Il Giornale dei Biologi - N.4 - Aprile 2025

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Giornale dei Biologi

BIOLOGI ALLA RISCOSSA

Oltre mille all’appuntamento del 13 maggio scorso per chiedere al ministro della Salute Schillaci un tavolo di incontro tra le professioni sanitarie

Maggio 2025
Anno VIII - N. 5

14 Giugno 2025

Grand Hotel Salerno

Mai più morti improvvise: la risonanza con contrasto svela la cicatrice al cuore di Rino Dazzo

I casi di morte improvvisa negli atleti. Ecco perché si è fermato il cuore dei calciatori Astori e Morosini di Matilde Andolfo

Paura allo stadio: da Taccola a Bove di Rino Dazzo

Defibrillatore sottocutaneo e legge di Rino Dazzo

L’orgoglio dei biologi di Matilde Andolfo

INTERVISTE

Gen&Rare: speranza per le malattie genetiche e rare di Ester Trevisan

SALUTE

Tumore al cervello: scoperta la proteina che scatena la sua aggressività di Sara Bovio

Cancro alla prostata, la svolta: diagnosi precoce con un test delle urine di Domenico Esposito

Sviluppato un nuovo anticorpo più resistente ed efficace nel combattere i tumori di Sara Bovio

Il ruolo nascosto del DNA ereditario nella lotta contro il cancro di Carmen Paradiso

Nel DNA delle ande il segreto genetico della vita ad alta quota di Carmen Paradiso

Asma nei bambini: i miti da sfatare di Domenico Esposito

Roma, rimosso tumore record da 40 chili di Domenico Esposito

Terapie del dolore: replicata in laboratorio via neurale chiave di Sara Bovio

Il valore è sballato: così un biologo ha salvato la vita a un paziente di Domenico Esposito

Nanomateriali contro l’antibiotico-resistenza: una nuova frontiera della medicina di Carmen Paradiso

Le cellule ascoltano: la scoperta che rivoluziona la biologia cellulare di Carmen Paradiso

Embrioni crioconservati: definire il problema per cercare soluzioni di Valerio Pisaturo

Biotecnologie e PMA: un connubio per il futuro della fertilità di Giovanni Ruvolo

Pterostilbene: fitocomposto con numerose promettenti qualità per la salute dell’uomo di Carla Cimmino

Cellule cd34+ e mcl-1: nuove prospettive nella tricologia rigenerativa di Biancamaria Mancini

AMBIENTE

Ceneri vulcaniche e scarti alimentari: nasce il fertilizzante del futuro di Gianpaolo Palazzo

Viaggio nel buio: robot rivela vita inedita tra le montagne sommerse di Gianpaolo Palazzo

Ritorno al futuro: a bordo di un tram per rivitalizzare le città italiane di Gianpaolo Palazzo

La formica fossile di 113 milioni di anni fa di Michelangelo Ottaviano

Lupi e cani, un confine sempre più sottile di Michelangelo Ottaviano

Prevenzione primaria: come e perché di Paolo Paganelli

Teheran sprofonda: una crisi invisibile di Michelangelo Ottaviano

Grande successo per il simposio nazionale sulla conservazione dei semi antichi e della biodiversità agricola di Giovanni Misasi

INNOVAZIONE

Un nuovo biosensore per rilevare i virus di Pasquale Santilio

Le proprietà della materia soffice attiva di Pasquale Santilio

Meno scarti, più gusto: l’invenzione tricolore per ortofrutta più resistente di Gianpaolo Palazzo

L’ossido di grafene per filtrare l’acqua di Pasquale Santilio

Modalità wireless per le lesioni spinali di Pasquale Santilio

BENI CULTURALI

Dagli scavi nel chiostro dei canonici emerge la prima cattedrale di Padova di Rino Dazzo

Italia regina del volley: Perugia campione d’Europa, Conegliano pigliatutto di Antonino Palumbo

Tennis: Roma incorona Paolini (ed Errani), Musetti e Sinner sbattono su Alcaraz di Antonino Palumbo

Pallamano, prima volta agli europei per l’Italia di Antonino Palumbo

Stano e l’Italia “super” nella marcia agli europei di Antonino Palumbo

SCIENZE

Takotsubo: la sindrome del cuore spezzato di Daniela Bencardino

Screening genomico neonatale (gNBS): nuova frontiera della medicina predittiva di Antonio Novelli ed Emanuele Agolini

La rivoluzione verde: così la neo agricoltura ha sfamato miliardi di persone di Marco Saroglia

Indicatori biologici ed ecotossicologici in suoli e siti contaminati di Anna De Marco

Informazioni per gli iscritti

Si informano gli iscritti che gli uffici della Federazione forniranno informazioni telefoniche di carattere generale dal lunedì al giovedì dalle 9:00 alle ore 13:30 e dalle ore 15:00 alle ore 17:00. Il venerdì dalle ore 9:00 alle ore 13:00

Tutte le comunicazioni dovranno pervenire tramite posta (presso Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi, via Icilio 7, 00153 Roma) o all’indirizzo protocollo@cert.fnob.it, indicando nell’oggetto l’ufficio a cui la comunicazione è destinata.

È possibile recarsi presso le sedi della Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi previo appuntamento e soltanto qualora non sia possibile ricevere assistenza telematica. L’appuntamento va concordato con l’ufficio interessato tramite mail o telefono.

UFFICIO CONTATTO

Centralino 06 57090 200

Ufficio protocollo protocollo@cert.fnob.it

Anno VIII - N. 5 Maggio 2025

Edizione mensile di Bio’s

Testata registrata al n. 113/2021 del Tribunale di Roma

Diffusione: www.fnob.it

Direttore responsabile: Vincenzo D’Anna

Giornale dei Biologi

BIOLOGI ALLA RISCOSSA

Oltre mille all’appuntamento del 13 maggio scorso per chiedere al ministro della Salute Schillaci un tavolo di incontro tra le professioni sanitarie

Questo magazine digitale è scaricabile on-line dal sito internet www.fnob.it

Questo numero del “Giornale dei Biologi” è stato chiuso in redazione il 30 maggio 2025.

Contatti: protocollo@cert.fnob.it

Gli articoli e le note firmate esprimono solo l’opinione dell’autore e non impegnano la Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi.

Immagine di copertina: @ FNOB

Primo passo verso l’Ordine che verrà

Una massima di antica saggezza recita che “per quanto lungo

sia il viaggio da compiere esso comincia sempre con un primo passo”. Il viaggio per i Biologi del Terzo Millennio è ancora lungo ma intanto il primo, significativo, passo lo si è già compiuto il 13 maggio del 2025 con la manifestazione tenutasi a Roma nell’Auditorium del Parco della Musica. Oltre mille “camici bianchi” iscritti all’Albo, provenienti da ogni parte d’Italia, si sono ritrovati in quel luogo per tutelare ed

Oltre mille biologi iscritti all’Albo, provenienti da ogni parte d’Italia, si sono ritrovati per tutelare, ampliare e difendere la propria categoria

ampliare le competenze professionali della propria categoria, per difendere le prerogative di cui ciascuno di noi è portatore e per affermare che a nessuno è consentito di minacciare e limitare le nostre competenze. In una cornice maestosa e partecipe per la prima volta nella loro storia i Biologi hanno dunque dato prova di esserci e di sapersi difendere.Si è trattato di compiere un gesto, uno sforzo organizzativo, un sacrificio personale, per poter conservare quel che già ci compete e per aggiornare quelle stesse competenze in -

nanzi alla futura prospettiva di esercizio della professione. La Biologia, in quanto scienza giovane ed aperta a nuove quotidiane scoperte nel campo della vita, aggiorna infatti continuamente sia le conoscenze sia le opportunità di poterle utilizzare in nuovi campi d’applicazione.

Gli esiti della manifestazione non si sono fatti attendere e già nuove strade di confronto e di prospettiva si sono spalancate

Occorreva peraltro anche porre un argine di chiarezza ai provvedimenti legislativi che sono all’attenzione del Parlamento in materia di servizi sanitari innovativi come la cosiddetta “Farmacia dei Servizi”, oppure l’elenco aggiornato delle attribuzioni alla professione di Biologo, le nuove aree di specializzazione, la riorganizzazione della rete dei laboratori, la tutela della pratica professionale dei biologi nutri -

zionisti. Insomma una partita complessa e decisiva per tutti coloro che svolgono e saranno chiamati a svolgere la variegata gamma delle diverse attività in campo professionale che sono tipiche dei Biologi e che, come indicato nell’Albero delle Opportunità, assommano a decine di diverse tipologie di impiego. Gli argomenti sono stati tutti adeguatamente sviscerati dagli autorevoli rappresentati intervenuti all’evento della Capitale, sia per la parte tecnico-scientifica sia per quella politico-istituzionale. Gli esiti della manifestazione non si sono fatti attendere e già nuove strade di confronto e di prospettiva si sono spalancate con la convocazione, in primis, di un tavolo presso il Ministero

della Salute, con seduti attorno tutti i rappresentanti degli Ordini professionali interessati. C’è inoltre anche da segnalare la presenza alla nostra manifestazione dell’Ordine dei Tecnici di Laboratorio e dei Dietisti che ha consentito di superare vecchie idiosincrasie, aprendo ad una collaborazione futura che non potrà che portare chiarezza e maggiore forza per le categorie interessate. Così come significativa è stata la presenza delle società scientifiche del comparto laboratoristico insieme con l’ANAAO – Assomed e Federlab, sigle che sono maggiormente rappresentative del comparto della specialistica ambulatoriale ed ospedaliera. Insomma: laddove prima vi erano ombre oggi si sono acce -

La FNOB si apre al confronto ed al dialogo nel giorno stesso in cui ha mostrato la propria forza e la capacità di esserci numerosa e determinata

se luci. Laddove ci si guardava con sospetto oggi è apparsa manifesta l’apertura alla collaborazione. Per quanto ci riguarda direttamente, la Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi (FNOB) si apre al confronto ed al dialogo nel giorno stesso in cui ha potuto mettere in mostra la propria forza e la capacità di esserci numerosa e determinata. L’attenzione del mondo politico è stata parimenti dimostrata con l’autorevole presenza del senatore Maurizio Gasparri e con la sua diretta interlocuzione, al termine della manifestazione, con il ministro della Salute. I risultati positivi, ne siamo certi, non tarderanno ad arrivare perché ovunque si semina bene poi inevitabilmente si raccoglie. Non manchereb -

be, in verità, qualche motivo di doglianza per la disarmonia nella provenienza territoriale dei partecipanti: tantissimi quelli degli Ordini regionali del Meridione a fronte di una scarsa affluenza dei colleghi del Centro Nord Italia. Ma più in generale pesa il fatto che, per quanto numerosa sia stata la presenza dei Biologi alla convention del 13 maggio ed il cospicuo numero di coloro che hanno seguito l’evento tramite lo streaming diretto oppure registrato sui vari siti social, la percentuale è apparsa comunque bassa rispetto al numero complessivo degli iscritti all’Albo. Ancor di più spiace che per l’ennesima volta una larga fetta di costoro abbia completamente ignorato le questioni essenziali che sono state alla base degli sforzi compiuti. Fino a quando i solipsisti, gli scettici, gli ignavi ed i critici per ignoranza saranno così tanti, formare una categoria “vincente” ed autorevole sarà difficile se non impossibile. In giro ci sono ancora troppi egoisti e troppi opportunisti. Gente che per non perdere un giorno di guadagno corre poi il rischio di perderlo per una vita intera. È su questo versante che dovranno lavorare gli Ordini territoriali che operano laddove quella particolare tipologia di colleghi è presente. Tuttavia oggi è un giorno di letizia e di orgoglio. Non c’è tempo per le lamentele. Il rimanente sarà oggetto del lavoro del futuro. E noi ci saremo a farlo. Il primo passo per l’Ordine che verrà è compiuto.

In giro ci sono ancora troppi egoisti e troppi opportunisti, che per non perdere un giorno di guadagno rischiano di perderlo per una vita intera

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MAI PIÙ MORTI IMPROVVISE LA RISONANZA CON CONTRASTO SVELA LA CICATRICE AL CUORE

La cruciale scoperta di Domenico Corrado, super perito nei casi dei calciatori Morosini e Astori

Il lavoro di prevenzione e l’efficacia dello step test che ha ridotto i decessi del 90%

Gli studi di Corrado e del suo staff, resi possibili anche dai progressi della genetica molecolare, hanno consentito di individuare, in diversi malori di grandi sportivi, un’instabilità elettrica primitiva delle cellule miocardiche che induce fibrillazione ventricolare con arresto cardiaco, pur in assenza di una dimostrabile ed evidente malatta cardiaca strutturale. Il cuore, insomma, appare normale: ma in realtà non lo è.

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C’è un tratto comune, una patologia maligna subdola e invisibile agli accertamenti di routine, che unisce attraverso un filo rosso tragedie lontane e recenti, concretizzatesi o soltanto sfiorate sui campi di calcio o in occasione di altri eventi sportivi. Morti improvvise e sconvolgenti come quelle di Piermario Morosini o di Davide Astori, oppure arresti cardiaci che solo la prontezza e la tempestività dei soccorsi hanno evitato potessero portare al decesso: un esempio su tutti, quello del centrocampista danese Christian Eriksen a Euro 2020.

Il trait d’union tra i vari casi è una particolare cicatrice, una sorta di spia rossa, di indizio rivelatore di un problema più grave, su cui è necessario intervenire tempestivamente. A scoprirla, con l’ausilio di una speciale risonanza cardiaca con mezzo di contrasto, è stato un aritmologo di fama internazionale, Domenico Corrado, direttore dell’Unità operativa complessa dell’Azienda Ospedaliera di Padova e docente dell’Ateneo della città veneta. E non solo.

Corrado, infatti, è stato nominato super perito nelle indagini relative proprio alle morti di Astori e Morosini ed è profondo conoscitore della materia in questione. Il lungo

lavoro di ricerca è stato determinante per una scoperta dai risvolti estremamente importanti, che potrebbe scongiurare nuovi drammi riguardanti giovani campioni, o comunque atleti apparentemente sani, attraverso un’efficace opera di prevenzione. Gli studi di Corrado e del suo staff, resi possibili anche dai progressi della genetica molecolare, hanno consentito di individuare, in diversi malori di grandi sportivi, un’instabilità elettrica primitiva delle cellule miocardiche che induce fibrillazione ventricolare con arresto cardiaco, pur in assenza di una dimostrabile ed evidente malatta cardiaca strutturale. Il cuore, insomma, appare normale: ma in realtà non lo è. Grazie ai test genetico-molecolari questa patologia ereditaria si disvela, consentendo di avviare subito terapie farmacologiche in caso di positività, oppure - per i casi più gravi - di impiantare un defibrillatore.

Ma in che modo la risonanza cardiaca con contrasto riesce a evidenziare la cicatrice?

Semplicemente, le indagini più comuni come elettrocardiogramma ed ecocardiogramma non sono sufficientemente sensibili e non riescono a rilevare la lesione cicatriziale, che è confinata in una regione sub epicardica, proprio sul versante esterno della parete del ventricolo. Il mezzo di contrasto in questo

di Rino Dazzo

aspetto è cruciale, perché l’immagine della risonanza mette in evidenza quello che è il segnale inequivocabile della compromissione di una parte del cuore, una specie di cotenna biancastra. Un graffio fatale, riscontrato sul cuore di Morosini, il centrocampista del Livorno scomparso in campo a Pescara il 14 aprile 2012, e in quello di Astori, il difensore della Fiorentina morto in albergo prima della sfida di Udine, in programma il 4 marzo 2018. Ma anche sul cuore di Sonny Colbrelli, ciclista bresciano che dopo la prima tappa del Giro di Catalogna del 2022 ha accusato convulsioni e un arresto cardiorespiratorio, venendo salvato dal defibrillatore.

Tre le possibili cause della cicatrice-killer, come sottolineato dallo stesso Corrado e dagli studi più recenti. La lesione potrebbe in primo luogo essere la conseguenza di una precedente miocardite, oppure - in seconda istanza - di una particolare cardiomiopatia genetica di tipo aritmogeno, che non dà manifestazioni della sua presenza fino a un evento di aritmia potenzialmente mortale. La terza ipotesi vede nella cicatrice il risultato di un danno al miocardio provocato da attività fisica molto intensa, tipica dei calciatori e più in generale degli sportivi di alto livello. Sono soprattutti gli sforzi prolungati e ripetuti a

esporre gli atleti al rischio di morte miocellulare da stress meccanico, a cui può seguire la cicatrice sub epicardica; basti pensare che ciclisti o maratoneti, al termine delle loro gare, presentano alterazioni significative e preoccupanti della troponina, proteina i cui livelli si alzano anche in presenza di un infarto.

Purtroppo la risonanza non può essere utilizzata per un eventuale screening di massa: i cardiologi, però, possono individuare e selezionare gli atleti a rischio chiamati a effettuarla. Come? Molto utile si sta rivelando l’utilizzo di una prova da sforzo sotto forma di step test con monitoraggio continuo, capace di rilevale le extrasistole che sono espressione di una cicatrice sottostante. Introdotto nel Veneto nel 1982, questo test ha consentito di ridurre la mortalità del 90% tra i giovani atleti e potrebbe essere esteso anche ai non sportivi.

Un’altra possibile soluzione definitiva del problema è legata alla possibilità di effettuare, in un futuro non lontano, un intervento mininvasivo di stellectomia latero cervicale capace di prevenire le morti da sforzo e di sostituire in tutto e per tutto la terapia col defibrillatore: in questo modo i calciatori e gli sportivi potrebbero continuare a praticare la loro professione. Anche in Italia.

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Molto utile si sta rivelando l’utilizzo di una prova da sforzo sotto forma di step test con monitoraggio continuo, capace di rilevale le extrasistole che sono espressione di una cicatrice sottostante. Introdotto nel Veneto nel 1982, questo test ha consentito di ridurre la mortalità del 90% tra i giovani atleti e potrebbe essere esteso anche ai non sportivi.

L’autopsia molecolare ha svelato la causa dell’arresto cardiaco dei due calciatori una “cicatrice” al ventricolo sinistro che sfugge alle normali strumentazioni ma visibile con una risonanza. Lo svela l’aritmologo di fama mondiale Domenico Corrado

I CASI DI MORTE IMPROVVISA NEGLI ATLETI. ECCO PERCHÉ SI È FERMATO IL CUORE DEI

CALCIATORI ASTORI E MOROSINI

Primo piano
di Matilde Andolfo

La causa di alcune morti improvvise sul campo di calcio è quasi sempre imputabile a un problema elettrico cardiaco. Una grave fibrillazione che insorge quando il fisico è spinto oltre i limiti. Una ricerca dell’Università di Padova ha svelato la causa delle morti dei calciatori Piermario Morosini e Davide Astori: una lesione al ventricolo sinistro non riscontrabile attraverso le normali strumentazioni, ma rilevabile con una risonanza cardiaca.

A rivelarlo è Domenico Corrado* aritmologo di fama mondiale, responsabile del Centro Genetico Clinico delle Cardiomiopatie Aritmiche e Cardiologia dello Sport presso l’Azienda Ospedaliera-Università di Padova e super perito chiamato a far luce appunto sulla scomparsa dei due calciatori italiani. In questa lunga intervista il professor Corrado ci ha spiegato come insorge la “cicatrice” incriminata, una fibrosi miocardica provocata da un danno cardiaco evidenziabile con risonanza cardiaca. Un dato inequivocabile riscontrato attraverso l’autopsia molecolare.

Professore la morte improvvisa degli atleti ha una matrice comune?

Raramente la morte improvvisa negli atleti avviene per cause meccaniche. Generalmente, nel 95% dei casi, la morte improvvisa negli atleti insorge per una fibrillazione ventricolare, una grave aritmia che ferma il cuore. Un meccanismo comune a tutte le cause di morte. Ma il meccanismo si distingue dalle cause.

Quali sono le cause che provocano l’arresto cardiaco aritmico?

Le cause sono molteplici. Nella maggior parte dei casi si tratta di malattie genetiche del muscolo cardiaco, le cardiomiopatie, ipertrofica, aritmogena. Quindi ci sono le patologie aterosclerotiche che possono manifestarsi anche

*Ordinario di Malattie dell’Apparato Cardiovascolare, Direttore della Clinica Cardiologia/UOC di Cardiologia, Responsabile Centro Genetico Clinico delle Cardiomiopatie Aritmiche e Cardiologia dello Sport, Dipartimento di Scienze Cardio-Toraco-Vascolari e Sanità Pubblica Azienda Ospedaliera Università di Padova

nel giovane, le “aterosclerosi premature” che provocano un’ischemia miocardica e l’arresto cardiaco. E ancora esiste l’anomalia congenita delle coronarie con decorso “aberrante”.

Abbiamo poi la miocardite, un’infiammazione, su base infettiva e non, che porta all’instabilità elettrica del cuore. Seguono le patologie del tessuto di conduzione come la sindrome di Wolff-Parkinson-White. Queste patologie sono state riconosciute e identificate negli atleti sopravvissuti alla crisi cardiaca e in quelli deceduti attraverso l’esame autoptico. Tuttavia esiste una casistica, un gruppo di pazienti, che varia dal 10 al 15% dei casi, cui non è stata riscontrata alcuna patologia cardiaca nota.

Le malattie dei canali ionici cardiaci, chiamate anche canalopatie, sono patologie che causano alterazioni nella funzione dei canali ionici presenti sulla membrana delle cellule cardiache. Queste alterazioni possono portare a disturbi del ritmo cardiaco, aritmie, e in alcuni casi, a morte cardiaca improvvisa. Si tratta di malattie genetiche che non hanno un fenotipo evidenziabile con le tecniche tradizionali di imaging. In questo caso l’autopsia tradizionale non rivela la patologia. È una mors sine materia.

In questi casi come si procede?

Si procede all’autopsia molecolare, cioè dal dna estratto dal sangue del paziente si esegue lo screening delle varianti genetiche che sappiamo associate a questo tipo di patologie. Con questa tecnica è possibile fare diagnosi post mortem per la sindrome del QT lungo, la sindrome di Brugada o la tachicardia ventricolare polimorfa catecolaminergica.

Qual è vantaggio?

Che se si tratta di una malattia genetica è possibile estendere lo screening genetico agli altri componenti del nucleo familiare così da prevenire eventi infausti e la morte.

Torniamo alla “cicatrice” sul ventricolo sinistro

Si tratta di una fibrosi miocardica, non ischemica cioè non derivante da infarto, segmentaria, non transmurale perché rimane confinata nella parte esterna della parete cardiaca. Questa cicatrice è stata la causa di arresto cardiaco di Astori e Morosini e di altri atleti. È stato possibile individuarla grazie a una risonanza magnetica cardiaca che permette una caratterizzazione tessutale.

Raramente la morte improvvisa negli atleti avviene per cause meccaniche. Generalmente, nel 95% dei casi, la morte improvvisa negli atleti insorge per una fibrillazione ventricolare, una grave aritmia che ferma il cuore. Un meccanismo comune a tutte le cause di morte. Ma il meccanismo si distingue dalle cause.

Domenico Corrado.

Tre sono le cause principali della cicatrice. La prima è una cicatrice riconducibile a una precedente miocardite, la seconda è riconducibile a una cardiomiopatia genetica, per esempio quella aritmogena, che può manifestarsi improvvisamente con un evento aritmico potenzialmente mortale. Terza causa, su cui stiamo lavorando molto, è che la cicatrice sia il risultato di un danno miocardico provocato da attività fisica intensa.

© Keshi Studio/shutterstock.com

L’impregnazione miocardica tardiva (late gadolinium enhancement, LGE) è una tecnica di risonanza magnetica cardiaca (RM) che consente di visualizzare la presenza e la localizzazione di tessuto miocardico danneggiato, la fibrosi che si forma a seguito di una lesione e del conseguente processo riparativo cicatriziale.

Quali sono gli effetti negativi di questa “cicatrice”?

Se molto estesa e quindi indicativa di una perdita importante del muscolo cardiaco, la cicatrice può incidere sulla funzione contrattile del ventricolo sinistro, ma questo è un danno osservato raramente. Comune invece è che la cicatrice faccia da “sorgente” di aritmie che possono portare all’arresto cardiaco soprattutto dopo la stimolazione adrenergica dell’atleta.

Perché questa cicatrice ha acquisito una certa rilevanza solo in tempi recenti?

Il patologo non dava importanza diagnostica a questa piccola fibrosi non ischemica. Adesso grazie alla risonanza cardiaca sappiamo che questa cicatrice può portare ad eventi aritmici nefasti.

Negli screening per gli atleti esiste un esame “predittivo” per la cicatrice?

La prova da sforzo sotto forma di “step test” con monitoraggio continuo è in grado di rilevare eventuali extrasistoli, la spia di una eventuale cicatrice. In questo caso l’indicazione successiva è la risonanza al cuore.

Quali sono le cause della cicatrice?

Tre sono le cause principali. La prima è una cicatrice riconducibile a una precedente miocardite, la seconda è riconducibile a una cardiomiopatia genetica, per esempio quella aritmogena, che può manifestarsi improvvisamente con un evento aritmico potenzialmente mortale.

Terza causa, su cui stiamo lavorando molto, è che la cicatrice sia il risultato di un danno miocardico provocato da attività fisica intensa.

A quali tipi di sport si riferisce?

Alle discipline di endurance che riguardano i ciclisti o anche i maratoneti o gli atleti del triathlon, sportivi top level come anche i calciatori di serie A. Lo sport spinto, estremo praticato a lungo termine può provocare cicatrici da dan-

no miocardico.

Come fate a capirlo?

Ci sono atleti che dopo una gara agonistica presentano alterazioni lievi della troponina, proteina che in presenza di un infarto ha valori alti. L’effetto cumulativo di questa alterazione negli atleti potrebbe provocare questo danno miocardico in soggetti geneticamente predisposti.

Dove è possibile eseguire la risonanza cardiaca?

La risonanza è presente in tutti gli ospedali italiani basta installare il software cardiaco. Ma l’esame non è proponibile in maniera sistematica ovunque.

A che età si osserva la cicatrice?

La osserviamo dalla adolescenza in su, in giovani atleti adulti e negli adulti veri e propri. In molti paesi, come Danimarca e Inghilterra, è possibile che i calciatori con pacemaker o defibrillatore sottocutaneo continuino a giocare. In Italia non è così. Secondo le linee guida del Comitato organizzativo cardiologico per l’idoneità sportiva (COCIS), non è consentito giocare se si è portatori di un defibrillatore.

Cosa ne pensa?

La legge in Italia è chiara ed è protettiva verso l’atleta. Se hai la fortuna di essere sopravvissuto e grazie al defibrillatore stai bene è giusto che continui a fare sport, ma non a livello agonistico.

Lei e la sua equipe avete portato avanti negli anni una ricerca sulla morte improvvisa negli atleti. Qual è l’esito?

Un nostro studio è stato pubblicato su Jama nel 2006: nel Veneto dal 1982 quando lo screening è stato introdotto fra i giovani che fanno sport, la riduzione della mortalità è stata del 90%.

Qual è il consiglio da dare a chi fa sport anche a livello agonistico?

L’attività sportiva va sempre controllata, prima di intraprendere qualsiasi sport è necessario sottoporsi agli esami stabiliti e alla visita di un cardiologo sportivo.

Importante è poi saper riconoscere i sintomi premonitori di un problema al cuore, mancanza di respiro, dolore toracico e palpitazioni cardiopalmo.

28 giugno 2025 Sala Conferenze Acquedotto pugliese Via Cognetti 36, Bari

PAURA ALLO STADIO

DA TACCOLA A BOVE

Quanti arresti cardiaci in campo durante gli anni

Diverse le storie tragiche e a lieto fine, non solo in Italia

Il calciatore che crolla sul rettangolo verde, lo sgomento dei compagni, l’improvviso e raggelante silenzio dei tifosi: sono diversi - purtroppo - i malori accusati dai campioni dello sport. Negli ultimi tempi, purtroppo spettacolarizzatinella loro drammaticità - dalle immagini televisive e dai video sul web.

Un elenco più o meno lungo di episodi nel corso degli anni, in alcune circostanze fatali, in altre fortunatamente a lieto fine. In Italia la prima morte di un calciatore di Serie A allo stadio è stata quella di Giuliano Taccola, attaccante della Roma, il 16 mar-

zo 1969 all’Amsicora di Cagliari: non aveva giocato ed era finito in tribuna per un malore accusato prima del match, un nuovo attacco lo ha stroncato quando, a partita finita, s’è recato negli spogliatoi per salutare i compagni. Angosciante la morte di Renato Curi durante la sfida tra Perugia e Juventus del 30 ottobre 1977, per le conseguenze di un’anomalia coronarica: svenuto dopo un contrasto col bianconero Benetti, morirà in ospedale un’ora più tardi. Oggi lo stadio di Perugia è intitolato a lui.

Niente da fare anche per Andrea Cecotti, mediano della Pro Patria

scomparso il 14 novembre 1987 per una trombosi carotidea alla gamba sinistra con un embolo al cervello, dopo essere finito in coma sei giorni dopo una partita giocata a Treviso.

Soltanto sfiorata un’altra tragedia datata 30 dicembre 1989, l’arresto cardiaco accusato da Lionello Manfredonia nei primi minuti di Bologna-Roma allo stadio Dall’Ara: Bruno Giordano, ex compagno ai tempi della Lazio, il primo a prestargli soccorso. Manfredonia s’è salvato, ma ha dovuto chiudere anzitempo la sua carriera. Non ce l’ha fatta, invece, Piermario Morosini, stroncato da un malore in campo il 14 aprile 2012 durante un match di Serie B tra il Pescara e il suo Livorno: soffriva di cardiomiopatia aritmogena. Fuori dal campo, in hotel, la morte di Davide Astori, il capitano della Fiorentina morto per un attacco cardiaco il 4 marzo 2018, la notte prima della sfida dei viola contro l’Udinese.

Meglio è andata a Evan Ndicka, che aveva accusato un malore al petto durante la partita tra Udinese e Roma, sospesa per questo motivo a 17’ dal termine il 14 aprile 2024. Il giorno dopo si è spento il 26enne Mattia Giani, durante una partita di Eccellenza toscana tra Lanciotto Campi e Castelfiorentino. Ultimo caso quello di Edoardo Bove, vittima di arresto cardiaco durante la partita tra Fiorentina e Inter del primo dicembre 2024: portato d’urgenza all’ospedale di Careggi, gli è stato impiantato un defibrillatore cardiaco sottocutaneo.

E all’estero? Tanti i morti sul campo in tutto il mondo. Solo per citarne qualcuno: Marc-Vivien Foe, Miklos Feher, Antonio Puerta, Phil O’Donnell, Naoki Matsuda, Bernardo Ribeiro e Patrick Ekeng. Eclatante il caso di Christian Eriksen, l’ex interista che nel 2021 durante gli Europei ha accusato un arresto cardiaco nel corso di Danimarca-Finlandia: salvato, gli è stato impiantato un defibrillatore sottocutaneo e oggi gioca nel Manchester United. (R. D.).

© Alexander Limbach/shutterstock.com

Non sempre, fortunatamente, un arresto cardiaco provoca la morte di un calciatore o di uno sportivo. La tempestività dei soccorsi e l’esecuzione di un massaggio cardiaco, anche con defibrillatore, possono essere determinanti. Lo sono stati per Christian Eriksen nel 2021 e per Edoardo Bove lo scorso dicembre, così come per il ciclista Sonny Colbrelli nel 2022.

A tutti e tre è stato impiantato un ICD, un defibrillatore sottocutaneo, per prevenire possibili nuovi attacchi. Solo il danese, però, è tornato a giocare nella Premier League inglese. Colbrelli, di fatto, ha chiuso la sua carriera, diventando direttore sportivo. Il giovane centrocampista romano, invece, potrebbe ripartire nei prossimi mesi, ma all’estero. Come mai? Semplice: la normativa sportiva in Italia è molto più restrittiva rispetto ad altri paesi. Agli atleti con ICD non è consentito praticare sport a livello agonistico, a prescindere dal tipo di dispositivo utilizzato: sottocutaneo o impiantabile. Il divieto non è legato al dispositivo in sé, quanto piuttosto alla patologia cardiaca che ha richiesto l’impianto dell’ICD stesso e alle possibilità che il problema possa presentarsi nuovamente in futuro.

Ma le cose potrebbero cambiare. In un’intervista a Vanity Fair, il professor Riccardo Cappato, direttore del Centro di Aritmologia clinica dell’IRCCS MultiMedica di Sesto San Giovanni e inventore del defibrillatore sottocutaneo, ha sottolineato che «esiste una contrapposizione netta tra la legittima volontà e necessità del medico di proteggere e tutelare la salute del paziente e l’altrettanto legittimo principio di autodeterminazione dell’atleta che desidera tornare in campo. La tecnologia attuale consente interventi tempestivi e altamente efficaci.

Se la causa dell’arresto cardiaco non è riconducibile a una cardiopatia strutturale, il rischio di recidiva è

DEFIBRILLATORE

SOTTOCUTANEO E LEGGE

In Italia il regolamento preclude l’attività agonistica a chi porta il dispositivo: ma le cose potrebbero cambiare

minimo, nella vita quotidiana e nello sport agonistico. Per questo motivo, il principio di autodeterminazione dell’atleta merita attenzione». Ed è proprio la salvaguardia della volontà degli atleti che potrebbe portare presto a un cambio di prospettiva.

Il dibattito, ovviamente, s’è acceso dopo il caso Bove ed è significativa la presa di posizione, a riguardo, del ministro per lo Sport e i Giovani Andrea Abodi: «Voglio capire se c’è modo di rivedere i protocolli medico-sanitari italiani e se ci possano essere soluzioni che consentano anche a chi ha avuto il suo problema di tornare in

campo». L’Italia, insomma, potrebbe decidere di applicare una normativa simile a quella di paesi come Danimarca o Inghilterra: se così fosse, agli atleti a cui è stato applicato un ICD potrebbe essere consentito il prosieguo dell’attività agonistica, fatti salvi ovviamente i dovuti controlli.

Anche se, curiosamente, anche il Regno Unito sta pensando a rivedere i suoi regolamenti, ma in senso più restrittivo. Oltremanica, infatti, il livello di mortalità è di uno su centomila, a differenza di quello italiano e di altri paesi europei, dove è invece di uno su un milione. (R. D.).

L’ORGOGLIO DEI BIOLOGI

Millecinquecento, provenienti da tutta Italia alla manifestazione della FNOB per chiedere la regolamentazione sulla farmacia dei servizi

Speciale

«La farmacia dei servizi va regolamentata attraverso un iter istituzionale. Auspichiamo, pertanto, che il ministro della Salute, Orazio Schillaci convochi al più presto gli ordini professionali interessati». Dal palco dell’Auditorium della Musica - Ennio Morricone a Roma, il presidente della Federazione degli Ordini dei Biologi, Vincenzo D’Anna, rivolge l’accorato appello per districare la matassa su un tema delicato, la farmacia dei servizi, che va affrontato intorno a un tavolo insieme a tutte le parti interessate.

Una platea vastissima con delegazioni provenienti da tutta Italia ha occupato gli spazi immensi dell’auditorium di via Pietro de Coubertin. Un vero e proprio esercito di biologi, moltissimi in camice bianco, giunto ad ascoltare le parole del presidente D’Anna, portavoce di una battaglia volta a difendere i diritti di tutti i biologi italiani, professionisti di una disciplina che il numero uno della FNOB non esita a definire «la scienza del terzo millennio» per i suoi innumerevoli settori a tutela della salute e del miglioramento della qualità della vita dell’uomo. E tuttavia la necessità di coinvolgere i biologi italiani in un vero e proprio evento testimonia la crescente preoccupazione della categoria rispetto ad iniziative che, «da troppi anni, non valorizzano e tutelano le “specifiche competenze” dei laboratori clinici». «Noi non siamo i nemici della farmacia dei servizi ma i difensori delle specifiche competenze e prerogative dei biologi italiani. Salvaguardando la rilevanza delle funzioni dei biologi difendiamo la salute degli italiani e gli investimenti fatti nelle nostre strutture per dotarci di apparecchiature sempre più moderne ed efficaci»

Nel suo discorso introduttivo D’Anna ha sostenuto: «noi non siamo i nemici della farmacia dei servizi ma i difensori delle specifiche competenze e prerogative dei biologi italiani. Salvaguardando la rilevanza delle funzioni dei biologi difendiamo la salute degli italiani e gli investimenti fatti nelle nostre strutture per dotarci di apparecchiature sempre più moderne ed efficaci».

«Con la stessa chiarezza - ha aggiunto D’Anna -, vogliamo ribadire, a tutti i nostri interlocutori, che la FNOB è disponibile ed aperta al confronto. In un quadro di regole chiare e condivise siamo pronti a lavorare insieme alle farmacie italiane per rafforzare la sanità territoriale».

Al convegno moderato dal giornalista Francesco Gasparri hanno partecipato Paola Gemma Di Cesare, Capo Ufficio legislativo MUR, Pierino Di Silverio Segretario nazionale ANAAO Assomed, Pierangelo Clerici della Società scientifica medicina di laboratorio, Gennaro Lamberti presidente Federlab Italia, Diego Catania presidente FNO TSRM PSTRP, Mario Plebani presidente Federazione Europea Medicina di Laboratorio, Antonio Antico Presidente SIPMEL.

Vincenzo D’Anna.

A conclusione della iniziativa è intervenuto il senatore Maurizio Gasparri che ha auspicato un incontro, promosso dal Ministero della Salute, con gli ordini professionali interessati: «Noi legislatori, ma anche utenti, stimiamo la farmacia che è un presidio sanitario di prossimità - ha dichiarato Gasparri -, ma i biologi con i loro laboratori ci danno certezze sui nostri dati clinici, sullo stato della nostra salute, sul benessere e i rischi che corriamo.

Quindi - ha proseguito l’esponente di Forza Italia -, abbiamo bisogno di tutte queste articolazioni, ma ciascuno deve essere rispettato nella sua competenza e nel suo mestiere. Sono venuto qui non soltanto per ascoltare, ma anche per attivarmi. Al ministro Schillaci ho inoltrato le istanze che i biologi hanno porto con garbo e - ha concluso Gasparri - sono convinto che saranno accolte».

«Vogliamo

ribadire, a tutti i nostri interlocutori, che la FNOB è disponibile ed aperta al confronto. In un quadro di regole chiare e condivise siamo pronti a lavorare insieme alle farmacie italiane per rafforzare la sanità territoriale»

Al convegno moderato dal giornalista Francesco Gasparri hanno partecipato Paola Gemma Di Cesare, Capo Ufficio legislativo MUR, Pierino Di Silverio Segretario nazionale ANAAO Assomed, Pierangelo Clerici della Società scientifica medicina di laboratorio, Gennaro Lamberti presidente Federlab Italia, Diego Catania presidente FNO TSRM PSTRP, Mario Plebani presidente Federazione Europea Medicina di Laboratorio, Antonio

Antico Presidente SIPMEL.
Pierangelo Clerici.
Paola Gemma Di Cesare. Mario Plebani, Gennaro Lamberti e Vincenzo D’Anna.

LA PAROLA ALLE ALTRE PROFESSIONI SANITARIE

Di Silverio - ANAAO Assomed «Necessario definire i limiti delle competenze pur favorendo la rete di equipe e multidisciplinarietà»

Amargine del convegno è intervenuto Pierino Di Silverio segretario nazionale ANAAO Assomed tra i relatori dell’evento FNOB dal titolo “Prestazioni Specialistiche - Tutelare requisiti e competenze professionali, per garantire il diritto alla Salute” ha posto in evidenza le criticità del sistema sanitario nazionale: «Che si evidenzia - spiega Di Silverio -, quando si confonde la complementarietà con la sostituibilità del professionista. Se continuiamo ad affidare prestazioni specialistiche a professionisti diversi da quelli che ne hanno diritto e che ne hanno la responsabilità non solo avremo l’inappropriatezza delle prestazioni, ma il sistema non sarà più sostenibile».

Per il segretario ANAAO Assomed la via d’uscita praticabile è «una certificazione delle competenze, un ritorno alla vera responsabilità professionale». «Dobbiamo definire l’atto medico, l’atto del biologo, l’atto di ciascun professionista. Dobbiamo porre dei limiti alle azioni pur favorendo il discorso della rete che oggi è fondamentale in termini di lavoro di equipe e multidisciplinarietà».

Pierino Di Silverio.

Catania presidente FNO TSRM PSTRP: «È vero che ci sono delle sovrapposizioni tra professionisti sanitari, si tratta non di erodere competenze ad altri, ma di fare il proprio e salvaguardare quei territori di confine»

Tra i relatori che si sono succeduti sul palco dell’Auditorium Diego Catania presidente FNO TSRM PSTRP: «I biologi pongono una questione di rilievoha dichiarato Catania -. Sono qui in rappresentanza di tre professioni che hanno a che fare con i biologi. Mi riferisco ai dietisti nell’ambito nutrizionale, ai tecnici della prevenzione per quanto riguarda la materia della sicurezza alimentare e ai tecnici di laboratorio che son quelli più numerosi.

In Italia - ha sottolineato il presidente FNO TSRM PSTRP -, abbiamo venticinquemila tecnici di laboratorio che lavorano a stretto contatto con i biologi. Rispetto a queste professioni sanitarie il compito che noi vorremmo che il Governo adottasse è quello di tutelare le competenze di ognuno. È vero che ci sono delle sovrapposizioni tra professionisti sanitari però si tratta non di erodere competenze ad altri, ma di fare il proprio e salvaguardare quei territori di confine» - ha concluso Catania.

Diego Catania.

La prima reazione alle dichiarazioni del presidente della Federazione degli Ordini dei Biologi, Vincenzo D’Anna, viene da Federfarma: «La farmacia dei servizi è una opportunità per i cittadini - scrive Federfarma -, le attività di monitoraggio e di screening portano la prevenzione in ogni angolo del Paese attraverso la capillare rete delle croci verdi».

La

reazione

di Federfarma

«Aperti al dialogo con la Federazione degli Ordini dei Biologi»

E ancora: «Federfarma conferma che è anche interesse delle farmacie avere regole chiare per l’erogazione de servizi che tutelino sia i cittadini che gli operatori. La nuova Convenzione farmaceutica, in vigore dal 6 marzo scorso, va già in questa direzione, tenendo conto delle richieste e delle esigenze espresse dalle Regioni e ratificate dalla Conferenza Stato-Regioni».

Quindi la condivisione delle parole del presidente FNOB: «Federfarma prende atto con favore delle dichiarazioni rilasciate dal Presidente della FNOB riguardo al fatto che i biologi non sono nemici della farmacia dei servizi, ma intendono difendere le specifiche competenze dei laboratori clinici”.

E infine “Federfarma confida che questa presa di posizione ponga fine a incomprensioni e polemiche sterili che creano incertezza e finiscono per penalizzare i cittadini». (M. A.).

Maurizio Gasparri.

“ GEN&RARE SPERANZA PER LE MALATTIE

GENETICHE E RARE

Intervista con la dottoressa Chiara Leoni, coordinatrice del progetto sostenuto dalla Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli

Dottoressa Leoni, in cosa consiste il progetto GEN&RARE e quali obiettivi si prefigge?

Lo studio, impiegando l’analisi di exome sequencing, si prefigge l’obiettivo di ampliare la caratterizzazione genomica delle malattie genetiche e rare, riducendone i tempi diagnostici e offrendo ai nostri pazienti una personalizzazione delle cure a partire dalla diagnosi e un’attivazione di protocolli di sorveglianza ad hoc. Questo approccio consentirà di implementare l’offerta di diagnostica molecolare presente al Gemelli, potenziando la possibilità di ricerca relativa alle condizioni rare di cui il nostro Policlinico è già punto di riferimento ERN (reti di riferimento europee, ndr).

Cosa è la exome sequencing?

L’analisi exome sequencing è una tecnica di analisi molecolare genetica che studia la sequenza di tutti i geni codificanti proteine nel nostro genoma, che sono circa 20.000. L’analisi, basandosi sul sequenziamento di nuova generazione (NGS), consente una diagnosi molecolare in circa il 40 per cento dei casi di condizioni genetiche.

Quali figure professionali sono coinvolte nel progetto e come collaborano tra loro?

Le figure professionali coinvolte sono mol-

teplici e afferiscono a quasi tutte le specialità cliniche del Policlinico Gemelli. Si tratta di genetisti, biologi specializzati in genetica clinica, specialisti clinici e chirurghi.

La natura multidisciplinare del progetto mira a potenziare il dialogo tra gli specialisti clinici e quelli di laboratorio per ottimizzare il percorso diagnostico e di cura dedicato ai pazienti e massimizzare le occasioni di sviluppare progetti multidisciplinari di ricerca.

Qual è il contributo specifico apportato al progetto dai biologi specializzati in genetica clinica?

La figura del biologo genetista è certamente essenziale nel contesto di questo progetto poiché rappresenta il punto di collegamento tra il setting clinico e il laboratorio. Proprio grazie al background in ambito biologico, il suo contributo è indispensabile nell’interpretazione del dato genetico e, quindi, nella caratterizzazione delle basi molecolari delle malattie genetiche.

La forza del progetto risiede nel fatto che i biologi molecolari dialogano settimanalmente con i genetisti, i bioinformatici e i clinici nel contesto di un board per le malattie rare e si confrontano per produrre insieme un report condiviso.

di Ester Trevisan

© totojang1977/shutterstock.com

Come può intervenire il progetto nella prevenzione e personalizzazione delle cure?

Al giorno d’oggi, il raggiungimento di una puntuale diagnosi molecolare non conclude il percorso assistenziale del paziente, ma costituisce il punto d’inizio. Una diagnosi genetica consente, infatti, di applicare protocolli terapeutici e di cura personalizzati. Ogni malattia rara presenta criteri diagnostici specifici e protocolli di follow up legati al coinvolgimento di specifici organi ed apparati. Ad esempio, la neurofibromatosi tipo 1 si caratterizza per la presenza di anomalie a carico della cute, dell’occhio del sistema nervoso centrale e periferico e dell’apparato muscolo scheletrico.

Tra le complicanze più temibili per la salute dei pazienti, ci sono il glioma delle vie ottiche e i neurofibromi plessiformi per le quali esistono protocolli di follow up clinico e di cura che si avviano nel caso vengano diagnosticate. Un altro caso è quello della fibrosi cistica, condizione nota nella nostra Penisola, per cui esiste la possibilità di declinare una terapia personalizzata in base al tipo di variante genetica identificata nel paziente.

Quali sono le malattie genetiche e rare sulle quali la ricerca ha compiuto i passi maggiori?

Sicuramente, nell’ambito delle malattie rare si sono registrati i maggiori progressi nell’applicazione di nuove strategie terapeutiche nel contesto di diagnosi precoce. La Regione Lazio, ad esempio, ha introdotto il programma di screening per l’atrofia muscolare spinale che ha consentito la diagnosi presin-

tomatica in neonati portatori del difetto genetico, garantendo a questi pazienti un accesso precoce alle terapie e prevenendo, quindi, lo sviluppo della sintomatologia.

Inoltre, il riposizionamento di farmaci dall’ambito oncologico ha dato risultati molto promettenti, ad esempio, nell’ambito delle condizioni a mosaico PIK3CA correlate, caratterizzate da eccesso di crescita. Le terapie attualmente utilizzate in tale ambito sono state riposizionate dall’ambito oncologico e si sono dimostrate efficaci per il trattamento di condizioni rare basate sul medesimo meccanismo biologico, ossia l’iperattivazione del gene PIK3CA.

Pediatra con PhD in Genetica, la dottoressa Chiara Leoni si occupa da anni di caratterizzazione genetica e clinica di malattie rare note o orfane di diagnosi. Attualmente lavora presso il Centro Malattie Rare del Policlinico Universitario Gemelli. Negli ultimi anni ha concentrato l’interesse sulla medicina personalizzata, acquisendo una vasta esperienza nell’ambito delle terapie mirate attraverso trial clinici, programmi off-label e ad uso nominale. Coordina lo studio Gen&Rare, un programma di profilazione genomica delle malattie genetiche e rare promosso dal Gemelli. È Principal Investigator di progetti di ricerca profit e no profit ed è autrice di oltre 100 pubblicazioni su riviste internazionali.

GEN&RARE attraverso l’analisi di exome sequencing, si prefigge l’obiettivo di ampliare la caratterizzazione genomica delle malattie genetiche e rare, riducendone i tempi diagnostici e offrendo una personalizzazione delle cure a partire dalla diagnosi e un’attivazione di protocolli di sorveglianza ad hoc.

TUMORE AL CERVELLO SCOPERTA LA PROTEINA CHE SCATENA LA SUA AGGRESSIVITÀ

Ricercatori americani hanno dimostrato che ZIP4, la proteina che trasporta lo zinco nel nostro corpo, innesca eventi a cascata che accelerano crescita del tumore

Il glioblastoma è un tumore cerebrale caratterizzato da una rapida crescita e un’elevata malignità. Le indagini sul perché questo tipo di tumore sia così aggressivo hanno portato i ricercatori dell’Università dell’Oklahoma a un’importante scoperta: ZIP4, proteina che trasporta lo zinco in tutto il nostro corpo, può innescare una cascata di eventi che favoriscono la crescita del tumore.

Gli scienziati americani hanno pubblicato il loro studio sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences e dichiarato che con esso sperano di trovare nuove terapie in grado di combattere la malattia. «Comprendendo meglio perché questi tumori cerebrali sono così aggressivi, speriamo di aprire la strada a nuovi trattamenti» - ha dichiarato Min Li, autore responsabile dello studio, professore di medicina, chirurgia e biologia cellulare presso il College di medicina dell’Università dell’Oklahoma. «L’intervento chirurgico per il glioblastoma è molto impegnativo e i pazienti hanno spesso una ricaduta» spiega Li. Trattandosi di un tumore che cresce all’interno di un organo nobile come l’encefalo anche la chirurgia non può spingersi molto oltre i margini chiaramente visibili fra tumore e tessuto sano. Ciò comporta che di frequente alcune cellule tumorali infiltranti non siano asportate con l’intervento chirurgico e il tumore torni a proliferare.

Nello studio gli autori descrivono il ruolo di ZIP4 nella

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di Sara Bovio

malattia. In condizioni normali, ZIP4 svolge una funzione positiva, trasportando e mantenendo la giusta quantità di zinco, microelemento importante per il metabolismo di proteine, lipidi, carboidrati e acidi nucleici, e necessario per il funzionamento di diversi ormoni. Tuttavia, in presenza di un tumore al cervello, ZIP4 agisce innescando una serie di eventi che favoriscono la crescita della malattia. Il glioblastoma assume una quantità di zinco circa dieci volte superiore a quella del tessuto cerebrale normale. Il tumore con un’abbondante quantità di ZIP4 rilascia piccole vescicole extracellulari simili a bolle. All’interno di queste vescicole si trova una proteina chiamata TREM1, che normalmente aiuta il sistema immunitario a combattere le infezioni, ma che in questo caso trasforma le cellule immunitarie cerebrali vicine, le cellule della microglia, in sostenitori della crescita tumorale.

Sebbene fosse già noto che queste cellule contribuiscono alla progressione del glioblastoma, i meccanismi con cui favoriscono un ambiente immunitario protumorigenico sono rimasti poco conosciuti. Il team ha scoperto che le cellule della microglia rilasciano a loro volta sostanze chimiche che permettono al tumore di crescere in modo rapido. «Tutto parte dal fatto che ZIP4 è sovraespresso

nel glioblastoma. Questo innesca tutti questi eventi a valle che aiutano il tumore a crescere», - ha chiarito Li.

In seguito alla scoperta, il team americano ha tentato di colpire ZIP4 e TREM1 con un inibitore a piccole molecole. L’inibitore si è attaccato a entrambe le proteine, bloccandone l’azione e rallentando la crescita del tumore. I ricercatori hanno dimostrato che la deplezione di ZIP4 o l’inibizione di TREM1 attenuano la crescita tumorale, interrompendo l’interazione tumore-microglia. «Questo ci dice che ZIP4 e TREM1 possono essere bersagli terapeutici promettenti» - ha concluso Li.

Secondo gli autori, i risultati ottenuti dallo studio sono un passo incoraggiante nella lotta contro una forma tumorale così aggressiva. «Questi risultati sono davvero entusiasmanti per un cancro così debilitante. La speranza e la promessa è di tradurre questi risultati in nuovi approcci terapeutici per migliorare la vita dei nostri pazienti» - ha dichiarato Ian Dunn, coautore e neurochirurgo che da oltre 20 anni si occupa di pazienti con tumori cerebrali. Rivelando il ruolo di ZIP4 nel guidare la progressione tumorale e la modulazione immunitaria, il lavoro pone ZIP4 come un promettente bersaglio terapeutico per combattere questo tipo di cancro così aggressivo e debilitante. Il glioblastoma ha un tasso di sopravvivenza mediano di 14 mesi e opzioni terapeutiche molto limitate. Inoltre, poiché le cause all’origine di questo tumore non sono certe, non esiste una valida prevenzione ed è difficile scoprirlo nella fase iniziale del suo sviluppo.

In condizioni normali, la proteina ZIP4 svolge una funzione positiva, trasportando e mantenendo la giusta quantità di zinco, microelemento importante per il metabolismo di proteine, lipidi, carboidrati e acidi nucleici, e necessario per il funzionamento di diversi ormoni. Tuttavia, in presenza di un tumore al cervello, ZIP4 agisce innescando una serie di eventi che favoriscono la crescita della malattia.

ZIP4 è una proteina molto nota agli autori dello studio tanto che è stata al centro della ricerca di Li sul cancro al pancreas per molti anni. Lo scienziato ha scoperto che la sovraespressione di ZIP4 rende le cellule del cancro al pancreas più resistenti alla chemioterapia e induce le cellule tumorali a trasformarsi in modo da poter raggiungere furtivamente altri organi del corpo.

Inoltre, sempre Li ha scoperto che la stessa proteina svolge un ruolo nell’insorgenza della cachessia, una condizione di perdita di massa muscolare che colpisce la maggior parte dei pazienti con tumore al pancreas. Gli studi su ZIP4 proseguiranno con l’obiettivo di ampliare le possibilità di cura per gravi patologie come il cancro al pancreas e il glioblastoma.

Il cancro alla prostata è una delle neoplasie più comuni e temute dagli uomini. La sua diagnosi, però, potrebbe presto diventare più semplice e soprattutto - aspetto da non trascurare - meno invasiva. Un recente studio condotto dal prestigioso Karolinska Institutet in Svezia e pubblicato sulla rivista Cancer Research, ha aperto infatti a scenari del tutto nuovi nella lotta a questa malattia, che ogni anno colpisce 1,4 milioni di uomini nel mondo. Fulcro della scoperta è un innovativo test delle urine, rivelatosi in grado di identificare il tumore con altissima precisione, superando perfino il test del sangue PSA, attualmente il metodo standard più utilizzato. Questa nuova frontiera diagnostica nasce dall’unione di due mondi che stanno rivoluzionando la medicina moderna: l’intelligenza artificiale e l’analisi genetica avanzata. Il team di ricerca, capitanato dal professor Mikael Benson, ha studiato nei minimi dettagli l’attività genetica di migliaia di cellule tumorali prostatiche, creando modelli digitali estremamente accurati del comportamento del tumore. Questi modelli sono stati poi sottoposti all’analisi di algoritmi di intelligenza artificiale, con l’obiettivo di individuare biomarcatori molecolari, che a loro volta fungono da spia in merito alla presenza del cancro. Da questo lavoro è venuta fuori l’identificazione di alcune proteine chiave, i cui livelli anomali risultano rilevabili non solo nei campioni prelevati direttamente dal tumore, ma anche nel sangue e in particolar modo nelle urine. I ricercatori hanno testato la validità di questi biomarcatori su quasi 2.000 pazienti, scoprendo che quelli presenti nelle urine sono addirittura tra i più affidabili non solo per diagnosticare il tumore, ma anche per valutarne la gravità. Ed è proprio questa la vera rivoluzione.

«Esistono molti vantaggi nel misurare i biomarcatori nelle urine - spiega Benson -. È un esame non invasivo e indolore, e il campione può essere raccolto facilmente, anche a casa, e analizzato con tecniche di laboratorio già diffuse nei centri clinici». I vantaggi sono immediatamente evidenti. Una biopsia prostatica provoca dolore, rischio di infezione e ansia nel paziente, mentre un semplice test urinario rappresenta da questo punto di vista un’alternativa comoda e sicura. E si potrebbe anche ridurre il numero di biopsie, che hanno anche un costo talvolta neanche necessario. Ma non è finita qui. Grazie alla sua elevata precisione, il test attraverso le urine po-

Lo studio svedese richiede ancora degli approfondimenti, però i suoi risultati sono già molto promettenti. E se diventassero realtà, allora nel giro di pochi anni il test delle urine si candida a diventare il metodo standard per il rilevamento precoce del cancro alla prostata. Una prospettiva che potrebbe salvare migliaia di vite ogni anno, riducendo i costi sanitari e migliorando nello stesso tempo la qualità della diagnosi.

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trebbe accelerare i tempi della diagnosi e questo è un fattore che non può essere affatto trascurato. Se preso in tempo, quindi nelle fasi iniziali della malattia, il tumore alla prostata diventa curabile con altissime probabilità di successo. Riuscire a ottenere una diagnosi precoce significa, pertanto, maggiore sopravvivenza, complicazioni ridotte e nel complesso una qualità della vita migliore per i pazienti. Un altro vantaggio riguarda la prevenzione. A differenza delle donne, che sono spesso più inclini a sottoporsi a controlli preventivi, molti uomini tendono a trascurare i segnali del corpo, spesso per imbarazzo o paura. La possibilità di arrivare a un risultato così importante attraverso un test urinario, eventualmente da fare anche a casa, potrebbe risultare un incentivo a sottoporsi agli screening del caso. Di pari passo, aumenterebbero anche le diagnosi precoci, per un sistema che ne beneficerebbe sotto ogni punto di vista. L’approccio utilizzato nello studio del Karolinska Institutet rappresenta un esempio concreto di come la tecnologia sia in grado di potenziare le capacità diagnostiche della medicina. L’intelligenza artificiale, nel dettaglio, ha consentito di analizzare una mole di dati biologici impensabile solo con mezzi umani: così sono stati individuati schemi e correlazioni che sarebbero sfuggiti anche agli specialisti più esperti. Questo tipo di medicina computazionale, che è basata su algoritmi, modelli predittivi e big data, si sta dimostrando sempre più centrale non solo nella diagnosi, ma anche nella personalizzazione dei trattamenti, nella valutazione dei rischi e nella gestione del decorso della malattia.

Lo studio svedese richiede ancora degli approfondimenti, però i suoi risultati sono già molto promettenti. E se diventassero realtà, allora nel giro di pochi anni il test delle urine si candida a diventare il metodo standard per il rilevamento precoce del cancro alla prostata. Una prospettiva che potrebbe salvare migliaia di vite ogni anno, riducendo i costi sanitari e migliorando nello stesso tempo la qualità della diagnosi. D’altra parte, così sarà la medicina del futuro: sempre più precisa, personalizzata e con straordinarie potenzialità di bruciare i tempi delle diagnosi. Il test urinario per la rivelazione del cancro alla prostata ne rappresenta un fulgido esempio. Per un paziente è decisamente semplice, per il medico costituisce una soluzione potente e soprattutto efficace. Ma, cosa che più conta, è capace di alterare le sortiin positivo - della malattia. (D. E.).

SVILUPPATO UN NUOVO ANTICORPO PIÙ RESISTENTE ED EFFICACE

NEL COMBATTERE I TUMORI

Il super-anticorpo può essere utilizzato per migliorare i risultati dei trattamenti immunoterapici e sviluppare farmaci più potenti per colpire il cancro o altre malattie

Gli scienziati dell’Università inglese di Southampton hanno progettato un nuovo tipo di anticorpo con caratteristiche che lo rendono molto resistente ed efficace per potenziare il sistema immunitario dei pazienti che combattono contro il cancro.

Nello studio, pubblicato sulla rivista Nature Communications, i ricercatori spiegano di aver modificato la forma e la flessibilità delle minuscole proteine prodotte naturalmente dai globuli bianchi per difendere l’organismo da batteri e virus. Dopo aver ottenuto l’anticorpo, gli autori dello studio hanno scoperto che il loro prototipo, più rigido, era in grado di scatenare una risposta molto più forte da parte del sistema immunitario rispetto a quelli prodotti naturalmente dal nostro corpo. Il professor Mark Cragg, del Centre for Cancer Immunology dell’Università di Southampton, ha dichiarato: «Il concetto di utilizzare l’immuno-stimolazione per il trattamento del cancro è molto eccitante. Il nostro studio conferma che un aumento anche minimo della rigidità degli anticorpi stimola in modo significativo l’attività immunitaria, creando una potente risposta immunitaria contro la malattia». Un altro vantaggio del nuovo approccio messo a punto, fanno sapere i ricercatori inglesi, è che funziona per più anticorpi che mirano a diversi recettori immunitari.

«La capacità di progettare questi anticorpi rigidi – continua Cragg - potrebbe aiutare a sviluppare farmaci più potenti, in grado di stimolare il sistema immunitario per colpire il cancro o altre malattie». Come spiegano gli autori dello studio, gli anticorpi hanno una forma di Y e combattono le infezioni legandosi a molecole sulla superficie di batteri e virus, o anche di cellule cancerose. Possono anche essere progettati per attaccarsi ai recettori delle cellule immunitarie e attivare le difese immunitarie dell’organismo. Ma, come ha precisato Isabel Elliott, prima autrice dello studio e dottoranda dell’università di Southampton, non tutti gli anticorpi riescono a farlo in modo efficace.

Elliott ha aggiunto: «La forma e la flessibilità degli anticorpi è cruciale per la loro capacità di attivare le cellule immunitarie e nel nostro studio abbiamo scoperto che gli anticorpi più rigidi sembrano essere più efficaci a fare questo». La ricercatrice dà anche una spiegazione del perché gli anticorpi rigidi funzionino meglio di quelli flessibili: «Il motivo è probabilmente da ricercare nel fatto che questi anticorpi rigidi sono più resistenti e possono tenere più vicine le molecole delle cellule immunitarie, innescando un segnale di attivazione più forte». «Gli anticorpi più flessibili - termina la scienziata - hanno meno probabilità di farlo in modo efficace».

Ma quale tecnica hanno utilizzato gli scienziati per rinforzare gli anticorpi? I due bracci degli anticorpi, che danno la forma a Y, sono collegati da una serie di ponti, chiamati legami disolfuro. I ricercatori di Southampton

Lo studio conferma che un aumento anche minimo della rigidità degli anticorpi stimola in modo significativo l’attività immunitaria, creando una potente risposta immunitaria contro la malattia. © 3dMediSphere/shutterstock.com

sono riusciti ad aggiungere ulteriori ponti tra i bracci microscopici degli anticorpi e a testarli rispetto alle varianti standard. Ivo Tews, professore di biologia strutturale all’università di Southampton, e autore responsabile dello studio ha chiarito: «Abbiamo usato un supercomputer per visualizzare la struttura dell’anticorpo in dettaglio atomico. Questo ci ha permesso di posizionare i legami disolfuro extra nell’anticorpo modificato». Come spiegano i ricercatori, gli anticorpi sono dotati di una particolare struttura che conferisce loro una lunga emivita e un’elevata specificità per un determinato antigene. Il successo dell’utilizzo delle immunoglobuline nelle terapie è testimoniato dal fatto che attualmente esistono oltre duecento farmaci anticorpali approvati o in fase di revisione normativa, di cui più di novanta indicati per il trattamento del cancro.

«I risultati dello studio - ha proseguito Twes - hanno dimostrato che l’esperimento funzionava e che i nuovi anticorpi più rigidi erano più efficaci nell’attivare le cellule immunitarie». Dalla ricerca è emerso che sottili aumenti di rigidità possono fornire miglioramenti significativi nell’attività immunostimolante, fornendo così una strategia per la progettazione razionale di terapie anticorpali più potenti. «Inoltre - continua Tews - l’idea di controllare l’attività degli anticorpi rendendoli più rigidi sembra applicabile a molte altre molecole simili presenti nelle cellule immunitarie». Iain Foulkes, direttore esecutivo della ricerca e dell’innovazione del Cancer Research UK, ha dichiarato: «Affinare la comprensione di come consentire al nostro sistema immunitario di combattere il cancro è un passo complesso ma fondamentale per aiutare i pazienti oncologici ad avere le migliori possibilità di ottenere buoni risultati quando si sottopongono a un trattamento immunoterapico». «L’uso delle più recenti tecnologie - termina Foulkes - per progettare questa tipologia di anticorpo super-potente che potrebbe innescare una promettente risposta immunitaria, ci consentirà di continuare a sperimentare nuovi modi per battere in astuzia il cancro». (S. B.).

IL RUOLO NASCOSTO DEL DNA EREDITARIO NELLA LOTTA CONTRO IL CANCRO

Le nuove scoperte rivelano come il patrimonio genetico alla nascita influenzi l’insorgenza dei tumori e l’efficacia delle terapie

di Carmen Paradiso

Nuove scoperte svelano che non sono solo le mutazioni acquisite nel corso della vita a determinare lo sviluppo dei tumori: il nostro Dna, ereditato alla nascita, potrebbe avere un ruolo cruciale nell’influenzare l’insorgenza e l’evoluzione delle neoplasia, oltre alla risposta alle terapie oncologiche.

Per decenni, la ricerca sul cancro ha concentrato la sua attenzione quasi esclusivamente sulle mutazioni genetiche somatiche, quelle che si accumulano nelle cellule durante la vita a causa di fattori ambientali, stile di vita, esposizione a radiazioni o sostanze cancerogene. Tuttavia, una nuova indagine scientifica pubblicata sulla prestigiosa rivista Cell cambia radicalmente prospettiva,

evidenziando un aspetto spesso trascurato: anche il Dna ereditato dai genitori, può influenzare profondamente il destino dei tumori. Lo studio, guidato da un gruppo di scienziati della Icahn School of Medicine presso il Mount Sinai di New York, ha analizzato i dati genetici di oltre 1.000 pazienti affetti da dieci diversi tipi di cancro.

L’analisi ha coinvolto un’enorme mole di dati: sono state esaminate oltre 330.000 varianti genetiche ereditarie, che in qualche modo modificano la struttura e la funzione delle proteine prodotte dalle cellule tumorali. Il metodo utilizzato, definito peptidomica di precisione, ha permesso di mappare l’impatto di queste varianti sull’intero proteoma tumorale, rivelando una rete di connessioni precedentemente sconosciute. In sostanza, alcune delle varianti genetiche ereditarie possono rendere il Dna di una persona più incline a subire mutazioni somatiche dannose. È come se alcune cellule nascessero con una predisposizione strutturale a rompersi in un modo particolare, favorendo la formazione di tumori più aggressivi o più resistenti ai trattamenti.

Inoltre, queste varianti possono influenzare il modo in cui il sistema immunitario riconosce e combatte il tumore, determinando la capacità del corpo di reagire alla malattia. Uno degli aspetti più innovativi dello studio è l’identificazione di mutazioni ereditarie che alterano i cosiddetti neoantigeni, ossia quei frammenti proteici prodotti dalle cellule tumorali che vengono esposti sulla superficie cellulare e riconosciuti dalle cellule immunitarie. Se queste strutture sono modificate già alla nascita, il sistema immunitario potrebbe non essere in grado di identificare correttamente il tumore come una minaccia. Questo meccanismo potrebbe spiegare perché alcuni pazienti rispondonomeglio all’immunoterapia.

per ottenere un quadro completo del rischio oncologico e della possibile risposta ai trattamenti. «Questo studio rappresenta un importante punto di svolta», afferma uno degli autori. «Ci dimostra che per comprendere davvero l’origine e il comportamento dei tumori dobbiamo guardare all’intero patrimonio genetico del paziente, e non solo alle mutazioni che avvengono dopo la nascita».

Il Dna ereditato dai genitori, può influenzare profondamente il destino dei tumori. Il genoma che ereditiamo è un attore attivo nella storia del tumore: può determinarne il tipo, la velocità di crescita, la capacità di diffondersi, e persino la risposta ai farmaci.

Queste scoperte si inseriscono nel più ampio contesto della medicina di precisione, una disciplina in rapido sviluppo che punta a personalizzare diagnosi e trattamenti in base al profilo genetico individuale del paziente. Conoscere le mutazioni acquisite non è più sufficiente: diventa fondamentale integrare l’informazione sul Dna germinale, ovvero quello ereditato alla nascita,

L’approccio proposto dagli scienziati del Mount Sinai potrebbe rivoluzionare il modo in cui vengono sviluppati i trattamenti antitumorali, in particolare quelli basati sull’immunoterapia. Se si conosce in anticipo quali antigeni sono prodotti da un determinato profilo genetico, si può prevedere meglio l’efficacia dei farmaci e, potenzialmente, creare vaccini antitumorali personalizzati. Nonostante l’entusiasmo, gli stessi autori dello studio mettono in guardia su un limite significativo: la gran parte dei dati analizzati proviene da individui di origine europea. Questo significa che molte varianti genetiche comuni ad altre popolazioni, ad esempio africane, asiatiche o latinoamericane, potrebbero non essere state adeguatamente rappresentate nello studio. Per rendere davvero equa ed efficace la medicina di precisione, sarà necessario ampliare i campioni e includere la diversità genetica globale. Inoltre, occorreranno studi di follow-up per confermare la relazione causale tra varianti ereditarie e comportamento dei tumori, e per tradurre questi dati in strumenti diagnostici e terapeutici utilizzabili nella pratica clinica. La ricerca conferma una tendenza emergente in oncologia: quella di considerare il cancro non solo come il risultato di eventi casuali e accumulo di errori genetici, ma come un processo fortemente influenzato dalle caratteristiche innate dell’individuo. Il genoma che ereditiamo è un attore attivo nella storia del tumore: può determinarne il tipo, la velocità di crescita, la capacità di diffondersi, e persino la risposta ai farmaci. «Capire il ruolo del DNA germinale ci offre una nuova chiave di lettura sul cancro», concludono i ricercatori. «Significa riconoscere che il nostro destino oncologico, in parte, si scrive ancora prima della nascita».

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Uno studio internazionale rivela le varianti genetiche che permettono ai popoli andini di sopravvivere e prosperare oltre i 3.800 metri

NEL DNA DELLE ANDE IL SEGRETO GENETICO DELLA VITA AD ALTA QUOTA

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Un nuovo studio rivela gli adattamenti genetici che permettono ai popoli andini di prosperare in condizioni estreme, dove l’ossigeno scarseggia e la vita umana è messa alla prova fin dalla nascita. Sopravvivere e prosperare a quasi 4.000 metri di altitudine non è una sfida da poco. Le condizioni ambientali degli altipiani andini, dove la pressione atmosferica è ridotta e l’ossigeno rarefatto, mettono a dura prova il corpo umano.

Eppure, da millenni, popolazioni come gli Aymara, i Quechua e gli Uros vivono e si riproducono con successo in queste regioni. Come ci riescono? La risposta risiede nei loro geni. Un’équipe di ricercatori dell’Università di Bologna, in collaborazione con istituzioni internazionali, ha appena pubblicato uno studio che getta nuova luce sull’evoluzione genetica di queste popolazioni. Analizzando il genoma di oltre 150 individui nativi delle aree intorno al lago Titicaca, situato a circa 3.800 metri di quota tra Perù e Bolivia, gli scienziati hanno individuato una serie di varianti genetiche che conferiscono una sorprendente resistenza alle condizioni di ipossia cronica, ovvero alla carenza di ossigeno nei tessuti. Il dato più interessante riguarda le primissime fasi dello sviluppo umano: la gravidanza. In condizioni di bassa ossigenazione, il feto è esposto a un elevato rischio di ritardo di crescita intrauterina e mortalità neonatale. Tuttavia, i ricercatori hanno scoperto che le donne andine portano mutazioni in geni legati alla formazione della placenta e alla vascolarizzazione dell’embrione. Queste mutazioni favoriscono la creazione di nuovi vasi sanguigni nella placenta e aumentano l’efficienza del trasporto di ossigeno dalla madre al feto, garantendo un’adeguata ossigenazione anche ad alta quota.

«Queste varianti rappresentano un adattamento chiave alla vita in ambienti estremi. Consentono al feto di svilupparsi in modo ottimale nonostante la scarsità di ossigeno» - spiega il coordinatore dello studio. «Nelle popolazioni non adattate, invece, la permanenza prolungata in quota può risultare pericolosa, soprattutto in gravidanza». Il caso delle popolazioni andine non è unico. Anche i popoli tibetani dell’Himalaya, che vivono a quote ancora più elevate, hanno sviluppato adattamenti genetici simili. Tuttavia, ciò che emerge dallo studio è che le basi molecolari di questi adattamenti non coincidono esattamente. In altre parole, la

selezione naturale ha trovato soluzioni diverse per affrontare lo stesso problema. Questo fenomeno, noto come convergenza evolutiva, è un esempio della flessibilità del genoma umano. In risposta a pressioni ambientali analoghe, come la carenza di ossigeno, popolazioni diverse possono arrivare a esiti fisiologici simili attraverso mutazioni in geni differenti. «È come se la natura avesse risolto lo stesso enigma biologico usando strade alternative» - commenta una delle autrici. «Questo ci mostra quanto l’evoluzione sia creativa nel plasmare il nostro Dna in risposta a sfide ambientali». Oltre al loro valore evolutivo, i risultati dello studio hanno potenziali implicazioni in ambito medico. Comprendere i meccanismi genetici che migliorano la tolleranza all’ipossia può aprire nuove strade nella gestione clinica delle gravidanze ad alto rischio, o nel trattamento di patologie legate alla carenza di ossigeno, come le malattie cardiovascolari e respiratorie. Inoltre, lo studio contribuisce a rafforzare un concetto fondamentale: la diversità genetica umana è una risorsa preziosa, da esplorare e valorizzare. I genomi delle popolazioni native delle Ande raccontano una storia di resilienza e adattamento, di come la biologia umana possa modellarsi per garantire la sopravvivenza in ambienti ostili. Le popolazioni analizzate nello studio abitano le Ande da migliaia di anni. L’archeologia genetica suggerisce che i primi insediamenti umani ad alta quota in Sud America risalgano ad almeno 7.000 anni fa. Questo lungo periodo di permanenza ha consentito l’accumulo progressivo di adattamenti genetici, selezionati generazione dopo generazione.

«Non si tratta solo di sopravvivere, ma di vivere pienamente, di costruire società complesse, praticare agricoltura, allevamento, cultura, religione» - sottolineano i ricercatori. «Tutto questo è possibile anche grazie a un genoma che ha imparato a respirare in alta quota». Studi come questo spingono verso una visione più sfumata della medicina e della biologia umana. Non esiste un modello unico per comprendere la salute: le variabili ambientali e genetiche vanno considerate insieme, in una prospettiva che integri evoluzione, genetica e antropologia.

«Ogni popolazione ha qualcosa da raccontarci sulla capacità dell’uomo di adattarsi»conclude il team. «E ogni genoma è un archivio prezioso di risposte evolutive che possiamo ancora esplorare». (C. P.).

Durante la gravidanza in condizioni di bassa ossigenazione, il feto è esposto a un elevato rischio di ritardo di crescita intrauterina e mortalità neonatale. Tuttavia, i ricercatori hanno scoperto che le donne andine portano mutazioni in geni legati alla formazione della placenta e alla vascolarizzazione dell’embrione. Queste mutazioni favoriscono la creazione di nuovi vasi sanguigni nella placenta e aumentano l’efficienza del trasporto di ossigeno dalla madre al feto, garantendo un’adeguata ossigenazione anche ad alta quota.

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ASMA NEI BAMBINI

I MITI DA SFATARE

In Italia si registrano 50mila nuove diagnosi di asma infantile ogni anno: quali sono gli errori da non commettere

In Italia circa 2,6 milioni di persone soffrono di asma, tra cui 260mila bambini. E si procede a un ritmo di cinquantamila nuove diagnosi di asma infantile ogni anno. Dati che sono destinati ad aggravarsi nel tempo, come riferiscono le previsioni dell’Organizzazione Mondiale Sanità, secondo cui ogni dieci anni il numero degli asmatici nel mondo è destinato ad aumentare del 50%.

Facciamo riferimento a una malattia infiammatoria cronica delle vie aeree che non è legata solo a predisposizione familiare, ma anche a fattori ambientali, allergeni domestici e inquinamento

atmosferico e che rischia di compromettere la qualità di vita di un bambino se non trattata in maniera adeguata. Proprio a tal proposito, in occasione della recente Giornata Mondiale dell’asma, la Società Italiana per le Malattie Respiratorie Infantili (Simri) si è fatta promotrice di una campagna informativa e di prevenzione per tutto il mese di maggio, durante il quale in 56 centri specializzati italiani è data la possibilità a bambini e adolescenti di sottoporsi a spirometrie gratuite.

Si tratta del principale esame diagnostico per l’asma e serve a valutare la funzionalità respiratoria misurando

la quantità d’aria che una persona riesce a inspirare ed espirare, e la velocità con cui lo fa.

La Simri ha anche redatto un documento sui dieci falsi miti da sfatare riguardanti l’asma. «Sì, perché circolano troppe idee sbagliate intorno all’asma infantile, tra retaggi del passato, paura e disinformazione» - ha spiegato la presidente Simri Stefania La Grutta. E, allora, ecco quali sono le convinzioni sbagliate su cui è necessario fare chiarezza.

Innanzitutto l’asma non passa con la crescita come molti erroneamente sostengono. I sintomi possono sì migliorare con l’età, ma è pur sempre una malattia cronica ed è fondamentale mantenerne il controllo nel tempo. Altro mito da sfatare è quello sull’attività fisica che sarebbe sconsigliata. In realtà, è l’esatto opposto: lo sport è raccomandato poiché migliora la funzionalità respiratoria, purché - peròsiano adottate delle precauzioni come ad esempio il preriscaldamento.

Inoltre la terapia non va mai sospesa in vacanza né se i sintomi sono assenti. Il rischio è che si presentino riacutizzazioni improvvise, quindi vanno sempre seguite le indicazioni del medico curante. Altra convinzione erronea è quella secondo cui se un bambino ha tosse con fischio, è asma. Sbagliato: le cause possono essere diverse. Per individuare l’asma non basta solo una semplice visita: l’esame cui bisogna sottoporsi è la spirometria, indolore e per nulla invasivo.

Anche l’associazione all’allergia è da sfatare: sì, molti casi sono legati, ma non tutti. E non è solo lo sforzo fisico a scatenarla: soprattutto in età pediatrica pesano anche inquinamento atmosferico, pollini, umidità e infezioni virali. Ad aggravare la situazione anche fumo passivo, muffe e prodotti per la pulizia. Infine un passaggio sulla terapia, che, a differenza di quanto si crede, non è fissa: va personalizzata, controllata ed eventualmente modificata dal medico in base ai sintomi. (D. E.).

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L’hanno definita un’operazione straordinaria. E lo è stata, sia per la complessità clinica sia per l’eccezionalità del caso trattato. A eseguirla presso il Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma, è stata l’équipe dell’Unità di Chirurgia dei Sarcomi dei Tessuti Molli, guidata dal dottor Sergio Valeri, che fa parte dell’Unità di Chirurgia generale specialistica diretta dalla professoressa Rossana Alloni, e da un team di esperti chirurghi, infermieri e anestesisti, con la collaborazione del professor Francesco Stilo, direttore della Chirurgia vascolare del Policlinico di Trigoria.

L’intervento ha riguardato la rimozione di una massa tumorale di circa 40 chilogrammi, classificata come liposarcoma dedifferenziato retroperitoneale. Si tratta di una forma rara e aggressiva di cancro che origina dal tessuto adiposo e che si sviluppa nelle profondità dell’addome, rendendo particolarmente complesso l’approccio chirurgico. Come comunicato dalla struttura ospedaliera, è uno dei liposarcomi più voluminosi mai registrati in Europa. Il paziente, un uomo di 56 anni, è attualmente in fase di recupero post-operatorio presso il centro Santa Maria della Provvidenza della Fondazione Don Gnocchi, dove viene seguito attentamente per garantire il miglior esito possibile a lungo termine.

I primi segnali della patologia si erano manifestati nel 2015, quando fu sottoposto a un intervento chirurgico per quella che era stata diagnosticata come un’ernia inguinale. La storia si è poi ripetuta nel 2020. Quando successivamente i sintomi sono degenerati rendendo opportuni degli approfondimenti, si è arrivati a scoprire la vera natura della massa: un liposarcoma retroperitoneale, appunto.

Nel 2023, quindi, l’uomo si è sottoposto a una terza operazione mirata all’asportazione del tumore, che tuttavia non riuscì a debellare completamente la massa neoplastica. No-

ROMA, RIMOSSO TUMORE

RECORD

DA 40 CHILI

Asportato a un paziente di 56 anni quello che è stato definito “uno dei più grandi liposarcomi d’Europa”

nostante le chemio, il tumore ha continuato a crescere in modo invasivo. Nello scorso gennaio si è registrato un peggioramento significativo del quadro biologico e l’intervento, seppur rischiosissimo, è diventato l’unica opzione disponibile per fronteggiare un’emergenza drammatica.

«La massa era talmente imponente che persino sollevarla ha richiesto l’intervento coordinato di due membri dell’équipe» - ha spiegato Valeri. «Siamo riusciti a portare a termine l’intervento senza complicanze, un risultato che è stato possibile solo grazie all’impegno, alla sinergia e alla profes-

sionalità di tutto il personale coinvolto». Insomma, il lavoro di squadra è risultato assolutamente determinante, come sottolineato con orgoglio anche dal dottor Paolo Sormani, amministratore delegato e direttore generale del Policlinico: «Questo intervento è la dimostrazione concreta di quanto siano fondamentali la ricerca, l’innovazione e l’elevata competenza clinica - ha detto -. Abbiamo affrontato una sfida che sembrava sulla carta insormontabile e l’abbiamo vinta, restituendo al paziente una possibilità concreta di miglioramento della qualità della vita». (D. E.).

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TERAPIE DEL DOLORE REPLICATA IN LABORATORIO VIA NEURALE CHIAVE

I ricercatori di Stanford hanno creato organoidi neurali che riproducono la via sensoriale ascendente che trasmette le sensazioni di dolore dalla pelle al cervello

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Iricercatori della scuola di medicina dell’Università di Stanford sono riusciti a ricostruire in laboratorio una delle vie neurali più importanti per la segnalazione del dolore nell’uomo. Questo importante circuito nervoso trasmette gli stimoli dalla pelle al cervello. Una volta elaborati, questi segnali si traducono nella nostra esperienza soggettiva che comprende anche la spiacevole percezione di dolore. Secondo Sergiu Pasca, autore responsabile dello studio, la scoperta consentirà non solo di comprendere meglio il modo in cui i segnali del dolore sono elaborati negli esseri umani ma

anche di trovare trattamenti più efficaci per alleviare il dolore. Nello studio pubblicato su Nature, gli scienziati spiegano come sono riusciti ad assemblare quattro parti miniaturizzate del sistema nervoso umano per ricostruire la cosiddetta via sensoriale ascendente che comprende il ganglio della radice dorsale, il midollo spinale dorsale, il talamo e la corteccia somatosensoriale.

Come si legge nello studio, finora nessuno era stato in grado di osservare la trasmissione di informazioni attraverso l’intera via ascendente. In laboratorio, Pasca e i suoi colleghi sono riusciti a visualizzare onde mai viste prima di attività elettrica viaggiare dal primo componente del loro organoide fino all’ultimo, e sono stati in grado di potenziare o interrompere questi schemi ondulatori mediante alterazioni geniche o stimolazione chimica di elementi del circuito. «Il dolore spesso persiste anche quando il danno osservabile non è più evidente, forse a causa di cambiamenti duraturi nella via sensoriale ascendente» - ha dichiarato Vivianne Tawfik, professore di anestesiologia e medicina perioperatoria e del dolore. Tuttavia, i trattamenti per il dolore cronico sono pochi e tutt’altro che ideali. La maggior parte dei “farmaci per il dolore” non sono autorizzati per il dolore in sé, ma sono presi “in prestito” dalla psichiatria o dalle terapie per i disturbi del sonno. Gli antidolorifici più efficaci sono gli oppioidi, che però creano assuefazione, rendendo chi soffre di dolore cronico dipendente dal farmaco.

In seguito i ricercatori hanno stimolato l’organoide sensoriale attraverso la capsaicina, composto chimico che conferisce il tipico sapore piccante ai peperoncini e che produce una sensazione di bruciore in bocca. Immediatamente, in seguito a ciò, si sono scatenate ondate di attività neuronale. Nel corso dello studio i ricercatori hanno fatto anche un’altra scoperta inaspettata: le mutazioni genetiche in una proteina di scambio ionico che si trova sulla superficie dei neuroni sensoriali periferici possono portare a un’ipersensibilità al dolore o, al contrario, a un’incapacità di provare dolore che mette a repentaglio la vita. La proteina in questione, Nav1.7, è un particolare tipo di canale del sodio che, hanno osservato i ricercatori, abbonda nei neuroni sensoriali periferici ma è scarso altrove. Quando il team di Pasca ha reso non funzionale lo stesso canale del sodio nell’organoide sensoriale, ha avuto una sorpresa: la stimolazione da parte di quell’organoide in risposta a una sostanza chimica che induce il dolore è continuata, ma la trasmissione sincronizzata e ondulatoria delle informazioni sul dolore attraverso il circuito è misteriosamente svanita.

Il dolore spesso persiste anche quando il danno osservabile non è più evidente, forse a causa di cambiamenti duraturi nella via sensoriale ascendente. Lo screening di farmaci che controllino la capacità degli organoidi sensoriali di innescare ondate eccessive o inappropriate di trasmissione neuronale senza influenzare il circuito di ricompensa del cervello come fanno i farmaci oppioidi, potrebbe portare a terapie più mirate per il dolore.

Nel nuovo studio, Pasca e colleghi hanno sviluppato organoidi umani che riproducono le quattro regioni chiave della via sensoriale ascendente, poi li hanno fusi insieme per formare un assembloide che imita la via. Partendo da cellule prelevate da campioni di pelle di volontari, l’équipe ha innanzitutto trasformato le cellule in cellule staminali pluripotenti indotte. Gli scienziati hanno poi usato segnali chimici per indurre queste cellule ad aggregarsi in piccole sfere che rappresentano ciascuna delle quattro regioni del percorso e hanno dimostrato che le connessioni nervose tra i neuroni dei quattro organoidi erano perfettamente funzionanti.

Gli autori dello studio hanno concluso che gli assembloidi potrebbero rivelarsi utili anche nello studio di disturbi del neurosviluppo come l’autismo. Le persone affette da autismo sono spesso ipersensibili al dolore e alla stimolazione sensoriale in generale, e alcuni geni associati all’autismo sono attivi nei neuroni sensoriali della via sensoriale ascendente.

Pasca ha detto che il suo laboratorio sta lavorando su come accelerare lo sviluppo degli assemblaggi per capire meglio come il percorso che rappresentano funziona, o non funziona, negli adulti. «Il canale del sodio Nav1.7 sembra esistere soprattutto sulla superficie dei neuroni periferici che percepiscono il dolore», ha detto Pasca. «Pensiamo - ha concluso l’autore - che lo screening di farmaci che controllino la capacità degli organoidi sensoriali di innescare ondate eccessive o inappropriate di trasmissione neuronale senza influenzare il circuito di ricompensa del cervello come fanno i farmaci oppioidi, potrebbe portare a terapie più mirate per il dolore». (S. B.).

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IL VALORE È SBALLATO COSÌ UN BIOLOGO HA SALVATO LA VITA A UN PAZIENTE

Da Bologna una storia di buona sanità

Grazie alla solerzia di un analista di laboratorio un uomo con potassio alto e a forte rischio infarto è stato curato in tempo

di Domenico Esposito

Dedizione, scrupolosità, attenzione, prontezza. C’è tutto questo in una storia di buona sanità che arriva da Bologna e che è stata raccontata sulle colonne del Resto del Carlino. A un 87enne a rischio infarto è stata salvata la vita grazie a una telefonata. Già, la segnalazione di un biologo di laboratorio ha messo in moto una macchina che si è dimostrata celere ma soprattutto efficiente. E, oggi, l’ingegner Mario Salmon, residente nel capoluogo emiliano, può raccontare la vicenda di cui è stato protagonista con un pizzico di sollievo dopo il forte spavento che neppure aveva preventivato.

È successo di recente, nelle scorse settimane, quando Salmon si era recato di buon mattino all’ospedale Maggiore per le analisi del sangue. Un controllo di routine, non dettato da chissà quali spie, ma semplicemente per monitorare il proprio stato di salute. D’altronde la prevenzione è l’arma migliore di cui si dispone per contrastare o scoprire in tempo patologie nascoste. Fatti i prelievi di rito, l’87enne è tornato a casa e, poco prima di accomodarsi a tavola per la cena, intorno alle 20:00, ha ricevuto una telefonata inaspettata dal medico di famiglia.

«Mi ha detto di recarmi subito in Pronto Soccorso» - racconta al Resto del Carlino. Colto di sorpresa e ancora inconsapevole dei rischi che stava correndo, l’ingegnere ha provato a sdrammatizzare: «Sì, però dopo cena» - ha risposto. Poi ha capito che non era il caso di perdere tempo prezioso, proprio no. «Mi ha detto di andare immediatamente perché c’era un valore che non andava affatto bene». Il valore in questione era il potassio. E bisognava agire il più velocemente possibile. C’era iperpotassiemia, condizione che si verifica quando si registrano livelli eccessivamente alti di potassio nel sangue, ovvero a partire dai 5,0 millimoli per litro se lieve fino ad arrivare a più di 8,5 nei casi critici.

Se la concentrazione è troppo elevata, allora i rischi per la salute diventano seri, molto seri, in alcuni casi addirittura letali. A essere in pericolo è principalmente il cuore. Anche un aumento moderato dei livelli, infatti, può causare alterazioni significative della funzione cardiaca. Se poi i livelli sono ancora più alti si può andare incontro ad aritmie cardiache e, nello scenario peggiore, ad arresto cardiaco improvviso. Non solo, però. Perché sono possibili anche danni muscolari e al sistema nervoso. Dunque, il rico-

Il riconoscimento precoce e il trattamento tempestivo sono fondamentali per evitare conseguenze nefaste. Nel caso del paziente in questione, provvidenziale è risultata la solerzia del biologo di laboratorio dell’Ausl, che, accortosi del valore sballato, si è subito messo in contatto col suo medico di famiglia.

noscimento precoce e il trattamento tempestivo sono fondamentali per evitare conseguenze nefaste. Nel caso del paziente in questione, provvidenziale è risultata la solerzia del biologo di laboratorio dell’Ausl, che, accortosi del valore sballato, si è subito messo in contatto col suo medico di famiglia.

Un celebre spot degli Anni 90 sosteneva che “una telefonata allunga alla vita”. Ed è proprio così, altro che pubblicità. Accompagnato dalla figlia, Salmon ha raggiunto il pronto soccorso del Sant’Orsola, dove è stato curato con estrema efficienza. «Mi hanno fatto fleboclisi e vari prelievi di sangue. In un primo momento sembrava dovessi essere ricoverato, ma poi non mi hanno più ricoverato e così abbiamo potuto fare ritorno a casa». L’ingegnere racconta il pericolo scampato in calcio d’angolo, però il pensiero corre sempre al biologo di laboratorio che di fatto gli ha salvato la vita. Non so se sia un caso che si verifica raramente oppure no, ma so che qualcuno, in quel laboratorio, ha visto che c’era un dato molto pericoloso e si è messo in contatto con il mio medico».

Nonostante l’orario di lavoro fosse terminato, il dottore era comunque rintracciabile e ha potuto a sua volta avvisare il paziente. «Adesso sto bene: il mio sangue è tornato a essere insipido e il mio vecchio cuore fuori pericolo». L’87enne confessa che avrebbe voluto regalare «una bottiglia di bollicine» all’analista che si è accorto del valore anomalo del potassio. «Ne ho acquistate due: una l’ho data al mio medico di famiglia, mentre per l’altra ho telefonato al laboratorio, ma mi hanno detto che sono in tanti e risultava difficile risalire a chi era in servizio quella sera. Da parte mia l’intenzione c’era, ma non si è concretizzata». In compenso Salmon ha inviato una mail di ringraziamento all’ufficio rapporti con il pubblico dell’Ausl: «Era doveroso».

Il ruolo centrale del biologo di laboratorio

La storia a lieto fine dell’anziano ingegnere di Bologna pone in evidenza il ruolo centrale che ha avuto il biologo specializzato in analisi di laboratorio nel salvare la vita all’uomo. Si tratta di una figura forse sottovalutata rispetto ai medici bianchi in prima linea in corsia, eppure svolge un ruolo fondamentale nella prevenzione e diagnosi, dal momento che è responsabile dell’accuratezza e dell’affidabilità delle analisi. Inoltre, proprio come in questo, può risultare fondamentale segnalando tempestivamente a chi di dovere valori sballati.

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Nanotecnologie innovative per distruggere i biofilm batterici e contrastare le infezioni resistenti Il progetto europeo che sfida l’antibiotico-resistenza

In un’epoca in cui l’antibiotico-resistenza rappresenta una delle principali minacce per la salute pubblica globale, la scienza è costantemente alla ricerca di soluzioni alternative per affrontare le infezioni batteriche sempre più difficili da trattare. Una nuova speranza arriva dalla nanotecnologia grazie al progetto europeo BactEradiX, coordinato dall’Università di Bologna e finanziato con 3 milioni di euro dal programma Pathfinder del Consiglio Europeo dell’Innovazione (Eic). Il progetto ha sviluppato un approccio rivoluzionario per combattere le infezioni causate da batteri resistenti, aprendo la strada a terapie più efficaci e mirate.

L’antibiotico-resistenza è un fenomeno sempre più preoccupante, in cui i batteri acquisiscono la capacità di sopravvivere all’azione degli antibiotici, rendendo inefficaci molte delle terapie disponibili. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), si tratta di una delle dieci principali minacce per la salute pubblica a livello globale. Le infezioni causate da batteri resistenti, come Staphylococcus aureus e Pseudomonas aeruginosa, sono particolarmente pericolose nei contesti ospedalieri, dove possono colpire pazienti già vulnerabili e provocare gravi complicazioni, talvolta fatali.

Ogni anno, milioni di persone in tutto il mondo contraggono infezioni resistenti, con un bilancio crescente di morti evitabili. Il fenomeno è aggravato da un uso improprio o eccessivo di antibiotici, sia in ambito medico che veterinario, e dalla mancanza di nuovi farmaci in grado di fronteggiare i ceppi batterici emergenti. Uno degli ostacoli più difficili da superare nel trattamento delle infezioni batteriche è rappresentato dai biofilm: strutture complesse formate da comunità di batteri che si aggregano e si circondano di una matrice protettiva. All’interno di un biofilm, i batteri sono fino a mille volte più resistenti agli antibiotici rispetto alle forme libere, e riescono a eludere anche le difese del sistema immunitario. Questi biofilm si sviluppano frequentemente su dispositivi medici impiantabili (come cateteri e protesi), sulle superfici interne degli organi e in ferite croniche.

«I biofilm sono tra le principali cause dei fallimenti di molti approcci terapeutici e favoriscono lo sviluppo della resistenza ai farmaci» - afferma Paolo Blasi, docente dell’Università di Bologna e coordinatore del progetto

L’antibiotico-resistenza è un fenomeno sempre più preoccupante, in cui i batteri acquisiscono la capacità di sopravvivere all’azione degli antibiotici, rendendo inefficaci molte delle terapie disponibili. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), si tratta di una delle dieci principali minacce per la salute pubblica a livello globale.

BactEradiX. «Riuscire a distruggerli significa riaprire la possibilità di trattare efficacemente infezioni che oggi non rispondono più alle cure convenzionali».

Il cuore del progetto è lo sviluppo di nanomateriali avanzati in grado di penetrare e disgregare la matrice protettiva dei biofilm batterici. Una volta distrutti i biofilm, i batteri al loro interno diventano più vulnerabili sia all’azione degli antibiotici che alla risposta del sistema immunitario. I materiali nanotecnologici sono progettati per agire in modo selettivo, colpendo solo i batteri patogeni e riducendo al minimo gli effetti collaterali. Il progetto si concentra in particolare su due ceppi batterici ad alta priorità secondo l’Oms: Staphylococcus aureus e Pseudomonas aeruginosa. Questi microrganismi sono noti per la loro capacità di formare biofilm molto resistenti e per la loro diffusione negli ambienti ospedalieri, dove rappresentano una sfida costante per medici e operatori sanitari.

L’adozione di questa nuova tecnologia potrebbe rivoluzionare il trattamento delle infezioni batteriche, permettendo una riduzione dell’uso di antibiotici ad ampio spettro e contribuendo così a limitare la diffusione della resistenza. Inoltre, potrebbe portare a un significativo abbattimento dei costi sanitari legati alle infezioni croniche e ospedaliere, riducendo i tempi di degenza, le complicanze post-operatorie e la necessità di trattamenti prolungati.

«La tecnologia sviluppata da BactEradiX consentirà una risposta rapida a queste minacce» - sottolinea ancora Blasi. «Il nostro obiettivo è rendere questi nanomateriali compatibili con le pratiche cliniche quotidiane, favorendo lo sviluppo di nuovi antibiotici più efficaci e sicuri». Attualmente, il progetto è ancora in fase di sperimentazione preclinica, ma i risultati iniziali sono promettenti. I ricercatori stanno lavorando per ottimizzare la formulazione dei nanomateriali e per valutare la loro sicurezza ed efficacia in modelli animali e in ambienti simulati.

I prossimi passi includono la collaborazione con aziende biotech e ospedali per avviare studi clinici su larga scala e verificare l’efficacia della tecnologia in situazioni reali. Se confermata in ambito clinico, questa strategia potrebbe segnare l’inizio di una nuova era nella gestione delle malattie infettive, restituendo efficacia a trattamenti che oggi risultano sempre più inefficaci. (C. P.).

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Le cellule rispondono ai suoni attivando geni Una nuova frontiera per terapie non invasive, sicure e personalizzate

LE CELLULE ASCOLTANO

LA SCOPERTA CHE RIVOLUZIONA LA BIOLOGIA CELLULARE

Un nuovo studio dell’Università di Kyoto rivela che le cellule umane percepiscono i suoni e rispondono attivando specifici geni, aprendo nuove prospettive per la medicina non invasiva. Per la prima volta, la scienza dimostra che le cellule umane non solo percepiscono i suoni, ma rispondono attivando specifici geni. Un team di ricercatori dell’Università di Kyoto ha scoperto che l’esposizione a onde acustiche induce l’attivazione di circa 190 geni, influenzando processi cellulari fondamentali come l’adesione e il differenziamento. Questa scoperta, pubblicata sulla rivista Communications Biology, apre nuove prospettive per l’utilizzo della stimolazione acustica in medicina. Per indagare gli effetti dei suoni sulle attivi -

tà cellulari, i ricercatori hanno sviluppato un sistema che permette di immergere le cellule in coltura nelle onde acustiche. Dopo aver sottoposto le cellule a stimolazione acustica, le hanno esaminate al microscopio e analizzate mediante il sequenziamento degli Rna, per verificare quali geni fossero attivati.

I risultati hanno dimostrato che il suono induce una risposta a livello cellulare: in particolare, hanno osservato che inibisce in modo significativo il differenziamento delle cellule di grasso, gli adipociti. Questa osservazione suggerisce che la stimolazione acustica possa essere utilizzata per regolare le condizioni di cellule e tessuti. Il fenomeno alla base di questa scoperta è noto come meccanotrasduzione, ovvero la capacità

delle cellule di convertire stimoli meccanici in segnali biochimici. In questo caso, le onde sonore generano variazioni di pressione che deformano la membrana cellulare, attivando recettori specifici e innescando una cascata di segnali intracellulari. Questi segnali raggiungono il nucleo, dove influenzano l’espressione genica.

Il team di ricerca ha anche identificato circa 190 geni sensibili al suono, ha ricostruito il meccanismo con cui vengono trasmessi i segnali sonori all’interno delle cellule e ha osservato l’effetto determinato sulla loro capacità di adesione.

La scoperta che le cellule rispondono ai suoni apre nuove prospettive per la medicina non invasiva. Poiché il suono è immateriale, la stimolazione acustica è uno strumento non invasivo, sicuro e immediato, che probabilmente porterà benefici alla medicina e all’assistenza sanitaria. Ad esempio, la stimolazione acustica potrebbe essere utilizzata per influenzare il comportamento delle cellule staminali, promuovendo la rigenerazione dei tessuti danneggiati. Inoltre, potrebbe essere impiegata per modulare l’attività delle cellule immunitarie, migliorando la risposta del sistema immunitario contro le infezioni o i tumori. Queste applicazioni potrebbero essere estese anche a contesti neurologici, cardiovascolari e metabolici, ampliando notevolmente l’ambito delle potenzialità terapeutiche della stimolazione sonora.

Lo studio rappresenta un importante passo avanti nella comprensione della comunicazione cellulare. Tradizionalmente, si pensava che le cellule rispondessero principalmente a segnali chimici o elettrici. Questo studio ci rivela che anche i segnali meccanici, come le onde sonore, giocano un ruolo cruciale nella regolazione delle funzioni cellulari. «Poiché il suono è immateriale, la stimolazione acustica è uno strumento non invasivo, sicuro e immediato, che probabilmente porterà benefici alla medicina e all’assistenza sanitaria» - afferma Masahiro Kumeta, ricercatore dell’Università di Kyoto Sebbene i risultati siano promettenti, sono necessarie ulteriori ri-

La scoperta che le cellule rispondono ai suoni apre nuove prospettive per la medicina non invasiva. Poiché il suono è immateriale, la stimolazione acustica rappresenta uno strumento sicuro, immediato e privo di effetti collaterali. Le sue potenziali applicazioni spaziano dalla rigenerazione dei tessuti al potenziamento del sistema immunitario, fino ai settori neurologico, cardiovascolare e metabolico, ampliando significativamente le possibilità terapeutiche future.

cerche per comprendere appieno i meccanismi alla base della risposta cellulare ai suoni. In particolare, sarà importante determinare se diverse frequenze o intensità sonore producono effetti differenti sulle cellule. Inoltre, sarà fondamentale verificare se questi effetti si verificano anche in vivo, ovvero all’interno di organismi viventi. In futuro, la stimolazione acustica potrebbe essere integrata con altre tecnologie, come la terapia genica o l’ingegneria dei tessuti, per sviluppare nuovi approcci terapeutici personalizzati. Ad esempio, potrebbe essere utilizzata per attivare specifici geni in determinate cellule, migliorando l’efficacia dei trattamenti. La scoperta che le cellule umane percepiscono i suoni e rispondono attivando specifici geni rappresenta una svolta nella biologia cellulare. Questa nuova comprensione della comunicazione cellulare apre la strada a innovative applicazioni mediche non invasive, che potrebbero rivoluzionare il trattamento di numerose patologie. Mentre la ricerca continua, si può immaginare un futuro in cui la musica e i suoni diventano strumenti terapeutici per migliorare la nostra salute e il nostro benessere. (C. P.).

Il boom di embrioni crioconservati richiede una nuova legge

Tra limiti etici, clinici e normativi, serve definire il problema per trovare soluzioni concrete

EMBRIONI CRIOCONSERVATI DEFINIRE IL PROBLEMA PER CERCARE SOLUZIONI

* Responsabile del Laboratorio di PMA - AOU Policlinico Umberto I, Roma e Presidente della Società Italiana di Embriologia, Riproduzione e Ricerca (SIERR)

di Valerio Pisaturo*

Nell’ultimo mese il tema degli embrioni crioconservati è tornato al centro del dibattito pubblico. I Ministeri della Salute e della Famiglia stanno lavorando a una proposta di legge che si propone di risolvere un problema importante che caratterizza i centri di Procreazione Medicalmente Assistita.

L’evoluzione normativa

Prima dell’entrata in vigore della legge 40 del 2004, la crioconservazione degli embrioni era consentita senza particolari limitazioni. La promulgazione della legge ne introdusse il divieto, ad eccezione di particolari condizioni, con importanti conseguenze sulle probabilità di successo dei trattamenti. Per disciplinare la gestione degli embrioni crioconservati prima dell’entrata in vigore della legge, il Decreto Ministeriale del 4 agosto 2004 (G.U. n. 200 del 26 agosto 2004) individuò due categorie: embrioni in attesa di futuro impianto ed embrioni per i quali fosse stato accertato uno stato di abbandono. Con la sentenza della Corte Costituzionale 151/2009 fu di nuovo possibile crioconservare embrioni per motivi clinici, riproponendo però il problema dell’accumulo. Permane oggi il divieto, imposto dalla legge 40/2004, di eliminare embrioni considerati evolutivi. I criteri per definire la non evolutività di un embrione sono stati elaborati e aggiornati dalle società scientifiche, in particolare dalla Società Italiana di Embriologia Riproduzione e Ricerca (SIERR) e dalla Società Italiana di Genetica Umana (SIGU), sulla base dei dati di letteratura più recenti, con l’ultima revisione risalente all’ottobre 2019.

Perché oggi ci sono tanti embrioni crioconservati

La crescita degli embrioni crioconservati è il risultato di necessità cliniche. In media, circa il 70% degli ovociti inseminati porta alla formazione di uno zigote, e solo il 40% degli embrioni raggiunge lo stadio di blastocisti. Di questi solo una parte diventerà un bambino che nasce (circa il 37% nelle pazienti a buona prognosi, come riportato nella Cochrane Review del 2022). La probabilità che un singolo embrione, quindi, porti alla nascita di un bambino è tutt’altro che certa. Ne consegue la necessità di produrre più embrioni per aumentare le probabilità di successo di ogni trattamento. Inoltre, le linee guida internazionali raccomandano il trasferimento di un singolo embrione per ridurre il rischio di gravidanze multiple, portando alla crioconservazione degli embrioni soprannumerari prodotti. A questo scenario si aggiungano le coppie che si sottopongono a test genetici preimpianto (PGT). Tale strategia, riconosciuta dalla Corte Costituzionale nel 2015, introduce una selezione aggiuntiva: solo gli embrioni privi delle alterazioni genetiche ricercate vengono trasferiti, mentre gli altri restano crioconservati.

La dimensione del problema

Per avere un’idea della dimensione del fenomeno, si deve

In condizioni ottimali, gli embrioni possono essere conservati per tempi molto lunghi, come dimostrato dal caso dei gemelli nati nel 2022 da embrioni congelati oltre trent’anni prima negli Stati Uniti.

far riferimento al numero di embrioni oggi presenti nelle biobanche e che verosimilmente non verranno più utilizzati per i trattamenti delle coppie. Un datato censimento, condotto nel 2011, riportava 3.862 embrioni formalmente abbandonati e 6.279 per i quali non si riusciva più a contattare i genitori biologici. Se a questi si aggiunge il numero di embrioni crioconservati negli anni successivi, il quadro si amplia notevolmente: i dati raccolti annualmente dal Registro Nazionale PMA mostrano una crescita costante del numero di embrioni congelati, passati da circa 7.000 nel 2009 a oltre 60.000 nel 2022.

Divieto di sperimentazione e sentenza 84/2016

Un altro aspetto rilevante è che, in Italia, è vietata ogni forma di ricerca clinica o sperimentale su embrioni umani che non sia finalizzata alla tutela dell’embrione stesso. Questo principio, stabilito dalla legge 40/2004, è stato confermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza 84/2016. La Corte ha ribadito che il bilanciamento tra tutela dell’embrione e interesse alla ricerca scientifica è materia riservata esclusivamente al legislatore. Di conseguenza, anche gli embrioni non idonei al trasferimento dopo PGT non possono essere destinati alla ricerca, aumentando così il numero di embrioni crioconservati senza prospettive di utilizzo.

Crioconservazione a lungo termine: quali implicazioni?

Un aspetto spesso trascurato riguarda la durata della crioconservazione. I dati disponibili indicano che il mantenimento prolungato degli embrioni non sembra comprometterne in modo certo il potenziale di sviluppo. In condizioni ottimali, gli embrioni possono essere conservati per tempi molto lunghi, come dimostrato dal caso dei gemelli nati nel 2022 da embrioni congelati oltre trent’anni prima negli Stati Uniti.

Un problema aperto: definire e gestire

La proposta di una legge finalizzata a regolamentare le condizioni e le modalità di gestione degli embrioni crioconservati rappresenta un’importante e preziosa opportunità. Tuttavia, le difficoltà che il legislatore dovrà affrontare sono notevoli: elaborare una norma efficace richiede un equilibrio delicato tra tutela etica, sostenibilità clinica e reali possibilità di utilizzo.Va inoltre considerato che la maggior parte degli embrioni crioconservati proviene da coppie infertili, e quindi presenta, di per sé, una probabilità di successo limitata. Definire chiaramente il problema è il primo passo indispensabile per individuare soluzioni equilibrate, eticamente fondate e concretamente applicabili.

Le biotecnologie stanno rivoluzionando la procreazione medicalmente assistita © guteksk7/shutterstock.com

Dalle tecniche meno invasive alle procedure di laboratorio più complesse

BIOTECNOLOGIE E PMA UN CONNUBIO PER IL FUTURO DELLA FERTILITÀ

di Giovanni Ruvolo*

La procreazione medicalmente assistita (PMA) ha rappresentato una rivoluzione per le coppie con difficoltà a concepire, offrendo soluzioni tecnologiche sempre più avanzate per superare l’infertilità. L’ evoluzione delle biotecnologie applicate alla riproduzione umana ha permesso di migliorare significativamente le tecniche di fecondazione assistita, aumentando le probabilità di successo e riducendo i rischi per la salute della madre e del nascituro. In questo articolo, esploreremo le principali innovazioni biotecnologiche che hanno trasformato il campo della PMA, distinguendo tra metodologie di I e II livello.

Le biotecnologie chiave nella PMA

Le biotecnologie applicate alla riproduzione assistita comprendono una vasta gamma di strumenti e metodologie che consentono ogni fase del processo di concepimento assistito. Le tecniche, che hanno un significato terapeutico nel trattamento dell’infertilità di coppia, si suddividono in due livelli:

- PMA di I livello: le tecniche di I livello sono meno invasive e non prevedono la manipolazione diretta di ovociti e spermatozoi in laboratorio, né la coltura di embrioni. Sono prevalentemente indicate per donne con età inferiore a 38 anni, in presenza di una dimostrata pervietà tubarica ed una condizione seminologica non caratterizzata da grave patologia. Le tecniche di I livello sono indicate, dunque, nei casi di infertilità idiopatica, una condizione in cui una coppia non riesce a concepire spontaneamente, nonostante abbia rapporti regolari e non protetti per almeno 12 mesi (o 6 mesi se la donna ha più di 35 anni), senza che siano individuabili cause evidenti attraverso gli esami diagnostici standard, nei casi di modesta patologia seminologica, per il trattamento di infertilità dovuta a cause ovulatorie, immunologiche o psicologiche.

La tecnica elettiva per la PMA di I livello è l’Inseminazione Intrauterina (IUI) che consiste

* Biologo e Biotecnologo, Responsabile dei laboratori di embriologia clinica del Centro di Biologia della Riproduzione di Palermo e del Centro Italiano di Riproduzione Assistita CIPA-SDM di Roma. È membro del Consiglio direttivo della SIRU e socio fondatore della SIERR ed è membro del CIG di Enpab

nel trasferimento degli spermatozoi direttamente nell’utero della donna durante l’ovulazione, aumentando così le probabilità di fecondazione. Può essere eseguita con spermatozoi del partner o di un donatore.

L’attività del biologo si svolge nella valutazione dei parametri del campione seminale e la selezione mediante tecniche di preparazione (ad esempio lo swim up da pellet) degli spermatozoi dotati di motilità rapida e progressiva che, caricati su un’apposita cannula sterile, vengono trasferiti nel fondo uterino. Con la IUI la fecondazione, dunque, si realizza in maniera fisiologica e naturale nella tuba di Falloppio. (Fig. 1)

- PMA di II livello: le tecniche di II livello, più complesse e invasive, prevedono la manipolazione dei gameti e la fecondazione in laboratorio, in ambiente extracorporeo. Fondamentalmente sono due le tecniche più utilizzate:

• La Fecondazione in Vitro con Transfer dell’Embrione (FIVET): la tecnica è indicata nei casi in cui la funzione delle tube è compromessa, nei casi di fallimento dopo una serie di cicli di IUI o nei casi di lieve patologia seminale. Prevede il prelievo degli ovociti per via transva-

© Sakurra/shutterstock.com
Fig. 1. Tecnica IUI

La procreazione medicalmente assistita (PMA) ha rappresentato una rivoluzione per le coppie con difficoltà a concepire, offrendo soluzioni tecnologiche sempre più avanzate per superare l’infertilità. L’ evoluzione delle biotecnologie applicate alla riproduzione umana ha permesso di migliorare significativamente le tecniche di fecondazione assistita, aumentando le probabilità di successo e riducendo i rischi per la salute della madre e del nascituro.

ginale, sotto controllo ecografico. Gli embriologi, in laboratorio, isolano gli ovociti dal fluido follicolare aspirato che vengono messi in coltura in adeguati terreni in incubatori con atmosfera a 37°C, 6 % CO2 e 5% O2. Dopo circa 2/3 ore dal prelievo, dopo aver trattato il campione seminale con la metodica dello swim up o attraverso centrifugazione in gradienti discontinui di Ficoll, circa 200.000 spermatozoi vengono aggiunti al terreno di coltura in cui si trovano gli ovociti. Con la FIVET la fecondazione rimane un evento naturale ed autonomo e la selezione dello spermatozoo fecondante si realizza attraverso le interazioni spontanee con le cellule del cumulo ooforo che circondano l’ovocita e la zona pellucida. Dopo alcuni giorni, gli embrioni ottenuti vengono trasferiti nell’utero materno con la stessa metodologia della IUI.

• La ICSI (Iniezione Intracitoplasmatica dello Spermatozoo): La tecnica è indicata prevalentemente nei casi di severa patologia seminale, nei casi in cui sono presenti anticorpi diretti verso strutture dello spermatozoo, nei casi di mancata fecondazione con FIVET, nei casi di utilizzo di ovociti congelati e nei casi di azoospermia in cui gli spermatozoi vengono isolati dal tessuto testicolare dopo una biopsia. La ICSI è una tecnica di microchirurgia cellulare in cui un singolo spermatozoo viene iniettato direttamente all’interno dell’ovocita, aumentando le probabilità di fecondazione nelle indicazioni sopracitate.

L’embriologo utilizza un sistema di micromanipolazione che consente di muovere due microaghi nei 3 piani dello spazio, sistema installato direttamente nel microscopio rovesciato dedicato per questa tecnica di fecondazione.

Sistemi di coltura

La coltura degli embrioni in laboratorio richiede una grande competenza da parte degli embriologi. Grazie a incubatori dedicati, vengono mimate le condizioni chimico-fisico dell’ambiente tubarico ed uterino, con una temperatura costante di 37°C ed un’atmosfera con il 6% di CO2 e 5% di O2. I terreni di coltura impiegati sono molto complessi e sono costituiti principalmente da glucosio, piruvato e lattato, utilizzati soprattutto per i primi stadi dello sviluppo embrionale in vitro, aminoacidi essenziali e non essenziali, proteine come l’albumina sierica umana, sali minerali ed elettroliti, fattori di crescita ed antiossidanti che proteggono dallo stress ossidativo. Il pH nei terreni di coltura utilizzati è mantenuto stabile attraverso un sistema tampone, che regola l’equilibrio tra acidità e alcalinità. Il Sistema tampone bicarbonato/CO₂ è quello maggiormente impiegato e consente di mantenere in un ambiente con il 6% di CO2 il pH in un range tra 7.2-7.4.

Un’importante innovazione nella PMA è rappresentata dai sistemi di incubazione time-lapse, che permettono di monitorare lo sviluppo degli embrioni in tempo reale senza necessità di rimuoverli dall’incubatore eliminando così le interferenze che l’ambiente

Fig. 2. Spermatozoi in coltura con il complesso ovocita-cumulo ooforo
Fig. 3. ICSI
Fig. 4. Sistema time lapse

esterno potrebbe esercitare sul coretto sviluppo. Inoltre la ricerca si sta orientando verso sofisticati algoritmi di analisi delle immagini che potrebbero aiutare gli embriologi, nel prossimo futuro a selezionare gli embrioni con il più alto potenziale di impianto, migliorando così le probabilità di successo della gravidanza.

Biopsia del trofoblasto per il Pre-implantation

Genetic Testing (PGT)

La PGT è una tecnica utilizzata per identificare eventuali anomalie genetiche o cromosomiche negli embrioni prima del loro trasferimento in utero. Brevemente, la PGT-A consente di rilevare aneuploidie cromosomiche che potrebbero ridurre la probabilità di impianto o causare aborti spontanei; la PGT-M è indicata per individuare specifiche malattie genetiche monogeniche (come la fibrosi cistica o l’anemia mediterranea) e la PGT-SR per identificare riarrangiamenti strutturali del DNA.

Per eseguire l’analisi genetica, è necessario eseguire una biopsia del trofoblasto nella blastocisti, stadio che si raggiunge dopo 5/7 giorni di coltura. La procedura è, ancora una volta, un intervento di chirurgia cellulare, che si esegue con la stessa strumentazione della ICSI e richiede, da parte dell’embriologo, una grande competenza per evitare di danneggiare la struttura embrionale.

Crioconservazione di gameti ed embrioni

Le tecniche di crioconservazione hanno reso possibile preservare gameti (ovociti e spermatozoi) ed embrioni per un utilizzo futuro. La vitrificazione, una metodica avanzata di congelamento ultrarapido, introdotta nella routine di laboratorio, ha migliorato le percentuali di sopravvivenza degli ovociti e degli embrioni, consentendo una maggiore flessibilità nelle strategie terapeutiche della PMA.

L’utilizzo dell’intelligenza artificiale e machine learning sta rivoluzionando la PMA attraverso l’analisi automatizzata di immagini embrionali, la predizione della qualità degli ovociti e spermatozoi e la personalizzazione dei protocolli di trattamento.

Nuove frontiere delle biotecnologie nella PMA Le applicazioni biotecnologiche nella riproduzione assistita non si fermano qui e promettenti tecnologie emergenti sono già in fase di sperimentazione. Tra queste si deve annoverare l’utilizzo, come già accennato, dell’intelligenza artificiale e machine learning che sta rivoluzionando la PMA attraverso l’analisi automatizzata di immagini embrionali, la predizione della qualità degli ovociti e spermatozoi e la personalizzazione dei protocolli di trattamento. Anche la realizzazione di organoidi ovarici, ricerca che vede in prima linea ricercatori italiani, è un’interessante evoluzione biotecnologica. Gli organoidi ovarici (strutture tridimensionali che imitano il funzionamento dell’ovaio umano) potrebbero offrire nuove soluzioni per la preservazione della fertilità nonché fornire importanti informazioni sul dialogo molecolare tra l’embrione e l’endometrio, un ambito che potrebbe migliorare i risultati, in termini di bambini nati, nella PMA.

In conclusione, le biotecnologie applicate alla procreazione medicalmente assistita hanno trasformato radicalmente il panorama della fertilità, offrendo soluzioni sempre più avanzate per il trattamento dell’infertilità e la prevenzione di malattie genetiche. La preparazione e la competenza dell’embriologo e la formazione continua sono requisiti necessari per garantire alle coppie in cerca di una gravidanza i migliori risultati.

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Fig. 5. Biopsia del trofoblasto
Fig. 6. Congelamento di gameti ed embrioni
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Un composto naturale presente nei mirtilli mostra promettenti effetti antinvecchiamento, antiossidanti e neuroprotettivi, ma servono ulteriori studi clinici

PTEROSTILBENE FITOCOMPOSTO CON NUMEROSE PROMETTENTI QUALITÀ PER LA SALUTE DELL’UOMO

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di Carla Cimmino

La ricerca sui composti bioattivi naturali di anno in anno identifica sempre nuove molecole, che sembrano mostrare numerosi effetti benefici per salute umana. Tra queste, secondo recenti scoperte, il pterostilbene (3,5-dimetossi-4’-idrossistilbene), derivato stilbenico metilato, composto naturale dalle promettenti proprietà farmacologiche; presente principalmente nei mirtilli e nella corteccia di Pterocarpus marsupium, ha suscitato interesse per le sue proprietà antiossidanti, antinfiammatorie, antitumorali e neuroprotettive.

La sua struttura chimica differisce dal resveratrolo, perché presenta due gruppi metossilici in posizione 3 e 5 dell’anello fenolico, i quali conferiscono maggiore stabilità metabolica e maggiore resistenza all’ossidazione. Da uno studio in vitro condotto su cellule di fibroblasti di generazione P2 di origine umana, è stata valutata la sicurezza del composto bioattivo eseguendo un test di citotossicità, irradiando le cellule con raggi UVA a 30 J/cm²; successivamente è stato eseguito un esperimento di tessuto cutaneo in vitro irradiato con raggi UVA a 30 J/cm² e UVB a 50 mJ/cm², per valutare l’efficacia anti-invecchiamento.

di collagene IV del 30,95%, di collagene VII del 25,64% e del fattore di crescita dei fibroblasti- β (FGF- β ) del 15,67%. Entrambi gli studi hanno dimostrato in maniera determinante l’efficacia anti-invecchiamento del pterostilbene.

Quello che emerge è che il petrostilbene ha innumerevoli attività biologiche, mediate da diversi meccanismi molecolari:

• attività antiossidante: agisce come scavenger di ROS e attraverso la via Nrf2 attiva l’espressione di enzimi antiossidanti;

• effetto antinfiammatorio: inibisce l’attivazione del NF- κ B, riducendo la produzione di citochine pro-infiammatorie (IL-6, TNF- α );

• proprietà antitumorali: mediante modulazione della via PI3K/Akt e attivazione della caspasi-3 induce l’apoptosi in cellule tumorali;

• neuroprotezione: promuove la sopravvivenza neuronale e contrasta i processi neurodegenerativi, potrebbe essere impiegato potenzialmente contro patologie come Alzheimer e Parkinson.

Nonostante i dati preclinici possano apparire incoraggianti, gli studi clinici sull’uomo sono ancora pochi e limitati. Da alcune sperimentazioni preliminari vengono fuori effetti positivi sulla regolazione del glucosio, sui lipidi plasmatici e sulla funzione cognitiva. Non bisogna sottovalutare però, che questo composto bioattivo sia oggetto di studio come coadiuvante nelle terapie oncologiche e nel trattamento di patologie metaboliche.

Dal test di citotossicità è emerso che concentrazioni di pterostilbene pari o inferiori a 3,90 µg/mL non hanno esercitato alcuna tossicità significativa sui fibroblasti. Il test sulle cellule dei fibroblasti ha mostrato che 2,6 µg/mL di pterostilbene hanno abbassato il danno UVA ai fibroblasti riducendo l’espressione genica della metalloproteinasi della matrice 1 (MMP-1) del 18,62% e diminuendo il contenuto di MMP-1 del 10,08%, di MMP-3 del 15,10% e di collagene I del 33,92%. Dall’esperimento in vitro sulla pelle, invece, è emerso, che il pterostilbene ha alleviato gli effetti avversi delle radiazioni UVA e UVB sul tessuto cutaneo aumentando lo spessore dell’epidermide, per mantenere la morfologia della pelle, prevenendo la degradazione delle fibre di collagene dell’88,57% e aumentando la quantità Quello che emerge dai test è che il petrostilbene ha innumerevoli attività biologiche, mediate da diversi meccanismi molecolari: attività antiossidante, effetto antinfiammatorio, proprietà antitumorali e neuroprotezione.

Nonostante i dati preclinici possano apparire incoraggianti, gli studi clinici sull’uomo sono ancora pochi e limitati.

Il pterostilbene è stato definito un fitocomposto con caratteristiche promettenti e uno spettro molto ampio di attività biologiche. La sua maggiore biodisponibilità rispetto al resveratrolo, e i dati preclinici promettenti, lo rendono un candidato interessante per nuove strategie terapeutiche. È necessaria però un’attenta validazione clinica per confermarne l’efficacia e la sicurezza per l’uomo.

La ricerca futura dovrà porre maggiore attenzione su:

• studi clinici randomizzati su larga scala;

• valutazione degli effetti a lungo termine;

• sviluppo di formulazioni farmaceutiche mirate.

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CELLULE CD34+ E MCL-1 NUOVE PROSPETTIVE NELLA TRICOLOGIA RIGENERATIVA

Le cellule staminali CD34+ del follicolo pilifero e la proteina MCL-1 emergono come protagoniste innovative nella tricologia rigenerativa, aprendo scenari terapeutici promettenti contro caduta e invecchiamento capillare

La perdita dei capelli, o alopecia, è sempre più oggetto di attenzione scientifica e si impone come fenomeno clinico sistemico superando i confini della problematica estetica. Tra i bersagli molecolari emergenti per il controllo del ciclo follicolare, la proteina MCL-1 (Myeloid Cell Leukemia-1) si distingue oggi come chiave biologica per la sopravvivenza e il mantenimento delle cellule staminali pilifere. Già nota in ambito oncologico per il suo ruolo anti-apoptotico, MCL1 appartiene alla famiglia Bcl-2 e svolge una funzione essenziale nella regolazione della vitalità tis -

sutale. I recenti studi presso l’Università della Virginia hanno evidenziato come l’espressione di MCL-1 sia indispensabile per la continuità del nuovo ciclo anagen e, più in generale, per la capacità rigenerativa del follicolo. La sua modulazione influenza in modo diretto la longevità delle cellule staminali quiescenti situate nella nicchia follicolare, da cui dipende la formazione del nuovo fusto capillare. L’inibizione di MCL-1 induce quindi una rapida apoptosi delle cellule staminali e accelera l’ingresso del follicolo nella fase catagen, compromettendo irrimediabilmente la ricrescita dei capelli.

Al contrario, la sua sovraespressione o attivazione farmacologica è stata associata a un prolungamento della fase anagen, con aumento della densità capillare e migliore struttura del capello. In questa prospettiva, MCL-1 non rappresenta solo un marcatore funzionale del benessere follicolare, ma un vero e proprio target d’intervento per trattamenti intelligenti contro diverse forme di alopecia, incluse quelle legate a stress ossidativo, chemioterapia, disfunzioni endocrine e invecchiamento cutaneo.

Le implicazioni di questa scoperta sono notevoli: il follicolo pilifero può ora essere considerato un modello dinamico di rigenerazione tissutale, e la sua biologia offre l’opportunità di sviluppare nuovi protocolli clinici e cosmetici ad alta efficacia. Peptidi biomimetici, attivi epigenetici e molecole segnale capaci di indurre o sostenere l’espressione di MCL-1 sono oggi oggetto di ricerca avanzata e promettono l’apertura di una nuova generazione di lozioni topiche e integratori tricologici di precisione.

molteplici segnali intracellulari: stati infiammatori, carenze nutrizionali, alterazioni ormonali e persino esposizione ai raggi UV possono comprometterne l’espressione. Questo apre un ulteriore fronte nella prevenzione dell’alopecia, rendendo possibile il monitoraggio e il supporto della funzione di MCL-1 attraverso strategie integrative mirate: dieta, nutraceutici, detossinazione mirata e scalp care evoluto. È qui che tricologia e medicina funzionale si incontrano, integrando approcci diagnostici innovativi (come la tricoscopia digitale avanzata) con trattamenti formulati per modulare la vitalità follicolare dall’interno e dall’esterno.

A livello formulativo, diventa strategico selezionare attivi dermocosmetici che possano influenzare positivamente l’ambiente biochimico delle cellule staminali. Tra questi, derivati botanici come la Centella asiatica, la Scutellaria baicalensis e peptidi ad azione mitocondriale rappresentano soluzioni promettenti. In combinazione con tecnologie veicolanti avanzate, come nanoparticelle lipidiche o sistemi delivery a rilascio controllato, è possibile costruire protocolli altamente performanti in grado di interagire efficacemente con il microambiente follicolare.

La proteina MCL-1 si rivela protagonista di una nuova narrativa tricologica: non più semplice coadiuvante, ma regolatore centrale della salute follicolare. La sua esplorazione scientifica rappresenta una frontiera concreta per l’evoluzione di prodotti e protocolli personalizzati, a beneficio sia della ricerca che della pratica clinica.

Il contesto di applicazione infine si estende oltre la tricologia. L’azione protettiva di MCL-1 sulle cellule staminali si rivela strategica anche in ambiti paralleli: rigenerazione epidermica, mantenimento del microbiota cutaneo, prevenzione della senescenza indotta da fattori ambientali. In questo senso, l’interesse per MCL-1 travalica il settore dei capelli per contribuire a una nuova visione sistemica della medicina rigenerativa, in cui pelle, annessi cutanei e tessuti profondi condividono gli stessi codici molecolari di autoriparazione. Dal punto di vista biologico, è interessante notare come la regolazione di MCL-1 sia influenzata da

Infine, l’applicazione di MCL-1 nella pratica tricologica non può prescindere da una valutazione funzionale individuale: la risposta ai trattamenti varia da soggetto a soggetto, ed è quindi fondamentale un approccio personalizzato basato su analisi approfondite, comprese eventuali indagini genetiche.

In sintesi, la proteina MCL-1 si rivela protagonista di una nuova narrativa tricologica: non più semplice coadiuvante, ma regolatore centrale della salute follicolare. La sua esplorazione scientifica rappresenta una frontiera concreta per l’evoluzione di prodotti e protocolli personalizzati, a beneficio sia della ricerca che della pratica clinica. Comprendere e modulare MCL-1 significa non solo contrastare la caduta, ma costruire una visione biologicamente coerente della rigenerazione pilifera, fondata su basi molecolari solide, innovazione tecnologica e una nuova alleanza tra scienza, estetica e salute.

Bibliografia

Chin HS et al.: “MCL 1 safeguards activated hair follicle stem cells to enable adult hair regeneration” Nat Commun. 2025 Mar 22;16(1):2829. doi: 10.1038/s41467-025-58150-5.

CENERI VULCANICHE E NASCE

SCARTI ALIMENTARI IL FERTILIZZANTE DEL FUTURO

Il progetto europeo Landfeed trasforma i rifiuti in risorse agricole L’iniziativa, con casi studio in Europa, sviluppa tecnologie per recuperare nutrienti sostenibili

di Gianpaolo Palazzo

Ogni anno, milioni di tonnellate derivanti da resti alimentari e agricoli gravano sull’Ambiente del Vecchio Continente. Una risposta innovativa, però, vede l’Italia in prima linea grazie al progetto europeo “Landfeed” presentato da Enea (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile), che promette di trasformare questo enorme problema in una risorsa preziosa per i nostri campi. L’intento è rivoluzionare il settore attraverso la creazione di biofertilizzanti, ottenuti a partire da una combinazione inedita di immondizie e, persino, ceneri vulcaniche. L’approccio non solo promette di ridurre drasticamente la dipendenza dai fertilizzanti chimici tradizionali, ma anche di aprire nuove prospettive per la gestione delle risorse e la valorizzazione dei sottoprodotti nell’industria agroalimentare.

La problematica dello spreco alimentare in Europa è tutt’altro che trascurabile: ogni anno vengono generate quasi 60 milioni di tonnellate solo dagli scarti alimentari, con significative ripercussioni in più settori. In risposta a questa sfida, l’Ue ha adottato strategie mirate, impegnandosi, in particolare, a dimezzare lo spreco di quanto rimane nei piatti entro il 2030 e a ridurre le perdite lungo l’intera filiera di produzione e rifornimento.

© Netrun78/shutterstock.com

«Si vuole rispondere - spiega con entusiasmo Antonella Luciano, ricercatrice del Laboratorio strumenti per la sostenibilità e circolarità di sistemi produttivi e territoriali di Enea e referente del progetto - alla sfida recuperando nutrienti preziosi dai rifiuti e sottoprodotti agricoli, forestali, industriali e urbani, contribuendo così non solo alla riduzione degli scarti, alla sicurezza alimentare, all’agricoltura sostenibile ma anche alla creazione di un mercato europeo di biofertilizzanti, considerato che gran parte di questi prodotti proviene da importazioni estere». La dipendenza dalle importazioni rappresenta una vulnerabilità per gli agricoltori europei, sia in termini economici sia di sicurezza degli approvvigionamenti. Un elemento chiave, quindi, sarà lo sviluppo di un sofisticato sistema di gestione on-line e la realizzazione di tavoli di lavoro dedicati alla simbiosi industriale. Lo strumento digitale, in particolare, avrà la funzione di semplificare e ottimizzare la gestione, facilitando l’impiego nella filiera produttiva. «Attraverso questa piattaforma, promuovendo la collaborazione e lo scambio di sottoprodotti e scarti tra aziende in un sistema di simbiosi industriale. Inoltre, daremo il nostro contributo per implementare un “passaporto digitale del prodotto” per i fertilizzanti biologici, in modo da garantire la tracciabilità lungo l’intera catena di approvvigionamento e produzione, ottimizzando quindi l’uso di diversi residui organici, in base ai principi dell’economia circolare». Il Web non solo semplificherà l’incontro tra domanda e offerta, ma fornirà anche strumenti per la caratterizzazione e la valutazione della qualità dei materiali, assicurando standard elevati per la produzione.

Oltre allo sviluppo di tecnologie all’avanguardia, verranno messi a punto rivestimenti di nuova generazione. Realizzati a base di chitosano e microalghe, saranno in grado d’incrementare l’efficacia biofertilizzante grazie a meccanismi con rilascio controllato degli elementi nutrizionali. In tal modo, si contribuirà a una gestione più efficiente della concimazione, ottenendo ricadute positive sull’ottimizzazione dei raccolti, la riduzione delle emissioni di gas serra, la minimizzazione della pressione sulle risorse idriche e il miglioramento del suolo attraverso la biodiversità.

Sono cinque e differenti i casi studio a li-

vello europeo, ognuno caratterizzato da specifiche tipologie e trattamenti utilizzati. Il progetto pilota italiano si svolgerà in Sicilia, grazie alla sinergia tra l’Università degli Studi di Catania ed Enea. I ricercatori dovranno concentrarsi su una miscela eterogenea, comprendente fanghi provenienti da impianti per la depurazione acque reflue, sia industriali sia civili, da allevamenti ittici d’acqua dolce, residui coltivazione microalghe e digestato da scarti agricoli. A questo variegato mix si aggiungeranno sottoprodotti industriali ricavati dalla lavorazione delle arance e un elemento distintivo del territorio siciliano: la cenere vulcanica dell’Etna. La scelta di utilizzarla non solo valorizza una risorsa locale unica, ma aggiunge le particolari proprietà di questo materiale utile e fertile.

«Tutti questi residui, seppur di natura diversa, - conclude con convinzione Antonella Luciano - saranno trattati attraverso un processo sostenibile che permetterà di trasformarli in un prodotto utile per l’agricoltura, all’interno di un sistema di simbiosi industriale che ottimizza l’utilizzo delle risorse disponibili, riducendone l’impatto ambientale». Tale approccio olistico, che integra diverse tipologie di materiali in un unico processo produttivo, rappresenta un esempio virtuoso non solo per l’Italia, ma per l’intera Europa.

Trasformare qualcosa che andrebbe in discarica o nei termovalorizzatori in corroboranti preziosi non è solo una conquista tecnica, ma un modello replicabile per una gestione efficace delle biomasse su vasta scala. La problematica dello spreco alimentare in Europa, difatti, è tutt’altro che trascurabile: ogni anno vengono generate quasi 60 milioni di tonnellate solo dagli scarti alimentari, con significative ripercussioni in più settori. In risposta a questa sfida, l’Ue ha adottato strategie mirate, impegnandosi, in particolare, a dimezzare lo spreco di quanto rimane nei piatti entro il 2030 e a ridurre le perdite lungo l’intera filiera di produzione e rifornimento. La collaborazione di ventuno partner provenienti da sette Paesi dell’UE (Spagna, Francia, Italia, Grecia, Polonia, Germania, Ungheria), che uniscono le proprie competenze in un impegno quadriennale, è determinante per er cementare legami inediti tra aree produttive diverse (città, industria, campo), armonizzando cicli materiali che prima s’interrompevano.

Emulando l’audacia del “Nautilus” di Jules Verne, il sofisticato

Rov (Remotely Operated Vehicle)

Work Class di Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) ha esplorato le montagne sommerse del Mediterraneo, rivelando un regno di bellezza e biodiversità inattese. La pionieristica esplorazione, condotta grazie a un “veicolo robotico” in grado di operare fino a 2.000

metri di profondità, ha permesso agli studiosi di cartografare ecosistemi vergini, portando alla luce scenari mozzafiato e forme di vita sconosciute che popolano le intricate foreste di coralli e spugne degli abissi.

«La possibilità di osservare direttamente questi ecosistemi con telecamere ad alta definizione - spiegano i ricercatori Ispra - cambia completamente la nostra prospettiva sulla vita nelle profondità marine. L’emozione di scoprire habitat, intatti, è paragonabile a quella dei primi esploratori: pensiamo di sapere cosa attenderci,

© Greg Amptman/shutterstock.com

L’immersione nelle profondità marine ha permesso di cartografare zone inesplorate svelando presenze di specie inattese come lo squalo vacca e molti organismi bentonici

ma ogni immersione ci riserva, al contrario, sorprese inaspettate».

L’avventura scientifica, durata due mesi, si è svolta nel crocevia del Canale di Sicilia, rappresentando la prima entusiasmante campagna oceanografica del progetto Pnrr “Marine Ecosystem Restoration (MER) - Intervento A14 Seamounts”. L’obiettivo primario era ambizioso: realizzare una mappatura su vasta scala di ben 79 rilievi situati oltre il limite delle 12 miglia dalla costa italiana, a profondità che oscillano tra i 150 e i 2000 metri. A bordo di una moderna nave oceanografica, il gruppo ha solcato le onde, documentando con meticolosità undici tra banchi e montagne sommerse, la maggior parte delle quali avvolta nel mistero fino a quel momento. Tra queste spiccano Alfil-Linosa III, Avventura-Pantelleria-Talbot, Bannock, Bouri, Euridice, Madrepore, Pantelleria Centrale, Pinne e Urania, Cimotoe ed Empedocle, che hanno finalmente dischiuso i loro segreti, fornendo agli scienziati dati di fondamentale importanza per la salvaguardia e la valutazione dei pericoli geologici.

Le montagne, autentici santuari e laboratori naturali per la ricerca, emergono come elementi cruciali per la salute del nostro mare. La loro rilevanza ecologica e la fragilità di fronte agli impatti antropici le designano come un obiettivo prioritario per gli sforzi di conservazione. Visionando le immagini in Hd, trasmesse dal Rov, sono stati rivelati scenari di un incanto primordiale: vaste colonie di corallo rosso, un vero tesoro biologico, che si estendevano con sorprendente vitalità fino a profondità di 900 metri, là dove la luce solare è ormai un ricordo sbiadito. Queste formazioni, con le loro intricate ramificazioni e la vivace colorazione, rappresentano un habitat interessante per innumerevoli altre creature.

Ambiente

Un ulteriore spettacolo mozzafiato è stato offerto dalle fitte foreste di pennatulacei,

le eteree “penne di mare”, che ondeggiavano sinuosamente tra i 100 e i 140 metri di profondità. Tuttavia, la vera sorpresa è stata la straordinaria biodiversità bentonica che ha accolto l’occhio elettronico. Sono state osservate fiorenti comunità di coralli neri, eleganti coralli bianchi dalle forme aggrovigliate, una sorprendente varietà di spugne, con morfologie e colorazioni disparate, e inaspettati banchi di ostriche e balani dalle dimensioni inconsuete, testimoni di un ambiente stabile e ricco. Le scoperte ampliano notevolmente la nostra conoscenza sulla distribuzione e l’ecologia di questi abitanti negli ambienti profondi del Mediterraneo.

Uno degli incontri più emozionanti e scientificamente rilevanti della spedizione è stato l’avvistamento ravvicinato di uno squalo vacca, predatore abissale raramente osservato nel suo ambiente naturale. L’imponente creatura, attratta con ogni probabilità dalle luci e dai suoni emessi dal veicolo robotico, si è avvicinata con cautela all’obiettivo delle telecamere, offrendo immagini uniche e preziose che permetteranno di approfondire lo studio del comportamento e della distribuzione di questa affascinante abitatore delle profondità.

Tuttavia, l’esplorazione non ha rivelato solamente meraviglie. L’indagine ha, purtroppo, confermato, seppur in misura inferiore rispetto ad altre zone del Mediterraneo più prossime alla costa, l’impatto insidioso dell’attività umana anche in questi remoti santuari. Reti fantasma, silenziosi e letali strumenti di pesca abbandonati, e una varietà di rifiuti sono stati tristemente individuati fino a considerevoli profondità, un amaro promemoria della necessità impellente di una maggiore consapevolezza e di azioni concrete per la protezione delle acque a ogni livello.

Il progetto proseguirà con nuove spedizioni dal Golfo di Napoli verso il Tirreno meridionale e settentrionale, e il Mar Ligure, con l’intento di espandere la precisa cartografia dei fondali e raccogliere ulteriori dati lungo tutta la Penisola. L’inatteso tesoro biologico che pulsa nell’oscurità, ora reclama la nostra attenzione e, soprattutto, protezione scrupolosa. Il destino del Mediterraneo si decide anche in questi abissi svelati, regni meritevoli di essere difesi con la stessa meraviglia che ha guidato la loro scoperta. (G. P.).

L’esplorazione non ha rivelato solamente meraviglie. L’indagine ha, purtroppo, confermato, seppur in misura inferiore rispetto ad altre zone del Mediterraneo più prossime alla costa, l’impatto insidioso dell’attività umana anche in questi remoti santuari. Reti fantasma, silenziosi e letali strumenti di pesca abbandonati, e una varietà di rifiuti sono stati tristemente individuati fino a considerevoli profondità, un amaro promemoria della necessità impellente di una maggiore consapevolezza e di azioni concrete per la protezione delle acque a ogni livello.

RITORNO AL FUTURO

A BORDO DI UN TRAM PER RIVITALIZZARE LE CITTÀ ITALIANE

Si riscopre l’antico mezzo su rotaia per affrontare le sfide della mobilità odierna Bologna, Padova, Firenze e Roma guidano la trasformazione come alternativa all’auto

Nell’era delle impellenti transizioni ecologiche e della crescente congestione cittadina, la Penisola sta timidamente, ma con decisione, rivalutando un’antica soluzione alle sfide del trasporto contemporaneo: il tram. Da Nord a Sud, centri urbani come Bologna, Padova, Firenze e Roma si ergono a precursori di una silenziosa trasformazione, con ambiziosi piani tramviari che promettono di rimodellare il panorama del trasporto pubblico e, di conseguenza, la qualità della vita per i residenti. Un investimento complessivo di 5,4 miliardi di euro punta alla creazione di 250 km di nuove infrastrutture, un balzo del 63% rispetto alla rete attuale, segnale di una ritrovata convinzione in un mezzo di trasporto performante, ecocompatibile e sorprendentemente competitivo sul piano economico se confrontato con opere colossali come il Ponte sullo Stretto di Messina.

Tuttavia, sull’onda di questo promettente, ma ancora fragile ritorno, Legambiente suona l’allarme: il cronico ritardo infrastrutturale nel trasporto rapido di massa, se paragonato ad altre realtà europee, potrebbe vanificare gli sforzi avviati. La legge di Bilancio 2024, rompendo una tendenza positiva iniziata nel 2017, ha operato un taglio ai finanziamenti per questo comparto nevralgico, proiettando incertezza sul futuro di iniziative essenziali, malgrado la crescente richiesta da parte di enti locali e cittadini.

I dati sono eloquenti: a Firenze, nel 2024, si è osservato un notevole aumento nell’utilizzo del tram, con oltre 39 milioni di passeggeri, un’impennata dell’11,8% rispetto all’anno precedente. Anche Padova non è da meno, con la sua linea Sir1 che movimenta quotidianamente 33.000 persone, rappresentando un quarto di tutti gli spostamenti effettuati con il trasporto pubblico locale.

«Il tram incarna una soluzione ottimale per le nostre città, - afferma con convinzione Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente - coniugando efficienza del trasporto, sostenibilità ambientale e accessibilità. Con oneri d’investimento sensibilmente inferiori rispetto ad altre opzioni, assicura un elevato standard di servizio e una notevole capacità di adattamento al contesto urbano. Mentre i capoluoghi portano avanti i progetti finanziati dal Pnrr, rispondono al bando del MIT con nuove iniziative per il trasporto rapido di massa e cercano di trasformare lo spazio urbano istituendo Low Emission Zones e modelli di Città30, a livello centrale la legge di Bilancio

«Economicità, tempi di realizzazione contenuti ed efficacia, rendono i tram uno dei migliori strumenti per potenziare il trasporto pubblico e contribuire ad abbattere le emissioni generate dalla mobilità individuale. Osservando le esperienze di città come Firenze e Padova, dopo un’iniziale opposizione, i cittadini non solo accettano, ma apprezzano il tram, riconoscendone i benefici in termini di spostamenti, qualità dell’aria e riqualificazione degli spazi urbani» conclude Scacchi. Una città più pulita e vivibile qui e ora può correre, anche, sui binari di un convoglio tranviario.

© rarrarorro/shutterstock.com

2024 per la prima volta dal 2017 ha operato tagli ai fondi per il TPL, per la ciclabilità e per la copertura del caro materiali. O si imprime un’accelerazione con investimenti strutturali e continui, oppure l’Italia rischia di perdere l’occasione di colmare un divario infrastrutturale che penalizza residenti, ambiente ed economia».

Originario del XIX secolo e a lungo messo in ombra dall’avanzata dell’automobile, il tram sta ora sperimentando una rinascita a livello europeo, grazie ai suoi innegabili benefici: alleggerimento del traffico, diminuzione dell’inquinamento, riqualificazione del tessuto urbano e miglioramento del tenore di vita. Nella Penisola, la spinta propulsiva è giunta con i 2,3 miliardi di euro allocati dal Pnrr per 18 progetti di nuove infrastrutture tranviarie, su un totale di 39 interventi di potenziamento. Tuttavia, come sottolinea la campagna “Città2030” di Legambiente, il cammino verso la decarbonizzazione dei trasporti in Italia si presenta ancora arduo, con il settore che continua a segnare un inquietante incremento delle emissioni. Il raffronto con le principali potenze europee ci vede soccombere: l’Italia vanta solamente 397,4 km di binari tranviari, un quantitativo modesto se comparato agli 878,2 km della Francia e agli 2.044,5 km della Germania, come evidenziato dal Rapporto “Pendolaria 2025” di Legambiente. Le città italiane che hanno imboccato con determinazione la via del tranvai sono numerose e ambiziose: Bologna prevede 23,4 km di nuove infrastrutture, Palermo addirittura 64,2 km, seguite da Padova (30,3 km), Firenze (25 km), Bergamo (23,2 km), Milano (35,9 km), Brescia (23,2), Napoli (4,1 km), Cagliari (6,9 km) e Sassari (2,5 km). Un discorso a parte merita Roma, con i suoi 34,2 km di nuove linee in programma, tra cui la strategica Termini-Vaticano-Aurelio, destinata a trasformare la mobilità nel cuore storico della capitale, la linea di viale Palmiro Togliatti, quella dalla Stazione Tiburtina a Piazzale del Verano e il collegamento Termini-Tor Vergata. Proprio la Capitale, con le sue annose difficoltà nel rinnovamento della mobilità, costituisce un banco di prova cruciale per l’intero Paese. «Le tramvie riqualificano le città e le amministrazioni progettano nuove reti con cui accrescere la qualità della vita dei residenti - commenta Roberto Scacchi, responsabile mobilità di Legambiente - sarebbe miope bloccare i fondi per il trasporto rapido di massa come si è visto nell’ultima Legge di Bilancio.» (G. P.).

© www.sci.news/paleontology/vulcanidris-cratensis-13856.html

LA FORMICA FOSSILE

DI

113 MILIONI DI ANNI FA

Scoperta in Brasile, questa formica preistorica sfida le teorie

sull’evoluzione degli insetti con le sue mandibole

Le formiche sono tra gli insetti più affascinanti e socialmente evoluti del pianeta. Con oltre 13.800 specie conosciute, questi piccoli esseri hanno colonizzato quasi ogni angolo del mondo, sviluppando strategie di sopravvivenza incredibili, ergendosi a modello serio, democratico ed egualitario di società naturale.

Ma cosa sappiamo delle loro origini? Una recente scoperta in Brasile ha portato alla luce il fossile di una formica vissuta ben 113 milioni di anni fa, appartenente alla sottofamiglia estinta delle Haidomyrmecinae,

comunemente note come “formiche infernali”. All’interno del Bacino di Araripe, nell’area nordorientale del paese, più precisamente nella formazione geologica di Crato, un team di ricercatori ha identificato un fossile eccezionalmente ben conservato di una formica preistorica. Questo esemplare, denominato Vulcanidris cratensis, è il più antico mai scoperto, e presenta caratteristiche uniche rispetto alle formiche moderne. Le loro mandibole, simili a falci, si muovevano verticalmente, anziché lateralmente, e permettevano loro di catturare e trafiggere le prede

con una precisione letale. La scoperta è stata possibile grazie alla microtomografia computerizzata, una tecnica avanzata che ha permesso di analizzare l’anatomia interna del fossile senza danneggiarlo. Gli scienziati hanno osservato che questa formica possedeva degli adattamenti molto particolari e specializzati, che suggeriscono come le sue strategie predatorie si siano evolute molto rapidamente nel corso della loro storia.

Fino ad oggi, i fossili di formiche più antichi erano stati trovati in Francia e Birmania, conservati nell’ambra. Il nuovo esemplare brasiliano, invece, è incastonato nella roccia calcarea, e dimostra quindi che Vulcanidris cratensis era già ampiamente distribuito nei continenti del Cretaceo. La scoperta solleva nuove domande sulla biogeografia delle formiche e sulle pressioni evolutive che hanno portato alla loro incredibile diversificazione. Essa è testimonianza del fatto che questa specie era già presente in Sud America milioni di anni fa, e mette in discussione le teorie precedenti circa la loro distribuzione globale.

La presenza di mandibole così specializzate suggerisce, infine, come la caccia fosse un elemento chiave nella sopravvivenza di questa specie, distinguendola nettamente dalle loro controparti moderne. Oggi, le formiche hanno sviluppato strategie di altrettanto sofisticate, ma molto diverse. Ad esempio, le “legionarie” (Eciton burchellii) adottano delle strategie di predazione collettiva, mentre altre, come le tagliafoglie (Atta e Acromyrmex), vi hanno invece rinunciato, nutrendosi di funghi che loro stesse coltivano nei formicai.

Il ritrovamento di Vulcanidris cratensis è dunque un tassello fondamentale per la comprensione della storia evolutiva di questi insetti straordinari. L’incredibile adattabilità e l’ingegno evolutivo delle formiche continua a sorprendere i mirmecologi, sempre più entusiasti di ricostruire la loro storia.

di Michelangelo Ottaviano

Il lupo è da sempre un simbolo di intelligenza e adattabilità, un predatore che ha saputo resistere alle trasformazioni ambientali e alle pressioni degli insediamenti dell’uomo. Tuttavia, negli ultimi decenni, una nuova minaccia sta mettendo a rischio la sua esistenza: l’ibridazione con il cane domestico. Questo fenomeno, sempre più diffuso in Italia, potrebbe alterare in modo irreversibile il patrimonio genetico del lupo, compromettendo le sue capacità di sopravvivenza e il ruolo che ricopre negli ecosistemi.

L’ibridazione tra lupi e cani avviene quando gli individui delle due specie si accoppiano, generando cuccioli con un patrimonio genetico misto. Poiché il cane e il lupo appartengono alla stessa specie, Canis lupus, la loro prole è fertile e può continuare a riprodursi diffondendo nel tempo caratteristiche genetiche non originarie del lupo selvatico. Secondo gli esperti, l’Italia è il Paese europeo con il più alto tasso di ibridazione tra cani e lupi. Gli studi condotti nel Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano hanno rivelato che il 70% dei lupi analizzati presentava tracce di ibridazione con il cane.

Tale fenomeno è favorito dalla crescente presenza di cani vaganti e dalla condivisione di territori tra le due specie. L’aspetto tra i più preoccupanti, come già detto, è la possibile perdita di caratteristiche fondamentali alla sopravvivenza del lupo in natura. I geni dei cani sono stati selezionati per la vita domestica, e la loro introduzione nel patrimonio genetico del lupo potrebbe modificarne le strategie di caccia, la resistenza fisica e persino la capacità di interagire con l’ambiente naturale.

Dal punto di vista biologico, il cane domestico è il risultato di una forte selezione attuata dall’uomo e di millenni di isolamento riproduttivo dal lupo. Nel tempo, il cane ha sviluppato forme e comportamenti più

LUPI E CANI, UN CONFINE SEMPRE PIÙ SOTTILE

L’ibridazione tra lupi e cani rischia di alterare il patrimonio genetico del lupo e comprometterne la sopravvivenza

appropriati alle necessità dell’uomo, profondamente diversi rispetto al suo progenitore selvatico. Tuttavia, nonostante l’ibridazione con il lupo sia occasionalmente avvenuta fin dall’origine stessa della domesticazione del cane, oggi il fenomeno è in forte aumento a causa dell’espansione del lupo nelle aree antropiche e, doveroso dirlo, dell’uomo in quelle “naturali”.

Un altro aspetto interessante riguarda il comportamento degli ibridi: mentre il lupo selvatico ha una struttura sociale ben definita, gli ibridi possono mostrare comportamenti

più imprevedibili. Diversi studi hanno evidenziato che gli ibridi tendono a essere meno timorosi dell’uomo, il che potrebbe aumentare il rischio di conflitti.

Infine, in alcuni casi, è stato documentato come gli ibridi possono persino assumere ruoli dominanti nei branchi, alterandone la struttura sociale e il comportamento. Tali evidenze suggeriscono che sarà doveroso intervenire affinché vengano preservati il ruolo ecologico, l’integrità genetica e, ultima non per importanza, la dignità, di essere vivente, di essere, semplicemente, lupo. (M. O.).

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Ripensare il cibo come leva per la sostenibilità ambientale la tutela del territorio e la prevenzione delle malattie

PREVENZIONE PRIMARIA COME E PERCHÉ

Paolo Paganelli*

di

Nella complessa realtà in cui oggi ci muoviamo in tema di alimentazione e nutrizione, riteniamo sia importante in un’ottica di prevenzione primaria, ripensare al cibo come qualcosa di diverso da un semplice rapporto in termini di chilocalorie infatti, l’educazione ad un consumo consapevole non può prescindere dal rapporto con il cittadino e quindi con il territorio. Anni di sfruttamento selvaggio della terra, cementificazione, agricoltura intensiva, hanno messo fortemente a rischio l’ambiente, così come l’eccessiva attenzione alle nuove tecnologie, ha relegato in secondo piano le problematiche ambientali.

Parallelamente però, in questi ultimi anni si è sviluppata una buona sensibilità verso le questioni ambientali e un desiderio di ritorno alla terra, riscontrabile soprattutto nelle giovani generazioni, che interpretano nel senso più ampio, il patrimonio ecologico, ambientale e gastronomico del nostro Paese. Da qui la necessità di tutelare e preservare le immense ricchezze ambientali e culturali che abbiamo a disposizione come fonte inesauribile di lavoro e di reddito legate al cibo, ad una agricoltura e un allevamento ecosostenibile e alla produzione di energie alternative e pulite. In sostanza “agire locale e pensare globale”, trovando all’interno del proprio territorio quelle fonti di reddito che restituiscano dignità ad un’intera generazione di uomini che hanno perso negli ultimi decenni la loro identità culturale.

D’altro canto, è proprio attraverso il cibo, espressione anche di potere, che si sono succeduti momenti di grande storia, arte e politica: in particolare in Italia con il Rinascimento, assistiamo alla nascita del patrimonio enogastronomico che, oggi, viene riconosciuto in tutto il mondo come sinonimo di qualità, bellezza ed eccellenza. Tutto questo è indiscutibilmente il frutto di una moderna agricoltura ma, soprattutto, dell’impegno dei nostri contadini, delle nostre aziende agricole e di tutti coloro che, direttamente o indirettamente, hanno saputo gestire l’intera filiera italiana confermandone, giorno per giorno, la sua fama artistica fatta di radici antiche.

* Biologo nutrizionista ed ecologo

Diventa fondamentale il rapporto con il territorio, generato e sostenuto da un forte livello di consapevolezza: il cibo diventa qualcosa da consumare, ma allo stesso tempo immagine di una cultura che lega l’Uomo al proprio Ambiente quindi, motivo di Sostenibilità.

La necessità quindi, di coinvolgere in un percorso articolato i produttori e i consumatori è il nostro obbiettivo primario, affinché si possa evitare lo scandalo detto “italian sounding” che seriamente minaccia il nostro patrimonio culturale eno - gastronomico.

Ecco perché diventa fondamentale il rapporto con il territorio, generato e sostenuto da un forte livello di consapevolezza: il cibo diventa qualcosa da consumare, ma allo stesso tempo immagine di una cultura che lega l’uomo al proprio ambiente quindi, motivo di sostenibilità. Questo nuovo concetto di sostenibilità ambientale legata al cibo, ci pone di fronte ad una serie di interrogativi e di riflessioni sullo stretto rapporto che esiste tra i prodotti alimentari che quotidianamente consumiamo e la fitta rete di territori ai quali questi prodotti fanno riferimento.

Abbiamo detto che il cibo è espressione e manifestazione di sapori antichi e moderni che si tramandano di generazione in generazione e quindi patrimonio da tutelare e difendere perché espressione della biodiversità. Siamo consapevoli di quanto il concetto di biodiversità in agricoltura sia una ricchezza da salvaguardare e tutelare non solo attraverso il sapore ritrovato, ma soprattutto attraverso una attenta analisi ambientale che trova le sue radici in un approfondito studio di tutela del patrimonio ecologico, evitando quello che il mondo anglosassone chiama overshoot, ossia il sovrasfruttamento degli ecosistemi, con tutto ciò che ne deriva dal punto di vista della sostenibilità ambientale.

Ma come rientra tutto ciò nella prevenzione primaria e perché?

Nell’ambito di un percorso di prevenzione di qualsiasi malattia, espressione epifenomenica di un disagio, in un progetto educativo dobbiamo includere il concetto di “alimentazione etica” o di “dieta etica “ che prevede lo studio della biocapacità di un suolo agricolo, forestale o marittimo, rapportata alla popolazione che impatta su quell’area, cosi alla biocapacità di un’area, si deve aggiungere l’utilizzo di risorse e l’inevitabile produzione di inquinanti.

Un esempio: sul nostro pianeta siamo sette miliardi, la biocapacità è di 1,8 ettari per persona, l’impatto ecologico è di 2,2 ettari

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per persona, l’impronta ecologica è mediamente di 0,4 ettari per persona. Stiamo usando circa il 25% in più di quanto la terra sia in grado di offrirci, cioè stiamo sovrasfruttando il sistema.

Siamo in grado di calcolare l’impronta ecologica per ogni Paese o area del mondo; in Italia con sessanta milioni di abitanti e con una biocapacità di solo un ettaro per persona, con un impatto ecologico di 4,2 ettari pro capite abbiamo un’impronta ecologica superiore ai 3 ettari. Quindi uno studio sul territorio, delle sue risorse agroalimentari, della biodiversità, dell’impatto ecologico e dell’impronta ecologica diventa centrale nel pensiero biologico moderno al punto che possiamo introdurre un nuovo paradigma nell’ambito del concetto di prevenzione primaria che chiameremo “ecologia della nutrizione” e che va nella direzione dello sviluppo di una nuova società, una nuova umanità, una nuova economia, che chiameremo “sinergica”. Le soluzioni teorico pratiche da adottare sono molteplici si tratta solo di fare sistema.

Come si inserisce l’alimentazione?

L’alimentazione viene vista in chiave evolutiva, culturale ed etica con inevitabili richiami alla filosofia, alla storia e, ovviamente, alla biologia, attraverso un’attenta riflessione sui meccanismi epigenetici, con particolare attenzione all’alimentazione. L’obiettivo è quello di formare ed informare i nostri pazienti/ cittadini attraverso percorsi culturali affinché

possano riconoscere i principali elementi fondanti di un sano legame tra uomo ambiente e territorio in relazione al bisogno primario della nutrizione, in chiave di prevenzione primaria, tenuto conto degli aspetti di epigenetica e della PNEI (Psico Neuro Endocrino Immunologia).

Qualche esempio:

L’intestino più di ogni altro rappresenta un vero microcosmo PNEI, assume il ruolo di controller omeostatico (ultimamente mi piace chiamarlo controller omeodinamico) dell’organismo.

• Il cibo (es: nutraceutica) ricopre un ruolo fondamentale, perché può condizionare la funzione dell’asse PNEI

• La rottura di equilibrio tra l’asse PNEI intestinale ed il microbiota è la base del passaggio tra infiammazione fisiologica e patologica.

• La flora batterica intestinale è integrata nell’asse intestino-cervello in maniera bidirezionale, il microbiota è influenzato da stress psichici, ma a sua volta influenza il sistema nervoso centrale ed il comportamento.

• L’alterazione dell’asse intestino-cervello è la base dell’innesco di spiccata componente psicosomatica, ad esempio la sindrome del colon irritabile.

• Bisogna ristabilire una corretta omeostasi (omeodinamica) intestinale attraverso un intervento diretto sul microbiota intestinale per prevenire l’infiammazione a carico dell’intestino e non solo: patologie autoimmuni, ORL, patologie endocrine, respiratorie.

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TEHERAN SPROFONDA

UNA CRISI INVISIBILE

L’abbassamento del suolo causato dall’eccessivo prelievo di acqua sotterranea minaccia la stabilità della capitale iraniana

Teheran, una delle città più grandi e dinamiche del Medio Oriente, sta lentamente sprofondando. Il fenomeno della subsidenza, ovvero dell’abbassamento progressivo del suolo, sta colpendo vaste aree della capitale iraniana, con conseguenze sempre più evidenti.

Negli ultimi anni, più di un decimo del territorio iraniano ha subito un abbassamento significativo del suolo, e con cadenza annuale la popolazione è costretta a dover riparare i danni di questo sprofondare: crepe nei palazzi, strade e binari ferroviari

deformati sono, si perdoni il gioco di parole, solo delle piccole incrinature manifeste di un problema che sta diventando sempre più grande, e che minaccia la stabilità generale della città. La subsidenza è un fenomeno geologico che si verifica quando il terreno perde il suo sostegno naturale, spesso a causa dell’eccessivo sfruttamento delle falde acquifere; e proprio nella gestione delle risorse idriche stanno le ragioni principali di questo processo.

L’Iran è spesso colpito da lunghi periodi di siccità, e sta vivendo un aumento consistente e progressivo dei

prelievi di acqua dal sottosuolo, senza però un adeguato ripristino delle riserve naturali. Inoltre, l’espansione urbana e agricola non regolamentata ha contribuito al consumo eccessivo di acqua, accelerando il processo di subsidenza. Negli ultimi anni, la capitale iraniana ha registrato un abbassamento del suolo fino a 25-30 centimetri l’anno, un dato estremamente preoccupante rispetto alla media globale di 5 millimetri.

La siccità prolungata, problema patologico del paese mediorientale, aggravata dai cambiamenti climatici, ha ridotto il naturale reintegro delle falde acquifere causando il progressivo cedimento del terreno. Persino i siti archeologici più importanti, come Persepoli, una delle antiche capitali dell’Impero persiano, stanno pagando lo scotto di questo problema. La subsidenza causa la formazione di crepe e fratture in rovine già fragili per loro natura, rendendone più difficile e costosa la conservazione. Molti siti iraniani sono patrimonio dell’UNESCO, ma rischiano di non esserlo più qualora non venissero rispettati gli standard di conservazione, protraendo il danno anche per quanto riguarda il turismo.

La perdita di questi tesori, com’è ovvio, non è una questione che riguarda il solo lato economico, ma un dramma che interessa la storia e l’identità dell’intero Paese. Gli esperti avvertono che, senza interventi concreti, la situazione potrebbe peggiorare ulteriormente. Alcuni studi suggeriscono che i bacini idrici sotterranei siano ormai irreversibilmente compromessi, e quindi non più in grado di immagazzinare acqua. Per risolvere il problema, sarebbe necessario un piano di gestione delle risorse idriche più sostenibile, che includa una regolamentazione del prelievo di acqua, nonché la protezione delle aree più vulnerabili.

Le misure adottate finora sono state insufficienti, e la subsidenza continua a minacciare la stabilità e il futuro della capitale iraniana. (M. O.).

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Principali metodiche di monitoraggio e analisi, valutazione dell’impatto

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06 giugno 2025

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DELLA BIODIVERSITÀ AGRICOLA

Un evento di riferimento per il futuro dell’agricoltura e della sostenibilità

di Giovanni Misasi

Si è svolto il 7 aprile 2025, presso il suggestivo RiMuseum – Museo per l’Ambiente dell’Unical a Rende (CS), il Simposio Nazionale sulla Conservazione dei Semi Antichi e della Biodiversità Agricola, organizzato dall’Associazione Scientifica Biologi Senza Frontiere e PerBenessere. L’evento ha registrato una grande partecipazione e suscitato profondo interesse attorno a un tema di vitale importanza per il futuro dell’agricoltura, dell’ambiente e della sicurezza alimentare.

La giornata ha visto il coinvolgimento di istituzioni, mondo accademico, ricercatori, agronomi, studenti e cittadini, dimostrando quanto la biodiversità agricola sia oggi una priorità nel dibattito scientifico, sociale e politico. Custodire i semi antichi non significa soltanto conservare il passato, ma rappresenta un atto concreto per affrontare le sfide del cambiamento climatico, della sovranità alimentare e della sostenibilità agricola. La biodiversità agricola è oggi uno dei temi più rilevanti a livello globale. Ogni seme antico rappresenta un patrimonio genetico, culturale e territoriale, tramandato da generazioni e adattato ai diversi ecosistemi locali. Difendere questa ricchezza significa investire in un’agricoltura autonoma, sostenibile e in armonia con i territori. Il Simposio ha voluto rilanciare con forza questo messaggio: la diversità è la chiave per un futuro più equo, sano e sostenibile. Da qui l’intento, già annunciato dagli organizzatori, di trasformare l’evento in un appuntamento annuale a carattere nazionale, punto di riferimento per tutte le regioni italiane.

La giornata si è aperta con i saluti istituzionali di figure di spicco:

• Luciana De Rose, in rappresentanza del SIMU - Sistema Museale Unical;

sul germoplasma olivicolo nazionale;

• Domenico Amantea, Unical, sulla germinazione e biodiversità spontanea calabrese nell’era del cambiamento climatico;

• Francesca Palumbo e Antonella Neri, Regione Calabria, sull’attuazione delle norme per la salvaguardia della biodiversità agricola;

• Marcello Bruno e Fabio Petrillo, ARSAC, sul ruolo dell’ente nel recupero e nella conservazione della biodiversità agraria.

La giornata è stata arricchita da workshop tematici, da un’interessante esposizione di semi antichi a cura dell’ARSAC e da un’apprezzata degustazione di prodotti tipici calabresi, a testimonianza del profondo legame tra biodiversità e cultura alimentare. Le attività dimostrative, i workshop e lo spazio dedicato alle degustazioni sono stati coordinati con grande cura da Maria Josè Pucci, presidente dell’Associazione

La biodiversità agricola è oggi uno dei temi più rilevanti a livello globale. Ogni seme antico rappresenta un patrimonio genetico, culturale e territoriale, tramandato da generazioni e adattato ai diversi ecosistemi locali.

• Nicodemo Passalacqua, referente Orto Botanico e docente Unical;

• Francesco Rosa, membro Giunta Nazionale Agrocepi;

• Giovanni Misasi, Presidente Associazione Biologi Senza Frontiere.

A moderare l’incontro Teresa Pandolfi, membro del Comitato Tecnico Scientifico ASBSF.

Il programma ha visto una ricca sessione convegnistica con interventi altamente qualificati:

• Rocco Mafrica, Università Mediterranea di Reggio Calabria, sul recupero e valorizzazione della biodiversità frutticola in Calabria;

• Luigi Gallo, ARSAC, sulla biodiversità dei legumi calabresi come risorsa di sviluppo;

• Innocenzo Muzzalupo, dirigente di ricerca CREA,

PerBenessere, insieme a Maria Grazia Felice e Amelia Bruno dell’Associazione Biologi Senza Frontiere, garantendo un’organizzazione attenta ai dettagli e orientata alla valorizzazione delle eccellenze territoriali e delle buone pratiche legate alla biodiversità agricola. Tra le specialità:

• Bocconotto di Mormanno

• Olio extravergine Nociti di Spezzano

• Miele di Calabria di Malito

• Chjina di San Fili

Un ringraziamento sentito va a tutti i relatori, che hanno saputo coniugare rigore scientifico e passione, contribuendo a una riflessione ampia e concreta. Un grazie particolare al pubblico, numeroso e partecipe, che ha animato il confronto con interesse e partecipazione.

Si ringraziano gli enti patrocinanti: Regione Calabria, FNOB - Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi, Università della Calabria, ARSAC, Agrocepi e SIMU, per il prezioso sostegno e l’attenzione dimostrata al tema. Un ringraziamento speciale a Vittoria Carnevale, direttrice SIMU, per l’ospitalità e la disponibilità che hanno reso possibile la realizzazione dell’evento in un contesto scientificamente e culturalmente prestigioso.

Il Simposio del 7 aprile ha rappresentato non solo un momento di confronto, ma l’inizio di un percorso, ha difatti posto le basi per un progetto ambizioso: creare una rete nazionale per la conservazione e la valorizzazione della biodiversità agricola, in cui ogni regione possa portare il proprio contributo.

L’appuntamento è già fissato per la prossima edizione.

UN NUOVO BIOSENSORE

PER RILEVARE I VIRUS

La ricerca, pubblicata sulla rivista Nanoscale, ha sviluppato un biosensore innovativo che rileva le proteine dei virus

Un biosensore di nuova generazione in grado di rilevare con precisione le proteine dei virus, tra cui la proteina Spike di SARS-CoV-2 nei fluidi biologici. Questo è il risultato realizzato da un team di ricerca congiunto, coordinato dall’Istituto nanoscienze del Consiglio nazionale delle ricerche e dall’Università di Pisa (Dipartimento di Farmacia), in collaborazione con l’Università di Modena e Reggio Emilia e la Scuola Normale Superiore. Il prodotto della ricerca, descritto in un articolo pubblicato sulla rivista Nanoscale, rappresenta un nuovo

approccio alla progettazione di biosensori che ricorda il principio dei mattoncini Lego. Infatti, utilizza una struttura modulare e flessibile, pensata per essere facilmente adattabile a diversi target molecolari.

Una proteina ingegnerizzata che unisce tre funzioni in una, costituisce il cuore del sensore. Una parte della proteina rappresenta il bersaglio da riconoscere, ed è stata costruita basandosi su frammenti della proteina Spike; una parte centrale, ispirata al recettore umano ACE2, è progettata per legarsi alla proteina Spike del virus, se presente. La terza parte, con-

tenente la proteina fluorescente verde (GFP), agisce come una lampadina e produce un segnale fluorescente quando il virus è presente. Al contatto con la proteina virale, il biosensore emette quindi un segnale fluorescente facilmente rilevabile, consentendo un’identificazione rapida e precisa.

Eleonora Da Pozzo dell’Università di Pisa ha spiegato: «Il biosensore è stato realizzato applicando sia le metodologie classiche di produzione di proteine ricombinanti, ma anche l’applicazione di tecnologie di nuova concezione, come la click-chemistry; grazie a queste conoscenze, derivate da ambiti diversi, abbiamo potuto realizzare un biosensore capace di rilevare quantità minime di proteina virale con una sensibilità fino a livelli sub-nanomolari».

Giorgia Brancolini dell’Istituto nanoscienze del Consiglio nazionale delle ricerche ha dichiarato: «Il vero punto di forza di questo prototipo è la modularità; grazie all’integrazione tra ricerca sperimentale, modellizzazione molecolare e simulazioni al computer, è stato possibile selezionare con precisione i componenti e progettare un’architettura modulare, flessibile e facilmente adattabile. Cambiando alcune sequenze, lo stesso sensore potrà essere riprogrammato per riconoscere altri virus o molecole di interesse, aprendo la strada a nuovi strumenti diagnostici rapidi, precisi e personalizzabili».

A tutela dell’innovatività e delle potenziali applicazioni di questo strumento, è in corso una Domanda di Brevetto per invenzione industriale Nazionale: Sviluppo di un sensore FRET per la rilevazione del coronavirus. La ricerca è stata finanziata grazie a Spark Global con il progetto Proof-of-Concept SPARK PISA 20202022, “Fret sensor for the Assessment of Coronavirus Titre e dal progetto PRIN2020 “Early Phase Preclinical Developmentof PACECOR, a Mutation-Independent Anti SARS-CoV-2 Therapeutic Strategy”.

© MP Art/shutterstock.com
di Pasquale Santilio

Un team di ricercatori

dell’Istituto per le applicazioni del calcolo “M. Picone” del Cnr di Roma, del Dipartimento di Fisica dell’Università degli Studi di Bari, dell’Università di Edimburgo e della Koc University di Istanbul ha analizzato le proprietà di un nuovo esempio di emulsioni doppie, costituite da gocce di fluido che contengono una miscela di micro-emulsioni e gel liquido-cristallino attivo.

Sono materiali che rientrano nell’ambito della cosiddetta materia attiva e che, oltre ad avere rilevanza nel settore della modellistica matematica, possono trovare impiego in campi quali bioingegneria e biomedica: sono stati utilizzati, ad esempio, nei processi di design di aggregati artificiali di gocce simili a tessuti biologici o come micro-capsule per la somministrazione controllata di farmaci.

Giuseppe Gonnella (Dipartimento di Fisica, Uniba), ha spiegato: «La materia attiva è una branca della fisica che studia sistemi costituiti da un elevato numero di elementi che consumano energia e generano moti collettivi: a livello macro ne sono esempi gli stormi di uccelli o i banchi di pesci, mentre alla scala microscopica, come è la nostra ricerca, esempi di sistemi attivi sono campioni di batteri e proteine biologiche, come filamenti di microtubuli e chinesine. Questi ultimi, se presenti in concentrazioni sufficientemente elevate, possono esibire una struttura simile a quella di un cristallo liquido, denominata cristallo liquido attivo».

Adriano Tiribocchi (Cnr-Iac), ha aggiunto: «Se incapsulati in una goccia di fluido, questi cristalli liquidi attivi possono dare origine ad effetti sorprendenti in grado, per esempio, di generare un moto spontaneo simile a quello di alcune cellule. In questo tipo di sistemi, una delle difficoltà principali consiste proprio nel controllare e predire la direzione del moto, e nel

LE PROPRIETÀ DELLA MATERIA SOFFICE ATTIVA

Analizzate le proprietà dei cristalli liquidi attivi

I risultati sono stati pubblicati su Nature Communications

capire come le caratteristiche dell’ambiente circostante in cui queste gocce si muovono influenzino la forma delle gocce stesse. Per far ciò, è necessario avvalersi di simulazioni al computer e del calcolo ad alte prestazioni.

Nella nostra ricerca è stato mostrato che, in presenza di una singola goccia, si osserva un moto spontaneo la cui direzione è associata alla posizione della goccia interna suggerendo quindi una strategia per controllare il moto, mentre aumentando il numero di gocce interne si osserva un moto rotatorio coordinato e regolare. In questo secondo scenario, un ruolo

cruciale è svolto dai difetti topologici, affascinanti oggetti matematici osservabili anche nella vita quotidiana, nelle impronte digitali sotto forma di imperfezioni puntiformi, frutto dell’intersezione tra le linee dei polpastrelli. Sebbene studiati anche in ambiti molto diversi, come nei superfluidi o in cosmologia, questi difetti sono stati osservati per la prima volta, e in un vasto assortimento, in una emulsione doppia, dove si presentano in una forma più complicata rispetto al caso dei polpastrelli poiché si sviluppano lungo linee che attraversano l’emulsione». (P. S.). © vchal/shutterstock.com

Addio spreco alimentare e benvenuta “giovinezza prolungata”. Abbiamo un rivestimento ecocompatibile capace di estendere significativamente la vita commerciale delle fragole “Favette”. L’innovazione, frutto della cooperazione tra Enea, l’Università degli Studi della Tuscia e l’azienda ILIP, impiega essenze vegetali aromatiche e altri elementi biologici per preservare la freschezza dei delicati frutti rossi. L’obiettivo della ricerca era duplice: potenziare la salubrità e l’eccellenza dei cibi e, al contempo, attenuare le ripercussioni sull’ecosistema associate alla movimentazione dei prodotti lungo la filiera, valorizzando il ricco patrimonio agricolo nazionale. Le conclusioni di queste indagini sono state rese pubbliche su periodici scientifici a livello globale, tra cui “Frontiers in Microbiology”, “Journal of Microbiological Methods” e “MDPI”

(https://doi.org/10.1016/j.mimet.2024.106956). La varietà “Favette”, autoctona del territorio laziale e compresa nell’elenco nazionale delle produzioni agroalimentari storiche, rappresenta un’autentica gemma del nostro settore primario. Si distingue per le considerevoli quantità di molecole attive, composti fenolici ed elementi nutritivi essenziali. Malgrado tali pregiate caratteristiche, la notevole fragilità ne vincola la commercializzazione e lo stoccaggio post-raccolta. La deperibilità, difatti, le rende particolarmente delicate, contribuendo a perdite economiche per i coltivatori e rifiuti. La sfida risiedeva proprio nel dilatare il breve intervallo di mantenimento ottimale, senza ricorrere a soluzioni artificiali o dannose. Per contrastare la vulnerabilità agli agenti microbici patogeni, il gruppo di scienziati ha intrapreso un percorso analitico avanzato, selezio-

nando indicatori specifici di pregio e innocuità. Ciò ha consentito di stimare l’efficacia con differenti approcci basati sull’associazione di varie sostanze bioattive e dalle proprietà antimicrobiche, quali chitosano, nisina e gallio. Un aspetto cruciale della sperimentazione è stata la sinergia con l’ente di ricerca IBA di Bucarest. La partnership internazionale ha permesso di definire in modo approfondito la composizione molecolare dei nuovi involucri, un passaggio indispensabile per certificarne l’innocuità, l’impiego a contatto con frutta e verdura e garantirne la piena aderenza alle direttive legislative dell’Unione Europea in materia di sicurezza alimentare. I risultati ottenuti sono stati rilevanti. Non solo la durabilità dei frutti “Favette” ha visto un aumento significativo, arrivando sino a dodici giorni in condizioni di conservazione controllata, ma le indagini sui microrganismi hanno anche provato la validità dell’azione letale sugli agenti batterici e fungini esercitata dalle essenze naturali impiegate, soprattutto quando associate a microrganismi benefici e loro derivati (probiotici e postbiotici). I test microbiologici hanno rivelato una carica batterica e fungina notevolmente superiore nei lotti di frutti non protetti dal rivestimento innovativo, a conferma dell’attività difensiva offerta dalla nuova soluzione. «Il progetto - ha commentato Annamaria Bevivino, responsabile dell’attività per l’Enea e dirigente di ricerca nella Divisione Sistemi agroalimentari sostenibili - rappresenta un passo concreto e importante verso la realizzazione di confezionamenti che siano al contempo sostenibili e sicuri, apportando un contributo tangibile all’esaltazione delle colture tipiche del nostro Paese.

I risultati ottenuti sono stati rilevanti: non solo la durabilità dei frutti “Favette” ha visto un aumento significativo, arrivando sino a dodici giorni in condizioni di conservazione controllata, ma le indagini sui microrganismi hanno anche provato la validità dell’azione letale sugli agenti batterici e fungini esercitata dalle essenze naturali impiegate, soprattutto quando associate a microrganismi benefici e loro derivati (probiotici e postbiotici).

© artifex.orlova/shutterstock.com

In aggiunta, l’adozione d’involucri progettati per essere biodegradabili e compostabili porta a una diminuzione delle conseguenze negative sull’ecosistema, perfeziona il mantenimento dei prodotti e ne eleva il pregio complessivo, offrendo agli acquirenti l’opportunità di fruire di fragole fresche e ricche di sostanze nutritive per un lasso di tempo esteso, riducendo significativamente lo spreco a livello domestico e lungo tutta la catena di fornitura». L’approccio integrato non solo beneficia il prodotto, ma si allinea perfettamente con le esigenze di un mercato sempre più attento alla sostenibilità e alla provenienza dei cibi.

Questa iniziativa scientifica è stata portata avanti nel contesto di un percorso di studi post-universitari congiunto con l’Università degli Studi della Tuscia e grazie a un finanziamento specifico per attività scientifica erogato dall’Enea. Il sostegno economico e progettuale è giunto anche dal partenariato «OnFoods», un’importante iniziativa finanziata nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che mira a rafforzare la ricerca e l’innovazione nel settore agroalimentare per affrontare sfide cruciali come affidabilità, sostenibilità e competitività. Il successo della collaborazione multidisciplinare, che vede in sinergia enti di ricerca, accademia e industria, proietta l’Italia in una posizione di leader nello sviluppo di tecnologie per una filiera realmente resiliente. La strada è aperta per altri “custodi” di beni altamente deperibili. Questo segna un punto di svolta decisivo nella lotta allo spreco globale ed eleva ulteriormente il Made in Italy a pioniere di soluzioni ecocompatibili per il cibo del domani. (G. P.).

Utilizzando metodologie analitiche e sostanze biologiche è stato progettato un sistema capace di mantenere la freschezza delle fragole “Favette” sino a dodici giorni

MENO SCARTI, PIÙ GUSTO L’INVENZIONE TRICOLORE PER

L’OSSIDO DI GRAFENE PER FILTRARE L’ACQUA

È stata presentata sulla rivista Nature Water, una nuova

tecnologia per la rimozione di contaminanti dall’acqua

Un lungo e laborioso lavoro di collaborazione sviluppatosi tra il Consiglio nazionale delle ricerche e l’azienda MEDICA S.p.A. finalizzata a integrare l’ossido di grafene (GO) in filtri per acqua a base di fibre capillari cave, per la cattura dei contaminanti, ha prodotto una innovativa tecnologia descritta in un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Nature Water. Questo nuovo processo di filtrazione dell’acqua è basato sull’ossido di grafene, un nanomateriale in grado di rimuovere efficacemente contaminanti emergenti (EC) dall’acqua potabile.

È noto che grandi quantità di nuovi inquinanti vengono costantemente immessi nell’ambiente. Si tratta di composti utilizzati, ad esempio, in farmaci, prodotti agricoli, filtri solari, cosmetici, ritardanti di fiamma e molti altri settori. La loro continua dispersione nell’ambiente rende sempre più urgente lo sviluppo di tecnologie di trattamento avanzate ed efficaci. I filtri progettati sono in grado di rimuovere inquinanti particolarmente persistenti come sostanze per (e polifluoroalchiliche (PFAS), antibiotici chinolonici e piombo) con prestazioni paragonabili o superiori

ai sistemi attualmente in commercio. Oltre ad essere sicura ed efficace ad ampio spettro, la nuova tecnologia si presta particolarmente a uno sviluppo industriale: è integrabile nelle linee di produzione esistenti, ha costi contenuti, e prevede un uso minimo di grafene ossido nelle membrane filtranti.

Vincenzo Palermo, uno degli autori del lavoro e direttore dell’Istituto per la sintesi organica e fotoreattività del Consiglio nazionale delle ricerche di Bologna, ha dichiarato: «Si tratta di un esempio efficace di come la ricerca fondamentale, se orientata verso i bisogni industriali e sostenuta da finanziamenti pubblici mirati, possa portare a risultati tecnologici concreti. Abbiamo messo a punto una tecnologia che unisce sicurezza e sostenibilità, grazie alla quale MEDICA S.p.A. potrà produrre migliaia di filtri all’anno».

Il risultato è frutto di un’attività di ricerca iniziata oltre dieci anni fa, che ha accompagnato lo sviluppo di membrane innovative a base di polisulfone e grafene ossido. Un passaggio fondamentale è stato rappresentato dalla realizzazione di una linea di produzione semi-industriale nell’ambito del progetto europeo GRAPHIL, finanziato dalla Graphene Flagship, che ha consentito di portare la tecnologia dai prototipi di laboratorio fino alla fase commerciale.

Manuela Melucci, ricercatrice del Cnr-Isof e Letizia Bocchi di MEDICA S.p.A., rispettivamente deputy leader e coordinatrice del progetto GRAPHIL, hanno sottolineato: «Un ruolo chiave è stato giocato dalla forte sinergia consolidatasi negli anni, con interazioni quotidiane e una stretta collaborazione tra i nostri team». Nel 2024, la collaborazione con l’azienda MEDICA S.p.A. ha portato al lancio del Graphisulfone®, la nuova generazione di membrane composite polisulfone-grafene-ossido, in grado di combinare ultrafiltrazione e adsorbimento in un’unica tecnologia. (P. S.).

© Jarek_Sz/shutterstock.com

La stimolazione elettrica delle cellule staminali in modalità wireless per favorire la rigenerazione delle lesioni del midollo spinale. Si tratta di una tecnica innovativa sviluppata dai ricercatori ENEA nell’ambito del progetto europeo RISEUP, al quale partecipano in Italia anche l’Università Sapienza di Roma e l’azienda RISE Technology. In particolare, è stato realizzato un dispositivo in grado di stimolare cellule staminali trapiantate nel midollo spinale lesionato, grazie a un elettrodo innovativo i cui impulsi elettrici favoriscono il loro differenziamento in neuroni.

Una lesione spinale o midollare è una lesione del midollo spinale, che può comportare l’interruzione delle vie nervose ascendenti e discendenti con conseguente mutamento, temporaneo o permanente, delle sue normali funzioni motorie, sensoriali o automatiche. A seconda della posizione e della gravità del danno lungo il midollo spinale, i sintomi possono variare notevolmente, dal dolore o intorpidimento alla paralisi, all’incontinenza urinaria.

La ricercatrice Claudia Consales del Dipartimento Sostenibilità responsabile ENEA del progetto ha spiegato: «Abbiamo sviluppato un dispositivo totalmente biocompatibile, in grado di somministrare impulsi elettrici wireless per trapiantare e modificare le cellule staminali direttamente nel tessuto danneggiato del midollo spinale».

Questo dispositivo è composto da una capsula stampata in 3D, progettata per integrare la parte elettronica, a sua volta connessa a un elettrodo completamente flessibile che è in grado di adattarsi facilmente a qualsiasi forma del corpo.

«Si tratta di un approccio che consente un intervento meno invasivo, e migliora anche l’integrazione delle cellule staminali e permette di ridurre la risposta infiammatoria» - ha aggiunto la ricercatrice Consales.

Questi risultati aprono scenari

MODALITÀ WIRELESS

PER LE LESIONI SPINALI

Sperimentata la stimolazione elettrica delle cellule staminali per la rigenerazione delle lesioni del midollo spinale

promettenti per nuovi campi di applicazione degli impulsi elettrici. La possibilità di guidare il fenotipo di una cellula staminale (ovvero, indirizzare o controllare in che tipo di cellula si trasformerà), nonché l’azione antinfiammatoria, abilitano utilizzi estremamente innovativi degli impulsi sia nella medicina rigenerativa sia nelle patologie in cui l’infiammazione contribuisce in modo significativo alla loro progressione.

Gli impulsi elettrici sono utilizzati in biologia e medicina prevalentemente per la loro capacità di indurre la formazione di pori sulle cellule (elettroporazione). In RISEUP sono applicati alle cellule staminali per modificarne il fenotipo, favorendone la proliferazione o il differenziamento, grazie alla loro capacità di modulare le oscillazioni del calcio intracellulare.

La Consales ha concluso: «Abbiamo dimostrato in esperimenti in vitro e in vivo che questi impulsi possono anche ridurre la risposta infiammatoria. La combinazione di bioingegneria avanzata e stimolazione elettrica ha il potenziale di rivoluzionare l’approccio a diversi tipi di patologie, contribuendo a migliorare la qualità della vita dei pazienti». (P. S.).

Beni culturali

Sotto un cimitero medievale i resti di un edificio absidato di grandi dimensioni Il pavimento a mosaico ha tratti in comune con altri siti di epoca paleocristiana

DAGLI SCAVI NEL CHIOSTRO DEI CANONICI EMERGE LA PRIMA CATTEDRALE DI PADOVA

Dal sottosuolo di piazza Duomo, a Padova, continuano a emergere resti ed evidenze di quella che potrebbe essere stata la prima e più antica cattedrale patavina. Si sono conclusi nelle scorse settimane gli interventi, piuttosto complessi, di scavo archeologico che hanno avuto inizio nel mese di giugno del 2024 nell’area compresa tra il Battistero e l’attuale Cattedrale di Santa Maria Assunta, sostenuti da Ministero della Cultura e Fondazione Cariparo e diretti dalla dottoressa Cinzia Rossignoli, sotto l’egida della locale Soprintendenza. Scavi che hanno rappresentato la prosecuzione di quelli condotti dall’Università di Padova nella stessa area tra il 2011 e il 2012, in cui era venuto alla luce un vano decorato con un suggestivo pavimento a mosaico, riconducibile al quarto secolo d.C. E proprio al IV secolo sono databili altri importanti resti che suggeriscono la presenza nell’area di un edificio absidato di grandi dimensioni. Una chiesa grande, importante: la Cattedrale, appunto.

La prudenza è d’obbligo, vista anche la complessità di uno scavo capace di svelare e documentare la presenza di un’area religiosa di lungo corso e caratterizzata dalla presenza di numerosi strati sovrapposti, per un periodo che parte dalle prime fasi del Cristianesimo e arriva praticamente ai nostri giorni. Lo strato superiore, il cui livello è più prossimo alla superficie, rende conto dell’utilizzo cimiteriale dell’area, dal Medioevo fino al XVIII secolo. Tra le numerose sepolture in fossa venute alla luce, spicca la presenza di due ampie tombe a camera sovrapposte, collocate nelle adiacenze del Battistero: al loro interno i resti, con tutta probabilità, di esponenti di famiglie dell’antica nobiltà padovana. Sempre all’età medievale sono riconducibili le tracce di un lungo muro, che dovrebbe corrispondere alle fondazioni dell’antico Chiostro dei Canonici. Ancor più significative le scoperte e le testimonianze nel livello immediatamente sottostante, quello relativo all’epoca tardo-romana.

È qui che sono stati rinvenuti due ampi lacerti di preparazioni pavimentali in cocciopesto, con resti di mosaici in tessere bianche e nere che li ricoprivano del tutto e giacenti alla stessa quota del mosaico decorato emerso nel corso degli scavi eseguiti nel 2011-2012 e che è stato sottoposto a restauro, affidato alla Ditta Malvestio di Concordia Sagittaria, in provincia di Venezia, sotto la direzione della dottoressa Elena Pettenò. Il motivo della decorazione, ancora integro, è caratterizzato da una cornice esterna di tessere rosate, mentre il tappeto centrale da tessere bianche e nere e dalla presenza di campi ottagonali che si intersecano fino a formare quadrati ed esagoni allungati. All’interno degli esagoni è chiaramente distinguibile un motivo a croce stilizzata, nei quadrati invece si riconosce una schacchiera di tessere bianche e nere, secondo uno schema comune ad altri siti cristiani in area veneta e adriatica risalenti al IV-VI secolo.

Sono stati rinvenuti due ampi lacerti di preparazioni pavimentali in cocciopesto, con resti di mosaici in tessere bianche e nere e dalla presenza di campi ottagonali che si intersecano fino a formare quadrati ed esagoni allungati

Il pavimento è databile al IV secolo ed è in relazione a un’imponente muratura curvilinea, sulla quale si innestava quel che resta di un muro dai tratti rettilinei. Una tipica forma ad abside, del tutto conforme a quella di un’antica chiesa. Ma non è tutto, perché al di sotto dello strato del IV secolo è emersa la parte sommitale di un altro livello, riferibile a un contesto strutturale ancora più antico, di piena epoca romana. Con tutta probabilità un settore consistente di un’antica domus, destinato a essere oggetto di nuovi interventi di scavo nei prossimi anni. Tutti i reperti emersi, nel frattempo, saranno sottoposti ad analisi specialistiche, mentre la rielaborazione dei dati e gli studi storici e archeologici potrebbero fare nuova luce sulla genesi di un sito centrale per la storia stessa di Padova, città nominata municipio romano nel 49 a.C. e successivamente diventata una delle più ricche dell’intero Impero, grazie soprattutto alle esportazioni di capi in lana e all’allevamento di cavalli pregiati. Come annunciato dalla Soprintendenza, il mosaico sottoposto a restauro e l’intera area del Chiostro dei Canonici saranno presto messi a disposizione del pubblico, promettendo di diventare una nuova meta per appassionati, turisti e per gli stessi padovani interessati al recupero di uno dei luoghi identitari della loro città. «Lo scavo si è rivelato molto proficuo dal punto di vista storico e archeologico» - le parole della dottoressa Rossignoli. «Potrebbe trattarsi della prima Cattedrale di Padova, ma la ristrettezza dello scavo stesso richiede prudenza. L’obiettivo era raggiungere gli strati più profondi e siamo arrivati alla quota di quattro metri sotto al piano di calpestio». E in questi quattro metri sono racchiuse le testimonianze di quasi duemila anni di storia, che per quanto riguarda le fasi formative della Padova di epoca tardo-romana e cristiana potrebbe essere almeno parzialmente riscritta. Di certo, a breve una nuova attrazione archeologica e culturale sarà a disposizione proprio nel cuore della città veneta. (R. D.).

Sabap
Padova

ITALIA PERUGIA

CONEGLIANO

Prima Champions Terza per le venete cui hanno preso
Bartha Bela Florian - Itas Trentino.

Champions League per gli umbri in campo maschile venete che hanno dominato ogni competizione preso parte. Fra gli uomini, scudetto a Trento

ITALIA REGINA DEL VOLLEY

PERUGIA CAMPIONE D’EUROPA CONEGLIANO PIGLIATUTTO

di Antonino Palumbo

Trento campione d’Italia e Perugia campione d’Europa in campo maschile. Conegliano pigliatutto fra le donne, in Italia e in campo internazionale. Sono stati questi gli ultimi verdetti di una stagione pallavolistica trionfale per la pallavolo italiana, regina nelle massime competizioni europee per club e protagonista fino alle fasi finali anche nelle altre coppe con Scandicci, Milano, Novara, Roma e Chieri fra le donne, Civitanova e la stessa Trento in campo maschile.

Trento tricolore

Prima in regular season, l’Itas Trentino si è confermata nei playoff, aggiudicandosi lo scudetto nella finale la sorpresa Cucine Lube Civitanova. Epilogo affatto scontato, visto che i marchigiani hanno eliminato i campioni uscenti (e poi campioni d’Europa) di Perugia e in gara-2 di finale hanno “restituito” all’Itas il tris secco maturato nel match d’apertura della serie. Diversi i protagonisti della cavalcata tricolore, uno su tutti Alessandro Michieletto, campione cresciuto nel vivaio di Trento, premiato MVP - Most valuable player delle finali di Superlega.

Primo scudetto per coach Fabio Soli, un titolo con la valigia perché era già nell’aria il suo trasferimento alla Rana Verona, che affiancherà all’incarico di ct della Nazionale slovena.

Perugia campione d’Europa

Se Trento è succeduta a Perugia nell’albo d’oro della Superlega, il contrario è avvenuto nella Cev Champions League, dove sono stati gli umbri a imprimere per la prima volta il proprio marchio sulla competizione, a dodici mesi dal trionfo dell’Itas Trentino. Esaltata dalla sapiente regia di Giannelli, dalle bordate di Ben Tara e Ishikawa e da 12 muri squadra, Perugia ha alzato il trofeo nel cuore dell’Atlas Arena di Lodz (Polonia) dopo aver sconfitto per 3-2 i padroni di casa del Warta Zawiercie.

Tabù sfatato anche per coach Angelo Lorenzetti, vincitore di 5 Scudetti, 3 Coppe Italia, 5 Supercoppe, 2 Mondiali per Club e una Coppa Cev, che fino a metà maggio la coppa dei campioni l’aveva solo vista da vicino, avendo perso tre finali con Trento e una con Piacenza. Nel primo match della Final Four, Perugia non ha avuto esitazioni (3-0) contro quell’Halkbank che nel girone è stata l’unica squadra a prevalere, al tie-break, in Umbria, su Plotnytskyi e compagni. E che nel playoff aveva eliminato l’Allianz Milano. Superata la fase a gironi, il cammino di Perugia è passato invece dal doppio successo sulla Vero Volley Monza, brillante in coppa quanto sofferente in Superlega, dove ha acciuffato la salvezza sul filo di lana.

Le campionesse di tutto

Supercoppa, Mondiale per club, Coppa Italia, Scudetto, Champions League: battendo prima Milano e poi Scandicci, nella Final Four di Istanbul, l’Imoco Conegliano ha completato il grande slam della pallavolo femminile, chiudendo la stagione con una sola sconfitta in 50 partite. A scalfire l’imbattibilità delle Pantere, in gara-2 di semifinale scudetto, è stata l’Agil Novara, con un tris secco e roboante. Chiusa la serie nelle successive due partite, le ragazze di coach Santarelli hanno risolto in tre match la finale con la Vero Volley Milano dall’ossatura azzurra, perdendo un solo net nella partita d’apertura della serie. E col punteggio di 3-1 Conegliano ha sconfitto le lombarde anche in semifinale di Champions League, prima di spegnere i sogni di una sorprendente Savino del Bene Scandicci.

Regine di coppe

A premiare ulteriormente il valore e il lavoro svolto dai club italiani ci sono poi i risultati otte-

Alessandro Michieletto - Itas Trentino.

nuti in tutte e tre le competizioni europee, maschili e femminili. La Savino del Bene Scandicci ha conquistato per la prima volta l’accesso alla Final Four di Cev Champions League, qualificandosi al match decisivo con Conegliano grazie a un autoritario 3-0 sul VakifBank Istanbul.

Fra le “fantastiche quattro” anche la Vero Volley Milano, battuta in semifinale dalle vendemmiatrici di trofei e dispensatrici di spettacolo dell’Imoco. L’Agil Novara ha vinto la Coppa Cev femminile, secondo trofeo europeo, superando agilmente le romene dell’Alba-Blaj sia all’andata sia al ritorno. Succede nell’albo d’oro a Scandicci e Chieri. La stessa Chieri che ha solo sfiorato il bis in Challenge Cup a distanza di due anni dalla grande festa con il Lugoj. A imporsi, però, è stata la Smi Roma Volley, peraltro retrocessa in A2 a fine stagione. Anche nella terza

competizione della Cev l’albo d’oro parla chiaro: le ultime quattro edizioni sono state vinte da Scandicci, Chieri, Novara e Roma.

A un passo dalla meta

Fra gli uomini, l’Itas Trentino è stata battuta nella semifinale di Coppa Cev dallo Ziraat Bankasi, che poi si è preso il trofeo. Percorso esaltante ma incompleto quello della Cucine Lube Civitanova in Challenge Cup. Battuta 3-1 in Polonia a Lublino, si è portata sul 2-0 nel match di ritorno prima di cedere il terzo, lunghissimo parziale ai vantaggi (36-38) dopo cinque match point sprecati, per poi crollare nel quarto e decisivo set sotto le battute di Leon. I marchigiani chiudono, comunque, un’esaltante stagione con la vittoria della Coppa Italia e due finali.

Merit Adigwe e Gabi Gabriela Guimaraes - Imoco Conegliano.

© EvrenKalinbacak/shutterstock.com

A premiare ulteriormente il valore e il lavoro svolto dai club italiani ci sono poi i risultati ottenuti in tutte e tre le competizioni europee, maschili e femminili. La Savino del Bene Scandicci ha conquistato per la prima volta l’accesso alla Final Four di Cev Champions League, qualificandosi al match decisivo con Conegliano grazie a un autoritario 3-0 sul VakifBank Istanbul.

Grandi emozioni agli Internazionali d’Italia Bnl

La toscana vince il torneo di singolare e quello di doppio, assieme all’emiliana Lo spagnolo batte i due big azzurri fra gli uomini

TENNIS ROMA INCORONA PAOLINI (ED ERRANI) MUSETTI E SINNER

SBATTONO SU ALCARAZ

Jasmine Paolini.

Èmancata forse la ciliegina sulla torta, dove per ciliegina s’intende una clamorosa se non “miracolosa” vittoria di Jannik Sinner, al rientro dopo tre mesi di sospensione per la vicenda Clostebol. Ma la torta del tennis italiano agli Internazionali d’Italia Bnl di Roma è stata meravigliosamente buona, golosa, appagante. Gli appassionati della disciplina porteranno a lungo nella memoria il doppio successo in campo femminile di Jasmine Paolini, sia nel singolare sia in doppio con Sara Errani, così come le giocate d’altri tempi di Lorenzo Musetti e quelle logoranti di un Sinner che il prossimo 8 giugno “festeggia” un anno da numero 1 al mondo. Il cammino di Jasmine Paolini, 29enne toscana di Bagni di Lucca, è stato costellato di brividi e rimonte, che hanno confermato ancora una volta le sue doti tattiche e caratteriali. Arrivata agli ottavi senza perdere un set, Paolini ha dovuto faticare un po’ di più contro Jelena Ostapenko, potente col dritto quanto fallosa col rovescio e in battuta. Così, sotto di un break, “Jas” ha recuperato e ingabbiato le qualità della lettone, vincendo 7-5, 6-2. Clamorosa la partita con l’emergente 21enne russa Diana Shnaider. Una partita lunga due ore e 22 minuti, in tre set e quattro atti, se la si volesse descrivere come una pièce teatrale. Autoritaria in avvio, l’azzurra è salita sul 4-0. Poi ha subito il dritto della russa, è andata sotto e ha perso al tie-break il primo set. Sul 3-0, 30-0 Shnaider nel secondo set, un’interruzione per pioggia ha consentito a Paolini di riordinare le idee, cogliere i suggerimenti dell’amica Errani e iniziare ad alzare le traiettorie, mandando in tilt l’avversaria: così da 0-4 si è arrivato al 6-4. Nel terzo set, Shnaider è tornata a spingere, volando sul 2-0, prima che Jasmine pareggiasse e volasse via verso la vittoria, mentre la 21enne di Žigulëvsk perdeva completamente la bussola mettendosi a polemizzare con il pubblico di Roma.

In semifinale, Jasmine ha dovuto perfezionare l’ennesima rimonta, stavolta con la statunitense Peyton Stearns, che si è vista annullare due set point nel primo parziale prima di soccombere 7-5, 6-1. Davanti al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, Paolini ha poi completato l’opera brillando in finale con Coco Gauff: 6-4, 6-2 e pubblico del “Centrale” in estasi. Un titolo che sa di “fil rouge” con il 2024 delle meraviglie, reso unico dal successo nel Wta 1000 di Dubai, dalle finali al Roland Garros e a Wimbledon, dall’oro nel doppio alle Olimpiadi e dalla conquista del-

Si è invece interrotto contro lo spagnolo Carlos Alcaraz, il miglior tennista al mondo su terra rossa, il sogno di Lorenzo Musetti di entrare in finale e quello di Jannik Sinner di vincerla. Entrambi gli italiani, però, sono usciti fra gli applausi. Musetti è stato capace di spingere oltre il livello di un tennis vario e spettacolare, d’altri tempi, salendo al numero 8 del ranking mondiale (poi diventato numero 7 pochi giorni dopo) e battendo avversari di primissimo livello come Daniil Medvedev e Alexander Zverev.

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la Billie Jean King Cup con l’Italia. A proposito di doppio, Jasmine Paolini e Sara Errani si sono confermate regine degli Internazionali d’Italia Bnl, dodici mesi dopo. In semifinale, altro dispiacere dato a Shnaider - dopo la finale di Parigi 2024 e dopo il quarto nel singolare a Roma - in consolidata coppia con Andreeva. Poi la finale, naturalmente con rimonta. Doppia, in entrambi i set da 0-4. A farne le spese, stavolta, Veronika Kudermetova ed Elise Mertens: 6-4, 7-5 il risultato, ennesima altalena di un’edizione memorabile. Si è invece interrotto contro lo spagnolo Carlos Alcaraz, il miglior tennista al mondo su terra rossa, il sogno di Lorenzo Musetti di entrare in finale e quello di Jannik Sinner di vincerla. Entrambi gli italiani, però, sono usciti fra gli applausi. Musetti è stato capace di spingere oltre il livello di un tennis vario e spettacolare, d’altri tempi, salendo al numero 8 del ranking mondiale (poi diventato numero 7 pochi giorni dopo) e battendo avversari di primissimo livello come Daniil Medvedev e Alexander Zverev. Per il carrarino, una primavera da incorniciare, con la finale giocata a Montercarlo con lo stesso Alcaraz - e condizionata da un infortunio - la semifinale nel torneo di Madrid impreziosito dal successo con il Top 10 Alex De Minaur e, infine, quella raggiunta a Roma con prestazioni da stropicciarsi gli occhi.

Al primo torneo dopo la sospensione di tre mesi patteggiata con l’Agenzia mondiale antidoping per il caso Clostebol (assunzione involontaria di steroide anabolizzante, per la quale era stato assolto dal tribunale indipendente del tennis mondiale), Sinner si è scrostato partita dopo la partita la “ruggine”. Fino ad arrivare a contendere il trofeo al suo grande rivale Alcaraz, riconosciuto come il miglior giocatore su terra rossa attualmente in attività, perlomeno da osservatori e appassionati imparziali.

Per spuntarla, però, lo spagnolo ha dovuto confezionare “il miglior match a livello tattico della carriera”, per usare le sue stesse parole. Rimasto in bilico fino all’inizio del secondo set, il match è stato deciso dalla maggiore varietà di gioco di Alcaraz, che alla lunga ha piegato un Sinner ancora in pieno rodaggio in prospettiva Roland Garros di Parigi. L’altoatesino ha fallito due set point sul 6-5 nel primo set, poi è naufragato dopo aver conteso il primo game del secondo parziale all’avversario. La striscia di vittorie consecutive di Sinner si ferma a 26. Proverà a ricostruirla da Parigi, Alcaraz permettendo.

Lorenzo Musetti.

PALLAMANO, PRIMA VOLTA AGLI EUROPEI PER L’ITALIA

Storica qualificazione: nel 1998 l’unica presenza ma da Paese ospitante

Lo scorso gennaio il Mondiale, con tanto di passaggio del turno. Ora la qualificazione, prima nella storia, agli Europei malgrado due sconfitte nelle ultime due partite delle qualificazioni. Nuovo, storico traguardo per la pallamano italiana: la nostra Nazionale sarà in gara nel massimo torneo continentale che si disputerà, dal 15 gennaio all’1 febbraio prossimi, fra Danimarca, Svezia e Norvegia.

«Siamo molto orgogliosi di questo traguardo raggiunto, che ci permette di rimanere ancora una volta, dopo i campionati mondiali, ai vertici della

pallamano internazionale e di poterci confrontare con le migliori squadre»il commento di Stefano Podini, presidente della Federazione italiana giuoco handball.

La qualificazione agli Europei arriva a 27 anni dall’unica partecipazione italiana al torneo. Ed è di fatto la prima volta che gli azzurri si qualificano, considerato che nel 1998 l’Italia era il Paese ospitante. Sono passati fra le migliori terze, dopo aver reso la vita difficile alla Spagna nella corsa al secondo posto e aver stretto i denti con la Serbia, nell’ultimo match del girone perso 28-24, ma fondamentale per

la differenza reti che valeva un pass per Euro 2026. Festa per entrambe le squadre in campo e bicchiere “più che mezzo pieno” per il direttore tecnico dell’Italia, Bob Hanning il quale, pur non potendo gioire per le due sconfitte ravvicinate con Spagna e Serbia, ha sottolineato il risultato storico di cui essere orgogliosi. «A gennaio questa Nazionale sarà attesa da un’altra grande sfida, ma a mio parere stiamo migliorando di partita in partita» le sue parole dopo la qualificazione.

Il 15 maggio si sono tenuti i sorteggi dei gironi della prima fase degli Europei 2026. L’Italia è stata inserita nel girone F con Ungheria, Islanda e Polonia e giocherà le sue partite a Kristianstad, in Svezia. Le prime due squadre di ogni gruppo si qualificano per il turno principale, dove vengono formati due gruppi da sei. «L’Ungheria è una delle migliori squadre al mondo, mentre l’Islanda a Kristianstad potrà contare su un grande supporto del pubblico. Anche la Polonia è un’avversaria molto dura, con una grande tradizione in questi tornei» - così Hanning ha commentato le avversarie sorteggiate.

Ma l’Italia non vuole recitare la parte della “vittima sacrificale”: «Credo che per noi sarà una esperienza molto importante e che ci permetterà di compiere ulteriori passi in avanti. Non andremo a Kristianstad già battuti e, anche se non abbiamo una grande esperienza in questo genere di competizioni, credo che abbiamo le qualità per giocare a questi livelli».

Agli Europei 2024 il titolo è andato alla Francia, vittoriosa in finale per 33-31 sulla Danimarca. Gli scandinavi, però, si sono riscattati con gli interessi al Mondiale di quest’anno, conquistando l’alloro iridato grazie al successo in finale sulla Croazia. Dalle “sveglie” danesi è passata anche l’Italia, nel primo girone, superando battendo Tunisia e Algeria, prima di cedere il passo alla Germania nel turno successivo. (A. P.).

© www.federhandball.it

L’Italia della marcia non smette di… marciare forte. E ai Campionati europei a squadre di Podebrady (Repubblica Ceca) conquista il successo assoluto nella 35 km tanto in campo maschile che in quello femminile, impreziosendo il tutto con il record del mondo fra gli uomini con Massimo Stano e tre primati nazionali con Antonella Palmisano e gli under 20 Giuseppe Disabato e Serena Di Fabio.

Stano si è imposto fra gli uomini timbrando anche il nuovo primato mondiale in 2 ore 20 minuti 43 secondi, abbassando di quasi un minuto il precedente limite marciato dal canadese Evan Dunfee a marzo (2h20:43). Dietro di lui, sul podio, il tedesco Christopher Linke con il record nazionale (2h23:21) e lo spagnolo Miguel Angel Lopez (2h23:48).

A completare la brillante prova valsa l’oro all’Italia sono stati Riccardo Orsoni, quarto in 2h26:09, e Mattei Giupponi, nono in2h28:57.

«L’approccio alla gara non è stato di partire per fare il record del mondoha spiegato Stano - ma la strategia era di chiudere gli ultimi venti più forte possibile. La mia missione era quella, poi il record del mondo è stato la conseguenza. Questo risultato ce lo meritiamo, con il mio staff e il mio allenatore Patrizio Parcesepe: sono contentissimo, me lo godrò per qualche settimana, poi c’è da pensare alla 20 km di La Coruna del 7 giugno”.

Olimpionico nella marcia 20 km a Tokyo 2020, campione del mondo nella 35 km due anni più tardi, il 33enne di Grumo Appula aggiunge un altro alloro alla sua preziosa collezione. «Mi mancava un successo in questa manifestazione, è una cosa magnificaha aggiunto Stano - dopo l’infortunio della scorsa stagione e anche prima di venire qui c’è stato qualche problema, una distorsione alla caviglia tre giorni prima della partenza. È stato fatto tanto lavoro, alla fine è anche giusto cogliere un risultato come questo. Porto

STANO E L’ITALIA “SUPER”

NELLA MARCIA AGLI EUROPEI

Record del mondo dell’olimpionico nella 35 km maschile

Primati nazionali per Palmisano, Disabato e Di Fabio

la maglia azzurra con onore e lotto con tutto me stesso».

Successo a squadre anche nella 35 km femminile, con tre azzurre nella Top 5. Su tutte Antonella Palmisano, argento in due ore 39 minuti e 35 secondi, record italiano al debutto nella specialità. Ottima prova anche per Nicole Colombi, terza in 2h41:47, miglior prestazione personale, e per Federica Curiazzi, quinta in 2h45:39. Eleonora Giorgi si è invece ritirata dopo aveva condotto la gara nella prima parte.

«Ormai mancavo solo io per il record italiano - il commento di Anto-

nella Palmisano - è il primo della mia carriera a livello assoluto e mi sono tolta il sassolino. Questo crono alla prima esperienza mi rende davvero tanto contenta: non ci credevo e nei chilometri iniziali mi sembrava di andare troppo forte, poi ho lasciato i pensieri all’esterno». Agli Europei a squadre, brillano anche l’oro individuale (Giuseppe Di Sabato) e a squadre nella 10 km Under 20, l’argento di Francesco Fortunato e del team nella 20 km maschile, i bronzi individuale (Serena Di Fabio) e a squadre nell’Under 20 donne e quello dell’under Alessio Coppola. (A. P.).

© Raffaele
Massimo Stano.

IL PROGRESSO DELLA SCIENZA È IL REGRESSO DELLA CAPACITÀ UMANA?

Come il vorticoso sviluppo tecnologico sta modificando anche la struttura del nostro cervello

di Anna Lavinia

Martina Ardizzi

L’algoritmo bipede

Egea editore, 2025 – 16,50 euro

Ènei sogni di molti il desiderio di parlare con il proprio cane, gatto o qualsiasi altro animale domestico.

C’è anche chi ci è riuscito come San Francesco d’Assisi ma il linguaggio umano –per ora – è un’esclusiva della nostra specie. Sebbene si pensi che la facoltà di comunicare sia un’evoluzione della voce è in realtà collegata direttamente al nostro corpo. Non avremmo mai parlato se non avessimo sofisticato l’uso delle mani.

In pratica, i nostri arti hanno insegnato al nostro cervello a parlare. Ardizzi traccia la spiegazione nella vicinanza della corteccia che controlla le mani con quella che gestisce i movimenti della bocca. L’aver sviluppato una competenza manuale molto fine ci ha permesso la sofisticazione dei movimenti volontari della bocca che originano il parlare. Se questo legame ci sembra ancora lontano, proviamo a pensare al momento in cui non ci viene in mente una parola, istintivamente usiamo le mani, ruotiamo il polso e muoviamo le dita per simulare quella cosa che proprio non ci sovviene. E secondo alcune ricerche questa azione aumenterebbe del 90%

la probabilità di ritrovare la parola perduta. È necessario ricordare che l’uomo ha realizzato un’altra cosa straordinaria: ha trasformato l’ambiente in cui vive. Tutti gli organismi si adeguano ai mutamenti ambientali, la perdita e la crescita del pelo, la maggiore produzione di globuli rossi per affrontare l’altitudine e la selezione di individui in grado di resistere a infezioni di vario tipo sono tutte conseguenze biologiche di adattamento nell’evoluzione degli esseri viventi. Attraverso le pagine di questo saggio possiamo imparare anche alcune caratteristiche evolutive sensazionali. Ad esempio che il nostro cervello ha avuto un aumento annuo dell’1,6%, mentre nello stesso tempo il collo del samoterio (una tipo di giraffa estinta) si è allungato del 0.14%.

Ciò che scopriamo attraverso tutti i nostri sensi modificherà per sempre la nostra conoscenza e inevitabilmente la nostra mente. E che dire della vista? Uno strumento cognitivo incredibile. Quando, per ampliarla, utilizziamo un alleato come un microscopio, un telescopio, un visore o un semplice smartphone cambiamo anche il nostro cervello. Le stesse tecnologie inventate per colmare il divario tra

Libri

i nostri bisogni e le richieste ambientali si impongono agli umani per indurli ad adattarsi all’ambiente che hanno creato.

Fino a qualche decennio fa ricordarsi diversi numeri di telefono a memoria era un’azione semplice e fattibile, oggi a stento riusciamo a ricordare il nostro! Ma non è una questione di capacità di memoria, con internet infatti siamo esposti a una quantità esponenziale di informazioni. Oggi un bambino europeo di 5 anni ha collezionato “virtualmente” la stessa quantità di informazioni di un adulto di metà Ottocento. Non abbiamo più la necessità di memorizzare piuttosto quella di individuare nel modo migliore ciò che stiamo cercando. Da utilizzatori occasionali di tecnologie, siamo diventati utilizzatori obbligati.

L’essere umano è un animale empirico e da sempre impiega strumenti motori, sensoriali e cerebrali che si evolvono insieme, grazie alla plasticità del cervello. È difficile accettarlo ma l’intelligenza umana non è mai stata del tutto naturale. Il pensiero critico invece si è ed è fondamentale mantenerlo per custodire la nostra umanità.

Flavia Gasperetti

La verità quando arriva è una tempesta

Bompiani, 2025 – 18 euro

Quella di Learco è una storia normale come tante fino a quando arriva un’ischemia che scompiglia tutte le carte della sua vita generando una tempesta senza fine, anche nella vita delle figlie Renata e Gabriella. Ma come dice Shakespeare “la magia del bisogno è prodigiosa” e porta con sé nuove domande e sorprendenti complicità. (A. L.).

Jan Grue

La mia vita come la vostra

Iperborea, 2025 – 18 euro

Un’immensità di cartelle cliniche si sono accumulate da quando a 3 anni gli diagnosticano una malattia neuromuscolare che definisce il suo corpo difettoso con un futuro cupo e limitato. Questa però non è la vita che vive Grue, accademico a Oslo con una moglie e un figlio. Un memoir poetico che porta a guardarci dentro e a riconsiderare i nostri limiti. (A. L.).

Roberto Danovare

Restaurare la natura

Edizioni Ambiente, 2025 – 20 euro

Si può mai essere contrari al restauro di un opera d’arte, di un parco incolto o di un edificio decadente? Eppure per molti “restaurare” il nostro pianeta che piange da decenni è qualcosa di inutile. Il biologo marino e professore di ecologia ci suggerisce come affrontare la più grande sfida di tutti i tempi, salvare la Terra. (A. L.).

TAKOTSUBO LA SINDROME DEL CUORE SPEZZATO

Sotto stress, il cuore può trasformarsi in una trappola giapponese

La chiamano “sindrome del cuore spezzato”, ma ha ben poco a che fare con le delusioni amorose. Si tratta di una forma di cardiomiopatia da stress, causata da una temporanea disfunzione del ventricolo sinistro, che si dilata assumendo una forma simile a una trappola per polpi, il “takotsubo”, da cui prende il nome in giapponese.

Si presenta con sintomi simili a quelli di una sindrome coronarica acuta, e la diagnosi spesso avviene durante gli accertamenti per un sospetto infarto del miocardio. Inizialmente era ritenuta una condizione rara, ma la sua incidenza continua ad aumentare, probabilmente a causa delle numerose fonti di stress legate alla vita moderna e anche grazie a una migliorata capacità diagnostica da parte dei cardiologi [1].

Oggi, la Sindrome di Takotsubo rappresenta circa il 3% dei casi di sindrome coronarica acuta, con una netta prevalenza nelle donne. Infatti, circa il 6% delle pazienti con sospetto infarto riceve questa diagnosi. Può manifestarsi a qualsiasi età, ma è più frequente nelle persone anziane. I pazienti sotto i 50 anni rappresentano circa il 10% dei casi, presentano forme meno comuni e hanno in genere meno malattie associate, ma mostrano più frequentemente disturbi neurologici o psichiatrici acuti e un rischio maggiore di complicazioni durante il ricovero.

Esistono anche rare segnalazioni di Takotsubo in più

* Comunicatrice scientifica e Medical writer

membri della stessa famiglia. Questo fa pensare che possa esistere una certa predisposizione genetica, che si combina con fattori ambientali e altri elementi ereditari. Tuttavia, gli studi genetici fatti finora sono stati condotti su piccoli gruppi di pazienti, e sono necessarie ulteriori ricerche per comprendere meglio il ruolo della genetica nella comparsa della sindrome [1,2].

I meccanismi fisiopatologici

Si ritiene che la sindrome sia scatenata da un improvviso aumento dei livelli di catecolamine, ormoni dello stress come l’adrenalina, ma non è ancora del tutto chiaro perché questa risposta provochi una disfunzione del ventricolo sinistro solo in alcune persone. Sono state avanzate alcune ipotesi sui possibili meccanismi e la teoria più accreditata si basa su un’improvvisa impennata di ormoni dello stress, come l’adrenalina e la noradrenalina, in situazioni di forte tensione emotiva o fisica. Questo meccanismo coinvolge l’asse ormonale ipotalamo–ipofisi–surrene, che si attiva come risposta naturale del corpo a una situazione di stress. Quando questo avviene, le ghiandole surrenali rilasciano una grande quantità di adrenalina nel sangue, e il cuore, che risponde a questi segnali attraverso specifici recettori, può reagire in modo anomalo.

Esistono due principali tipi di recettori per l’adrenalina nel cuore:

- i recettori β1, concentrati soprattutto alla base;

- i recettori β2, più numerosi nella parte apicale (la punta del cuore).

di Daniela Bencardino*

In condizioni normali, entrambi i recettori aiutano il cuore a pompare più forte. Ma in situazioni di stress, i recettori β2 possono comportarsi diversamente e smettere di stimolare la contrazione o addirittura inibirla. Nel frattempo, i recettori β1 alla base del cuore continuano a funzionare normalmente, aumentando la forza della contrazione [3]. Questo squilibrio provoca una contrazione eccessiva alla base e una quasi paralisi della parte apicale, dando al cuore la caratteristica forma “a palloncino” che ricorda la trappola per polpi giapponese [4].

L’asse cuore-cervello

Il cervello e il cuore sono strettamente collegati, tanto che un danno neurologico acuto, come un ictus o un trauma cranico, può causare problemi temporanei al cuore. Molte persone colpite dalla sindrome di Takotsubo mostrano un’attività anomala in alcune aree del cervello come l’amigdala o l’ippocampo. In presenza di uno stimolo emotivo o fisico molto intenso, queste aree possono generare uno squilibrio tra i due rami principali del sistema nervoso autonomo: quello simpatico (che attiva la risposta di allarme), e quello parasimpatico (che ha una funzione calmante). Questo squilibrio può mandare il cuore “fuori fase”, causando danni temporanei al muscolo cardiaco. Un esempio interessante è quello dei pazienti che hanno subìto un trapianto di cuore. In circa il 40% dei casi, con il tempo, il cuore trapiantato ristabilisce la connessione con il sistema nervoso simpatico, ma non con quello parasim-

patico. Questo vuol dire che il cuore diventa più vulnerabile alle scariche di adrenalina, e quindi più esposto al rischio di sviluppare la sindrome di Takotsubo [5].

Solo una minoranza dei pazienti con sindrome di Takotsubo (circa il 20%) mostra uno spasmo delle coronarie, e anche in questi casi si verifica solo quando i livelli degli ormoni dello stress sono particolarmente elevati.

Si ipotizza che il vero protagonista sia invece il microcircolo: la rete di piccolissimi vasi sanguigni che nutre il cuore. Nei pazienti colpiti dalla Takotsubo, questi vasi non funzionano correttamente. Il flusso del sangue si riduce temporaneamente e la resistenza all’interno dei vasi aumenta, ma fortunatamente queste alterazioni tendono a risolversi. Le cause potrebbero essere legate a sostanze che inducono una forte contrazione dei vasi, come l’endotelina, le stesse catecolamine e i radicali liberi prodotti durante lo stress.

Un altro fattore che potrebbe entrare in gioco è lo stato di infiammazione del cuore che può danneggiare il rivestimento interno dei vasi sanguigni (l’endotelio) e portare alla perdita del glicocalice, la “pellicola protettiva” delle cellule. Questo processo può favorire l’accumulo di liquidi nel cuore, causando un edema. Non è ancora chiaro se questi cambiamenti siano la causa diretta dell’attacco o se rappresentino una conseguenza dell’evento acuto. Infine, si stanno esplorando anche ipotesi legate a squilibri nel metabolismo e nella produzione di energia nelle cellule cardiache, ma si tratta di aspetti ancora poco conosciuti [1,6].

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Stress fisico e psicologico

Lo stress, sia fisico che emotivo, è uno dei principali fattori che possono innescare la sindrome di Takotsubo, ma uomini e donne sembrano reagire in modo diverso. Negli uomini, la sindrome si presenta più spesso dopo uno stress fisico intenso, come un’operazione chirurgica, una malattia grave o uno sforzo eccessivo. Nelle donne, invece, è più frequente che il cuore ceda in risposta a uno stress emotivo profondo, come un lutto, un forte spavento, un litigio o un momento di grande ansia. In entrambi i casi, l’effetto è una reazione esagerata che può mettere temporaneamente fuori uso il muscolo cardiaco. Eppure una buona parte dei pazienti (tra il 20% e il 40%) sviluppa Takotsubo senza che vi sia un’apparente situazione di stress. Per questo è importante che i medici non si limitino a cercare solo tra gli eventi traumatici più ovvi, ma considerino anche malattie prolungate, interventi medici o situazioni emotivamente logoranti, che spesso non vengono raccontate spontaneamente dai pazienti. Insomma, il cuore può risentire in modo profondo di tutto ciò che viviamo, nel bene e nel male, anche quando non ne siamo pienamente consapevoli [7].

I biomarcatori cardiaci

Non esistono biomarcatori specifici per diagnosticare con certezza la sindrome di Takotsubo, ma la presenza di alcune molecole nel sangue possono facilitare la diagnosi. Una di questi è la troponina, una proteina che si libera quando il cuore subisce un danno. Nei pazienti con Takotsubo, la troponina è generalmente aumentata, ma i valori restano molto più bassi rispetto a quelli osservati in un infarto. Questo perché, a differenza dell’infarto, nella Takotsubo non c’è una vera e propria morte del tessuto cardiaco, ma piuttosto un malfunzionamento temporaneo e reversibile. Al contrario, il frammento N-terminale del pro-peptide natriuretico di tipo B (NT-proBNP), sostanza rilasciata dal cuore quando è in sovraccarico, risulta molto elevato nei pazienti con Takotsubo. Quindi anche se il cuore non è infartuato, è comunque in affanno, come in un’insufficienza cardiaca acuta [8].

Dopo un episodio di Takotsubo, nel sangue dei pazienti si riscontrano livelli elevati di marcatori infiammatori come interleuchine (IL-2, IL-4, IL-8), interferone, TNF-α (fattore di necrosi tumorale alfa) e altre citochine antinfiammatorie. Questi valori restano alti anche dopo mesi, suggerendo che l’infiammazione potrebbe avere un ruolo all’esordio, ma anche nel decorso e nel recupero [9].

Diagnosi differenziale

Sono stati messi a punto diversi criteri diagnostici che combinano sintomi, esami strumentali e dati clinici e sono utili per stabilire la probabilità che si tratti effettivamente di Takotsubo. La prima ipotesi da escludere è sempre quella di una sindrome coronarica acuta, come l’infarto.

Questo perché i sintomi sono molto simili (dolore al petto, affanno, alterazioni all’elettrocardiogramma) e i pazienti con Takotsubo possono avere anche una malattia coronarica preesistente. Si stima, infatti, che circa il 15% dei pazienti ne sia affetto.

Quando le coronarie risultano normali, cioè non ostruite, la diagnosi si restringe a tre possibili spiegazioni:

• infarto senza occlusione coronarica;

• miocardite (infiammazione del cuore);

• sindrome di Takotsubo.

A questo punto entrano in gioco strumenti come la risonanza magnetica cardiaca e l’ecocardiogramma, che permettono di osservare il cuore in dettaglio e distinguere tra le diverse cause.

Riconoscere la Takotsubo può essere un vero e proprio puzzle clinico, ma con gli strumenti adeguati e la giusta esperienza, è possibile arrivare alla diagnosi corretta [10].

Il trattamento

Al momento non esistono studi clinici solidi e su larga scala che indichino con certezza come gestire la sindrome di Takotsubo. Per questo, nella fase acuta, cioè subito dopo l’episodio, la gestione si basa principalmente su un approccio di supporto generale: monitorare il paziente, controllare i sintomi e trattare eventuali complicanze caso per caso. Le aritmie ventricolari sono una delle possibili complicanze, si verificano in 1 paziente su 10 e la causa sembra essere un’alterazione transitoria della conduzione elettrica dovuta all’edema delle cellule cardiache. A questo si aggiungono altri fattori come: una maggiore automaticità del cuore, la disfunzione del microcircolo, insieme al forte rilascio degli ormoni dello stress.

Le aritmie più gravi, come fibrillazione ventricolare, tachicardia ventricolare sostenuta o torsione di punta (una forma rara e distintiva di tachicardia ventricolare polimorfica), sono associate a una mortalità del 20%, ma anche quelle meno pericolose, come la tachicardia ventricolare non sostenuta o le extrasistoli ventricolari, non vanno sottovalutate: in questi casi la mortalità può arrivare al 17%.

In questi casi i pazienti devono essere monitorati attentamente fino a che il cuore non torna a valori normali. In alcuni casi, si prende in considerazione l’uso di un defibrillatore impiantabile o, temporaneamente, di un defibrillatore indossabile. Ma per ora, la strategia più sensata è una gestione personalizzata, basata sulle caratteristiche specifiche di ciascun paziente. Nella maggior parte dei casi, con le cure adeguate e un attento monitoraggio, il cuore tende a riprendersi completamente nel giro di qualche settimana [11].

La trombosi e l’embolia, invece, sono complicanze piuttosto comuni nella sindrome di Takotsubo, e possono avere conseguenze anche gravi. Si stima che colpiscano circa il 14% dei pazienti nella fase acuta o subacuta della malattia,

peggiorando sensibilmente la prognosi a lungo termine.

Una delle manifestazioni più pericolose è la formazione di un trombo nella parete interna del ventricolo sinistro, in particolare nelle zone che risultano immobili (acinetiche) durante l’episodio. Questo trombo può staccarsi e viaggiare verso il cervello, causando un ictus ischemico.

Bibliografia

©

1. Ravindran J, Brieger D. Clinical perspectives: Takotsubo cardiomyopathy. Intern Med J. 2024 Nov;54(11):1785-1795

Molti esperti suggeriscono di iniziare una terapia anticoagulante in tutti i pazienti che presentano:

- una grave compromissione della funzione ventricolare; - la forma apicale classica (quella a “trappola per polpi”); - la presenza di un trombo nel ventricolo sinistro.

In genere, si prosegue con gli anticoagulanti per circa 3 mesi o comunque fino a quando il movimento delle pareti cardiache torna alla normalità. Anche dopo la guarigione apparente del cuore, il rischio non scompare del tutto: alcuni studi riportano un tasso di ictus pari all’1,7% per paziente all’anno, anche dopo il ripristino della funzione ventricolare. Tuttavia, non ci sono ancora studi certi che indichino se sia utile mantenere l’anticoagulante nel lungo termine in questi casi. Quindi, al momento, la decisione deve essere personalizzata [12].

Conclusioni

Anche se dopo un episodio di Takotsubo il cuore sembra tornare a funzionare normalmente, non sempre il recupero è completo. Il muscolo cardiaco può riportare piccoli danni che, col tempo, possono influenzare la capacità di fare sforzi e causare fastidi persistenti. Questo ci dice che la Takotsubo non è una condizione da sottovalutare. Serve attenzione anche dopo la guarigione, con controlli regolari e un occhio di riguardo per chi ha più fattori di rischio. C’è ancora molto da capire su come prevenire le ricadute e proteggere meglio la salute del cuore nel lungo periodo.

2. Lyon AR, Bossone E, Schneider B, Sechtem U, Citro R, Underwood SR, et al. Current state of knowledge on Takotsubo syndrome: a Position Statement from the Taskforce on Takotsubo Syndrome of the Heart Failure Association of the European Society of Cardiology. Eur J Heart Fail. 2016 Jan;18(1):8-27

3. Tranter MH, Wright PT, Sikkel MB, Lyon AR. Takotsubo cardiomyopathy: the pathophysiology. Heart Fail Clin. 2013 Apr;9(2):187-96, viii-ix

4. Paur H, Wright PT, Sikkel MB, Tranter MH, Mansfield C, O’Gara P et al.High levels of circulating epinephrinetrigger apical cardiodepression in aβ2-adrenergic receptor/Gi-dependentmanner: a new model of Takotsubocardiomyopathy. Circulation 2012; 126:697–706

5. Miyake R, Ohtani K, Hashimoto T,Yada R, Sato T, Shojima Y et al.Takotsubo syndrome in a hearttransplant recipient with poor cardiacsympathetic reinnervation. ESC HeartFail 2020; 7: 1145–9

6. Singh T, Khan H, Gamble DT, Scally C,Newby DE, Dawson D. Takotsubosyndrome: pathophysiology, emergingconcepts, and clinical implications.Circulation 2022; 145: 1002–19

7. Gianni M, Dentali F, Grandi AM,Sumner G, Hiralal R, Lonn E. Apicalballooning syndrome or Takotsubocardiomyopathy: a systematic review.Eur Heart J 2006; 27: 1523–9

8. Randhawa MS, Dhillon AS, Taylor HC,Sun Z, Desai MY. Diagnostic utility ofcardiac biomarkers in discriminatingTakotsubo cardiomyopathy from acutemyocardial infarction. J Card Fail 2014;20: 2–8

9. Scally C, Abbas H, Ahearn T,Srinivasan J, Mezincescu A, Rudd Aet al. Myocardial and systemicinflammation in acute stress-induced(Takotsubo) cardiomyopathy. Circulation2019; 139: 1581–92

10. Vallabhajosyula S, Barsness GW, Herrmann J, Anavekar NS, Gulati R, Prasad A. Comparison of complications and in-hospital mortality in Takotsubo (apical ballooning/stress) cardiomyopathy versus acute myocardial infarction. Am J Cardiol 2020; 132: 29–35

11. Stiermaier T, Rommel KP, Eitel C,Möller C, Graf T, Desch S et al. Management of arrhythmias inpatients with Takotsubocardiomyopathy: is the implantation ofpermanent devices necessary? HeartRhythm 2016; 13: 1979–86

12. Heckle MR, McCoy CW, Akinseye OA,Khouzam RN. Stress-induced thrombus: prevalence of thromboembolic events and the role of anticoagulation in Takotsubo cardiomyopathy. Ann TranslMed 2018; 6:4

SCREENING GENOMICO NEONATALE (gNBS)

NUOVA FRONTIERA

DELLA MEDICINA PREDITTIVA

Nonostante i costi quest’esame resta un’opportunità senza precedenti nello screening delle malattie

di Antonio Novelli* e Emanuele Agolini*

Lo screening neonatale permette di individuare precocemente numerose malattie entro le prime 48-72 ore di vita, attraverso il prelievo di sangue dal tallone del neonato. In Europa è diffuso lo screening metabolico, che in Italia permette di rilevare 47 patologie metaboliche (tra cui la fenilchetonuria), la fibrosi cistica e l’ipotiroidismo congenito.

A questo oggi è possibile affiancare lo screening genetico neonatale (gNBS), che analizza direttamente il DNA grazie a tecnologie di Next Generation Sequencing (NGS), permettendo di identificare molte più malattie, anche in assenza di alterazioni metaboliche. La genomica rappresenta una delle più grandi rivoluzioni della medicina moderna, grazie al crollo dei costi e dei tempi del sequenziamento del genoma. Il Whole Genome Sequencing (WGS) consente diagnosi più rapide e accurate, essenziali soprattutto per neonati con patologie gravi e urgenti, per le quali e disponibile un trattamento specifico. Inoltre, il WGS aiuta a scoprire nuovi geni malattia, fornisce informazioni su meccanismi epigenetici, supporta la medicina di precisione e migliora la consulenza genetica e riproduttiva.

Sebbene rimangano sfide legate a costi, interpretazione dei dati e aspetti etici, la genomica offre un’opportunità senza precedenti per migliorare la diagnosi, la prevenzione e la cura di malattie rare e complesse, rendendo la medicina più personalizzata, efficace e umana. La genomica non è solo scienza: è una promessa, è una nuova visione della medicina, capace di coniugare innovazione, etica e umanità. Il futuro è già cominciato - e non c’è dubbio che parli il linguaggio del DNA.

Lo screening genomico neonatale è un campo in rapida espansione, con numerosi progetti in tutto il mondo che mirano a integrare il sequenziamento del genoma nei programmi di screening precoce per neonati. Questi progetti puntano a identificare condizioni genetiche rare e malattie potenzialmente gravi già nei primi giorni di vita, consentendo diagnosi più rapide e trattamenti precoci.

Alcuni dei progetti più noti includono:

• Il progetto Genomic Medicine Service del Regno Unito (https://www.genomicsengland.co.uk/genomic-medicine/ nhs-gms): avviato con l’obiettivo di utilizzare il sequenziamento dell’intero genoma per diagnosticare malattie genetiche nei neonati e nelle persone con condizioni rare, migliorando la medicina di precisione.

• Il programma BeginNGS del Rady’s Children Hospital di San Diego (https://radygenomics.org/begin-ngs-newborn-sequencing/): un’iniziativa che esplora come il sequenziamento genetico possa migliorare le diagnosi

e il trattamento delle malattie genetiche rare nei neonati. Questo progetto valuta anche gli aspetti etici e pratici dell’integrazione del sequenziamento genomico nella pratica clinica.

Nel nostro Paese ci sono progetti pilota come:

• Baby Wolf (WGS nei neonati ricoverati NICU/PICU condizioni cliniche gravi per accelerare la diagnosi e la cura);

• il progetto RINGS, sequenziamento del genoma del neonato nella regione Lombardia (https://eventi. regione.lombardia.it/it/rings-sequenziamento-del-genoma-del-neonato-fattibilit-ed-implicazioni);

• il progetto genoma Puglia (https://www.sanita.puglia.it/web/asl-bari/archivio-news);

• il nuovo progetto di ricerca Screen4Care (S4C) Screen4Care offre una strategia di ricerca all’avanguardia che mira ad abbreviare il complesso percorso diagnostico delle malattie rare, attraverso due pilastri fondamentali: lo screening genetico neonatale e l’impiego di tecnologie digitali avanzate. Chi convive con una malattia rara affronta spesso un’odissea diagnostica lunga e frustrante: in media sono necessari circa otto anni per arrivare ad una diagnosi definitiva lungo un percorso che prevede visite ed esami clinici spesso inconcludenti, con diagnosi potenzialmente errate che possono portare a trattamenti inefficaci e ad un impiego non ottimale delle risorse sanitarie. Sebbene le malattie rare colpiscano complessivamente oltre 30 milioni di persone in Europa, ciascuna condizione individualmente interessa meno di una persona su 2.000. Questa bassa prevalenza ha comportato una scarsa ricerca scientifica ed una limitata esperienza in questo campo. Il peso dell’incertezza diagnostica grava non solo sui pazienti, ma

anche sulle loro famiglie, sui caregiver, sui medici e sull’intero sistema socio-sanitario. Attualmente sono note oltre 7.000 malattie rare, per lo più di origine genetica. Molte di esse sono gravi o potenzialmente letali, specialmente se non identificate e trattate tempestivamente. Fornire una diagnosi precoce e trattamenti adeguati rappresenta una delle maggiori sfide sanitarie globali contemporanee.

In questo contesto si inserisce Screen4Care (S4C), un progetto finanziato dall’Innovative Medicines Initiative 2 Joint Undertaking (IMI 2 JU), frutto della collaborazione tra l’Unione Europea e la Federazione europea delle industrie e associazioni farmaceutiche (EFPIA) e le Associazioni dei pazienti. Il progetto, ha una durata quinquennale e un budget di 25 milioni di euro, Screen4Care punta a rivoluzionare il paradigma diagnostico delle malattie rare, infatti mira a soddisfare l’esigenza urgente di accelerare i tempi per la diagnosi delle malattie genetiche rare. Il progetto, coordinato dall’Università di Ferrara dalla Prof.ssa Alessandra Ferlini, offre lo screening genetico neonatale in Italia (Ferrara, Modena, Roma) ed in alcune province in altri stati europei (Germania, Francia) e coinvolge una popolazione di 18.000 neonati.

Dal punto di vista pratico, il progetto prevede una informativa con colloquio per una consulenza genetica per la raccolta del consenso informato per la partecipazione allo studio da parte dei genitori/tutori legali e successivamente la raccolta dei campioni biologici che avviene in modo identico alla screening neonatale biochimico; il metodo utilizzato è il Dried Blood Spot (DBS), che si basa sull’utilizzo di gocce di sangue prelevate dal tallone di tutti i neonati, posizionate su un cartoncino disegnato e dedicato al progetto. Il progetto si fonda su due assi portanti: lo screening genomico neonatale e l’impiego di soluzioni digitali innovative. Poiché oltre il 70% delle malattie rare è di origine genetica e quasi il 90% si manifesta durante l’infanzia, lo screening genomico neonatale rappresenta uno strumento cruciale per una diagnosi precoce. In questo caso, i neonati vengono sottoposti a test genetici subito dopo la nascita per individuare potenziali patologie ancora asintomatiche ma clinicamente rilevanti. Screen4care si avvale delle tecnologie di sequenziamento di nuova generazione (NGS) per analizzare un pannello di 245 geni (Fig.3), correlati a malattie genetiche rare trattabili, per le quali è disponibile un trattamento che sia approvato da enti come l’EMA e che possa includere un farmaco, una terapia genica, un regime dietetico specifico o qualsiasi altra procedura terapeutica (ad esempio il trapianto di midollo) disponibile in Italia oppure nel resto d’Europa. In questo progetto l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma rappresenta un partner fondamentale, sia per aver collaborato allo sviluppo di protocolli clinico-diagnostici che per rappresentare l’hub di se -

quenziamento genomico per tutti i campioni dei neonati arruolati nell’ambito del progetto. Da gennaio 2025 ad oggi sono stati raccolti e processati 1200 campioni provenienti da Francia e Italia. Per i neonati che manifestano sintomi, ma risultano negativi allo screening iniziale, è possibile eseguire il sequenziamento dell’intero genoma (WGS) per una valutazione genetica più approfondita. Se viene identificata una malattia rara trattabile, il progetto assicura che le famiglie vengano indirizzate verso strutture sanitarie locali o centri di eccellenza all’interno delle Reti di Riferimento Europee (ERN).

Il secondo pilastro centrale include soluzioni digitali innovative, come lo Screen4Care Meta-Symptom Checker e la Screen4Care Virtual Clinic. Screen4Care mira a utilizzare la potenza di queste tecnologie digitali innovative per migliorare l’accuratezza e la velocità della diagnosi del paziente attraverso due metodi: gli algoritmi predittivi ed i sistemi integrati di cartelle cliniche elettroniche (EHR) che segnaleranno i pazienti a rischio di malattie rare in base ai dati presenti nelle loro EHR. Il “Symptom Checker” sviluppato all’interno del progetto aiuterà pazienti e clinici ad interpretare i sintomi e segni clinici ricorrenti, spesso riportati nel corso delle visite mediche. La Screen4Care Virtual Clinic accompagnerà il paziente dal sospetto alla conferma diagnostica, offrendo anche un supporto post-diagnosi attraverso spazi virtuali per il confronto, la condivisione di esperienze e la creazione di reti tra pazienti e famiglie.

Attraverso questi strumenti, Screen4Care ambisce a favorire la trasformazione digitale del sistema sanitario europeo, migliorando l’efficacia diagnostica e rafforzando il ruolo attivo dei pazienti. È fondamentale sottolineare che questo studio non intende in alcun modo sostituire lo screening neonatale esteso basato su test biochimici - ambito in cui l’Italia rappresenta un’eccellenza a livello internazionale - bensì offrire un’opportunità aggiuntiva per tutti i neonati, ampliando il potenziale diagnostico fin dalla nascita.

Bibliografia

1. Patient preferences in genetic newborn screening for rare diseases: study protocol di Martin S, et al.

BMJ Open. 2024 Apr 19;14(4):e081835. doi: 10.1136/bmjopen-2023-081835.

2. Genetic newborn screening and digital technologies: A project protocol based on a dual approach to shorten the rare diseases diagnostic path in Europe di Garnier N, et al. PLoS One. 2023 Nov 22;18(11):e0293503. doi: 10.1371/journal.pone.0293503. eCollection 2023.

3. Rare diseases’ genetic newborn screening as the gateway to future genomic medicine: the Screen4Care EU-IMI project di Ferlini A et Screen4Care consortium. Orphanet J Rare Dis. 2023 Oct 4;18(1):310. doi: 10.1186/s13023-023-02916-x.

LA RIVOLUZIONE VERDE

HA SFAMATO MILIARDI DI PERSONE

Le innovazioni nel settore dell’agricoltura hanno contribuito a migliorare la qualità della vita di molti Paesi di Marco Saroglia*

In seguito alla rivoluzione agricola del Neolitico, quando il mondo era abitato da pochi milioni di persone, abbiamo iniziato ad associare la crescita della popolazione umana alla maggior disponibilità di risorsa alimentare. Con l’introduzione dell’agricoltura e dell’allevamento, la popolazione abbandonò il nomadismo finalizzato alla ricerca del cibo, concentrandosi oltre che sulle coltivazioni e sugli allevamenti, sulla difesa dei villaggi. Con l’ampliamento della comunità, era necessario rendere più produttivi i terreni, con il lavoro e con la fertilizzazione. L’azoto rappresentava il fattore limitante di questo circolo e lo sarebbe stato ancora per almeno dieci millenni. Nell’anno mille si contavano 400 milioni di abitanti, diventati 450 milioni nel millecinquecento e poco meno di un miliardo alla fine del XIX secolo. È nel ‘900, con la sempre maggiore disponibilità di cibo, grazie ai fertilizzanti, all’irrigazione e agli antiparassitari, oltre che al miglioramento genetico delle colture, che si entra nella “rivoluzione verde”: la popolazione supera i 6 miliardi alla fine del XX secolo, avviandosi verso una previsione prossima ai 10 miliardi, per la metà del XXI secolo.

Il progresso segnato dalla disponibilità quasi illimitata di fertilizzanti azotati, grazie al processo Haber-Bosch per la sintesi dell’ammoniaca, quindi dalle nuove tecnologie nel campo dell’agricoltura ha dato vita alla “rivoluzione verde”, espressione coniata, nel 1968, da William Gaud 1, allora direttore dell’USAID (Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale). Queste innovazioni nel settore delle pratiche agricole sono state avviate negli anni ‘40 in Messico, con interventi di tipo gestionale, idraulico, biologico ed in seguito, anche biotecnologico ed ambientale. Le americane “Ford Foundation” e “Rockefeller Foundation” furono fortemente coinvolte nel suo sviluppo iniziale. Leader chiave in questo processo innovativo fu Norman Ernest Borlaug, genetista agrario considerato il “padre” della rivoluzione Verde, insignito nel 1970 del premio Nobel per la pace. A Borlaug viene attribuito il merito di aver salvato oltre un miliardo di persone dalla fame. Altre importanti figure scientifiche furono M.S. Swaminathan, che ha avviato la rivoluzione verde in India e l’agronomo cinese Yuan Longping, noto per lo sviluppo delle prime varietà di riso ibrido negli anni ‘70, poi coltivato in dozzine di Paesi in Africa, America e Asia, fornendo una solida fonte di cibo in aree ad alto rischio di carestia.

L’approccio di base fu lo sviluppo di varietà di cereali ad alta resa, l’espansione delle infrastrutture di irrigazione, la modernizzazione delle tecniche di gestione, la distribuzione di semi ibridati, fertilizzanti sintetici e pesticidi agli agricoltori. Quando le colture iniziarono a raggiungere il massimo miglioramento possibile attraverso l’allevamento selettivo, furono sviluppate tecnologie di modifica genetica per consentire continuamente ulteriori progressi. Con la fertilizzazione, le piante di grano crescevano alte con la spiga appesantita e si allettavano, rendendo quasi impossibile la mietitura. Le ricerche di Borlaug portarono a sviluppare nuove varietà di grano, riso e altre

* Prof. Aquacoltura e Biotecnologie Marine

colture ad alta produttività, in un momento storico in cui pareva che l’aumento della popolazione mondiale avesse superato la capacità dell’agricoltura di produrre cibo. Nel 1960 il Messico produceva 1.400 chilogrammi di grano per ettaro. Solo tre anni dopo, nel 1963, utilizzando la varietà nana che Borlaug aveva sviluppato, le rese passarono a 2.700 chilogrammi per ettaro. Il Messico quindi, per la prima volta nella storia, divenne esportatore di cereali, mentre l’India già negli anni ’80 divenne autosufficiente dal punto di vista alimentare e milioni di persone furono salvate dalla fame.

In conclusione, se nel 1999 avessimo ancora avuto le rese mondiali di cereali del 1961 (1.531 chilogrammi per ettaro), avremmo avuto bisogno di quasi 850 milioni di ettari di terreno in più, e della stessa qualità, per produrre i 2,06 miliardi di tonnellate di cereali prodotti nel 1999. È ovvio che quella terra non era disponibile, e, certamente, non nella popolosa Asia.

Le criticità della rivoluzione verde

Nonostante la bontà di questo processo innovativo nel mondo dell’agricoltura, la rivoluzione verde presenta criticità. Le criticità si concentrano su aspetti ambientali, sociali ed economici, evidenziando come questo movimento abbia avuto impatti significativi ma non sempre positivi. Tra le problematiche ambientali, la diffusione di ibridi e sementi geneticamente modificate ha ridotto drasticamente la varietà di colture, con alcune regioni che hanno perso fino al 90% delle varietà di sementi disponibili. Questo riduce la capacità di adattamento delle colture e compromette la variabilità della dieta delle popolazioni. Inoltre, l’agricoltura intensiva richiede più energia per la produzione, spesso derivata da combustibili fossili, au -

1Gaud utilizzò questo termine per descrivere le innovazioni agricole e la diffusione di nuove tecnologie che stavano trasformando l’agricoltura nei Paesi in via di sviluppo dell’America Latina e dell’Asia.

mentando la dipendenza da questi ultimi. L’uso massiccio di fertilizzanti e pesticidi chimici provoca inquinamento delle acque e del suolo. L’uso intensivo di fertilizzanti chimici e l’irrigazione eccessiva possono portare a salinizzazione, erosione e perdita di nutrienti nel suolo.

Tra le problematiche sociali, ricordiamo che la rivoluzione verde ha favorito l’agricoltura su larga scala, marginalizzando i piccoli contadini che non possono competere con le grandi aziende agricole. I contadini dipendono spesso dalle multinazionali per l’acquisto di sementi OGM e prodotti chimici specifici. Inoltre, per quanto riguarda le problematiche nutrizionali, le sementi della rivoluzione verde sono spesso selezionate per la resa e l’aspetto, piuttosto che per il valore nutritivo, portando a una riduzione della qualità nutrizionale dei prodotti. Nonostante l’aumento della produzione alimentare, la malnutrizione rimane un problema nei Paesi in via di sviluppo a causa della dieta limitata basata su pochi cereali.

Le nuove biotecnologie al servizio di un’agricoltura che produce nonostante il clima estremo e senza ricorrere ai pesticidi

Oltre due secoli fa, l’economista Thomas Robert Malthus aveva lanciato l’allarme in quanto la popolazione fosse aumentata più velocemente delle scorte alimentari. Nel frattempo, però, in particolare negli ultimi 20 anni, la biotecnologia ha sviluppato nuove e inestimabili metodologie e prodotti scientifici, i quali necessitano solamente di un attivo supporto finanziario e organizzativo per trovare applicazione nella produzione agricola. Nel suo discorso di ricevimento del premio Nobel, nel 1970, Norman Ernest Borlaug affermò che il mondo avrebbe avuto già allora a disposizione, o ad uno stadio di ricerca molto avanzato, la tecnologia per sfamare una popolazione di 10 miliardi di persone: il problema sarebbe stato piuttosto l’accettazione delle nuove biotecnologie, spesso ostacolate da estremisti con motivazioni talvolta non precisamente scientifiche (Borlaug, 2000).

Soltanto tra il 1996 ed il 1999, l’area coltivata con colture transgeniche è aumentata da 1,7 a 39,9 milioni di ettari (James, 1999). Le varietà transgeniche e gli ibridi di cotone, mais e patate, contenenti geni di Bacillus thuringiensis che controllano efficacemente una serie di pericolosi insetti nocivi, sono state introdotte con successo a livello commerciale negli Stati Uniti oltre che in altri Paesi e l’uso di tali varietà ha ridotto notevolmente la necessità di insetticidi.

Una maggiore tolleranza alle condizioni abiotiche estreme, come siccità, temperature instabili, carenza idrica, diventa possibile sviluppando nuove elaborazioni genetiche, adottando tecniche di editing genetico quali CRISPR/Cas9, (Jinek et al., 2012) accelerando il processo

di sviluppo senza creazione di transgenici. Saremmo in grado di ottenere più raccolto per goccia d’acqua, progettando piante con ridotto fabbisogno idrico. La rivoluzione verde iniziata negli anni ’40 del secolo scorso, in realtà è tuttora in atto e dovrà essere continuamente implementata, se vorremo superare l’obiettivo prefissato per l’ormai vicina metà di questo secolo. I biologi avranno una grande responsabilità di servizio nei confronti dei fabbisogni e dell’informazione della società, con il compito di individuare nuove soluzioni scientifiche ed i ragionevoli compromessi per l’uso sostenibile delle risorse, sviluppare nuove conoscenze, divulgarle e comunicare, ben consci che la disponibilità dei fabbisogni alimentari nell’ormai prossimo futuro, dipenderà anche dal loro lavoro.

© TTstudio/shutterstock.com

Bibliografia

1. Bourlag, N.E., 2000. Ending World Hunger. The Promise of Biotechnology and the Threat of Antiscience. Zealotry Plant Physiology, October 2000, Vol. 124, pp. 487–490.

2. James, C., 1999. Global Review of Commercialized Transgenic Crops: 1999. International Service for the Acquisition of Agri-biotechnology Applications Briefs No.12 Preview. International Service for the Acquisition of Agri-biotechnology Applications, Ithaca, NY.

3. Jinek et al., 2012. A programmable dual-RNA–guided DNA endonuclease in adaptive bacterial immunity. Science, 337(6096):816-821. DOI: 10.1126/science.1225829

4. Modak, F.M., 2002. Haber Process for Ammonia Synthesis. Resonance, August 2002, 69-77 pp. 5. Smill, V., 1999. Detonator of the Population explosion. Nature, 29 July 1999, 400:415.

6. Weisdorf J.L., 2005. From Foraging To Farming: Explaining The Neolithic Revolution. The Journal of Economic Survey, 19(4):561-586 https://doi.org/10.1111/j.0950-0804.2005.00259.x

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INDICATORI BIOLOGICI ED ECOTOSSICOLOGICI IN SUOLI E SITI CONTAMINATI

L’articolo è associato al corso Fad da 6 crediti Ecm disponibile nell’area riservata MyBio

L’inquinamento ambientale causa 9 milioni di morti premature l’anno nel mondo (OMS). Il principale problema nell’appurare il grado di inquinamento o di degrado di un ambiente sta nel riuscire a dare una definizione dello stato di normalità di un sistema. La concentrazione di background cambia con la sostanza e lo specifico ambiente. Diversificate sono anche le definizioni di contaminante, inquinante, e xenobiotico. In generale le sostanze tossiche immesse nell’ambiente producono risposte avverse (effetto) in un sistema biologico, seriamente danneggiando la sua struttura o funzione o producendo morte. La sensibilità verso una certa sostanza cambia con il livello biologico considerato diminuendo all’aumentare della complessità. Questo concetto è fondamentale per la scelta dei saggi da allestire che devono rappresentare un compromesso tra sensibilità, realismo ecologico, tempo di esecuzione e costi.

Il destino delle sostanze in un ecosistema dipende da una serie di fattori. Sostanze immesse nell’ambiente per specifici scopi ed in varia maniera si muovono dal punto di immissione (fase ambientale: aria, acqua, suolo) verso altri comparti ambientali. Il comparto ambientale per il quale è manifestata la maggiore affinità può fungere da serbatoio. La bioconcentrazione, il bioaccumulo e la biomagnificazione danno una indicazione del processo di assunzione e permanenza in una matrice ambientale.

La maggior parte delle caratteristiche che contribuiscono a definire il concetto di qualità ambientale non è ana-

* Prof. Ecologia ed Ecotossicologia

lizzabile direttamente attraverso l’uso di unità di misura. Gli indicatori ambientali sono quei parametri ambientali di natura fisica, chimica e biologica che risultano particolarmente sensibili ad un disturbo e, pertanto, probabilmente correlati al cambiamento delle condizioni ambientali. Un buon indicatore dovrebbe essere rappresentativo, accessibile, affidabile ed operativo.

In particolare, un indicatore ambientale può essere costituito da un parametro direttamente misurabile in un dato comparto ambientale (es. temperatura, esposizione alla radiazione solare, pH, concentrazione di sostanze, concentrazione di enzimi, respirazione etc.) oppure può essere rappresentato da un parametro che abbia una relazione razionale o empirica stretta con un fenomeno o una caratteristica ambientale. Di norma, difficilmente la qualità di un dato sistema ambientale può essere riassunta attraverso un unico parametro indicatore; più frequentemente la rappresentazione di tale qualità ha bisogno delle informazioni provenienti da molteplici parametri, che possono contribuire con importanza relativa diversa alla sua definizione. Il suolo rappresenta la base fisica degli insediamenti umani, l’habitat elettivo per le piante superiori e numerose specie animali, una zona di deposito e produzione di biomassa ed, inoltre, esplica funzioni di filtro, tamponamento e trasformazione fondamentali per la protezione delle acque di falda. Il suolo, inoltre, ospita microrganismi in grado di degradare la sostanza organica morta, e liberare i nutrienti altrimenti immobilizzati nella necromassa. Per questi motivi una corretta e razionale gestione del suolo risulta fondamentale nella protezione dell’ambiente. A tale proposito si rende necessaria un’accurata conoscenza della risorsa suolo ed uno

di Anna De Marco*

studio approfondito degli strumenti necessari per raggiungere tale conoscenza, affinché si possa arrivare a definirne la qualità, valutare l’eventuale insorgenza di processi degradativi e, infine, conservare, valorizzare e recuperare tale risorsa. Quindi la salvaguardia della risorsa suolo è un obiettivo indispensabile per una corretta gestione del territorio. La perdita di suolo ed in particolare di sostanza organica, causata da processi erosivi naturali o indotti e favoriti dall’uomo, e la loro influenza sulle caratteristiche chimico-fisiche e soprattutto biologiche del suolo, possono comportare una alterazione degli equilibri dell’intero ecosistema.

I parametri per la valutazione della qualità del suolo vanno scelti, nell’ambito delle caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, sulla base delle funzioni indagate e della scala d’indagine adottata, ma è fondamentale comunque un’integrazione tra essi, poiché le proprietà del sistema suolo sono più numerose e complesse della semplice somma delle loro parti. Data quindi l’importanza dei processi biochimici operati dai microrganismi nella formazione e nella evoluzione di un suolo, la quantità, la composizione e l’attività dei microrganismi possono fornire utili informazioni sul funzionamento e sulle risposte degli ecosistemi. Il ruolo fondamentale della componente microbica del suolo, nel mediare i processi che in esso avvengono, suggerisce che tale componente può rappresentare un pronto e sensibile indicatore dei processi di alterazione della sostanza organica del suolo.

Per valutare l’effetto tossico sulle comunità microbiche del suolo, sono proposte misure di biomassa e di attività microbica del suolo e la valutazione di alcuni indici, risultato della combinazione di differenti parametri microbici. Il quoziente microbico (carbonio della biomassa microbica come percentuale del carbonio organico) può indicare cambiamenti nei processi del suolo e nella salute del suolo e può essere più utile del C microbico o del C organico considerati singolarmente. Misure del metabolismo microbico possono essere utilizzate per meglio descrivere il funzionamento delle comunità microbiche del suolo, come per esempio il quoziente metabolico qCO2 (rapporto di C-CO2 evoluto dal suolo sul C microbico) che rappresenta l’efficienza microbica.

È noto che il qCO2 è più alto in condizioni sfavorevoli piuttosto che in condizioni favorevoli ed è utilizzato per investigare sullo sviluppo del suolo, sulla qualità del substrato e su eventuali condizioni di stress dell’ecosistema. Anche i funghi sono influenzati fortemente dall’apporto di sostanze tossiche al suolo e misure di biomassa fungina possono dare utili informazioni sulla composizione della comunità microbica, dal momento che l’importanza della biodiversità del biota del suolo per salvaguardare l’integrità, il funzionamento e la stabilità degli ecosistemi terrestri è ormai comunemente riconosciuta. Un declino nel numero di specie e nella diversità funzionale degli organismi del suolo può negativamente influenzare la resistenza del suolo ad un disturbo.

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