale di guerra da parte degli alleati. Malgrado ciò, nel 1918 gli fu conferito il premio Nobel per la scoperta del processo di sintesi dell’ammoniaca. Il disaccordo tra gli scienziati fu notevole, molti di loro disertarono la cerimonia e addirittura due vincitori, per protesta non ritirarono il premio. Con l’ascesa in Germania del nazionalsocialismo la situazione si fece critica per Haber. Max Plank, il fisico tedesco che aveva dato inizio alla rivoluzione quantistica, cercò invano di intercedere presso Adolf Hitler, il quale si adirò e gridò: “Se la scienza non può fare a meno degli ebrei, noi in pochi anni faremo a meno della scienza”.

La sua grandezza e la sua infamia trovano riscontro nell’importanza della sua scoperta, in grado di aprire la strada ai fertilizzanti azotati indispensabili per l’agricoltura, ma anche nella determinazione spesso priva di scrupoli con la quale progettò e sperimentò strumenti di morte. Anche i gas letali utilizzati ad Auschwitz nel corso del secondo conflitto mondiale, derivavano dall’insetticida cianogenetico in forma gassosa Zyklon B (acido prussico), sintetizzato da Friz Haber (Goran, 1967), sebbene egli non abbia avuto l’opportunità di osservarne i risultati, infatti morì a Basilea, in Svizzera, nel 1934.

primo conflitto mondiale.

Senza ammoniaca non ci sarebbero fertilizzanti inorganici e quasi la metà del mondo soffrirebbe la fame. In un articolo apparso su Nature il 29 luglio 1999 a firma di Vaclav Smill, il processo Haber-Bosh per la produzione di ammoniaca viene presentato come la più importante tra tutte le meraviglie tecnologiche del XX secolo. Infatti, di tutte le meraviglie tecnologiche del secolo, il processo Haber-Bosch è quello che ha fatto la differenza maggiore per la nostra sopravvivenza.

Bibliografia

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Non si arresta e preoccupa il calo delle nascite in Italia. Secondo i nuovi dati Istat pubblicati oggi, infatti, nel 2023 le nascite della popolazione residente sono 379.890, circa 13mila in meno rispetto al 2022 (-3,4%). Ciò significa che per ogni 1.000 residenti in Italia sono nati poco più di sei bambini.

Un problema, quello della denatalità, causato non soltanto da ragioni economico-sociali (sicurezza lavorativa, aumento del costo della vita, mancanza di servizi a sostegno delle famiglie, etc.), ma anche dalle crescenti difficoltà di concepimento nelle coppie che desiderano avere un figlio. La riproduzione umana è un processo biologico caratterizzato da diversi steps fortemente influenzati dallo stile di vita e, in particolare in ambito nutrizionale, dall’apporto di nutrienti, così anche da anti-nutrienti ed interferenti endocrini. Tanto il gamete femminile (cellula uovo o ovocita), quanto quello maschile (spermatozoo), necessitano di un ambiente sano e ricco di nutrienti per il loro sviluppo adeguato e tutti gli eventi molecolari e cellulari che si verificano dopo la loro unione (fecondazione) dipendono in materia critica dalla disponibilità di energia e di nutrienti. Attualmente circa il 15% delle coppie, ossia più di una su dieci, sperimenta problemi legati alla fertilità, non riuscendo a concepire dopo un anno di tentativi non protetti. Le cause dell’infertilità, sia femminile che maschile, sono numerose e di diversa natura. Possono essere correlate a specifiche patologie quali obesità (che specie nel maschio possono influenzare anche erezione e libido), infezioni da malattie a trasmis-

* Biologi Nutrizionisti

sione sessuale (sifilide, gonorrea, clamidia), endometriosi, policistosi ovarica, ma anche a fattori sociali (la ricerca di un figlio in tarda età) o allo scorretto stile di vita (uso di droghe, abuso di alcool, fumo, condizioni lavorative, inquinamento).

Altro fattore incidente sulla patologia, anche laddove non si rilevano altri ostacoli sui gameti e sugli organi riproduttivi, è il microbiota intestinale, ossia la corretta composizione della flora batterica con le migliaia di specie batteriche che la compongono. La tossicità degli alimenti, gli stili di vita, l’ignoranza di questi fattori, alimentari ed ambientali, come incidenti, defrauda migliaia di coppie dalla possibilità di concepire un figlio.

Fra quest’ultima serie di fattori, un ruolo importante ha anche l’alimentazione. Seguire un’alimentazione corretta migliora il benessere generale del corpo e aumenta la fertilità, sia maschile che femminile. L’alimentazione dovrebbe innanzitutto ripulire il corpo da tossine e radicali liberi che minacciano la capacità riproduttiva. Per questo è essenziale assumere cibi ricchi di antiossidanti e in grado di sostenere la funzione epatica. Inoltre, il cibo fornisce le giuste quantità di grassi necessari alla produzione degli ormoni steroidei e favorisce l’equilibrio ormonale, supportando la produzione e le funzioni degli stessi ormoni. Infine, è importante introdurre nella dieta le giuste dosi di vitamine e sali minerali che supportano il processo di fecondazione. Attraverso la dieta possiamo infatti assumere i giusti nutrienti necessari a supportare l’equilibrio ormonale e la salute degli ovociti e degli spermatozoi. Il legame tra alimentazione e fertilità è stato ampiamente indagato in ambito scientifico e numerose sono le evidenze a suo favore e, in questo la Dieta Mediterranea, con i suoi alimenti

di Dario Incorvaia * e Matteo Pillitteri *

nutraceutici, svolge un ruolo rilevante nel migliora i parametri seminali. Avere delle corrette abitudini alimentari e uno stile di vita sano aumenta la capacità di concepimento, aiutando il nostro corpo a restare in forma e in salute. In molti credono di adottare uno stile alimentare sano, ma il più delle volte la loro dieta non è quella adatta a migliorare la fertilità. L’alimentazione mirata al concepimento deve includere cibi ricchi di nutrienti specifici necessari per la riproduzione ed equilibrio ormonale, lo sviluppo fetale, la salute degli ovuli e degli spermatozoi.

Le persone sottopeso o in sovrappeso, a causa di un apporto calorico e proteico sbilanciato, possono presentare alterazioni della funzionalità ovarica con conseguente aumento dell’infertilità. Inoltre, un’eccessiva assunzione di carboidrati, acidi grassi, proteine, vitamine e micronutrienti, può avere un impatto negativo sull’ovulazione (i fattori nutrizionali possono influenzare la maturazione degli ovociti, la qualità degli embrioni e l’efficienza dell’impianto) e, un BMI elevato.

Il BMI è un parametro che non differenzia la massa grassa da quella magra. Oltre al peso, infatti, acquisisce particolare importanza, la percentuale, oltre che la distribuzione, del grasso corporeo. Il tessuto adiposo, infatti, è un organo endocrino attivo capace di produrre molecole pro-infiammatorie (promuoventi lo stato di infiammazione corporea) e di modulare la sintesi ormonale. Queste molecole, infatti, interferiscono con l’insulina, l’ormone che regola la quantità di glucosio nel sangue. L’insulina è coinvolta nello sviluppo follicolare e nell’ovulazione influenza, mediante complessi meccanismi, i livelli di ormoni sessuali liberi in circolazione, ma anche la recettività endometriale e l’impianto stesso; promuove l’accumulo del grasso visce-

© monticello/shutterstock.com

rale e sostiene un’attività pro-infiammatoria.

Un’alimentazione corretta aiuta ad attenuare gli stati infiammatori che ostacolerebbero la fertilità. In particolare, assumere quantità controllate di carboidrati mantiene equilibrati i livelli di glucosio nel sangue e, di conseguenza, i livelli di glicemia e insulina.La sana alimentazione, dunque, influenza la fertilità, in quanto può contribuire ad instaurare nell’organismo condizioni in grado di massimizzare la capacità riproduttiva della coppia alla ricerca di una gravidanza, quali:

• Peso corporeo adeguato e composizione corporea ottimale

• Regolazione del metabolismo glucidico

• Equilibrio ormonale

• Modulazione immunitaria e dell’inflammaging

• Eubiosi

• Modulazione nutrigenomica ed epigenetica

Un corretto stile di vita e la Dieta Mediterranea personalizzata possono garantire l’apporto di macronutrienti (carboidrati, proteine e grassi), micronutrienti (vitamine e minerali) in grado di attivare o spegnere processi metabolici, a supporto della fertilità e della salute riproduttiva.

Per una efficace gestione dell’infertilità a 360° si rende necessario un maggiore coordinamento tra i vari specialisti che concorrono al processo di prevenzione e cura dell’infertilità. La Rete tra nutrizionisti e specialisti consente di fornire risposte qualificate inserite all’interno del percorso complessivo per la ‘difesa’ della fertilità, mediante interventi di prevenzione e diagnosi precoce, al fine di curare le malattie dell’apparato riproduttivo e intervenire, quando possibile, per ripristinare la fertilità naturale o adottare un approccio più idoneo.

SICUREZZA ALIMENTARE, NUTRIZIONE. IL MINISTERO DIMENTICA I BIOLOGI!

Il sottosegretario Marcello Gemmato ha emanato il decreto, che di seguito pubblichiamo, riguardante il Tavolo della Sicurezza Alimentare umana ed animale.

E tuttavia il Ministero ha ritenuto non annoverare tra i componenti del Tavolo alcun rappresentante della Categoria dei Biologi Nutrizionisti, ancorché la Categoria annoveri migliaia di professionisti che ai vari livelli di attività, Universitaria, istituzione pubblica e privata, libero professionista.

Un’ulteriore dimenticanza che non passerà inosservata né accettata come tale. FNOB a tutela della categoria impugnerà l’atto innanzi al magistrato competente.

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