Il Giornale dei Biologi - N. 5 - Maggio 2021

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Giornale dei Biologi

Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132

Maggio 2021 Anno IV - N. 5

A SCUOLA DI GENOMICA

Intesa tra Ordine Nazionale dei Biologi e Dante Labs, azienda leader nel sequenziamento del DNA umano. D’Anna (ONB): “I biologi potranno formarsi in laboratori tecnologicamente avanzati”

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Sommario

Sommario EDITORIALE 3

Aprire al futuro di Vincenzo D’Anna

PRIMO PIANO 6

64

Covid: miglioramento in tutta Italia di Rino Dazzo

8

Onb e Dante Labs per l’alta formazione di Domenico Esposito

10

Bio, una rivoluzione epocale di Stefania Papa

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SALUTE 18

Scoperto enzima che controlla formazione metastasi di Emilia Monti

20

Tumori: scoperto il pezzo che ne spiega la crescita di Domenico Esposito

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Troppo raro test “anti-chemio” al seno di Emilia Monti

22

Tumore al polmone e terapia personalizzata di Pasquale Santilio

24

La dieta delle cellule staminali embrionali di Marco Modugno

26

Virus Herpes: scoperto come si moltiplica di Domenico Esposito

29

In Israele si lavora al farmaco anti-covid di Chiara Di Martino

30

Il cervello e la proteina dell’invecchiamento di Domenico Esposito

31

Cervello, luce sul ruolo delle cellule “stellate” di Emilia Monti

32

Sclerosi: un canale blocca l’infiammazione di Carmen Paradiso

33

La metodologia di Galeno, il medico filosofo di Barbara Ciardullo

34

Binge drinking “abitudine” per 3,8 mln di italiani di Emilia Monti

36

Trigliceridi, pericolosi anche per i sani di Domenico Esposito

INTERVISTE 14

16

Covid-19, a Napoli si lavora al vaccino in pillole di Chiara Di Martino Nadir Arber: “ora somministrato in ospedale. Puntiamo a terapia domiciliare” di Chiara Di Martino


Sommario

BENI CULTURALI

72 38

Gli scarti del limone fanno bene al cuore di Gianpaolo Palazzo

40

I capelli delle donne di Huangluo di Biancamaria Mancini

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Cellulite e trattamenti mirati di Carla Cimmino

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Dalla Grotta Guattari del Circeo nuove scoperte sui Neanderthal di Pietro Sapia

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Giardino di Ninfa, “Il parco più bello del Pianeta” di Rino Dazzo

SPORT

AMBIENTE

68

44

Gli eroi dimenticati del suolo di Giacomo Talignani

Pedote, l’Ironman della vela di Antonino Palumbo

72

46

La mobilità in città è sempre più green di Gianpaolo Palazzo

Dal volley giocato al training: la nuova Nadia di Antonino Palumbo

74

Proteggono noi, ma non l’ambiente di Giacomo Talignani

Prove di normalità negli stadi: riecco i tifosi di Antonino Palumbo

75

Il sistema di navigazione degli squali di Giacomo Talignani

Gregorio Paltrinieri, il signore delle acque di Antonino Palumbo

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BREVI

48 50 52

Ambiente: arrivano le arnie elettroniche di Gianpaolo Palazzo

54

La microbiologia contro le microplastiche di Michelangelo Ottaviano

55

L’agricoltura sostenibile e il modello Grand Farm di Michelangelo Ottaviano

56

Neve e vegetazione: cambia il global warming di Pasquale Santilio

57

Protesi ossee migliori grazie ai meteoriti di Pasquale Santilio

INNOVAZIONE 58

LAVORO 78

SCIENZE 80

Alterazioni dell’EEG durante veglia e sonno nella malattia di Alzheimer di Valentina Arcovio

84

Fibromi uterini, una nuova terapia diminuisce perdite e dolore di Laura Eduati

88

La funzione della Vitamina D sul nostro organismo

In Liguria la prima “smart bay” italiana di Felicia Frisi

59

Nuova vita per le acque reflue urbane di Felicia Frisi

60

Veicoli più leggeri con il materiale antifuoco di Pasquale Santilio

Concorsi pubblici per Biologi

Emanuele Rondina

ECM 90

Attività antivirale delle proteine del siero di latte

di di Valentina Gallo, Francesco Giansanti e Giovanni Antonini


Editoriale

Aprire al futuro di Vincenzo D’Anna Presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi

Q

uel che è noto non è nuo- legato alle scienze biologiche, per potervo e quel che è nuovo ne trarre spunto di indirizzo alle nuove non è noto. È questo epi- generazioni. L’Ordine dei Biologi fin gramma, espressione della dall’insediamento del nuovo consiglio si

logica, ad aver indirizzato il Consiglio è posizionato alla frontiera degli eventi dell’Ordine ad organizzare due grossi eventi dedicati alla più giovane e versatile delle scienze biologiche: la genomica. Chi guida una comunità di professionisti che svolgono una qualun-

scientifici, ha manifestato Guardare lontano significa avere la capacità di recepire tutto quello che emerge nel mondo scientifico legato alle scienze biologiche, per poi trarne spunto

prima ed organizzato poi tutta una serie di eventi che hanno spaziato in tutte le molteplici direzioni di inserimento e pratica professionale che interes-

que delle ottanta diverse attività profes- sano gli iscritti all’Albo. Comunicare, sionali che oggi praticano i biologi, deve informare, formare, fare esperienza prasaper guardare un poco più lontano di tica, sono i capisaldi attraverso i quali abcoloro che sono guidati.

biamo inteso far passare il rinnovamen-

Guardare lontano significa innanzi- to gestionale ed organizzativo dell’Ente tutto avere la capacità di recepire tutto pubblico, sussidiario della pubblica amquello che emerge nel mondo scientifico ministrazione che rappresenta i biologi GdB | Maggio 2021

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Editoriale

italiani. Senza gli strumenti di comuni- figlia del sentito dire, della maldicenza, cazione, la ripianificazione della macchi- dei luoghi comuni che ci siamo battuti na organizzativa e dei servizi, la costante fin dal nostro insediamento. Superare i apertura alla conoscenza del nuovo ed compartimenti stagni, avvicinare tutti i al rilancio di quello di antico abbando- biologi al confronto ed all’informazione nato a se stesso nel passato, non sarem- è stato lo strumento per dissipare malinmo oggi approdati alla conoscenza delle tesi e menzogne. decine di nuove strade oppure ai vecchi

Se ci accingiamo a parlare di genomi-

percorsi professionali rinnovati ed ag- ca, di medicina personalizzata, di metogiornati. Abbiamo innanzi a noi, in quanto biologi, decine di possibili diverse attività da esercitare, e ciascuna di queste strade apre ad inaspettate occasioni lavorative. Tanti nuovi itinerari che

diche di avanguardia sul Abbiamo innanzi a noi, in quanto biologi, decine di possibili attività da esercitare, e ciascuna di queste strade apre ad inaspettate occasioni lavorative

DNA, dei nuovi campi dell’eco tossicologia, degli inquinamenti da nano particelle, delle nuove bio coltivazioni, della nutrizione detossificante, della Biologia ambientale e del-

possono essere percorsi se sussistono le la epigenetica, di quella marina e della condizioni cognitive della materia, teo- acqua cultura, della catena di trasformariche e pratiche, in capo a coloro che le zione e distribuzione dei prodotti agroapercorrono. Indicare soluzioni è il mi- limentari e della loro sicurezza e salubrigliore deterrente verso i luoghi comuni tà, lo dobbiamo a quella nuova mentalità e le solite lamentazioni. Un falso con- ed a quei propositi innovativi di ONB. vincimento, ripetuto più volte innanzi a Importanti riconoscimenti legislativi per molte persone si trasforma in una veri- i biologi ormai sono alle porte e la catetà acquisita e come tale viene perpetra- goria nel suo insieme ha oggettivamente ta nel tempo. È contro questa mentalità acquisito maggior peso e rappresentan4

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Editoriale

za e la incrementerà ulteriormente nel a governarla. Quindi l’aggiornamento prossimo futuro.

teorico e pratico è imprescindibile per

La genomica credo possa rappresenta- navigare. Apprendere che ogni anno mire l’apice della vetta del rinnovamento e gliaia di studenti acquisiscono la Laurea dell’inserimento dei biologi a pieno tito- LM 61 per la scienza della nutrizione e lo nelle future prospettive professionali che si immetteranno in un’autostrada insia sanitarie che altrove. Se le malattie golfata fino a divenire non percorribile, possono essere predette e prevenute in- desta sconcerto e preoccupazione. Pegdagando direttamente sul DNA e se le gio ancora se chi acquisisce quel titolo medesime possono essere meglio comprese e curate attagliando la cura sulle singole individualità biologiche, con la medicina personalizzata, i biologi non saranno più subal-

di studio lo fa attraverso La genomica rappresenta l’apice della vetta del rinnovamento e dell’inserimento dei biologi nelle future prospettive professionali sia sanitarie che altrove

terni ad altre categorie

Università

telematiche,

magari provenienti da lauree triennali incongruenti, se non del tutto estranee alle

scienze

biologiche.

Una babele di corsi che porta migliaia di laureati

in campo sanitario. Lo stesso vale se a bussare alle porte del nostro Ordine gli eventi predittivi e terapeutici dettati infoltendo le schiere dei biologi improvdalla genomica potranno essere estesi al visati se non del tutto estranei alla biomondo vegetale, al miglioramento delle logia stessa. Nel disegno di legge sulle culture ed alla loro genuinità e salubrità. nuove lauree abilitanti si dovrebbe aver Insomma, un vasto mare si para innanzi posto un sostanziale rimedio a questa sialle attuali generazioni di biologi.

tuazione imbarazzante, che si è protratta

Ma se la nave può solcare nuove rotte per molto tempo (e molta incuria). Apricon fecondi approdi professionali, oc- re al futuro si può se si cura la qualità corre che gli equipaggi siano preparati del presente. GdB | Maggio 2021

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Primo piano

COVID: MIGLIORAMENTO IN TUTTA ITALIA Calano i ricoveri e le terapie intensive. Diminuiscono casi e decessi giornalieri e aumentano i vaccinati Si procede con progressive riaperture delle attività

di Rino Dazzo

I

n fondo al tunnel s’intravede finalmente la luce. Doveva essere il mese della svolta e a maggio, in effetti, l’auspicata accelerazione sui vaccini è arrivata. E, con essa, un ulteriore miglioramento del quadro complessivo in Italia. Un miglioramento significativo. Gli ospedali si sono svuotati, le terapie intensive sono ben al di sotto dei livelli di guardia, il numero dei nuovi casi è diminuito giorno dopo giorno, insieme a quello dei decessi. Il «rischio ragionato» di aprile, dunque, non ha provocato contraccolpi. Anzi, ora si possono programmare con fiducia riaperture progressive per le prossime settimane, confortate da numeri e indicatori che evidenziano gli effetti positivi della campagna di immunizzazione. In trenta giorni il numero degli attualmente positivi è sceso di quasi 200mila unità, dai 442.771 del 28 aprile ai 246.270 del 28 maggio. I ricoverati in terapia intensiva sono passati da 2.711 a 1.142, quelli nei reparti ordinari da 19.860 a 7.192. E la media dei decessi giornalieri si è abbassata in modo drastico: dagli oltre 300 del mese di aprile ai 179 di maggio. Ancora troppi, ma ben lontani dalle drammatiche cifre dei mesi invernali. Tanto che ora è possibile

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davvero pensare a un ritorno sempre più marcato a condizioni vicine alla normalità. Scrive il Ministero della Salute nell’ultimo report sull’andamento dell’epidemia nel Paese: «La pressione sui servizi ospedalieri si conferma al di sotto della soglia critica in tutte le Regioni/PA e la stima dell’indice di trasmissibilità Rt medio calcolato sui casi sintomatici è stabilmente al di sotto della soglia epidemica». Tre le regioni in zona bianca a partire da lunedì 31 maggio: Friuli Venezia Giulia, Molise e Sardegna. Via libera, in questi territori, alla riapertura di parchi a tema e di divertimento, di piscine coperte e centri benessere, sale scommesse, casinò, fiere ed esposizioni. Consentiti anche matrimoni e cerimonie, che nelle regioni in zona gialla – in pratica, tutto il resto d’Italia – sarà possibile festeggiare dal 15 giugno. Riaprono anche le discoteche, ma solo per i servizi di bar e ristorante: per ballare bisognerà attendere un altro po’. I


Primo piano

timori di fine aprile, del resto, fortunatamente si sono rivelati eccessivi. Tanto che uno dei virologi più preoccupati, il professor Massimo Galli, ha ammesso: «I vaccini hanno spostato l’equilibrio più rapidamente di quanto mi aspettassi. Quando il 26 aprile sono state riaperte molte cose la situazione non lo lasciava presagire. Invece sono andate bene e ne sono molto felice». Già, i vaccini. La soglia delle 500mila dosi giornaliere a cui aveva accennato il commissario straordinario all’emergenza, generale Figliuolo, è stata raggiunta e superata in più occasioni, soprattutto nella seconda metà del mese. Alla data del 28 maggio in Italia sono state consegnate 35.817.739 dosi, di cui il 93,2% somministrate. Le persone vaccinate con almeno una dose sfiorano i 22 milioni (21.955.970), 11.418.171 invece quelle che hanno completato il ciclo vaccinale. L’Umbria la regione più virtuosa col 95,8% delle dosi somministrate davanti a Lombardia

La soglia delle 500mila dosi giornaliere a cui aveva accennato il commissario straordinario all’emergenza, generale Figliuolo, è stata raggiunta e superata in più occasioni. Le persone vaccinate con almeno una dose sfiorano i 22 milioni

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(95,6%) e Puglia (95,5%). Quelle più in ritardo sono Sardegna (86,4%) e Friuli (89,8%). In tutta Italia ha ricevuto la prima dose il 93,7% degli over 90, la seconda l’82,3%. Dati soddisfacenti anche per gli over 80: prima dose per il 91%, seconda per l’82,6%. Più indietro la campagna per gli over 70: l’81,1% ha ricevuto la prima dose, appena il 32,9% la seconda. Ovviamente, la fascia 60-69 anni è ancor più in ritardo: prima dose per il 67,3%, seconda per il 25,6%. Meno significativi i dati per over 50 (prima dose per il 41,2%, seconda per il 17,1%) e per over 40 (prima dose per il 23,2%, seconda per l’11,8%). Quanto alle categorie a rischio, la media nazionale è del 96,3% con seconda dose per l’83,2%. Alcune regioni hanno già completato l’immunizzazione, almeno per le prime dosi: Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Lazio, Lombardia, Molise, Provincia Autonoma di Bolzano, Sardegna, Toscana e Valle d’Aosta. Altre sono un po’ in ritardo, come Emilia Romagna (88,5%), Liguria (87,5%) e Friuli (85,5%). Viaggiando agli stessi standard di fine maggio (media giornaliera di 499.657 dosi al giorno) l’immunità di gregge nel Paese si raggiungerebbe il 5 settembre, poco oltre la previsione governativa di fine agosto. Molto dipenderà dalla velocità di somministrazione nel mese di giugno, in cui è prevista la consegna di venti milioni di dosi. Con una novità significativa: il richiamo, per i vaccini che lo prevedono (di fatto, tutti tranne quello monodose sviluppato da Johnson&Johnson), sarà effettuato in ritardo. Quarantadue giorni (35 in alcune regioni come Lazio, Campania e Veneto) per Pfizer e Moderna in luogo dei canonici 21 e 28 indicati dalle case farmaceutiche. Tra i 78 e gli 84 giorni per AstraZeneca. Il motivo? Consentire di immunizzare in tempi più rapidi il maggior numero possibile di persone almeno con una dose, sulla falsariga di quanto fatto – con ottimi risultati – nel Regno Unito. Per gli esperti dell’Aifa non ci saranno controindicazioni, anche se le aziende produttrici hanno invitato ad attenersi alle indicazioni formulate in prima istanza. Nel frattempo, dal 3 giugno via libera alla prenotazione delle vaccinazioni anche per gli under 40 in tutte le regioni. E presto potrebbe partire anche la vaccinazione dei ragazzi dai 12 ai 15 anni, dopo che l’Ema ha approvato il vaccino Pfizer-BioNTech per questa fascia d’età. Giugno, insomma, è il mese dell’ulteriore accelerazione, quella decisiva. GdB | Maggio 2021

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Primo piano

Da sinistra, Roberto Romanelli, Gennaro Lamberti, Vincenzo D’Anna, Andrea Riposati, Alberto Spanò e Pasquale Piscopo.

L’

Ordine nazionale dei Biologi e Dante Labs, eccellenza mondiale italiana per il sequenziamento del DNA umano, hanno stipulato un protocollo d’intesa per dar vita a un progetto di alta formazione riservato ai biologi per la ricerca in ambito genomico. Il percorso formativo è stato presentato nei giorni scorsi a Roma, nella sede di via Piramide Cestia 1/c dell’Ordine dei Biologi, e avrà luogo nei laboratori dell’azienda collocati nei locali del Tecnopolo d’Abruzzo, a L’Aquila. L’Ordine nazionale dei Biologi contribuirà all’iniziativa finanziando delle borse di studio. Destinatari di questo ambizioso progetto saranno 75 giovani biologi: prossimamente saranno comunicati i dettagli riguardanti l’accesso al percorso formativo. A quest’intesa si è arrivati dopo che lo scorso settembre Dante Labs, insieme con Vitha Group, Spa dell’Aquila specializzata nella vendita di prodotti per il benessere e la prevenzione della salute, ha lanciato Anima Genomic, ovvero il sequenziamento del DNA umano al 100%. Il lavoro svolto dal concessionario autorizzato Vitha Group “Dream & Dare” di Anna Maria To-

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mei, punto di contatto tra l’Ordine nazionale dei Biologi e le due realtà imprenditoriali abruzzesi, ha costituito l’indispensabile punto di partenza da cui far prendere le mosse al progetto. L’idea di unire le rispettive forze e competenze, dando vita ad una partnership capace di qualificare giovani biologi mediante un percorso formativo avanzato nel campo genomico è stato il passo successivo. Ad esprimere soddisfazione per il risultato conseguito è stato Vincenzo D’Anna, presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi, che ha dichiarato: «Ringrazio tutti i componenti di un Consiglio dell’Ordine che, per la verità, mi hanno sempre assecondato in questa mia idea che noi si debba fare i rivoluzionari. Perché in un mondo che cambia, le rivoluzioni sono anche costruttive, non sono solo distruttive. Se noi vogliamo guidare sessantamila biologi - e dovremmo arrivare a ottanta-novantamila, perché la dispersione e l’erosione è ancora molto alta ahinoi - dobbiamo essere all’avanguardia, non possiamo stare nel gruppo o addirittura nella retroguardia. Oggi si apre una finestra sul futuro». Alla base di queste parole la consapevolezza che «lo studio e il sequenziamento del DNA rap-


Primo piano

ONB E DANTE LABS PER L’ALTA FORMAZIONE Siglato un protocollo d’intesa riservato per 75 biologi per la ricerca in ambito genomico

di Domenico Esposito

La locandina dell’evento.

presentano un po’ il simbolo di una strada che si interseca e che conduce verso la medicina predittiva e personalizzata». Il presidente D’Anna ha poi spiegato come «lo sviluppo della genomica potrà costituire il fulcro di una rivoluzione copernicana che cambierà per sempre la vita delle persone». Il convincimento di essere dinanzi a una svolta epocale è condiviso anche da Andrea Riposati, amministratore delegato di Dante Labs. Questi ha in primo luogo spiegato la mission della sua azienda, nata «da una necessità ben precisa: accorciare il tempo tra la ricerca scientifica e l’impatto che questa ha sulle persone». Il CEO di Dante Labs ha poi precisato come la genomica sia equiparabile ad «internet nei primi anni Novanta, quando lo si utilizzava solo per le mail. Tra dieci, quindici anni, impatterà un po’ in tutti i settori della nostra esistenza, dalla salute al cibo, dai rifiuti all’inquinamento, e, proprio come internet, rivoluzionerà completamente non solo il modo di vivere, ma anche quello di concepire la medicina». Il protocollo d’intesa stipulato dall’Ordine Nazionale Biologi e Dante Labs è stato definito da Alberto Spanò, consigliere dell’ONB, di cui è dele-

Il percorso formativo è stato presentato nei giorni scorsi a Roma, nella sede di via Piramide Cestia 1/c dell’Ordine dei Biologi, e avrà luogo nei laboratori dell’azienda collocati nei locali del Tecnopolo d’Abruzzo, a L’Aquila.

gato per le regioni Lazio e Abruzzo «un modo per proporre nuovi modelli professionali di riferimento e renderli disponibili anche alle società scientifiche, alle università ed ai sistemi pubblici». Spanò ha affermato che l’intento non è quello di scegliere «aree», come appunto la genomica, «per metterle in contrapposizione»: l’obiettivo è invece quello di lanciare «un ulteriore segnale di spinta sul fronte della ricerca, mettendo insieme risorse private e pubbliche nel segno dell’eccellenza». Alla conferenza stampa di presentazione del progetto, dal titolo “Genomica – La strada verso la medicina predittiva e personalizzata” ha preso parte anche Gennaro Lamberti, presidente di FederLab Italia. Nel corso del suo intervento, il vertice di una delle principali associazioni di categoria dei laboratori d’analisi e dei centri poliambulatoriali privati accreditati con il Servizio sanitario nazionale, ha dichiarato che «la genomica è già il presente e occorre adeguarvisi». Secondo Lamberti, infatti, solamente «conoscenza e avanzamento tecnologico ci permettono di poter sopravvivere e vincere la sfida all’interno di un mercato che, per i laboratori di analisi, in particolari quelli piccoli, si fa sempre più complicata». Presente all’evento anche il direttore del Tecnopolo d’Abruzzo dell’Aquila, Roberto Romanelli, che ha parlato del progetto come di un «aggregatore di eccellenze». Insomma, un’iniziativa ambiziosa, secondo tutti gli esperti, che promette di rivoluzionare la disciplina medica e di conseguenza la vita dei pazienti. GdB | Maggio 2021

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Primo piano

BIO, UNA RIVOLUZIONE EPOCALE Il Senato approva il Ddl Agricoltura: si va verso il marchio “Biologico italiano” Un’opportunità per i Professionisti del Comparto Agroalimentare

di Stefania Papa*

È

storia di questi giorni l’approvazione, da parte del Senato, del disegno di legge sull’agricoltura biologica. Il testo (atteso ora a Montecitorio per la terza lettura) istituisce, tra le altre misure, il marchio “Biologico italiano” di cui potranno fregiarsi “i prodotti biologici ottenuti da materia prima italiana”. Ora, al di là di alcuni punti controversi, tuttora oggetto di discussione (lascia perplessi, da un punto di vista scientifico, l’equiparazione, prevista dal Ddl, dell’agricoltura biodinamica a quella biologica), il provvedimento - una volta licenziato definitivamente nel successivo passaggio alla Camera - andrà a disciplinare un settore in forte espansione, nel quale noi Italiani possiamo vantarci, senz’altro, di essere tra i primi in Europa, sia in relazione alla superficie agricola destinata al bio (quasi due milioni di ettari, pari al 16%), sia come valore di mercato (si parla di un fatturato di circa 7 miliardi di euro). Segno evidente, insomma, di come i prodotti nostrani siano tra i più apprezzati al mondo, merito del rapporto, ormai sempre più consolidato, tra produttori e consumatori globali. *Consigliere dell’Ordine Nazionale dei Biologi, delegata alla Sicurezza Alimentare e delegata per le regioni Toscana e Umbria.

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Ma non basta. La nuova legge, infatti, accompagnerà le imprese verso un percorso più organico a tutela del “tricolore”, delle nostre filiere e di tutti quegli imprenditori che hanno dimostrato di saper fare mercato meglio di altri, nel più totale rispetto del suolo e dell’ambiente che ci circonda. In particolare, giova sottolineare, in questa stessa sede, come la principale modifica introdotta dal Senato al “Ddl Biologico”, sia stata l’introduzione di un articolo aggiuntivo, contenente una delega al governo per emanare, entro 18 mesi, uno o più decreti legislativi per “procedere ad una revisione della normativa in materia di armonizzazione e razionalizzazione sui controlli per la produzione agricola e agroalimentare biologica”. Tali decreti, negli intenti del legislatore, dovranno “provvedere a migliorare le garanzie di terzietà dei soggetti autorizzati al controllo”, eventualmente anche “attraverso una ridefinizione delle deleghe al controllo concesse dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali”, e a “rivedere l’impianto del sistema sanzionatorio connesso”. Un “correttivo”, quest’ultimo, fondamentale, che chiama fortemente in causa la nostra professione, in termini di “speciali competenze”, dal momento che proprio nel campo della consulenza esplicata nel settore agro-alimentare, si sviluppa uno degli ambiti principali del “mestiere” di Biologo, inteso in asse con quello degli Agronomi.


Primo piano

Non è un caso, d’altronde, che proprio sul ruolo del “consulente per la certificazione dei prodotti biologici”, dal 15 al 24 giugno prossimo, la Delegazioni ONB di Toscana-Umbria, insieme con quelle di Emilia Romagna-Marche e Piemonte, Liguria-Valle D’Aosta, agendo in stretta collaborazione con l’Ordine dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali della Provincia di Viterbo, e con il contributo di Accredia ed AIAB (è stato richiesto anche il patrocinio al Mipaaf), abbia deciso di organizzare un corso teorico-pratico della durata complessiva di 16 ore. Tale proposta intende rivolgersi non solo ai Biologi ma, appunto, anche agli Agronomi, figura professionale con la quale spesso i primi si interfacciano, operando in una misura strettamente sinergica. L’idea di dedicare un percorso formativo alla figura del “consulente biologico” prende le mosse proprio dall’importante svilup-

I prodotti nostrani sono tra i più apprezzati al mondo, merito del rapporto, ormai sempre più consolidato, tra produttori e consumatori globali.

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po che, negli ultimi anni, ha avuto l’Agricoltura Biologica. Un incremento in parte dovuto anche alle preferenze del consumatore, sempre più guidato dal criterio della sostenibilità, declinata in maniera coerente dalle produzioni biologiche il cui primo “sistema di qualità” normato di tipo orizzontale a livello europeo, risale al 1991. Proprio alla luce di questo cambiamento che può senz’altro definirsi epocale, va segnalato l’esempio positivo della regione Marche dove, fin dal 2015, opera l’Associazione Cluster Agrifood Marche CLAM. Si tratta di un’aggregazione composta dalle quattro Università delle regione (UNIVPM, UNICAM, UNIURB, UNIMC), insieme con Istituti di Ricerca, imprese legate al mondo agricolo, alimentare ed ittico, associazioni di categoria e società di servizi, chiamate a collaborare per soddisfare le necessità di innovazione lungo l’intero arco della filiera GdB | Maggio 2021

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agro-alimentare del territorio marchigiano. Tale associazione è nata proprio con l’obiettivo di incrementare la competitività del settore agro-alimentare regionale attraverso la cooperazione e il trasferimento di conoscenza tra i diversi attori appartenenti alla filiera, coniugando innovazione e tradizione. Anche la Regione Toscana ha imboccato tale direzione quando - è storia di questi mesi - ha pubblicato alcuni bandi Psr per le misure agroambientali riservati a quelle aziende che intendano introdurre o mantenere il metodo di produzione biologica, o che si affacciano per la prima volta al mondo “bio”. Insomma: la rivoluzione Bio appare irrefrenabile, estendendosi sempre più a macchia d’olio, fino a toccare diverse tipologie produttive, specie per quanto concerne la fase di trasformazione, commercio ed etichettatura dei prodotti. Un processo che comporta verifiche specifiche, minuziose e sempre più complesse, da parte degli Organismi di Controllo e delle Autorità di Vigilanza, i quali, a loro volta, per svolgere tali compiti in maniera ottimale, necessitano di figure professionali dotate di adeguate, approfondite e comprovate competenze. E chi, se non i Biologi, pronti ad operare in stretta sinergia ed in ambito multidisciplinare, con tutti quanti gli altri rappresentanti delle professioni tecnico-sanitarie, per raccogliere una sfida del genere? Chi se non loro per garantire che queste operazioni di verifica e controllo, possano svolgersi così come dettano leggi, norme e regolamenti? Tutto questo, si badi bene, senza perdere di vista il fatto che la stessa “rivoluzione bio” sta portando anche all’evoluzione di un nuovo mercato professionale, rappresentato dall’insieme degli operatori del settore agroalimentare che oggi si cimentano nel sistema di produzione biologico. Un modello strettamente regolamentato, dove la figura del consulente - e dunque anche del Biologo e dell’Agronomo - diventa elemento basilare per una corretta gestione dei requisiti di qualità. Nasce da qui, dunque, da questi presupposti, l’idea di mettere in campo un corso teorico-pratico altamente qualificato, come quello organizzato a giugno dalle nostre tre delegazioni regionali, con lo scopo di qualificare “consulenti in campo biologico”. Professionisti, per dirla in altre parole, capaci di fornire, con il proprio lavoro, un supporto qualificato alle aziende del settore agroalimentare che intendono intraprendere il percorso della certificazione con metodo biologico, nonché la costituzione di un elenco 12 GdB | Maggio 2021

Il provvedimento - una volta licenziato definitivamente nel successivo passaggio alla Camera - andrà a disciplinare un settore in forte espansione, nel quale noi Italiani possiamo vantarci, senz’altro, di essere tra i primi in Europa, sia in relazione alla superficie agricola destinata al bio (quasi due milioni di ettari, pari al 16%), sia come valore di mercato (si parla di un fatturato di circa 7 miliardi di euro).

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Primo piano

pubblico di figure specialmente competenti sulla base di manifestazioni di interesse e avviso pubblico (previo atto deliberativo). Tale necessità, è bene tornare a ribadirlo, muove anche dall’adeguamento dei metodi di produzione, che sempre più si stanno evolvendo passando da convenzionale a biologico. Il che, manco a dirlo, richiede, appunto, conoscenze accurate e specifiche, in uno con un’assistenza sempre più costante e mirata da parte di professionisti che siano veramente competenti del settore. Quegli stessi ai quali, lo scorso 20 maggio, è stato dedicato un apposito workshop organizzato dalle nostre tre delegazioni regionali, incentrato sul biologico inteso come “opportunità”. In quella sede, infatti, grazie anche alla presenza dei rappresentanti di Accredia, del Mipaaf, del Senato, del settore degli “affari regolatori” e di varie associazioni di categoria, si è simbolicamente toccata con mano un po’ tutta la filiera dell’agro-alimentare, partendo dalla produzione, fino ad arrivare alla distribuzione. Senza trascurare uno sguardo ai palazzi delle istituzioni. Nel workshop si è parlato del “biologico”, della sua “storia” e “dimensione professionale”, con tanto di punto sullo “stato dell’arte” nella ricerca e nella formazione universitaria approfondendo anche tematiche legate ai vari regolamenti europei (Regolamento UE 2018/848 è entrerà in vigore dal 1o gennaio 2022, essendo la sua data di applicazione posticipata di un anno dal regolamento (UE) n. 2020/1693 alla luce della pandemia di COVID-19 e della conseguente crisi sanitaria pubblica. Sostituisce e abroga il regolamento (CE) n. 834/2007.). Perché, sì, il “Bio” non è solo un modo di produrre diverso, nel rispetto della natura e dell’ambiente, ma anche un’opportunità che guarda ai mercati del futuro. Ed in cui i Biologi sono chiamati a fare la loro parte. Riferimenti http://toscanaumbria.ordinebiologi.it/2021/05/20/biologico-30-anni-di-opportunita-il-20-maggio-il-workshop-organizzato-dalle-delegazioni-onb-di-toscana-umbria-ed-emilia-romagna-marche-in-collaborazione-con-lordine-dei-dottori-agronomi-e-dei-dott/ (30 anni del Biologico). http://toscanaumbria.ordinebiologi.it/2021/05/15/professionisti-aziende-incontrano-le-competenze-il-15-16-23-e-24-giugno-il-corso-teorico-pratico-organizzato-dalle-delegazioni-onb-di-toscana-umbria-ed-emilia-romagna-marche-in-collaborazione-con/ (Corso Teorico-Pratico). http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/18/Resaula/0/1298092/index.html?part=doc_dc (Fonte del Senato).


Stage del corso teorico pratico

PESTICIDI E SALUTE: DALL’AMBIENTE ALLA CATENA ALIMENTARE, RISCHI E STRATEGIE DI PREVENZIONE 16 giugno 2021 Istituto Ramazzini di Bologna


Intervista

COVID-19, A NAPOLI SI LAVORA AL VACCINO IN PILLOLE Ingegnerizzato un probiotico che esprime la proteina Spike: Giovanni Sarnelli, docente di Gastroenterologia, spiega le potenzialità della scoperta

di Chiara Di Martino

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iente più aghi né boccette, la prossima generazione di vaccini potrebbe essere in pillole e, soprattutto, potrebbe essere dietro l’angolo. Arriva dall’Università Federico II di Napoli un nuovo importante tassello nella lotta al Covid-19 (ma non solo): una società spin-off dell’Ateneo, la NEXTBIOMICS, ha depositato domanda di brevetto per un vaccino batterico. Punto di partenza, il probiotico Escherichia Coli Nissle 1917 che stimola il sistema immune intestinale. Dietro questa scoperta ci sono tre ricercatori: Giovanni Sarnelli, professore di Gastroenterologia della Università Federico II, Giuseppe Esposito, Professore di Farmacologia presso la Università Sapienza di Roma e Walter Sanseverino, CEO di Sequentia Biotech, tutti soci co-fondatori di NEXTBIOMICS. A raccontare il cammino percorso finora è Giovanni Sarnelli, che spiega come si è arrivati a questo rivoluzionario passo, portatore di grandissime implicazioni soprattutto per i paesi poveri del mondo. Professore, l’idea è nata “a freddo” oppure ci si è “inciampati” studiando altro? Non è stata casuale. Ci occupiamo da diversi anni di probiotici di nuova generazione, i “batteri buoni” per intenderci, e abbiamo già altri 3 brevetti in questo campo. A un certo punto ci è sembrato naturale mettere il nostro know how al servizio di questo momento stori-

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co e applicarlo al Covid-19. E abbiamo scelto l’Escherichia Coli Nissle 1917, una specie non patogena del batterio. Cosa lo caratterizza? Lo si conosce da sempre, fu isolato nei soldati durante la Prima guerra mondiale: ci fu una epidemia di dissenteria, e si scoprì che chi aveva quel batterio nel micriobiota veniva risparmiato. Così abbiamo pensato di utilizzarlo come vettore così come altri vaccini, per esempio, usano un Adenovirus. Con quali risultati? Il probiotico stimola la risposta immune contro la proteina Spike che il Coronavirus usa per infettare le cellule. I dati preclinici ci lasciano ben sperare: la somministrazione per 5 giorni a settimana, per un totale di 17 settimane, di Escherichia Coli Nissle 1917 ingegnerizzato è stata in grado di stimolare significativamente la risposta immune, con la produzione di anticorpi circolanti di tipo IgM e IgG e, ancora più interessante, anche di IgA a livello mucosale, intestinale e bronchiale, offrendo un’ulteriore protezione. Va assunto in maniera ciclica e continuativa, poi raggiunge il plateau e si stabilizza. Con evidenti vantaggi, pare di capire. Non ha mostrato effetti avversi o collaterali, è sostenibile dal punto di vista ambientale, si conserva a temperatura ambiente (nei paesi caldi a 2-8 °C) e agisce in modo più fisiologico rispetto ad altri. In più, ha il grande vantag-


Intervista

NEXTBIOMICS, ecco i ricercatori che l’hanno fondata

Giovanni Sarnelli.

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gio di poter essere somministrato per via orale. Questo, soprattutto in una campagna vaccinale su vasta scala, riduce i costi di gestione, distribuzione e personale, il che ha significative implicazioni soprattutto nei paesi poveri del mondo. Lavorare sui batteri è facile se hai l’esperienza giusta, basta solo un fermentatore: ci farebbe piacere che il Sud del mondo – che sta ancora a zero quanto a vaccini - potesse trarne vantaggio, e indirettamente tutti, perché quelle zone costituiscono un serbatoio di Covid-19 che impedisce l’eradicazione della pandemia. Quindi è questo il vostro sogno? Sì. Siamo pur sempre ricercatori! Sarebbe meraviglioso porci in chiave puramente etica e spedire pillole a quei paesi che non hanno la forza economica e politica di importare tecnologie di alto livello, come i vaccini a mRna. Quando il passaggio alla sperimentazione sull’uomo? Questo è difficile dirlo, perché per questa fase servono tempo e investimenti e la NEXTBIOMICS da sola non potrebbe sostenerla. Noi per ora ci siamo concentrati sul prodotto ma stiamo già ricevendo richieste di collaborazione da fondi di investimenti, fondazioni e aziende farmaceutiche, ma naturalmente siamo ancora in fase interlocutoria. A che punto è lo studio? Dal punto di vista produttivo, ci stiamo guardando attorno, per ora abbiamo depositato – il 12 aprile - domanda di brevetto. Dal

Arriva dall’Università Federico II di Napoli un nuovo importante tassello nella lotta al Covid-19 (ma non solo): una società spin-off dell’Ateneo, la NEXTBIOMICS, ha depositato domanda di brevetto per un vaccino batterico.

iovanni Sarnelli è professore di Gastroenterologia presso l’Università di Napoli Federico II, ha un dottorato di ricerca in Fisiopatologia dell’apparato digerente e nutrizionale e un post doc presso l’Università di Leuven (Belgio) dove ha sviluppato la passione le ricerche sull’asse intestino-cervello ed il mondo dei probiotici. Giovanni è autore di oltre 120 articoli scientifici su riviste internazionali ed è co-inventore di 3 brevetti su probiotici di prossima generazione. Con lui, tra i soci fondatori di NEXTBIOMICS, Giuseppe Esposito (che ne è responsabile scientifico), attualmente professore di farmacologia alla Sapienza di Roma, e il managing director Walter Sanseverino, laureato in biotecnologie e CEO di Sequentia.

punto di vista della ricerca, stiamo già immaginando l’applicazione ad eventuali varianti: nella nostra miscela è facile poter inserire più varianti della proteina Spike. Peraltro, è altamente probabile che il nostro vaccino possa essere usato anche come booster di stimolazione anticorpale, come richiamo di altri vaccini. Importante, in tutto questo, è stato il dialogo con la Sequentia Biotech, società Spagnola esperta in genomica. Cosa c’è nel futuro della NEXTBIOMICS? Per ora ci piace moltissimo il suo presente. Abbiamo avuto l’onore di partecipare al recente workshop del Parlamento europeo intitolato proprio “How probiotics can change the world”. Come spin-off della Federico II siamo contenti di smentire l’idea secondo cui la ricerca sia ancora lontana dal mondo applicativo. A breve, tra l’altro, avremo una struttura dedicata nel campus universitario di San Giovanni a Teduccio, vero punto di riferimento per l’intero settore dell’innovazione. GdB | Maggio 2021

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Intervista

NADIR ARBER: “ORA SOMMINISTRATO IN OSPEDALE. PUNTIAMO A TERAPIA DOMICILIARE” Il professore del Sourasky Medical Center di Tel Aviv spiega i meccanismi di azione del farmaco EXO-CD24, utile per i pazienti che mostrano sintomi da moderati a severi

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membro di numerose associazioni israeliane, europee e statunitensi per la ricerca sul cancro. Laureato alla Hebrew University, Hadassah School of Medicine, è specializzato in Gastroenterologia: Nadir Arber ha all’attivo oltre 100 pubblicazioni scientifiche e negli ultimi mesi è rimbalzato sugli organi di stampa di tutto il mondo con la scoperta di un farmaco facile da somministrare ed economicamente accessibile, che potrebbe, in futuro, assestare un duro colpo alle forme moderate e severe di Covid-19. È stato fin da subito disponibile a raccontarci come funziona, cos’abbia di tanto rivoluzionario e quante aspettative è lecito riporre in questa scoperta. Professore, come funziona EXO-CD24? Il nostro rimedio consiste di due piattaforme principali: la proteina CD24, attore importante in particolare come regolatore negativo del sistema immunitario, e gli esosomi. Il NF-κB- è la via principale per la produzione di citochine che causano la reazione eccessiva del sistema immunitario. Il nostro farmaco è espresso sugli esosomi e inibisce la

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via NFKB in due punti critici, viene erogato direttamente al polmone mediante semplice inalazione. Può essere prodotto in modo efficace, efficiente e rapido a un costo relativamente basso. Anche il trasferimento tecnologico è molto semplice. Quali sono i prossimi step? Uno studio di fase 2 per la determinazione della dose, si tratta di uno studio sulla dose minima efficace che prende il via in questi giorni in Grecia, ad Atene. Sto valutando un rapido reclutamento, che dovrebbe concludersi entro 1 mese dall’avvio: lì stiamo ricevendo sostegno dal governo, dalle autorità di regolamentazione e da sponsor. In particolare, ho incontrato il Primo ministro, il Ministro della salute e il team medico guidato dal Prof. Tsiodras (specializzato in malattie infettive, ndr), la Società medica di Atene guidata dal Prof. Boumbas e il supporto di una Contract Research Organization (organizzazioni che conducono trial clinici) molto efficiente, EXCELYA, e di una delle principali aziende farmaceutiche greche, la Elpen. Qual è lo stato attuale delle sperimentazioni cliniche in Israele?


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Abbiamo completato la fase 1b / 2a. Attualmente, però, ci sono pochissimi pazienti in Israele, grazie al successo della campagna vaccinale. Stiamo aspettando l’approvazione finale, da parte del Ministero israeliano della Salute, di uno studio multicentrico internazionale (farmaco vs placebo). Parteciperanno anche altri paesi? C’è una grande richiesta in tutto il mondo, dalla Mongolia a Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria fino a New York: faranno parte della sperimentazione di fase 3. In particolare, molte richieste sono arrivate da India e Brasile. In quali pazienti il farmaco sembra essere efficace? In quelli con gravità moderata / severa al fine di prevenire il deterioramento clinico laddove è sussistente una insufficienza polmonare che può portare ad esiti infausti. Al momento si applica solo ai pazienti ospedalieri? Attualmente sì, ma spingo molto su un monitoraggio preciso perché possa essere utilizzato come “terapia domiciliare” a breve. Quanto tempo è stato impiegato per cre-

Nadir Arber. “Abbiamo completato la fase 1b / 2a. Attualmente, però, ci sono pochissimi pazienti in Israele, grazie al successo della campagna vaccinale”.

are il farmaco? Tutto è iniziato con la pandemia? Abbiamo lavorato alle diverse parti negli ultimi 20 anni. Durante la pandemia abbiamo solo assemblato in modo efficace “pezzi” diversi di vari progetti per creare il farmaco definitivo contro il Covid-19: il passaggio dall’idea alla prima fase sull’uomo è durato sei mesi. Ma non sono l’unico ideatore: con me lavora il brillante Dr. Shiran Shapira, che ha fatto il dottorato nel mio laboratorio e ora lo dirige, è eccezionale. Noi siamo gli ideatori, il proprietario è centro medico di Tel Aviv, mentre OBCTCD24 è una società privata che ha concesso in licenza la tecnologia. Quanto è stata efficace la campagna vaccinale israeliana? Molto: ci sono pochissimi nuovi casi. Spingo molto su questo punto e il mondo deve essere pronto. Prossimo appuntamento? Si parlerà di tutto questo a “Medicine 2041”, un incontro internazionale che sto organizzando in Israele per il prossimo 8 dicembre. (C. D. M.) GdB | Maggio 2021

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SCOPERTO ENZIMA CHE CONTROLLA FORMAZIONE METASTASI Si apre la strada allo sviluppo di nuove terapie per la cura dei tumori. Lo studio italiano pubblicato sulla rivista Nature Immunology

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risultati di uno studio su un nuovo biomarcatore per la prognosi del melanoma metastatico aprono una strada, piena di speranze, allo sviluppo di innovative strategie terapeutiche. L’Istituto nazionale dei Tumori di Milano, l’Istituto clinico Humanitas e l’Università degli studi del Piemonte Orientale con il sostegno di Fondazione Airc per la ricerca sul cancro, hanno unito le proprie competenze, dimostrando per la prima volta il ruolo cruciale dell’enzima eme-ossigenasi nel promuovere la formazione di metastasi. L’immunoterapia ha rappresentato il grande cambiamento nella cura del melanoma metastatico, ma ad oggi non tutti i pazienti rispondono nello stesso modo ai farmaci utilizzati. Una possibile svolta arriva dai risultati appena pubblicati su Nature Immunology di uno studio che ha visto la collaborazione di ricercatori

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dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano (Int), dell’Istituto clinico Humanitas di Rozzano e dell’Università del Piemonte Orientale. «È stato sviluppato un lavoro in sinergia tra tre realtà con un ruolo importante nell’ambito della ricerca» – sottolinea Giovanni Apolone, Direttore scientifico dell’Istituto nazionale dei Tumori di Milano. «Grazie al gruppo del professor Sica, di Humanitas e Università del Piemonte Orientale, è stato possibile ottenere dati preclinici, con evidenze successivamente valutate in casistiche cliniche dal team del dottor Anichini presso il nostro Istituto». I ricercatori hanno indagato una popolazione particolare di macrofagi, cioè di cellule della linea di difesa primaria dell’organismo chiamata immunità “innata”. È grazie a queste cellule che l’organismo normalmente è in grado di attivarsi in modo imponente in caso di pericolo. Questo meccanismo però può incepparsi e i


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macrofagi da “buoni” si possono trasformare in killer che contribuiscono alla crescita e alla diffusione delle cellule tumorali. A determinarne il comportamento anomalo è l’espressione dell’enzima eme-ossigenasi HO-1, codificato dal gene Hmox1. «Abbiamo notato che la crescita di un tumore induce alterazioni della nostra ematopoiesi, il processo alla base della produzione delle nostre cellule immunitarie. In particolare, il tumore induce l’espansione di un gruppo di cellule immunitarie (monociti, macrofagi) che esprimono alti livelli dell’enzima eme-ossigenasi e capaci di raggiungere il tessuto tumorale. Come conseguenza, all’interno del tumore si verifica una produzione elevata di ferro e di monossido di carbonio» spiega Antonio Sica, professore ordinario di Patologia Generale presso il Dipartimento di Scienze del Farmaco (DsF) dell’Università degli studi del Piemonte

“Abbiamo notato che la crescita di un tumore induce alterazioni della nostra ematopoiesi, il processo alla base della produzione delle nostre cellule immunitarie”.

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Orientale e direttore del Laboratorio di Immunologia molecolare dell’Istituto clinico Humanitas di Rozzano, Milano. «Le conseguenze sono duplici: da una parte, la produzione di nuovi vasi sanguigni che alimentano la proliferazione delle cellule tumorali; dall’altra, il gas prodotto agisce da immunosoppressore spegnendo l’attività dei linfociti T, cioè delle cellule del sistema immunitario in grado di riconoscere e uccidere le cellule tumorali». Da qui, la misurazione della concentrazione di macrofagi che esprimono l’enzima Hmox1 a cura del gruppo del professor Sica, e la successiva verifica su pazienti, condotta invece all’Istituto nazionale dei Tumori di Milano. È stato analizzato il sangue di 92 malati con melanoma metastatico avanzato, di stadio III e IV, diagnosticati presso la Struttura complessa “Melanoma Sarcoma” dell’Int e i risultati sono stati confrontati con quanto registrato sulle cartelle cliniche. «Abbiamo confermato la validità di Hmox1 quale biomarcatore. sia quando espresso nei monociti del sangue periferico, sia come gene espresso nei tessuti neoplastici» chiarisce Andrea Anichini, Responsabile della Struttura Semplice Dipartimentale Immunobiologia dei Tumori Umani dell’Istituto nazionale dei Tumori di Milano. «La sopravvivenza, infatti, era nettamente peggiore in caso di livelli elevati di Hmox1 nel sangue periferico dei nostri pazienti. Si tratta di un risultato estremamente importante, perché a oggi non è disponibile un biomarcatore con caratteristiche prognostiche, che abbia la capacità di discriminare efficacemente l’evoluzione della malattia. Abbiamo inoltre studiato Hmox1 non solo come proteina, ma anche come gene espresso nei tessuti neoplastici, e anche a tale livello questo biomarcatore si è confermato essere un predittore della sopravvivenza del paziente». Si aprono quindi nuove prospettive nella terapia del melanoma metastatico. «I nostri studi stanno proseguendo – sottolineano Sica e Anichini – abbiamo già visto che è possibile riaccendere la risposta antitumorale associando a farmaci già utilizzati in clinica, innovativi approcci genetici e farmacologici che inibiscono l’attività dei macrofagi in caso di iperespressione di Hmox1. In parallelo stiamo indagando la validità del biomarcatore anche in altre forme tumorali, come quelle della mammella e del polmone». (E. M.). GdB | Maggio 2021

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Glioblastoma al microscopio.

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TUMORI: SCOPERTO IL PEZZO CHE NE SPIEGA LA CRESCITA Lo squilibrio tra le proteine Ambra1 e Ciclina D causa la proliferazione delle cellule tumorali: ora nuove prospettive terapeutiche e nuove possibilità di cura

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ome proliferano le cellule tumorali? Lo spiega la scoperta dei ricercatori dell’ospedale Pediatrico Bambino Gesù e dell’Università di Roma Tor Vergata che, in collaborazione con altri Centri di ricerca europei e statunitensi, hanno individuato il tassello mancante con cui dare risposta al quesito iniziale, descrivendo per la prima volta il rapporto tra due particolari proteine, Ambra1 e Ciclina D. Quando questo legame è sbilanciato, si innesca il processo tumorale. Nel corso delle loro ricerche, gli studiosi 20 GdB | Maggio 2021

hanno notato che in caso di assenza o di scarsa quantità di Ambra1, la Ciclina D non viene distrutta come dovrebbe e, di conseguenza, finisce per accumularsi. Proprio a causa di questo accumulo, le cellule iniziano a dividersi a velocità incontrollata, il DNA si danneggia e ha così luogo la formazione di masse tumorali. Lo squilibrio dei livelli delle proteine Ambra1 e Ciclina D è stato osservato in molti tipi di tumore fra cui l’adenocarcinoma polmonare, il sarcoma e il glioblastoma. La scoperta di questo meccanismo, hanno spiegato i ricercatori, spalanca la strada ad importanti prospettive terapeutico.

Lo studio del Bambino Gesu, infatti, descrive anche la sperimentazione di una terapia per i tumori basati sullo squilibrio di Ambra1 e Ciclina D. Dal momento che ad oggi non risultano disponibili farmaci capaci di agire in maniera diretta sulle due proteine per ripristinare la giusta quantità necessaria ad evitare l’accumulo di una delle due, gli studiosi hanno individuato una soluzione alternativa che sfrutta uno dei punti deboli delle cellule tumorali: ovvero il sistema di riparazione. La grande velocità con cui le cellule cancerose si dividono genera una serie di errori nel loro DNA che sono man mano corretti da un sistema di enzimi (presente in tutte le cellule del corpo umano) che permette loro di sopravvivere e proliferare. Se il processo di riparazione viene però inibito, le cellule tumorali malate accumulano così tanti difetti da incorrere nell’autodistruzione. La terapia descritta dal Bambin Gesù prevede un mix di farmaci specifici - chiamati inibitori del sistema di riparo - ed è stata sperimentata con successo su modelli cellulari e animali. Il risultato è che il tumore è regredito ed è aumentata la sopravvivenza. La ricerca, dunque, suggerisce che questa strategia di cura, già impiegata per il trattamento di alcuni tipi di tumore dell’uomo, potrà essere destinata anche ai pazienti con la combinazione Ambra1-Ciclina D alterata. Altri due studi internazionali, condotti negli Stati Uniti - precisamente a New York e a San Francisco -, pur muovendo da punti di partenza differenti, hanno confermato i risultati della ricerca che ha visto protagonisti i centri romani e sono arrivati alla stessa conclusione: Ambra1 controlla Ciclina D. I tre studi, dato l’importante valore scientifico della scoperta, sono stati pubblicati in sequenza sullo stesso numero della prestigiosa rivista “Nature”, punto di riferimento in ambito scientifico. (D. E.).


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ella insidiosa battaglia che tante donne combattono contro il tumore al seno incide anche la residenza. Alcuni tipi di tumore del seno in fase iniziale, già operati, possono essere analizzati con un test genomico per definire la cura con più precisione, evitando la chemioterapia e soprattutto il rischio di ritorno della malattia: sono quelli con recettori ormonali postivi e Her2 negativo (oltre 70.000 nuovi casi all’anno). Eseguire il test nelle pazienti in cui è “incerto” il beneficio derivante dall’aggiunta della chemioterapia all’ormonoterapia adiuvate presenta 3 importanti vantaggi. Innanzitutto, aiuta il medico a definire l’utilità reale di proporre una chemioterapia combinata all’ormonoterapia, inoltre può evitare, ogni giorno, a 22 donne di utilizzare una terapia pesante e inutile. E infine rappresenta un risparmio per il Sistema Salute, evitando i costi di chemioterapie inutili. Eppure, questo test ha ancora scarsa disponibilità di accesso: è infatti garantito dal Sistema sanitario nazionale solo a donne residenti in Lombardia, Toscana o a Bolzano, mentre nel restante territorio non è autorizzata la rimborsabilità, nonostante esista “sulla carta” uno stanziamento governativo di 20 milioni di euro, non ancora esecutivo. Per “mobilitare” questo obiettivo è scesa in campo una campagna di sensibilizzazione “Chemio, se posso la evito”, promossa da Europa Donna Italia che da sempre difende e promuove i diritti delle donne con tumore del seno, con il supporto di società scientifiche, di Fondazione Aiom, Ropi (Rete oncologica pazienti Italia) e altre Associazioni pazienti. «Poche donne lo conoscono, invece il test genomico - spiega la presidente di Fondazione Aiom-Ropi, Stefania Gori - in pazienti affette da tumori del seno iniziale, operato, con recettori ormonali positivi, Her2 negativo, linfonodi ascellari sani o con massimo

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TROPPO RARO TEST “ANTI-CHEMIO” AL SENO Si tratta di un’analisi genomica disponibile solo in Lombardia, in Toscana e a Bolzano. Potrebbe evitare di utilizzare terapie più pesanti

3 linfonodi metastatici, rappresenta uno strumento efficace per stimare il reale beneficio di una chemioterapia in aggiunta alla terapia ormonale sul controllo di sviluppare una recidiva di malattia dopo la chirurgia. In possesso del risultato di rischio, l’oncologo potrà prescrivere con appropriatezza una chemioterapia adiuvante solo se di beneficio, e la donna potrà avere la certezza di non sottoporsi inutilmente a una cura pesante e con importanti effetti collaterali». «Il test genomico – aggiunge Lorena Incorvaia, dipartimento di Biomedicina, Neuroscienze e Diagnosti-

ca avanzata, Università di Palermo – studia comportamento e interazioni di specifici geni, calcolando in maniera precisa il rischio, ovvero la probabilità che la malattia si possa ripresentare dopo l’intervento chirurgico, in un tumore con le caratteristiche descritte. Sulla misura di questo rischio verrà dunque definita, oppure no, la necessità di proporre cicli di chemio aggiuntivi alla terapia standard. In Italia attualmente ci sono 5 test di analisi di espressione genica, che si differenziano per il numero di geni studiati e per tipo di studi clinici di validazione eseguiti». (E. M.) GdB | Maggio 2021

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TUMORE AL POLMONE E TERAPIA PERSONALIZZATA Lo studio, pubblicato su Communications Biology, ha rivelato l’efficacia del trattamento farmacologico sul sottotipo molecolare K-RAS mutato

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a prima causa di morte per cancro è il tumore al polmone, ritenuto responsabile di circa un terzo dei decessi per malattie oncologiche. Nonostante siano stati compiuti enormi progressi scientifici, al momento le opzioni terapeutiche sono ancora limitate. Un team di ricerca internazionale, guidato da Elena Levantini dell’Istituto di tecnologie biomediche del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr- Itb) di Pisa dove coordina il Laboratorio di oncologia molecolare, e con incarichi da ricercatrice anche nel reparto di Ematologia/Oncologia dell’ospedale BIDMC della Harvard Medical Scho22 GdB | Maggio 2021

ol di Boston, ha diretto uno studio su un nuovo farmaco in grado di diminuire la crescita tumorale in studi preclinici condotti in laboratorio sul modello murino con tumore al polmone del sottotipo molecolare K-RAS mutato. Lo studio, che ha coinvolto anche il Cancer Science Institute di Singapore, è stato pubblicato su Communications Biology. Ha spiegato la ricercatrice: «Abbiamo messo a punto una importante metodologia innovativa basata sul sequenziamento del RNA su singola cellula, nota anche col nome di trascrittomica ad alta risoluzione, che ci ha consentito di individuare l’intero

trascrittoma (corredo di RNA) presente in ciascuna cellula del tumore polmonare. Mediante i nostri esperimenti, abbiamo individuato degli importanti marcatori genici che ci consentono di identificare cellule tumorali specificamente presenti nel sottotipo di tumori causati da mutazioni nell’oncogene K-RAS e di attaccarle con un nuovo farmaco». Tale sottotipo molecolare interessa il 10-30%dei pazienti con patologia polmonare tumorale a non-piccole cellule ed è stato finora considerato intrattabile, poiché non è ancora stata approvata alcuna terapia farmacologica per la stragrande maggioranza dei tumori mutati in K-RAS. La piattaforma sperimentale ha permesso di identificare e comparare differenti sottotipi di cellule tumorali, evidenziando importanti sottopopolazioni cellulari conservate fra l’uomo e il modello murino. Elena Levantini ha aggiunto: «Avendo identificato una specifica popolazione di cellule tumorali conservata nelle due specie e presente solamente in tumori positivi all’oncogene mutato K-RAS, non in cellule sane del polmone, abbiamo sperimentato nel modello murino una terapia mirata a eliminare le cellule tumorali. Abbiamo contrastato l’evolversi del tumore polmonare utilizzando un nuovo farmaco che inibisce l’attività dell’oncogene BMI1 e attualmente in fase di sperimentazione clinica negli Stati Uniti. Si tratta di un passo importante, dato che al fine di migliorare la sopravvivenza dei pazienti è necessario identificare i network molecolari coinvolti nella tumorigenesi e produrre così nuovi farmaci diretti contro tali bersagli molecolari (la cosiddetta terapia molecolare o personalizzata). Detto in altri termini, piuttosto che ricorrere alla chemioterapia generalizzata, che non va contro uno specifico gene, andiamo a trattare questo sottotipo di cellule tumorali con un farmaco mirato». (P. S.).


DELEGAZIONE REGIONALE LOMBARDIA DELEGAZIONE REGIONALE VENETO FRIULI-VENEZIA GIULIA E TRENTINO-ALTO ALDIGE

IL BIOLOGO E IL TRATTAMENTO DEI RIFIUTI: I FANGHI BIOLOGICI DI DEPURAZIONE 23, 24, 30, GIUGNO e 1 LUGLIO 2021 ORE 17:30 ECM

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Salute

LA DIETA DELLE CELLULE STAMINALI EMBRIONALI Come accade per il nostro organismo, che ha bisogno di un regime alimentare corretto per funzionare al meglio, lo stesso avviene a livello cellulare di Marco Modugno

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n gruppo di ricercatori guidati da Graziano Martello, dell’Università di Padova, ha scoperto che, come avviene per il nostro organismo, dove è necessario osservare una corretta dieta alimentare se vogliamo che esso funzioni nel migliore dei modi, anche per le cellule, il meccanismo che determina il loro corretto funzionamento ne deve necessariamente osservare una. Andando nello specifico, i ricercatori hanno capito che il metabolismo delle cellule staminali di tipo embrionale è condizionato da un particolare aminoacido, la glutammina, il più abbondante amminoacido presente nel corpo umano, che si presuppone sia fondamentale per il loro corretto funzionamento. «Eliminando la glutammina dalla dieta delle cellule - commenta Riccardo Betto, giovane ricercatore dell’Ateneo patavino e prima firma dello studio – o rendendole incapaci di metabolizzarla, le staminali, le

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cellule che danno origine a tutti i tessuti del nostro corpo, diventano incapaci di differenziarsi correttamente». I ricercatori durante il loro studio per capire bene quale fosse il ruolo svolto dalla glutammina, hanno studiato approfonditamente il meccanismo attraverso cui il metabolismo influenza la differenziazione delle staminali embrionali. Una volta analizzati i dati del loro studio, il team di ricerca è giunto alla conclusione che non è la sequenza del DNA delle cellule a cambiare, bensì solo alcune proprietà chimiche che di conseguenza rendono regioni specifiche del DNA meno attive. «Possiamo dire che l’ambiente, in questo caso attraverso la dieta, può modificare l’attività del nostro DNA influenzando il comportamento delle nostre cellule - afferma il Prof. Salvatore Oliviero, esperto internazionale di epigenetica all’Università di Torino e all’Italian Institute for Genomic Medicine (IIGM), ente strumentale della Fondazione Compagnia di San Paolo -. Possiamo ipotizzare che si tratti di un meccanismo evolutivo: in carenza di determinati nutrienti, magari dovuta a condizioni ambientali sfavorevoli, l’organismo si tutela bloccando il differenziamento cellulare e l’evoluzione di una nuova vita». Questa particolare scoperta apre così la strada verso nuove potenziali scoperte, forte anche dalle conferme arrivate dai meccanismi descritti in vitro che si riscontrano anche negli embrioni di topo da cui esse derivano. «Questo riscontro ci porta a pensare che la glutammina possa avere un ruolo fondamentale durante le prime fasi dello sviluppo embrionale - sottolinea Graziano Martello, leader dell’Armenise-Harvard Pluripotent Stem cell laboratory dell’Università di Padova –. In futuro sarà necessario studiare, per esempio, quanto sia importante la corretta assunzione di alimenti con apporto di glutammina dalla dieta durante le prime fasi della gravidanza». «Questa scoperta può avere ricadute anche nella ricerca sulle patologie, poiché tali meccanismi sono stati osservati anche in cellule tumorali e in altri contesti patologici - conclude il Prof. Nico Mitro dell’Università Statale di Milano, esperto di metabolismo cellulare e anche lui vincitore della borsa della Fondazione Armenise Harvard –. Studiare come il DNA della cellula si modifica in risposta a cambiamenti del metabolismo e della dieta delle cellule potrebbe diventare una promettente strada per contrastare queste malattie».


Salute

La glutammina

Il metabolismo delle cellule staminali di tipo embrionale è condizionato da un particolare aminoacido, la glutammina, il più abbondante amminoacido presente all’interno del corpo umano

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a glutammina è l’aminoacido più abbondante del corpo umano e il suo fabbisogno può aumentare in casi di stress, traumi chirurgici, nel contrasto ad effetti collaterali di trattamenti medici, come la chemioterapia, per migliorare le performance sportive o in caso di esercizio fisico intenso. Si utilizza per proteggere il sistema immunitario e l’apparato digerente in caso di radioterapia contro il cancro all’esofago, per migliorare il recupero da un trapianto di midollo osseo, prevenire infezioni e migliorare il recupero dopo incidenti traumatici. Viene anche usata in caso di problemi all’apparato digerente, depressione, umore mutevole, irritabilità, ansia, insonnia, disturbo da deficit di attenzione-iperattività, anemia falciforme e astinenza da alcolici. In natura è presente in alimenti ricchi di proteine come carne, pesce (soprattutto il salmone), uova e nei latticini, ma anche nei fagioli, e nella frutta secca. In ambito sportivo ha proprietà detossificanti. Svolge attività immunoprotettive preziose, proteggere il muscolo dall’azione lesiva dei radicali liberi in caso di allenamento intenso.

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Lo studio è frutto della cooperazione internazionale di team di ricercatori, che oltre alle tre Università italiane già menzionate, Padova, Milano e Torino, ha visto anche il coinvolgimento della prestigiosa Università di Cambridge e quella di Parigi, ed è stato reso possibile grazie al supporto proveniente dall’European Reserach Council, dalla Fondazione Armenise-Harvard e dall’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro. Un ruolo importante è stato svolto da Salvatore Oliviero, grazie alla sua pluriennale esperienza all’estero, prima all’Istituto di ricerca Europeo di Biologia Molecolare EMBL, dove si è interessato dello studio della regolazione dei geni coinvolti nella risposta infiammatoria, e successivamente alla Harvard Medical School di Boston, dove si è occupato dello studio dei meccanismi molecolari di oncogeni nucleari nella trasformazione tumorale. Nel 2013 ha fatto rientro in Italia, prima Siena poi a Torino, dove dirige un gruppo di ricerca che studia il ruolo delle modificazioni epigenetiche coinvolte nelle prime fasi di differenziazione delle cellule staminali embrionali.

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Salute

VIRUS HERPES: SCOPERTO COME SI MOLTIPLICA Lo studio dell’Università di Padova spiega il comportamento del patogeno e individua un nuovo bersaglio farmacologico di Domenico Esposito

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ome e perché l’herpes simplex si moltiplica? A rispondere a questi interrogativi, rispetto a uno dei virus più comuni e allo stesso tempo misteriosi tra quelli che infettano l’organismo umano, è stato lo studio condotto dalla professoressa Sara Richter del Dipartimento di Medicina Molecolare dell’Università di Padova e dal suo gruppo di ricerca. Lo studio, pubblicato dalla rivista “Nature Communications Biology”, ha illustrato la scoperta di un nuovo meccanismo molecolare impiegato appunto dal virus dell’herpes simplex di tipo 1 (HSV-1) quando infetta l’uomo. Se è vero che di solito siamo abituati ad associare il virus herpes simplex di tipo 1 (HSV1) unicamente alle caratteristiche - e fastidiose - vescicole che fanno la loro comparsa a livello della bocca, lo è pure che questo patogeno rappresenta anche la causa principale di cecità infettiva, nonché di gravi patologie a carico del sistema nervoso, quali l’encefalite erpetica. Negli ultimi anni, poi, è stato stabilito un legame tra il virus herpes e l’insorgenza di malattie neurodegenerative, tra cui il morbo d’Alzheimer. Basta questo elenco a definire l’importanza di una conoscenza più approfondita di questo virus, del quale il gruppo di ricerca gui-

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dato dalla professoressa Richter si interessa da anni. Il patogeno, infatti, colpisce il 90% della popolazione mondiale, ma nonostante la vasta diffusione non è ancora compreso del tutto da parte della scienza. Lo studio condotto dall’ateneo patavino ha messo in luce come HSV-1, una volta entrato nel corpo umano, vada a nascondersi rimanendo latente all’interno di gruppi di cellule nervose (gangli) accanto al midollo spinale da cui si dipartono le fibre nervose che innervano l’area infetta. Il virus può riattivarsi diverse volte, iniziando nuovamente a moltiplicarsi migrando lungo le fibre nervose, fino a raggiungere la pelle, dove si manifesta causando eruzione vescicolare nella stessa sede in cui aveva fatto comparsa la prima volta. Può capitare anche che il virus sia presente sulla pelle o sulle mucose anche se le vescicole non sono visibili. La riattivazione di un’infezione da HSV latente, orale o genitale, può essere scatenata, provocando sintomi molto sgradevoli, come conseguenza a stimoli quali l’esposizione alla luce solare, sbalzi ormonali, un periodo di forte stress o in cui le difese immunitarie sono particolarmente basse, e febbre. I risultati dello studio, che porta il nome di Ilaria Frassone, ricercatrice del gruppo Richter, evidenziano che la principale


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proteina impiegata dal virus per moltiplicarsi, ovvero il fattore di trascrizione ICP4, agisce muovendosi all’interno del nucleo della cellula umana riconoscendo delle particolari strutture del Dna chiamate G-quadruplex, che una ricerca recentissima ha indicato ricoprire un importante ruolo di regolazione dell’espressione genica. Come spiegato in un comunicato pubblicato sul portale dell’Università di Padova, se da un lato solo l’herpes simplex di tipo 1 possiede ICP4, i G-quadruplex si stanno rivelando importantissimi regolatori della trascrizione della cellula, al punto da definirne il tipo cellulare. Il legame che si instaura tra la proteina e queste strutture è tutto tranne che casuale. ICP4 è infatti in grado di riconoscere e legare solo i G-quadruplex che hanno una determinata conformazione: sebbene questi ultimi abbiano più conformazioni, quelli nel genoma di HSV-1 sono quasi tutti nella conformazione

Lo studio, pubblicato dalla rivista “Nature Communications Biology”, ha illustrato la scoperta di un nuovo meccanismo molecolare impiegato appunto dal virus dell’herpes simplex di tipo 1 (HSV-1) quando infetta l’uomo. © anatoliy_gleb /shutterstock.com

che viene riconosciuta da ICP4, a conferma della specificità del riconoscimento. Per rendere di facile comprensione il meccanismo si potrebbe semplificare dicendo che è come se una chiave riconoscesse esattamente una particolare serratura che apre. Queste speciali strutture tridimensionali sono da molti anni oggetto di studio da parte di Sara Richter, che ne ha mostrato l’importanza nella regolazione anche del virus dell’Immunodeficienza umana (HIV-1), oltre che di particolari tumori noti come sarcomi. Mediante il riconoscimento di queste strutture di Dna la proteina ICP4 dell’herpes simplex di tipo 1 stimola la produzione di nuovi virus, sempre di tipo HSV-1, e convince la cellula umana ad aiutare il virus a moltiplicarsi, aumentando i danni causati dall’infezione. I risultati ottenuti dallo studio delineano nuovi e fondamentali aspetti della biologia non solo di questo virus, ma della stessa cellula umana. Una notizia rilevante, inoltre, è quella che fa venire alla luce un nuovo bersaglio farmacologico. Ad oggi il trattamento dell’infezione da HSV-1 è possibile mediante pochissimi farmaci che stanno, purtroppo, via via perdendo rapidamente efficacia a causa dell’insorgenza di nuovi ceppi virali resistenti ai farmaci in uso. Nessun trattamento antivirale disponibile è infatti in grado di eradicare l’infezione da HSV e il trattamento del primo episodio di infezione orale o genitale non previene l’infezione cronica dei nervi. Farmaci come aciclovir, valaciclovir o famciclovir possono solo alleviare leggermente il disagio e facilitare la risoluzione dei sintomi con uno o due giorni di anticipo. Il trattamento è più efficace se iniziato precocemente, in genere entro poche ore dall’esordio dei sintomi, preferibilmente alla comparsa sensazione di formicolio o di fastidio, prima che compaiano le vescicole. Lo studio potrà invece aiutare ad invertire questa tendenza visto che i risultati in esso descritti permetteranno di disegnare molecole capaci di bloccare il legame della proteina ICP4 con le strutture G-quadruplex, bloccando molto specificamente il ciclo vitale e i numerosi danni causati dal virus. GdB | Maggio 2021

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Workshop in sei giornate

QUALITÀ & MEDICINA DI LABORATORIO LO STATO DELL'ARTE NEL CENTRO ITALIA Presentazione Corso Prelievi Regioni Emilia Romagna-Marche e Toscana-Umbria Organizzato dall’Ordine Nazionale dei Biologi Delegazione Regionale Toscana-Umbria, Delegazione Regionale Emilia Romagna-Marche e Delegazione Piemonte, Liguria e Val D’Aosta Organizzato dall’Ordine Nazionale dei Biologi Delegazione Regionale Toscana-Umbria e Delegazione Regionale Emilia-Romagna-Marche 28 GdB | Maggio 2021

http://toscanaumbria.ordinebiologi.it/ http://emiliaromagnamarche.ordinebiologi.it/ http://piemonte.ordinebiologi.it/


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egli ultimi mesi è diventato il paese simbolo dell’uscita dal tunnel del Covid, grazie a una massiccia campagna vaccinale che nei primi due mesi dall’inizio delle somministrazioni è riuscita a immunizzare con doppia dose l’85% degli individui di età superiore ai 60 anni, registrando – come evidenziato da uno studio pubblicato su Nature ad aprile (https://www.nature.com/articles/ s41591-021-01337-2#Abs1) - un calo del 77% circa dei casi, un calo del 45% della percentuale di test positivi, del 68% dei ricoveri e del 67% dei ricoveri gravi rispetto ai valori di picco. Ma Israele è anche ricerca: così, un gruppo di ricercatori del Sourasky Medical Center di Tel Aviv ha sperimentato un farmaco in grado di accelerare la ripresa di pazienti affetti da Covid-19. La sostanza, ideata dal team del professor Nadir Arber e battezzata “EXO-CD24”, è stata somministrata a 30 pazienti le cui condizioni erano moderate o gravi – ricoverati ma non intubati -, e tutti e 30 si sono ripresi: 29 sono stati dimessi entro 3-5 giorni (il 30esimo ha solo avuto bisogno di qualche giorno in più). Il medicinale combatte la famigerata tempesta citochinica, una reazione immunitaria potenzialmente letale dell’infezione da coronavirus che si ritiene sia responsabile di gran parte dei decessi associati alla malattia. E lo fa usando gli esosomi, particelle minuscole (30130 nanometri) a forma di sacche che trasportano i materiali tra le cellule, per fornire la proteina CD24 (da qui il nome di EXO-CD24) ai polmoni. Il farmaco, consistente in piccole palline contenenti un’elevata quantità della proteina, è stato somministrato per inalazione una volta al giorno per cinque giorni, e in questa prima fase non ha mostrato effetti collaterali. Il team israeliano ha fatto sì che cellule cresciute in laboratorio venissero “costrette”, tramite ingegneria genetica, a produrre esosomi che hanno sulla superficie molte molecole di CD24 e che

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IN ISRAELE SI LAVORA AL FARMACO ANTI-COVID Si chiama EXO-CD24, viene somministrato per inalazione e finora non ha mostrato effetti collaterali. Su 30 pazienti, 29 sono stati dimessi in 3-5- giorni

vanno a finire nel liquido dove vivono queste cellule. La proteina CD24 si trova sulla membrana di alcune cellule, ma anche degli esosomi prodotti dalle cellule del nostro organismo. È presente in alcune cellule del sistema immunitario, in particolare sui linfociti T, linfociti B, macrofagi e neutrofili, modificandone il comportamento. Assiste i linfociti T nel reagire contro i virus con l’enorme vantaggio di non determinare una risposta infiammatoria che danneggi le cellule dell’organismo e aiuta linfociti T, linfociti B, macrofagi e neutrofili ad aderire alle pareti dei capillari per

andare nel tessuto dove c’è bisogno di loro. In pazienti Covid-19 in cui si sia sviluppata una polmonite – quando in sostanza si verifica la tempesta citochinica – la principale azione del farmaco israeliano è portare la proteina CD24 ai linfociti T che così lottano contro il virus senza fare troppi danni al polmone. Organo che riesce a raggiungere tramite aerosol che gli consente di depositarsi nell’albero respiratorio: mucose del naso, bronchi e polmoni. Ad oggi, la scoperta israeliana ha superato lo studio clinico di fase 1 ma già grandi aspettative sono riposte sulla fase 2 e sulla fase 3. (C. D. M.) GdB | Maggio 2021

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IL CERVELLO E LA PROTEINA DELL’INVECCHIAMENTO Si chiama VGLUT e causa perdita di neuroni e vulnerabilità del nostro organo cerebrale. La scoperta della University of Pittsburgh Schools of the Health Sciences

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na proteina che determina la vulnerabilità del cervello, causando perdita di neuroni e invecchiamento, diversa tra uomo e donna, è stata individuata nell’ambito di una ricerca della University of Pittsburgh Schools of the Health Sciences, legata all’Italia attraverso UPMC, gruppo sanitario affiliato all’ateneo americano. La scoperta è stata annunciata in un articolo pubblicato su “Aging Cell”. La proteina in questione, chiamata “VGLUT”, risulta più abbondante nei neuroni di dopamina di moscerini della frutta, roditori ed esseri umani di sesso femminile rispetto che maschile.

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I ricercatori hanno potuto collegare questa scoperta alla maggiore resilienza delle donne alla perdita di neuroni legati all’invecchiamento e all’insorgere di problemi motori. Utilizzando una combinazione di tecniche genetiche e biochimiche, gli studiosi dell’ateneo statunitense sono stati in grado di dimostrare che attraverso una riduzione sotto il profilo genetico dei livelli di proteina “VGLUT” nelle mosche femmine si diminuisce anche la loro resistenza alla neuro-degenerazione associata all’invecchiamento. I disturbi neurodegenerativi come il morbo di Parkinson hanno probabilità più elevate

di svilupparsi con l’avanzare dell’età. Il Parkinson, malattia che a sintomi caratteristici come tremore a riposo, rigidità, bradicinesia e instabilità posturale aggiunge spesso e volentieri anche depressione e demenza, colpisce soprattutto gli uomini. Ma mentre le differenze biologiche di genere, che derivano da una combinazione di influenze ormonali, genetiche e ambientali, sembrano spiegare come mai le donne risultino protette nelle prime fasi, il regolatore di queste protezioni era, fino alla pubblicazione di questo studio, sconosciuto. Silas Buck, uno degli autori della ricerca, ha spiegato il significato scientifico del lavoro del team di ricerca americano: «Abbiamo scoperto che i livelli di VGLUT sono più alti negli organismi femminili che in quelli maschili, che aumentano con l’avanzare dell’età, e che è proprio questa proteina a proteggere dall’insorgere di disturbi neurodegenerativi. Questo - ha continuato lo scienziato - ci suggerisce che la proteina può avere un ruolo nel regolare le differenze di sesso nella vulnerabilità alla neuro-degenerazione nel Parkinson, e in altri disturbi neurologici la cui l’incidenza risulta minore nelle donne». Siamo dunque in presenza di una scoperta importante, in grado di contribuire ad individuare i gruppi a più alto rischio di sviluppare una patologia che si presenta come altamente invalidante per la singola persona, nonché ad elevato impatto per l’intero nucleo familiare del paziente, che finisce per ammalarsi insieme a lui, e per la società. La previsione è che il numero di persone colpite dalla malattia raggiunga i 20 milioni entro il 2040, per questo gli studiosi sperano di sondare ulteriormente il ruolo di VGLUT nella neuro-protezione negli esseri umani. (D. E.).


Salute

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li astrociti rivestono un ruolo di primo piano nei processi di sviluppo cerebrale neonatale. Rappresentano un importantissimo contingente strutturale del nostro cervello, più numeroso di circa dieci volte rispetto a quello formato dai neuroni. Queste cellule stellate sono sicuramente meno conosciute dei neuroni, ma non meno importanti da un punto di vista funzionale. Un nuovo studio coordinato da Paola Bezzi del Dipartimento di Fisiologia e farmacologia della “Sapienza” di Roma, realizzato insieme con ricercatori delle Università di Losanna e di Zurigo, mette in luce come la crescita e la maturazione delle cellule subito dopo la nascita sia fondamentale per la sopravvivenza dei neuroni e quindi per la corretta formazione e funzione dei circuiti nervosi nel cervello adulto. La funzione cerebrale si basa sull’attività dei circuiti nervosi e sui processi di trasmissione del segnale tra neuroni che avviene in piccole strutture chiamate sinapsi. Appena dopo la nascita, durante il periodo dell’allattamento, i neuroni sono ancora immaturi e le sinapsi sono ancora in via di formazione. Poco si sapeva invece sullo sviluppo e sul ruolo delle cellule stellate nei processi di sviluppo cerebrale neonatale. I ricercatori hanno sviluppato un nuovo approccio metodologico basato sull’iniezione di coloranti fluorescenti in grado di fornire una visione più dettagliata dell’organizzazione strutturale degli astrociti. Lo studio ha fatto emergere che la funzionalità dei circuiti neuronali e delle sinapsi dipendono dal corretto sviluppo delle cellule stellate che durante il periodo neonatale hanno una riserva energetica particolarmente sviluppata. «Abbiamo scoperto che tra le varie funzioni di queste cellule, ce ne è una che è fondamentale per il funzionamento dei neuroni: la pro-

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CERVELLO, LUCE SUL RUOLO DELLE CELLULE “STELLATE” Meccanismi molecolari alla base di molte patologie psichiatriche in uno studio coordinato dalla “Sapienza” in collaborazione con le Università di Losanna e di Zurigo

duzione di energia - spiega Paola Bezzi della Sapienza -. Gli astrociti sono dei veri e propri “baby-sitter” dei neuroni in via di sviluppo e usano molta energia per svolgere questo ruolo fondamentale. Usando delle tecniche genetiche di recente sviluppo, abbinate alla colorazione di una singola cellula, abbiamo dimostrato che in caso di malfunzionamento degli organelli deputati alla produzione di energia (i mitocondri), le cellule stellate non si sviluppano, non si prendono cura dei neuroni e così facendo inducono problemi nella formazione e maturazione delle cellule nervose e nelle sinapsi».

Nel campo delle neuroscienze, l’astrocita rappresenta attualmente uno degli argomenti più entusiasmanti in quanto le ricerche sulla maturazione perinatale del cervello sono alla base della comprensione delle malattie ad esso collegate. I risultati ottenuti dai ricercatori permettono di approfondire i meccanismi cellulari e molecolari di numerose patologie psichiatriche che insorgono nel periodo perinatale e colpiscono prevalentemente la maturazione dei circuiti nervosi, come l’autismo, la schizofrenia o il deficit dell’attenzione, e di individuare così nuovi potenziali farmaci. (E. M.) GdB | Maggio 2021

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Salute

SCLEROSI: UN CANALE BLOCCA L’INFIAMMAZIONE Lo dimostra uno studio nazionale coordinato da Giuseppe Matarese della Federico II insieme a dell’IRCCS MultiMedica di Milano e IEOS-CNR di Napoli

di Carmen Paradiso

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italiana l’ultima scoperta che riguarda la sclerosi multipla. Il team di ricercatori coordinato da Giuseppe Matarese della Federico II insieme a dell’IRCCS MultiMedica di Milano e IEOS-CNR di Napoli ha scoperto il canale di trasporto che blocca l’infiammazione alla base della sclerosi multipla. Tutto si concentra sulla funzione delle cellule T regolatorie (Treg) che bloccano l’infiammazione. Lo studio, finanziato da Fondazione Italiana Sclerosi Multipla (FISM), dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR) e dal Ministero della Salute, pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Immunity (Cell Press) ha visto la collaborazioni di diversi di altri enti di ricerca nazionali (l’Università dell’Insubria di Varese, la Fondazione Ri.MED di Palermo e AORN “Dei Colli” di Napoli) e internazionali (Università di Tampere e l’Università di Helsinki, Finlandia). La ricerca ha evidenziato che alterazioni del canale che trasporta gli amminoacidi cistina/glutammato nella funzione delle cellule T regolatorie (Treg), che bloccano l’infiammazione, provocano una ridotta crescita di queste cellule nella sclerosi multipla. La crescita di queste cellule sentinelle che garantiscono il mantenimento della cosiddetta “tolleranza immunitaria” dipende dalla capacità di produrre la proteina SLC7A11, una sorta di “canale di trasporto” sulla membrana delle Treg che permette l’ingresso dell’amminoacido cistina e l’uscita del glutammato. L’equilibrio dei radicali liberi, dannosi per la funzione e la crescita di queste cellule, viene proprio garantito da 32 GdB | Maggio 2021

questo trasporto. Quindi, nei pazienti affetti da sclerosi multipla, è evidente la ridotta capacità di produrre la proteina SLC7A11 delle cellule Treg. Inoltre, gli studiosi hanno evidenziato che attraverso una restrizione calorica si verifica aumento della produzione di SLC7A11. «Nessuno sa perché o per quale difetto metabolico le Treg perdano la loro capacità di crescita e la loro funzione nella SM – spiega il coordinatore dello studio Prof. Giuseppe Matarese – ma Il DMF sembrerebbe mediare una azione

“mimetica” di uno stato di “restrizione calorica (RC)” (definito come pseudo-starvation), e dunque questi risultati avrebbero conseguenze terapeutiche, identificando SLC7A11 come potenziale nuovo bersaglio per una terapia “immunometabolica” più mirata della SM». Inoltre, uno studio clinico in corso, finanziato da FISM, sta valutando gli effetti anti-infiammatori che si hanno associando le classiche di terapie farmacologiche della sclerosi multipla associata ad una restrizione calorica. Al fine di verificare se ci possa essere, attraverso questo approccio, un potenziamento dell’efficacia terapeutica dei farmaci. Questo apre la strada ad una terapia “immunometabolica” più mirata. La ricerca, infine, ha mostrato come, grazie ad una terapia farmacologica, nello specifico il “dimetil fumarato – DMF”, le cellule Treg nei soggetti con sclerosi multipla possono recuperare la capacità di produrre l’SLC7A11 con un conseguente riequilibrio della loro capacità di crescita.

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na delle figure più rappresentativa della medicina i tempi di Roma imperiale sicuramente è quella di Claudio Galeno di Pergamo, che vive tra i 120 ed il 201 d. C. Come Ippocrate nel suo “Corpus” elabora i suoi studi di medicina tanto da meritare l’appellativo di grande divulgatore scientifico ed Aristotele attraverso ricerche approfondite arriva a concludere che l’anatomia e la fisiologia sono le colonne importanti della cultura medica, così Galeno nella sua vita preferisce attendere a studi multidisciplinari: infatti, la critica storico-scientifica ne tesse le lodi definendolo filosofo, architetto, matematico e medico. Galeno sin da giovane applica tutta la sua attenzione alle concezioni filosofiche di Platone e, successivamente, si dedica con interesse alla conoscenza delle opere scientifiche di Ippocrate e Aristotele. Dopo questi suoi impegni applicativi, Galeno sviluppa la cosiddetta “metodologia galenica”, che rappresenta il primo avvicinamento o contatto a determinate patologie e singoli organi. Questo approcciarsi di Galeno alla conoscenza “de visu” delle cause delle malattie e alla ricerca di eventuali rimedi per attenuarle o eliminarle è tanto importante che viene definito iniziatore della scienza specialistica in campo medico. Poi, essere medico dei gladiatori a Roma gli permette di specializzarsi in chirurgia. La metodologia galenica viene portata avanti come attività medica per tanti secoli, addirittura fino al Rinascimento. Anche oggi noi moderni, quando un “rimedio” viene realizzato nel laboratorio di una farmacia, lo definiamo “preparato galenico” cioè un prodotto effettuato direttamente dal farmacista. Il contributo più originale di Galeno consiste nello studio della struttura e delle funzioni degli organi; l’anatomia, che nel sistema galenico ha

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LA METODOLOGIA DI GALENO, IL MEDICO FILOSOFO Filosofo, architetto, matematico e medico. Con la cosiddetta “metodologia galenica”, rappresenta il primo avvicinamento a determinate patologie e singoli organi

di Barbara Ciardullo

importanza fondamentale, costituisce la possibilità di verificare e conoscere le origini e le cause di una malattia. Infine, in un suo opuscolo teorico dal titolo “Il migliore medico”, Galeno dice che il medico è anche filosofo e questo suo dire è in linea con il moralismo dell’età imperiale: il buon medico deve essere prima di tutto cultore delle virtù. La medicina, infatti, è una professione filantropica. Il buon medico, però, è anche attento e cul-

turalmente preparato indagatore della realtà circostante: deve così servirsi con saggezza della logica, della fisica e dell’etica Diversamente si comportano i medici mestieranti che, tradendo i veri scopi della medicina ed anche i principi del giuramento di Ippocrate, esercitano la loro professione solo per lucro. Il vero medico, per Galeno, sceglierà una vita virtuosa e lontana da ogni tipo di corruzione. GdB | Maggio 2021

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Salute

BINGE DRINKING “ABITUDINE” PER 3,8 MLN DI ITALIANI Secondo l’Istituto Superiore di Sanita molti i i giovanissimi coinvolti. Assunti, in un’unica occasione, 6 o più bicchieri di bevande alcoliche. Impennata dei consumi domestici di Emilia Monti

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l binge drinking, il bere per ubriacarsi, l’abbuffata di 6 o più bicchieri di bevande alcoliche in un’unica occasione, è una pessima abitudine che lo scorso anno ha visto protagonisti ben 3,8 milioni di italiani. Uso e abuso di alcol è sempre più diffuso nel nostro Paese, soprattutto fra i giovanissimi. Trascinato da aperitivi digitali, consegne a domicilio e stress da pandemia, l’approvvigionamento delle bevande alcoliche non ha conosciuto pause nel periodo del lockdown. Anzi, la pandemia ha cambiato le abitudini degli italiani e il mercato si è subito adeguato, rafforzando nuovi canali alternativi e anche meno controllati relativamente al divieto di vendita a minori. Tanto che, con l’aumento dei consumi domestici, gli acquisti su canali online di e-commerce per il settore delle bevande alcoliche si stima abbiano conosciuto un’impennata nel 2020 tra il 181 e il 250% nell’home delivery. A metterlo in luce sono i dati diffusi dall’Istituto Superiore di Sanità (Iss) in occasione dell’Alchool Prevention Day celebrato a metà maggio. Sono stati più di 36 milioni i consumatori di alcolici nel 2019 (20 milioni maschi e 16 milioni femmine): il 77,8% degli italiani di 11 anni e più e il 56,5%, delle italiane, per le quali si è confermato il trend in crescita dal 2014. La prevalenza degli astemi nel 2019 è stata del 18,3% tra gli uomini e del 38,1% tra le donne, e per queste il trend continua a diminuire, facendo

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registrare un ulteriore decremento del 3,4% rispetto all’anno precedente. Criticità nei modelli del bere è stata registrata soprattutto per i minori e gli adolescenti, le donne e gli anziani; nel 2019, sono state circa 8,2 milioni le persone di età superiore agli 11 anni (5,7 milioni maschi - 21,5% e 2,5 milioni femmine - 8,9%), che hanno adottato su base regolare, quotidiana, modalità di consumo a rischio di bevande alcoliche con evidente e sostanziale invarianza da oltre 8 anni, fatta eccezione per una riduzione tra i consumatori a rischio di sesso maschile dal 23,4 % del 2018 al 21,5 % del 2019. I dati pre-Covid del 2019 evidenziano nell’analisi per classi di età che le fasce di popolazione con consumatori più a rischio è stata, per entrambi i generi, quella dei circa 750.000 minorenni, prevalentemente 16-17enni (maschi 42,2%; femmine 39,2%), seguita da oltre 2,7 milioni di anziani ultra-65enni (maschi 34%; femmine 8,6%), fascia in cui un maschio su tre e una donna su dieci consuma secondo modalità a rischio. La prevalenza di consumatori a rischio di sesso maschile è stata superiore a quelle delle donne per tutte le classi di età a eccezione dei minorenni. La persistenza di uno zoccolo duro, rappresentato da un numero così elevato di consumatori e consumatrici a rischio, appare, peraltro, ulteriormente aggravato dal riscontro recentissimo di un incremento al 23,6% per i maschi e al 9,7% per le femmine nel corso del


2020, che consumano a rischio. A preoccupare in particolar modo è stato l’aumento registrato nel 2020 delle giovani consumatrici a rischio, le 14-17enni, che superano per numerosità, per la prima volta, i loro coetanei consumatori a rischio (30,5% contro il 28,4% dei maschi) in un quadro complessivo d’incremento del rischio al femminile diffuso a tutte le classi di età sino ai 60 anni e di incrementi registrati tra i maschi, più evidenti tra i 35-e i 60 anni. L’approvvigionamento delle bevande alcoliche non ha conosciuto pause nel periodo del lockdown e il mercato ha rafforzato nuovi canali alternativi e anche meno controllati relativamente al controllo del divieto di vendita a minori, cambiando molte abitudini, tra le altre anche gli acquisti su canali online di e-commerce, che, per il settore delle bevande alcoliche, si stima abbiano conosciuto un’impennata nel 2020 tra il 181 e il 250% nell’home delivery, con un aumento dei consumi domestici registrati da più settori.

L’approvvigionamento delle bevande alcoliche non ha conosciuto pause nel periodo del lockdown e il mercato ha rafforzato nuovi canali alternativi e anche meno controllati relativamente al controllo del divieto di vendita a minori

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L’isolamento ha portato ad un incremento di consumo incontrollato, anche favorito da aperitivi digitali sulle chat e sui social network, spesso in compensazione della tensione conseguente all’isolamento, alle problematiche economiche, lavorative, relazionali e dei timori diffusi nella popolazione resa sicuramente più fragile dalla pandemia. I servizi di alcologia e i dipartimenti per le dipendenze e di salute mentale, a causa delle chiusure obbligate dall’impossibilità di ricevere utenti in presenza, hanno registrato una crescita di difficile gestione prima, durante e dopo i lockdown per la scarsità delle risorse a disposizione, per la quantità di richieste inevase per le restrizioni anti-COVID-19 e l’impreparazione relativa a soluzioni digitali solo tardivamente introdotte in maniera disomogenea sul territorio dimostrando i gap da colmare con una indispensabile riorganizzazione degli aspetti organizzativi, gestionali, funzionali e logistici delle strutture del SSN.

Brusaferro: bisogna potenziare la prevenzione

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na volta che riusciremo a trovare un modo per convivere con il coronavirus, grazie alle vaccinazioni, tutta l’attenzione ai programmi di prevenzione dovrà essere ulteriormente potenziata, inclusa quella nei confronti dell’abuso di alcol, che è Silvio Brusaferro. una delle priorità su cui dobbiamo concentrarci, con un’attenzione particolare alle giovani generazioni». A spiegarlo è stato il presidente dell’Istituto superiore di Sanità (Iss) Silvio Brusaferro. «Anche se in Italia le condizioni della circolazione del Sars-Cov-2 sono significative - ha precisato - l’attenzione verso questo tipo di problematica non deve scemare, così come la formazione e l’educazione. Bisogna tenerla alta per un uso consapevole dell’alcol ed evitare abuso e dipendenza». GdB | Maggio 2021

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Salute

TRIGLICERIDI, PERICOLOSI ANCHE PER I SANI Lo studio TG-real su 158mila pazienti: bastano lievi innalzamenti dei livelli per aumentare i rischi. Attenzione anche a chi non ha fattori di rischio

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nche lievi innalzamenti dei livelli di trigliceridi possono essere pericolosi per l’organismo. È quanto emerge da “TG-real”, studio epidemiologico mondiale sui trigliceridi pubblicato sul “Journal of American Heart Association” (Jaha) e realizzato con il contributo non condizionato di Alfasigma. Già a partire dai 150 milligrammi per decilitro (mg/dL), infatti, aumentano il rischio di sviluppare eventi aterosclerotici e mortalità per tutte le cause, anche in una popolazione a lieve-moderato rischio cardiovascolare. Proprio Alfasigma, uno dei cinque principali player dell’industria farmaceutica in Italia, sottolinea come i risultati della ricerca suggeriscano che «è fondamentale tenere sotto controllo questi livelli e che adottare uno stile di vite sano, seguendo un’appropriata alimentazione e svolgendo un’adeguata attività fisica, riduce il rischio». Allo stesso modo, l’indicazione proveniente da TG-real è che «quando le misure adottate non sono sufficienti e diventa necessario assumere farmaci» si può fare ricorso a fibrati e acidi grassi omega-3. Marcello Arca, professore associato del Dipartimento di Medicina traslazionale e di precisione dell’università La Sapienza di Roma, capofila del lavoro multicentrico che «per la prima volta a livello mondiale ha dimostrato, su una vasta popolazione italiana a basso-moderato rischio cardiovascolare, che livelli di trigliceridi tra 150 e 500 mg/dL sono associati a un aumento significativo di eventi cardiovascolari e mortalità, e che questi valori si riscontrano

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nel 10% della popolazione indagata», ha sottolineato come ci siano voluti tre anni per portare compimento questo importante studio. A detta degli esperti, la rilevanza della ricerca è da ricondurre principalmente a due motivi: «Il primo è che ha dimostrato come l’ipertrigliceridemia possa aumentare la probabilità di un soggetto di andare incontro alle malattie ischemiche causate dalla aterosclerosi, il secondo è che questa osservazione è stata compiuta in un grande gruppo di soggetti, ben 158mila, che non presentavano patologie particolari e quindi potevano essere definiti a basso rischio». La correlazione tra alti livelli di trigliceridi ed eventi aterosclerotici e mortalità per tutte le cause emersa grazie allo studio non era mai stata indagata a sufficienza in pazienti a basso rischio cardiovascolare. La ricerca, invece, ha infatti chiarito che «valori di trigliceridemia superiori a 150 mg/dL e fino a 500 mg/dL aumentano di circa due volte la probabilità di andare incontro alle malattie ischemiche legate all’aterosclerosi come infarto acuto del miocardio e angina di petto, e di circa tre volte la probabilità di morire per tutte le cause». Ad essere esaminato è stato un gruppo di circa 158mila partecipanti. I pazienti, che al momento della prima osservazione non presentavano patologie di rilievo, sono stati monitorati per più di tre anni, così da verificare l’eventuale comparsa di complicanze, quali ad esempio un ricovero per infarto acuto del miocardio. Lo studio si è sviluppato attraverso un metodo innovativo, basato sulla messa in comune di informazioni derivanti dalle schede dei ricoveri ospedalieri, dalle informazioni sulla dispensazione dei medicinali e dai


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dati in possesso dei medici di famiglie e dei laboratori di analisi. Un sistema dunque molto complesso e articolato che, nel rispetto delle autorizzazioni previste dalla legge, ha conseguito mediante l’utilizzo di sofisticati sistemi informatici l’obiettivo di tracciare e ricostruire la storia clinica di ogni soggetto coinvolto. Come rimarcato dal dottor Arca, i risultati del lavoro suggeriscono per il futuro di «includere sempre nella valutazione clinica dei nostri pazienti la misura della trigliceridemia, cosa che troppo spesso oggi viene trascurata e dimenticata a vantaggio della sola attenzione nei confronti della colesterolemia. La conoscenza dei valori della trigliceridemia può darci una guida e un indirizzo utile per migliorare gli interventi terapeutici e quindi la salute dei cittadini». Secondo il professore dell’ateneo capitolino, «al di là di alcune malattie genetiche che causano un aumento anche molto marcato dei trigliceridi, la causa più frequente della ipertrigliceridemia è rappresentata dalla combinazione di fattori di predisposizione genetica con il sovrappeso, soprattutto quello che fa aumentare il girovita, e un cattivo funzionamento dell’insulina: una condizione che modernamente viene definita sindrome metabolica. Sappiano che la sindrome metabolica ha tra le sue cause remote una dieta troppo ricca in calorie rispetto alle necessità e una ridotta attività fisica». Per prevenire l’innalzamento dei trigliceridi è importante evitare l’aumento di peso e non superare la quantità di calorie necessarie, come accade in particolare durante certi periodi dell’anno, come le feste natalizie. Tenere alto il livello di guardia è importante soprattutto se si è sovrappeso o si soffre di malattie metaboliche come il diabete. Dinanzi ad un eccesso di peso c’è un bivio, ha spiegato Arca: «O si interviene sul fronte delle entrate, riducendo la quantità di cibo, oppure si aumenta il dispendio energetico, incrementando il proprio livello di attività fisica. Il tutto sempre in modo graduale e controllato. Se tutto questo non è sufficiente ed è necessario usare farmaci, al momento quelli disponibili sono i fibrati e gli acidi grassi omega-3». (D. E.).

La correlazione tra alti livelli di trigliceridi ed eventi aterosclerotici e mortalità per tutte le cause non era mai stata indagata a sufficienza in pazienti a basso rischio cardiovascolare. La ricerca, invece, ha infatti chiarito che «valori di trigliceridemia superiori a 150 mg/dL e fino a 500 mg/dL aumentano di circa due volte la probabilità di andare incontro a infarto acuto del miocardio e angina di petto. © Suttipun /shutterstock.com

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GLI SCARTI DEL LIMONE FANNO BENE AL CUORE Dal frutto possono essere creati integratori e nutraceutici da utilizzarsi nella prevenzione di alcune patologie come obesità, diabete, ipercolesterolemia e disturbi cardio-vascolari di Gianpaolo Palazzo

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ella limonata / (Cha cha cha) seduti in riva al mar / (Cha cha cha) della limonata / (Cha cha cha) seduti in riva al mar». Nel marzo del 1984 il brano “Limonata Cha Cha Cha” viene pubblicato da Giuni Russo come lato B del suo undicesimo singolo. Al testo collabora Franco Battiato, con le pseudonimo di Tripolino, due siciliani fieri delle proprie origini e dell’agrume con un frutto ovoide giallo. Trentasette anni dopo, in collaborazione con Enea, due aziende sicule “Navhetec srl” e “Agrumaria Corleone spa”, scelgono ancora il Citrus limon e brevettano una metodologia per convertire gli scarti della lavorazione in integratori e nutraceutici. Il cosiddetto pastazzo, residuo di limoni e altri agrumi che hanno subito un processo di spremitura, prima era destinato prevalentemente all’alimentazione del bestiame, alla concimazione e anche all’estrazione della pectina. I nuovi prodotti, invece, si potranno utilizzare nella prevenzione di alcune patologie quali diabete, obesità, ipercolesterolemia e disturbi cardio-vascolari. Partito nel 2016, il progetto si basa sull’utilizzo della tecnologia “separazione su membrana”, condotto dall’Enea, cui si aggiungono fasi di incapsulamento ed essiccazione grazie alla tecnologia di spray-drying essiccazione a spruzzo. Dagli avanzi e dai sottoprodotti venuti fuori durante la lavorazione si ricavano delle nanovescicole, piccolissime sfere ricche di composti bioattivi come acidi nucleici, polifenoli, lipidi e proteine. La loro dimensione è compresa fra i 50 e 70 nm, sono co-

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nosciuti come esosomi e vengono utilizzati dalle cellule per comunicare tra loro. Alcuni studi in vivo e in vitro portati avanti dalla start-up “Navhetec” (acronimo di Nanovesicles in health and technology), spin-off accademico dell’Università di Palermo, incubata presso il Consorzio Arca, hanno dimostrato la capacità di diminuzione nella crescita di cellule tumorali, mentre studi ancora in corso ne mostrano le proprietà antinfiammatorie. Inoltre, nel 2019, dopo la sperimentazione del sistema brevettato su alcuni volontari sani, è stata confermata una riduzione di alcuni fattori di rischio cardiovascolare, come colesterolo-LDL e circonferenza vita. Paola Sangiorgio ricercatrice del Laboratorio bioprodotti e bioprocessi, presso il Centro ricerche Trisaia a Rotondella (MT) racconta che la “Navhetec” li abbia contattati qualche anno fa per risolvere un problema: «trovare una soluzione tecnologica alternativa per la separazione su larga scala di nanovescicole col fine di selezionarle dagli scarti lavorativi del succo di limone prodotto da “Agrumaria Corleone”. Il sistema consta di due fasi: la prima è la separazione delle nanovescicole dalla matrice, mediante tecnologie a membrana, la seconda essiccazione del permeato derivante dalla prima». Il brevetto può essere adatto anche con altre matrici vegetali e permette di avere un prodotto facilmente utilizzabile e dosabile, con alta stabilità e conservabilità, agevolmente trasferibile su scala industriale, con costi e tempi di produzione minori se comparati con le tecniche tradizionali di ultracentrifugazione. «Utile anche per la formulazione di cibi e be-


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vande con proprietà nutraceutiche - continua Paola Sangiorgio - il brevetto si ispira al principio zero waste nei processi produttivi ed è in grado di rispondere sia a esigenze ambientali che economiche, legate da una parte all’abbattimento dei costi di smaltimento e dall’altra alla trasformazione degli scarti agroindustriali in bioprodotti ad alto valore aggiunto». La microfiltrazione trattiene nel concentrato tutte le sostanze sospese e produce «un permeato, quella frazione di liquido che supera il filtro, diventando un prodotto intermedio. Nel permeato - spiega Daniele Pizzichini del Laboratorio bioprodotti e bioprocessi, Centro ricerche Casaccia di Roma - si raccolgono le vescicole e gli elementi polifunzionali come polifenoli e flavonoidi, convertiti poi in una frazione stabile sotto forma di polvere». Dopo la microfiltrazione il permeato viene avviato all’atomizzazione e trasformato in polvere. «Con l’aggiunta di opportune sostanze - prosegue Gian Paolo Leone, sempre del Centro ricerche Casaccia - è possibile creare un coating attorno alle nanovescicole ottenendo un incapsulamento delle stesse e, dunque, una migliore stabilità microbiologica e conservabilità nel tempo». Le loro caratteristiche fisiche permettono d’ipotizzare che, secondo il gruppo di ricerca “Navhetec”, anche se già utilizzabili allo stato attuale, per mezzo dell’ingegnerizzazione potrebbero consentire di veicolare altri composti naturali e non, direttamente dove ce ne fosse bisogno. Considerata la presenza di vitamine e antiossidanti nelle nanovescicole dei limoni, il prossimo obiettivo della start-up palermitana sarà quello di valutare il loro impiego in altri campi applicativi, come la cosmetica. L’ipotesi accattivante è servirsene per combattere le specie reattive dell’ossigeno, causa di danni alle strutture cutanee e cellulari, tramite la vendita di creme e cosmetici, un settore che sempre più ricerca prodotti di origine naturale e vegetale.

Le varietà

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sistono numerose varietà di limoni: a frutto globoso, piriforme, senza umbone, a polpa sanguigna, dolce, a foglie strette ecc. Se le condizioni climatiche lo permettono, è rifiorente e i frutti maturano per gran parte dell’anno; i più importanti nella produzione sono i “Primofiore”, che provengono dalla fioritura di aprile-maggio. Con una pratica di forzatura se ne può avere un’altra nel mese di settembre, per fare nascere i verdelli, che maturano da maggio a settembre (maggiolini o verdelli primaticci, bastardi o verdelli tardivi). Oltre ad essi, ci sono i limoni invernali, quelli comuni raccolti da novembre ad aprile. I lunari, con scorza grossa e rugosa, sono poco acidi, maturano tra luglio e agosto ma, in climi particolarmente idonei, possono fruttificare ad ogni luna, cioè tutti i mesi. GdB | Maggio 2021

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I CAPELLI DELLE DONNE DI HUANGLUO A Guangxi nel sud della Cina, c’è il “Paese dei capelli lunghi“ di Biancamaria Mancini 40 GdB | Maggio 2021

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capelli lunghi sono da sempre un simbolo di fascino ma anche di forza. Non è sempre facile farli allungare e ancora meno farli rimanere sani, lucenti e ben pigmentati. Il capello non si allunga all’infinito, infatti questo passa attraverso un ciclo vitale composto da tre macro fasi: la fase di “Aanagen” che rappresenta la fase di crescita, il “Catagen” in cui si interrompono le divisioni cellulari e il “Telogen” che è la fase finale di invecchiamento e caduta. La fase di Anagen è il momento in cui il capello si allunga e dura in media dai 3 ai 5 anni, nelle donne anche fino ai 7 anni. Considerato che l’allungamento del capello è di circa 1 cm al mese, capiamo che i capelli possono diventare molto lunghi, ma con un limite legato proprio alla vita del capello e alla sua salute. Durante il corso della vita infatti, sia uomini che donne possono andare incontro ad alterazioni del capillizio che portano la chioma ad impoverirsi, assottigliarsi ed in alcuni casi a diradarsi. Se pensiamo che circa l’80% degli uomini e il 50% delle donne ha sofferto di un problema di capelli nell’arco della propria vita, è sorprendente sapere che a Huangluo, un villaggio situato nella provincia del Guangxi tra le montagne del sud della Cina, tutte le donne hanno dei capelli meravigliosi, considerati di una bellezza unica al mondo. I capelli di queste donne possono raggiungere 2,10 metri di lunghezza sfoggiando una qualità ottimale. Tali donne reputano un bene preziosissimo i propri capelli e seguono scrupolosamente dei trattamenti tradizionali per lavarli e curarli. Le nere capigliature delle donne “Yao“, mantengono un aspetto forte e brillante sino alle età più avanzate, senza mostrare un singolo capello bianco anche oltre gli 85 anni. Per tale particolarità il villaggio è noto come il “Paese dei capelli lunghi“, ed è riconosciuto dal Guinness dei Primati come il luogo con la media di capelli più lunghi al mondo. I capelli sono considerati un elemento della propria femminilità più privata, per questo vengono sciolti soltanto in presenza del marito e dei figli, mentre in pubblico l’acconciatura è tipicamente raccolta. Per le donne Yao la capigliatura testimonia uno status sociale e sono un elemento fondamentale della propria identità di donna, tanto da

Il capello non si allunga all’infinito, infatti questo passa attraverso un ciclo vitale composto da tre macro fasi: la fase di “Aanagen” che rappresenta la fase di crescita, il “Catagen” in cui si interrompono le divisioni cellulari e il “Telogen” che è la fase finale di invecchiamento e caduta. La fase di Anagen è il momento in cui il capello si allunga e dura in media dai 3 ai 5 anni, nelle donne anche fino ai 7 anni. © d1sk/shutterstock.com

obbedire a delle regole precise su come gestirli. La regola primaria è di poter tagliare i capelli soltanto una volta nella propria vita, esattamente al compimento del loro 18° esimo anno. Al momento del matrimonio invece, la capigliatura della donna viene donata allo sposo che non ne permetterà più alcun taglio. I capelli sono trattati quasi come oggetti sacri, persino i capelli che cadono naturalmente vengono raccolti e curati, e magari venduti per fare delle parrucche. Parlando dello status sociale di appartenenza, il regolamento dice che se la donna è sposata dovrà portare i capelli in cima alla testa come un vassoio. Nel caso invece la donna sia alla ricerca di marito, lo comunicherà mettendo un foulard sui capelli, infatti i capelli sono nascosti come le sue parti intime da svelare solo al futuro marito. Tutti si sono sempre domandati quale fosse il segreto di tale forza e bellezza nella chioma. Da alcune pubblicazioni sembra che il segreto consista proprio nel lavare i lunghi capelli con un particolare shampoo a base di acqua di riso fermentato. Tale pratica nasce da un’antica tradizione Huangluo, ma ha in relatà solide basi scientifiche tanto da occupare le pagine di un articolo nell’International Journal of Cosmetic Science. Infatti, l’acqua di riso fermentata è ricca di minerali, antiossidanti, aminoacidi e vitamine del gruppo B ed E. In particolare le vitamine del gruppo B rallentano l’incanutimento stimolando i melanociti. Inoltre, l’acqua di riso è ricca di Inositolo che aumenta l’elasticità e diminuisce l’attrito superficiale della cuticola dei fusti preservandone la compattezza. In ultimo, ma di grande importanza tricologica, tale composto rilascia la pitera, una sostanza chimica che promuove la rigenerazione cellulare ed ha un pH acido, proprio come il pH dei nostri capelli, permettendo così alle cellule della cuticola di rimanere ben chiuse, compatte con il risultato di una chioma lucente e resiste ai danni. Concludendo, anche se non siamo appartenenti a questa sorprendente etnia, abbiamo la possibilità di usufruire dei grandi vantaggi dell’acqua di riso fermento e di altri estratti vegetali dalle importanti proprietà che la natura stessa ci mette a disposizione e che oggi conosciamo sempre meglio in ambito cosmetico tricologico. GdB | Maggio 2021

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CELLULITE E TRATTAMENTI MIRATI Agenti topici, dispositivi a base energetica, sottocisione, farmaci biologici iniettabili e filler dermici di Carla Cimmino

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Tratto da “Treatment for cellulite” Neil Sadick, Department of Dermatology, Weill Cornell Medical College, New York.

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a cellulite (pannicolopatia fibrosclerotica edematosa) è una condizione della pelle che colpisce fino all’80% delle donne postpuberali (Luebberding et al., 2015), è caratterizzata da adipociti grandi e metabolicamente stabili presenti sul bacino, cosce e addome (Quatresooz et al., 2006). I lobuli adiposi presenti nel tessuto sottocutaneo vanno incontro ad un processo di erniazione attraverso la giunzione dermo-ipodermica, così i setti di collagene vanno incontro a fibrosi, che porta al loro accorciamento e alla loro retrazione, provocando le depressioni che caratterizzano la cellulite (buccia d’arancia). I fattori che contribuiscono allo sviluppo della cellulite sono tanti: sesso, genetica, stile di vita (Querleux, 2004, Querleux et al., 2002), ma l’esatta fisiopatologia non è ancora compresa, le ipotesi vanno da problemi vascolari / infiammatori a problemi ormonali e / o strutturali. Nel trattamento della cellulite vengono utilizzati: agenti topici, dispositivi a base energetica, sottocisione, farmaci biologici iniettabili, filler dermici. Agenti topici Le metilxantine (aminofillina, teofillina e caffeina) e i retinoidi sono gli ingredienti più ampiamente utilizzati nelle formulazioni per uso topico associate a massaggi vigorosi, in una concentrazione sufficiente, per avere l’effetto sperato nel trattamento della cellulite.

Da studi fatti è emerso che alcune formulazioni possono migliorare la produzione di collagene e ridurre la lassità cutanea, ma sono raramente efficaci sulla cellulite, che richiede un ampio rimodellamento di grasso, collagene e tessuto connettivo (Bertin et al., 2001, Green et al., 2015, Lupi et al., 2007, Pierard-Franchimont et al., 2000). Le ipotesi sono che: le metilxantine migliorino la cellulite stimolando la lipolisi e inibendo l’enzima fosfodiesterasi, che aumenta la concentrazione di adenosina monofosfato ciclico; i retinoidi, riducano la cellulite aumentando lo spessore del derma, aumentando l’angiogenesi, sintetizzando nuovi componenti del tessuto connettivo e aumentando il numero di fibroblasti attivi. Dispositivi ad energia Per il trattamento delle adiposità localizzate e / o della lassità cutanea sono stati testati: Laser, luce, radiofrequenza (RF) e onde acustiche Frequenza radio: I dispositivi RF forniscono energia termica al piano dermico / sottocutaneo tramite uno o più elettrodi. Aumentando la temperatura del tessuto nell’area interessata, viene stimolata la denaturazione, il rimodellamento e la neocollagenesi del collagene, e attivata la lipolisi. Alcuni dispositivi RF integrano anche altre energie come luce infrarossa, aspirazione a vuoto e campi elettromagnetici pulsati. Studi clinici,


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hanno dimostrato la loro efficacia nel ridurre la comparsa della cellulite (Luebberding et al., 2015, Romero et al., 2008, Sadick, 2009, Sadick e Magro, 2007, Sadick e Mulholland, 2004, Wanitphakdeedecha et al., 2017). Laser e luce: Questi dispositivi emettono energia al piano derma / sottocutaneo; riscaldano il tessuto locale, stimolano il rimodellamento del collagene e aumentando la microcircolazione, che migliora l’aspetto della cellulite. L’impatto di questi dispositivi può migliorare l’aspetto della pelle e levigare la superficie, ma non favorire la lipolisi Terapia delle onde acustiche: Le onde di pressione vengono trasmesse al tessuto sottocutaneo e promuovono la lipolisi, migliorano il flusso sanguigno locale, consentono il drenaggio linfatico e stimolano la produzione di nuovo collagene. In uno studio fatto sono state utilizzate due tipi di onde acustiche: onde d’urto focalizzate (ESWT) e onde d’urto radiali. Nassar et al. (2015) hanno valutato l’efficacia dell’ESWT dopo 8 sessioni trattando 15 individui per 4 settimane, si è notata una riduzione della circonferenza e dello strato di grasso così come nell’aspetto della cellulite 3 mesi dopo il trattamento. Subcisione: Le aree da trattare vengono intorpidite con un agente anestetico topico (vasocostrittore

Le onde di pressione vengono trasmesse al tessuto sottocutaneo e promuovono la lipolisi, migliorano il flusso sanguigno locale, consentono il drenaggio linfatico e stimolano la produzione di nuovo collagene © Ksenija Ok/shutterstock.com

con lidocaina), un ago (18 G) viene inserito sotto la pelle e viene utilizzata una tecnica a ventaglio, per rilasciare le corde fibrose della cellulite. Sebbene efficace, i principali svantaggi di questo trattamento sono gli effetti collaterali, tra cui edema, disagio, dolore e lividi (Hexcel e Mazzuco, 2000). E’ stato sviluppato e approvato dalla FDA un nuovo sistema TS-GS (tissue stabilised-driven subsicion) (sistema Cellfina). I vantaggi di Cellfina sono: il controllo preciso della profondità del trattamento e dell’area del tessuto (setti fibrosi di cosce e glutei). Cellfina ha dimostrato in studi clinici multicentrici di migliorare la cellulite con risultati che durano> 3 anni (Kaminer et al., 2017). Collagenasi Clostridium histolyticum Collagenasi I (AUX-I, Clostridial class I collagenase) e Collagenase II (AUX-II; Clostridial class II collagenase) non sono immunologicamente cross-reattive e hanno specificità differenti; miscelati in un rapporto 1: 1, diventano sinergici e forniscono una reattività idrolizzante molto ampia nei confronti del collagene (Yang e Bennett, 2015). Idrolizzano la regione a tripla elica del collagene e sono efficaci nella lisi del collagene sottocutaneo, come quelli presenti nei setti dermici (causa sottostante della cellulite). Filler dermici Le iniezioni di filler dermici di nuova generazione, come l’idrossiapatite di calcio (CaHa) e le microsfere di acido polilattico, possono servire per levigare le irregolarità della pelle indotte dalla cellulite. Un recente studio ha valutato gli effetti degli ultrasuoni microfocalizzati in combinazione con idrossiapatite di calcio diluita (CaHA; Radiesse) sull’aspetto della cellulite in 20 donne. I risultati hanno mostrato miglioramenti significativi Nonostante i numerosi approcci terapeutici per il trattamento della cellulite, nessuno di questi riesce a mantenere un’efficacia prolungata e duratura. I trattamenti topici, iniettabili e dispositivi a base di energia possono migliorare l’aspetto della cellulite, anche in maniera soddisfacente ma mai eliminarla del tutto. L’ approccio combinato di interventi esterni ed interni utilizzati strategicamente e in modo graduale può portare a ottimi risultati, è indispensabile condurre studi approfonditi, soprattutto rispetto alla combinazione dei trattamenti, per valutare i risultati a lungo termine. GdB | Maggio 2021

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roi, non bellissimi o particolarmente coraggiosi, ma pur sempre eroi. Anzi, eroi dimenticati, perché svolgono ogni giorno un lavoro preziosissimo, ma nessuno li celebra o si ricorda di loro: sono gli eroi del suolo, i lombrichi, i collemboli, tutti quegli insetti e organismi vitali a cui noi umani non diamo particolare importanza, ma che invece stanno facendo un lavoro straordinario per mantenere i terreni in cui coltiviamo fertili e ricchi di nutrienti. Dimenticandocene, ci siamo però anche scordati che a furia di usare sostanze chimiche, pesticidi, fitofarmaci, fertilizzanti vari, non abbiamo scombussolato la vita solo degli animali in superficie, ma anche di quelli nascosti nel suolo. Gli eroi non celebrati, appunto, senza i quali i terreni potrebbero perdere vita e biodiversità. Di come le tecniche legate all’agricoltura intensiva e non solo stiano contribuendo a decimare gli abitanti del terreno, gli insetti e le creature che vivono nel suolo, si è occupato un nuovo studio da poco pubblicato sulla rivista Frontiers in Environmental Science chiamato “Pesticides and soil invertebrates: a hazard assessment” e condotto da un team di scienziati guidati dal Center for Biological Diversity di Portland negli Usa. Gli scienziati hanno analizzato oltre 400 articoli scientifici che affrontano il tema dei pesticidi e i loro possibili effetti sugli invertebrati e quelle creature del suolo che normalmente non sono il diretto obiettivo di prodotti fitosanitari ma che, per vicinanza e impatti,

possono subirne delle conseguenze. I risultati di questo approfondimento hanno portato a comprendere che i pesticidi e i prodotti usati dall’uomo per avere alte rese e coltivare hanno un impatto anche sugli “eroi non celebrati”, fra cui per esempio lombrichi, collemboli. millepiedi, coleotteri e diversi altri insetti che con le loro funzioni mantengono il suolo vitale e sano. Se finora ci si era concentrati soprattutto sul ruolo delle sostanze chimiche nei confronti sia dei vegetali che degli impollinatori, adesso il nuovo sguardo degli scienziati è rivolto a come i pesticidi, insieme alla crisi climatica, possano impattare su altre specie meno celebrate. Gli esperti di Portland hanno così studiato oltre 275 specie e 284 diversi tipi di pesticidi (quelli considerati leciti) e stabilito di conseguenza parametri su tassi di mortalità, abbondanza e hanno analizzato i comportamenti degli insetti, la riproduzione e i cambiamenti biochimici di diversi organismi. Quello che è emerso è che il 71% dei parametri testati mostrava “effetti negativi all’esposizione di pesticidi” per questi organismi e se il 28% invece non mostrava effetti significativi, nell’1% dei casi si è visto anche qualche effetto positivo. Inoltre, secondo la maggioranza (84%) dei parametri testati nei lombrichi c’è una influenza negativa dei pesticidi su questi animali che possono essere danneggiati da vari tipi di sostanze chimiche, da insetticidi a erbici-

GLI EROI DIMENTICATI DEL SUOLO Così i pesticidi impattano su gli insetti che mantengono fertili i nostri terreni Lo racconta uno studio da poco pubblicato sulla rivista Frontiers in Environmental Science Maggio2021 2021 44 GdB | Aprile


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di sino a fungicidi. Stesse sostanze che possono mettere in difficoltà anche i collemboli, insetti che notiamo quando per esempio spostiamo tronchi o altri elementi naturali, degli entognati che si nutrono di alghe, batteri, polline, e che popolano il bosco mantenendo i terreni vitali. Mentre i suoli sono sempre più degradati, come ha ricordato anche un recente rapporto delle Nazioni Unite, e necessitano di una azione di recupero urgente dato che ospitano quasi un quarto della biodiversità del Pianeta, gli autori dello studio si dicono preoccupati per il livello del danno anche sugli “eroi dimenticati”. Nathan Donley del Center for Biological Diversity, uno degli autori del paper, afferma che «il livello di danno che stiamo vedendo è molto maggiore di quanto pensassi. I terreni sono incredibilmente importanti. Ma il modo in cui i pesticidi possono danneggiare gli invertebrati del suolo ha molta meno copertura ed è molto meno raccontato rispetto a impollinatori, mammiferi e uccelli: è incredibilmente importante che questo cambi». Sostiene inoltre che «coleotteri e collemboli hanno un impatto enorme sulla porosità del suolo e vengono continuamente colpiti, così come i lombrichi». Come lui la pensa anche il professor Dave Goulson dell’Università del Sussex che non fa parte dello studio ma che si occupa del problema, il quale sostiene che «i risultati degli effetti nocivi

Gli esperti di Portland hanno così studiato oltre 275 specie e 284 diversi tipi di pesticidi (quelli considerati leciti) e stabilito di conseguenza parametri su tassi di mortalità, abbondanza e hanno analizzato i comportamenti degli insetti, la riproduzione e i cambiamenti biochimici di diversi organismi © Novakovav /shutterstock.com

sugli organismi del suolo dalla grande maggioranza dei pesticidi testati sono allarmanti». «È importante avere suoli fertili per l’agricoltura, ma questo dimostra che i pesticidi che stiamo usando danneggiano la fertilità degli animali che vivono nel suolo e, conseguentemente, il suolo stesso. Se vogliamo avere terreni in salute dobbiamo considerare anche i piccoli animali che vi abitano quando scegliamo il pesticida da utilizzare» sostiene inoltre Matt Shardlow dell’associazione Buglife in difesa dei piccoli insetti. Uno degli allarmi evidenziati dal nuovo studio è infatti proprio quello che i pesticidi attaccano e impattano anche sulla riproduzione degli insetti e sulla presenza di quegli organismi che permettono solitamente i corretti equilibri della vita del suolo. Mentre da altre ricerche emerge, per esempio, la sempre maggiore importanza di preservare i lombrichi, che migliorano il suolo aerando, scomponendo materia organica, minrealizzando i nutrienti e perfino riducendo l’abbondanza relativa dei geni di resistenza agli antibiotici, i ricercatori chiosano lanciando un appello per una revisione dell’uso di sostanze nei suoli. Sostanze troppo spesso autorizzate senza renderci conto che potrebbero cambiare e impattare negativamente nel tempo su centinaia di organismi vitali per i nostri suoli e, senza gli “eroi dimenticati”, la biodiversità dei terreni potrebbe rimanere compromessa anche per migliaia di anni. (G. T.).

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LA MOBILITÀ IN CITTÀ È SEMPRE PIÙ GREEN Aumentano le reti ciclabili, bene il bike sharing, boom della micromobilità e crisi del trasporto collettivo

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iretti di quartiere, spostamenti brevi e di prossimità, fino a dieci chilometri a piedi o in bici, hanno portato nel 2020 ad un lieve miglioramento in Italia del tasso di mobilità sostenibile, vale a dire la quota complessiva di trasferimenti effettuati con mezzi a basso impatto. I centri grandi e medi si stanno riorganizzando per essere sempre più “amici dell’Ambiente” puntando su reti ciclabili, micromobilità (con motorette, skateboard, monopattini elettrici, biciclette a pedalata assistita) e trasporto pubblico. I dati arrivano dal quarto Rapporto “MobilitAria 2021”, realizzato da Kyoto Club e dall’Istituto sull’inquinamento atmosferico del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IIA), che ha analizzato i dati dei movimenti e della qualità aria nelle 14 città metropolitane e nelle 22 cittadine che hanno approvato i Piani urbani di mobilità sostenibile (Pums). Nonostante la pandemia, le diverse amministrazioni comunali hanno saputo reagire e si sono rimboccate le maniche per ridisegnare come muoversi, consentendo ai propri concittadini di andare in giro, restrizioni permettendo, in maniera più comoda e pulita, pensando agli spazi aperti come zone di condivisione, mettendo in sicurezza le strade per tutelare quanti hanno scelto di pedalare. Un potenziamento delle reti ciclabili è stato registrato in più Comuni. Tra i casi virtuosi ci sono: Torino (+ 11 km), Milano (+ 67 km), Venezia (+18 km), Bologna (+ 16 km), Genova (+25 km), Roma (+ 33

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km), Palermo (+ 4 km) e Cagliari (+ 11 km). I servizi di sharing mobility sono andati avanti, ma tanti sono stati conquistati dalla micromobilità: Torino ha accresciuto la propria del 14%, mentre a Milano (3750 mezzi), Bari (1000), Napoli (1050) è stato attivato il servizio. Cala l’auto condivisa, tiene la bici in affitto. Per entrambi una flessione nella domanda si è notata a Milano, Genova, Firenze, Roma, discorso diametralmente opposto per Torino, Venezia, Genova, Firenze e Palermo. Pur se spicca un interessante rafforzamento delle autovetture elettriche e ibride, il tasso di motorizzazione delle auto è lievemente diminuito specialmente al Nord e nel Centro, con dati che non superano in ogni caso l’1% di scostamento. Il Sud con Napoli, Reggio Calabria, Messina, Catania e Palermo ha visto, al contrario, una risalita, nonostante le realtà già tanto congestionate. Che cosa respiriamo, quindi? Riguardo al diossido di azoto NO2 abbiamo avuto una riduzione delle concentrazioni, fatta eccezione per Milano. Il capoluogo lombardo è in controtendenza, giacché ha un +7% rispetto all’anno precedente. Le maggiori diminuzioni nei concentramenti medi hanno fatto felici gli abitanti di Cagliari (-38%) e Catania (-37%) seguiti da Palermo con un -31% rispetto al 2019. Allora a oltrepassare le diciotto ore annuali consentite dal limite normativo erano state Roma, Torino, Milano e Napoli. Se nella media annua del PM10 in tutti i centri analizzati i valori sono al di sotto dei limiti, restano, tuttavia, diver-


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Molti Piani urbani di mobilità sostenibile prevedono nuove zone con il limite di 30 km/h o di potenziare quelle esistenti, particolarmente nei centri storici. Ad Arezzo e Cuneo il Pums è “scortato” da un Biciplan, documento per la mobilità ciclistica. Si punta sul ciclopedonale a Parma, proponendo di arrivare a un +136% nella rete ciclabile, andando dai 125,5 km esistenti a 296 itinerari per le due ruote. Il Comune di Pesaro vuole ampliare i percorsi pedonali e propone, sul modello della città spagnola di Pontevedra, il lancio del “Pesaro MetroMinuto”, al fine d’indicare i tempi esatti di percorrenza, progetto già attivo, per esempio, a Milano, Piacenza, Ferrara, Mantova, Fano, Voghera e Bolzano. © Girts Ragelis /shutterstock.com

se eccezioni andate oltre le 35 volte la soglia giornaliera per anno. Maglia nera per Torino (98 superamenti), inseguita da Milano con 90, Venezia 88, Napoli 57 e Cagliari 38; pure Bologna e Roma, dopo rispettivamente due e tre anni, sono tornate a passare il confine vietato. Non sono indicate criticità riguardanti il PM2,5 termine che identifica particelle di diametro aerodinamico inferiore o uguale ai 2,5 µm, detto anche “particolato fine”. «La fase di sospensione della normalità - ha dichiarato il Direttore del CNR-IIA, Francesco Petracchini - può essere impiegata per la pianificazione di una mobilità davvero sostenibile che prenda vita anche grazie alle ingenti risorse destinate al futuro del Paese Nonostante le azioni intraprese per migliorare la qualità dell’aria in tutto il territorio dell’Unione, gli standard di qualità fissati dalla normativa vigente sono ancora superati in vaste aree del territorio italiano. Occorre accelerare sulle misure e prepararci alla revisione della normativa verso nuovi limiti e inquinanti, agire per l’adozione della strategia nazionale sull’inquinamento atmosferico e potenziare gli studi scientifici per la comprensione delle cause e dell’effetto dell’inquinamento atmosferico sul nostro territorio». Vorrebbe una maggiore attenzione sui trasporti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza Anna Donati, coordinatrice del gruppo di lavoro “Mobilità sostenibile” di Kyoto Club: «Le città e la mobilita urbana continuano ad essere i grandi assenti nel Pnrr, anche in quello presentato dal Governo Draghi. Davvero insufficienti le risorse dedicate alle nuove reti tramviarie, metropolitane (3,6 mld) e per nuovi autobus (3 mld), limitate le risorse per la mobilità ciclabile (600 milioni), che non colmeranno il grave deficit attuale, come dimostra il Rapporto “MobilitAria 2021”. Per gli investimenti ferroviari, a cui il Pnrr conferisce 26 miliardi, si dedica alle reti locali regionali e ai pendolari solo il 30% delle risorse, mentre il resto è impiegato per l’Alta Velocità, in particolare per il Nord. Resta marginale l’obiettivo della elettrificazione dei trasporti. C’è da augurarsi che dal confronto in corso, dai progetti che saranno presentati, dal Fondo Complementare, dall’ulteriore fondo per investimenti di 26 mld annunciato dal Presidente Draghi, sia possibile riequilibrare la spesa verso la mobilità sostenibile delle nostre città». (G. P.). GdB GdB| Maggio | Aprile 2021

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on si sa per quanto tempo dovremo ancora portarle e se davvero, grazie ai vaccini, riusciremo a sconfiggere ed arginare la pandemia. Ma c’è un fatto inequivocabile: tutte quelle che abbiamo consumato, per proteggere noi stessi, se finite accidentalmente in ambiente finiscono per aggravare lo stato di salute del Pianeta. Il problema dell’inquinamento da mascherine e dispositivi di protezione (come i guanti) non è affatto da sottovalutare: sono un nuovo pesante tassello che si aggiunge alla già grave piaga dell’inquinamento da plastica, ma probabilmente con una aggravante in più. Di recente, infatti, un team di scienziati ha dimostrato che le mascherine disperse nell’ambiente e negli oceani non solo inquinano in quanto costituite principalmente da fibre di plastica, non solo con i loro lacci possono uccidere e intrappolare animali, ma rilasciano anche in natura una serie di metalli pesanti, piombo, antimonio, rame e altri inquinanti dannosi. Si tratta di piccole quantità ma se ci immaginiamo che soltanto lo scorso anno, stimano alcune Ong, sono finite in natura e in mare almeno 1,65 miliardi di mascherine, allora ecco che si delinea la portata del problema. Se i dispositivi che usiamo per proteggerci dal coronavirus e l’infezione da Covid-19 sono fondamentali per la nostra salvezza, dovrebbe esserla anche la gestione di questi dispositivi e,

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va ricordato, una volta usati questi dispositivi dovrebbero sempre finire nell’indifferenziata e da lì in discariche e inceneritori, quando non sono programmati percorsi di riciclo. Spesso però, anche per la natura usa e getta di questo prodotto, prendono un’altra strada: dai parchi ai mari, dai fiumi alle spiagge, le vediamo ovunque come nuova forma di inquinante. Si stima che a livello globale siano utilizzate quasi 130 miliardi di mascherine al mese, 3 milioni al minuto e oltre 3 miliardi gettate quotidianamente. In una nuova ricerca l’Università di Swansea ha approfondito il problema spiegando che se per esempio vengono disperse in acqua, rilasciano non solo fibre di plastica ma anche metalli pesanti. Il dottor Sarper Sarp dell’ateneo di Swansea ci ricorda che «tutti noi dobbiamo continuare a indossare maschere poiché sono essenziali per porre fine alla pandemia. Ma abbiamo anche urgente bisogno di più ricerca e regolamentazione sulla produzione di maschere, in modo da ridurre i rischi per l’ambiente e la salute umana». Dopo una serie di test i ricercatori hanno infatti accertato che nelle più comuni mascherine, disperse in acqua, si rilevano «livelli significativi di inquinanti in tutte le maschere testate» con la presenza di «micro/nano particelle e metalli pesanti rilasciati nell’acqua durante tutti i test». Un allarme che potrebbe nel tempo portare a un impatto ambientale importante e «l’esposi-


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PROTEGGONO NOI MA DANNEGGIANO L’AMBIENTE Dai metalli pesanti alle microfibre di plastica ecco cosa rilasciano le mascherine disperse di Giacomo Talignani

zione ripetuta potrebbe essere pericolosa poiché le sostanze trovate hanno legami noti con la morte cellulare, la genotossicità e la formazione del cancro». Inoltre, ricordano gli scienziati, «molti degli inquinanti tossici trovati nella nostra ricerca hanno proprietà bioaccumulative quando vengono rilasciati nell’ambiente e i nostri risultati mostrano che i dispositivi di protezione potrebbero essere una delle principali fonti di questi contaminanti ambientali durante e dopo la pandemia di Covid-19». Si parla di tracce di piombo, rame, antimonio, cadmio e diversi metalli pesanti che possono essere tossici anche a basse dosi. Motivo per il quale gli esperti indicano la necessità di un approfondimento a livello globale proprio sull’inquinamento da mascherine e il bisogno di normative più severe per produzione, smaltimento e riciclaggio per «ridurre al minimo l’impatto ambientale». Un altro ricercatore coinvolto nello studio, il dottor Geraint Sullivan, parla di risultati “piuttosto scioccanti” soprattutto per il fatto che i metalli trovati essendo bioaccumulativi si accumulano nel tempo in ambiente. Se a questi dati si aggiungono poi quelli evidenziati da altre ricerche (oltre 40 quelle dedicate al tema) emerge un quadro sempre più allarmante. Uno studio italiano dell’Università di Milano-Bicocca pubblicato sulla rivista Environmental Advances racconta per esempio che una mascherina chirurgica rilascia

Un team di scienziati ha dimostrato che le mascherine disperse nell’ambiente e negli oceani non solo inquinano in quanto costituite principalmente da fibre di plastica, non solo con i loro lacci possono uccidere e intrappolare animali, ma rilasciano anche in natura una serie di metalli pesanti, piombo, antimonio, rame e altri inquinanti dannosi. © Marti Bug Catcher /shutterstock.com

fino a 173mila microfibre al giorno nell’ambiente marino. La ricerca ha approfondito il meccanismo di degradazione foto-ossidativa delle fibre di polipropilene presenti nei tre strati delle mascherine chirurgiche. Sono stati fatti test di invecchiamento artificiale, simulazioni di ciò che avviene per una mascherina dispersa in ambiente ed esposta ad eventi atmosferici e soprattutto alla radiazione solare, così come in mare sottoposta al moto ondoso. Gli esperimenti, per esempio, hanno sottolineato come una singola mascherina esposta alla luce UV-A per 180 ore possa rilasciare centinaia di migliaia di particelle del diametro di poche decine di micron. «Speriamo che questo nostro lavoro - hanno commentato Francesco Saliu e Marina Lasagni, rispettivamente ricercatore e docente del dipartimento - possa sensibilizzare verso un corretto conferimento delle mascherine a fine utilizzo e promuovere l’implementazione di tecnologie più sostenibili». Comprendendo gli impatti delle mascherine usa e getta in ambiente, i ricercatori delle varie università che si stanno occupando del problema lanciano inoltre un appello per un ripensamento globale sulla natura di questi dispositivi: utilizzare in futuro - nel caso dovessimo ancora indossarle a lungo - dispositivi lavabili, riutilizzabili, oppure compostabili e biodegradabili (non composte da plastica) che molte start-up nel mondo stanno oggi provando a rilanciare. GdB | Maggio 2021

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IL SISTEMA DI NAVIGAZIONE DEGLI SQUALI Il segreto del loro sistema di orientamento è nei campi magnetici che rappresentano un “GPS” naturale

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iù che “ m a dove vanno i marinai” e “come fanno i marinai”, come cantavano Francesco De Gregori e Lucio Dalla, in mare vien da chiedersi “ma dove vanno gli squali” e “come fanno gli squali”? Già, come fanno per esempio ogni anno molte specie di squali a migrare per centinaia di miglia, ad attraversare gli oceani e tornare sempre nello stesso punto? Ad esempio i grandi squali bianchi che nuotano dalla California al mezzo del Pacifico, o altri ancora che fanno la spola fra Sudafrica e Australia. Una risposta, potrebbe esserci: usano anche loro una sorta di Gps, i campi magnetici. Affrontano, grazie alla capacità di sfruttare i campi magnetici terrestri, lunghissime migrazioni, come fanno già diverse altre specie, tra cui le tartarughe. L’ipotesi dell’uso dei campi da parte dei biologi marini è teorizzata da tempo, ma essendo questi animali complessi da studiare e monitorare, non è stato facile negli ultimi decenni affermare la capacità degli squali di usare una sorta di mappa magnetica. Ora sulla rivista Current Biology un team di ricercatori guidati da Bryan Keller, capo progetto della Save Our Seas Foundation e del Coastal and Marine Laboratory della Florida State University, sostiene nello studio “Map-like use of Earth’s magnetic field in sharks” grazie ad alcuni test effettuati di aver trovato le prove dell’uso dei campi magnetici. Una teoria basata su alcuni esperimenti effettuati su giovani

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squali martello, i bonnethead (Sphyrna tiburo). Come spiega Keller finora «non è stato risolto il modo in cui gli squali sono riusciti a navigare con successo durante le migrazioni verso precise località e questa ricerca supporta la teoria secondo cui usano il campo magnetico terrestre per trovare la loro strada, in sostanza si muovono grazie a quello che è il Gps della natura». Per scoprire questa capacità il team di Keller ha realizzato delle piccole piscine all’interno di una gabbia di rame attraversata da corrente in modo da ottenere un campo magnetico, simile a quello che portava gli animali a nuotare seguendo una direzione precisa, verso il loro habitat. Dopo diversi test effettuati su 20 giovani esemplari di squali martello gli scienziati hanno ipotizzato l’uso dei campi spiegando anche che i risultati potrebbero essere estesi anche ad altre specie, come


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lo squalo bianco. «Sarà necessario approfondire gli studi per comprendere i meccanismi alla base di questa capacità - commenta Michael Winklhofer, biofisico presso l’Università Carl von Ossietzky di Oldenburg in Germania e non coinvolto nello studio - le ipotesi più accreditate attualmente riguardano la presenza di cellule contenenti un minerale ferromagnetico o i criptocromi, delle proteine coinvolte nei ritmi circadiani e nel rilevamento dei campi magnetici in un certo numero di specie». «Ad essere onesti - aggiunge Keller - sono sorpreso che abbia funzionato. Uno dei motivi per cui questo enigma è stata irrisolto per 50 anni è perché gli squali sono difficili da studiare». La scelta di studiare i bonnethead è legata al fatto che sono squali che affrontano lunghi spostamenti e ritorni in luoghi specifici ogni anno dimostrando di sapere dove si trova “casa”. Dagli esperimenti fatti gli esperti hanno dedotto che gli squali ricavano informazioni sulla posizione dal campo geomagnetico e i ricercatori hanno previsto l’orientamento verso nord nel campo

Ora i biologi marini si chiedono se questa capacità di navigare in base ai campi magnetici possa essere tipica anche di altre specie. © EDGAR PHOTOSAPIENS/ shutterstock.com

magnetico meridionale e l’orientamento verso sud in quello settentrionale, visto che gli squali hanno tentato ogni volta di compensare il loro spostamento percepito. In poche parole, gli squali hanno agito come supposto dagli scienziati quando sono stati esposti a campi nel loro raggio d’azione naturale. Ora i biologi marini si chiedono se questa capacità di navigare in base ai campi magnetici possa anche contribuire per esempio alla struttura della popolazione degli squali e se gli stessi comportamenti registrati siano tipici anche di altre specie, come il grande squalo bianco che è stato osservato mentre migra tra il Sudafrica e l’Australia per poi tornare. «Quanto è bello che uno squalo possa nuotare per 20mila chilometri tra andata e ritorno in un oceano tornando nello stesso sito? È davvero strabiliante. In un mondo in cui le persone usano il Gps per navigare quasi ovunque, loro hanno questa capacità naturale che è davvero notevole» dice Keller. Lui e il suo team si chiedono anche se le attività antropiche, legate per esempio a cavi sottomarini, possano interferire con con la capacità degli squali di usare i campi magnetici e la Save Our Seas Foundation e il Coastal and Marine Laboratory della Florida State University stanno cercando di approfondire proprio questo aspetto. Altri ricercatori, come Alex Fox, ricordano che «è noto che gli squali hanno recettori speciali – minuscole fosse piene di gelatina chiamate ampolle di Lorenzini che sono raggruppate intorno ai loro nasi – che possono percepire i cambiamenti di tensione nell’ambiente circostante. In teoria, questi elettrorecettori, che di solito vengono utilizzati per rilevare gli impulsi nervosi elettrici della preda, potrebbero captare il campo magnetico terrestre». C’è però chi contesta l’idea della “mappa”, come James Anderson della California State University, che sostiene che quello di Keller «è un buon studio, ma quello che non mi piace è che dimostri l’uso di una mappa magnetica. Dimostra che gli squali martello potrebbero orientarsi verso casa, ma una mappa magnetica implica che l’animale non sa solo dove si trova e dove sta andando, ma anche la sua destinazione finale, ad esempio. E non sono sicuro che lo abbiano dimostrato». (G. T.). GdB | Maggio 2021

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i dice spesso che le api fanno il miele e il miele le api. Il consiglio per l’apicoltore è, appunto, che con la smielatura non si deve asportare tutto il miele dai favi, per non recare danno all’alveare; esso, infatti, è il cibo delle api operaie e senza morirebbero. Per tutelare ulteriormente questi preziosi insetti dell’ordine imenotteri e gli ambienti naturali nei quali vivono e si riproducono, “Veneto Agricoltura”, un ente strumentale della Regione Veneto, sta portando avanti un progetto con delle arnie elettroniche. Sono state pensate per monitorare sia le condizioni ambientali in cui sono poste sia la salute delle colonie di api. Grazie alla creazione di una rete per rilevare e monitorare in tempo reale tra aprile e maggio sono state installate in alcune località di tutte le province venete nove arnie. I dati e le informazioni confluiscono direttamente nel “Bollettino Apistico Regionale”. Le prime notizie dal mondo della cera e del miele sono arrivate da ValleVecchia di Caorle (Ve) presso l’Azienda dimostrativa di Veneto Agricoltura. Lì tra il 29 marzo e il 10 aprile sono state effettuate le semine del mais, un momento critico della convivenza agricoltura - api, poiché sono state associate a morie, maggiormente per l’effetto degli insetticidi utilizzati alla semina. Nonostante gli appezzamenti seminati fossero vicino alle arnie o nel raggio di poche centinaia di metri, non è stato segnalato alcun effetto negativo. «Le stazioni elettroniche di rilevazione di ValleVecchia - si legge nel Bollettino del 4 maggio - confermano la bontà dei protocolli di gestione del mais (corretta applicazione dei disciplinari di Difesa Integrata delle Colture, come previsto dalla Dir. CE n. 128/09 e dal PAN Nazionale). Non si riscontrano, infatti, variazioni di peso delle arnie, e la vigoria delle famiglie continua ad aumentare con il miglioramento della stagione». Le “casette” sono dotate di sensori che accertano il numero di api in entrata e in uscita, la temperatura interna ed esterna e il peso. I numeri raccolti, trasmessi da una centralina


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AMBIENTE: ARRIVANO LE ARNIE ELETTRONICHE Un progetto per monitorare le condizioni di salute delle colonie di api, messe sempre più a repentaglio dall’inquinamento terrestre di Gianpaolo Palazzo

in remoto, hanno permesso di dire che: «la situazione delle famiglie e la loro forza varia da zona a zona; in alcune aree che hanno risentito meno delle gelate di aprile, le famiglie hanno iniziato a produrre riempiendo il primo melario, in altre - scrivono nel Bollettino - si nota comunque una buona consistenza della covata e delle scorte a nido, ma i melari sono ancora vuoti». Altre informazioni da considerare riguardano le fioriture dell’acacia e quella prolungata della colza, oltre alle sciamature, l’atto riproduttivo dell’organismo alveare. La vecchia regina si allontana dall’alveare madre con moltissime api, che hanno nel proprio corpo un quantitativo di miele necessario per sostenere il processo: «In questa primavera atipica le cause delle sciamature sono ascrivibili, oltre alle classiche cause naturali, anche alle temperature rigide di aprile, alla carenza di fioriture e conseguente scarsità di nettare, che hanno indotto le famiglie a “riprodursi”, per garantire la sopravvivenza». Ogni anno sempre più persone si avvicinano all’apicoltura attratte da un’attività a contatto con la natura, che per tanti è soltanto un passatempo, per altri può diventare una professione. Dal rapporto sull’andamento produttivo e di mercato del 2020, preparato dall’Osservatorio nazionale miele, si scopre che gli apicoltori italiani hanno 1.412.792 alveari e 220.033 sciami (totale 1.632.825). Il 75,2% degli alveari totali (1.062.774), sono gestiti da apicoltori commerciali. La regione

“BeeDiversity” integra un processo di raccolta, semina e diffusione di piante erbacee autoctone con monitoraggio dello stato di salute delle aree con impollinatori. È stato previsto un sistema per valutare il benessere delle api e un’applicazione, per divulgare notizie più precise. Il sistema attraverso l’app comunicherà, con diverse modalità, informazioni tecniche agli addetti ai lavori e informazioni generali. Le dieci aree pilota sono differenziate in tre categorie: area naturale ad elevata valenza ambientale; area ad agricoltura sostenibile; area ad agricoltura tradizionale e a forte impatto ambientale. © oatawa/shutterstock.com

con il numero più cospicuo di alveari posseduti da professionisti è il Piemonte con 165.589 per il commercio su 193.502 ovvero l’85%. Nella Banca Dati Apistica Nazionale sono iscritti 68.684 apicoltori di cui 47.957 produce per autoconsumo (69,8%) e 20.727 hanno aperto una partita iva e producono per il mercato (30,2%). Nel 2020, secondo i dati sui consumi di fonte Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare) - comprendenti sia le vendite a scontrino registrate presso la grande distribuzione organizzata, sia le vendite al dettaglio sono stati commercializzate circa 16.248 tonnellate di miele con un valore che sfiora i 159 milioni di euro e una dinamica su base annua positiva, sia in volume (+14,6%) sia in valore (+16,3%), ribaltando l’andamento osservato nel 2019 (quantità, -3%; valore, -3%). I prezzi nella Gdo si aggirano attorno ai 9,57 euro/kg, in lieve aumento rispetto al 2019 (+1%), per il dettaglio, invece, circa 10,85 euro/kg. L’iniziativa veneta con le arnie tecnologiche mira ad aumentare la qualità del miele e si collega ad un altro progetto europeo “Interreg Italia-Slovenia BeeDiversity”, il cui obiettivo è migliorare la biodiversità tramite una gestione degli ecosistemi e un’osservazione costante dell’ape, apprezzata nel libro del Siracide (11, 3) perché: «piccola tra gli esseri alati, ma il suo prodotto ha il primato fra i dolci sapori». GdB | Maggio 2021

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LA MICROBIOLOGIA CONTRO LE MICROPLASTICHE Si trovano in frutta, verdura, pesce e nell’uomo. Sono particolarmente assorbenti e possono intrappolare sostanze inquinanti come pesticidi e metalli pesanti

di MIchelangelo Ottaviano

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a questione dello smaltimento delle microplastiche è un nodo che sembra sempre più impossibile da sciogliere. È una lotta ad un nemico ubiquo e quasi invisibile: 150 volte più piccole di un capello umano e presenti in diversi contesti naturali, vengono trasportate dall’aria, sono conseguentemente nella pioggia e nella neve, e popolano in gran parte i mari e gli oceani. Proprio questi ultimi sono i soggetti più inquinati e destano molta preoccupazione tra gli studiosi. Inoltre la presenza delle microplastiche non è

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statica, esse hanno avuto la capacità di penetrare nella catena alimentare umana. Quasi tutti gli organismi sono contaminati: sono state trovate in frutta e verdura, nel pesce e, ovviamente, anche nell’uomo. Sono particolarmente assorbenti e possono intrappolare sostanze inquinanti come pesticidi, metalli pesanti, farmaci in alte concentrazioni, peggiorando ulteriormente la loro tossicità. Gli effetti non sono ancora del tutto chiari, ma si sa che potrebbero causare lesioni infiammatorie, stress ossidativo e, nei peggiori casi, cancro. È quindi

urgente e necessario trovare un modo per liberarsene, e un gruppo di microbiologi della Hong Kong Polytechnic University ha forse trovato una soluzione che per ora funziona nel contesto più problematico, ovvero l’acqua. Il metodo scoperto si basa sull’impiego di un biofilm, una sostanza appiccicosa creata dai batteri, che è in grado di intrappolare le particelle. I batteri tendono naturalmente a raggrupparsi e ad aderire alle superfici, creando una pellicola adesiva per proteggersi. Milioni di cellule si impacchettano una sull’altra, formando delle vere e proprie masse, producendo degli esopolimeri collosi. Al loro interno hanno dei canali che contengono fluidi e funzionano al pari del sistema circolatorio degli organismi superiori, permettendo lo scambio delle sostanze nutritive e dei prodotti di scarto. Le reti vischiose che si creano sono in grado di catturare le microplastiche, in questo modo diventano pesanti e dunque possono precipitare sul fondo. I ricercatori di Hong Kong hanno utilizzato il batterio Pseudomonas aeruginosa. Esso agisce in modo meccanico, si trova in tutti gli ambienti ed è particolarmente efficiente perché in grado di creare una massa pesante recuperabile. A quel punto è possibile sfruttare un gene che provoca il rilascio della microplastica che, una volta recuperata, può entrare in un processo di trattamento. L’esperimento è però in fase preliminare: è stato solo presentato alla Conferenza annuale di Microbiologia della Microbology Society, ed è stato condotto solo in situazioni controllate, dato che lo Pseudomonas è un patogeno per l’uomo. Una sua applicazione è però possibile nella pulizia delle acque di scarico, dove si accumulano un gran numero di microplastiche primarie. Gli attuali depuratori sono progettati per rimuovere dalle acque reflue solamente sostanza organica e nutrienti, ma non sono efficaci nella rimozione di altri contaminanti. Riuscire a proteggere il nostro bene primario sarebbe un primo passo importante.


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a sempre l’uomo è stato chiamato ad affrontare sfide destinate a segnare indelebilmente i secoli della storia. Tra le numerose prove lanciate dal XXI secolo alle nostre generazioni e a quelle future, salvare la Terra è senz’altro tra le più difficili. Il guanto, seppur timidamente, era stato già raccolto negli ultimi anni dello scorso millennio, ma è stato fatto ancora troppo poco. Il 2030 viene visto da molti paesi come un anno crocevia, un appuntamento a cui l’umanità deve arrivare con risultati e soluzioni concrete a tanti problemi. Una questione tra le tante riguarda l’inquinamento del suolo e la conseguente missione di risanamento. Il suolo è fondamentale per tutti i cicli vitali del nostro pianeta dato che oltre il 95% del nostro cibo proviene da processi legati alla terra. Secondo i dati del Soil Health and Food Mission Board and Joint Research Centre, fra il 60% e il 70% dei terreni d’Europa non sono in buona salute e mancano delle materie organiche e dei minerali necessari a nutrire piante e microorganismi. È il risultato di una serie di scelte e pratiche inappropriate, oltre che di altri fattori ambientali. Un esempio di come scienza e natura possano andare a braccetto ci è dato dalla fattoria austriaca Grand Farm, sorta nell’ambito del progetto europeo Best4Soil. Questa fattoria sperimenta un nuovo approccio alle colture per migliorare la salute del suolo attraverso diversi metodi a cui gli agricoltori fanno ricorso: la fertilizzazione tramite compost, le colture invernali per mantenere in buona salute il suolo, la rotazione delle colture. Nella fattoria Grand, anche detta “Grand Garten”, è proprio il “terricciato” a svolgere un ruolo centrale per biodiversità e tutela della qualità del suolo. Vengono adottate anche soluzioni preventive come il vermicompost, ottenuto con i lombrichi e la semina di piante. La moltitudine di microrganismi è fonda-

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L’AGRICOLTURA SOSTENIBILE E IL MODELLO GRAND FARM Il 2030 sarà per molti Paesi un anno cruciale, a cui l’umanità dovrà arrivare con soluzioni concrete a tanti problemi, tra i quali c’è l’inquinamento del suolo

mentale per il suolo: più ce ne sono e più sono vari, maggiori saranno la sua salute, purezza e stabilità. Oltre al vermicompost viene testato anche il compost termofilico, un altro fertilizzante naturale costituito da materia organica con apporti di carbonio e azoto. Alcuni ricercatori ne analizzano dei campioni per verificare qualità e componenti rilasciate in suolo e atmosfera, al fine di evitare ogni contaminazione. Durante il processo di formazione del compost possono raggiungersi temperature fino a 70°, che eliminano gli organismi all’origine di alcune malattie delle colture.

La biomassa è una fonte di energia importante, soprattutto di azoto, e in quanto tale bisogna preservarne quanta più possibile. Il “Grand Garten” è un in scala ridotta di questo approccio, poiché in Canada, per esempio, è già stato sviluppato un modello simile dove si produce cibo sano e di grande varietà su appezzamenti di terreno non più grandi di un ettaro, al fine di approvvigionare le comunità locali. Il modello Grand Farm deve far riflettere quanto la gestione sostenibile del suolo sia cruciale per l’equilibrio dei nostri ecosistemi. (M. O.). GdB | Maggio 2021

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NEVE E VEGETAZIONE: CAMBIA IL GLOBAL WARMING I risultati della ricerca, pubblicati su ERL, mostrano come la neve e la vegetazione modulano il riscaldamento climatico

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analisi dei dati, generati dagli ultimi rilievi satellitari, ha reso possibile l’osservazione dei cambiamenti nella copertura di neve e vegetazione associati al climate change e come essi abbiano modificato la quantità di radiazione solare riflessa localmente dalle superfici continentali. I risultati del lavoro, coordinato dall’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isac) di Bologna, hanno evidenziato che, i cambiamenti climatici degli ultimi decenni hanno determinato larghe riduzioni della

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copertura nevosa ed estese espansioni della vegetazione in grado di amplificare o controbilanciare l’incremento delle temperature nelle diverse regioni dell’emisfero settentrionale. Dell’equipe che ha condotto la ricerca, pubblicata sulla rivista Environmental Research Letters, hanno fatto parte l’Enea- Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile- l’European Centre for Medium Range Weather Forecasts (ECMWF, Gran Bretagna), il Royal Netherlands Metereological Institute (KNMI, Olanda) e Dealtares. Andrea Alessandri del Cnr-Isac

ha spiegato: «Le analisi innovative, condotte combinando insieme per la prima volta i dati climatici con oltre 30 anni di osservazioni satellitari di copertura nevosa, vegetazione e riflettività delle superfici alla radiazione solare, hanno quantificato una notevole diversità spaziale dell’effetto dovuto alla neve e alla vegetazione. Nelle regioni dominate dall’effetto della riduzione della neve (alte latitudini e/o grande elevazione sul livello del mare) è stimato un ampio incremento della radiazione solare assorbita, che contribuisce a un’amplificazione dell’aumento delle temperature dovute al riscaldamento globale. Diversamente, l’espansione della vegetazione (foreste boreali, temperate e tropicali) può produrre effetti di retroazione sia positivi che negativi in diverse regioni e stagioni, a seconda delle caratteristiche della superficie che viene sostituita». Se la espansione della vegetazione rimpiazza una superficie con riflettività maggiore alla radiazione solare (es. la neve) l’effetto sarà un aumento della radiazione assorbita (retroazione positiva al riscaldamento globale); se, invece, la superficie sostituita ha minore riflettività (es. suoli scuri) l’effetto dell’espansione della vegetazione sarà un aumento della radiazione riflessa (retroazione negativa al riscaldamento globale). Andrea Alessandri del Cnr-Isac e Franco Catalano dell’Enea, hanno concluso: «I nostri risultati hanno dimostrato che, nel complesso, la vegetazione ha esercitato un effetto di retroazione negativo durante gli ultimi 30 anni con una tendenza a contrastare l’aumento delle temperature dovute al riscaldamento globale. Questi risultati forniscono un riferimento osservazionale senza precedenti per lo sviluppo dei modelli del sistema Terra di nuova generazione che sono necessari per la valutazione delle strategie da intraprendere per mitigare i cambiamenti climatici futuri». (P. S.).


Ambiente

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na ricerca condotta dall’Istituto di cristallografia del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr- Ic) in collaborazione con le Università Sapienza e Roma Tre e con l’ISIS Neutronand Muon Source (UK) ha proceduto ad analizzare per la prima volta, in modo molto dettagliato, la struttura del minerale whitlockite, un raro fosfato di calcio naturale presente in rocce granitiche terrestri e nei meteoriti condriti. Questo studio è stato pubblicato sulla rivista Crystals. L’importanza di conoscere nei dettagli la struttura di questo minerale, è stata spiegata ed argomentata da Francesco Capitelli, ricercatore del Cnr-Ic e autore della ricerca: «La whitlockite è la controparte naturale del biomateriale sintetico tricalcio fosfato (Tcp), utilizzato in ortopedia e in odontoiatria sotto forma di cementi, filler e rivestimenti. Grazie allo studio di questi materiali naturali gli scienziati possono migliorare i loro analoghi sintetici, per meglio adattare la funzione attesa nelle applicazioni biomediche. In particolare, il Tcp è una alternativa alla idrossiapatite sintetica, che è molto simile alla componente minerale delle ossa e dei denti umani, ma che risulta essere fragile da utilizzare in alcuni contesti, come negli impianti metallici di protesi ossee». Ricordiamo che l’idrossiapatite è un minerale appartenete al gruppo delle apatiti e contiene un gruppo OH. I cristalli di idrossiapatite hanno la forma di un prisma molto sottile dalla forma esagonale. L’obiettivo è anche quello di ridurre il rischio di rigetto da parte del corpo. Prosegue Capitelli: «Le informazioni raccolte dallo studio dei materiali naturali possono essere usate per modificare i corrispondenti materiali sintetici, in modo da diminuire la fragilità e il rischio di rigetto delle protesi, migliorando quindi le loro prestazioni generali. Ecco perché conoscere in modo così approfondito la struttu-

© Marko Aliaksandr/shutterstock.com

PROTESI OSSEE MIGLIORI GRAZIE AI METEORITI Pubblicato sulla rivista Crystals uno studio sul whitlockite, un minerale presente nei meteoriti

ra della whitlockite o di altri fosfati naturali di calcio, può contribuire in campo biomedico a offrire nuovi prodotti di sintesi a beneficio del paziente». Per questo studio, è stata utilizzata per la prima volta la spettroscopia infrarossa. È una tecnica spettroscopica di assorbimento normalmente utilizzata nel campo della chimica analitica e della caratterizzazione dei materiali, oltre che in chimica fisica per lo studio dei legami chimici. Quando un fotone infrarosso viene assorbito da una molecola, questa passa dal suo stato vibrazionale

fondamentale ad uno stato vibrazionale eccitato. «Abbiamo utilizzato la capacità unica della diffrazione da neutroni per localizzare l’atomo di idrogeno all’interno della whitlockite, dopo una analisi preliminare con la diffrazione da raggi x. Il campione è stato anche studiato con la microsonda elettronica per confermare il contenuto chimico, e per la prima volta su questo minerale, tramite spettroscopia infrarossa a complemento dei risultati della diffrazione» ha concluso il ricercatore dell’Istituto di cristallografia del Consiglio nazionale delle ricerche. (P. S.). GdB | Maggio 2021

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Innovazione

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IN LIGURIA LA PRIMA “SMART BAY” ITALIANA ENEA, CNR e comuni costieri promuovono una piattaforma che servirà per studiare i cambiamenti climatici, proteggendo il patrimonio naturale del golfo

di Felicia Frisi

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l cambiamento climatico si combatte promuovendo comportamenti virtuosi, nel rispetto delle risorse naturali, ma anche attraverso una maggiore consapevolezza dei dati scientifici sulle mutazioni degli habitat. Per questo, nelle acque della baia di Santa Teresa (La Spezia) nasce un laboratorio hi-tech per lo studio di alghe, briozoi, molluschi e coralli, organismi di estrema importanza per le strategie di adattamento e mitigazione al cambiamento climatico. Con questo progetto pilota prende il via ufficialmente la prima Smart Bay italiana, una piattaforma collaborativa promossa

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da ENEA insieme a CNR, INGV, Comune di Lerici, Scuola di Mare Santa Teresa e Cooperativa Mitilicoltori Associati. L’iniziativa, presentata il 20 maggio scorso in occasione della Giornata europea del mare, mira alla gestione coordinata delle infrastrutture di ricerca marina e atmosferica e alla sperimentazione di tecnologie avanzate a supporto di settori ad alto potenziale di crescita e occupazione sostenibili quali: acquacoltura, turismo, biotecnologie marine ed energia dal mare, in linea con le finalità del cluster tecnologico Blue Italian Growth (BIG) nel più ampio contesto della strategia europea Blue Growth.

«Intendiamo promuovere ricerca e tecnologie, rafforzare il nostro supporto alle realtà locali e allo stesso tempo proteggere e valorizzare il capitale naturale del golfo», evidenzia Roberto Morabito Direttore del Dipartimento ENEA di Sostenibilità dei sistemi produttivi e territoriali. «Il nostro obiettivo – aggiunge Morabito - è di implementare la conoscenza degli ecosistemi marini e dei servizi che offrono anche con riferimento agli obiettivi della transizione ecologica». Nell’ambito del progetto pilota si studierà il ruolo svolto da questi ecosistemi marini presenti nella baia e nel golfo nel fornire “servizi ecosistemici”, quali la regolazione del clima, il supporto e la fornitura di habitat oltre che il contributo culturale ed estetico. Partecipano al progetto CNR, Comune di Lerici, Cooperativa Mitilicoltori Associati, Scuola di Mare, le università di Firenze, Pavia, Portsmouth e Sapienza, la Stazione zoologica di Napoli e l’azienda W·SENSE. Oltre ai dati sulla fisiologia degli ecosistemi (respirazione, fotosintesi, calcificazione, crescita) in condizioni attuali e future, tramite l’uso di droni terrestri e marini verranno acquisite anche la distribuzione ed estensione di alcune specie. Sonde in situ e campagne di misura settimanali e mensili consentiranno inoltre di rilevare parametri quali pH, pCO2, calcite, aragonite e nutrienti, mentre dalla stazione meteo ENEA giungeranno le misure di temperatura, salinità e ossigeno. Grazie alla collaborazione con l’università Sapienza, verranno testati sistemi di sensori ad alta tecnologia ideati dall’azienda W·SENSE che acquisiranno dati di temperatura, corrente ed ossigeno nella baia e in altri siti nel golfo, compresa la mitilicoltura, rendendoli fruibili in tempo reale via wi-fi dagli stakeholder locali. Le informazioni raccolte verranno poi analizzate anche con un approccio economico, sociale ed ecologico, con l’obiettivo di assegnare a questi ecosistemi un valore economico.


Innovazione

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l Covid ha rallentato e, in alcuni casi, bloccato le attività di ricerca sul campo. Con la graduale riapertura, può tornare a pieno regime la ricerca scientifica. Come nel caso di un progetto nato dall’accordo tra l’Istituto per la protezione sostenibile delle piante (Ipsp), l’Istituto di ricerca sulle acque (Irsa) del Consiglio Nazionale delle Ricerche, CISA S.p.A., Acquedotto Lucano S.p.a. e la Scuola di Ingegneria dell’Università degli Studi della Basilicata. L’intesa prende le mosse dal Joint Research Agreement che il Cnr ha stipulato con Eni per la costituzione sul territorio italiano di quattro centri di ricerca di eccellenza inerenti altrettanti grandi temi fusione a confinamento magnetico, gestione sostenibile del ciclo dell’acqua, agricoltura a basse emissioni di CO2 e cambiamenti climatici in Artico. A Metaponto (Matera), in particolare, è stato costituito nel 2019 il Centro di Ricerca Acqua, intitolato ad Ipazia d’Alessandria, dedicato alla promozione di soluzioni e tecnologie innovative per l’efficienza e l’ottimizzazione della gestione delle acque in agricoltura. I partner firmatari dell’accordo opereranno per valutare schemi di trattamento alternativi dei reflui municipali che consentano la riduzione della produzione dei fanghi ed il recupero della risorsa idrica a fini irrigui. Per le attività operative è stato individuato il sito di Ferrandina (Matera) dove sono attive, da oltre 15 anni, sperimentazioni sul campo nell’ambito della depurazione e del riutilizzo delle acque reflue urbane condotte dai gruppi di ricerca di Ingegneria Ambientale ed Agraria dell’Università della Basilicata e con il sostegno dell’amministrazione comunale di Ferrandina. Le attività promosse dall’accordo si inquadrano nelle strategie di sostenibilità e circolarità del ciclo di trattamento delle acque reflue che rappresentano un rilevante costo economico ed ambientale, ma, allo stesso tempo, se adeguatamente gestite, possono costituire una potenziale opportunità di sviluppo economico. Le acque reflue, infatti, oltre al loro rilevante contenuto in sostanze fertiliz-

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NUOVA VITA PER LE ACQUE REFLUE URBANE CNR, CISA, Acquedotto Lucano S.p.a. e la Scuola di Ingegneria dell’Università degli Studi della Basilicata insieme per il recupero di risorse idriche

zanti indispensabili alle colture, sono costituite per oltre il 99% da “acqua dolce” e quindi sono particolarmente preziose. Recuperare e valorizzare gli ingenti quantitativi di acqua che vengono scaricati dai depuratori non solo può contribuire a mitigare le ricorrenti crisi idriche che affliggono il mondo agricolo, ma possono dare concreto sviluppo a nuove filiere nel settore delle bio-agro energie. La riduzione dei fanghi della depurazione è un altro tema di rilievo dell’accordo. Infatti, la gestione dei fanghi della depurazione rappresenta oggi un punto di attenzione dell’intero ciclo idrico integrato. Presso il sito sperimentale di

Ferrandina verrà testato un sistema di trattamento innovativo (noto con l’acronimo SBBGR- Sequencing Batch Biofilter Granular Reactor) in grado di ridurre fino all’80% la produzione di fango. Tale sistema verrà integrato con sistemi di affinamento di ultima generazione al fine di produrre effluenti di elevata qualità per la valorizzazione agricola. Le attività programmate potranno costituire una preziosa opportunità di formazione sul campo per studenti e giovani ricercatori chiamati a svolgere un ruolo attivo negli ambiziosi programmi di sviluppo che si prospettano per l’immediato futuro della nazione. (F. F.) GdB | Maggio 2021

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Innovazione

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VEICOLI PIÙ LEGGERI CON IL MATERIALE ANTIFUOCO Trasporti, elettronica e costruzioni i beneficiari dell’innovazione brevettata da Enea nell’ambito del progetto FireMat cofinanziato dalla Regione Emilia Romagna

di Pasquale Santilio

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n procedimento in grado di produrre un materiale innovativo antifuoco che permette di alleggerire il peso dei veicoli e aumentare il livello di sicurezza al fuoco. È stato brevettato da Enea nell’ambito del progetto FireMat del valore di 1,1 milioni di euro, cofinanziato dalla Regione Emilia Romagna. La soluzione multimateriale si caratterizza per essere costituita da strati alternati di materiale composito fibrorinforzato e alluminio al fine di realizzare elementi anche per l’elettronica e le costruzioni, come contenitori per batterie, paratie an-

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tifuoco, protezioni e supporti per elettronica di potenza, ovvero tutti quei componenti potenzialmente soggetti a surriscaldamento per la grande quantità di energia concentrata in piccoli spazi. Claudio Mingazzini, l’inventore del brevetto e ricercatore Enea del Laboratorio Tecnologie dei Materiali Faenza, ha spiegato: «Il procedimento sviluppato mira ad ottimizzare il compromesso tra caratteristiche antifuoco, meccaniche, riciclabilità a fine vita e uso delle materie prime seconde, ovvero di tutti i principali dettami dell’economia circolare, attività “core” del dipartimento Enea

di Sostenibilità dei sistemi produttivi e territoriali, a cui afferisce il nostro laboratorio». Oltre a consentire l’alleggerimento di auto elettriche e ibride, il nuovo processo, che ha TRL medio- alto, raggiunge il medesimo obiettivo anche nei veicoli da trasporto collettivi come navi e treni. Il TRL, acronimo di Technology Readiness Level, che si può tradurre con Livello di Maturità Tecnologica, indica una metodologia per la valutazione del grado di maturità di una tecnologia, sviluppata originariamente dalla NASA nel 1974 e, successivamente, modificata. Attualmente, viene utilizzata da vari enti americani ed europei, quali il Dipartimento della Difesa americano, la NASA, l’Agenzia Spaziale Europea, la Commissione europea ed altri. È basata su una scala di valori da 1 a 9, dove 1 è il più basso (definizione dei principi base) e 9 il più alto (sistema già utilizzato in ambiente operativo). Nel 2013, l’Organizzazione internazionale per la normazione (ISO) ha pubblicato un proprio standard per definire i livelli di maturità tecnologica ed i relativi criteri di valutazione. «Per spiegare l’importanza dell’alleggerimento nel settore trasporti, è utile partire dall’esempio dell’auto elettrica, che ora raggiunge un’autonomia tipica di 300 Km: riducendo il peso della vettura del 30%, con una singola ricarica si arriverebbe a quasi 400 Km di autonomia. In questo modo si riducono contemporaneamente anche le emissioni di CO2 per Km della stessa percentuale, aumentando sia l’interesse del mercato che i vantaggi ambientali» ha concluso il ricercatore Claudio Mingazzini. Partendo da una tecnologia di origine aeronautica, il brevetto è in grado di determinare la riduzione dei pesi, ma anche dei costi e dei tempi di processo in produzioni caratterizzate da numeri decisamente più grandi rispetto a quelli dei componenti utilizzati per gli aerei.


LE SETTIMANE ONB DI ALTA FORMAZIONE IN

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Monte Circeo.

Beni culturali

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urante un lavoro di ricerca condotto dalla Soprintendenza archeologica, belle arti e paesaggio di Frosinone e Latina e dall’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” sono emersi dei reperti fossili attribuibili a nove individui di uomo di Neanderthal. Il ritrovamento, avvenuto all’interno della Grotta Guattari al Circeo, sito preistorico del Lazio tra i più importanti al mondo per la storia dell’uomo, ha portato alla luce otto individui risalenti a un periodo compreso tra i 50mila e i 68mila anni fa, e uno, il più antico, databile tra i 100mila e i 90mila anni fa. «Una scoperta straordinaria di cui parlerà tutto il mondo – dice Dario Franceschini, ministro della Cultura – perché arricchisce le ricerche sull’uomo di Neanderthal. È il frutto del lavoro della nostra Soprintendenza insieme alle Università e agli enti di ricerca, davvero una cosa eccezionale». Gli scavi hanno fatto emergere migliaia di reperti ossei di animali che aiutano a costruire un’idea più precisa di quale fosse la biodiversità animale, vegetale e climatica dell’epoca. Oltre a resti di iena, le indagini hanno individuato reperti associabili ad animali come l’uro, un grande bovino estinto, rinoceronte, elefante del cervo gigante (Megaloceros), orso delle caverne e cavalli selvatici. Le ricerche, alle quali stanno prendendo parte anche istituti ed enti di ricerca come Cnr, Università di Pisa e Università di Roma “Sapienza”, stanno spaziando in aree della Grotta mai studiate finora, come quella del “laghetto”, caratterizzata dalla presenza di acqua nei mesi invernali, nella quale sono state rinvenute calotte craniche, frammenti occipitali e di cranio, resti di mandibola, denti e femori. «Con questa campagna di scavo – spiega Mauro Rubini, direttore del servizio di antropologia della Soprintendenza - abbiamo trovato numerosi inConsigliere tesoriere dell’Onb, delegato nazionale per le regioni Emilia Romagna e Marche.

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DALLA GROTTA GUATTARI DEL CIRCEO NUOVE SCOPERTE SUI NEANDERTHAL Il ministro della Cultura, Dario Franceschini: «scoperta straordinaria di cui parlerà tutto il mondo che arricchisce le ricerche sull’Uomo di Neanderthal»

di Pietro Sapia*

dividui, una scoperta che permetterà di gettare una luce importante sulla storia del popolamento dell’Italia. L’uomo di Neanderthal è una tappa fondamentale dell’evoluzione umana, rappresenta il vertice di una specie ed è la prima società umana di cui possiamo parlare». Saranno le analisi biologiche e genetiche a ricostruire l’habitat faunistico e floristico in cui vivevano i nostri predecessori e a far luce sull’alimentazione dei Neanderthal e delle specie animali che con lui coesistevano. «Sono tutti individui adulti – ha rilevato Francesco Di Mario, funzionario archeologo della Soprintendenza per le province di Frosinone e Latina e direttore dei lavori di scavo e fruizione della grotta Guattari – tranne uno forse in età giovanile. È una rappresentazione soddisfacente di una popolazione che doveva essere abbastanza nu-

merosa in zona. Stiamo portando avanti gli studi e le analisi, non solo genetiche, con tecniche molto più avanzate rispetto ai tempi di Blanc, capaci di rivelare molte informazioni». Mario Rolfo, docente di archeologia preistorica dell’Università degli studi di Roma Tor Vergata, spiega come «lo studio geologico e sedimentologico di questo deposito ci farà capire i cambiamenti climatici intervenuti tra 120 mila e 60 mila anni fa, attraverso lo studio delle specie animali e dei pollini, permettendoci di ricostruire la storia del Circeo e della pianura pontina». Il lavoro di ricerca ha coinvolto anche gli spazi esterni alla Grotta, dove sono state scoperte stratigrafie e paleosuperfici risalenti a un periodo che va tra i 60mila e i 125mila anni fa e che riportano momenti di vita quotidiana dei neanderthaliani. GdB | Maggio 2021

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Beni culturali

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el 2015 è stato eletto il «giardino privato più bello d’Italia», mentre il New York Times lo ha definito «il parco più bello e romantico del mondo». Il giardino di Ninfa è un’oasi di bellezza, di pace e di riflessione a un’oretta da Roma e non troppo distante neppure da Napoli. Otto ettari di territorio nel comune di Cisterna di Latina che ospitano 1300 specie botaniche provenienti dai cinque continenti, con la presenza costante dell’acqua a fare da filo conduttore. E non solo. Lo splendido sito, dichiarato monumento naturale nel 2000 dalla Regione Lazio, sorge sulle rovine di un’antica città che lo storico tedesco Ferdinand Gregorovius nelle sue Passeggiate romane definì«la Pompei del Medioevo». Un passato che riaffiora in ogni scorcio, in ogni angolo del giardino e che rende questo luogo davvero unico. Da 700 anni la famiglia Caetani è proprietaria di questo territorio e di altri siti circostanti, come il castello di Sermoneta. E fu proprio Gelasio Caetani, nel 1920, a dar inizio alla realizzazione dello splendido giardino all’inglese che oggi è diventato una delle attrazioni più ammirate in Italia e nel mondo. Ad accompagnarci idealmente nel tour tra i

colori, i profumi e le ricchezze del giardino di Ninfa, il cui nome deriva da un tempietto di età classica dedicato alle ninfe presente su un isolotto del piccolo lago, è il direttore Antonella Ponsillo, che cura il giardino per conto della Fondazione Roffredo Caetani: «L’unicità di Ninfa risiede nel fatto che è un giardino sorto su una città medievale con le sue strade, sette chiese, ben 150 edifici, ognuno costituente un piccolo scrigno di biodiversità. La città antica non soccombe alla vegetazione, ma la integra, con una molteplicità e diversità di ambienti che è la vera ricchezza di questo posto. Tutte le case diventano nicchie, fanno da scenario agli attori che sono le piante, mentre l’elemento unificante è rappresentato dall’acqua. La prima diga fu realizzata nell’antichità, il fiume è alimentato da sorgenti di origine carsica». Tra magnolie e ciliegi, meli e betulle, aceri giapponesi e piante rampicanti si possono ammirare vere e proprie primizie come la gunnera manicata tipica del Sudamerica, l’avocado, i banani e soprattutto le rose. Ma, oltre alle bellezze della natura, ci sono anche le meraviglie create dall’uomo: «Le chiese presentano affreschi ancora visibili, tutti databili tra il 1000 e il 1300. E l’Hortus conclusus del XVI secolo contiene decorazioni cinquecentesche, oltre a un portale d’ingresso del 1595, una vasca ot-

GIARDINO DI NINFA “IL PARCO PIÙ BELLO DEL PIANETA” Oltre 1300 piante provenienti che si sviluppano tra le rovine di un’antica città medievale

di Rino Dazzo 64 GdB | Maggio 2021


Beni culturali

tagonale e un meraviglioso ninfeo», prosegue il direttore Ponsillo che passa poi a spiegare qual è il periodo migliore per una visita al giardino: «Ogni stagione ha i suoi colori predominanti. Il verde è una costante di tutto l’anno, mentre in primavera prevalgono le tinte chiare, soprattutto a causa delle fioriture dei ciliegi giapponesi, dei meli e dei prunus. Ad aprile, maggio e giugno è tutta un’esplosione di rose, mentre d’estate c’è un alternarsi tra luce e ombra, col boschetto che offre una piacevole frescura. Molto belli anche i colori autunnali degli aceri, mentre in inverno peccato che il sito non sia visitabile perché gli arbusti offrono dei profumi e delle essenze eccezionali». L’insidia maggiore nella cura di piante provenienti da ecosistemi spesso molto diversi è rappresentata soprattutto dall’acqua: «La presenza di una falda acquifera superficiale per i grandi alberi è un problema, manca loro un apparato radicale tale da poterli ancorare bene al suolo. Più crescono rapidamente, più sono fragili. Ci sono alberi secolari che manifestano segni di debolezza, c’è bisogno di attenzioni e costanti e ovviamente qui i normali mezzi di manutenzione non possono accedere, bisogna fare tutto manualmente. L’altro aspetto è legato alla quantità di alberi e al clima. Vero è che una catena collinare ci ripara dai venti che arrivano

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Beni culturali

Logo Fondazione Caetani. “L’unicità di Ninfa risiede nel fatto che è un giardino sorto su una città medievale con le sue strade, sette chiese, ben 150 edifici, ognuno costituente un piccolo scrigno di biodiversità”.

nutrono di noci e nocciole, molto spesso è possibile vederli». Due i grandi progetti in cantiere per il giardino di Ninfa, che nel 2020 ha festeggiato – purtroppo tra chiusure a singhiozzo – il suo centenario: «Il primo è la creazione di una scuola di giardinaggio per perfezionare la manutenzione delle piante, a vantaggio del territorio. Il secondo, più prossimo alla realizzazione, è la creazione di un vivaio in cui si possano vendere al pubblico delle piante cresciute in loco». Allo studio, come racconta il direttore, anche un’altra importante novità per i visitatori: «La realizzazione, all’interno di una chiesa di Ninfa, di una sala multimediale dove, dopo il tour, si possa ammirare la ricostruzione della città fatta dai tecnici della Sapienza. Entro un paio d’anni dovrebbe essere pronta».

© Luca Lorenzelli/shutterstock.com

dal nord, ma è vero anche che il caldo favorisce la crescita a dismisura delle piante spontanee, che vanno a danneggiare le altre». Della manutenzione si occupano otto giardinieri, mentre intorno al giardino vero e proprio è stata creata un’area di circa cento ettari, una sorta di fascia di protezione dall’aspetto simile a quello che era il territorio pontino prima della bonifica, in cui si è sviluppata una ricca fauna fondamentale per evitare lo sviluppo di patogeni. «Sia il fiume Ninfa che le zone circostanti sono state dichiarate Sic, sito di importanza comunitaria», prosegue Antonella Ponsillo. «Attorno al fiume è sorta una vegetazione acquatica spontanea molto rara, nelle acque sono presenti specie rarissime come delle particolari varietà di trota e di rovella. Tra gli alberi, poi, vivono diverse famigliole di scoiattolo nero italiano. Si

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Sport

PEDOTE L’IRONMAN DELLA VELA Il toscano ha concluso all’ottavo posto al Vendée Globe, giro del mondo in solitaria, senza possibilità di attracco o assistenza esterna di Antonino Palumbo 68 GdB | Maggio 2021


Sport

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iù che una regata velistica, un test di resistenza fisica, emotiva e mentale. Si chiama “Vendée Globe” ed è un giro del mondo in solitaria, la circumnavigazione completa dell’Antartide, senza possibilità di attracco e di assistenza esterna, con partenza e arrivo a Les Sables-d’Olonne, in Francia. Fra i protagonisti dell’Everest del mare, nell’edizione 2020-2021, c’è stato il navigatore filosofo Giancarlo Pedote, sostenuto da Prysmian Group. Oltre all’ottavo posto finale, che ne ha fatto il miglior italiano di sempre alla Vendée Globe, Pedote ha ottenuto un risultato importante anche sul piano della solidarietà con Electriciens sans frontières. E oggi, malgrado la fatica fisica e mentale della competizione, non vede l’ora di ripeterla, come racconta ai lettori de “Il Giornale dei Biologi”. Giancarlo, il Vendée Globe, giro del mondo in solitaria e senza scalo, era il suo sogno nel cassetto. Cosa è cambiato tra il sogno e la realtà? Quando sogni qualcosa hai un’immagine artificiale, la realtà è diversa dall’immaginazione. Indubbiamente, essendo un navigatore solitario già da 15 anni, alla partenza del Vendée Globe mi aspettavo che sarebbe stata una regata dura, una prova difficile, che sarei stato messo a dura prova. Ho trovato tutto quello che immaginavo, ma quando vivi le cose per esperienza diretta ne rimani marcato, perché la vivi sulla tua pelle. Quali esperienze l’hanno segnata maggiormente? È una competizione estrema, sono rimasto da solo in una barca per ottanta giorni. Sono tanti i fattori che agiscono contemporaneamente: la solitudine, la stanchezza, il fatto che la barca non si ferma mai, non riesci mai a fare un sonno senza sobbalzare sulla brandina o concludere un pasto senza che tutto salti. Anche se la barca è ferma perché non c’è vento, devi farla ripartire. E quando va lenta, c’è qualche danno da riparare. Non esiste mai relax, sono ottanta giorni non stop. Completare il Vendée Globe è più raro che scalare l’Everest. Lei si è addirittura classificato fra i primi 10: come si raggiunge un simile traguardo? Devi cercare di preparare bene te stesso e la barca, senza lasciare nulla al caso. Devi accantonare l’emotività e l’impulsività, basaGdB | Maggio 2021

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Sport

re le scelte su fondato raziocinio, freddezza, esperienza, visione a lungo termine. Impresa non facile, perché sono tutte scelte che non si prendono mai a mente riposata ma in uno stato di stanchezza crescente. 24.365 miglia: quali sono state quelle che le sono sembrate più lunghe? Senz’altro il passaggio nell’Oceano Indiano, complesso per tutta la flotta. Quando ci trovavamo nel Pacifico sono invece andato in testa d’albero, per problemi all’anemometro. Altri giorni sono stati resi lunghi dalla nostalgia per la famiglia e dalla solitudine. Invece l’ultima settimana è volata, ero concentrato nel portare la barca al massimo della velocità. E i momenti più duri, fisicamente? Il passaggio di Capo Horn, dove ho dovuto fare un’impegnativa sequenza di manovre. Le tempeste tropicali. E la rottura di una cima molto importante, che determina la possibilità di aprire e chiudere le vele, un’avaria che mi ha estenuato. Ha svolto una preparazione atletica specifica per questa avventura? Su cosa si insiste, prima di questo tipo di imprese?

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Giancarlo Pedote. “Faccio molta attenzione alla qualità dei cibi e cerco di evitare prodotti particolarmente confezionati. Cerco di avere un’alimentazione equilibrata in termini di apporto calorico, fra proteine e carboidrati, vitamine e fibre”.

Navigare è la base. Poi sono fondamentalmente una persona molto sportiva, mi piace praticare svariate discipline, dallo sci al surf da onda, dal triathlon all’ultra trail, fino al golf. Questo contribuisce ad aumentare l’elasticità e la mia capacità di reazione e di adattamento. Ipotizziamo che l’alimentazione giochi un ruolo di primo piano in una simile avventura: come si è alimentato durante le giornate e quali alimenti ha privilegiato, durante l’intera Vendée o in particolari momenti della giornata? Faccio molta attenzione alla qualità dei cibi e cerco di evitare prodotti particolarmente confezionati. Cerco di avere un’alimentazione equilibrata in termini di apporto calorico, fra proteine e carboidrati, vitamine e fibre e via discorrendo. Utilizzo inoltre complementi alimentari, visto che a bordo utilizzo acqua desalinizzata. Per il resto, dieta libera senza ossessione del grammo in più o in meno. Di tanti posti ai confini del mondo, quali sono le immagini e i luoghi che le sono rimasti più impressi? Navigare vicino all’Antartide è stato momento molto particolare, perché quei luoghi disabitati, lontani da ogni forma di vita, hanno un fascino unico. La Vendée Globe è stato il culmine di anni di sacrifici e privazioni. Qual è il primo sfizio che si è tolto, ad avventura conclusa? Due o tre settimane dopo la conclusione del Vendée Globe, sono andato a sciare con la mia famiglia al gran completo. E anche se ho dovuto lavorare abbastanza, perché sollecitato mediaticamente, sono riuscito a concedermi delle giornate di riposo assoluto. Ha concluso con ottimo risultato sportivo, ma non solo: l’operazione “1 click - 1 metro” permetterà la realizzazione di tre progetti di Electriciens sans frontiéres con il supporto del suo partner Prysmian Group. Quanto è stato gratificante? Sapere che la nostra avventura ha aiutato persone in difficoltà è una grande soddisfazione, ci si sente utili per qualcuno che ha bisogno. Qual è il prossimo sogno nel cassetto? Rifare il Vendée Globe e migliorare in modo considerevole il risultato ottenuto la prima volta.


DELEGAZIONE REGIONALE LAZIO E ABRUZZO

Seminario formativo in videoconferenza

EMERGENZA COVID-19: I VACCINI

Cultura Cultura della prevenzione della prevenzione

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PROGRAMMA PRESENTAZIONE Sen. Dott. Vincenzo D’Anna (Presidente dell’ONB) INTRODUZIONE Dott. Alberto Spanò (Consigliere ONB – Delegato Lazio Abruzzo) “TECNICHE E STRATEGIE PER LA IDENTIFICAZIONE DELLA INFEZIONE DA SARS COV 2” Prof. Liborio Stuppia (Università degli Studi “G. D’Annunzio” - Chieti) “IL PATOGENO, L’OSPITE E L’AMBIENTE ALLA BASE DEL COVID-19” Prof. Giuseppe Novelli (Università degli Studi “Tor Vergata” – Roma)

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Sport

DAL VOLLEY GIOCATO AL TRAINING: LA NUOVA NADIA Leggenda della pallavolo azzurra con 315 presenze e un argento europeo, la Centoni lavora oggi come preparatrice atletica con Il Bisonte Firenze e i gruppi giovanili della Nazionale

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mettere, a volte, è più difficile che cominciare» recitava Henry Fonda in un noto western all’italiana. È così anche nello sport e lo sanno bene atleti di primo piano, tornati alle competizioni dopo il primo annuncio di ritiro: da Michael Schumacher (F1) a Juan Sebastian Veron (calcio), da Filippo Magnini (nuoto) a Francesca Piccinini (pallavolo). Così come lo sanno il portiere della Juventus, Gigi Buffon (calcio), il pluri-iridato della Moto GP, Valentino Rossi, l’asso del football americano Tom Brady, over 40 che continuano senza sosta a calcare con diverse fortune la scena agonistica. Smettere, del resto, è un salto del buio. A meno che non si inizi, quando si è ancora in attività, a porre le basi per la seconda vita. È quanto ha fatto Nadia Centoni, 40 anni il prossimo 19 giugno, pallavolista toscana più volte regina di Franca con la RC Cannes e argento europeo con la nazionale italiana nel 2005. Ritiratasi senza rimpianti tre anni fa - “quando ero al top”, ama sottolineare - l’opposto di Braga

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Nadia Centoni con il suo cane.

(Lucca) ha fatto del suo interesse per la preparazione atletica un lavoro e oggi si divide fra Il Bisonte Firenze, giovanili azzurre e il ruolo di segretario della commissione atleti della Confédération Européenne de Volleyball (CEV), organo di governo della pallavolo e del beach volley europei. «Negli anni ho cercato di costruirmi il momento in cui avrei smesso. Ho deciso quando, alzandomi la mattina, la passione e la voglia si sono scontrati con il “non ce la faccio più”. Dopo sette anni in Francia e tre in Turchia, ho iniziato a sentire nostalgia della famiglia, così ho giocato un’ultima stagione a Cannes e ho smesso. Tanto, i miei obiettivi li avevo raggiunti e sarebbe stato difficile far meglio» racconta Nadia. Aggiungendo: «Ci tengo a dire con orgoglio che


ero all’apice della forma e ho ricevuto più proposte quell’anno che in tutte le altre stagioni». Superati i 30 anni, Nadia ha iniziato a chiedersi cosa fare da grande, da un lato godendosi gli anni migliori dal punto di vista sportivo, dall’altro ascoltando quella “vocina” che le diceva di preparare il futuro. Per una ragazza cresciuta a pane e volley, il futuro però non poteva che essere in palestra. «Mi hanno sempre incuriosito gli aspetti legati alla preparazione atletica e così mi sono appassionata. Mi sono messa a studiare per capire cosa servisse per farmi stare bene ed essere performante, perché volevo essere al cento per cento, mentalmente e fisicamente. Ho un po’ sperimentato su me stessa. Poi mi sono iscritta a Scienze Motorie – racconta la Centoni - e seguito fatto corsi specifici con federazione

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Sport

La leggenda azzurra non può fare a meno di osservare che oggi c’è meno spirito di sacrificio, perché in generale si dà meno importanza al fare fatica.

e Coni per diventare preparazione atletico: mi sono messa subito all’opera, lavorando con bravi ed esperti professionisti». L’atleta lucchese di sfide ne ha affrontate tante, sul campo: campionessa del mondo U19 in azzurro, 315 volte in campo con la Nazionale maggiore, è stata sette volte campionessa di Francia, più volte miglior giocatrice e miglior opposto della Ligue A, miglior attaccante della Champions League 2009/2010. La sfida più difficile, però, è stata confrontarsi con un universo totalmente nuovo: le giovanissime. «Vengo dal professionismo d’élite – spiega – e quello è il mondo che mi è più familiare. Invece negli ultimi tre anni mi sono messa in gioco con le ragazzine, un mondo più difficile che mi ha fatto confrontare con aspetti che non conoscevo. È diventato l’ambito che mi sta appassionando di più, tant’è che ho la possibilità di lavorare anche con le nazionali giovanili: ora partirò con l’under 16, l’estate scorsa ho lavorato con la pre-juniores, categorie di ragazze abbastanza giovani, così come l’U18 e l’U16 del Bisonte Firenze». Una sfida nuova, stimolante, motivante. Una ricerca continua di suggerimenti, per provare a trasformare delle ragazze in atlete, per stare bene prima ancora che per arrivare in Serie A: «Devono capire che il benessere fisico è importante e le aiuta a giocare meglio, ma anche a stare meglio. Essere riuscita a far capire loro che la preparazione fisica è fondamentale per saltare di più, giocare meglio, divertirsi di più, è stata la mia vittoria più grande». Chi si confronta con i giovani, oggi, sa che ogni generazione ha caratteristiche differenti. E se a Nadia non piacere dire “ai miei tempi”, perché i tempi cambiano, la leggenda azzurra non può fare a meno di osservare che oggi c’è meno spirito di sacrificio, perché in generale si dà meno importanza al fare fatica, all’appassionarsi, perché sembra che tutto arrivi facilmente e basta poco per essere al settimo cielo o per dire “faccio schifo”. Nell’epoca dell’apparire, del successo, diventa fondamentale saper crescere senza necessariamente vincere: «Chi fa, sbaglia. E sbagliando si impara. L’importanza dell’errore è fondamentale nel processo di crescita e di apprendimento. Può far migliorare o può indirizzare verso altri percorsi, insegnare qual è la propria strada. Ci sono tante ‘promesse’ che si perdono perché magari non hanno la testa per diventare professionisti o magari perché praticavano una disciplina solo perché spinti dai genitori». (A. P.) GdB | Maggio 2021

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Sport

Cristiano Ronaldo (Juventus) e, sullo sfondo, gli spettatori della finale di Coppa Italia di calcio 2020-21.

PROVE DI NORMALITÀ NEGLI STADI: RIECCO I TIFOSI Dopo le chiusure, gli Internazionali d’Italia di tennis e la finale di Coppa Italia di calcio hanno aperto al pubblico. La Premier League accoglie 10mila appassionati

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uanto il calcio sia più bello, con i tifosi sugli spalti, ce l’ha ricordato “oooooh... goool” dei 10mila tifosi di Manchester-Fulham, che ha accompagnato il meraviglioso pallonetto dai 40 metri di Edinson Cavani per il momentaneo 1 a 0. La Premier League, il massimo campionato inglese, ha infatti deciso di sperimentare il nuovo limite di 10mila tifosi per le ultime due giornate. Rigorose le misure di prevenzione anti-Covid: un questionario sul proprio stato di salute, a 72 ore dal calcio d’inizio; ingresso allo stadio scaglionato; possibilità per i tifosi di misurare la temperatura prima di entrare; posti assegnati a distanza di sicu-

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rezza dai tifosi adiacenti, fatta eccezione per le famiglie o conviventi. Segnali di speranza, per lo sport e non solo, anche in Italia dove sono state aperte al pubblico sia le tribune degli Internazionali Bnl d’Italia di tennis, sia quelle del Mapei Stadium di Reggio Emilia, per la finale di Coppa Italia fra Atalanta e Juventus. Il torneo di tennis del Foro Italico aveva ospitato, nell’inedita edizione settembrina del 2020, un migliaio di spettatori a sessione nelle semifinali e in finale. Stavolta il pubblico ha avuto accesso alle ultime quattro giornate della manifestazione, da giovedì 13 a domenica 16 maggio. L’accesso è stato organizzato

in tre cluster, non comunicanti fra loro, nei quali il pubblico ha occupato rigorosamente posti numerati. Il cluster più ampio è stato quello del Campo centrale, con 2mila e 500 appassionati ammessi su un totale di 10mila posti (il 25 per cento), gli altri sono stati quello arancione dello stadio Pietrangeli e dei campi laterali e quello azzurro della Grand Stand Arena, per un totale di 5mila e 272 spettatori. Numeri lontanissimi, è vero, dal record giornaliero di 33mila e 770 ospiti registrato due anni fa, ma quanto basta per guardare al futuro con ottimismo. Se il gol di Cavani all’Old Trafford ci ha ricordato quanto lo sport sia più bello in presenza dei tifosi, la cavalcata del tennista italiano Lorenzo Sonego ci ha confermato come il calore del pubblico possa far tirar fuori a un atleta qualcosa in più. A Sonego è legato peraltro un episodio curioso, avvenuto in occasione del match fra l’atleta piemontese e l’austriaco Dominic Thiem, nella prima giornata di aperture al pubblico. Alle 21.30, dopo il secondo set, in mancanza di deroghe specifiche gli spettatori accorsi al Foro Italico sono stati invitati a lasciare l’impianto per poter rientrare nelle rispettive abitazioni, nel rispetto del coprifuoco alle 22. Qualche fischio di disapprovazione, poi tutti a casa, tranne Sonego che è rimasto carico e concentrato, vincendo l’incontro al terzo set. Al Mapei Stadium di Reggio Emilia, 4mila e 300 spettatori - ovvero il 20 per cento della capienza - hanno invece assistito lo scorso 19 maggio alla finale di Coppa Italia fra Juve e Atalanta. Attraverso la app Mitiga, realizzata ad hoc per questo tipo di eventi, gli utenti hanno caricato il biglietto della partita, l’esito del tampone (da effettuarsi non prima del giorno precedente l’incontro) e un’autocertificazione da compilare. Con i documenti in regola, la app genera un codice QR di colore verde, valido come pass per l’accesso allo stadio. Postazioni esterne allo stadio sono state allestite per validare il certificato vaccinale o quello di avvenuta guarigione dal Covid-19. Piccoli passi verso una nuova normalità. (A. P.)


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Sport

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traordinario negli straordinari. Gregorio Paltrinieri, 26enne nuotatore emiliano campione di tutto in vasca, ha ampliato gli orizzonti e le distanze agli Europei di Budapest, dominando le prove in acque libere prima di tornare a cimentarsi in vasca con conquistare due medaglie d’argento in piscina negli 800 e nei 1500 metri stile libero. L’olimpionico di Carpi ha vinto la medaglia d’oro nei 5 km, nei 10 km e nella staffetta 4x2,5 km, trascinando l’Italia al successo nel medagliere di specialità con tre ori, due argenti e tre bronzi. E pensare che quella del Lupa Lake è stata la sua prima avventura continentale in acque libere, dopo l’argento ai Mondiali di Gwangju nella 5 km. Paltrinieri ha debuttato nel migliore dei modi agli Europei d’Ungheria, trionfando nella 5 km con il tempo di 55’43”3. La progressione dell’azzurro non ha lasciato scampo ai quotati avversari a partire dal francese Marc Antoine Olivier, secondo a 1”8, mentre sul terzo gradino del podio è salito Dario Verani, compagno di allenamento di Greg sotto la guida di Fabrizio Antonelli. A ventiquattro ore dall’impresa sui cinquemila metri, Paltrinieri ha solcato regalmente le acque del Lupa Lake anche nella 10 km, unica specialità olimpica. Una progressione magistrale, quella dell’azzurro, che ha lasciato a bocca aperta anche i favoriti della vigilia, dall’iridato 2019 Florian Wellbrock, tedesco, all’olandese Ferry Weertman, re d’Europa nelle precedenti tre occasioni. Greg ha firmato così il primo oro italiano della storia nella 10 km, mettendosi alle spalle nell’ultimo giro il gotha mondiale del nuoto in acque libere. Dopo i successi nella 5 e nella 10km, il terzo oro di Greg è arrivato nella prova a squadre (4x2,5 km) insieme a Rachele Bruni, Giulia Gabbrielleschi e Mimmo Acerenza, con Paltrinieri autentico trascinatore. Dopo il buon lavoro dell’argento olimpico Bruni e della medagliata europea Gabbrielleschi nelle priem due frazioni, il fuoriclasse emiliano ha recuperato 20 secondi alla russa Sorokina e

Gregorio Paltrinieri.

GREGORIO PALTRINIERI IL SIGNORE DELLE ACQUE Dopo i trionfi iridati e olimpici in piscina, agli Europei di Budapest il nuotatore italiano ha conquistato tre medaglie d’oro in acque libere e due argenti in vasca

lasciato ad Acerenza 14” da difendere sul tedesco Wellbrock. Da Paltrinieri, così come dagli altri azzurri, una dedica speciale per un oro che era stato solo sfiorato ai mondiali di Gwangju: “Questa medaglia è per i bambini che non possono nuotare, è indispensabile riaprire le piscine anche al chiuso. Se mi avessero tolto la piscina sarei impazzito”. Paltrinieri è stato la punta di diamante di un movimento in gran forma. Detto di Verani, applausi nella 25 km per Matteo Furlan, medaglia d’argento dietro al francese Axel Reymond, per Alessio Occhipinti e Simone Ruffini, rispettivamente quarto e sesto all’arrivo. Secondo gradino del podio anche per

Giulia Gabrielleschi nella 5 km femminile. La 25enne poliziotta pistoiese, erede sportiva dell’altra toscana Rachele Bruni, è giunta a soli quattro secondi dall’olandese volante Sharon Van Rouwendaal. Lei, Rachele, si è presa la sua ennesima ribalta il giorno dopo, nella 10 km, pigliandosi il bronzo dopo una volata mozzafiato con la spagnola Paula Ruiz bravo, a 15 anni dal debutto in azzurro proprio in Ungheria. Completa il palmares dell’Italia, per quanto riguarda il nuoto in acque libere, il bronzo di Barbara Pozzobon nella 25 km femminile, alle spalle dell’imprendibile tedesca Lea Boy e della francese Lara Grangeon. (A. P.) GdB | Maggio 2021

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Brevi

LA BIOLOGIA IN BREVE Novità e anticipazioni dal mondo scientifico

a cura di Rino Dazzo

RICERCA Trombosi post vaccino Covid, c’è il protocollo

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stato pubblicato sulla rivista scientifica Blood Transfus, fissando le linee guida per un adeguato protocollo diagnostico in caso di trombosi post vaccino anti-Covid. Lo studio, già inviato ad altre strutture ospedaliere e ai vari centri di riferimento nazionali, è stato completato dai medici dell’Aou Careggi di Firenze, che hanno seguito a distanza una donna che, dopo aver ricevuto la prima dose di un vaccino a vettore virale, aveva accusato una rara reazione allergica con effetti di coagulazione sul sangue. La trombosi non ha avuto effetti letali, la paziente è stata salvata e ora è in buone condizioni grazie alle terapie messe a punto, che si sono rivelate più che efficaci. La definizione di protocolli diagnostici tempestivi per i rari casi di reazione allergica post vaccino consentirà, secondo i medici dell’ospedale Careggi, di affrontare con serenità la vaccinazione contro il Covid.

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INNOVAZIONE Esami del sangue per diagnosi Alzheimer

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er diagnosticare il morbo di Alzheimer potrebbe bastare un semplice esame del sangue: è l’obiettivo del progetto SensApp, finanziato dall’Unione Europea e coordinato dal Cnr, finalizzato allo sviluppo di un super-sensore capace di riconoscere i livelli anormali di specifiche proteine nel plasma umano, legate allo sviluppo della malattia. A oggi l’unico modo di riconoscere queste proteine è attraverso un prelievo di liquido cerebrospinale a livello lombare. Nell’ambito del progetto di ricerca sono coinvolti biologi, fisici, ingegneri e scienziati clinici. La prima sfida è la messa a punto di un prototipo a tecnologia innovativa, la DSS (droplet split-and-stack), capace di riconoscere le proteine biomarcatrici in campioni modello minuscoli. La seconda, poi, sarà quella di rilevare le molecole del morbo di Alzheimer in campioni di plasma veri e propri, per una diagnosi precoce.


Brevi

GENETICA Un nuovo test genetico per prevenire il rischio infarto

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n test genetico sul rischio di avere un infarto. Lo hanno messo a punto gli studiosi di Allelica, start up specializzata nella genomica, che hanno sviluppato un software di analisi PRS (Punteggio di Rischio Poligenico) capace di combinare le informazioni sul rischio genetico con il livello di colesterolo LDL del paziente. Grazie a questo test, approvato e recepito dalle più importanti società scientifiche di cardiologia, è possibile identificare tempestivamente le persone che presentano i maggiori rischi.

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AMBIENTE Nel Dna del miele i segreti delle api italiane

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immi che miele fai e ti dirò chi sei. È nato BEE-RER-2, progetto di ricerca finanziato dalla Regione Emilia-Romagna che si propone di ricostruire il genoma completo dell’ape italiana analizzando le tracce lasciate proprio nel miele. Un progetto che ha l’obiettivo di mappare e tutelare la diversità delle api garantendo la qualità e la tracciabilità del loro prodotto più nutriente, il miele. Gli studiosi dell’Università di Bologna, che si occuperà della ricerca, hanno messo a punto un metodo in grado di analizzare il genoma degli insetti attraverso lo studio del Dna ambientale del miele, vale a dire il Dna che deriva da tutti gli organismi venuti a contatto col miele dal nettare delle piante fino al suo confezionamento. Il fine è quello di monitorare eventuali patogeni pericolosi per le api, insieme a una più compiuta valorizzazione del miele regionale.

RICERCA Sclerosi multipla: il marcatore di lesioni cerebrali

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ricercatori dell’Università degli Studi di Milano hanno individuato una spia precoce delle lesioni cerebrali legate alla sclerosi multipla umana. Si chiama GPR17 ed è un recettore normalmente presente sulla superficie degli OPC, le cellule progenitrici neuronali che entrano in gioco per riparare la perdita di mielina legata alla malattia, riparazione che fallisce a causa dell’ambiente infiammatorio locale. Nel corso del loro studio i ricercatori milanesi hanno accertato che, quando GPR17 rimane troppo a lungo nella membrana degli OPC, il processo si blocca e la riparazione della lesione è inficiata. Il recettore, in ogni caso, è un utilissimo sensore, precursore del danno: quando è presente, può indicare in modo precoce l’insorgenza di lesioni, dando la possibilità di intervenire con tempestivi e opportuni interventi farmacologici.

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Lavoro

CONCORSI PUBBLICI PER BIOLOGI CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI SCIENZE DELLE PRODUZIONI ALIMENTARI DI FOGGIA Scadenza, 3 giugno 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 (una) borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica Scienze Agrarie, Agroalimentare e Veterinarie”. Per informazioni, visitare il sito internet www. cnr.it, sezione concorsi.

LARE DI PAVIA Scadenza, 3 giugno 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Medicina e Biologia”. Tematica: “Studio della regolazione dello splicing alternativo operata dal fattore Nova2 durante lo sviluppo della vascolare tumorale”. Per informazioni, visitare il sito internet www.cnr.it, sezione concorsi.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI NANOTECNOLOGIA DI LECCE Scadenza, 3 giugno 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerca inerente l’Area scientifica “Biological Sciences”. Tematica: “Nanoparticelle per determinare morte immunogenica nei tumori”. Per informazioni, visitare il sito internet www.cnr.it, sezione concorsi.

UNIVERSITÀ DI NAPOLI “FEDERICO II” Scadenza, 3 giugno 2021 Procedura di selezione, per titoli e colloquio, per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato della durata di tre anni, settore concorsuale 05/F1 - Biologia applicata, per il Dipartimento di medicina molecolare e biotecnologie mediche. Gazzetta Ufficiale n. 35 del 0405-2021.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI SCIENZE E TECNOLOGIE PER L’ENERGIA E LA MOBILITÀ SOSTENIBILI DI TORINO Scadenza, 3 giugno 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1. borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Ingegneria Industriale”. Tematica della ricerca: “Studio ed ottimizzazione del processo di separazione della fibra della canapa dal canapulo e valorizzazione degli scarti della lavorazione della canapa”. Per informazioni, visitare il sito internet www.cnr.it, sezione concorsi. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI GENETICA MOLECO-

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UNIVERSITÀ DI CATANZARO “MAGNA GRAECIA” Scadenza, 3 giugno 2021 Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore, settore concorsuale 05/E3 Biochimica clinica e biologia molecolare clinica, a tempo determinato. Gazzetta Ufficiale n. 35 del 04-05-2021. UNIVERSITÀ DI PAVIACONCORSO Scadenza, 3 giugno 2021 Procedura di selezione per la chiamata di un professore di prima fascia, settore concorsuale 05/I1 - Genetica, per il Dipartimento di biologia e biotecnologie L. Spallanzani. Gazzetta Ufficiale n. 35 del 04-05-2021. UNIVERSITÀ SAINT CAMILLUS INTERNATIONAL UNIVERSITY OF HEALTH SCIENCES DI ROMA Scadenza, 3 giugno 2021

Procedura di selezione per la chiamata di un professore di seconda fascia, settore concorsuale 05/F1 - Biologia applicata, per la Facoltà dipartimentale di medicina e chirurgia, in lingua inglese. Gazzetta Ufficiale n. 35 del 04-05-2021. UNIVERSITÀ DI ROMA “TOR VERGATA” Scadenza, 3 giugno 2021 Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato, settore concorsuale 05/E2 - Biologia molecolare, per il Dipartimento di biologia. Gazzetta Ufficiale n. 35 del 04-05-2021. UNIVERSITÀ DI MILANO Scadenza, 4 giugno 2021 Procedura di selezione, per titoli e discussione pubblica, per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato della durata di tre anni, con finanziamento esterno, settore concorsuale 05/F1 - Biologia applicata, per il Dipartimento di biotecnologie mediche e medicina traslazionale. Gazzetta Ufficiale n. 35 del 04-052021. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO PER LA BIOECONOMIA DI ROMA Scadenza, 7 giugno 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, integrata eventualmente da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Ecologia e Biodiversita”. Tematica: Rilievi di campo, raccolta dati e loro georeferenziazione su piattaforma GIS, per definire la distribuzione delle differenti specie di Rettili nel territorio del Parco Nazionale Del Cilento, Vallo di Diano e Alburni; Raccolta dati di campo su possibili minacce (impatti di investimenti stradali, alterazione o distruzione di Habitat). Per informazioni, visitare il sito internet www.cnr.it, sezione concorsi.


Lavoro

UNIVERSITÀ DI FERRARA Scadenza, 9 giugno 2021 Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato della durata di trentasei mesi e definito, settore concorsuale 06/A3 - Microbiologia e microbiologia clinica, per il Dipartimento di scienze chimiche, farmaceutiche ed agrarie. Gazzetta Ufficiale n. 41 del 25-05-2021. UNIVERSITÀ DI MESSINA Scadenza, 10 giugno 2021 Valutazione comparativa per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato, settore concorsuale 05/E1 - Biochimica generale, per il Dipartimento di medicina clinica e sperimentale. Gazzetta Ufficiale n. 37 del 1105-2021. UNIVERSITÀ DI ROMA “TOR VERGATA” Scadenza, 10 giugno 2021 Procedura di selezione per la copertura di due posti di ricercatore a tempo determinato, settori concorsuale 05/E3 - Biochimica clinica e biologia molecolare clinica e 06/A3 - Microbiologia e microbiologia clinica, per il Dipartimento di medicina sperimentale. Gazzetta Ufficiale n. 37 del 11-05-2021. AZIENDA OSPEDALIERA DI PERUGIA Scadenza, 10 giugno 2021 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di dirigente biologo, disciplina di biochimica clinica, a tempo indeterminato. Gazzetta Ufficiale n. 37 del 11-05-2021. AZIENDA OSPEDALIERO-UNIVERSITARIA DI FERRARA Scadenza, 10 giugno 2021 Concorso pubblico per la copertura di un posto di dirigente biologo, disciplina di patologia clinica, per il Laboratorio analisi. Gazzetta Ufficiale n. 37 del 11-05-2021. AZIENDA SANITARIA LOCALE TO4 DI CHIVASSO Scadenza, 10 giugno 2021 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di cinque posti di dirigente biologo, disciplina di microbiologia e virologia, nonché ulteriori posti del medesimo profilo presso le aziende dell’area metropolitana di Torino. Gazzetta Ufficiale n. 37 del 11-05-2021.

AZIENDA UNITÀ SANITARIA LOCALE DI PIACENZA Scadenza, 10 giugno 2021 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di dirigente biologo, disciplina di patologia clinica, a tempo indeterminato. Gazzetta Ufficiale n. 37 del 11-05-2021. UNIVERSITÀ DI SIENA Scadenza, 13 giugno 2021 Valutazione comparativa, per titoli e discussione pubblica e prova orale, per la copertura di tre posti di ricercatore a tempo determinato della durata di tre anni e pieno, vari settori concorsuali, per il Dipartimento di biotecnologie, chimica e farmacia. Gazzetta Ufficiale n. 38 del 14-05-2021. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI GENETICA E BIOFISICA “ADRIANO BUZZATI TRAVERSO” DI NAPOLI Scadenza, 17 giugno 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Scienze biomediche” da usufruirsi presso l’Istituto di Genetica e Biofisica “A. Buzzati Traverso” del CNR di Napoli. Tematica: “Fattori extracellulari nella regolazione della staminalità”. Per informazioni, visitare il sito internet www.cnr.it, sezione concorsi. UNIVERSITÀ “LA SAPIENZA” DI ROMA Scadenza, 20 giugno 2021 Valutazione comparativa, per titoli e colloquio, per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato e pieno, settore concorsuale 05/E1, per il Dipartimento di biologia e biotecnologie C. Darwin. Gazzetta Ufficiale n. 40 del 21-05-2021. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI GENETICA MOLECOLARE DI PAVIA Scadenza, 21 giugno 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Medicina e Biologia”. Tematica: “Nuovi modelli tecnologici e reti per curare la SLA”. Per informazioni, visi-

tare il sito internet www.cnr.it, sezione concorsi. UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Scadenza, 22 giugno 2021 Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato della durata di trentasei mesi e pieno, settore concorsuale 05/A1 - Botanica, per il Dipartimento di scienze biologiche, geologiche e ambientali. Gazzetta Ufficiale n. 39 del 18-05-2021. UNIVERSITÀ DI PAVIA Scadenza, 24 giugno 2021 Procedura di selezione per la chiamata di un professore di seconda fascia, settore concorsuale 05/E2 - Biologia molecolare, per il Dipartimento di biologia e biotecnologie L. Spallanzani. Gazzetta Ufficiale n. 41 del 25-05-2021. ISTITUTO ZOOPROFILATTICO SPERIMENTALE DELLA LOMBARDIA E DELL’EMILIA-ROMAGNA “BRUNO UBERTINI” DI BRESCIA Scadenza, 27 giugno 2021 Concorsi pubblici, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di dirigente veterinario ed un posto di dirigente biologo, a tempo indeterminato e pieno, per la sede di Brescia. Gazzetta Ufficiale n. 42 del 28-05-2021. AZIENDA UNITÀ SANITARIA LOCALE DI LATINA Scadenza, 27 giugno 2021 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di dirigente biologo a tempo pieno ed indeterminato, disciplina di patologia clinica. Gazzetta Ufficiale n. 42 del 2805-2021. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI SCIENZE APPLICATE E SISTEMI INTELLIGENTI “EDUARDO CAIANIELLO” DI NAPOLI Scadenza, 28 giugno 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati di mesi 12 (dodici), per ricerche inerenti l’Area scientifica “Micro e Nano elettronica, Sensoristica, Micro e Nano sistemi”. Tematica: “Strategie biochimiche per la realizzazione di biosensori”. Per informazioni, visitare il sito internet www. cnr.it, sezione concorsi. GdB | Maggio 2021

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Scienze

Alterazioni dell’EEG durante veglia e sonno nella malattia d’Alzheimer Per la prima volta sono state evidenziate specifiche differenze nell’attività elettrica cerebrale durante il sonno che discriminano la malattia di Alzheimer dal decadimento cognitivo lieve e dagli anziani sani

di Valentina Arcovio

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a malattia di Alzheimer (AD) è una sindrome neurodegenerativa che rappresenta la causa più comune di demenza nella popolazione anziana. L’elettroencefalografia (EEG) consente di rilevare i cambiamenti nell’attività corticale associata all’AD, anche nelle fasi iniziali. Il segno distintivo dell’EEG a riposo nei pazienti con AD è il rallentamento dei ritmi corticali, costituito da un aumento delle basse frequenze (0,5-7,0 Hz) e una diminuzione dell’attività ad alta frequenza [1]. Caratteristiche EEG simili colpiscono soggetti con deficit cognitivo lieve (MCI), una condizione che è prodromica all’AD in più della metà dei casi [2]. Il rallentamento dell’EEG è correlato ai cambiamenti funzionali, strutturali e cognitivi tipici della progressione della malattia [2] ed è stata considerata un’espressione nell’EEG del processo neurodegenerativo [3]. Anche l’attività EEG durante il sonno è influenzata da MCI e AD. Studi recenti hanno riportato una significativa riduzione dei fusi del sonno [4] e complessi K [5] durante la fase Non Rem o Nrem (Non rapid eye movement) in pazienti con AD e MCI. Invece, le osservazioni preliminari nel sonno REM hanno suggerito un aumento dei ritmi a bassa frequenza parallelamente alla riduzione delle alte frequenze, rispecchiando quelli che si verificano nell’EEG durante la veglia [6]. Vale la pena notare che le oscillazioni dell’EEG nel sonno hanno un ruolo cruciale nei processi di apprendimento e nei meccanismi plastici. In particolare, diversi segni elettrofisiologici sia dell’NREM (cioè, onde lente, fusi del sonno, ecc.) che del sonno REM (cioè, attività theta) sono attivamente coinvolti nel consolidamento della memoria [7]. A partire da questa evidenza, la valutazione delle alterazioni locali del sonno e del loro significato funzionale ha una rilevanza clinica essenziale nel campo dei disturbi neurodegenerativi. È interessante notare che recenti scoperte suggeriscono che l’alterazione dell’elettrofisiologia del sonno potrebbe essere correlata allo stato cognitivo dei pazienti con AD e dei soggetti con MCI. Ad esempio, sia la riduzione del fuso del

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sonno che la densità del complesso K sembrano associate al grado di declino cognitivo [1]. Il pattern che caratterizza l’attività corticale in questi pazienti imita l’effetto della privazione del sonno in soggetti sani, suggerendo che potrebbe essere, almeno in parte, una conseguenza diretta della loro scarsa qualità del sonno. In altre parole, l’aumento dell’attività corticale a bassa frequenza durante la veglia potrebbe anche riflettere una forte spinta al sonno, legata a una disfunzione dei processi di regolazione omeostatica legati al sonno. Alcuni studi supportano l’idea di un legame tra la progressione dei fenomeni neurodegenerativi e la compromissione del ciclo sonno-veglia [8] Secondo questa visione, il deposito precoce delle placche amiloidi in specifiche regioni del cervello, tipico dell’AD, potrebbe interferire con la regolazione del ciclo sonno-veglia, con conseguente frammentazione del sonno e riduzione del sonno a onde lente (SWS). D’altra parte, una buona qualità del sonno sembra svolgere un ruolo protettivo contro l’accumulo di amiloide: i livelli di β-amiloide aumentano con il tempo di veglia nei topi, mentre il sonno NREM prevede la clearance della β-amiloide [9]. Segni di interruzioni del sonno sono associati ai biomarcatori di AD negli esseri umani [10] e animali [11]. La privazione del sonno e l’interruzione selettiva dell’SWS aumentano i livelli di β-amiloide [12] e la diffusione della tau [13]. Infine, studi longitudinali suggeriscono che l’interruzione del sonno è associata a esiti correlati all’AD [14]. Pertanto, i disturbi del sonno, aumentando il tempo trascorso nella veglia, potrebbero contribuire negativamente alla condizione di AD. Sorprendentemente, nessuno studio ha studiato la relazione tra le caratteristiche EEG durante la veglia e il sonno nei pazienti con AD. Nel nuovo studio [15] coordinato da ricercatori della Sapienza e dell’IRCCS San Raffaele Roma, in collaborazione con l’IRCCS Fondazione Policlinico Universitario Gemelli e dell’Università dell’Aquila - Aurora D’Atri, Serena Scarpelli, Maurizio Gorgoni, Ilaria Truglia, Giulia Lauri, Susanna Cordone, Michele Ferrara, Camillo


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Marra, Paolo Maria Rossini, Luigi De Gennaro – è stato registrato l’EEG in un’ampia coorte di soggetti con AD, con MCI e sani durante la veglia e il sonno al fine di descrivere i cambiamenti topografici durante il ciclo veglia-sonno, in particolare durante il sonno NREM e REM e durante la veglia la sera prima di dormire e la mattina dopo il sonno. Tale indagine, pubblicata sulla rivista IScience, aveva lo scopo di determinare se una qualsiasi delle caratteristiche EEG valutate (o una combinazione di esse) sarebbe stata utile per discriminare tra AD, MCI e nessuna condizione. Partendo dai risultati riportati sull’elettrofisiologia alterata durante la veglia, il sonno NREM e REM associati alla patologia AD, ci aspettavamo di osservare pattern EEG topografici specifici per stato e frequenza in AD, MCI e in assenza di malattia, e una relazione tra le principali alterazioni EEG locali che caratterizzano i campioni clinici e il grado di declino cognitivo. Con l’obiettivo di valutare l’ipotesi che l’aumento dell’attività a bassa frequenza durante la veglia nell’AD / MCI possa parzialmente rappresentare un segno di una maggiore spinta al sonno, abbiamo anche valutato se i fattori omeostatici legati al sonno modulino diversamente l’attività EEG della veglia in questi gruppi. Infine, poiché è stato osservato un rallentamento dell’EEG sia nella veglia che nel sonno REM nell’AD e nel MCI, abbiamo ipotizzato l’esistenza di un meccanismo neuropatologico comune alla base di questi fenomeni. Per questo motivo, abbiamo valutato la correlazione tra il rallentamento dell’EEG durante la veglia e il fenomeno corrispondente durante il sonno REM. Inaspettatamente, non era presente alcuna differenza tra i gruppi per nessuno dei parametri esplorati della macrostruttura del sonno, ad eccezione della latenza dell’inizio del sonno e della durata del sonno a onde lente (SWS). In

particolare, i gruppi AD e MCI avevano bisogno di molto più tempo per addormentarsi e trascorrevano molto meno tempo in SWS rispetto al gruppo di controllo. Lo studio descrive il complesso modello di cambiamenti topografici e frequenza-specifici nell’attività EEG di AD e MCI rispetto a al gruppo di controllo attraverso diversi stati comportamentali [veglia serale, sonno (NREM e REM) e veglia mattutina], indagando anche la loro relazione. In sintesi i ricercatori italiani hanno scoperto che i principali indici EEG che differenziano AD e MCI dal gruppo di controllocoinvolgono la diminuzione temporo-parieto-occipitale dell’attività EEG alfa e sigma durante il sonno NREM e REM, influenzando anche la banda beta in quest’ultimo caso, e l’aumento temporo-frontale dell’attività delta durante il sonno REM e la veglia. Hanno anche dimostrato che l’attività corticale al risveglio subisce solo piccoli cambiamenti dopo il sonno in queste popolazioni cliniche rispetto al gruppo di controllo. Le modifiche EEG durante la veglia e il sonno sono reciprocamente correlate e correlate al grado di deterioramento cognitivo, con il rallentamento dell’EEG REM che mostra l’associazione più forte. Sebbene un ampio corpo di prove indichi un peggioramento della macrostruttura del sonno nell’AD [16] e MCI [17], che rappresenta un’esacerbazione dei disturbi del sonno osservati negli anziani sani, i risultati dello studio replicano solo parzialmente tali prove. I ricercatori hanno riscontrato un aumento della latenza dell’inizio del sonno e una diminuzione della durata dell’SWS in entrambi i gruppi AD e MCI, confermando una macrostruttura del sonno alterata, ma i campioni clinici utilizzato hanno mostrato una qualità del sonno più preservata del previsto. Tuttavia, il modello specifico di interruzione macrostrutturale nei partecipanGdB | Maggio 2021

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ti AD e MCI sembra variabile tra gli studi. Al di là delle possibili fonti metodologiche e demografiche di variabilità, i cambiamenti del sonno in questa popolazione sembrano strettamente legati alla progressione della malattia, ma tale relazione potrebbe non essere necessariamente lineare. Alla luce dell’ampia dimensione del campione, l’osservazione di alterazioni comparabili nell’AD e nell’MCI indica l’aumento della latenza del sonno e la ridotta durata dell’SWS come i segni più affidabili di interruzione della macrostruttura del sonno in queste popolazioni cliniche. La principale caratteristica del sonno NREM nel gruppo AD rispetto al gruppo di controllo è rappresentata dalla significativa riduzione dell’attività EEG nella banda sigma nelle aree temporo-posteriori. La riduzione dell’attività sigma può rappresentare un’espressione EEG dei danni talamici e ippocampali e la perdita di connettività corticale con tali strutture subcorticali che caratterizzano l’AD e l’MCI. I risultati dello studio mostrano chiaramente che, durante il sonno REM, il rallentamento dell’EEG è il principale fenomeno che differenzia i tre gruppi. Inoltre, i nostri risultati confermano che il profilo spettrale del sonno REM potrebbe rappresentare un marker EEG di AD migliore di quello della condizione di veglia, almeno in termini di indice dell’attività colinergica basale. I risultati confermano sostanzialmente l’aumento dell’attività corticale a bassa frequenza nelle aree frontotemporali 82 GdB | Maggio 2021

come caratteristica principale dell’EEG al risveglio in AD e MCI, supportando uno dei risultati più consolidati nel campo [2]. Approfondendo l’indagine sull’influenza dei fattori omeostatici, lo studio evidenzia un nuovo fenomeno che caratterizza i gruppi AD e MCI: la graduale scomparsa dei cambiamenti notturni nel delta power con il peggioramento della malattia. In condizioni di salute, l’attività EEG a bassa frequenza è più bassa al mattino, progressivamente più alta con il tempo trascorso sveglio durante il giorno e ritorna ai livelli basali dopo una notte di sonno . È considerato un indice EEG affidabile della pressione del sonno, ovvero la necessità di dormire per ripristinare i processi corticali saturati durante la veglia. Di conseguenza, i cambiamenti nell’EEG a riposo dopo il sonno potrebbero essere considerati un indice dell’efficienza dei processi di ripristino dipendenti dal sonno. In questa prospettiva, i risultati dello studio suggeriscono che il sonno nell’AD, e in misura minore nel MCI, non soddisfa completamente questa funzione compensativa. La correlazione significativa e per lo più esclusiva nel gruppo AD tra i cambiamenti notturni nell’attività delta della veglia e la riduzione dell’attività EEG ad alta frequenza durante il sonno NREM e REM suggerisce che le alterazioni del sonno sono strettamente associate alla mancanza di cambiamenti EEG mattutini rispetto a quelli serali. Lo studio ha evidenziato che l’EEG rallenta durante la veglia e il sonno REM. La valutazione dell’indice sintetico di rallentamento dell’EEG indica una maggiore sensibilità del sonno REM rispetto alla veglia nel rivelare differenze significative tra i tre gruppi e le regioni temporo-occipitali come marker regionali di questo fenomeno. Inoltre, esiste una forte correlazione lineare nell’AD tra il rallentamento dell’EEG in queste aree durante il sonno REM e il rallentamento dell’EEG durante la veglia, che è chiaramente rintracciabile nella condizione MCI e molto più debole negli anziani sani. L’indice EEG che ha mostrato la più forte correlazione con il deterioramento cognitivo è l’indice sintetico del rallentamento dell’EEG durante il sonno REM. Questo risultato suggerisce che questo indice composito può essere più adatto come marker di malattia rispetto ad altri basati sull’attività corticale in una singola banda di frequenza misurata durante il sonno REM e NREM o lo stato di riposo, nonché dello stesso indice valutato durante la veglia. L’attuale studio fornisce un quadro dettagliato delle alte-


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razioni topografiche e frequenza-specifiche nell’EEG delle popolazioni AD e MCI durante il sonno e la veglia rispetto agli anziani sani, evidenziando le loro relazioni e valutandole nella più ampia coorte ben controllata studiata finora. Oltre alla difficoltà di addormentarsi e alla riduzione dell’SWS, i ricercatori scoperto che l’architettura del sonno è abbastanza preservata nei nostri campioni di AD e MCI. In questo senso, il rallentamento dell’EEG in queste popolazioni, secondo i ricercatori, non dovrebbe essere visto come una diretta conseguenza secondaria di un sonno scarso. Tuttavia, il ritardo dell’inizio del sonno e la compromissione dell’SWS supportano un coinvolgimento del sistema di controllo sonno-veglia nel processo neurodegenerativo. Lungo questa linea, la scoperta originale della graduale scomparsa dei cambiamenti notturni nell’attività EEG da veglia in MCI e AD, la cui riduzione segue la gravità della malattia, indica una progressiva perdita della funzione riparatrice del sonno sull’attività EEG diurna . Tuttavia, questo fenomeno non dovrebbe dipendere strettamente da una maggiore veglia intra-sonno o da una riduzione del tempo totale di sonno, Infine, i ricercatori hanno trovato una forte correlazione lineare tra il rallentamento dell’EEG durante il sonno REM e durante la veglia nell’AD e nel MCI, suggerendo che i due fenomeni possono condividere gli stessi meccanismi neuropatologici. I risultati dello studio indicano anche che il sonno REM potrebbe essere un marker più sensibile del processo neurodegenerativo sin dalle prime fasi rispetto allo stato di veglia, dato che è meno influenzato dalla possibile confusione dei fattori omeostatici e il rallentamento dell’EEG durante il sonno REM è l’indice EEG più correlato al declino cognitivo.

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Fibromi uterini, una nuova terapia diminuisce perdite e dolore Il ruolo del relugolix in combinazione con estradiolo e noretisterone può diventare una alternativa alla chirurgia

di Laura Eduati

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e donne che soffrono di fibromi uterini spesso accusano mestruazioni abbondanti e dolore nella zona pelvica. Ora una doppia ricerca internazionale di sperimentazione clinica di fase 3 ha stabilito che la somministrazione giornaliera di relugolix (recettore ormonale antagonista per via orale che rilascia gonadotropina), estradiolo e noretisterone acetato può risultare efficace per evitare il pesante sanguinamento mestruale, evitando allo stesso tempo gli effetti dovuti alla deficienza di estrogeni. Il team di ricerca, che ha pubblicato lo studio sul British Medical Journal, ha condotto due sperimentazioni di fase 3 a doppio cieco, durate 24 settimane, coinvolgendo circa 800 donne, divise casualmente in tre gruppi ai quali è stata somministrata su base giornaliera la terapia combinata a base di relugolix (40 mg di relugolix, 1 mg di estradiolo e 0,5 di noretisterone acetato), oppure un placebo o una terapia ritardata a base di relugolix (40 mg di solo relugolix seguiti dalla terapia combinata a base di relugolix, ciascuna di 12 settimane). Grazie a questo percorso clinico, la riduzione della perdita mestruale grazie alla terapia combinata a base di relugolix è risultata importante se paragonata alle partecipanti nel gruppo placebo. Nello specifico, il 73% delle donne nel gruppo L1 e il 71% delle donne nel gruppo L2 sottoposte alla terapia combinata a base di relugolix hanno osservato un minore flusso mestruale, contro rispettivamente il 19% e il 15% delle partecipanti nei gruppi placebo. La terapia al centro di questa sperimentazione, inoltre, ha ottenuto risultati confortanti anche per sette degli obiettivi secondari dello studio: amenorrea, perdita del volume di sangue mestruale, disagio dovuto alle mestruazioni, disagio pelvico, anemia, dolore, grandezza dei fibromi e dell’utero. Il team ha anche valutato gli effetti sulla sicurezza e la densità minerale delle ossa, spesso a rischio con le terapie farmacologiche tradizionalmente utilizzate nei casi di fibromi dell’utero: la terapia a base di relugolix e la somministrazione di placebo hanno dimostrato di incidere allo stesso modo

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sulla densità minerale ossea. I fibromi uterini sono molto comuni. Entro i 50 anni di età interessano all’incirca il 70% delle donne caucasiche e l’80% delle donne nere [1,2]. Un quarto manifesta sintomi spesso debilitanti [3,4] come le mestruazioni abbondanti, che a loro volta provocano anemia [5,7]. L’utilizzo dei contraccettivi non è realmente efficace [11]. Più utile è l’iniezione degli agonisti dell’ormone di rilascio delle gonadotropine (GnRH), nonostante le conseguenze sui bassi livelli di estrogeni suggeriscano di limitarne l’uso oppure comportino la somministrazione di una terapia ormonale aggiuntiva per mitigare gli effetti collaterali [5,13]. Ugualmente, l’utilizzo dell’antagonista GnRH elagolix deve durare al massimo 24 mesi [14,15] e già dopo un anno provoca la diminuzione della densità ossea e pesanti effetti sulla pressione sanguigna, sul livello dei lipidi e sugli enzimi del fegato. L’intervento chirurgico spesso rimane l’unica opzione [19], sebbene vi sia il rischio della necessità di una seconda operazione: inoltre l’isterectomia (lasciando o meno le ovaie in loco) è associata all’incremento della mortalità e alle malattie dell’apparato cardio-circolatorio [20-22]. Proprio dalla necessità di trovare una terapia alternativa alla chirurgia è partito lo studio internazionale con l’uso della terapia combinata a base di relugolix, antagonista non peptidico dei recettori GnRH oralmente attivo, adatto all’uso quotidiano. Il suo vantaggio consiste nel legarsi ai recettori GnRH dell’ipofisi, arrivando a bloccare il legame e il segnale dei GnRH23 endogeni [23], portando così alla diminuzione reversibile e dose-dipendente delle concentrazioni di gonadotropina e la conseguente soppressione della produzione di estradiolo ovarico e del progesterone. La terapia a base di relugolix sperimentata nella nuova ricerca è stata sviluppata proprio per mantenere i livelli di estradiolo all’interno dei parametri fisiologici tipici della fase follicolare iniziale del ciclo mestruale [26,27], con l’aggiunta di un progestinico per comprimere gli effetti dell’azione degli estrogeni incontrastati che potrebbero causare iperplasia endometriale [28].


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Nello specifico, la doppia sperimentazione ha coinvolto di più di 2g per decilitro; la percentuale di donne con dolodonne con fibrosi uterine reclutate in ottanta luoghi diffe- re forte o molto forte; la variazione percentuale nel volume renti in Africa, Europa, Nordamerica e nel Sudamerica. Tra dei fibromi più grandi e infine la variazione percentuale nel le pazienti sono state annoverate anche donne in premeno- volume dell’utero. pausa dai 18 ai 50 anni di età con diagnosi di fibroma conCome già esposto, il 73% delle donne nella sperimenfermata da una ecografia e che presentavano un consistente tazione L1 e il 71% delle donne nella sperimentazione L2 flusso mestruale, misurato con la tecnica ematina alcalina hanno risposto positivamente alla terapia combinata a base [29]. Per sanguinamento mestruale abbondante si intende di relugolix, contro i rispettivi 19% e 15% del gruppo plaun volume uguale o maggiore a 80ml a ciclo per due cicli, cebo. oppure un volume uguale o maggiore a 160ml durante un Inoltre, grazie alla medesima terapia combinata oltre solo ciclo. il 50% delle partecipanti che manifestavano un quadro di La modalità di somministrazione delle terapie in speri- anemia all’inizio del trattamento hanno potuto registrare mentazione sono state assegnate casualmente tramite un sito un incremento di oltre 2 grammi per decilitro nei livelli di web interattivo dividendo le partecipanti in tre gruppi omo- emoglobina. Circa la metà delle pazienti ha riferito al termigenei con ratio 1:1:1 e con sistema doppio-ciene della terapia una diminuzione significativa co: al primo gruppo è stato consegnato del dolore stesso (stiamo parlando del un farmaco placebo in pillola da 43% delle donne nella sperimenprendere continuativamente tazione L1 e del 47% in L2), per 24 settimane; al seconpercentuali molto maggiodo gruppo una pastiglia ri rispetto al gruppo placontenente 40 mg di cebo (10% e 17%, rirelugolix e una capspettivamente). Un sula con estradiolo ulteriore risultato e noretisterone molto soddisfaacetato; il terzo cente include la gruppo ha riceriduzione genevuto la terapia rale del volume ritardata tramite uterino. una pillola da Per quanto 40mg di relugoriguarda la siculix e una pastiglia rezza della terapia placebo da prenqui sperimentata, dere insieme per le l’effetto collaterale prime dodici settimapiù riportato dalle ne, mentre le restanti partecipanti a L1 sono dodici la pastiglia placebo state le vampate di caloè stata sostituita dalla capsure per l’8% del gruppo plala con estradiolo e noretisterone cebo, l’11% del gruppo con la © Fancy Tapis/shutterstock.com acetato. terapia combinata e il 36% della teIn entrambe le sperimentazioni, l’analirapia ritardata. Incidenze simili alle donne si dell’efficacia primaria è consistita nella valutazione di L2: 4%, 6% e 35%. Un secondo effetto collaterale, sia del volume di sangue mestruale perso minore di 80ml, l’ipertensione, ha riguardato in L1 nessuna partecipante del sia della riduzione di almeno il 50% del volume iniziale di gruppo placebo, il 5% delle partecipanti alla terapia combisangue mestruale, attraverso la misurazione con la tecnica nata a base di relugolix e il 2% delle donne con la terapia ridell’alcalina ematina, negli ultimi 35 giorni di terapia. Per tardata. In L2 le percentuali sono state rispettivamente 3%, quanto invece riguarda gli obiettivi secondari, è stata valuta- 4% e 6%. La modifica percentuale della densità minerale ta la percentuale di donne con amenorrea; la percentuale di ossea nella spina lombare e nell’anca totale, invece, è pratiriduzione del volume di sangue mestruale; la riduzione del camente identica nelle donne del gruppo placebo e in quelle fastidio provocato dall’emorragia; la presenza di grumi di del gruppo cui è stata somministrata la terapia in sperimensangue, e la pressione sulla zona pelvica, misurata secondo tazione a base di relugolix. la scala del sanguinamento e del disagio pelvico [31]; la perTest di laboratorio e parametri vitali, inclusa la pressione centuale di donne che da una base di partenza di non più di sanguigna diastolica e sistolica, sono risultati simili nei dif10,5 g di emoglobina per decilitro hanno visto una crescita ferenti gruppi. Ugualmente non si sono verificate differenze GdB | Maggio 2021

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rilevanti rispetto alle condizioni iniziali circa, per esempio, gli esami delle funzioni del fegato e per i livelli dei lipidi. Al termine della sperimentazione, e cioè alla ventiquattresima settimana, nessuna delle partecipanti nei gruppi con relugolix ha registrato casi di iperplasia o tumore endometriale, mentre due donne appartenenti al gruppo placebo L1 hanno scoperto di soffrire di iperplasia endometriale senza atipie. Grazie a tutto quanto appena esposto, secondo gli autori delle due sperimentazioni non sussiste alcun dubbio sulla validità della terapia combinata a base di relugolix per le donne sofferenti di fibroma uterino. Non soltanto la somministrazione di relugolix in asssociazione con estradiolo e noretisterone acetato porta come abbiamo visto alla riduzione della perdita sovrabbondante di sangue mestruale, ma innesca dei benefici in sei dei sette obiettivi secondari della ricerca: metà delle partecipanti trova sollievo dall’amenorrea; una media dell’84,3% osserva una diminuzione del ciclo; coloro che soffrono di anemia registrano un miglioramento nei livelli di emoglobina; e il dolore tipicamente associato alla presenza di fibromi uterini, moderato o quasi invalidante, smette di essere tale. La ricerca ha cercato di coinvolgere nella sperimentazione un campione rappresentativo delle donne con fibromi uterini che potesse rispecchiare la popolazione generale [5,8,13,32]. La metà è nera e in generale l’indice di massa corporea si trova nell’area di obesità, mentre il volume medio di perdita di sangue mestruale (da 218,8 a 239,4 ml nei gruppi della sperimentazione L1, e da 211.8 a 246,7 nei gruppi della sperimentazione L2) rappresenta tre volte il volume di quanto viene considerato tradizionalmente un parametro normale. La maggioranza delle pazienti che hanno partecipato alla ricerca accusava dolore sopportabile o molto grave, associato alla presenza di fibromi uterini, e sempre la maggioranza riportava di soffrire in maniera acuta i sintomi collegati alla loro condizione e in generale di presentare una qualità della vita certamente menomata. Per molte delle partecipanti la terapia combinata a base di relugolix ha causato un sollievo impareggiabile, a prescindere dalla condizione di partenza. Un risultato che per i ricercatori va ulteriormente sottolineato, in quanto il dolore provocato dai fibromi uterini viene spesso sottovalutato. Il mezzo con il quale la doppia sperimentazione Liberty (L1 e L2) ha registrato la diminuzio86 GdB | Maggio 2021

ne del dolore è stato un diario elettronico giornaliero che prevedeva una misurazione validata del dolore. All’inizio delle sperimentazioni le partecipanti hanno riportato nel diario un livello considerevole di dolore. Dopo qualche settimana, il gruppo cui è stata somministrata la terapia combinata a base di relugolix, a differenza del gruppo trattato con il placebo, ha ammesso una diminuzione del dolore dovuto al sanguinamento e una minore presenza di grumi di sangue, così come una riduzione della pressione sulla zona pelvica. L’ecografia eseguita su queste pazienti ha certificato un rimpicciolimento del volume uterino, che a sua volta suggerisce una diminuzione della consistenza dei fibromi. La crescita dei fibromi e la produzione extracellulare uterina sono stimolate sia dagli estrogeni che dal progesterone attraverso i meccanismi del paracrino [34]. Il fatto che gli antagonisti del GnRH riescano a bloccare la proliferazione delle cellule del fibroma umano è noto, ma si tratta di un effetto molto modesto [35,36]. Per questo l’ipotesi della soglia degli estrogeni, secondo la quale occorre mantenere la concentrazione di estradiolo tra i 20 e i 50 pg per millilitro (o tra 70 e 180 pmol per litro), può rallentare la crescita dei fibromi e allo stesso tempo limitare gli effetti collaterali pesanti dovuti alla mancanza di estrogeni [26]. Durante la fase 1 della sperimentazione, la concentrazione media di estradiolo si attestava a un valore significativamente minore di 10 pg per millilitro (o 40pmol per litro) con la somministrazione di 40mg di solo relugolix per sei settimane, ma è rimasta sopra i 20 pg per millilitro quando relugolix è stata somministrata insieme a 1 mg di estradiolo e 0,5 mg di noretisterone acetato. I ricercatori hanno voluto includere nella sperimentazione Liberty (L1 e L2) gli effetti di una terapia ritardata a base di relugolix per studiare i suoi effetti sulla perdita di densità minerale nelle ossa e sugli effetti avversi di tipo vasomotorio che, come si è visto, risultano peggiori nelle pazienti cui è stata somministrata la terapia ritardata. Dopo 12 settimane, a questo gruppo è stata cambiata la terapia somministrando quella combinata a base di relugolix ma questo non ha riportato la densità minerale ossea nei parametri originali, né ha mostrato efficacia circa la riduzione del volume di sangue mestruale perduto, dimostrando che la terapia più adatta è dunque quella combinata.


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La funzione della Vitamina D sul nostro organismo Conosciuta per favorire l’assorbimento di calcio e fosforo a livello intestinale, aumentare il riassorbimento osseo e la capacità del paratormone di riassorbire calcio a livello renale

di Emanuele Rondina

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on l’arrivo della bella stagione passeggiare all’aria aperta fa bene al nostro organismo anche per la produzione di una vitamina–ormone, la vitamina D. E’ proprio il sole infatti che ci permette di formare il 90% della vitamina D, questo avviene attraverso la reazione biochimica che avviene nella nostra cute tra i raggi UV e il deidrocolesterolo (una molecola che si trova sulla pelle derivate dal colesterolo). Come si forma la vitamina D? La vitamina D non viene formata immediatamente, ma la prima molecola che si forma a partire dalla reazione tra deidrocolesterolo e raggi UV e’ un composto intermedio e instabile chiamato previtamina D3. Tale molecola intermedia, nell’arco di 48 ore si converte spontaneamente in un composto termodinamicamente più stabile chiamato Vitamina D3 o colecalciferolo. La vitamina D3 sintetizzata a livello cutaneo, similmente a quella di origine alimentare, deve essere attivata, prima a livello epatico e poi a livello renale, in 1,25-(OH)2-colecalciferolo. Tale molecola, di fatto è un ormone biologicamente attivo. Perché è importante e cosa comporta la sua mancanza? L’ormone–vitamina D, è conosciuta per favorire l’assorbimento di calcio e fosforo a livello intestinale, aumentare il riassorbimento osseo e aumentare la capacità del paratormone di riassorbire calcio a livello renale. Queste azioni comportano un incremento delle concentrazioni di calcio nel sangue che inducono la liberazione di calcitonina da parte delle cellule parafollicolari della tiroide, favorendo il deposito di calcio nell’osso. Inoltre esiste una azione diretta della vitamina D sul tessuto osseo che si esplica attraverso l’interazione con i recettori per la vitamina D3 espressi dagli osteoblasti. E stato osservato che la vitamina D promuove la sintesi di alcune proteine, soprattutto l’osteocalcina, fondamentali per

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i meccanismi omeostatici (stabilità della concentrazione in calcio nelle ossa). La vitamina D3, è riconosciuta dal suo recettore presente sugli osteoblasti attraverso la 1,25-diidrossivitamina D plasmatica e il VDR, stimolando l’espressione di RANKL che indice la maturazione del preosteoclasto in osteoclasto maturo. L’osteoclasto maturo rimuove il calcio e il fosforo dall’osso, mantenendo i livelli necessari di calcio e fosforo nel sangue per permettere la formazione di nuovo tessuto, ed è proprio tale equilibrio tra, la formazione di nuovo tessuto osseo e la distruzione del vecchio, a fare in modo che non ci sia uno sbilanciamento verso la perdita di massa ossea. Per le donne, avere una carenza di questa vitamina-ormone è molto più frequente rispetto agli uomini e molte non sanno di vivere in questa condizione se non solo in tarda età. Proprio perché sono più esposte a una carenza di vitamina D le donne (in età fertile), hanno una pelle del 20% meno spessa rispetto all’uomo (l’ispessimento è generato dal testosterone) per favorire la trasformazione del colesterolo cutaneo in vitamina–ormone D sotto l’azione dei raggi solari. Oltre a queste importanti funzioni per mantenere sane e forti le nostre ossa, è importante sapere che tale molecola entra all’interno di ogni cellula, dove agisce direttamente sul DNA, attivando almeno 200 geni, responsabili delle sue azioni nel metabolismo cellulare. L’ormone–vitamina D entra all’interno di ogni cellula, dove agisce direttamente sul DNA, attivando almeno 200 geni, responsabili delle sue azioni nel metabolismo cellulare, pertanto è davvero riduttivo guardare all’ormone-vitamina D limitando la sua azione sulle ossa. La vitamina D interviene anche nel sistema immunitario, attivandolo, studi recenti hanno evidenziato come l’attivazione della vitamina D determina la produzione di una proteina battericida, la catelicidina, e funzioni paracrine di modulazione dei linfociti T e B.


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In particolare nelle donne, più esposte a patologie autoimmunitarie, questa molecola, può essere considerata molto importante, inoltre, ha effetti sulle infezioni ridicendone il rischio. Ecco spiegato anche perché, nei mesi autunnali e invernali, in carenza di vitamina–ormone D, una persona può ammalarsi di più e avere la sensazione di mancanza di energia. Per quanto riguarda il cancro, la vitamina D sembra avere un effetto sull’adesione cellulare, sulla divisione cellulare e un effetto anti angiogenetico. Studi sperimentali hanno dimostrato un effetto biologico indiretto della vitamina sui processi di lipogenesi, lipolisi e sulla distribuzione del grasso corporeo e nei soggetti che presentano basse concentrazioni della vitamina è comune l’iperparatiroidismo e la presenza di livelli elevati di ormone paratiroideo (paratormone PTH). Questa situazione sembra favorire indirettamente l’accumulo di grasso corporeo, in quanto predispone alla resistenza all’insulina e inibisce la lipolisi. Per concludere nel 2012 si è evidenziata la stretta relazione tra la carenza di questa molecola e l’insorgenza della sclerosi multipla.

Può essere assunta anche con il cibo? La vitamina D3 oltre che dall’esposizione alla luce, deve essere in minima parte anche assorbita dal cibo. In particolare le linee guida sull’alimentazione indicano che il fabbisogno giornaliero di vitamina D (RDI) proveniente dagli alimenti, è pari a 400 IU, ma molte organizzazioni sanitarie, raccomandano caldamente di assumere 600 IU di vitamina D al giorno. Se invece non ci si espone sufficientemente alla luce solare, il fabbisogno giornaliero di vitamina D cresce fino a circa 1.000 IU al giorno. In particolare, la dose consigliata dall’Associazione per la Terapia delle Malattie Metaboliche e Cardiovascolari (AMEC) considera che un apporto giornaliero di vitamina “D” dalle 800 alle 1.000 UI sono una dose ragionevole per gli adulti per mantenere i suoi livelli > 32 ng/ mL (80 nmol/L). Gli alimenti che apportano tale vitamina sono (per 100gr): • salmone fresco naturale - 600-1000 UI • salmone fresco allevato -100-250 UI • salmone in scatola 300-600 UI • sardine in scatola 300 UI • sgombro in scatola - 250 UI • tonno in scatola 230 UI • olio di fegato di merluzzo (1 c) - 4001000 UI • funghi shiitake freschi - 100 UI D2 • funghi seccati al sole 1.600 UI D2 • rosso d’uovo - 20 UI • esposizione alla luce del sole 3.000 UI (30 min braccia e gambe)

Esiste un solo tipo di Vitamina D? La vitamina D può essere di due tipi: • VITAMINA D3 o colecalciferolo: contenuta in piccola quantità in prodotti di origine animale ma per la maggior parte è prodotta nella cute umana dopo ir© wanpatsorn/shutterstock.com radiazione ultravioletta a partire dal 7-deidro-colesterolo; • VITAMINA D2 o ergocalciferolo: presente solo nei vegetali e può esser assunta dall’uomo solo con la dieta. Il salmone Per attivare la produzione di vitamina D basta l’esposiE’ una grande fonte di vitamina D. Secondo le banche zione delle braccia e della gambe per 5-30 minuti (a secon- dati sui nutrienti, 100 grammi di apportano grandi quantida dell’ora della giornata, della stagione, della latitudine e tativi di vitamina D ma la concentrazione di questa vitamidella pigmentazione della cute) fra le 10 del mattino e le 3 na-ormone può variare decisamente in virtù del confeziodel pomeriggio, due volte alla settimana. namento e della qualità del prodotto. Uno studio, infatti, ha mostrato che il salmone pescato GdB | Maggio 2021

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© Yulia Furman/shutterstock.com

contiene in media 988 IU di vitamina D per 100 grammi di prodotto. Quindi il 247% del fabbisogno giornaliero. Però gli studi successivi hanno hanno rivelato che i livelli più elevati si trovano nel salmone selvatico, che arrivano fino a 1.300 IU di vitamina D per porzione, mentre il salmone d’allevamento contiene, in media, solo il 25% di tale quantità. Ciò significa che una porzione di salmone d’allevamento contiene circa 250 IU di vitamina D, che è pari al 63% del del fabbisogno giornaliero. Aringhe e sardine L’aringa è un pesce mangiato in tutto il mondo. Può essere servito crudo, in scatola, affumicato o marinato. È anche una delle migliori fonti di vitamina D dopo il salmone. L’aringa fresca fornisce 1.628 IU per una porzione di 100 grammi, che è quattro volte il fabbisogno giornaliero. Se il pesce fresco non fa per voi, anche le aringhe in salamoia sono una grande fonte di vitamina D, e forniscono 680 IU 100 grammi, che è pari al 170% del fabbisogno giornaliero. Tuttavia, le aringhe in salamoia contengono anche una quantità elevata di sodio, che alcune persone consumano in quantità eccessiva. Le sardine sono un tipo di aringa, anche esse rappresentano una buona fonte di vitamina D. Una dose contiene 272 IU, che è pari al 68% il fabbisogno giornaliero. Altri tipi di pesci grassi fonti di vitamina D sono lo sgombro fresco che contiene 360 IU per porzione che e 90 GdB | Maggio 2021

250 IU per il prodotto confezionato in scatola. Quali sono le cause del mancato assorbimento della vitamina D? Le carenze nutrizionali sono di solito il risultato di una inadeguatezza alimentare, un diminuito assorbimento e/o un aumento del fabbisogno o dell’escrezione. Una carenza di vitamina D può verificarsi quando: • l’assunzione dietetica abituale è scarsa © Bogdan Sonjachnyj/shutterstock.com


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• l’esposizione alla luce solare è limitata • i reni non possono convertire la 25-idrossivi-tamina D nella sua forma attiva • l’assorbimento della vitamina D da parte del tratto digestivo è insufficiente. • Diete carenti di vitamina D sono associate ad allergia al latte, intolleranza al lattosio, ovo- vegetarianismo e veganismo. Va tenuto presente che alle nostre latitudini circa l’80% del fabbisogno di vitamina D è garantito dall’irradiazione solare e il restante 20% viene assicurato dall’alimentazione. Chi è più soggetto alla carenza di vitamina D? Gli anziani sono a maggior rischio di sviluppare insufficienza di vitamina D sia perché: • con l’invecchiamento cala l’efficienza di sintesi di vitamina D per l’invecchiamento dei processi di sintesi che avvengono nella cute e dei reni (a parità di esposizione solare il soggetto anziano ne produce circa il 30% in meno) • tendono a passare più tempo in casa • possono avere un insufficiente apporto dietetico di vitamina D. Nell’anziano le condizioni di ipovitaminosi D sono stati spesso descritti quadri di miopatia dei muscoli prossimali degli arti, di sarcopenia e di riduzione della forza muscolare, con disturbi dell’equilibrio e con conseguente aumento del rischio di cadute e quindi di fratture, specie in età senile. La vitamina D infatti è in grado di stimolare la produzione di proteine muscolari, ma soprattutto di attivare alcuni meccanismi di trasporto del calcio a livello del reticolo sarcoplasmatico, che sono essenziali nella contrazione muscolare. Gli individui che hanno una ridotta capacità intestinale di assorbire i grassi potrebbero richiedere una supplementazione maggiore di vitamina D, dal momento che la vitamina D è una vitamina liposolubile e il suo assorbimento quindi dipende dalla capacità dell’intestino di assorbire i grassi alimentari. Il malassorbimento dei grassi è associato a una serie di condizioni mediche, tra cui alcune forme di epatopatie, la fibrosi cistica, la malattia celiaca e la malattia di Crohn, così come la colite ulcerosa quando vi sia interessamento dell’ileo terminale. Inoltre, le persone con alcune di queste condizioni potrebbero avere introiti più bassi di alcuni alimenti, come i prodotti lattiero-caseari ricchi di vitamina D. Le persone in obesità (indice di massa corporea ≥ 30) possono avere bisogno di un maggior apporto di vitamina D per ottenere livelli di 25-idrossivitamina D paragonabili a quelle di peso normale. L’obesità non influisce sulla capacità della pelle di sintetizzare la vitamina D, ma una maggiore quantità di grasso sottocutaneo sequestra la maggior parte della vitamina e modifica il suo rilascio in circolo.

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Attività antivirale delle proteine del siero di latte Recenti pubblicazioni riguardanti le proprietà antivirali delle proteine del siero di latte e le loro potenziali applicazioni nel campo della protezione della salute umana

di Valentina Gallo*, Francesco Giansanti** e Giovanni Antonini*, ***

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e proteine del siero di latte sia nella loro forma nativa che chimicamente modificata e i loro derivati peptidici hanno incontrato già da diversi anni molto interesse fra i ricercatori del settore nutraceutico e farmaceutico per le loro numerose proprietà tra cui quelle antimicrobiche, immunomodulanti e antitumorali, tali da rendere il latte e le sue proteine utilizzabili in un ampio spettro di trattamenti sanitari e di prevenzione. Recentemente è stata riscontrata una importante attività antivirale di queste molecole e bisogna sottolineare come lo studio di molecole antivirali con bassa o nulla tossicità, come quelle derivate dagli alimenti, sia attualmente considerato cruciale come trattamento aggiuntivo alle terapie convenzionali per contrastare le infezioni virali già note e quelle più recenti e meno conosciute come il COVID-19. Nella presente rassegna vengono riportate le recenti pubblicazioni riguardanti le proprietà antivirali delle proteine del siero di latte e le loro potenziali applicazioni nel campo della protezione della salute umana. Introduzione Il latte è un liquido bianco-bluastro secreto dalle ghiandole mammarie costituito da particelle di grasso immerse in un fluido acquoso. Il latte umano è un alimento peculiare per la specie e qualsiasi nutrimento di tipo artificiale (latte formulato in polvere o liquido) differisce in maniera molto marcata da esso, rendendolo difficilmente sostituibile per l’alimentazione del neonato (A.A.P., 2012). Il latte materno, infatti, oltre al suo potere nutrizionale, contiene numerosi fattori protettivi necessari a conferire un’immuIstituto Nazionale Biostrutture e Biosistemi, Roma. Dipartimento di Medicina Clinica, Sanità Pubblica e Scienze della Vita e dell’Ambiente, Università degli Studi dell’Aquila, L’Aquila. *** Dipartimento di Scienze, Università degli Studi Roma Tre, Roma. *

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nità passiva al neonato (Chirico et al., 2008) e la sua composizione è talmente complessa che varia a seconda dell’età gestazionale, nell’arco delle 24 ore della giornata, con il passare dei mesi di allattamento, con le maternità successive e nel corso della singola poppata, adattandosi perfettamente alle esigenze del neonato (A.A.P., 2012). Il latte contiene numerosi componenti bioattivi, tra cui proteine, lipidi e oligosaccaridi che assolvono funzioni diverse fisiologicamente dirette a sostenere la crescita (Richter et al., 2019) ed il sano sviluppo di neonati (Kim et al., 2020; Eriksen et al., 2018; Hill et al., 2015; Mosca et al., 2017). Tuttavia, il latte continua ad essere un alimento di base anche per gli adulti e, grazie alle sue proprietà, è considerato come uno dei più importanti nutraceutici (Gill et al 2000; Chiara et al., 2003; Kim et al., 2020). In effetti, molte ricerche in campo nutraceutico si sono incentrate sui componenti del latte e sui loro derivati per l’identificazione e l’isolamento delle molecole bioattive da utilizzare per il trattamento delle malattie e la loro prevenzione e anche con l’obiettivo di trovare nuovi farmaci da esse derivate per migliorare o da affiancare alle terapie convenzionali (Artym and Zimecki, 2013; Galley et al., 2020 ; Davies et al., 2018 ; Dybdahl et al., 2021 ; Kennedy et al., 1995 ; Sánchez et al., 2021). Il latte umano comprende, oltre alla caseina (40% delle proteine totali), le proteine del siero di latte (Yamada et al., 2002) ed una terza classe di proteine note come mucine presenti nella membrana del globulo di grasso ( Lönnerdal et al., 2017). Le proteine del siero di latte costituiscono circa il 60% delle proteine totali presenti nel latte umano ma questa percentuale è molto variabile sia tra le specie, sia in base allo stadio di lattazione, essendo presenti in maggiore quantità nel colostro rispetto al latte maturo. Questa grande variazione evidenzia la loro funzione protettiva, oltre che nutrizionale, relativa alla cosidetta “immunità naturale”, particolarmente importante nei primi giorni di vita del neonato (Lemay et al., 2013; Atkinson e Lönnerdal , 1995).


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Figura 1. Struttura di Lattoferrina, Lisozima, β-lattoglobulina e α-lattoalbumina da Protein Data Bank (https://www.rcsb.org/ : • 1B0L Recombinant human diferric lactoferrin DOI: 10.2210/pdb1B0L/pdb; • 1IY4 Solution structure of the human lysozyme at 35 degree C DOI: 10.2210/pdb1IY4/pdb; • 3BLG Structural basis of the tanford transition of bovine beta-lactoglobulin from crystal structures at pH 6.2 DOI: 10.2210/pdb3BLG/pdb; • 1HFX Alpha-lactalbumin DOI: 10.2210/pdb1HFX/pdb

Fra le proteine del siero di latte maggiormente rappresentate nel latte umano vi sono α-lattoalbumina (ca. 21 % delle proteine totali), immunoglobuline (ca. 10 % delle proteine totali), lattoferrina (ca. 15 % delle proteine totali), albumina sierica (ca. 4 % delle proteine totali), lisozima (ca. 4 % delle proteine totali) e una frazione minore in termini di quantità che è rappresentata da glicomacropeptide e lattoperossidasi (Artym and Zimecki, 2013; Haschke et al., 2016; Donovan et al., 2019). Molte delle proprietà biologiche e funzionali del latte sono dovuti a queste proteine (Donovan et al, 2019; Zhu et al, 2020; Lönnerdal et al., 2003; Li et al 2017 ; Haschke. Et al 2016). Il latte bovino ha una composizione di proteine del siero di latte simile a quella umana ad eccezione della presenza di un’elevata quantità di β-lattoglobulina che è completamente assente nel latte umano, ed una minore quantità di α-lattoalbumina rispetto al latte umano (Schack et al., 2009). Le proteine del siero di latte hanno un alto indice di qualità proteica grazie al loro contenuto di aminoacidi essenziali ma, oltre al loro potere nutritivo, le proteine del siero di latte esercitano numerose attività biologiche e funzionali che influenzano diversi processi biologici tra cui la promozione della crescita ossea e della forza muscolare, l’abbassamento del colesterolo, il miglioramento delle funzioni cognitive e la regolazione dell’umore oltre ad esercitare un’azione antiossidante, antitumorale, antimicrobica, antinfiammatoria e immunomodulatrice ( Krissansen , 2007 ; Teixeira et al., 2019 ; Layman et al., 2018 ; Akhavan et al., 2014 ; Morniroli et al., 2021 ).

A causa delle loro proprietà salutari e della loro grande biodisponibilità e sicurezza, le proteine del siero di latte, i loro derivati peptidici o le proteine del siero di latte modificate chimicamente sono state ampiamente studiate per le loro attività farmacologiche, sia da sole che in sinergia con altri farmaci, per la terapia o la prevenzione di diversi tipi di malattie, comprese le infezioni virali (Małaczewska et al., 2019). Recentemente, le proteine del siero di latte proteine e soprattutto la lattoferrina, già note per un forte antivirale attività contro diversi virus capsulati e non capsulati (Wakabayashi et al., 2014), stanno ricevendo un grande interesse da parte della comunità scientifica in quanto numerosi studi condotti su diversi tipi cellulari hanno dimostrato che esercitano una forte attività antivirale anche contro SARS-CoV-2. A seguiito di questi riscontri numerosi ricercatori stanno valutando l’efficacia dell’uso della lattoferrina e delle altre proteine del siero di latte per coadiuvare le terapie convenzionali sia nella prevenzione che nel trattamento della malattia COVID - 19. Questo articolo si propone di fornire una rassegna degli articoli scientifici riportanti studi sulle proprietà antivirali delle proteine del siero di latte e di loro derivati peptidici, illustrando anche le loro potenziali applicazioni nella protezione della salute umana dalle infezioni virali. Proprietà antivirali delle proteine del siero di latte È stato riscontrato che le proteine del siero di latte esercitano importanti effetti antivirali contro diversi virus capsulati e non capsulati. Tra questi sono inclusi il citomegalovirus umano, il virus dell’immunodeficienza umana (HIV-1), il virus dell’epatite B e C (Florian et al 2013; Liao et al.,2012; Redwan et al. 2014 ) , il virus dell’influenza aviaria A (H5 N1) (Taha et al. 2010 ), l’herpes simplex virus tipo 1 e 2, l’hantavirus , il poliovirus, Il virus dell’influenza A (H1N1) (Sitohy et al. 2010) , il rotavirus umano, il virus del papilloma umano e l’enterovirus (Ng et al., 2015) . Numerosi studi hanno dimostrato che, tra le proteine del siero di latte, i più significativi effetti antivirali sono da attribuire alla lattoferrina sia nella sua forma nativa che ai suoi derivati peptidici da idrolisi parziale, la quale può avvenire durante la digestione (Oevermann et al., 2003). Mentre per le altre proteine del siero di latte, quali β -lattoglobulina bovina, α-lattoalbumina e lisozima umane, è stata dimostrata una importante azione antivirale non nella loro forma nativa ma solo a seguito di modifiche chimiche quali acetilazione o aggiunta di residui chimici che determinano un aumento della carica negativa e influenzano la sua distribuzione spaziale. (Pan et al., 2006). Infatti, studi cinetici hanno dimostrato che l’aggiunta di cariche negative aumenta fortemente l’affinità delle proteine del siero di latte sia per i recettori cellulari che sono necessari all’entrata del virus che per le proteine virali (Zeder-Lutz et al., 1999). GdB | Maggio 2021

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In tal senso è importante ricordare la lattoferrina, già nota e studiata da lungo tempo per la sua attività antibatterica (Bullen et al. 1972) ed antivirale (Valenti et al, 1998). La lattoferrina , costituita da circa 700 aminoacidi, si compone di due lobi aventi sequenza amminoacidica molto simile, probabilmente derivante da una antica duplicazione genica. Ciascuno dei due lobi lega un atomo di ferro , tuttavia, al contrario della parzialmente omologa sierotransferrina, presente nel siero dei mammiferi, la funzione della lattoferrina nel latte materno non è quella di trasportare ferro ma la sua funzione principale è quella di svolgere attività protettiva nei confronti del lattante, in particolare verso infezioni batteriche e virali (Valenti and Antonini, 2005). È interessante notare che nel bianco d’uovo degli uccelli, che in alcuni aspetti ricopre le funzioni del latte nei mammiferi, è presente una proteina simile alla lattoferrina, la ovotransferrina, che assolve molte funzioni antibatteriche simili a quelle della lattoferrina, compresa l’attività antivirale verso virus aviari (Giansanti et al, 2002; Giansanti et al. 2012). Come accennato precedentemente, le proprietà antivirali più importanti sono state attribuite alla lattoferrina in forma nativa ed ai suoi derivati peptidici come la lattoferricina (che comprende la sequenza aminoacidica 17-41: FKCRRWQWRM KKLGAPSITCVRRAF) e la lattoferrampina (che comprende la sequenza aminoacidica 269-285: WNLLRQAQEKFGKDKSP) ( Van der Strate et al., 2001; Wakabayashi et al., 2014 ; Kell et al.,

2020 ). La lattoferrina, come il lisozima e contrariamente alla maggior parte delle proteine, ha un Punto Isoelettrico alcalino, ciò vuol dire che a pH fisiologico prevalgono le cariche positive dovute ad un’alta concentrazione di aminoacidi basici ed è interessante notare che entrambi i frammenti attivi della lattoferrina appartengono al cosiddetto lobo N della lattoferrina, caratterizzato dalla maggior presenza di aminoacidi carichi positivamente con i gruppi amminici protonati particolarmente presenti verso la estremità N-terminale della proteina. Nonostante la lattoferrina ed altre siero proteine come β-lattoglobulina, α-lattoalbumina e lisozima, in forma nativa o chimicamente modificata, condividano uno spettro molto ampio e sovrapponibile di attività antivirale il loro meccanismo di azione non è stato ancora completamente chiarito (NB et al., 2015). La maggior parte dei meccanismi di azione noti coinvolgono le interazioni delle proteine del siero di latte con i recettori delle cellule ospiti o con il genoma ed alcune proteine virali, che inibiscono l’infezione interferendo con l’ingresso e con la replicazione virale. Infatti, studi sul virus dell’immunodeficienza umana di tipo 1 umana (HIV-1) hanno dimostrato che la lattoferrina bovina e il suo peptide di idrolisi lattoferricina inibiscono l’ingresso del virus agendo sui recettori CXCR4 e CCR5 (Berkhout et al.2002), ed è stato dimostrato che la forma apo della lattoferrina bovina (cioè priva degli atomi di ferro) ha un ruolo nell’inibizione della replicazione dell’HIV-1 (Puddu et al. 1998). D’altra parte, è stato dimostrato che l’inibizione dell’ingresso dell’HIV-1 sulle cellule CD4 positive da parte della β-lattoglobulina modificata e dell’α-lattoalbumina coinvolge principalmente le interazioni con la proteina del rivestimento virale gp120 ( Neurath et al., 1995). Nell’infezione da citomegalovirus umano, sia la lattoferrina che le forme metilate della β-lattoglobulina e dell’α-lattoalbumina inibiscono principalmente la replicazione e la trascrizione del virus interagendo Figura 2. Distribuzione superficiale di carica della Lattoferrina umana e bovina. Blu: cariche positive; Rosso: cariche negative, (modificata da Baker, 2012). Si notino i cluster di cariche positive (dovuti ad un’alta concentrazione di aminoacidi basici) prossimi alla estremità N-terminale della proteina (a sinistra nella immagine), considerata la porzione della proteina responsabile di molte delle attività protettive della lattoferrina (Baker and Baker, 2005).

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con il genoma virale (Swart et al.1998; Chobert et al.2007). Meccanismi d’azione simili sono stati dimostrati in studi condotti sul virus dell’epatite B e C e sul virus dell’herpes simplex di tipo 1 e 2, dove l’inibizione da parte della lattoferrina sia umana che bovina e dei suoi peptidi derivati e della , α-lattoalbumina, β-lattoglobulina e lisozima, è dovuta alla loro interazione con le proteine virali e con alcune proteine cellulari che inibisce l’ingresso e la moltiplicazione del virus ( Sitohy et al. , 2007). Studi condotti sull’infezione da alfavirus hanno dimostrato che la lattoferrina agisce anche interagendo con i proteoglicani di eparan solfato sulla superficie della cellula ospite.( Waarts et al., 2005). Inoltre, è stato dimostrato che l’azione antivirale di proteine del siero di latte coinvolge anche altri meccanismi che mediano effetti diversi tra cui l’inibizione della diffusione virale, come riportato in vitro da studi sugli effetti della lattoferrina contro Hantavirus, ed effetti citopatici, come riportato da studi riguardanti la azione della lattoferrina e della lattoperossidasi contro il virus dell’influenza A (H1N1) e contro, l’echovirus umano (Pietrantoni et al, 2006; Shin et al., 2005). Un altro meccanismo di azione è stato osservato in uno studio effettuato sul virus dell’iinfuenza. In questo lavoro è stato dimostrato che l’interazione tra lattoferrina bovina ed emoagglutinina virale porta all’inibizione dell’emoagglutinazione indotta dal virus e ad una conseguente riduzione dell’infezione (Ammendolia et al. 2012 ) e un simile meccanismo d’ azione è stato osservato anche in studi precedenti su virus influenzale A e glicomacropeptide ( Kawasaki et al., 1993). La quasi totalità dei meccanismi di azione antivirali riportati negli studi condotti sull’attività antivirale delle proteine del siero di latte implica un effetto diretto sull’ingresso e sulla replicazione del virus. Questo effetto, indotto dall’interazione proteina/ virus, è fortemente dovuto alla distribuzione della carica proteica, in particolar modo ai cluster di cariche positive o negative. D’altra parte recenti studi condotti su lattoferrina e norovirus hanno dimostrato mostrato un possibile, ma non ancora pienamente compreso, meccanismo indiretto di azione nel ridurre l’infezione norovirus, che coinvolge l’induzione della produzione di interferone lattoferrina-mediata (Oda et al. 2021). Effetti anti SARS-CoV-2 delle proteine del siero di latte A seguito dell’emergenza COVID-19, diversi ricercatori stanno studiando molecole bioattive derivate dagli alimenti per trovare nuove molecole antivirali in grado di adiuvare e implementare le attuali terapie convenzionali nella prevenzione e nel trattamento del COVID-19. La maggior parte di questi studi è incentrata sulle proteine del latte e del siero di latte ed in particolare sulla lattoferrina in considerazione della sua ben nota attività antivirale verso molteplici virus. Precedenti studi avevano già dimostrato l’azione antivirale della lattoferrina contro lo pseudovirus SARS-CoV,

dove la proteina inibisce l’entrata del virus con un meccanismo che coinvolge il legame con le molecole di eparan solfato presenti sulla superficie delle cellule bersaglio (Lang et al., 2011). Recentemente, diversi autori hanno considerato il potenziale uso della lattoferrina per applicazioni sul trattamento del COVID-19, soprattutto a causa dei suoi effetti antinfiammatori e immunomodulatori (Wang et al., 2020; Campione et al., 2020; Chang et al., 2020; Zimecki et al., 2021). Recentemente, Fan e colleghi (2020) hanno dimostrato per la prima volta che le proteine del siero di latte materno sia umano che di altre specie, compresi il latte di capra e di mucca, sono efficaci nell’inibire sia SARS-CoV-2 che il coronavirus del pangolino (GX_P2V). Questi studi, condotti su diverse linee cellulari incluse le Vero E6 e le A549, hanno dimostrato che le proteine del siero di latte bloccano l’ingresso virale e la replicazione del virus SARSCoV-2 e GX_P2V con un EC50 di circa 0,13 e 0,5 mg/ml di proteine totali, rispettivamente. Inoltre, un effetto simile è stato dimostrato per le formulazioni commerciali di latte artificiale bovino analizzate in questo studio (Huahao et al., 2020). Sono stati descritti due diversi meccanismi di azione: un’interazione diretta delle proteine del siero di latte con le proteine cellulari e virali che interferiscono con l’ingresso del virus riducendo l’affinità della proteina spike con il recettore ACE-2; e l’interazione con la RNA-polimerasi RNA-dipendente virale che determina una azione inibitoria sulla replicazione. In questo studio, è stato anche analizzato il contributo della lattoferrina in questi processi ed è stato dimostrato che la lattoferrina è la principale responsabile dell’attività antivirale riscontrata nelle proteine del siero di latte. In questi studi sia la lattoferrina ricombinante umana che quella bovina hanno mostrato una significativa attività nell’ridurre la carica virale infettante, tuttavia da questi studi è emerso che l’inibizione della lattoferrina è minore di quella dell’intero pool di proteine del siero di latte, suggerendo che anche altre proteine del siero potrebbero essere coinvolte nell’inibizione dell’infezione da SARS-CoV-2, presumibilmente mediante un meccanismo sinergico. Altri ricercatori hanno condotto studi in vitro sull’attività anti SARS-CoV-2 della lattoferrina, utilizzando come modello di infezione diverse linee cellulari. Hu et al. (2021) hanno dimostrato, in studi condotti su cellule Vero E6,che la lattoferrina, sia bovina che umana inibisce efficacemente l’entrata del SARS-CoV-2 pseudovirus e di altri coronavirus umani quali HCoV-OC43, HCoV-NL63 e HCoV-229E impedendo il legame del virus alla cellula ospite attraverso l’interazione con l’eparan solfato presente sulla membrana cellulare. In particolare, l’inibizione mediata dalla lattoferrina bovina è superiore a quella della lattoferrina umana, con valori di EC50 per i virus HCoV-OC43, HCoV-NL63 e HCoV-229E virus da 11,2 a 37,9 ug/ml (per la lattoferGdB | Maggio 2021

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rina bovina) e da 35,7 a 117,9 μg/ml (per la lattoferrina umana). Relativamente a SARS-CoV-2 il valore EC50 della lattoferrina bovina è stato stimato di circa 500 μg/ml. Inoltre, è stato dimostrato che sia la lattoferrina umana che bovina mostrano una azione indipendente dal tipo cellulare inibendo il legame e l’ingresso di SARS-CoV-2 in più linee cellulari incluse Vero E6, Calu-3 e 293T-ACE2. In un altro studio sono stati dimostrati gli effetti antiSARS-CoV-2 della lattoferrina anche su altre linee cellulari comprese le iAEC2 e Huh7. Questo studio ha anche dimostrato che la lattoferrina modula la risposta immunitaria inducendo nella cellula ospite un’aumentata espressione di interferone e dei geni regolati da interferone (Mirabelli et al., 2020). Anche altri ricercatori hanno dimostrato che la lattoferrina induce in modo significativo non solo l’espressione di interferone ma anche di citochine antinfiammatorie e proinfiammatorie. Questi studi, condotti in cellule CaCo-2 infettate da SARS-CoV-2, hanno infatti dimostrato l’induzione mediata da lattoferrina dei geni IFNA1, IFNB1, TLR3, TLR7, IRF3, IRF7 e MAVS (Salaris et al., 2021). Inoltre, è stato anche dimostrato che la lattoferrina determina una riduzione della produzione di IL-6 che può essere utile per diminuire la produzione massiccia di citochine promossa da SARS-CoV-2 e quindi la grave risposta infiammatoria che caratterizza la malattia Covid-19 (Cutone et al., 2014). Di grande interesse sono gli studi che hanno riguardato l’individuazione di sinergie tra lattoferrina e altre molecole nel tentativo di trovare nuove possibili terapie antivirali combinate più efficaci di quelle attuali contro SARSCoV- 2. Da questi studi è emerso che la lattoferrina bovina mostra un effetto antivirale sinergico con remdesivir, un farmaco antivirale approvato dalla FDA che inibisce la polimerasi di SARS-CoV -2 (Hu et al., 2021). È stato anche dimostrato che la lattoferrina aumenta l’attività antivirale dell’anione ipotiocianito (OSCN -) contro SARS-CoV-2 in trattamenti combinati eseguiti su linee cellulari Vero E6 e HEK293T ( Cegolon et al., 2021). In aggiunta a questi studi sperimentali, Miotto e collaboratori (2021) hanno condotto uno studio computazionale per individuare o confermare i possibili meccanismi molecolari alla base dell’attività anti-SARS-CoV-2 della lattoferrina utilizzando un protocollo basato sui polinomi di Zernike 2D. In questo lavoro è stata studiata la capacità della lattoferrina di legarsi o di interagire con diversi substrati cellulari e virali considerati coinvolti nell’infezione da SARS-CoV-2, tra cui l’acido sialico, i recettori eparan solfato, il recettore ACE2, la proteina Spike, e altre proteine di membrana e dell’involucro virale. È importante sottolineare che i loro risultati suggeriscono che la lattoferrina possa competere con la proteina Spike di SARS-CoV-2 per il legame al recettore ACE-2, necessario per l’entrata del virus nella cellula. 96 GdB | Maggio 2021

Un’interessante e recente studio ha messo in luce un ulteriore putativo ruolo anti SARS-CoV-2 della Lattoferrina. La lattoferrina possiede attività inibitorie nei confronti di alcuni enzimi tra i quali la Catepsina L (proteasi a cisteina endosomale) che nell’infezione da SARS-CoV-2 riveste un ruolo cruciale nell’escape endosomale del virus. In particolare la lattoferrina in toto mostra IC50 pari a10-7 M, mentre un suo peptide individuato sul lobo C possiede una IC50 nei confronti della Catepsina L pari a 10-5 M (Madadlou A. 2020). Questa peculiarità della proteina e/p del suo peptide derivato potrebbero impedire la fuoriuscita del virus nel citoplasma, interrompendo il suo ciclo vitale. Oltre ai meccanismi finora citati, Habib e collaboratori hanno evidenziato un importante ruolo del ferro nell’infiammazione da COVID-19 e la conseguente potenziale attività protettiva degli agenti chelanti del ferro, inclusa la lattoferrina, nel trattamento dell’infiammazione da SARSCoV-2 (Habib et al. , 2021 ). Oltre alla lattoferrina, altre proteine del siero tra cui beta-lattoglobulina e il lisozima hanno mostrato una loro potenziale attività antivirale contro SARS-CoV-2 nel ridurre l’infiammazione e nel promuovere l’infiltrazione e l’attivazione delle cellule coinvolte nella risposta immune innata come i neutrofili e macrofagi (Mann et al., 2020). Infine, utilizzando approcci computazionali è stata analizzata l’attività di peptidi derivati dall’idrolisi della beta-lattoglobulina del latte di capra in particolare contro le proteasi SARS-CoV-2 e la contro la proteina Spike ed è stata dimostrata la loro potenziale attività inibitoria su ACE, DPP-4 e sugli enzimi furinici. Gli studi computazionali di docking molecolare hanno anche dimostrato la possibile interazione tra i peptidi derivati dalla beta-lattoglobulina e la proteina spike, suggerendo il loro potenziale ruolo nell’inibire l’infezione da SARS-CoV-2 (Çakır et al., 2021). Conclusioni Le proteine del siero di latte ed i loro peptidi biologicamente attivi hanno riscontrato grande interesse scientifico come nutraceutici da utilizzare come coadiuvanti nella prevenzione e cura di numerose malattie virali, per le loro importanti proprietà antivirali e antinfiammatorie e per la loro ampia disponibilità e biosicurezza. L’attuale emergenza COVID-19 ha portato gli scienziati a indagare sulle proprietà anti-SARS-CoV-2 del latte e delle proteine del siero di latte. Diversi studi in vitro hanno dimostrato una attività antivirale e antinfiammatoria della lattoferrina contro SARS-CoV-2. Questi risultati suggeriscono che la lattoferrina e i suoi derivati peptidici potrebbero rappresentare eccellenti candidati nella scoperta di nuovi antivirali e di molecole ad azione immuno-modulatrice, soprattutto in associazione con altri farmaci anti-COVID-19, da affiancare alle terapie convenzionali per il trattamento dell’infezione e nella riduzione dell’infiammazione.


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Giornale dei Biologi

Anno IV - N. 5 maggio 2021 Edizione mensile di AgONB (Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi) Testata registrata al n. 52/2016 del Tribunale di Roma Diffusione: www.onb.it

Direttore responsabile: Claudia Tancioni Redazione: Ufficio stampa dell’Onb

Giornale dei Biologi

Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132

Maggio 2021 Anno IV - N. 5

A SCUOLA DI GENOMICA

Intesa tra Ordine Nazionale dei Biologi e Dante Labs, azienda leader nel sequenziamento del DNA umano. D’Anna (ONB): “I biologi potranno formarsi in laboratori tecnologicamente avanzati”

Hanno collaborato: Giovanni Antonini, Valentina Arcovio, Barbara Ciardullo, Carla Cimmino, Rino Dazzo, Chiara Di Martino, Laura Eduati, Domenico Esposito, Felicia Frisi, Valentina Gallo, Francesco Giansanti, Biancamaria Mancini, Marco Modugno, Emilia Monti, Michelangelo Ottaviano, Gianpaolo Palazzo, Antonino Palumbo, Stefania Papa, Carmen Paradiso, Emanuele Rondina, Pasquale Santilio, Pietro Sapia, Giacomo Talignani. Progetto grafico e impaginazione: Ufficio stampa dell’ONB. Questo magazine digitale è scaricabile on-line dal sito internet www.onb.it edito dall’Ordine Nazionale dei Biologi. Questo numero de “Il Giornale dei Biologi” è stato chiuso in redazione venerdì 28 maggio 2021. Contatti: +39 0657090205, +39 0657090225, ufficiostampa@onb.it. Per la pubblicità, scrivere all’indirizzo protocollo@peconb.it.

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Borse di studio per la partecipazione ai corsi di Alta Formazione della

HARVARD MEDICAL SCHOOL ONLINE LEARNING DELLA HARVARD UNIVERSITY DI CAMBRIDGE (USA)

L’Onb finanzierà BORSE DI STUDIO del valore di 500 euro per tutti i biologi fino alla concorrenza di 75 partecipanti, ovvero 3 classi da 25 biologi ciascuna, per favorire la partecipazione a corsi di alta formazione finalizzati alla formazione ed upgrade nell’ambito della genomica


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