Il Giornale dei Biologi - N.4 - Aprile 2022

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Giornale dei Biologi

Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132

Aprile 2022 Anno V - N. 4

DNA SENZA SEGRETI

Intervista a Justin Zook ricercatore del National Institute of Standards and Technology che ha contribuito a completare la mappatura del genoma umano

www.onb.it


Tavola rotonda

NUTRIZIONE, MENTE ED EMOZIONI DEI SAPORI L’approccio del nutrizionista tra emozioni, sapori, lavoro emotivo, i social e l'ansia da prestazione

6 maggio 2022

Cagliari, via mameli 88 Con Gian Mario Migliaccio, Costantino Motzo e Maria Cristina Dore Con il contributo di Tania Orgiana, Psicologa Saluti istituzionali Vincenzo D’Anna, Presidente dell’Onb Enrico Tinti, commissario straordinario dell’Ordine dei Biologi della Sardegna


Sommario

Sommario EDITORIALE 3

Nuovi orizzonti per i Biologi di Vincenzo D’Anna

PRIMO PIANO 6

18

Covid, la curva si abbassa, ma i contagi sono elevati di Rino Dazzo

12

14

Miopia, una delle soluzioni possibili di Elisabetta Gramolini

16

Percezione del dolore attraverso il “claustro” di Sara Bovio

18

Afasia, in Italia ne soffrono 200mila persone di Domenico Esposito

20

Tumore ovarico: il processo molecolare della progressione di Domenico Esposito

22

L’avocado protegge da ictus e infarto di Domenico Esposito

24

Dal laboratorio alla cucina per un cibo sempre più sicuro di Veronica Di Gaetano

28

Il microbiota follicolare di Biancamaria Mancini

30

Cosmetici a base di erbe di Carla Cimmino

INTERVISTE 8

Completata la mappatura del genoma umano. Al Giornale dei Biologi, le parole del ricercatore di Chiara Di Martino

10

Dai camaleonti l’indizio per i biosensori che rilevano il glucosio di Elisabetta Gramolini

SALUTE 12

Scoperte nei polmoni cellule con proprietà rigenerative degli alveoli di Sara Bovio

22


Sommario

AMBIENTE 34

Acque sotterranee, tesoro da tutelare di Gianpaolo Palazzo

36

L’evoluzione in città, un fenomeno globale di Sara Bovio

38

Notti tropicali cittadine. Crescono le foreste urbane di Gianpaolo Palazzo

41

L’invasività delle mosche tropicali della frutta di Pasquale Santilio

42

Smottamento Italia di Gianpaolo Palazzo

INNOVAZIONE 44 45 46 47

Dagli atomi di rutenio idrogeno più verde di Pasquale Santilio Semiconduttori senza piombo? Ora si può di Pasquale Santilio

54 SPORT 52

Jacobs, è già d’oro. L’anno delle rivincite mondiali di Antonino Palumbo

54

La bella stagione del ciclismo azzurro al femminile di Antonino Palumbo

56

Gli eroi che non ti aspetti. I portieri che fanno gol di Antonino Palumbo

57

Passione rossa: la Ferrari fa sognare l’Italia di Antonino Palumbo

58

BREVI

Curare l’infarto con i nanofili di Pasquale Santilio

LAVORO

Il monitoraggio dello sviluppo cerebrale di Michelangelo Ottaviano

60

Concorsi pubblici per Biologi

SCIENZE 62

Biologia ed ecologia del microbiota della vite di Miriana Paolieri

68

Il microbioma alleato o nemico nella lotta ai carcinomi gastrici di Giuseppe Palma e Francesca Bruzzese

72

Noi mangiamo in modo sostenibile? (parte I) di Antonella Pannocchia

80

Studio epidemiologico in una coorte di addetti presso centrale nucleare E. Fermi in Trino: mortalità dal 1974 al 2019 di C. Salerno et al.

44 BENI CULTURALI 48

Il ‘700 di Villa della Porta Bozzolo di Rino Dazzo

51

29 mln per il restauro del patrimonio dell’Emilia-Romagna di Pietro Sapia

ECM 86

Neuroinflammation and multiple sclerosis di Luca Colucci D’Amato


Editoriale

Nuovi orizzonti per i Biologi di Vincenzo D’Anna Presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi

N

on v’è dubbio alcuno sul

scolastica, la nutrizione, la genetica, l’ambiente,

fatto che i biologi siano tra

quest’ultimo limitato all’esecuzione di analisi di

i professionisti quelli con

acqua, terra, aria e derrate alimentari.

la più vasta possibilità di

Tale sciatteria, tale ristretta ottica - sia informa-

potersi inserire nei diversi

tiva che formativa - ha profondamente limitato l’inserimento dei biologi nei nu-

ambiti di esercizio della propria professione. L’albero delle opportunità, appositamente creato per informare i colleghi di quali e quante siano le strade da poter imboccare dopo essersi iscritti all’Albo professio-

L’albero delle opportunità mostra quali e quante siano le strade da poter imboccare dopo essersi iscritti all’Albo professionale

merosissimi contesti lavorativi e, quel che è peggio, ha consentito ad altre figure professionali di usurpare competenze specifiche, a volte uniche, che sono peculiari della nostra categoria.

nale, ha cancellato vecchi pregiudizi ed infor-

Partendo da questa semplice evidenza, il

mazioni errate. Gli stessi che per anni sono stati

Consiglio dell’Ordine ha imboccato, negli anni

dati per veritieri. Intere generazioni di biologi,

scorsi, la strada che ha portato l’ONB ad aprirsi

scarsamente informati e men che meno prepa-

il più possibile alla logica della comunicazione

rati, hanno convissuto con la grande menzogna

e dell’informazione verso gli iscritti, nonché a

che attribuiva alla categoria solo pochi sbocchi

gestire, direttamente e gratuitamente, la forma-

lavorativi: il laboratorio di analisi, la docenza

zione dei medesimi in tutti i vari ambiti di attiviGdB | Aprile 2022

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Editoriale

tà rilevati. Tuttavia, la Biologia, scienza giovane

la pescicoltura, la biologia marina, la nutrizione

e prolifica per le continue scoperte e l’apertura

detossificante, la biologia molecolare e le tecni-

di spazi di competenza professionale che le si

che di manipolazione crisp, la virologia e l’im-

prospettano di continuo, ci ha costantemente

munologia, il biologo di comunità negli enti lo-

costretti ad inseguire le novità e le possibilità

cali, il biologo inserito nella farmacia dei servizi

di garantire una nuova e adeguata preparazione

e nelle case di comunità, le tecniche Biotecno-

sul campo. Troverete, nel “libro bianco” che il

logiche nel campo bio- industriale, rappresen-

Consiglio dell’Ordine invierà a ciascun iscritto

tano solo uno spaccato delle tante innovazioni

per documentare le attività svolte nel corso del

professionali che si dipanano davanti ai Biologi in questo scorcio di terzo mil-

proprio mandato, l’indicazione cronologica di oltre duecento eventi scientifici e formativi, molti in presenza, molti via web (a causa delle restrizioni del Covid-19). E tuttavia, pur essendo per numero e varietà

Nel “libro bianco” che il Consiglio dell’Onb invierà a ciascun iscritto è documentata l’attività svolte nel corso del proprio mandato, dal 2017 al 2022

di argomenti un record, tale

lennio. Innanzi a tali problematiche occorre un’azione sincrona tra gli Ordini regionali dei biologi, che dovranno avviarsi alla piena autonomia dei compiti loro delegati dalla legge, e la Federazio-

numero di eventi non basta ancora. La genomi-

ne Nazionale degli Ordini medesimi. Quest’ulti-

ca e la medicina personalizzata, la procreazione

ma avrà la necessità di assistere i primi passi degli

medicalmente assistita (Pma), l’embriologia,

enti territoriali e al contempo organizzare eventi

la tossicologia ambientale da nano particelle e

di livello scientifico e professionalizzanti per i col-

l’epigenetica, la virologia, l’economia circolare

leghi. Non soltanto aumentando i provvedimenti

e l’inquinamento ambientale, le filiere di tra-

legislativi in favore della categoria nel suo com-

sformazione agro alimentari e il controllo della

plesso normativo, ma anche per quanto concerne

sicurezza alimentare, le coltivazioni biologiche,

il corretto svolgimento delle attività medesime.

la tutela delle zone umide, dei parchi e delle fo-

Ne conseguirà che la Federazione avrà bisogno

reste e della flora e fauna, i contratti di fiume,

di strumenti nuovi oltre che incisivi per elevare

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GdB | Aprile 2022


Editoriale

la figura e l’importanza del biologo nella società

pari passo con l’autonomia regionale e la valo-

italiana. A tal proposito dopo il varo della Società

rizzazione dei territori e delle diverse opportu-

Scientifica (SIBA) ed il lancio del Coordinamen-

nità che ciascuna regione può gestire. Tuttavia,

to Nazionale dei Biologi Ambientali (CNBA), il

non bastano gli strumenti e non sarà sufficiente

Consiglio dell’Ordine ha voluto rilevare, dalla

la migliore organizzazione senza uno spirito di

vecchia gestione che l’aveva posta in liquidazio-

corpo, un amalgama che recuperi le mille diver-

ne, la Fondazione Italiana Biologi, per utilizzare

sificazioni associative sorte negli anni passati e

anche questo strumento autonomo come volano

nelle quali è mancata un’adeguata interlocuzio-

di qualità.

ne tra la base e la dirigenza, tra i vari campi di specialità professionali che si

Accorpare in questo ente altre fondazioni, Ministeri, realtà scientifiche e partnership autorevoli, potrebbe, infatti, rivelarsi un’occasione unica per organizzare una formazione di qualità, per seguire e portare

Dopo il varo della SIBA e il lancio del CNBA, il Consiglio ha voluto rilevare la Fondazione Italiana Biologi, per utilizzarla come volano di qualità

a finanziamento progetti di ri-

sono isolati e auto alimentati nella vana speranza di poter gestire i problemi settorialmente perdendo di vista la più vasta dimensione di un una nuova categoria di professionisti. Se la scienza biologica è gio-

cerca e start up con protagonisti, manco a dirlo,

vane e ci arricchisce di possibilità professionali,

i biologi, per tessere una tela di rapporti di alto

come una forza innovativa che ci pone sempre

profilo con tutte le realtà che possano dare una

innanzi a nuove prospettive e a nuovi traguar-

mano alla diffusione della figura del biologo nel

di, la categoria nella sua interezza deve operare

campo scientifico, accademico e dell’imprendi-

in modo centripeto, diametralmente opposto al

toria. Insomma, un salto di qualità che tiri de-

disordine che le novità portano con loro. Non

finitivamente fuori la nostra categoria dall’an-

esistono riscontri né prosperità senza unità di in-

gustia di ambiti ristretti e limitati di visibilità e

tenti e senza quel pizzico di collaborazione che

di importanza nel contesto delle scienze della

faccia fare a tutti un passo avanti verso le nuove

vita. Tante belle opportunità che andranno di

frontiere e le opportunità che ci attendono. GdB | Aprile 2022

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Primo piano

COVID, LA CURVA SI ABBASSA MA I CONTAGI SONO ELEVATI Partita la quarta dose per gli over 80 e i soggetti fragili. Stabile l’occupazione dei posti letto, ma reinfezioni in aumento. Si va verso il superamento del green pass di Rino Dazzo

N

el terzo anno di pandemia lo scenario non sembra essere cambiato: dopo i picchi invernali, in primavera i numeri relativi a contagi e decessi sono destinati progressivamente ad abbassarsi, anche se per il momento rimangono piuttosto alti. La differenza rispetto alla primavera del 2020 e anche a quella del 2021 è che in Italia oggi il Covid è una malattia gestibile grazie all’elevata copertura vaccinale della popolazione, tra le più alte al mondo. Oltre il 91% degli over 12 ha ricevuto infatti almeno una dose, il 90% ha completato il ciclo vaccinale a due dosi, mentre l’84% della platea ha fatto la dose addizionale. È partita, inoltre, la somministrazione della quarta dose per over 80 e soggetti fragili. È grazie a queste importanti misure messe in campo che i dati relativi ai contagi, in leggera flessione rispetto a inizio aprile ma pur sempre significativi (circa 60mila casi di media al giorno nell’ultima settimana del mese) non hanno impattato pesantemente sui ricoveri in terapia intensiva e nei reparti ordinari. Stabile anche la curva relativa ai morti, oscillante tra i 135 e i 145 casi di media al giorno: un anno fa la forbice era tra 430 e 300 de-

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GdB | Aprile 2022

cessi quotidiani. Scrive il Ministero della Salute nel suo ultimo monitoraggio settimanale: «La situazione epidemica è stabile, con la trasmissibilità in diminuzione e una lieve riduzione dell’incidenza. Si osserva una sostanziale stabilizzazione del tasso di occupazione dei posti letto sia in area medica che in terapia intensiva». Oltre a raccomandare di continuare a rispettare uso della mascherina, distanziamento, igienizzazione delle mani e a evitare assembramenti, dal dicastero si sottolinea come «l’elevata copertura vaccinale in tutte le fasce di età, anche quella 5-11 anni, il completamento dei cicli di vaccinazione e il mantenimento di una elevata risposta immunitaria attraverso la dose di richiamo, con particolare riguardo alle categorie indicate dalle disposizioni ministeriali, rappresentano strumenti necessari a mitigare l’impatto soprattutto clinico dell’epidemia». Un fenomeno in significativa ascesa nelle ultime settimane, segnalato dallo stesso Istituto Superiore della Sanità nel suo ultimo report esteso sull’emergenza Covid nel paese, è quello delle reinfezioni: sono in aumento. In base a quanto osservato, il rischio è più alto nei soggetti con prima diagnosi da oltre 210 giorni, nei non vaccinati o nei vaccinati da oltre 120


Primo piano

giorni, nelle femmine, nei giovani e tra gli operatori sanitari. La colpa? Di Omicron e della sua maggiore contagiosità. Il trend relativo alle reinfezioni, infatti, è in lenta ma costante crescita da dicembre, da quando cioè la variante isolata per la prima volta in Sudafrica ha fatto capolino nello Stivale. E Omicron BA.2 è diventata ormai di fatto l’unica variante del virus in circolazione nel territorio italiano, con percentuali superiori al 99%. A livello mondiale, secondo l’ultimo bollettino dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la cosiddetta “Omicron 2” è ormai responsabile di più del 90% delle infezioni Covid. Ma il virus fa in fretta ad aggiornarsi e a mutare, tanto che – anche in Italia – si seguono con attenzione le evoluzioni di Xe, la variante frutto di una ricombinazione dei due principali sottotipi di Omicron, BA.1 e BA.2. Secondo gli esperti dell’Oms, Xe è circa il 10% più contagiosa rispetto a Omicron 2, mentre non ci sono evidenze che facciano sospettare una sua maggiore pericolosità. Del resto, come nel caso delle precedenti versioni, la copertura dei vaccini, anche se somministrati diversi mesi prima, rappresenta una base capace di proteggere in modo efficace, attenuando gli effetti più pericolosi del virus. Proprio sui vaccini è in corso il dibattito sull’opportunità di estendere, nel giro di qualche mese, la quarta dose ad altre categorie e fasce d’età. Per il direttore generale dell’Agenzia Italiana del Farmaco, Nicola Magrini, è probabile una raccomandazione piuttosto che un obbligo vero e proprio. In un’intervista a La Stampa, il numero uno dell’Aifa si è

A livello mondiale, secondo l’ultimo bollettino dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la cosiddetta “Omicron 2” è ormai responsabile di più del 90% delle infezioni Covid. Ma il virus fa in fretta ad aggiornarsi e a mutare, tanto che – anche in Italia – si seguono con attenzione le evoluzioni di Xe, la variante frutto di una ricombinazione dei due principali sottotipi di Omicron, BA.1 e BA.2.

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soffermato sulle risposte tiepide di over 80 e soggetti fragili alla dose di richiamo: «Dopo due anni un po’ di stanchezza è comprensibile e comunque il secondo booster è una misura precauzionale, che abbiamo deciso di raccomandare per alcune categorie a rischio, ma il ciclo vaccinale con tre dosi offre già una buona protezione contro le forme gravi della malattia. Richiamo autunnale? Credo si arriverà a definire una soglia d’età oltre la quale raccomandare la vaccinazione annuale contro il Covid. Potrà essere quella degli over 60 o degli over 50». Intanto, secondo la roadmap tracciata a marzo dal governo per il progressivo ritorno alla normalità, dal primo maggio è previsto un ulteriore step. Il Green Pass, nella sua forma rafforzata o anche in quella base, non sarà più richiesto per andare al ristorante, a teatro o nei cinema, per frequentare piscine e palestre o per partecipare a concorsi, feste, cerimonie, congressi e convegni. L’unica eccezione riguarderà l’accesso da visitatori a strutture ospedaliere e RSA, per il quale la certificazione verde continuerà a essere richiesta almeno fino a dicembre. Per il sottosegretario alla Salute Andrea Costa si tratta di un passo molto significativo: «Il Green Pass non verrà più richiesto per nessun tipo di attività, e noi confidiamo e auspichiamo che non ce ne sia più bisogno. Non sparirà: semplicemente non verrà più richiesto e utilizzato, così come peraltro accaduto con la struttura commissariale». Quanto alle mascherine, diminuiscono le restrizioni, come previsto dall’utlimo decreto del Governo. GdB | Aprile 2022

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Intervista

COMPLETATA LA MAPPATURA DEL GENOMA UMANO. AL GIORNALE DEI BIOLOGI, LE PAROLE DI UNO DEI PROTAGONISTI DELLA RICERCA Svelati gli ultimi segreti del DNA. Il commento di Justin Zook (National Institute of Standards and Technology) sugli orizzonti futuri della diagnostica e della medicina realmente “su misura”

di Chiara Di Martino

M

ancava ancora un pezzetto, piccolo ma fondamentale per svelare ogni segreto del Dna umano. Questo momento è arrivato, a 21 anni dalla prima mappatura del genoma rimasta però incompleta per circa il 7%. Fino a oggi. Oggi, sei articoli pubblicati in un numero speciale della rivista Science – più la copertina – raccontano questa straordinaria scoperta dietro la quale si cela il lavoro senza sosta di un gruppo interno al Consorzio internazionale Telomere-to-Telomere (T2T) guidato dal Nist - National Institute of Standards and Technology, dalla Johns Hopkins University e dalla University of California Davis. Un alfabeto lungo e complesso, composto da oltre 3 miliardi di lettere: ora ogni velo sul nostro codice genetico è caduto. E questo vuol dire che la ricerca sulle malattie genetiche potrà spingersi molto più in là, che in futuro i pazienti potrebbero trarre vantaggio da diagnosi più affidabili – anche di malattie finora difficili da intercettare - e che è più vicina una medicina realmente

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GdB | Aprile 2022

personalizzata. A dare man forte all’impegno degli scienziati, i progressi tecnologici e scientifici compiuti nel campo della genomica negli ultimi due decenni. La prima mappatura del genoma era stata fatta nel 2001, ma i computer di allora non erano riusciti a decifrare tutti i passaggi e avevano lasciato degli spazi inesplorati e ora “illuminati” da nuovi metodi di sequenziamento del Dna e di analisi computazionale. Spazi riempiti, peraltro, senza più errori, perché i ricercatori hanno utilizzato qualcosa di simile a un correttore automatico, un software chiamato Merfin che analizza le sequenze e corregge le eventuali imprecisioni. Nello studio, sono state infatti eliminate decine di migliaia di imperfezioni in sequenze, come variazioni posizionate in modo errato. Quella bozza che aveva iniziato a prendere forma più di 20 anni fa è oggi una “versione definitiva”. Sotto la lente di ingrandimento dei ricercatori, una sola persona ampiamente caratterizzata dal Genome in a Bottle Consortium guidato dal Nist. Di questo individuo - che aveva acconsentito a rendere pubbli-


Intervista

Chi è

È

uno dei leader del lavoro del Genome in a Bottle Consortium, che sviluppa genomi umani caratterizzati in modo autorevole per confrontare i metodi di sequenziamento: Justin Zook ha approfondito metodi per confrontare e integrare i dati di sequenziamento del DNA dell’intero genoma da più piattaforme e sequenze. Ora guida il lavoro del GIAB Analysis Team e ha co-diretto il team delle varianti nel Consortium Telomere-to-Telomere, al quale dobbiamo la mappatura completa del genoma umano. Justin Zook.

co il proprio codice genetico - hanno eseguito un’analisi rigorosa del genoma utilizzando una serie di potenti tecnologie di sequenziamento. Con i loro sforzi hanno ottenuto un benchmark genomico - una lettura digitale altamente accurata del DNA nei geni di interesse - che può fungere da chiave di risposta durante la valutazione dei metodi di sequenziamento. Il genoma appena completato è stato ribattezzato “T2TCHM13”, una evoluzione piuttosto rivoluzionaria rispetto all’attuale genoma di riferimento chiamato GRCh38. Una pietra miliare nel campo della genomica, che uno degli autori ci ha spiegato con semplicità. Lo abbiamo raggiunto in procinto di prendersi una (meritata) vacanza, ma è riuscito comunque a dedicarci del tempo e a dirci di più su questa straordinaria scoperta. Il ricercatore in questione è Justin Zook, ingegnere biomedico del Nist, che ha rilasciato un’intervista al Giornale dei Biologi, La ricerca ha attratto a sé l’attenzione dell’intero mondo scientifico e non solo. Quale aspetto riveste tanta importanza? Questo studio ha aggiunto il 7% del genoma umano che mancava dalla mappatura precedente, equivalente alla dimensione di molti cromosomi. Ha anche corretto gli errori nelle informazioni precedentemente possedute, circostanza che migliora l’accuratezza dell’analisi di qualsiasi genoma, compresi i geni noti e rilevanti dal punto di vista medico. Tutto questo indipendentemente dalle origini di un individuo, che sia africano, caucasico o asiatico: il risultato non cambia. Per dirla in parole più semplici: se il sequenziamento del DNA è

La copertina di Science del 1° aprile 2022 dedicata alle ultime ricerche sul genoma. “La prima mappatura del genoma era stata fatta nel 2001, ma i computer di allora non erano riusciti a decifrare tutti i passaggi e avevano lasciato degli spazi inesplorati e ora ‘illuminati’ da nuovi metodi di sequenziamento del Dna e di analisi computazionale”.

come mettere insieme un puzzle, il genoma di riferimento è come l’immagine del puzzle sulla scatola. Ti aiuta a mettere insieme i pezzi. E adesso? Come proseguirà il lavoro? La linea cellulare sequenziata per l’attuale studio mancava anche del cromosoma Y, quindi il team ha selezionato un genoma altamente caratterizzato dal Genome in a Bottle Consortium del NIST e dal Personal Genome Project per rifinirlo. Sebbene non restino lacune nella nuova mappatura, altri individui hanno sequenze mancanti, quindi lo Human Pangenome Reference Consortium e altri stanno studiando individui di origini diverse per acquisire le sequenze più diverse e rappresentare in maniera più affidabile la varietà umana. Quali sono, eventualmente, le implicazioni future di queste nuove conoscenze per la medicina e la scienza? Le tecnologie di sequenziamento e i metodi di analisi utilizzati in questo lavoro consentiranno la comprensione di complesse regioni del genoma che prima erano inaccessibili e potrebbero consentire nuove scoperte sulle cause delle malattie. Cosa ci dice del Consorzio Telomere-to-Telomere? Karen Miga, Assistant Professor nel Dipartimento di Ingegneria biomolecolare dell’Università della California, e Adam Phillippy, Senior Investigator del Computational and Statistical Genomics Branch del National Human Genome Research Institute, hanno riunito un gruppo sorprendentemente collaborativo di ricercatori provenienti da tutto il mondo, lavorando insieme anche durante la pandemia. GdB | Aprile 2022

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Intervista

DAI CAMALEONTI L’INDIZIO PER I BIOSENSORI CHE RILEVANO IL GLUCOSIO Parte dallo studio della struttura della pelle del rettile la ricerca alla base di un dispositivo capace di analizzare le urine. Intervista ai ricercatori Petronella e De Sio

di Elisabetta Gramolini

S

imbolo del cambiamento e della simbiosi con l’ambiente, il camaleonte è da sempre un animale capace di incuriosire. Ora è anche fonte di ispirazione per gli scienziati che hanno tratto spunto dalla particolare organizzazione della pelle del rettile per ideare un biosensore in grado di misurare parametri importanti per la salute umana. Il lavoro, pubblicato sulla rivista NPG Asia Materials - Nature, è stato condotto da un team multidisciplinare che vede impegnati il dipartimento di Scienze e Biotecnologie Medico-Chirurgiche di Latina dell’Università Sapienza di Roma, diretto dalla professoressa Antonella Calogero, co-autrice dello studio, la sede di Montelibretti dell’istituto di cristallografia, Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ic), in collaborazione con i ricercatori dell’Institute of fundamental technological research polish academy of sciences (IpptPan) di Varsavia e della Donghua University di Shangai. Gli autori sono riusciti a sviluppare un dispositivo per la misurazione delle concentrazioni di glucosio nelle urine. Proprio la struttura del biosensore, frutto della combinazione di polimeri multistrato che racchiudono un idrogel in cui sono inglobate nanoparticelle di argento, è stata ispirata dalla naturale orga-

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nizzazione nanostrutturata che si trova nella pelle del camaleonte. La prima applicazione del sensore nel controllo della glicemia, testata e riportata nello studio, ha dimostrato una elevata sensibilità. Si tratta di un ottimo risultato che permette di immaginare ulteriori sviluppi anche in altri campi, come ad esempio la ricerca di marcatori e anticorpi. Due degli autori del lavoro, una chimica e un fisico, spiegano in queste interviste, lo studio e gli scenari futuri. Intervista al chimico a Francesca Petronella, ricercatrice dell’Istituto di cristallografia del Consiglio nazionale delle ricerche (sede di Montelibretti). Dottoressa, in che modo la pelle del camaleonte ha ispirato il vostro studio? Come tutti sanno la pelle del camaleonte cambia colore a seconda degli stimoli esterni. Abbiamo studiato la struttura della pelle dell’animale in letteratura e da qui tratto l’ispirazione per la progettazione del sensore. I nanocristalli presenti nelle cellule della pelle dell’animale ogni volta che cambiano la loro organizzazione consentono di mutare il colore. La struttura delle cellule del rettile ha quindi suggerito quella del sensore che è infatti composto da una materia soffice, l’idrogel, e una rigida, vale a dire i nanocristalli di argento.


Intervista

Francesca Petronella.

“In futuro le nanoparticelle potrebbero essere applicate nella fabbricazione di cerotti per consentire, ad esempio, l’esame della curva da carico orale di glucosio in maniera più semplice”.

Luciano De Sio.

© Photoroyalty/shutterstock.com

Perché avete scelto questo particolare metallo? I nanomateriali nobili maggiormente studiati sono tipicamente nanoparticelle di oro e di argento. Quello che si è mostrato negli ultimi anni però è la sensibilità maggiore delle nanoparticelle di argento alle alterazioni della composizione chimica del mezzo che le ingloba. L’argento possiede molteplici proprietà: è antibatterico ed è dotato di risonanza plasmonica localizzata che apre a delle opportunità, fra cui le proprietà termoplasmoniche. Come funziona il biosensore? Quando il biosensore entra in contatto con una soluzione contenente glucosio, le nanoparticelle rispondono al cambiamento della composizione chimica dell’ambiente in cui sono inglobate, cambiando la loro risposta ottica. Si verifica un piccolo cambiamento di colore, poco percettibile all’occhio umano, ma che può essere rilevato da strumenti molto semplici e collegato alla quantità di glucosio nel liquido analizzato. A questo processo partecipano anche le molecole di idrogel attraverso un complesso meccanismo che riguarda le proprietà chimico fisiche dell’idrogel. Inoltre, questo biosensore è stato progettato per essere riutilizzabile. Una volta illuminati i nanocristalli con una radiazione luminosa con opportuna lunghezza d’onda, i nanocristalli generano calore. Di conseguenza, se si illumina il sensore con una lunghezza d’onda specifica, grazie alla combinazione delle proprietà collettive del polimero e dei nanocristalli, il sistema è in grado di espellere il liquido che si sta analizzando. Questo consente di rigenerare e riutilizzare il biosensore. In questo modo abbiamo cercato di costruire un sistema sostenibile dal punto di vista ambientale. Intervista al fisico Luciano De Sio, ricercatore del dipartimento di Scienze e biotecnologie medico-chirurgiche dell’Università Sapienza e coordinatore dello studio insieme a Filippo Pierini dell’IPPT-PAN. Dottore, il biosensore che avete realizzato quali risultati di precisione ha raggiunto? Lo studio ha dimostrato che il biosensore è in grado di monitorare concentrazioni di glucosio molto basse con un limite di rivelabilità più basso rispetto ai dispositivi attualmente disponibili. Abbiamo scelto come molecola campione il glucosio non solo perché di facile utilizzo in laboratorio, ma anche considerando

che il monitoraggio di questa molecola riguarda un problema sanitario e sociale collettivo. Le proprietà di una singola nanoparticella di argento in termini di rivelabilità sono molto precise. Addirittura, si può pensare di rilevare una singola molecola. Abbiamo posto le nanoparticelle su una piattaforma, costituita da un materiale spugnoso come l’idrogel, in cui tutte le facce della nanoparticella possono lavorare contemporaneamente. Ciò permette una maggiore sensibilità. Quali altre applicazioni avete immaginato nel settore della salute? In futuro le nanoparticelle potrebbero essere applicate nella fabbricazione di cerotti per consentire, ad esempio, l’esame della curva da carico orale di glucosio in maniera più semplice. Le misure finali del nostro lavoro sono state effettuate in un regime operazionale, cioè andando a testare il sensore su campioni biologici, come i campioni di urina umana. Quali potrebbero essere gli ulteriori sviluppi della ricerca? I prossimi passi saranno quelli di sfruttare l’enorme versatilità del dispositivo aggiungendo opportune funzionalizzazioni biochimiche che permettano l’utilizzo del biosensore in altri campi di applicazione, quali il monitoraggio di marker tumorali o il riconoscimento specifico di anticorpi come, ad esempio, quelli sviluppati a seguito di infezione da SARS-CoV-2. Inoltre, sarà possibile realizzare biosensori indossabili per il monitoraggio multiplo di analisi di interesse medico, anche in condizioni di microgravità. GdB | Aprile 2022

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Salute

SCOPERTE NEI POLMONI CELLULE CON PROPRIETÀ RIGENERATIVE DEGLI ALVEOLI La ricerca, pubblicata su Nature, è stata realizzata da scienziati dalla Perelman School of Medicine dell’Università americana della Pennsylvania

S

i nascondono così in profondità nei bronchi che ancora nessuno le aveva notate, ma sembra possano avere un ruolo chiave nella cura di alcune malattie polmonari. Si tratta di un nuovo tipo di cellule dotate di capacità rigenerative e riparative degli alveoli polmonari, scoperte dai ricercatori della Perelman School of Medicine dell’Università americana della Pennsylvania. Gli autori dello studio, che riportano i loro risultati sulla rivista Nature, hanno identificato le nuove cellule chiamate RASC (Respiratory Airway Secretory Cells) sulle pareti dei bronchioli, le sottili ramificazioni dei bronchi che portano agli alveoli, la sede degli scambi gassosi tra ossigeno e anidride carbonica. In prima battuta i ricercatori hanno scoperto la presenza delle RASC esaminando i geni all’interno delle singole cellule del tessuto polmonare campionato da donatori umani sani e le hanno classificate come cellule “secretorie” in quanto secernono proteine necessarie per mantenere il rivestimento fluido delle vie aeree. Questo liquido contribuisce a prevenire il collasso delle minuscole vie aeree e massimizza l’efficienza dei polmoni. In seguito, però, il team è giunto a una seconda scoperta: gli scienziati hanno dimostrato che le RASC non sono molto diverse dalle cellule staminali poiché al bisogno possono differenziarsi in cellule alveolari di tipo AT2, essenziali per il normale funzionamento degli alveoli.

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«Le cellule RASC possono generare cellule AT2 che hanno il compito fondamentale di riparare gli alveoli», ha affermato Edward Morrisey, professore di biologia cellulare e dello sviluppo, e direttore del Penn-CHOP Lung Biology Institute. «Il processo mediante il quale le cellule RASC diventano cellule AT2 - prosegue Morrisey - non è ancora ben compreso, ma abbiamo identificato percorsi che portano allo sviluppo o alla formazione di cellule AT2». I ricercatori hanno quindi dimostrato che le RASC, assenti nei polmoni dei topi, hanno una duplice funzione: oltre all’attività secretoria sono simili alle cellule staminali e permettono di rigenerare le cellule AT2 e mantenere gli alveoli sani. Secondo i ricercatori, in futuro queste “nuove” cellule potrebbero essere utilizzate per trattare e magari anche guarire malattie che colpiscono i polmoni e i bronchi, come la Broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) che causa difficoltà respiratorie e per la quale non esiste ancora una cura. Dallo studio, infatti, sono emerse prove che il fumo di sigaretta e la BPCO (comune disturbo legato al fumo che riduce la funzionalità polmonare) possono interrompere le funzioni rigenerative delle RASC, suggerendo che intervenire per riattivare le loro proprietà riparative potrebbe essere un metodo efficace per trattare la BPCO. «La BPCO è una malattia molto comune per la quale non esiste ancora una cura - ha detto il primo autore dello studio Maria Basil,


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medico di medicina polmonare - e non sappiamo ancora perché e come alcuni pazienti la sviluppano. Identificare nuovi tipi di cellule, in particolare nuove cellule progenitrici che sono danneggiate nella BPCO, potrebbe davvero accelerare lo sviluppo di nuovi trattamenti». La BPCO è tipicamente caratterizzata da infiammazione cronica, danni progressivi e distruzione degli alveoli. Si stima che sia la causa di circa tre milioni di morti ogni anno in tutto il mondo. Ai pazienti sono spesso prescritti farmaci antinfiammatori steroidei e/o ossigenoterapia, ma questi trattamenti possono solo rallentare il processo della malattia senza riuscire ad arrestarlo o invertirlo. Le cellule AT2 sono note per diventare anomale nella BPCO e in altre malattie polmonari, e i ricercatori hanno trovato prove che le alterazioni presenti nelle RASC potrebbero essere una causa a monte di tali anomalie. Nel tessuto polmonare di persone con la BPCO, così come in quello di chi ha un passato da fumatore, gli scienziati hanno osservato molte cellule AT2 alterate in un modo da suggerire che si fosse verificato un errore nel passaggio da cellule RASC a AT2. Secondo Morrisey sono necessarie nuove ricerche ma i risultati dello studio indicano che la BPCO potrebbe essere curata in futuro ripristinando il normale processo di differenziazione da cellule RASC a AT2 o anche rinnovando la normale popolazione di cellule RASC nei polmoni danneggiati.

La BPCO è tipicamente caratterizzata da infiammazione cronica, danni progressivi e distruzione degli alveoli. Si stima che sia la causa di circa tre milioni di morti ogni anno in tutto il mondo. “Studi come questo ci permettono di iniziare a capire ciò che sta realmente accadendo nella biologia cellulare di questa malattia molto diffusa.

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Nella malattia polmonare ostruttiva cronica, le cellule RASC presentano un’alterata regolazione trascrizionale simile a quella delle cellule alveolari anomale di tipo 2 associate all’esposizione al fumo. Queste cellule progenitrici hanno un ruolo critico di protezione degli alveoli che risultano danneggiati nella malattia polmonare cronica. «Studi come questo – sostiene Morrisey ci permettono di iniziare a capire ciò che sta realmente accadendo nella biologia cellulare di questa malattia molto diffusa. Non sappiamo davvero se questa scoperta possa portare a una potenziale cura per la BPCO. Tuttavia, poiché la BBPCO è una malattia di cui sappiamo molto poco, qualsiasi nuova intuizione aiuterà a iniziare a pensare a nuovi approcci terapeutici che potrebbero portare a migliori trattamenti». (S. B.)

Le cause della BPCO

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a maggioranza dei casi di BPCO (Broncopneumopatia cronica ostruttiva) è dovuta al tabagismo: il fumo di sigaretta, ma anche quello di pipa, sigaro e altri tipi di tabacco, svolge un’azione irritativa costante sui bronchi, determinando un’infiammazione cronica dei bronchi. Le altre cause sono: l’inquinamento e l’esposizione a sostanze tossiche di origine industriale.

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MIOPIA, UNA DELLE SOLUZIONI POSSIBILI A causa dell’uso costante dei dispositivi elettronici, in futuro si stima che il difetto visivo possa essere ancora più diffuso. Una strada è la chirurgia e l’inserimento delle lenti intra-oculari

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no dei fattori di rischio spesso e volentieri lo teniamo in mano e di fronte agli occhi per molte ore. Lo smartphone o lo schermo del nostro pc retroilluminato sono infatti fra le principali cause della progressione della miopia, il difetto visivo più comune al mondo. Solo in Italia si contano oggi circa 15 milioni di persone, fra quelle affette da una forma lieve e quelle con una grave. Quanto maggiore è il difetto, misurato nel numero di diottrie, tanto minore è la distanza alla quale si riesce a vedere bene. L’uso dei dispositivi elettronici, specie se in un ambiente poco illuminante e largamente diffuso anche nelle più giovani generazioni fa immaginare un aumento del disturbo nei prossimi anni. Ma oltre agli schermi, i principali fattori responsabili sono in primo luogo la familiarità genetica e la fisiologia dell’occhio. La miopia infatti può essere causata da un bulbo oculare più lungo del normale, da una curvatura della cornea o del cristallino maggiore e da un eccessivo potere refrattivo del cristallino. Specie nei casi di miopia grave, il bulbo oculare tende ad allungarsi negli anni provocando alterazioni alle strutture oculari. «Come conseguenza, il rischio è quello di sviluppare altre patologie oculari quali per esempio il glaucoma o la maculopatia», spiega Lucio Buratto, oculista e direttore scientifico del Centro ambrosiano oftalmico di Milano (Camo), specializzato in chirurgia e correzione dei difetti visivi. Per chi è affetto dalla miopia, magari fin da bambino, è naturale sporgersi in avanti per mettere a fuoco e rendere meno sfocate le im-

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magini. Le difficoltà visive sono particolarmente importanti e rendono necessario l’uso quotidiano di lenti. In Italia oltre 100mila persone ogni anno scelgono la chirurgia per correggere il difetto e la maggior parte riesce a dire addio agli occhiali. «Certamente la miopia si può correggere nella grandissima parte dei casi. Tutti conoscono la tecnologia laser, ma non c’è solo questa tecnica per correggere questi difetti», afferma l’oculista. Ci sono altre tecnologie oggi ampiamente disponibili per la correzione della miopia d’ogni grado, quali ad esempio le lenti intra-oculari. Lenti simili alle lenti a contatto che inserite all’interno dell’occhio correggono difetti molto forti. Si chiamano Intraocular collamer lenses (ICL) ed oggi, ormai, l’operazione ha raggiunto dei livelli di precisione molto alti». L’impianto di lenti intra oculari corrisponde ad una tecnica medico chirurgica standardizzata, la cui efficacia e sicurezza è dimostrata da centinaia di studi clinici nel mondo è stata già eseguita su oltre un milione di persone in tutto il mondo. «I benefici della lente intra-oculare risiedono nel fatto che questa è in grado di correggere sia miopie leggere sia miopie forti, con astigmatismo o senza astigmatismo. Fornisce ottima qualità di vista ed è veramente una soluzione molto buona – prosegue Buratto - Anche perché riduce il rischio di sindrome da “occhio secco” che invece può essere presente nella chirurgia laser. E la lente resta inalterata nel tempo. Non c’è regressione». Le lenti intra-oculari utilizzano un gel, un ma-


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Nei piccoli

“Certamente la miopia si può correggere nella grandissima parte dei casi. Tutti conoscono la tecnologia laser, ma non c’è solo questa tecnica per correggere questi difetti”.

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olti bambini, fin da piccolissimi, hanno l’abitudine di avvicinarsi molto allo schermo della televisione. Non è un segnale dall’allarme di possibile miopia, secondo gli esperti, se allo stesso tempo il bimbo vede bene un oggetto lontano. Gli oculisti pediatrici consigliano però un controllo entro i 6 anni, quindi prima dell’inizio della primaria, a meno che non ci siano altri segnali evidenti o familiarità genetica con difetti visivi.

loro fastidio come se si trattasse di un corpo estraneo. In verità «il paziente non lo sente, nella maniera più assoluta. Sono ancora poco conosciute perché si sente parlare più di tecnologie laser, ma le lenti intra oculari sono competitive rispetto al laser grazie ai loro risultati medici, in termini di permanenza e benessere del paziente molto buoni». (E. G.)

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teriale altamente biocompatibile proveniente dal collagene, che non provoca infiammazioni degli occhi. Tra l’altro la lente contribuisce a proteggere l’occhio del paziente attraverso un filtro UV e a prevenire lo sviluppo di patologie come la maculopatia. L’operazione dura pochi minuti, come per la chirurgia della cataratta. La vista migliora con il passare delle ore dall’intervento e nei giorni successivi è necessario applicare delle gocce come gocce. Le lenti non vanno cambiate una volta inserite ma prima di poterle impiantare, occorre sottoporsi a un check-up refrattivo, cioè un insieme di indagini non invasive che permette di valutare la candidabilità del paziente al trattamento fra cui l’esame del fondo dell’occhio e la tomografia ottica computerizzata (OCT), da parte dei medici oculisti. Malgrado i suoi benefici e vantaggi, e i venti anni di diffusione specie negli Stati Uniti, la tecnica è ancora relativamente poco conosciuta in Italia. Le persone a volte temono che l’introduzione delle lenti possa dare

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PERCEZIONE DEL DOLORE ATTRAVERSO IL “CLAUSTRO” È un’area profonda del cervello su cui si sono concentrati gli scienziati dell’Università di Oxford. All’orizzonte, trattamenti dei pazienti con danni cerebrali

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l dolore è definito come un’esperienza sensitiva percepita a livello del sistema nervoso centrale come un’emozione spiacevole. L’interazione di diverse aree del cervello che elaborano lo stimolo doloroso ne consente la presa di coscienza. Un nuovo studio che ha visto la collaborazione di tre diversi gruppi di ricerca dell’Università di Oxford, ha scoperto che il modo in cui sperimentiamo il dolore è legato a una regione posta in profondità nel cervello e poco conosciuta chiamata claustro. L’area, ancora non del tutto compresa, può diventare la prossima frontiera per migliorare i risultati nei trattamenti dei pazienti con danni cerebrali.

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Il claustro è considerato la struttura più interconnessa all’interno del telencefalo e permette di integrare molteplici stimoli corticali (come quelli visivi, acustici e tattili) in un’unica esperienza. Studiare questa struttura anatomica è estremamente complesso. Secondo la ricerca, pubblicata sulla rivista Brain, l’area potrebbe giocare un ruolo chiave su come il cervello elabora le informazioni che provengono dall’ambiente per generare la percezione e guidare le nostre decisioni. Per scoprire la funzione del claustro, il team dei ricercatori ha condotto una revisione sistematica degli studi presenti in letteratura riguardanti pazienti con danni in questa area. Le lesioni sono sta-

te associate a una specifica serie di sintomi, come i cambiamenti nelle abilità cognitive, percettive e motorie, nell’attività elettrica del cervello, nello stato mentale e nel ciclo sonno-veglia dei pazienti. I ricercatori hanno rilevato che gli studi sulle lesioni del claustro supportano l’ipotesi che esso regoli l’eccitabilità corticale che è essenziale per una corretta funzione cerebrale. Il claustro rappresenterebbe un nodo multifunzionale in numerose reti e questo potrebbe spiegare i molteplici effetti di un danno in questa regione sul cervello e sul comportamento. Il team di ricerca di Oxford ha anche dimostrato come il claustro potrebbe essere coinvolto nell’esperienza debilitante del dolore. In parecchi studi di pazienti con lesioni nel claustro, sono state riferite sensazioni dolorose variabili nella natura e nella gravità. La stimolazione dell’area ha anche indotto la percezione del dolore descritta come “un coltello che trafigge” o come “bruciore”. Il dottor Adam Packer, uno degli autori principali dello studio, ha affermato: “Capire come funziona il claustro è complicato perché si trova in profondità nel cervello e perché i danni ad esso sono un evento molto raro legato a una vasta gamma di sintomi. È chiaro però che quando il claustro è danneggiato, le conseguenze sono gravi, ed è quindi probabile che questa struttura abbia un ruolo rilevante in molti casi di danno cerebrale”. Secondo i ricercatori lo studio dà una visione più chiara dei processi cognitivi e neurologici in cui il claustro può essere coinvolto e fornisce nuovi obiettivi da perseguire con la ricerca di base in laboratorio. “Una possibilità – prosegue Packer - è quella di continuare l’indagine attraverso lo stesso approccio interspecifico che ha già coinvolto rettili, roditori, conigli, gatti, scimmie ed esseri umani”. “Questo metodo – termina il ricercatore - potrebbe aiutarci a ricostruire il ruolo del claustro e i suoi cambiamenti nel corso dell’evoluzione. Il fatto che questa struttura si sia conservata in differenti specie per centinaia di milioni di anni lascia intendere che essa svolga una funzione davvero importante”. (S. B.)


IL PRESENTE E FUTURO DEL BIOLOGO NELLA FILIERA DEL PRODOTTO COSMETICO 9 giugno 2022

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AFASIA, IN ITALIA NE SOFFRONO DUECENTOMILA PERSONE La condizione determina l’incapacità di esprimersi e di comprendere il linguaggio Un disturbo che ha portato l’attore Bruce Willis al ritiro dalle scene

di Domenico Esposito

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fasia: questo il nome del disturbo che ha spezzato la carriera di un grande del cinema di Hollywood come Bruce Willis. Si tratta di una condizione in cui il paziente può perdere sia la capacità di esprimersi sia di comprendere il linguaggio, parlato o scritto. L’afasia può insorgere in maniera improvvisa dopo un ictus o un trauma cranico, ma può anche svilupparsi più lentamente, con l’avanzare di una malattia neurodegenerativa o come effetto di un tumore al cervello. A rendere ancora più impenetrabile questa gabbia comunicativa il fatto che la persona non è neanche in grado di leggere, di scrivere e di fare calcoli. Secondo le stime, a soffrire di afasia in Italia sono attualmente duecentomila persone, con un’incidenza annua di due nuovi casi per 1.000 abitanti ogni anno. Quando a causare il disturbo sono eventi come ictus e trauma cranico, l’afasia si manifesta in maniera improvvisa, con l’incapacità di capire e parlare. Quando invece le cause sono diverse, ad esempio tumori cerebrali, gli esordi sono subacuti. Esistono poi episodi progressivi, in presenza di malattie neurodegenerative, che impattano anche sulla sfera del linguaggio. A seconda dell’area cerebrale interessata dal danno, della qualità/frequenza dell’eloquio, e dei sintomi che ne derivano, gli esperti individuano diversi tipi di afasia. La distinzione più comune è quella che muove a parti-

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re dalla fluenza dell’eloquio. Gli afasici fluenti, alle prese con un disturbo causato da lesioni parietali temporali dell’emisfero sinistro, presentano un eloquio relativamente produttivo, riescono a generare una ventina di parole al minuto con frasi formate

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da cinque-sei elementi; prosodia e intonazione risultano perlopiù normali, con i pazienti che di norma non appaiono rendersi conto dei propri deficit. Quanto al linguaggio, esso si caratterizza per la presenza allo stesso tempo di parole appropriate e di altre sconnesse. Le frasi pronunciate sono spesso lunghe, non regolate dalla sintassi e contraddistinte dall’uso frequente di perifrasi. Nei casi più gravi, l’afasico fluente riesce a produrre solo parole senza senso: ne deriva un linguaggio del tutto vuoto. Fra le forme di afasia fluenti la più famosa è quella di Wernicke o Recettiva, dove ad essere compromessa è soprattutto la comprensione del linguaggio. Il paziente, che non riesce a capire parole e frasi, in questo caso non è consapevole del suo disturbo. Per comunicare ricorre così all’elaborazione di un particolare codice linguistico, artificioso e ricco di neologismi, che in alcuni casi si rivelano incomprensibili per i suoi interlocutori. Gli afasici non-fluenti presentano invece una scarsa produzione verbale spontanea; essi riescono a produrre solo

parole isolate o frasi molto brevi formate da non più di due o tre elementi. In alcuni casi l’espressione si riduce ad una stereotipia o ad una formula verbale; prosodia ed intonazione della frase risultano pesantemente rallentate e anormali. I pazienti adoperano strutture sintattiche estremamente semplici: pochi verbi, a volte nemmeno coniugati, uno stile telegrafico, senza articoli, preposizioni e pronomi. Nel gruppo delle afasie non fluenti rientra l’afasia di Broca (o espressiva), in cui la comprensione è conservata, ma la capacità di parlare, leggere e scrivere compromessa. Il paziente si esprime in maniera telegrafica e spesso produce frasi prive di senso compiuto. In questa forma le persone affette dal disturbo mantengono intatte le capacità intellettive: sono cioè perfettamente consapevoli della loro condizione, e per questo non di rado si disperano. Le afasie non fluenti sono determinate da lesioni frontali dell’emisfero sinistro. Altra forma di afasia diffusa è quella Globale: è la più grave fra tutte. Ad essere intaccata è la produzione della parola, l’elaborazione e la comprensione della stessa. Oltre all’eloquio, dunque, anche la comprensione del linguaggio risulta pesantemente compromessa. Generalmente l’afasia globale è causata da una lesione grave dell’arteria cerebrale media. Esistono infine delle forme di afasia dette progressive, nelle quali il disturbo si sviluppa lentamente, e che rappresentano una delle prime manifestazioni della demenza. L’afasia è curabile solamente attraverso la riabilitazione logopedica. Apposite tecniche ed altri approcci sono finalizzati ad ottenere un miglioramento della capacità del paziente afasico di usare il linguaggio, oltre che una riduzione del danno provocato. Il trattamento riabilitativo può iniziare fin dalle prime settimane dopo l’evento traumatico dal quale è scaturita l’afasia; dopo alcune settimane, il medico è già in grado di stilare una valutazione approfondita dello stato del paziente, descrivendo nel dettaglio la tipologia di disturbo. In un momento successivo potrà cominciare anche l’intervento riabilitativo, mirato alla reimpostazione della pronuncia e alla produzione delle parole, oltre che alla comprensione e alla ripetizione delle stesse. La prognosi dell’afasia, cioè la possibilità di un recupero più o meno completo, varia a seconda della causa, della localizzazione del danno, della sua estensione, oltre che da fattori soggettivi quali età del paziente, grado di istruzione, motivazione e stato di salute generale. GdB | Aprile 2022

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lla base della p r o gressione del carcinoma ovarico più diffuso e aggressivo vi sarebbe una successione di mutazioni molecolari. A dirlo uno studio condotto da un team di ricercatori dell’Istituto Europeo di Oncologia (Ieo), in collaborazione con i colleghi della Fondazione IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo e dell’Istituto Mario Negri. Focus del lavoro, coordinato da Ugo Cavallaro, direttore dell’Unità di Ricerca in Ginecologia Oncologica dello Ieo, è stato il tumore dell’ovaio, e nello specifico il carcinoma ovarico sieroso di alto grado. Si tratta della forma della neoplasia più diffusa (70% di casi) e aggressiva. Un comunicato diramato dallo Ieo evidenzia come ad oggi le terapie disponibili per questo tipo di tumore abbiano dimostrato «un’efficacia purtroppo limitata per un motivo clinico e uno biologico: nell’80% circa dei casi il tumore è diagnosticato in fase avanzata, essendo all’esordio del tutto asintomatico, e l’alto livello di eterogeneità cellulare ha finora reso difficile caratterizzare i cambiamenti molecolari che ne promuovono la progressione». Per queste ragioni la ricerca a livello internazionale ha tentato di focalizzarsi sul sequenziamen-


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MORE OVARICO: IL PROCESSO COLARE DELLA PROGRESSIONE to del genoma sia del tumore primario che delle metastasi, allo scopo di metterli a confronto ed identificare in questo modo «le alterazioni molecolari che determinano la diffusione della malattia, causa della sua letalità». Finora, però, i risultati prodotti «sono stati solo parziali». Cavallaro spiega allora di aver pensato ad un «approccio innovativo», per individuare la traiettoria del cancro ovarico. Il coordinatore dello studio ha spiegato: «Dal tumore ovarico di una singola paziente abbiamo generato una serie di modelli sperimentali di tumore che ricapitolano ognuno un passaggio diverso della progressione della malattia. Abbiamo così ottenuto il profilo genomico (del DNA) e trascrittomico (del RNA) dei vari modelli, in modo da ricavarne delle firme molecolari, vale a dire degli insiemi di mutazioni o di geni specificamente associati ai diversi modelli. Utilizzando questa chiave abbiamo quindi interrogato i database mondiali che contengono i dati genetici di coorti numerose di pazienti con tumore ovarico. Confrontando i nostri modelli con i dati contenuti in tali database, abbiamo scoperto che le firme molecolari individuate hanno potere prognostico, ovvero danno indicazioni sul processo biologico di evoluzione della malattia. Non solo, ma sembrano avere anche capacità predittiva, ossia possono dare indicazioni sull’efficacia dei trattamenti. In altre parole, le firme molecolari ottenute tramite modelli sperimentali diversi ma derivanti da un unico tumore (e quindi un’unica paziente) hanno fornito informazioni cliniche estendibili anche ad

«In sintesi - ha concluso Cavallaro - abbiamo delineato un flusso di lavoro che, attraverso l’analisi del DNA e RNA, ha ottenuto modelli di alterazioni molecolari importanti per il trattamento del carcinoma ovarico, come esemplificato dalla mutazione PIK3R1 e dalla conseguente modificata regolazione di PI3K. Le alterazioni così identificate con il nostro approccio potrebbero diventare bersagli di farmaci mirati». A sostenere lo studio, sono stati Fondazione Airc, Ministero della Salute e Fondazione Ieo-Monzino. In Italia il tumore dell’ovaio colpisce circa 5.200 donne ogni anno, secondo i dati contenuti nel rapporto “I Numeri del Cancro in Italia, 2020”. La neoplasia costituisce il 3% di tutte le diagnosi di tumore. La percentuale di sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi è del 40%.

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Lo studio condotto dall’Istituto Europeo di Oncologia fa luce sullo sviluppo della forma più aggressiva di carcinoma ovarico

altre pazienti, che includono la prognosi e la predizione della risposta alla chemioterapia. Abbiamo inoltre ottenuto dati molto interessanti, almeno potenzialmente, dal punto di vista terapeutico, scoprendo un punto vulnerabile del carcinoma ovarico». Ad aggiungere ulteriori dettagli sullo studio è stato Fabrizio Bianchi, della Fondazione IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza, secondo il quale la ricerca ha dimostrato che «la proteina PI3K ha un ruolo essenziale nel mantenere in vita le cellule staminali tumorali del carcinoma ovarico, le cellule da cui il tumore nasce e si rigenera. PI3K - ha spiegato il ricercatore - potrebbe dunque essere un nuovo possibile bersaglio terapeutico per l’eliminazione di questo sottogruppo di cellule così importante nella recidiva e nella chemioresistenza della malattia». Bianchi ha proseguito: «Il ruolo di PI3K come promotore del cancro ovarico è noto da tempo e la sua possibile inattivazione è stata ampiamente esplorata come strategia terapeutica. Il nostro studio ha esteso le precedenti osservazioni sul legame tra PI3K e neoplasia ovarica, svelando il ruolo di una mutazione recentemente scoperta nel gene PIK3R1, che sappiamo essere il regolatore di PI3K. La mutazione in questo gene provoca un’attivazione anomala di PI3K, che fa da scudo alle cellule staminali tumorali, rendendole immortali. Si può pertanto immaginare che l’inibizione di PI3K possa superare la chemioresistenza, un’ipotesi che merita ulteriori indagini per le sue potenziali implicazioni per la gestione clinica delle pazienti con carcinoma ovarico». (D. E.). GdB | Aprile 2022

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L’AVOCADO PROTEGGE DA ICTUS E INFARTO L’integrazione del frutto nella dieta riduce il rischio cardiovascolare Benefici ancora più rilevanti dai grassi

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er ridurre la probabilità di eventi come ictus e infarto basta inserire due porzioni di avocado a settimana nella propria dieta. A sostenere che l’integrazione del frutto nell’alimentazione sia in grado di proteggere dal rischio cardiovascolare è uno studio condotto dai ricercatori della Harvard University di Boston. Secondo la ricerca, inoltre, benefici ancora più rilevanti si potrebbero ottenere rimpiazzando grassi, quali burro e margarina, con i grassi dell’avocado. Per compiere lo studio, i cui risultati sono stati pubblicati sulle pagine 22 GdB | Aprile 2022

della rivista specializzata “Journal of the American Heart Association”, il team di ricerca ha monitorato per tre decenni le abitudini alimentari e le cartelle cliniche di un campione formato da 68.780 donne di età compresa tra i 30 e i 55 anni, e 41.700 maschi fra i 45 e 75 anni. Una maxi-ricerca, sia per il campione esaminato che il periodo di osservazione: trent’anni durante i quali sono stati registrati 5.290 casi di ictus e 9.185 eventi cardiovascolari. Mettendo a confronto le informazioni a disposizione di ogni partecipante, gli scienziati a stelle e strisce hanno potuto osservare come i soggetti che

avevano consumato almeno due porzioni di avocado a settimana (una porzione in media è quantificabile in 50 grammi, pari a circa un quarto di frutto senza nocciolo) corressero un rischio di malattia cardiovascolare e di eventi coronarici inferiore rispettivamente del 16% e del 21% in confronto agli altri partecipanti che consumavano il frutto soltanto di rado. La ricerca ha anche evidenziato che sostituire mezza porzione di burro, margarina, uova o yogurt, formaggio e carne molto lavorata come wurstel e bacon con la stessa quantità di avocado ridurrebbe del 16-22% la probabilità di eventi cardiovascolari come l’ictus. In questo senso Lorena Pacheco, autrice principale dello studio e ricercatrice presso la scuola di epidemiologia Harvard T.H Chan School of Public Health a Boston ha spiegato come lo studio fornisca «una evidenza ulteriore che l’apporto di grassi insaturi di origine vegetale» possa «migliorare la qualità della dieta» oltre ad essere «un’importante componente della prevenzione cardiovascolare». Quello condotto dai ricercatori americani non è comunque il primo studio che mette in risalto le proprietà benefiche dell’avocado rispetto al cuore. Nella polpa del frutto si trova infatti il glutatione, sostanza che combinata col selenio forma il glutatione perossidasi, potente alleato nella lotta ai radicali liberi, a tutto vantaggio della salute del cuore. Pochi anni fa sono stati gli studiosi dell’Università della Pennsylvania a concentrarsi sulla varietà Hass di avocado, sottolineando in una ricerca presentata all’American Society for Nutrition Scientific Sessions and Annual Meeting at Experimental Biology come il consumo di avocado diminuisca il numero delle particelle di colesterolo LDL piccolo e denso nei soggetti in sovrappeso e obesi, e il colesterolo ossidato, fattori elevati di rischio cardiovascolare. (D. E.).


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DAL LABORATORIO ALLA CUCINA PER UN CIBO SEMPRE PIÙ SICURO Dafne e Biologi insieme nel webinar su “sicurezza alimentare e qualità nutrizionale” organizzato dall’ONB lo scorso 19 febbraio di Veronica Di Gaetano* 24 GdB | Aprile 2022


Salute

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al laboratorio alla buona cucina, si sa, il passo è breve. Perché non c’è sicurezza alimentare e qualità nutrizionale che tengano senza la lente d’ingrandimento dei Biologi. Si è discusso di questo, lo scorso 19 febbraio, nel corso del webinar sulla sicurezza alimentare organizzato dall’Ordine nazionale dei Biologi. Un evento in qualche modo storico che ha visto per la prima volta assieme i rappresentanti dell’ONB e del dipartimento DAFNE (Dipartimento di Scienze agrarie, alimenti, risorse naturali e ingegneria) dell’Università degli studi di Foggia con i suoi docenti. L’evento ha aperto i battenti con i saluti del presidente dell’Ordine Vincenzo D’Anna e del dott. Maurizio Durini, presidente del Consiglio Nazionale Biologi, i quali hanno dimostrato la loro “vicinanza” all’ateneo pugliese ed in particolare al Dipartimento da cui ogni anno si laureano molti dei futuri biologi. Ai loro si sono associati anche i saluti della professoressa Milena Sinigaglia, direttore del DAFNE che ha esposto la volontà di voler “continuare ad organizzare eventi per i colleghi con l’ONB”. Ha presieduto e coordinato gli interventi la dott.ssa Veronica Di Gaetano, biologa nutrizionista e docente di dietologia, allergie e intolleranze alimentari presso il dipartimento Dafne, moderatrice nonché responsabile scientifico del webinar, con la collaborazione della dott.ssa Cristina D’Amato, biologa nutrizionista, a sua volta organizzatrice scientifica. Il focus del corso, che ha visto una grande partecipazione di biologi, si è incentrato sui temi della sicurezza alimentare, intesi in un’ottica “one health”, e della qualità nutrizionale, partendo dal laboratorio fino ad arrivare all’ambito gastronomico. I lavori sono stati aperti dal prof. Giovanni Normanno, docente di Ispezione degli alimenti di origine animale, il quale, nella sua relazione, ha evidenziato l’importanza della sicurezza alimentare come tematica di interesse globale con risvolti anche di natura sanitaria e socio economica, tanto che nel 2015 la World Health Organization ha dedicato a questo tema la giornata della salute. Ogni anno, ha osservato il professore: “ci sono circa 420.000 morti in tutto il mondo a causa dell’ingestione di cibo non sicuro e le malattie da cibo non sicuro sono in aumento, nonostante il propo-

sito messo in atto dai governi e dagli scienziati per mitigare questo fenomeno”. Quale potrebbe essere, allora, l’approccio possibile? Negli anni ‘80 sono stati scoperti dei nuovi patogeni, collegati agli innovativi sistemi di conservazione degli alimenti, ad esempio la Lysteria monocitogenes che prolifera maggiormente negli alimenti pronti e conservati in frigorifero e che in alcune fasce di popolazione, soprattutto tra gli immunodepressi, può portare a gravi danni (fra cui anche aborti). Gli allevamenti intensivi, la lavorazione di grosse quantità di carni, la ristorazione collettiva rientrano in un sistema interconnesso e circolare in cui se qualcosa viene modificato, si ripercuote poi a catena su altri alimenti. Poi ci sono le mutazioni climatiche, le inondazioni, gli uragani, che determinano un rimescolamento delle acque con una conseguente contaminazione da patogeni sulle superficie terrestre; l’aumento della temperatura degli oceani inoltre, crea squilibri a livello microscopico e macroscopico, tanto da determinare la sopravvivenza di specie aliene e spesso tossiche che, ad esempio, dall’Oceano Pacifico possono arrivare nel Mediterraneo come i famosi pesci palla che producono la tetrodo tossina; infine l’uso di antibiotici, vietati negli allevamenti di molti paesi perché provocano una pressione selettiva a livello intestinale degli animali, può portare allo sviluppo di ceppi resistenti che, alla fine, possono passare anche all’uomo. Si tratta di tematiche complesse che è possibile affrontate in maniera interdisciplinare e che possono essere mitigate iniziando a cambiare gli stili di vita della popolazione partendo da una corretta educazione sin da bambini e da una maggiore sensibilizzazione e consapevolezza tra i giovani. Nell’intervento successivo, il prof. Antonio Bevilacqua, docente di Microbiologia agraria, ha parlato dell’importanza della microbiologia predittiva e della sua connessione con l’approccio one health sull’alimentazione. Si tratta di prevedere a priori i profili di rischio e di sicurezza di prodotti alimentari e materie prime in funzione di alcuni dati importanti quali la propensione al consumo,

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Un evento in qualche modo storico che ha visto per la prima volta assieme i rappresentanti dell’ONB e del dipartimento DAFNE (Dipartimento di Scienze agrarie, alimenti, risorse naturali e ingegneria) dell’Università degli studi di Foggia con i suoi docenti. L’evento ha aperto i battenti con i saluti del presidente dell’Ordine Vincenzo D’Anna e del dott. Maurizio Durini, presidente del Consiglio Nazionale Biologi, i quali hanno dimostrato la loro “vicinanza” all’ateneo pugliese ed in particolare al Dipartimento da cui ogni anno si laureano molti dei futuri biologi.

Biologa nutrizionista. GdB | Aprile 2022

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Il focus del corso, che ha visto una grande partecipazione di biologi, si è incentrato sui temi della sicurezza alimentare, intesi in un’ottica “one health”, e della qualità nutrizionale, partendo dal laboratorio fino ad arrivare all’ambito gastronomico. L’intero percorso che compiamo fin dalla scelta degli alimenti, alla loro preparazione e cottura fino al loro consumo è scandito da fasi interconnesse fra loro ma che non necessariamente seguono una sequenza standard poiché un alimento può essere cotto e conservato per poter essere servito successivamente oppure acquistato e conservato e poi essere cotto ed elaborato successivamente.

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il target di consumatori a cui sono destinati, la storia tecnologica del prodotto. Partendo dal caso studio sul clostridium botulinum si è giunti all’utilizzo ed alla presentazione di un software “risk ranger” che permette di valutare immediatamente e numericamente il profilo di rischio del prodotto alimentare. Il software è open source e open access per cui è fruibile da utenti di tutto il mondo. Gli output che fornisce riguardano la stima del rischio, il numero di persone che potenzialmente in un anno potrebbero ammalarsi e, a livello epidemiologico, la probabilità di malattia per giorno o il rischio comparativo. La stima del rischio può essere utilizzata per la comunicazione ai consumatori o stakeholders mentre gli altri output servono per gli esperti del settore per decidere alcune politiche in campo sanitario. Infine, nell’ultimo contributo esposto dal professor Antonio de Rossi, docente di Scienze e tecnologie alimentari, è stato spiegato l’effetto di alcune fasi del processo di preparazione, cottura e conservazione degli alimenti sulla qualità nutrizionale. L’intero percorso che compiamo fin dalla scelta degli alimenti, alla loro preparazione e cottura fino al loro consumo è scandito da fasi interconnesse fra loro ma che non necessariamente seguono una sequenza standard poiché un alimento può essere cotto e conservato per poter essere servito successivamente oppure acquistato e conservato e poi essere cotto ed elaborato successivamente. Questo processo può essere fatto in casa (home coking) e dal canale horeca (hotel, restaurant, cafè catering). C’è infatti un grande quantita’ di persone che consumano fuori casa, un trend in aumento, per cui è interessante pensare all’effetto nutrizionale di un alimento consumato a mensa o

acquistato fuori casa. La preparazione delle pietanze nel canale horeca deve essere affrontato con molta attenzione sia in termini di sicurezza alimentare, sia per mantenere al meglio le sostanze nutrizionali. Il taglio e la riduzione delle dimensioni di un alimento porta ad un aumento del danno cellulare e ad ampliare la superficie esposta, infatti, quando si taglia molto un alimento si espongono le sue sostanze nutritive ad una degradazione. Nei vegetali lavati e tagliati di quarta gamma, il contenuto in polifenoli ad es. degrada durante la conservazione. Questo è un effetto negativo, ma ridurre in piccolissimi pezzi gli alimenti ha anche un effetto positivo poiché aumenta la biodisponibilità dei nutrienti. Anche l’indice glicemico tende ad aumentare nei prodotti ridotti a pezzettini piccoli, ad es. i corn flakes. Come cuocere infine dei prodotti per ridurre la degradazione nutrizionale? Bisogna stare attenti alla temperatura raggiunta e ai tempi di esposizione a tali temperature. La degradazione e/o la preservazione dei nutrienti dipende anche dalle modalità di cottura e dalle giuste temperature con cui viene cucinato un alimento, ad esempio la presenza di acqua ma anche la cottura sottovuoto permettono maggiormente di mantenere inalterate le caratteristiche nutritive degli alimenti. La temperatura di conservazione influisce sulla perdita o sul mantenimento dei nutrienti, ad esempio l’acido ascorbico in un succo di fragola conservato a 25 gradi si degrada maggiormente anche se solo per qualche ora perché ad una temperatura ambiente la velocità di degradazione accelera. Tutte le fasi di preparazione hanno influenza sulla biodisponibilità dei nutrienti, sulla sicurezza alimentare e sulla protezione dalle malattie in ambito alimentare.


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Salute

IL MICROBIOTA FOLLICOLARE La composizione dello strato idrolipidico cutaneo determina i microrganismi più abbondanti di altri di Biancamaria Mancini

Bibliografia - Watanabe K. et al.: “Mode and Structure of the Bacterial Community on Human Scalp Hair” Microbes and Environments. 2019 Volume 34 Issue 3 Pages 252-259. - B.Mancini: “Capelli ricci o lisci? Dipende dal microbiota cutaneo!” Giornale dei Biologi. Anno V n.2 pag. 34-35. Febbraio 2022.

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n tricologia è ormai comprovata l’importanza del microbiota cutaneo, ovvero l’insieme dei microrganismi che popolano il cuoio capelluto. La composizione dello strato idrolipidico presente sullo strato corneo cutaneo determina quali microrganismi saranno più abbondanti rispetto ad altri. La composizione del microbiota infatti, è molto influenzata dalle proprietà del sebo e dagli stati ossidativi dei suoi componenti; numerosi studi hanno analizzato le sue caratteristiche fino all’ostio follicolare, dove si sono osservati batteri e funghi, ma poco si sa riguardo alle condizioni al di sotto dell’infundibolo follicolare. Il metodo più rapido e più diffuso utilizzato per l’analisi del microbiota cutaneo è l’esame colturale di tamponi del cuoio capelluto. Dai tamponi effettuati in molti studi, risulta che i batteri più abbondanti sono Cutibacterium species (in particolare di C. acnes, denominato in passato Propionibacerium acnes) e Staphylococcus species (con la predominanza di S. epidermidis e S. aureus). Anche se in minoranza, troviamo anche Corynebacterium,


Streptococcus, Acinetobacter e Prevotella species. I follicoli piliferi sono invece interni al cuoio capelluto, presenti come invaginazioni del derma, non hanno quindi le stesse proprietà biochimiche cutanee, né lo stesso pH. Inoltre, il follicolo insieme alla ghiandola sebacea costituiscono “l’unità pilosebacea”, una vera e propria nicchia idrofobica in cui sono presenti microrganismi specifici di quell’ambiente. Tale sottogruppo di microrganismi lo possiamo chiamare “microbiota follicolare” (o microbiota del capello) e solo alcuni studi hanno analizzato i microrganismi esistenti in questa sede più profonda. Uno di questi studi è stato pubblicato nel 2019 da Watanabe, con l’obiettivo di definire il numero e le tipologie di colonie batteriche presenti sui capelli, a partire dalla radice (livello intrafollicolare) a tutto il fusto, fino alle punte. Per effettuare tale analisi è stato utilizzato un microscopio elettronico a scansione, la metodica della Polymerase Chain Reaction (PCR) quantitativa associata a sequenziamento “16S amplicon”. Dallo studio è emerso che vi sono altissime concentrazioni batteriche su tutto il capello, dalle radici alle punte, in particolare: circa 107 unità per cm2 a livello follicolare e 106 unità per cm2 lungo i fusti; una quantità altissima, paragonabile alla densità batterica salivare. Per tutto il fusto, le specie

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La composizione del microbiota infatti, è molto influenzata dalle proprietà del sebo e dagli stati ossidativi dei suoi componenti; numerosi studi hanno analizzato le sue caratteristiche fino all’ostio follicolare, dove si sono osservati batteri e funghi, ma poco si sa riguardo alle condizioni al di sotto dell’infundibolo follicolare. Il metodo più rapido e più diffuso utilizzato per l’analisi del microbiota cutaneo è l’esame colturale di tamponi del cuoio capelluto.

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Salute

batteriche maggiormente rappresentate includono: Pseudomonas (alcalophila e caricapapayae), Cutibacterium acnes, Lawsonella clevelandensis e Staphylococcus argenteus, quest’ultimo più rappresentato a livello follicolare rispetto al fusto. Questi risultati si ripetevano simili su molti individui in esame, indipendentemente dalla lunghezza di capelli, età e sesso. Inoltre è degno di nota segnalare che il numero di batteri sull’intero fusto del capello non variava in modo significativo neanche dopo il lavaggio con lo shampoo! Tale fenomeno sta ad indicare come i batteri siano strettamente attaccati al fusto e non provengano solo dall’ambiente circostante, ma siano per lo più indigeni e derivanti dalla regione intrafollicolare. Si pensa in aggiunta, che siano poi l’attrazione elettrostatica e le proprietà idrofobiche dei capelli a contribuire alla robusta adesione batterica su tutto il fusto, anche grazie alla struttura della cuticola che favorisce l’ancoraggio nonostante il lavaggio. Per quanto riguarda i funghi costituenti il microbiota del cuoio capelluto umano troviamo: Malassezia species (in particolare M. globosa e M. restricta) tra i più abbondanti, poi Ascomycota, Basidiomycota, Coniochaeta e Rhodotorula species. Mediante microscopia confocale è stato inoltre possibile identificare che anche a livello dell’infundibolo vi era la presenza di lieviti. Solo il microbiota dei bambini di età inferiore ai 14 anni risultava più diversificato, con una minore presenza di Malassezia species rispetto agli adulti. Possiamo attribuire questa differenza al fatto che le ghiandole sebacee sono meno attive prima della pubertà e non contribuiscono a favorire il corretto habitat per Malassezia. Rispetto al cuoio capelluto, a livello intrafollicolare non troviamo solo batteri e funghi, ma anche acari o virus. Tra gli acari ritroviamo Demodex folliculorum, che si trova proprio nell’infundibolo follicolare, Demodex brevis localizzato invece nelle ghiandole sebacee, ma anche Dermatophagoides e Euroglyphus species. È stato infine identificato anche il virus del papilloma umano, il cui ruolo in situ rimane da chiarire. Da alcuni studi si osserva anche come il microbiota, e in particolare la componente degli enterobatteri, sia importante nel determinare la forma dei capelli ricci. In conclusione, possiamo asserire che i follicoli, e i loro capelli, hanno una distribuzione onnipresente di microrganismi che provengono soprattutto dall’ambiente intrafollicolare dove sono presenti in alta concentrazione. Sono oggi in atto ulteriori studi per indagare la specificità del microbiota, sia cutaneo che follicolare, e per comprendere come interferisca nella salute dei tessuti biologici interessati. GdB | Aprile 2022

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le. L’Eladi Gana contenente ela, tagar, kusstha, jatamani, tvak, dhmamaka, potra harenuka, shutki, stouneyaka, choraka, guggol sarjarasa, agaru, devedaru e padmakesher potrebbe essere usato per eliminare le tossine dal corpo e schiarire la carnagione (Charak e al., Sushruit). Gli estratti botanici che supportano la salute, la consistenza e l’integrità della pelle e dei capelli sono molto presenti nelle formulazioni cosmetiche commerciali, le cui applicazioni mostrano efficacia e sicurezza.

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cosmetici usati regolarmente per esaltare la bellezza presentano svariate funzioni: ridurre le rughe, combattere l’acne e controllare la secrezione sebacea; progettati utilizzando materiali, naturali o sintetici mantenendo standard di qualità, soddisfacendo le esigenze del consumatore. Le proprietà antiossidanti, antinfiammatorie antisettiche e antibatteriche sono conferite dalle erbe utilizzate nella preparazione cosmetica, le quali non mostrano avere effetti collaterali, che invece possono manifestarsi quando gli ingredienti sono sintetici. Europa e Stati Uniti sono i due principali mercati dei prodotti di erbe nel mondo, ma il filone dei cosmetici contenenti erbe è partito in India. Le erbe: chandan, haldi, khas, nagkheshara, manjistha, yastimadhu sono usate per ottenere una carnagione luminosa; amalaki, haridra, abhaya, khadira, vidyanga, jati saptaparna, akashiya sono utilizzate diversi disturbi della pel-

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Estratti naturali Gli estratti naturali: 1) di origine animale (enzimi, proteine, peptidi vitamine ecc.), 2) botanica e minerale (betonie, biossido di titanio e diverse forme di argille e fanghi), sono stati utilizzati fin dall’antichità anche come principi attivi cosmetici, è possibile utilizzarli in diverse forme: • Totale estratti • Estratti selettivi • Estratti biotecnologici La modalità di preparazione o estrazione è la stessa in Cina, India, Africa, Europa, America ecc. Il contenuto degli estratti totali dipende: dalla temperatura, dal rapporto di solventi vegetali, dal tempo di contatto, dalla parte dell’uso delle piante, dalla loro specie e dalla raccolta stagionale. Attivi funzionali La tecnologia peptidica sta dimostrando la sua capacità contro l’invecchiamento naturale, attraverso la penetrazione della pelle senza arrossamenti o irritazioni, per migliorne la consistenza. L’uso di specifici peptidi attivi con lo scopo di indirizzare e regolare la funzione cellulare, massimizzare la produzione di collage-


ne, porta a una riduzione delle rughe, aumento della compattezza e del tono della pelle. Antiossidanti naturali Gli antiossidanti naturali che regolano la produzione di radicali liberi sono essenziali nelle formulazioni Antiaging, intervengono a diversi livelli dei processi ossidativi come: • Scavengingfreeradical • Scavenging lipidiperossilradicali • Legatura con metalli • Rimozione delle biomolecole danneggiate dall’ossidazione Sono contenuti in formulazioni destinate alla cura della pelle, proteggendola dall’invecchiamento intrinseco ed estrinseco, hanno una durata di conservazione prolungata grazie alla base di olio vegetale e protezione dei costituenti cellulari della pelle come proteine, lipidi e DNA. Molti oli naturali: l’olio di colza, l’olio di girasole e l’olio di soia sono ricchi di acidi grassi polinsaturi, principalmente acidi linolico e linoleico, utilizzati anche come emollienti per le applicazioni per la cura della pelle. I micronutrienti: vitamine, enzimi, proteine e antiossidanti sono in grado di eliminare direttamente i pro-ossidanti lipofili e idrofili attraverso l’utilizzo topico. Flavonoidi, polifenoli e vitamine contribuiscono al meccanismo di difesa antiossidante e possono anche ritardare il processo di invecchiamento endogeno. L’acido ascorbico è uno degli antiossidanti

più efficaci è anche un fotoprotettore topico per controllare le scottature solari, la formazione di cellule e la formazione di tumori. Altri antiossidanti naturali fotoprotettivi sono composti polifenolici, carotene ed enzimi come SOD, che si trovano a rigenerare la vitamina E, C e glutatione. Questi alterano le proprietà fisiche e chimiche della pelle, inibendo così la penetrazione delle lunghezze d’onda UV e contrastando le reazioni ossidative sulla pelle. L’applicazione di flavonoidi (l’apigenina, la catechina, l’epicatechina, l’alfa-glicosilrutina e la silimarina sono composti polifenolici che si trovano nella frutta e nelle piante), avendo capacità antiossidante riduce i danni cutanei acuti e cronici. Vitamine Biochimicamente la vitamina C nei cosmetici ha un potenziale riducente, è richiesta nella sintesi di collagene. Il principale antiossidante lipofilo è la vitamina E (l’a-tocoferolo è l’analogo più abbondante della vitamina E, seguito dal y-tocoferolo). La vitamina E agisce come antiossidante, elimina i radicali liberi che possono avviare direttamente o indirettamente (HO* e O*2) o propagare (radicale lipidico perossilico) reazioni a catena lipidica. I tocoferoli sono utilizzati per la cura della pelle, negli oli vegetali hanno la funzione di proteggere: 1) gli acidi grassi polinsaturi. La vitamina A è disponibile sotto forma di composti pro-vitami-

Gli estratti naturali: 1) di origine animale (enzimi, proteine, peptidi vitamine ecc.), 2) botanica e minerale (betonie, biossido di titanio e diverse forme di argille e fanghi), sono stati utilizzati fin dall’antichità anche come principi attivi cosmetici, è possibile utilizzarli in diverse forme.

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COSMETICI A BASE DI ERBE Gli estratti botanici che supportano salute, consistenza e integrità di pelle e capelli sono molto presenti nelle formulazioni cosmetiche commerciali di Carla Cimmino GdB | Aprile 2022

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Uno studio recente ha dimostrato il valore dei fosfolipidi applicati localmente nella cura della pelle, mettendo in risalto che i fattori ambientali (sole, vento, inquinamento) e i detersivi e solventi, presenti nella maggior parte dei detergenti per la pelle, rimuovono il contenuto naturale di fosfolipidi dallo strato superiore della pelle. Il colore della pelle deriva dalla presenza e dal rapporto di diversi cromofori in essa: l’ossiemoglobina (rosso brillante), l’emoglobina ridotta (rosso bluastro) e la bilirubina (giallo), che si trovano nei piccoli vasi sanguigni del derma.

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na A, ad esempio: a, b-carotene e cripto xantina, comprende genericamente retinolo, retina e acido retinoico. Emollienti Gli emollienti ammorbidiscono la pelle e gli idratanti aggiungono idratazione. Sono usati per correggere secchezza e desquamazione della pelle, linee sottili e rughe e dermatiti da contatto lievemente irritanti. Fondamentalmente hanno due azioni: - Occlusive, che forniscono uno strato di olio sulla superficie della pelle per rallentare la perdita di acqua e aumentare così il contenuto di umidità dello strato corneo. - Umettanti, sostanze introdotte nello strato corneo per aumentarne la capacità di ritenzione idrica. I fosfolipidi naturali, della lecitina, sono umettanti igroscopici (attirano l’acqua dall’aria circostante) e trattengono l’acqua dove è necessario un maggiore livello di idratazione, pertanto aumentano i livelli di idratazione della pelle senza essere occlusivi. Uno studio recente ha dimostrato il valore dei fosfolipidi applicati localmente nella cura della pelle, mettendo in risalto che i fattori ambientali (sole, vento, inquinamento) e i detersivi e solventi, presenti nella maggior parte dei detergenti per la pelle, rimuovono il contenuto naturale di fosfolipidi dallo strato superiore della pelle. Attivi schiarenti per la pelle Il colore della pelle deriva dalla presenza e dal rapporto di diversi cromofori in essa: l’ossiemoglobina (rosso brillante), l’emoglobina ridotta (rosso bluastro) e la bilirubina (giallo), che si trovano nei piccoli vasi sanguigni del derma. Sono disponibili molte formulazioni, che contengono estratti naturali, che influenzano direttamente o indirettamente il processo di melanizzazione. La prima fase della formazione di melanina è mediata dalla tirosinasi, e alcuni inibitori farmacologici o gli agenti che prendono di mira la via della melanogenesi possono fungere da inibitori topici della melanogenesi. In commercio sono disponibili diverse formulazioni schiarenti per la pelle, che contengono diverse combinazioni di estratti naturali come Arbutina (Uvae Ursifiliumi), Acido Azelaico (Malassezia), Acido Kjoico (Aspergillus Spp.), Acidi a e b-idrossilici degli agrumi e Resveratrolo (Morus Alba) e Liquirizia (G .Glabra).

Antimicrobici Gli antimicrobici nei cosmetici servono per le infezioni della pelle, dei capelli e delle unghie, ma anche per migliorare la durata di conservazione delle formulazioni cosmetiche. Gli estratti botanici come: C. Longa, C. Zeylanicum, C. Tora, C. Asiatica, P. Corlifolia e alcoli a catena lunga, inibiscono la crescita microbica o possiedono proprietà battericide/ fungicide, sono potenziali opzioni per i conservanti sintetici. Agenti antinfiammatori Olibano (resina della specie Boswellia Boswellia Serrata) usata da sempre come incenso, è attualmente usata come fissativo in profumi, saponi, creme, lozioni e detergenti. In India, gli essudati di gommoresina di Boswellia


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Evodia Officinale (45%) e Pleuropterus Multiflorus (41%) hanno mostrato un potente effetto inibitorio sulla produzione di metalloproteasi-1 della matrice (MMP-1) nell’ultravioletto B (UV -B) fibroblasti umani irradiati. I fitocostituenti attivi dell’acubina sono fotoprotettivi e potrebbero essere utilizzati nella prevenzione del fotoinvecchiamento.

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Serrata, sono usati nel sistema medico ayurvedico in quanto hanno azione antinfiammatoria. Il boswellin utilizzato nei cosmetici convenzionali, ha un’aroma gradevole che si fonde bene nelle formulazioni. Liquirizia (G. Glabra), Calendula (C. Officinale), Varuna (C. Nurvala) ecc. sono potenti erbe antinfiammatorie, ampiamente utilizzate nei mediatori dell’infiammazione come trombossani, leucotrieni e prostaglandine. Il coriandolo (C. Sativum) attivo contiene il trigliceride dell’acido petroselinico è definito potente inibitore dell’enzima topoisomerasi (altera la struttura del DNA ,implicato nella progressione di malattie proliferative come la psoriasi). L’ombrelliferina si miscela con altri ingredienti cosmetici, per evitare effetti collaterali come irritazione o sensibilizzazione. In uno studio, estratti di metanolo di Eucommia Ulmoides (52%),

Anti-irritanti L’estratto vegetale funziona anche come anti-irritante e aiuta a mantenere la consistenza e il tono della pelle. Le applicazioni topiche degli acidi grassi essenziali hanno dimostrato di migliorare l’idratazione e l’elasticità e di aiutare a prevenire la rottura della pelle, agendo come agenti antimicrobici e stimolatori della penetrazione della pelle, e prevengono la rottura della pelle negli individui con scarso stato nutrizionale. Recenti ricerche hanno confermato che anche gli acidi grassi a catena lunga sono potenziali agenti antietà, e che l’acido petroselinico somministrato per via orale contrasta la sovrapproduzione di acido arachidoico. Gli altri ingredienti funzionali sono: rusco, camomilla, vitamina E, antiossidanti vitamina A, C ed E, tè verde e fiore di tiarè, Ginko Biloba, cetriolo, calendula e alfa bisabolo. Un costituente attivo della camomilla è stato inserito in formulazioni doposole. L’aosaina (un estratto di alghe) nelle formulazioni per il contorno occhi protegge dai danni alla pelle e rimpolpa le rughe. Conclusione Negli ultimi anni i progressi fatti dallo sviluppo di formulazioni cosmetiche a base di erbe, ha permesso l’esistenza di una vasta gamma di prodotti destinati alla cura della pelle (sbiancanti, fotoprotettivi e antietà). Le formulazioni a base di erbe hanno aperto ad una nuova strada alla ricerca, per l’individuazione e l’utilizzo di erbe come principi attivi all’interno di cosmetici. I cosmetici alle erbe mostrano avere efficacia e accettabilità nella skincare quotidiana, non mostrando effetti collaterali comunemente osservati in cosmetici contenenti attivi sintetici. Tratto da “Herbal Cosmetics: Trends in Skin Care Formulation” di M.S. Ashawat, Madhuri Banchhor, Shailendra Saraf1, Swarnlata Saraf. GdB | Aprile 2022

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Il dossier segnala quattro casi simbolo: in Veneto, nella provincia di Alessandria, il profondo acquifero del Gran Sasso e nella Val Basento in Basilicata. Per il primo problema di contaminazione da Pfas vengono segnalati il depuratore di Trissino (VI) e la Miteni, responsabile della produzione di composti contenenti fluoro, soprattutto per l’industria conciaria, tessile e farmaceutica. Si passa poi all’alessandrino con la società Solvey, mentre il profondo acquifero del Gran Sasso è «contaminato di sostanze quali cloroformio e diclorometano a causa dei Laboratori nazionali dell’Istituto di Fisica Nucleare e dal traforo dell’A2». Nella Val Basento in Basilicata, infine, risultano nel suolo e nelle acque di falda «metalli pesanti, IPA, solventi clorurati e composti aromatici, derivanti dagli scarichi degli stabilimenti ANIC/ Enichem e Materit».

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Ambiente

L’

uomo e l’acqua sono un binomio inscindibile che nasce e si sviluppa sin dalla Preistoria. L’oro blu è fondamentale in molti settori come agricoltura, riscaldamento, raffreddamento industriale, turismo e tanti altri. Pur essendo la più grande riserva idrica del mondo, l’acqua di falda rimane invisibile per molto tempo. Vive, tuttavia, un paradosso: essere una delle risorse più dimenticate. Quest’anno, comunque, abbiamo recuperato il divario, dato che è stata la protagonista del World Water Day. Legambiente ha presentato anche un dossier “Acque sotterranee. Il necessario è invisibile agli occhi”, con tre proposte per vigilare e custodire i corpi idrici, spesso sciupati e iper sfruttati. Qualità e quantità subiscono danni da urbanizzazione, crescita demografica, inquinamento e cambiamenti climatici. In Italia quelle sotterranee sono le più utilizzate per l’approvvigionamento (84,8% nel 2018), seguite da prelievi in acque superficiali

(15,1%), una minima parte proviene da acque marine o salmastre (0,1%). Spostando il nostro sguardo alle Regioni, quelle più “idrovore”, poiché sono le più popolose, vedono ai primi posti Lombardia (1,42 miliardi di m3), Lazio (1,16 miliardi di m3) e Campania (0,93 miliardi di m3). Alcune, come Umbria e Valle D’Aosta, dipendono totalmente dalle acque di falda, altre sono legate in modo considerevole: sette superano il 90% di dipendenza (Lazio, Trenti-

ACQUE SOTTERRANEE TESORO DA TUTELARE Secondo l’Ispra, consumiamo circa 26 miliardi di metri cubi di acqua all’anno 34 GdB | Aprile 2022


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no-Alto Adige, Campania, Lombardia, Abruzzo, Friuli-Venezia Giulia e Veneto) e cinque per più dell’80% (Piemonte, Calabria, Molise, Marche e Sicilia). La captazione per uso civile è diminuita durante il 2018 rispetto al 2015: il valore medio annuo per abitante a livello nazionale è di 419 L/ ab/giorno, con valore massimo toccato in Molise (2023 L/ab/giorno) e minimo in Puglia (116 L/

ab/ giorno). Nel 2019 sono stati effettuati 3.830 monitoraggi per le acque sotterranee dall’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale). Riguardo alle sostanze di origine antropica, nell’82,5% dei controlli non sono stati individuati superamenti, il 15% ne ha per una sola sostanza e il 2,5% per due o più. Le sostanze considerate critiche, nel biennio 2018-2019, a livello nazionale per lo stato chimico sono trentaquattro. Quelle più presenti sono: triclorometano, nitrato, dibromoclorometano, bromo diclorometano, tricloroetile-

ne, tetracloroetilene. Il dm 06/07/2016 ha introdotto il monitoraggio dei perfluorurati. Fra questi, il Pfoa (acido perfluoroottanoico, un tensioattivo usato nella polimerizzazione in emulsione per la produzione di polimeri fluorurati) è stato ritrovato nelle acque sotterranee di dodici regioni e due provincie autonome (Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Bolzano, Trento, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Campania, Basilicata e Sicilia) in aumento rispetto al 2017. Riguardo alle sostanze di possibile origine naturale non si sono trovati “sorpassi” nel 68,2% dei casi, nel 17,8% c’è una sola sostanza che supera i limiti, mentre nel 14% ce ne sono due o più che superano i limiti. Le più presenti sono: ione ammonio, arsenico, solfato, nichel e cloruro. Le tre priorità messo in risalto da Legambiente riguardano, innanzitutto, raggiungere gli obiettivi stabiliti dalla Direttiva Quadro Acque (2000/60/ CE) che agli Stati membri, entro il 2027, impone il buono stato qualitativo e quantitativo dei corpi idrici. I dati Ispra mettono in risalto una situazione che ha ancora molte pecche: quantitativamente solo il 75% è stato classificato e di questi solo il 61% è in uno stato chimico “buono”, il 14% “scarso” e il 25% non classificato (261 sui 1052 totali). Riguardo allo stato qualitativo, l’83% delle acque sotterranee risulta valutato, il 58% è “buono”, 25% scarso e 18% non ancora schedato. Seconda necessità è la pianificazione negli usi dell’acqua, con un monitoraggio continuo che permetta una visione d’insieme sommativa sull’impatto che le singole attività di scarico, prelievo e rilascio generano. Infine, l’eliminazione nella produzione e vendita delle sostanze inquinanti, persistenti e bioaccumulabili. Un caso emblematico, sottolinea l’associazione ambientalista, è quello dei Pfas, le sostanze perfluoroalchiliche, che hanno contaminato alcune falde del Veneto e del Piemonte, ma che sono censite anche in molte altre parti. «Un tesoro nascosto sotto ai nostri piedi, a decine o centinaia di metri. L’acqua di falda - ha detto Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente - dev’essere riconosciuta e protetta, non solo come riserva idrica rinnovabile, ma anche come portatrice di un forte valore ambientale. Le tre priorità che oggi presentiamo vogliono offrire una sorta di road map per arrivare alla gestione condivisa e sostenibile delle acque sotterranee, come auspicato dalle politiche comunitarie, rendendole sempre meno vulnerabili e soggette alle conseguenze del sovra sfruttamento, dei cambiamenti climatici e dell’inquinamento». (G. P.). GdB | Aprile 2022

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L’EVOLUZIONE IN CITTÀ UN FENOMENO GLOBALE Su Science, uno studio che rivela come le piante si stiano adattando al cambiamento con strategie simili in tutto il mondo di Sara Bovio

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l processo di urbanizzazione, ossia la crescita delle città e la nascita di nuovi centri urbani, modifica profondamente l’ambiente e il paesaggio naturale. La costruzione di infrastrutture e nuovi edifici, come uffici e fabbriche, produce effetti sull’ambiente (per esempio maggiore inquinamento e alterazioni nelle temperature) in grado di danneggiare il Pianeta e la biodiversità. Ma c’è di più. Secondo una nuova ricerca pubblicata su Science, in risposta all’urbanizzazione alcune piante stanno sviluppando strategie simili di adattamento alla vita urbana nelle metropoli di tutto il mondo. La scoperta è avvenuta studiando l’ubiquitario e umile trifoglio bianco (Trifolium repens) all’interno di un grande progetto internazionale, il Global Urban Evolution Project (GLUE), comprendente 287 ricercatori provenienti da tutto il mondo e guidato dall’ecologo evolutivo Marc Johnson dell’Università canadese di Toronto Mississauga. L’ampia collaborazione tra i ricercatori ha permesso di realizzare uno studio in cui sono state raccolte più di 110mila piante in 160 città di 26 Paesi e sequenziati oltre 2.500 DNA diversi di trifoglio. Il trifoglio bianco è considerato dai ricercatori un organismo ideale per gli studi di tipo evolutivo ed è una delle specie vegetali più diffuse. La pianta, infatti, vive in ambienti sia rurali sia urbani in tutto il mondo, dalla Norvegia al Messico all’India. Sebbene possano sembrare tutte

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uguali, solo alcune piante di trifoglio producono acido cianidrico, una tossina utilizzata dalla pianta sia per difendersi dagli erbivori, sia per aumentare la sua resistenza allo stress idrico causato da un’eventuale mancanza d’acqua. La capacità di produrre acido cianidrico è codificata nel DNA del trifoglio da due geni aventi un modello di ereditarietà semplice e facile da studiare. La presenza di questa sostanza nelle piantine è stata identificata in laboratorio attraverso saggi specifici. «Ogni campione spiega Joanna Griffiths, co-autrice dello studio - è stato digerito, incubato per un paio d’ore e posto a contatto con una carta speciale che evidenzia l’eventuale presenza del veleno con


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una macchia di colore blu». I risultati emersi dallo studio hanno indicato che in quasi la metà delle 160 città coinvolte nel campionamento, le popolazioni di trifoglio nelle aree urbane si sono evolute per produrre meno acido cianidrico rispetto alle popolazioni presenti nelle zone rurali. Per spiegare questo fenomeno, gli scienziati hanno analizzato le caratteristiche dell’ambiente e del DNA delle piante. Con la crescita dell’urbanizzazione, l’abbondanza delle specie erbivore tende a diminuire, rendendo l’acido cianidrico meno utile per la sopravvivenza e la riproduzione del trifoglio. Produrre questo composto chimico velenoso costa, infatti, molta

energia alla pianta, che potrebbe invece essere destinata alla produzione di fiori e semi. Con il passare delle generazioni, per via della selezione naturale, le piante di trifoglio che producono acido cianidrico sono diventate sempre più rare. Secondo lo studio, poiché l’adattamento agli ambienti urbani si sta verificando in modo simile in tutto il mondo, si può parlare di evoluzione parallela. Il sito web del progetto GLUE riporta che le città occupano fino al tre per cento della superficie terrestre. «Per un biologo evolutivo afferma Marina Alberti, co-autrice dello studio – questi centri urbani rappresentano una straordinaria opportunità di studiare l’evoluzione in azione. Sempre maggiori prove mostrano che l’urbanizzazione sta originando una rapida evoluzione nei tratti ereditabili di molte piante e popolazioni animali che svolgono importanti funzioni negli ecosistemi, come per esempio favorire la dispersione dei semi e la biodiversità o sostenere il ciclo dei nutrienti. Trovare un chiaro segnale del fatto che alcuni organismi che vivono in città stanno modificando i propri caratteri, implica che gli ecosistemi hanno una capacità di adattamento che permette la loro stabilità e resilienza di fronte al rapido cambiamento ambientale globale». Secondo gli autori inoltre, le ricerche nel campo dell’evoluzione urbana possono aiutarci a comprendere meglio il nostro impatto sull’ecosistema e sviluppare strategie migliori di crescita per costruire città più sostenibili. La scoperta, sostengono i ricercatori, ha implicazioni che vanno ben oltre l’umile pianta di trifoglio. Rob Ness dell’Università di Toronto afferma: «Le città sono il luogo in cui le persone vivono, e il nostro studio fornisce la prova più convincente che l’uomo sta alterando l’evoluzione della vita in esse». «Ora che sappiamo che gli esseri umani stanno guidando l’evoluzione nelle città di tutto il Pianeta - sostiene Johnson - queste informazioni possono essere utilizzate per iniziare a sviluppare strategie per conservare meglio le specie rare e permettere loro di adattarsi agli ambienti urbani. Questa ricerca può anche aiutarci a comprendere come evitare che parassiti e malattie indesiderate si adattino agli ambienti umani». Raccogliendo più di 110.000 campioni di trifoglio e sequenziando oltre 2.500 genomi della pianta, il team ha voluto inoltre creare un immenso set di dati da potere utilizzare per successivi studi. GdB | Aprile 2022

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iamo un Paese mediterraneo, ma i segnali del riscaldamento globale si avvertono sempre più prepotentemente. Nel 2020 la temperatura media, una parola che si leggerà più volte nell’articolo, è stata pari a +16,3 °C (calcolata come punto di mezzo tra i valori di stazioni termopluviometriche di ventiquattro capoluoghi di regione e città metropolitane), in aumento di 0,3 °C sul valore mediano nel decennio 2006-2015. Prendendo in esame solamente i centri delle regioni, che hanno serie abbondanti e complete di dati, la temperatura media, +15,8 °C, mostra una difformità di +1,2 °C rispetto

al dato climatico tra il 1971 e il 2000 (periodo di riferimento per il calcolo di medie, definito Normale Climatologica Clino). In tutte le nostre comunità cittadine controllate l’Istat (Istituto nazionale di statistica) nel report sui cambiamenti climatici ha registrato rialzi nella temperatura, sia minima sia massima: i più alti si notano a Perugia (+2,1°C), Roma (+2°C), Milano (+1,9°C), Bologna (+1,8°C) e Torino (+1,7°C). Dal 1971 la temperatura media annua ha una tendenza a crescere nei capoluoghi di regione, con valori più alti nel decennio 20112020. In particolare dal 2014 mediamente siamo sui +16°C, indicatore palese di un

NOTTI TROPICALI CITTADINE CRESCONO LE FORESTE URBANE Nei capoluoghi di regione la temperatura media nel 2020 ha fatto segnare +1,2° C sul valore climatico 1971-2000 38 GdB | Aprile 2022


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riscaldamento in atto. Tra le ventiquattro città sotto osservazione i giorni estivi (con temperatura massima maggiore di 25° C) in media sono 112, mentre salgono a 56 le notti tropicali (con temperatura che non scende sotto i 20° C). Nei soli centri di regione, i due indici hanno un’anomalia media sul Clino di +15 giorni e +18 notti. In tutte queste città (eccezion fatta per Palermo) abbiamo avuto per Aosta (+41 giorni), Perugia (+35), Roma (+27) e Trieste (+26). Le notti tropicali raggiungono quota +53 a Napoli, seguono Milano (+34 notti), Catanzaro (+33) e Palermo (+27). Il 2020 è stato pure l’anno meno piovoso degli ultimi dieci, come il 2011, con

una precipitazione totale annua di 661 mm (media delle stazioni osservate). Nei principali centri abitati la diminuzione è di -132 mm sulla media del periodo 2006-2015. Le minori precipitazioni coinvolgono ventidue città, con vertici a Napoli (-423,5 mm), Catanzaro (-416) e Catania (-359,7). Nei capoluoghi regionali siamo in media a -91 mm rispetto al 1971-2000 ed emergono in quindici: vince nuovamente Napoli (-439,6 mm) seguono Genova (-276,9 mm), Catanzaro (-262,1 mm), Firenze (-221,6 mm), Bologna (-211,9 mm) e Milano (-196). In particolare, i giorni senza pioggia due anni fa sono stati circa 293 nelle aree urbane indagate, in sa-

© vaalaa/shutterstock.com

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lita di undici giorni sulla media 2006-2015. Per le prime cittadine delle regioni l’anomalia media è di +10 giorni sul Clino e comprende quasi tutte quelle studiate. È più alta a Napoli (+35 giorni), Trento (+33) e L’Aquila (+20). In controtendenza Trieste, con -14 giorni, seguita da Genova e Firenze (-8). Il consumo totale di energia nei capoluoghi è stato di 75,2 Tep (Tonnellate Equivalenti Petrolio) per cento abitanti nel 2020, in discesa del 4,5% rispetto all’anno precedente (79,5) e del 17,4% nel confronto con il 2010 (91,1). Il calo può essere associato allo scoppio della pandemia, ma s’inserisce in un andamento calante progressivo, constatato su tutto il Belpaese. Se consumiamo di meno, abbiamo invece puntato sulla tutela, la nascita o l’accrescimento delle aree verdi, che hanno un ruolo importante nel piano contro il cambiamento climatico. Per i capoluoghi, dove risiede circa il 30% della popolazione italiana (17,7 milioni di abitanti), l’estensione del verde urbano è di oltre 550 km2, pari al 2,8% del territorio comunale, corrispondente a una disponibilità di 31m2 per abitante. Se mettiamo insieme pure le aree naturali protette, si raggiunge il 19,3% del territorio (3.775 km2). La superficie complessiva dei parchi e spazi con piante è lievitata: in media +0,4% all’anno dal 2011 (+0,6% nei capoluoghi metropolitani). La 40 GdB | Aprile 2022

La qualità dell’aria nei centri abitati dipende dalla concentrazione di parecchi inquinanti, tra i quali il particolato (PM10 e PM2,5), il biossido d’azoto (NO2) e l’ozono (O3) individuati, di solito, come più dannosi per la nostra salute.

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disponibilità di zone verdeggianti è maggiore nei centri del Nord-est (62,2 m2 per abitante, contro i 27,2 del Centro e il 25,1 del Nord-ovest), minima in quelli del Sud (20,8 m2 per abitante e 19,5 nelle Isole). Molte amministrazioni hanno scelto d’investire sulla forestazione urbana e periurbana, creando nuovi boschi a sviluppo naturale, per far diminuire le cosiddette “isole di calore”. Nel 2020 sono stati portati avanti interventi di piantumazione e non solo in 47 capoluoghi (erano 31 nel 2011). La superficie ammonta a oltre 11,6 milioni di m2, ovverosia in media 30 m2 per ettaro di superficie urbanizzata. La distribuzione non è omogenea, infatti, meno della metà si colloca sopra la media, con il Nord che ha valori molto superiori a quelli delle altre zone: 71,2 m2 per ettaro nel Nord-est e 40,4 nel Nord-ovest, 13,1 nel Centro, 6,8 al Sud e 5,2 nelle Isole. La superficie si è gradualmente ampliata (+14,9%) durante gli ultimi dieci anni. Gli allargamenti più rilevanti si sono avuti nelle Isole (+31,0 %), seguite dal Nord (16,3%). Molto meno significativi al Centro (+6,0%) e al Sud (+2,5%). Pur con uno sviluppo medio del 15% dal 2011, i progressi appaiono migliori tra i capoluoghi delle città metropolitane (+22,7%) rispetto a quelli degli altri di provincia (+12,6%). (G. P.).


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l clima della maggior parte del Mediterraneo, del resto del territorio europeo e dell’America centro-settentrionale non risulta attualmente favorevole all’insediamento delle mosche tropicali della frutta. Questo è quanto emerso dalla ricerca internazionale alla quale hanno partecipato istituzioni di quattro continenti, tra cui ENEA che ha studiato gli effetti del cambiamento climatico sull’invasività di questi insetti. Luigi Ponti, coautore dello studio e ricercatore del Laboratorio ENEA di Sostenibilità, qualità e sicurezza delle produzioni agroalimentari, ha spiegato: «A causa dei cambiamenti climatici l’idoneità climatica al loro insediamento aumenterà in maniera diversa a seconda della specie e le loro probabilità di una maggiore invasività sono incrementate anche a causa della globalizzazione. Si tratta di informazioni finora non disponibili e che costituivano, al più, semplici ipotesi». Per la realizzazione di questa ricerca sono stati impiegati modelli che, per la prima volta, hanno descritto e simulato in maniera molto dettagliata la biologia di ciascuna di quattro importanti specie tropicali di mosche della frutta appartenenti alla famiglia dei Tefritidi, consentendo così di prevedere come queste specie siano diverse tra loro in termini di distribuzione geografica e potenziale invasivo. «Per la prima volta siamo riusciti a simulare fisiologia e dinamica di popolazione di questi quattro insetti in relazione alle condizioni di risoluzione spaziale di 25-30 km e temporale giornaliera mai raggiunte prima», ha aggiunto il ricercatore ENEA Luigi Ponti. «La capacità di prevedere l’evoluzione delle aree favorevoli allo sviluppo delle mosche tropicali della frutta in base a scenari di cambiamento climatico è fondamentale, tanto che alcune specie che abbiamo studiato sono già incluse nella lista, recentemente stilata dall’Autorità

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L’INVASIVITÀ DELLE MOSCHE TROPICALI DELLA FRUTTA Gli effetti del cambiamento climatico alla base di una ricerca internazionale alla quale hanno partecipato istituzioni di quattro continenti, tra cui ENEA

europea per la Sicurezza Alimentare, che comprende i 20 organismi da quarantena classificati al vertice delle priorità per gli Stati membri della Unione europea in base ai problemi economici, sociali e ambientali che possono causare. Le specie oggetto dell’indagine rappresentano una gravissima minaccia per un settore strategico quale l’ortofrutticoltura mediterranea, in particolare per le colture frutticole perenni come le drupacee (ad esempio pesco e susino), le pomacee (ad esempio melo e pero) e gli agrumi, ma anche per le coltivazioni orticole annuali come ad esempio il

melone, il cetriolo e il pomodoro», ha specificato lo studioso di ENEA. La biologia delle mosche tropicali della frutta è simile in apparenza, ma in realtà, come è stato evidenziato dallo studio, varia abbastanza da determinare risposte differenti alle condizioni meteorologiche, oltre che agli ospiti. E, sono proprio queste differenze a determinare il loro potenziale di distribuzione geografica e di abbondanza. La temperatura è la principale variabile guida, con l’umidità relativa che influisce anche sulla sopravvivenza e sulla riproduzione negli adulti. (P. S.). GdB | Aprile 2022

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anta bellezza unita, tuttavia, alla fragilità. È aumentata nel 2021 la superficie nazionale potenzialmente legata a frane e alluvioni: la crescita sfiora rispettivamente il 4% e il 19% confrontandosi con il 2017. Quasi il 94% dei comuni italiani è a rischio o deve fare i conti con l’erosione costiera; oltre otto milioni di persone abitano in aree ad alta pericolosità. Segnali positivi? Ci sono anche quelli, ad esempio per le coste italiane: dopo vent’anni i litorali in avanzamento sono superiori a quelli in arretramento. Questi e altri dati sono contenuti in “Dissesto idrogeologico in Italia”, il rapporto 2021 presentato dall’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) che dà un quadro di riferimento complessivo sulla pericolosità collegata a scoscendimenti, inondazioni e sull’erosione del nostro territorio. Lo scorso anno oltre 540 mila famiglie e 1.300.000 abitanti hanno vissuto in zone a rischio frane (13% giovani con età minore di 15 anni, 64% adulti tra 15 e 64 anni e 23% anziani con età > 64 anni), mentre i nuclei familiari sono circa tre milioni e quasi sette i residenti in luoghi col pericolo alluvione. Le Regioni con i valori più alti di italiani che vivono con una spada di Damocle sulla testa sono Emilia-Romagna (quasi tre milioni di abitanti a rischio), Toscana (oltre un milione), Campania (più di 580 mila), Veneto (quasi 575 mila), Lombardia (oltre 475 mila), e Liguria (più di 366 mila). Su un totale di oltre quattordici milioni di edifici, quelli costruiti su un terreno con pericolosità da frana eleva-

ta e molto elevata superano i 565 mila (3,9%), invece poco più di 1,5 milioni (10,7%) sono in aree inondabili, in base ad uno scenario medio. Gli aggregati strutturali che potrebbero subire danni da franamenti superano, al contrario, i 740mila (4%). Le industrie e i servizi in aree con probabilità di franamenti alta e tanto alta sono maggiori di 84 mila con 220mila addetti esposti a rischio; quelli che devono temere allagamenti, sempre nello scenario medio, superano i 640 mila (13,4%). Fra gli oltre 213mila beni architettonici, monumentali e archeologici, quelli potenzialmente soggetti a fenomeni franosi sono al di sopra dei dodicimila con minaccia intensa; toccano nell’insieme le 38.000 unità aggiungendo quelli a minore rischiosità. I beni culturali a rischio di finire sommersi dall’acqua, poco meno di 34 mila nello scenario medio, arrivano a quasi 50mila in quello con limitata probabilità di verificarsi, ad esempio negli eventi estremi. Il recente monitoraggio e studio sulle coste italiane ha dato la possibilità di aggiornare le “fotografie” sullo stato e le modificazioni vicino alle rive: in dodici anni tra il 2007 e il 2019, la spiaggia sta riguadagnando terreno quasi nel 20% dei litorali nazionali, contro il 17,9% in arretramento. Davanti a tratti di costa sempre più protetti con opere di difesa rigide, rispetto al 2000-2007 sono incrementate le fasce costiere stabili e in avanzamento; calano dell’1% quelle in erosione. Durante lo stesso periodo, le spiagge modificate più di cinque metri sono 1.744 km (37%), di cui 895

SMOTTAMENTO ITALIA Per l’Ispra il 93,9% dei comuni italiani è a rischio per frane alluvioni o erosione costiera di Gianpaolo Palazzo 42 GdB | Aprile 2022


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km per arretramento e 849 km per avanzamento. La realizzazione di nuovi porti, opere di protezione, strutture destinate ai servizi turistici o l’ampliamento di quanto già esistente trasforma le caratteristiche naturali del tratto costiero coinvolto. Esso nella classificazione è compreso tra i tratti artificiali, e modifica tenuta e dinamica di quelli confinanti. Scendendo al livello regionale, la vista è più eterogenea: la costa in erosione sovrasta quella in avanzamento in Sardegna, Basilicata, Puglia, Lazio e Campania; le regioni che subiscono i danni dovuti all’acqua che avanza sono Calabria (161 km), Sicilia (139 km), Sardegna (116 km) e Puglia (95 km). Dati e mappe aggiornate sono disponibili sulla piattaforma nazionale IdroGEO (idrogeo.isprambiente.it), un’APP multilingua, accessibile da smartphone, tablet e pc. Accedendo al portale è consentita la gestione e la consultazione di cifre, cartine, report, foto, video e documenti dell’Inventario dei Fenomeni Franosi in Italia - IFFI, delle mappe nazionali di pericolosità associata a frane, alluvioni e degli indicatori di rischio idrogeologico. Sono supportate tre categorie di funzionalità Gis: visualizzazione, editing e analisi dei dati. In aggiunta alla navigazione sulle carte topografiche

(zoom, pan, gestione dei layer tematici), fornisce funzionalità dinamiche d’interrogazione dei risultati, creazione di report e condivisione sui social media, con la possibilità di eseguire elaborazioni spaziali. Tutte le tecnologie, le librerie e i software utilizzati sono open source (sorgente aperto) per favorire il riuso di software tra le pubbliche amministrazioni. Nei primi diciannove mesi di attività sono stati più di 42.000 gli utenti con 1,6 milioni di pagine visualizzate. La tecnologia usata per la navigazione è stata per il 79,8% via pc, il 19,1% con smartphone e l’1% via tablet.

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DAGLI ATOMI DI RUTENIO IDROGENO PIÙ VERDE I risultati sono stati pubblicati su Chemical Science. La scoperta è dei ricercatori dell’Istituto di chimica dei composti organometallici del Cnr e dell’ETH di Zurigo

di Pasquale Santilio

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n gruppo di ricercatori dell’Istituto di chimica dei composti organometallici del Consiglio nazionale delle ricerche in collaborazione con l’ETH di Zurigo, ha scoperto che la produzione di idrogeno verde dall’acqua può essere determinata da singoli atomi di rutenio. Per la prima volta, gli studiosi sono stati in grado di dimostrare che un complesso organometallico dinucleare di rutenio rappresenta un attivo catalizzatore per la generazione di idrogeno in una cella elettrolitica a membrana

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polimerica (PEM). L’apparato realizzato su piccola scala di laboratorio produce 28 litri di diidrogeno per grammo di rutenio al minuto. In sette giorni di attività non si sono registrati fenomeni di degradazione del catalizzatore. Al momento, l’efficienza non è paragonabile ad un sistema commerciale, tuttavia rappresenta una proof of concept per una nuova classe di elettrolizzatori. Attualmente, il 95% dell’idrogeno è ottenuto da processi che utilizzano fonti fossili. Invece, solo il 5% proviene da fonti rinnovabili. Il paradigma per la generazione

di idrogeno verde è l’accoppiamento della generazione di energia elettrica rinnovabile con l’elettrolisi dell’acqua (processo elettrolitico nel quale il passaggio di corrente elettrica causa la scomposizione dell’acqua in ossigeno ed idrogeno gassoso). Tuttavia, l’elettrolisi dell’acqua presenta significativi ostacoli. In particolare, le tecnologie degli elettrolizzatori più performanti impiegano quantità ingenti di platino e di iridio, entrambi allocati nella lista dei Critical Raw Materials (CRM), ovvero, materiali a rischio di approvvigionamento. Sulla base dell’attuale catena di approvvigionamento i metalli del gruppo del platino limiterebbero la produzione di elettrolizzatori a membrana polimerica a circa 6-7 GW anno, contro i 100 GW annui previsti dalle roadmap di decarbonizzazione al 2030. Pertanto, la ricerca va nella direzione di eliminare tali materiali o ridurre la quantità impiegata, aumentandone la durabilità e la riduzione dei costi dei dispositivi. Francesco Vizza del Cnr-Iccom e coordinatore dello studio, ha spiegato: «Nel nostro esperimento il contenuto metallico dell’elettrodo catodico è meno della metà rispetto al platino presente negli elettrolizzatori più performanti noti nello stato dell’arte. Ogni singolo atomo è coinvolto nella reazione di evoluzione di idrogeno, a differenza di quanto avviene con le nanoparticelle nelle quali solo gli atomi della superficie, e non tutti, partecipano alla reazione. Questo si traduce in un carico metallico più basso a parità di idrogeno prodotto». Le implicazioni della ricerca riguardano sia la chimica fondamentale della reattività di piccole molecole come l’acqua, che nuove prospettive per la produzione sostenibile di idrogeno verde. Il ricercatore Francesco Vizza ha così concluso: «Il meccanismo di evoluzione di idrogeno proposto sarà utile alla comunità scientifica per la progettazione di catalizzatori su scala atomica e dispositivi elettrocatalitici migliorati».


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evoluzione delle tecnologie fotovoltaiche e dell’optoelettronica emergente è affiancata dallo sviluppo di nuovi materiali di sintesi, anche su scala nanometrica. Tra questi, i nanocristalli colloidali di semiconduttori inorganici attirano uno straordinario interesse grazie alle loro proprietà ottiche ed elettriche ed alla prospettiva di processi sintetici a basso costo. Un gruppo di ricercatori afferenti all’Istituto di nanotecnologia (Cnr-Nanotec) di Lecce e all’Istituto di cristallografia (Cnr-Ic) di Bari del Consiglio nazionale delle ricerche, assieme ai colleghi dell’Università del Salento e dell’Istituto Italiano di TecnologiaIIt, ha elaborato un innovativo metodo di sintesi chimica che permette di ottenere una classe inesplorata di nanomateriali, detti calcoalogenuri di bismuto. Il bismuto è l’elemento chimico di numero atomico 83 e il suo simbolo è Bi. È un metallo pesante e fragile, di aspetto bianco-roseo e il cui comportamento chimico è simile a quello dell’arsenico e dell’antimonio. Il bismuto metallico non è considerato tossico e costituisce una minaccia minima per l’ambiente. I composti del bismuto hanno solitamente una solubilità molto limitata ma dovrebbero essere maneggiati con cura, in quanto esiste sempre limitata informazione sui loro effetti e destino nell’ambiente. Questi nanomateriali, conformi alla Direttiva UE che stabilisce restrizioni all’utilizzo di sostanze pericolose (RoHS), si sono rivelati molto stabili ed efficienti nell’assorbimento della luce solare. Tutto questo li candida a promettente alternativa ai semiconduttori contenenti piombo, diffusamente impiegati. I risultati della ricerca sono stati pubblicati su Angewandte Chemie ed oggetto di una domanda di brevetto. Danila Quarta, di Cnr-Nanotec e autrice della ricerca, ha spiegato: «Il nostro metodo di sintesi si è rivelato affidabile e versatile, consentendoci

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SEMICONDUTTORI SENZA PIOMBO? ORA SI PUÒ Ottenuti i calloalogenuri da una classe inesplorata di nanomateriali grazie a un innovativo metodo di sintesi

di esplorare la classe dei calcoalogenuri di bismuto e di prepararne nanocristalli puri. I nanocristalli di calcoalogenuri di bismuto sono stati utilizzati per la formulazione di inchiostri fotoattivi, con i quali sono stati realizzati elettrodi capaci di convertire luce solare in corrente elettrica, aprendo così alla possibilità di fabbricare dispositivi fotovoltaici, fotoelettrochimici e optoelettronici in maniera semplice e relativamente economica. Abbiamo dato avvio a un filone di ricerca che apre ad opportunità nuove, tutte da esplorare. Il nostro obiettivo ultimo è di contribuire

ad offrire una prospettiva nuova per la conversione dell’energia solare a basso impatto ambientale». Anna Moliterni di Cnr-Ic, ha aggiunto: «Questo metodo ci ha inoltre permesso di ottenere una nuova fase cristallina, la cui struttura è stata determinata per la prima volta dal nostro gruppo di ricerca». «I risultati dello studio indicano che con ogni probabilità potremmo individuare una serie di nuovi materiali, ancora da scoprire», ha dichiarato Liberato Manna, dell’Istituto Italiano di Tecnologia, coautore della ricerca. (P. S.). GdB | Aprile 2022

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CURARE L’INFARTO CON I NANOFILI Il lavoro è stato pubblicato su Nature Communications ed è frutto del lavoro di un team dell’Università di Parma con Cnr e Istituto Clinico Humanitas di Milano

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l carburo di silicio è un materiale ceramico composto da silicio e carbonio legati insieme. Viene generato per sintesi, ma si trova anche in natura sotto forma del rarissimo minerale moissanite. È annoverato tra i materiali superduri avendo una durezza molto elevata, intermedia tra il corindone e il diamante. La moissanite si trova solo in piccolissime quantità in alcuni tipi di meteorite e all’interno di depositi di corindone e kimberlite. Praticamente, tutto il carburo di silicio venduto nel mondo, tra cui vi sono anche i gioiel-

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li di moissanite, è sintetico. Mentre è molto raro sulla Terra, il carburo di silicio è molto comune nello spazio. Si tratta di una forma comune di polvere interstellare che si trova nei pressi di stelle ricche di carbonio. Inoltre, si suppone che possa costituire il mantello dei pianeti costituiti principalmente da carbonio. Una ricerca condotta dal team guidato da Michele Miragoli, docente di Tecnologie mediche sperimentali e applicate all’Università di Parma (Dipartimento di Medicina e Chirurgia), in collaborazione con il Cnr e l’Isti-

tuto Clinico Humanitas di Milano, ha dimostrato la possibilità di utilizzare nanofili in grado di fungere da bypass elettrici al fine di ripristinare la conduzione nell’infarto. L’infarto del miocardio ha una mortalità molto elevata in fase acuta, dovuta principalmente a blocchi di conduzione elettrica che sfociano in fatali aritmie. Il ripristino di questa conduzione alterata non viene generato da un intervento di bypass coronarico. Le diverse terapie utili a risolvere i blocchi di conduzione, necessitano di alcuni mesi per poter essere operative. Il gruppo del Laboratorio di Tecnologie Mediche Sperimentali e Applicate ha ideato e sperimentato nanofili semiconduttivi biocompatibili di carburo di silicio in grado di mettere in comunicazione elettrica cellule cardiache distanti tra loro. Una volta iniettati nell’infarto miocardico, i nanofili ripristinano il normale flusso di corrente dopo 5 ore dall’inserimento e consentono la risoluzione delle aritmie post-infarto. Il lavoro è stato pubblicato su Nature Communications. In un prossimo futuro l’utilizzo di nanostrutture impiantabili rappresenterà una applicazione sempre più diffusa. La possibilità di intervenire contemporaneamente non solo a livello emodinamico ma anche sul piano bioelettrico aprirà nuove e concrete possibilità interventistiche soprattutto dove la bioelettricità svolge un ruolo chiave nella normale funzione d’organo (cuore, cervello, muscolo). Ricordiamo che il primo autore del lavoro è Stefano Rossi del Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università di Parma, insieme a Paola Lagonegro e Francesca Rossi di Cnr-Imem. Il team e l’approccio sono stati interdisciplinari, grazie al coinvolgimento di Franca Bigi, docente del Dipartimento di Scienze Chimiche, della Vita e della Sostenibilità Ambientale dell’Università di Parma, di Silvana Pinelli del Centro di Eccellenza per la Ricerca tossicologica in collaborazione con Imem. (P. S.).


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in dai tempi più antichi il nostro cervello è stato in grado di manipolare e suggestionare l’interesse dell’essere umano riguardo il suo stesso funzionamento, in una sorta di curiosità riflessiva che si potrebbe quasi definire, usando un termine assai ambizioso, “meta-scientifica”. Furono probabilmente gli egizi i primi ad interrogarsi sulle funzioni del cervello, e per questo possono essere considerati una sorta di antesignani degli attuali neuroscienziati. Oggi, come è lecito aspettarsi, la neuroscienza moderna, anche grazie ai grandi progressi conseguiti durante il XX secolo nei campi della biologia molecolare, dell’elettrofisiologia e delle neuroscienze computazionali, è riuscita ad acquisire moltissime informazioni a riguardo. Negli ultimi anni in particolare l’attenzione degli scienziati si è focalizzata sul come il nostro cervello cambia e si evolve lungo il corso del tempo. Richard Behtlehem (neuroscienziato dell’Università di Cambridge) e Jakob Seidlitz (Università della Pennsylvania di Filadelfia) sono i primi autori di un importantissimo studio pubblicato sulla rivista Nature. Supportati da un team internazionale di ricercatori, gli scienziati, sulla base di oltre 120mila scansioni cerebrali di circa 100mila persone (la più grande raccolta del suo genere) ottenute con risonanza magnetica per immagini (Mri), hanno tentato di ricostruire l’evoluzione del nostro cervello. I grafici, seppure preliminari, mostrano visivamente come il cervello umano si espanda rapidamente nei primi anni di vita per poi ridursi lentamente con l’età. Gli autori del paper ci tengono ad avvertire che il loro database non è completamente inclusivo: i grafici risultanti sono solo una prima bozza e sarebbero necessarie ulteriori ricerche per implementarli in contesti clinici. L’evoluzione è stata tracciata a partire dal momento prima della nascita (circa 16 settimane dopo il concepimento) fino ai cento anni. Passando in rassegna i dati di ima-

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IL MONITORAGGIO DELLO SVILUPPO CEREBRALE Richard Behtlehem e Jakob Seidlitz, sulla base di oltre 120mila scansioni cerebrali di circa 100mila persone hanno tentato di ricostruire l’evoluzione del nostro cervello

di Michelangelo Ottaviano

ging (raccolti grazie alla condivisione di circa 100 studi di ricercatori di tutto il mondo) sono state messe in evidenza diverse curve di crescita per il cervello, rilevando come le diverse parti cambiassero a ritmi diversi: ciò significa che mentre l’intero organo matura, i contributi dei compartimenti cerebrali sottostanti a questa crescita sono diversi. Il volume della materia grigia, per esempio, raggiunge il suo massimo intorno ai 6 anni; quello della materia bianca continua a crescere fino ai 29, dopo i quali inizia a diminuire, accelerando la sua decrescita dopo i

50. Lo scopo di queste analisi è quindi quello di creare strumenti clinici di routine in grado di fornire una mappa di riferimento per determinare i cambiamenti e standardizzare il più possibile alcune misure. I risvolti pratici di questo studio consistono in un tool interattivo e in continua evoluzione chiamato BrainChart. Tale strumento (non ancora definitivo) permette infatti di visualizzare i grafici sull’andamento della crescita del cervello in percentili, in maniera analoga alle curve di crescita per peso ed altezza utilizzate dai pediatri. GdB | Aprile 2022

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IL ’700 DI VILLA DELLA PORTA BOZZOLO A due passi da Varese e dal Lago Maggiore un’elegante dimora con interni sono ricchi di effetti illusionistici e un giardino monumentale

di Rino Dazzo

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ra gli eleganti interni affrescati si assapora aria di nobiltà e si può viaggiare con la mente alle atmosfere idilliache di un passato fatto di feste e ritrovi, quando il fiore dell’aristocrazia lombarda si dilettava tra simposi artistici, discussioni storiche e letterarie o raffinati giochi da salotto. Tra le originali e scenografiche terrazze del suo monumentale giardino, invece, si respirano quiete e serenità, come se la pace e la bellezza di questo luogo incantato fossero state scolpite e modellate per l’eternità. È questo mix intrigante e suggestivo a fare di Villa Della Porta Bozzolo un posto magico, quasi unico nel suo genere. Una tipica «villa di delizia» del Settecento, ma dall’anima ancor più antica. Fu infatti il notaio Giroldino Della Porta, affermato esponente di una famiglia del posto

di umili origini ma con ambizioni di nobiltà, a cominciare nel XVI secolo l’edificazione di una dimora signorile e di dimensioni contenute nel cuore di un appezzamento di terreno acquistato a Casalzuigno, nel Varesotto. Circa 150 anni più tardi quella villetta dalle atmosfere agricole, dotata di rustici, torchio e cantina per produrre vino oltre che di una filanda per i bachi da seta, si trasformò nel più significativo esempio di barocco e rococò dell’intera Valcuvia. L’occasione fu offerta dalle nozze tra Gian Angelo III Della Porta e la contessina Isabella Giulini, antenata dello storico milanese Giorgio Giulini. Era il 1714 e in pochi anni la dimora estiva dei nobili sposini fu sottoposta a radicali cambiamenti, tali da farle assumere la fisionomia attuale. Lo stabile fu ampliato dagli interventi

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A poca distanza c’è l’Isolino Virginia sul Lago di Varese, appartenente al sito seriale «Siti palafittacoli preistorici dell’arco alpino», uno dei tanti tesori nascosti della zona.

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dell’architetto Antonio Mario Porrani, che si occupò anche di arricchire gli esterni. La novità, rispetto ai canoni tradizionali, è racchiusa nel fatto che il giardino fu allineato in parallelo con la facciata interna del fabbricato e non frontalmente rispetto ai saloni principali dello stesso. Grazie a questa originale trovata è venuto fuori il monumentale e baroccheggiante giardino all’italiana, equamente diviso in due parti simmetriche. Una è articolata su eleganti terrazze scolpite in pietra, scale, fontane e giochi d’acqua. L’altra è meno elaborata e risale la collina fino alla sua sommità: è il cosiddetto «giardino segreto», che conduce fino al suggestivo belvedere. Per le decorazioni di saloni e salottini, di gallerie e camere da letto fu invece commissionato alla bottega del pittore Pietro Antonio Magatti, alle cui dipendenze era pure Giovan Battista Ronchelli, un ciclo di affreschi di tipico stampo rococò, con illusionistiche architetture dipinte, miti, allegorie e trionfi di fiori colorati perfino sulle porte. Degli arredi originali sono rimasti un letto a baldacchino in damasco di seta gialla e gli armadi dello studio, per l’archivio di famiglia. Il resto proviene da donazioni succedutesi nel corso degli anni, ma restituisce comunque la classica atmosfera di una dimora patronale del ’700, con tanto di ricca biblioteca. La villa si mantenne ben curata fin quando la famiglia

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Della Porta ne ebbe le possibilità. Caduta in rovina, la residenza fu venduta nel XIX secolo prima ai Carpani, poi ai Richini e infine, nel 1877, alla famiglia di Camillo Bozzolo, senatore del neonato Regno d’Italia, da cui poi, nel 1989, è passata al Fai. Oltre che riportarla agli antichi splendori, il Fondo Ambiente Italiano ha aperto al pubblico la dimora e il suo splendido giardino, per un percorso di visita davvero coinvolgente. Si parte dalle passeggiate nel meraviglioso parco all’italiana, con uno sguardo obbligato alla fontana settecentesca realizzata dall’architetto Pellegatta, per risalire fino al «Giardino delle rose», una collezione di oltre 500 diverse varietà di rosa piantumate sui terrazzamenti del frutteto e nei parterre laterali dello scalone, rispettando le indicazioni racchiuse nei documenti dell’archivio della famiglia Della Porta. È in primavera che la fioritura regala colori e atmosfere uniche, ma lo stupore è assicurato anche ammirando la raffinatezza degli interni, tutti decorati con effetti illusionistici. Tra gli oggetti più caratteristici di Villa Della Porta Bozzolo c’è il «biribissi» appeso a una parete della Sala del Biliardo: si tratta di un antico gioco d’azzardo molto in voga nel XVIII secolo, considerato da molti come una sorta di antenato della roulette. La villa, oltre che una delizia per lo spirito, lo è anche per il palato. All’interno del sito è infatti presente il ristorante I Rustici, dove è possibile gustare prodotti tipici del territorio e le antiche ricette della tradizione. Inoltre, Villa Della Porta Bozzolo rappresenta il punto di partenza dell’affascinante itinerario dedicato alla scoperta dei vicini siti Patrimonio dell’Umanità UNESCO. A pochi passi, infatti, è l’Isolino Virginia sul Lago di Varese, appartenente al sito seriale «Siti palafittacoli preistorici dell’arco alpino», uno dei tanti tesori nascosti della zona. Non lontani sono pure la città di Varese e il meraviglioso Lago Maggiore.


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l ministero della Cultura ha assegnato circa 29 milioni di euro all’Emilia-Romagna affinché, tramite avviso pubblico, possa procedere al restauro e alla valorizzazione del patrimonio architettonico e paesaggistico rurale appartenente o detenuto a vario titolo da soggetti privati e del terzo settore. Gli interventi finanziati saranno un minimo di 192 e avranno lo scopo di mettere nuovamente a disposizione del pubblico le bellezze del territorio. Rientrano nel bando gli edifici e gli insediamenti storici che siano rappresentativi della storia delle popolazioni e delle comunità rurali, delle loro economie agricole tradizionali e dell’evoluzione del paesaggio. Spazio, quindi, a edifici rurali e manufatti destinati ad abitazione rurale o ad attività funzionali all’agricoltura, come mulini ad acqua o a vento, frantoi, caseifici ecc, connessi all’attività agricola circostante e che non siano irrimediabilmente alterati nell’impianto tipologico originario, nelle caratteristiche architettonico-costruttive e nei materiali tradizionali utilizzati. Accedono agli interventi di restauro anche fienili, ricoveri, stalle, bassi servizi, essiccatoi, forni, pozzi, sistemi idraulici, fontane, abbeveratoi, ponti, muretti a secco e simili, poiché rappresentativi del legame organico con l’attività agricola di pertinenza. A questi si aggiungono sia gli elementi della cultura, della religiosità e della tradizione locale, come cappelle, chiese rurali, edicole votive, ecc, sia quelli dei mestieri della tradizione connessi alla vita delle comunità rurali. Non rientrano nel bando *

Consigliere tesoriere dell’Onb

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29 MLN PER IL RESTAURO DEL PATRIMONIO DELL’EMILIA-ROMAGNA L’intervento fa parte degli obiettivi dell’Investimento 2.2 “Protezione e valorizzazione dell’architettura e del paesaggio rurale” stabiliti nell’ambito del Pnrr

di Pietro Sapia* le operazioni che coinvolgono beni situati nei centri abitati. Dario Franceschini, ministro della Cultura, ha spiegato come siano due i traguardi che si punta a raggiungere con il piano di opere. Da un lato preservare i valori dei paesaggi rurali storici attraverso la tutela e la valorizzazione dei beni della cultura materiale e immateriale e il mantenimento e ripristino della qualità paesaggistica dei luoghi, Dall’altro promuovere la nascita di iniziative e attività legate ad una fruizione turistico-culturale sostenibile, alle tra-

dizioni e alla cultura locale. Al finanziamento possono accedere persone fisiche e soggetti privati, enti del terzo settore, associazioni, fondazioni, cooperative, imprese in forma individuale o societaria, che possiedano o detengano a qualsiasi titolo gli immobili descritti. Le domande, che dovranno essere presentate entro il prossimo 20 maggio 2022, saranno valutate da un’apposita commissione nominata dalla regione Emilia-Romagna, nella quale sarà presente un delegato del ministero della Cultura. GdB | Aprile 2022

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Sport

JACOBS, È GIÀ D’ORO L’ANNO DELLE RIVINCITE MONDIALI Marcell ha vinto il titolo iridato indoor nei 60m a Belgrado e guarda con fiducia ai Mondiali di Eugene (Stati Uniti) e agli Europei di Monaco di Baviera (Germania). E intanto la staffetta 4x100 prova a togliersi un po’ di ruggine in vista dei grandi eventi del 2022 di Antonino Palumbo

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opo le Olimpiadi, i Mondiali indoor. Un altro oro a illuminare un palmares già scintillante, un altro record europeo. E l’impressione che a 28 anni abbia ancora margini di miglioramento e altri allori da inseguire. Veloce, come in pochissimi possono fare. Marcell Jacobs, sprinter italo-americano di Desenzano sul Garda, olimpionico ai Giochi di Tokyo lo scorso anno nei 100m piani e nella staffetta 4x100m, ha iniziato nel migliore dei modi la stagione che culminerà nei campionati del mondo (15-24 luglio) e negli Europei (15-21 agosto) di atletica leggera. «Tra luglio e agosto punterò al titolo iridato e a quello continentale all’aperto. Dovessi centrare entrambi, avrò un curriculum che nessuno ha avuto» ha raccontato Jacobs alla Gazzetta dello Sport. Un curriculum che a marzo, a Belgrado, si è arricchito con la medaglia d’oro nei 60 metri piani ai Mondiali indoor. L’azzurro ha battuto in rimonta gli statunitensi Christian Coleman e Marvin Bracy, i due rivali più attesi, chiudendo in 6”41 con il nuovo record europeo, un centesimo meno rispetto a quanto fatto segnare dal britannico Dwain Chambers a Torino nel 2009. È servito il fotofinish per decretare il

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vincitore e alla fine l’ha spuntata un raggiante Jacobs, per appena tre millesimi su Coleman, e tre centesimi su Bracy. «Per me era importante mostrare di essere il più forte quando più contava - le parole di Marcell dopo l’impresa di Belgrado - e sono contento di esserci riuscito, così come dimostrare che quanto avevo fatto alle Olimpiadi non era un caso ma il frutto di duro lavoro fatto negli anni». E pensare che sulla stessa pista serba, un paio di settimane prima, Jacobs era stato squalificato nella finale del meeting indoor di Belgrado per falsa partenza dopo un facile passaggio in finale. Al di là di questo imprevisto, l’avvicinamento di Marcell alla rassegna iridata è stato lastricato di successi sin dal mese febbraio, con tre vittorie in tredici giorni a Berlino in Germania, all’Orlen Cup di Lodz in Polonia e poi all’Arena Stade Couvert di Lievin, in Alta Francia. A fine mese è arrivata la pronosticabile vittoria, sempre sui 60 metri piani, ai Campionati italiani assoluti di Ancona, con una prestazione leggermente sottotono. Ai Mondiali l’oro sembrava invece destinato al collo di Coleman, campione uscente e primatista del mondo dei 60m piani indoor, nonché “principe” dei 100m piani (oltre che della


4x100m) ai Mondiali di Doha, gli ultimi disputati, nel 2019. Nelle ultime falcate, però, Jacobs è riuscito ad annullare il vantaggio di Bracy e Coleman, l’uno in corsia 4 e l’altro in corsia 3, primeggiando per appena tre millesimi. Fra i retroscena che hanno reso ancora più eclatante la rimonta di Jacobs, ce n’è uno raccontato dal suo allenatore Paolo Camossi a Tuttosport: «Avevamo calcolato che nella prima metà di gara Marcell potesse perdere 3040 centimetri e, invece, ha dovuto rimontare mezzo metro. Però ci è riuscito tuffandosi sul traguardo in maniera perfetta, per la prima volta nella sua carriera da velocista».

Niente male, insomma. «Sono contento perché mi sono messo alla prova in una specialità che non è la mia – ha detto ancora Jacobs – ma ora non vedo l’ora di tornare a fare i cento metri e sognare ancora». Il 18 maggio, intanto, il campionissimo nato a El Paso sarà in gara nei 200m al Meeting internazionale Città di Savona, sulla pista che lo lanciò verso il primato continentale e il trionfo ai Giochi. Dove potrà arrivare sui 100m Marcell, lo ha confidato lo stesso suo tecnico: «Partendo dal 9”80 di Tokyo, non è azzardato immaginare che possa correre poco sopra i 9”70». Non gli mancheranno certo gli avversari, più agguerriti che mai: dal “cagnaccio” Coleman a De Grasse, da Bromell a Omanyala”. Se Jacobs è ripartito da dove aveva iniziato, gli azzurri vincitori dell’oro nella staffetta 4x100m a Tokyo hanno iniziato a scrollarsi un po’ di ruggine (soprattutto nei cambi) e dovranno lavorare sodo per bissare il trionfo olimpico. A fine marzo, nel mezzo di una piovosissima settimana romana, Marcell Jacobs, Filippo Tortu, Fausto Desalu e Lorenzo Patta si sono ritrovati allo stadio Paolo Rosi dell’Acqua Acetosa, sette mesi dopo quell’incantata serata in terra giapponese. Agli ordini del responsabile della velocità azzurra Filippo Di Mulo e del collaboratore Giorgio Frinolli, gli azzurri sono tornati a esercitarsi nel passaggio di testimone e nella manualità dei cambi, che hanno avuto bisogno di qualche ripassatina. Di Mulo ha definito il raduno “un disastro, ma lo era stato anche nel 2021 e tutti sanno com’è andata a finire”. Il problema è che Jacobs, Patta, Desalu e Tortu avranno poche occasioni per prepararsi adeguatamente ai Mondiali di Eugene, negli Stati Uniti. I cambi sono stati, del resto, il punto di forza del quartetto azzurro a Tokyo 2021, che grazie a un lavoro specifico sulla manualità sono riusciti a migliorarsi di quasi tre secondi, cogliendo in un colpo solo record italiano e oro olimpico. Perché la storia possa arricchirsi di nuovi capitoli, però, c’è bisogno di lavoro, volontà e capacità di ottimizzare i rari allenamenti a disposizione: “Spero che in loro quattro – l’augurio di Di Mulo – prevalga l’orgoglio di essere campioni olimpici”. Lo speriamo anche noi. GdB | Aprile 2022

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LA BELLA STAGIONE DEL CICLISMO AZZURRO AL FEMMINILE Continua il momento d’oro delle ragazze italiane, trascinate da Balsamo e Longo Borghini, ma anche da Bastianelli, Cavalli e Consonni. Le “good news” delle nostre atlete

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e il 2021 è stato ricordato come l’anno di grazia del ciclismo femminile italiano, con tre titoli iridati e un bronzo olimpico, il 2022 sta facendo di tutto per essere all’altezza. Tra la fine dell’inverno e la prima parte della primavera, infatti, le azzurre hanno messo a segno una serie di prestigiosi risultati, ergendosi a protagoniste assolute del World Tour femminile. A dare l’esempio, sin dal debutto stagionale, è stata l’iridata Elisa Balsamo, arrivata a quattro successi e affiancata nelle sue imprese dalle varie Marta Bastianelli, Elisa Longo Borghini, Marta Cavalli, Chiara Consonni, con Sofia Bertizzolo e Sofia Persico nella scia. Aspettando il ritorno di un’altra stella, Letizia Paternoster. La squalifica alla Parigi-Roubaix per traino dell’ammiraglia non cancella lo splendido avvio di stagione della campionessa del mondo Elisa Balsamo. La 24enne cuneese ha lasciato il segno sin dalla prima uscita, aggiudicandosi la tappa inaugurale della Volta Comunitat Valenciana femminile. Dalla Spagna all’Italia, con il successo nel Trofeo Alfredo Binda - Comune di Cittiglio, alla vigilia della primavera, davanti a Sofia Bertizzolo e Soraya Paladin. E nei sette giorni successivi sono arrivate altre due gioie per Elisa, che in terra belga ha dettato legge nelle classiche Brugge-De Panne (con Marta Bastianelli terza) e Gent-Wevelgem in Flanders fields (con Maria Giulia Confalonieri a podio). A Wevelgem, la campionessa della Trek-Segafredo ha battuto allo sprint la grande Marianne Vos, in una riedizione della volata iridata dello scorso anno.

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Da un’Elisa all’altra: terza nella prima edizione della Parigi-Roubaix femminile, lo scorso anno, Longo Borghini ha vinto per distacco l’edizione 2022. Dopo aver attaccato su un tratto in pavé a 30 km dall’arrivo, la 30enne campionessa italiana ha colto con merito il successo numero 30 in carriera. Con lode. E pensare che, alla vigilia, la piemontese rischiava di vedere il velodromo di Roubaix col binocolo, per problemi fisici. Dal team, però, hanno visto lungo: “Vieni perché puoi vincere”, le hanno comunicato. Detto, fatto. L’inno di Mameli ha risuonato anche all’Amstel Gold Race femminile e alla Flèche Wallonne, in entrambi i casi con Marta Cavalli. Il 10 aprile la 24enne cremonese ha apposto il proprio sigillo sulla classica olandese con un attacco a 1700 metri dall’arrivo, appena dopo lo scollinamento del Cauberg, resistendo al tentativo di rimonta delle olandesi Demi Vollering (seconda) e Annemiek Van Vleuten (quarta) di rimonta. Prima italiana a conquistare il podio – e che podio! - in otto edizioni dell’Amstel Gold Race femminile, la portacolori della Fdj-Nouvelle Aquitaine si è ripetuta nella Flèche Wallonne, contenendo e poi rimontando laVan Vleuten sul tremendo Mur de Huy, con Vollering terza a una manciata di secondi. “Piccolo” e significativo dettaglio: con i tre successi di Elisa Balsamo, i due di Marta Cavalli e quello di Elisa Longo Borghini, le cicliste italiane hanno “firmato” sei dei primi nove appuntamenti del Women’s World Tour, il massimo circuito femminile di ciclismo. L’avversaria da battere, nella classi-


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fica generale, sarà la belga Lotte Kopecky, vincitrice della Strade Bianche Donne e del Giro delle Fiandre, oltre che seconda alla Parigi-Roubaix dietro Elisa Longo Borghini e terza alla Ronde van Drenthe. Tre successi nell’ultima parte d’inverno e una straordinaria costanza di rendimento e piazzamenti anche nelle prime classiche di primavera: anche Marta Bastianelli continua a far parlare di sé. Oltre alle affermazioni nella Vuelta CV Feminas, nella quarta tappa della Volta Comunitat Valenciana femminile e nella Omloop van hed Hageland, l’ex campionessa europea portacolori dell’UAE Team ha firmato una serie di podi e Top 5, giungendo poi decima nel Giro delle Fiandre (vinto nel 2019) e quindicesima nella Parigi-Roubaix. Bergamasca di Ponte San Pietro, 23 anni da compiere a fine giugno, Chiara Consonni ha dato il suo contributo al “rinascimento italiano” aggiudicandosi allo sprint la Dwars door Vlaanderen - A travers la Flandre, gara

Elisa Balsamo. Con i tre successi di Elisa Balsamo, i due di Marta Cavalli e quello di Elisa Longo Borghini, le cicliste italiane hanno “firmato” sei dei primi nove appuntamenti del Women’s World Tour, il massimo circuito femminile di ciclismo.

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della UCI Women’s ProSeries, il secondo circuito per importanza del ciclismo femminile. Per lei, sinora, anche tre secondi posti in gare minori e due settimi posti a livello World Tour, alla Miron Ronde van Drenthe e alla Brugge-De Panne. A rimpinguare il bottino dell’onda azzurra, nel ciclismo femminile, c’è anche l’affermazione nel Trofeo Oro in Euro Women’s Bike Race di Sofia Bertizzolo, che ha confermato poi le sue doti con il secondo posto a Cittiglio dietro l’iridata Balsamo e le Top 10 all’Amstel Gold Race e alla Flèche Brabançonne. Classe 1997 come Bertizzolo, Silvia Persico sta solo aspettando il momento della raccolta, dopo una serie di interessanti piazzamenti fra le prime dieci in corse di livello come la Strade Bianche Donne e il Trofeo Alfredo Binda - Comune di Cittiglio in Italia, la Gent-Wevelgem e la Flèche Brabançonne in Belgio, oltre all’undicesimo posto al Fiandre. (A. P.) GdB | Aprile 2022

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Sport

Riccardo Gagno mentre sta per calciare la palla che finirà nella rete avversaria.

GLI EROI CHE NON TI ASPETTI I PORTIERI CHE FANNO GOL Riccardo Gagno, 24enne numero 1 del Modena (Serie C), ha segnato con un rinvio dalla propria area, emulando le imprese di Rampulla, Taibi, Amelia e Brignoli

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l ruolo del numero 1, si sa, è sempre stato quello di estremo difensore. Succede, però, a volte, che l’imprevedibilità di questo sport regali al più solitario degli attori in campo una gloria inaspettata, che non sia quella di un rigore parato, un volo all’incrocio dei pali, un’istintiva respinta su un avversario lanciato a rete. Chi segue il calcio da qualche lustro ricorderà nomi come Rampulla, Taibi, Amelia. I tifosi navigati potrebbero avere familiarità anche con quelli di Sentimenti e Rigamonti, mentre storia recente è Brignoli, entrato nella storia del Benevento. Tutti portieri e tutti, once in a lifetime, anche goleador.

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L’ultimo estremo difensore a entrare in questo ristretto “club” è Riccardo Gagno, 24enne portiere veneto del Modena, che in pieno recupero ha deciso con un rinvio dalla propria area di rigore la sfida tra la sua squadra e l’Imolese, valida per la trentaseiesima giornata del girone B di Serie C. Un match importante sulla strada verso la categoria superiore per i “canarini” che, però, stavano incappando in un clamoroso pareggio nel derby con l’Imolese penultima in classifica. E quando le partite sono agli sgoccioli, se il risultato non arride, non c’è spazio per costruzioni dal basso e tatticismi vari: rinvio lungo e palla agli attaccanti, magari tre o quattro, perché quando devi

vincere, metti in campo tutti quelli che hai.Stavolta, però, il lancio della speranza si è trasformato nell’impresa da raccontare a figli e ai nipoti. La palla calciata da Gagno è arrivata direttamente nell’area avversaria, rimbalzando davanti al collega Gian Maria Rossi e terminando la sua corsa nella porta, fra l’incredula gioia di giocatori, staff e tifosi nonché quella dello stesso eroe “auto-annunciato”. Poco prima del match, per scherzo, Gagno aveva confidato ai compagni che sarebbe stato lui a risolvere la partita. Il primo portiere a segnare un gol in serie A, rigori esclusi, è stato Michelangelo Rampulla, portiere della Cremonese, il 23 febbraio 1992: punizione di Chiorri dalla destra, uscita a vuoto di Ferron e colpo di testa vincente del trentenne siciliano. Anche dal dischetto, tuttavia, erano stati rari i casi di portieri-goleador: Lucidio Sentimenti ha trasformato cinque rigori, il primo dei quali al fratello Arnaldo in un Napoli-Modena del 1942; Antonio Rigamonti ne ha messi a segno tre negli anni Settanta. Se si esclude il bulgaro Dimitar Ivankov, fra il 1996 e il 2011, i portieri-tiratori sono una tradizione soprattutto sudamericana: dal brasiliano Rogerio Ceni al paraguaiano Josè Luis Chilavert, dal colombiano Renè Higuita al peruviano Johnny Vegas. Nove anni dopo Rampulla, il 1° aprile 2001, è stato invece Massimo Taibi, portiere della Reggina a siglare l’1-1 contro l’Udinese, al minuto 43 del secondo tempo e alla presenza numero 196 in serie A. Un gol alla Vieri, di testa su corner dalla sinistra, che ricorda quello segnato dal centravanti della Nazionale contro la Corea del Sud l’anno dopo. E a proposito di azzurri, pochi mesi dopo il trionfo con l’Italia ai Mondiali 2006, Marco Amelia è diventato il primo portiere italiano a segno in una competizione internazionale, con l’1-1 in casa del Partizan Belgrado determinante per il passaggio ai sedicesimi di finale della Coppa Uefa. L’ultima rete di un portiere in A, ad oggi, resta quella di Alberto Brignoli, che il 3 dicembre 2017 ha acciuffato il 2-2 con il Milan, regalando al Benevento il primo, storico punto in Serie A. (A. P.)


Sport

L’

atteso week-end di Imola si è tinto di rosso solo sulle tribune, con il popolo della Ferrari che s’aspettava qualcosa più, dopo il fantastico avvio di stagione. La buona notizia, però, per gli appassionati di Formula 1, assieme alle nuove regole che paiono agevolare lo spettacolo, è che il Cavallino Rampante è tornato e la passione rossa è tornata a pulsare, spinta da prestazioni e risultati. La classifica del Mondiale, dopo quattro appuntamenti, sorride a Maranello: Charles Leclerc primo fra i piloti con 86 punti, davanti a campione in carica Max Verstappen della Red Bull che ne ha 59; Scuderia Ferrari in testa fra i costruttori a quota 124, + 11 su una Red Bull apparsa però in “palla” nel GP del Made in Italy e dell’Emilia-Romagna. Dopo annate da incubo, la Ferrari è arrivata con l’abito dei giorni migliori. Telaio e sospensioni al top, unite a un motore che ha permesso al Cavallino di recuperare i 20 cavalli che le mancavano. I risultati dell’Alfa Romeo e della Haas, motorizzate Ferrari, confermano l’eccellente lavoro svolto a Maranello. L’avvio di stagione è stato da sogno per la Ferrari, anche se nella doppietta Leclerc- Sainz nel GP del Bahrain ci ha messo lo zampino anche l’autogol della Red Bull: problema tecnico per Verstappen, dopo un duello mozzafiato con Leclerc, e testa coda per Perez mentre era terzo, il tutto negli ultimi giri. Al di là del fattore-fortuna, però, le Rosse sono apparse in forma smagliante sin dalle prove con Leclerc in pole position davanti a Verstappen e Sainz terzo. Nel GP è arrivata la rivincita di Verstappen, che ha sorpassato Leclerc a tre giri dalla fine e ha “ringraziato” le bandiere gialle, che hanno impedito a Charles di tentare il controsorpasso all’ultimo respiro. La Ferrari, però, è salita sul podio con entrambi i piloti, con Leclerc che si è preso anche il punto addizionale del giro veloce. Il gran premio d’Australia è stato un autentico monologo del monegasco della Ferrari, in testa dall’inizio alla fine con la sua F1-75 all’Albert Park di Melbourne. Per Leclerc anche pole position e giro veloce. La Red Bull ha salvato l’onore con

La Ferrari di Charles Leclerc.

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PASSIONE ROSSA: LA FERRARI FA SOGNARE L’ITALIA La scuderia di Maranello comanda le classifiche piloti e costruttori del Mondiale dopo quattro gare. Ma dal GP di Imola la Red Bull è uscita con certezze rafforzate

il secondo posto di Sergio Perez, ma ha dovuto digerire un altro di Verstappen per un problema al motore. Fuori anche Carlos Sainz, con l’altra Ferrarii, dopo una partenza molle e l’uscita di gara al secondo giro, nella curva 10. La seconda vittoria di Leclerc in tre gran premi, sommata alla solidità delle prestazioni della Ferrari, hanno portato alla vendita di 120mila biglietti per il GP del Made in Italy e dell’Emilia-Romagna e al sold-out di alberghi e b&b fin sulla Riviera Romagnola. A Imola, però, la Red Bull si è presentata con importanti modifiche: i tecnici del team hanno lavorato sul fondo e su alcune componenti metalliche per ridurre la massa totale.

Le novità, sommate a qualche errore dei ferraristi e un po’ di sfortuna per le Rosse, hanno disegnato un fine settimana perfetto per la scuderia anglo-austriaca. Verstappen ha vinto sia la Sprint Race, sia la gara della domenica, precedendo nell’una Leclerc e nell’altra il compagno di squadra Perez. Il primo errore stagionale nelle fasi finali, ha inoltre costretto il leader del Mondiale a digerire un amaro sesto posto. Una delusione, per il popolo Ferrari, parzialmente attutita dalla consapevolezza che, malgrado Imola, quest’anno la scuderia di Maranello e i suoi piloti hanno le carte in regola per lottare, dopo anni, per entrambi i titoli iridati. (A. P.) GdB | Aprile 2022

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LA BIOLOGIA IN BREVE Novità e anticipazioni dal mondo scientifico

a cura di Rino Dazzo

RICERCA Malattie cardiovascolari aumentano rischi demenza

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iabete, obesità, ipertensione o fumo, oltre che favorire lo sviluppo di malattie cardiovascolari, possono contribuire anche a sviluppare Demenza. Lo afferma uno studio condotto dai ricercatori dell’università svedese di Umea, che hanno seguito e analizzato l’evoluzione dello stato di salute di 1.244 persone per un periodo massimo di 25 anni. Tutti, all’inizio della ricerca, avevano una buona salute cardiovascolare. Nel corso degli anni il 6% dei partecipanti ha sviluppato Demenza da Alzheimer, il 3% Demenza da malattie vascolari. Rispetto alle persone con rischio stabile di malattie cardiovascolari, quelle con maggiori fattori di rischio hanno avuto una probabilità tre o quattro volte maggiore di andare incontro a Demenza da malattie vascolari.

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ONCOLOGIA Nuova terapia genica contro i tumori al cervello

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na terapia genica basata su una piccola nanoparticella per il trattamento dei tumori cerebrali. Gli studi di laboratorio su un modello murino condotti dai ricercatori della Bing-Yang Shi University hanno dato ottimi risultati, con inibizioni significative nella crescita del tumore nei topolini con glioblastoma rispetto agli animali sottoposti a terapie geniche tradizionali. L’innovativa terapia, denominata CRISPR-Cas9, utilizza una particolare tecnologia di editing genetico costituita da un sottile guscio polimerico reticolato che incapsula complessi di Cas9, nanoparticella con carica superficiale quasi neutra. Questo metodo ha consentito, negli ultimi studi, di superare le difficoltà legate alle precedenti sperimentazioni di CRISPR-Cas9, condite da effetti collaterali piuttosto significativi.


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INNOVAZIONE Curcuma al posto di idrogeno per carburante green

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urcuma in luogo dell’idrogeno per lo sviluppo di un carburante green. È la scoperta dei ricercatori statunitensi del Clemson Nanomaterials Institute e dei loro collaboratori dello Sri Sathya Sai Institute of Higher Learning, in India, che hanno combinato le nanoparticelle d’oro con la curcumina e realizzato un elettrodo che richiede cento volte meno energia per convertire l’etanolo in elettricità.

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SALUTE Arriva il farmaco contro l’apnea notturna

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desso per l’apnea notturna c’è un vero e proprio trattamento farmacologico. Lo hanno sviluppato gli studiosi dell’Università di Goteborg, con esiti incoraggianti in fase di sperimentazione visto che le pause respiratorie sono diminuite con medie superiori a venti all’ora. Il trattamento è basato sull’inibizione di CA, l’anidrasi carbonica, enzima che serve a mantenere in equilibrio acido carbonico e anidride carbonica nel corpo. I 59 pazienti oggetti dello studio, a cui sono stati forniti farmaci, hanno visto ridurre le pause respiratorie e migliorare l’ossigenazione durante il sonno. Gli effetti collaterali? Mal di testa e affanno, più comuni nei soggetti che hanno ricevuto dosi più alte di farmaco rispetto a quelli con dosi moderate. I trattamenti per l’apnea notturna, finora, si erano basati su apparecchi orali o maschere.

NUTRIZIONE Verdure in casa col dispositivo dell’Enea

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n sistema per coltivare verdure in casa in modo semplice, sostenibile, economico e assolutamente naturale: lo stanno sviluppando i ricercatori dell’Enea, al lavoro su un dispositivo mobile dalle dimensioni adatte ad alloggiare le piante da coltivare che può essere sistemato all’interno delle abitazioni. L’apparecchio è costituito da un sistema di illuminazione basato su led che forniscono alle piante luce e intensità adeguate alla fotosintesi e alla crescita e che va abbinato a una ventilazione adatta ai fabbisogni di piante e verdure e all’utilizzo di terreno, terriccio o compost convenzionale. I primi esperimenti hanno riguardato lo zafferano e sono perfettamente riusciti. Attualmente è in corso la sperimentazione per lattuga e pomodoro. Il progetto di Enea non comporta particolari competenze ed è low-cost.

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Lavoro

CONCORSI PUBBLICI PER BIOLOGI STAZIONE ZOOLOGICA “ANTON DOHRN” DI NAPOLI Scadenza, 2 maggio 2022 Concorso pubblico, per titoli, per la copertura di un posto di dirigente di ricerca I livello, a tempo pieno e indeterminato, per il Dipartimento biotecnologie marine ecosostenibili. Gazzetta Ufficiale n. 26 del 01-04-2022. UNIVERSITÀ DI BOLOGNA “ALMA MATER STUDIORUM” Scadenza, 3 maggio 2022 Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato della durata di trentasei mesi e pieno, settore concorsuale 05/B1 - Zoologia e antropologia, per il Dipartimento di scienze biologiche, geologiche e ambientali. Gazzetta Ufficiale n. 25 del 29-03-2022. AZIENDA SANITARIA UNIVERSITARIA FRIULI CENTRALE DI UDINE Scadenza, 5 maggio 2022 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di dirigente biologo, disciplina di patologia clinica. Gazzetta Ufficiale n. 27 del 05-04-2022. AZIENDA SANITARIA LOCALE NAPOLI 1 CENTRO – NAPOLI Scadenza, 8 maggio 2022 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di quattro posti di dirigente biologo, disciplina di igiene degli alimenti e della nutrizione, a tempo indeterminato. Gazzetta Ufficiale n. 28 del 08-04-2022. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI SCIENZA E TECNOLOGIA DEI MATERIALI CERAMICI DI FAENZA (RAVENNA) Scadenza, 1° maggio 2022

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È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 01 Assegno Professionalizzante per lo svolgimento di attività di ricerca inerente l’Area Scientifica “Scienza e Tecnologia dei Materiali” da svolgersi presso l’Istituto di Scienza e Tecnologia dei Materiali Ceramici del CNR, Faenza (RA) che effettua ricerca nell’ambito del progetto “NANOBIOCER: Nano-bioceramici per la salute e l’ambiente” sotto il coordinamento della dott.ssa Monica Montesi. La tematica di riferimento riguarda lo “sviluppo di nuovi ceramici bioattivi nanostrutturati per applicazione in ambito biomedicale e ambientale”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI NANOTECNOLOGIA DI LECCE Scadenza, 2 maggio 2022 È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 Assegno di Ricerca Post Dottorale per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area Scientifica “Physics” da volgersi presso la Sede Primaria di Lecce l’Istituto di Nanoteconologia NANOTEC) del CNR sulla seguente tematica: “Fabbricazione e caratterizzazione di dispositivi microfluidici (organ-onchip)” nell’ambito del progetto di ricerca FLAMIN-GO. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO SULL’INQUINAMENTO ATMOSFERICO DI RENDE (COSENZA) Scadenza, 5 maggio 2022 È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n.

1 Assegno di Ricerca “professionalizzante” per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area Scientifica “ Terra e Ambiente” da usufruirsi presso l’Istituto sull’Inquinamento Atmosferico del CNR c/o il Dipartimento Interateneo di Fisica “M. Merlin” dell’Università di Bari, afferente alla Sede secondaria IIA di Rende (CS) per lo svolgimento delle seguenti attività: “Utilizzo di dati satellitari nell’ottico e nelle microonde per l’estrazione di mappe di land cover e habitat mediante tecniche di classificazione pixel- e object-based”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI INFORMATICA E TELEMATICA DI PISA Scadenza, 6 maggio 2022 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n.1 (una) borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Bioinformatica” da usufruirsi presso l’Istituto di Informatica e Telematica del CNR di Pisa, nell’ambito del progetto “CRCSCREEN”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO PER LA BIOECONOMIA DI ROMA Scadenza, 9 maggio 2022 È indetta una pubblica selezione per titoli, integrata eventualmente da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Ecologia e Biodiversita” da usufruirsi presso l’Istituto per la BioEconomia (IBE) del CNR, Sede di Roma, nell’ambito dell’Accordo di collaborazione per la realizzazione del progetto “Censimento, distribuzione ed ecologia dei Rettili


Lavoro

nel territorio del Parco Nazionale Del Cilento, Vallo di Diano e Alburni”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI BIOSCIENZE E BIORISORSE DI BARI Scadenza, 9 maggio 2022 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 01 borsa di studio per laureati di mesi 12 (dodici) per ricerche inerenti l’area scientifica “Scienze Bioagroalimentari” da usufruirsi e da svolgersi presso l’Istituto di Bioscienze e BioRisorse del CNR di Bari (con possibili sopralluoghi presso i campi sperimentali) nell’ambito del Progetto finanziato dal GAL-IRPINIA-SANNIO CILSI nell’ambito PSR Campania 2014/2020 - Misura 16 “Cooperazione” - Tipologia di Intervento16.1.1 “Sostegno per la costituzione e il funzionamento dei GO del PEI in materia di produttività e sostenibilità dell’agricoltura” - Azione 2 “Sostegno ai Progetti Operativi di Innovazione (POI) PSR-CAMPANIA 2014-2020 PANPRO – Valorizzazione della biodiversità delle leguminose locali per la produzione di pane a base di proteine vegetali NELL’AMBITO DELLA SEGUENTE TEMATICA--:-“Valutazione dell’adattabilità e pratiche agronomiche sostenibili di leguminose da granella”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI BIOMEMBRANE, BIOENERGETICA E BIOTECNOLOGIE MOLECOLARI DI BARI Scadenza, 9 maggio 2022 È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di N. 1 assegno Tipologia di Assegno: A) “Professionalizzante” per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area Scientifica “Scienze Biomediche” conferito dall’Istituto di Biomembrane, Bioenergetica e Biotecnologie Molecolari CNR di Bari sotto la responsabilità scientifica del Prof. Graziano Pesole, nell’ambito del Progetto ELIXIR FOE previsto nella Roadmap Esfri CUP

B52F20001100005 per la seguente tematica: “Disegno e realizzazione di una database relazionale per la collezione, l’interrogazione e l’analisi integrata sia dei dati che dei metadati relativi al microbiota intestinale e salivare umano correlato a diverse condizioni patologiche”. Per informazioni, www. cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI BIOLOGIA E PATOLOGIA MOLECOLARI DI ROMA Scadenza, 16 maggio 2022 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa/e di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Oncologia” da usufruirsi presso l’Istituto di Biologia e Patologia Molecolari del CNR di Roma, nell’ambito del progetto AIRC IG-2021 ID25648 “The Aurora-A/TPX2 complex from mitosis to interphasic roles: novel therapeutic opportunities”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO PER L’ENDOCRINOLOGIA E L’ONCOLOGIA “GAETANO SALVATORE” DI NAPOLI Scadenza, 16 maggio 2022 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Scienze Biomediche” da usufruirsi presso l’Istituto per l’Endocrinologia e l’Oncologia Sperimentale del CNR di Napoli, nell’ambito di: “PROGETTI TRASFERIMENTO TECNOLOGICO E DI PRIMA INDUSTRIALIZZAZIONE PER LE IMPRESE INNOVATIVE AD ALTO POTENZIALE PER LA LOTTA ALLE PATOLOGIE ONCOLOGICHE CAMPANIA TERRA DEL BUONO – Titolato: “Valutazione di nuovi mediatori dell’interazione tumore-stroma nei Carcinomi del colon”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE

RICERCHE – ISTITUTO DI SCIENZE MARINE DI TRIESTE Scadenza, 25 maggio 2022 È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 Assegno di Tipologia B) “Assegno Post Dottorale” per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area Scientifica “Scienze del sistema Terra e tecnologie per l’ambiente” da svolgersi presso l’Istituto di Scienze Marine del CNR, sede di Trieste (TS), che effettua ricerca nel campo delle Scienze Marine, sulla seguente tematica di ricerca “Sviluppo di una piattaforma di gestione, integrazione ed elaborazione di dati ambientali e meteo-marini in ambito ICOS per l’implementazione dei servizi 8 QC/QA ed interoperabilità” nell’ambito del Progetto di rafforzamento del capitale umano CIR01_00019 – PRO-ICOS_MED “Potenziamento della Rete di Osservazione ICOS-Italia nel Mediterraneo -Rafforzamento del capitale umano” dell’infrastruttura di ricerca denominata ICOSERIC - Integrated Carbon Observation System”. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI BIOLOGIA E BIOTECNOLOGIA AGRARIA DI MILANO Scadenza, 25 maggio 2022 È indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di un assegno di tipologia Post Dottorale per lo svolgimento di attività di ricerca inerente all’Area Scientifica Area Scientifica 07 Scienze agrarie e veterinarie presso la sede di Milano dell’Istituto di Biologia e Biotecnologia Agraria del CNR che effettua ricerche nell’ambito del Programma di ricerca “SURF - Selezione e sviluppo di materiali genetici per la resistenza alle virosi del frumento”, Bando per il finanziamento di progetti di ricerca in campo agricolo e forestale di Regione Lombardia (Bando 2018 d.d.s. n. 4403 del 28/03/2018), per la seguente tematica: “Sviluppo di linee mutate di frumento, mediante tecniche di colture in vitro per l’induzione di calli e la rigenerazione di plantule”. Per informazioni, www. cnr.it, sezione “concorsi”. GdB | Aprile 2022

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Biologia ed ecologia del microbiota della vite Come diverse tecniche di coltivazione della specie, in combinazione con varietà di suolo e clima, possono portare a differenti caratteristiche organolettiche del prodotto finale

di Miriana Paolieri*

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a vite (Vitis vinifera L.) è una pianta arborea perenne di notevole importanza economica a livello globale. La diversità nelle tecniche di coltivazione della specie, in combinazione con le diverse tipologie di suolo e clima, portano a differenti caratteristiche organolettiche del prodotto finale. Tali caratteristiche dipendono però fortemente anche da ulteriori fattori, come la localizzazione geografica del vigneto e, soprattutto, la flora microbica associata alla pianta [1]. Le piante come olobionti Nonostante siamo naturalmente portati a pensare alle piante come organismi a sé stanti, in realtà esse ospitano una miriade di microrganismi (tra cui batteri e funghi), la maggioranza dei quali ha effetti benefici o trascurabili per la pianta. Il concetto al quale dobbiamo fare riferimento è infatti quello di “olobionte”, ossia di un super-organismo risultato dalle interazioni tra l’organismo ospite stesso (la pianta) e tutti i microrganismi che lo popolano. I microrganismi possono infatti contribuire alla salute della pianta tramite l’induzione di resistenza contro patogeni o stress abiotici. La pianta, a sua volta, può favorire la crescita di determinati microrganismi selezionandoli tramite il rilascio di essudati radicali e ormoni. La natura di tali rapporti è quindi altamente dinamica, risultato della continua coevoluzione tra pianta e microrganismi dell’ecosistema [1, 2]. Le basi della teoria ologenomica dell’evoluzione, che vede gli organismi come olobionti appunto, sono emerse nel 2008 e si fondano sostanzialmente su quattro assiomi: (1) tutti gli animali e le piante terrestri stabiliscono relazioni simbiotiche con i microrganismi; (2) tali microrganismi sono trasmessi alle generazioni successive; (3) l’asLaureati in Biotecnologie, collaboratrice di BioPills: il vostro portale scientifico.

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sociazione tra organismo ospite e microrganismi simbionti influenza la fitness dell’olobionte nell’ambiente in cui vive; (4) eventuali variazioni nell’ologenoma derivano da cambiamenti nel genoma dell’ospite e/o in quello del microbiota [1]. Le interazioni delle piante con i funghi e i batteri, in particolare, sono guidate dall’abilità dei microrganismi di stabilirsi e di creare nuove nicchie ecologiche sulle superfici della pianta o all’interno dei suoi tessuti. Tali evidenze ci portano a considerare il microbioma come “l’insieme di tutti geni di tutti i microrganismi che costituiscono il microbiota all’interno dell’olobionte” [1]. Di conseguenza, il microbiota può esser visto come “un secondo genoma della pianta”, ossia una fonte supplementare di geni e di funzioni che si rendono necessari alla sopravvivenza della pianta stessa. Per quanto riguarda la vite, il microbiota è stato trovato in stato latente o attivo in ciascun organo della pianta, dall’apparato radicale alle parti aeree, sia in forma endofita (ossia all’interno dei tessuti) che epifita (ossia sulle superfici dei tessuti). Tutte le comunità batteriche e fungine associate ai vari organi della pianta sono altamente influenzate dalla composizione tassonomica della rizosfera (ossia la porzione di suolo che circonda le radici), la quale risulta essere il serbatoio principale di microrganismi per la colonizzazione della pianta [1, 2, 3]. Origine e struttura del microbiota della vite Il fatto che i microrganismi non colonizzino solo le superfici esterne della pianta ma vengano ritrovati anche nei suoi tessuti interni sotto forma di endofiti suggerisce la presenza di punti di entrata che facilitino la penetrazione e la colonizzazione dei tessuti. L’apparato radicale offre varie porte di ingresso ai microrganismi, come le giunzioni intercellulari dell’epidermide dove emergono i peli radicali e le radici secondarie. Generalmente, la penetrazione avviene nella zona


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di distensione e differenziamento della radice. In alternativa, anche le aperture causate da ferite sulla superficie radicale sono ampiamente utilizzate dai microrganismi per colonizzare i tessuti interni della pianta [1, 2]. Nel processo di colonizzazione attraverso l’apparato radicale della vite, sembra che circa il 28% dei microrganismi della rizosfera riesca a colonizzare l’endosfera della radice, mentre il 4% è in grado di raggiungere © barmalini/shutterstock.com le parti aeree. Pertanto, nonostante le popolazioni endofite sembrino originare dalle popolazioni microbiche della rizosfera, esse presentano in genere una minor biodiversità rispetto a quest’ultime. Non a caso, dal punto di vista tassonomico, è emerso che le varie comunità microbiche presenti su foglie, grappoli e fiori della vite hanno in comune molti più taxa con il sistema suolo di quanti non siano condivisi tra di esse [3]. Per quanto riguarda appunto le parti aeree della pianta, sono state descritte diverse vie d’entrata dei microrganismi, come i tricomi o gli stomi presenti sulle foglie. Inoltre, è stato visto che alcuni epifiti possono provenire da operazioni agronomiche come aratura e dissodamento, le quali generano una polvere che può depositarsi sulle parti aeree della pianta. Anche gli insetti succhiatori o con

Figura 1. Fattori che influenzano la composizione e la struttura del microbiota della vite. Da [1], CC BY-NC-ND 4.0.

pungiglione (ad esempio cicaline e vespe) possono iniettare microrganismi direttamente nel sistema vascolare della pianta. Gli insetti sono anche coinvolti nella dispersione dei microrganismi sugli acini, come le api ed alcune larve di lepidotteri [1]. Negli ultimi anni è emerso come la pianta eserciti un ruolo fondamentale nella selezione del proprio microbiota, in particolar modo degli endofiti, favorendo pertanto quei microrganismi che meglio si adattano a vivere al suo interno. A partire dalla microflora presente nella porzione di suolo attorno alle radici, la pianta esercita infatti una prima selezione tramite il continuo rilascio di particolari sostanze, note come essudati radicali. La rizosfera è di fatto la regione dove si ha una concentrazione maggiore di tali sostanze, che costituiscono peraltro un substrato nutrizionale molto apprezzato dai microrganismi. Attraverso il rilascio di proteine e zuccheri, le radici modificano così la composizione della comunità microbica nelle sue immediate vicinanze, esercitando un’azione importante anche sulle proprietà chimico-fisiche del suolo stesso. Nonostante la produzione degli essudati radicali rappresenti un notevole costo in termini energetici per la pianta, in realtà esso rappresenta un vantaggio in termini evolutivi. I microrganismi che si nutrono degli essudati radicali fanno sì che la pianta possa assorbire meglio i nutrienti dal terreno, contribuendo a proteggerla da eventuali attacchi da parte degli organismi patogeni [2]. Per quanto riguarda la dispersione del microbiota da pianta a pianta e dalla pianta verso l’ambiente circostante, sono diversi i meccanismi che entrano in gioco, come l’anemocoria e la zoocoria, ossia la dispersione rispettivamente attraverso il vento e gli animali [1]. I microrganismi sono generalmente più numerosi nelle parti lignificate che nei GdB | Aprile 2022

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© kwest/shutterstock.com

tessuti più giovani e verdi, mentre sono più rari nei frutti e nei fiori della vite. In quest’ultimi, ad esempio, si possono trovare alcune centinaia di colonie di batteri coltivabili per grammo, mentre arriviamo a qualche migliaio nei tessuti verdi e circa un milione nelle radici. Più specificatamente, come già detto, sembra che la ricchezza in specie dei batteri diminuisca sensibilmente spostandosi dal suolo alle parti aeree, similmente a quanto osservato per le popolazioni fungine [2, 3]. I microrganismi epifiti Se il ruolo che hanno i microrganismi epifiti delle radici nel facilitare l’assorbimento di sostanze nutritive e nel proteggere la pianta sia noto oramai da tempo, un discorso a parte va fatto per gli organismi epifiti di foglie, fiori e frutti della vite. Quest’ultimi, infatti, per lungo tempo non sono stati considerati particolarmente rilevanti. Al contrario, risultano essere coinvolti in numerosi processi legati alla fitness della pianta. Ad esempio, possono modificare le sostanze volatili prodotte dai fiori, contribuendone alla definizione del profumo e quindi all’attrazione degli insetti impollinatori. I microrganismi che sono presenti sul frutto, inoltre, si sviluppano spesso nelle micro ferite proteggendo la pianta dalla penetrazione di fitopatogeni agenti di marciumi. Infine, anche i microrganismi delle foglie contribuiscono, seppur in maniera più limitata, alla protezione nei confronti di patogeni e parassiti di varia natura. Quando la foglia comincia a entrare in uno stato di senescenza, infatti, essi iniziano i processi di decomposizione e velocizzano la degradazione ed il rilascio di nutrienti [2]. 64 GdB | Aprile 2022

Tra i generi batterici comuni a tutti gli organi della vita troviamo Pseudomonas, Curtobacterium e Bacillus. I generi Pseudomonas, Erwinia, Acetobacter e Curtobacterium sono invece presenti prevalentemente sulle foglie. Sugli organi fotosintetici i batteri si localizzano soprattutto sulla pagina inferiore (essendo essa meno esposta all’effetto dei raggi ultravioletti del sole) e vicino alle nervature (aree ricche di essudati nutritivi e con un grado di umidità elevato). La composizione in termini di specie della fillosfera, comunque, dipende da numerosi altri fattori, come il vigneto, la stagione vegetativa e il tipo di terreno [4]. Nel vigneto sono presenti numerosi lieviti ossidativi. Sui grappoli maturi e sani ne possiamo contare dai diecimila al milione di propaguli per grammo, con specie appartenenti ai generi Pichia, Candida e Kloeckera. Inoltre, possono essere presenti anche diversi batteri lattici ed acetici [2]. Tra i microrganismi che si trovano in prossimità della superficie radicale prevalgono infine gruppi che degradano gli amidi, zuccheri e cellulosa. Tra i batteri molto comuni ci sono i generi Xanthomonas e Cellulomonas, così come Trichoderma spp. e Penicillium spp. per quanto riguarda i funghi [2]. I microrganismi endofiti Nonostante la comunità scientifica non sia ancora in grado di stabilire se esistano specie vegetali o aree climatiche più o meno favorevoli di altre all’instaurarsi di endofiti, ciò che possiamo affermare è l’esistenza di una maggior specificità a livello dei vari organi nella pianta. I tessuti radicali sono molto più ricchi in microrganismi endofiti, seguiti da foglie, fusti e frutti. Poiché gli endofiti sono meno soggetti ai possibili effetti ambientali negativi, sono meno influenzati dal passare delle stagioni e tendono perciò a fluttuare più lentamente rispetto agli epifiti [2]. Tra gli endofiti fungini della vite troviamo principalmente glomerulomiceti e ascomiceti, ma anche basidio-


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miceti e zigomiceti. Per quanto riguarda i batteri, Proteobacteria, Firmicutes e Actinobacteria sono i phyla più comuni. È interessante osservare che, nei tessuti colonizzati, i batteri riescono a raggiungere concentrazioni molto più elevate rispetto ai funghi, arrivando a valori dell’ordine di dieci miliardi di cellule per centimetro cubo di tessuto [2, 5]. In particolare, nelle cellule epidermiche e nello xilema dell’ovario dei fiori di vite sono stati evidenziati batteri endofiti, come Gammaproteobacteria e Firmicutes. Batteri endofiti appartenenti ai Firmicutes sono stati individuati anche nella polpa dei frutti e nei semi, anche se in quest’ultimi con una frequenza più bassa [2, 5]. Ai tessuti legnosi, invece, è stata associata la presenza di una grande varietà di organismi fungini, alcuni dei quali includono i patogeni. Per questo tipo di tessuto, quindi, è più difficile riuscire a distinguere con esattezza gli endofiti dai patogeni latenti o saprofiti [2, 5]. Fattori influenzanti il microbiota della vite I fattori che possono influenzare il microbiota della vite si distinguono principalmente in due categorie: endogeni ed esogeni. Tra i primi troviamo ad esempio il genotipo della pianta, l’età e lo stadio fenotipico, mentre nei secondi rientrano tutti quei fattori come i parametri geografici, le condizioni climatiche e le pratiche agronomiche [1]. © Frolova_Elena/shutterstock.com

Fattori endogeni La diversità genetica è un fattore intrinseco che influenza il microbiota della vite sia a livello del germoglio che a livello radicale. Tale evidenza è emersa in numerosi studi che si sono concentrati sull’analisi sia della comunità microbica presente nella rizosfera di una stessa varietà innestata su differenti portainnesti, sia in quella di varietà diverse innestate sul medesimo portainnesto. In particolare, il genotipo del portainnesto ed il rilascio di essudati radicali sono i due maggiori driver per quanto riguarda la selezione microbica e la struttura della rizosfera. Inoltre, il fatto che alcune tipologie di portainnesto possano conferire resistenza o essere resistenti a determinati patogeni suggerisce come la genetica giochi un ruolo fondamentale nell’elusione del sistema immunitario della pianta nel momento in cui il microrganismo prova a stabilire una relazione con il suo organismo ospite [1]. In uno studio condotto su 279 varietà di vite coltivate in due vigneti sperimentali a Montpellier (Francia), è emerso che le differenze in microbiota dipendenti dalla varietà erano maggiori nel grappolo che nelle foglie. Non solo, i taxa che differenziavano maggiormente una cultivar dalle altre erano microrganismi fermentativi, partecipi quindi nel conferire la tipicità alle differenti varietà di vite [1]. Per quanto riguarda l’età della pianta, invece, è emersa da numerosi studi una correlazione positiva tra l’età e la diversità specifica delle popolazioni endofite fungine. Tuttavia, il fattore “età della pianta” di per sé non sempre potrebbe essere quello determinante la struttura e la variazione del microbiota della vite, in quanto sembrerebbero giocare un ruolo maggiormente importante sia lo stadio fenologico della pianta che le pratiche agronomiche e la gestione del suolo del vigneto [1, 7]. Infine, vi sono numerosi studi che si sono concentrati sull’analisi del microbiota in differenti organi della pianta al variare delle stagioni e dello stadio fenologico. In questo caso, la stagionalità o il livello di sviluppo della vite non sembrano essere variabili influenzanti la comunità microbica nel GdB | Aprile 2022

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corso dell’anno. Tuttavia, altri lavori sottolineano come il microbiota sia in realtà molto variabile nel corso di un’intera stagione vegetativa. I ricercatori hanno osservato, ad esempio, delle variazioni nella comunità di batteri endofiti coltivabili ed abbondanze differenti nelle comunità fungine del suolo [1, 5]. Fattori esogeni La sensibilità della comunità microbica della vite ai trattamenti fitosanitari è stata osservata comparando la struttura e la ricchezza in specie del microbiota al variare delle pratiche agronomiche [1]. Si è visto ad esempio che le comunità batteriche endofite sono molto diverse in caso di agricoltura convenzionale o produzione biologica. In uno studio effettuato in Trentino sugli endofiti batterici della vite, i generi Ralstonia, Burkholderia e Pseudomonas sono stati prevalenti nei vigneti biologici. Mesorhizobium, Caulobacter e Staphylococcus erano invece i più frequenti nei vigneti gestiti a difesa integrata. Questa differenza in popolazione è attribuibile con molta probabilità al tipo di concimazione effettuata. Nei vigneti biologici, infatti, una sola concimazione organica arricchisce il suolo di microrganismi diversi da quelli nei quali la concimazione è di tipo prevalentemente minerale [6]. È comunque bene ricordare che i microrganismi non sono distribuiti uniformemente nel suolo. Ogni specie o gruppo microbico trova infatti la propria nicchia ecologica in funzione di quelle che sono le proprie esigenze in termini di pH, disponibilità di nutrienti e umidità. Una cattiva gestione del suolo e conseguenti fenomeni di salinizzazione o compattamento del terreno condizionano fortemente la qualità biologica del suolo stesso. I motivi sono essenzialmente da ricondursi alla riduzione dello spazio disponibile per la penetrazione delle radici nel terreno ed alla ridotta aerazione, fattori limitanti l’attività biologica dei microrganismi [2]. Nonostante gli studi effettuati sulla comunità microbica in seguito ad interventi erbicidi siano piuttosto limitati, vi è però un consenso generale nell’affermare che il diserbo (sia chimico, sia meccanico) porti a un temporaneo aumento nella sostanza organica del terreno a seguito della morte dei tessuti vegetali delle malerbe [2]. A fronte di questo aumento di carbonio organico si osserva un aumento, anch’esso limitato nel tempo, dei microrganismi degradanti la sostanza organica stessa. Questo processo è molto rapido quando le temperature sono più elevate, mentre può essere rallentato durante il diserbo autunnale [2]. Studi più approfonditi riguardano invece il glifosato, erbicida non selettivo impiegato in post- emergenza. Il meccanismo di azione dell’erbicida si basa sul blocco di un enzima coinvolto nella via dell’acido scichimico che porta alla formazione degli amminoacidi aromatici. Gli studi, in questo caso, hanno portato a risultati tra loro contrastanti. 66 GdB | Aprile 2022

In alcuni di essi, infatti, si indica un effetto temporaneo sull’aumento della respirazione dovuto a meccanismi di stress nei microrganismi sensibili al principio attivo. In altri, invece, non è riportato alcun effetto [2]. Anche le sulfuniluree possono modificare temporaneamente le proporzioni relative delle specie microbiche sensibili al principio attivo, ma non riescono comunque a modificare in modo stabile la composizione delle popolazioni microbiche. Di conseguenza, se gli interventi sono limitati a qualche numero nel corso dell’anno, le popolazioni microbiche riescono a recuperare dallo stress causato dall’applicazione dell’erbicida [2, 7]. Conclusione Riuscire a comprendere la complessità dell’olobionte della vite sarà di fondamentale importanza non solo per l’industria del vino, ma anche e soprattutto per lo sviluppo sostenibile dell’industria vitivinicola stessa. Lo studio del microbiota nel contesto dell’olobionte, infatti, aprirà nuovi scenari per quanto riguarda la riduzione degli input di pesticidi e fertilizzanti di sintesi attraverso le promettenti tecniche di biocontrollo e biofertilizzazione. Capire le complesse e dinamiche relazioni pianta-microrganismi e microrganismi-microrganismi, sarà perciò fondamentale dal momento che la viticoltura, così come tutti gli altri settori dell’agricoltura, sarà chiamata ad affrontare le numerose problematiche legate al cambiamento climatico, come resistenza a stress abiotici e comparsa di nuove malattie.

Bibliografia 1. Bettenfeld P, i Canals JC, Jacquens L, et al. The microbiota of the grapevine holobiont: a key component of plant health. J Adv Res 2021; https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/ S2090123221002617 2. Guzzon R, Pertot I (2015). Microrganismi della vite e del vino. Tecniche nuove. Milano, 2015. 3. Zarraonaindia I, Owens SM, Weisenhorn P, et al. The soil microbiome influences grapevine-associated microbiota. mBio 2015; 6(2):e02527-14. 4. Martins G, Lauga B, Miot-Sertier C, et al. Characterization of epiphytic bacterial communities from grapes, leaves, bark and soil of grapevine plants grown, and their relations. PLoS One 2013; 8(8):e73013. 5. Pinto C, Pinho D, Sousa S, et al. Unravelling the diversity of grapevine microbiome. PLoS One 2014; 9(1):e85622. 6. Steenwerth KL, Drenovsky RE, Lambert JJ, et al. Soil morphology, depth and grapevine root frequency influence microbial communities in a Pinot noir vineyard. Soil Biol Biochem 2008; 40(6):1330-1340. 7. Campisano A, Antonielli L, Pancher M, et al. Bacterial endophytic communities in the grapevine depend on pest management. PLoS One 2014; 9(11):e112763.


Prelievi per finalità diagnostiche, acquisizione e gestione dei campioni biologici e delle attività preanalitiche Il Corso si svolge ai sensi della direttiva DIRP/III/BIQU/OU10014 / 2002 e delle note prot. DIRS/3/4296 del 17/11/2004, prot. 9316 del 16/11/2011, prot. 23770 del 22/05/2020. Il corso in oggetto è pertanto in corso di autorizzazione dal Servizio Formazione Assessorato Salute Dipartimento ASOE

Prima edizione: 25-28 maggio 2022 Seconda edizione: 7-10 giugno 2022 Palermo, Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sicilia Via Gino Marinuzzi 3, Aula Magna, gazebo esterni drive-in tamponi dell’Istituto

www.onb.it GdB | Aprile 2022

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Il microbioma alleato o nemico nella lotta ai carcinomi gastrici Quinto tumore maligno più comune e seconda principale causa di morte in tutto il mondo A causa della mancanza di segni clinici precoci, la diagnosi è spesso ritardata

di Giuseppe Palma* e Francesca Bruzzese*

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l carcinoma gastrico (GC) è il quinto tumore maligno più comune e la seconda principale causa di morte in tutto il mondo. A causa della mancanza di segni clinici precoci, la diagnosi è spesso ritardata, con un suo conseguente sviluppo; infatti, molti pazienti presentano malattia con una stadiazione molto avanzata. Tra le cause dell’eziopatogenesi del cancro gastrico assume grande importanza la presenza di Helicobacter Pylori; infatti, nel modello di Correa (o Ipotesi di Correa) si sostiene che l’infezione da H. Pylori e la concomitante insufficienza di vitamine conducano alla gastrite superficiale e poi alla gastrite atrofica. La presenza di iposecrezione gastrica e di proliferazione batterica, con la presenza di nitriti e la scarsità di vitamina C, determina la formazione di composti nitroso, che favoriscono la metaplasia intestinale fino alla displasia ed infine al carcinoma. Secondo i più recenti studi H. pylori non è solo un fattore di rischio diretto, e sebbene la sua infezione sia fortemente associata con lo sviluppo del cancro gastrico, prove crescenti suggeriscono che batteri non-H. pylori possono svolgere un ruolo nell’insorgenza del carcinoma gastrico [1]. La carcinogenesi gastrica può essere associata ad un aumento della popolazione microbica come Lactobacillus coleohominis, Klebsiella pneumoniae o Acinetobacterbaumannii, cosi come alla diminuzione di altre popolazioni microbiche come Porphyromonasspp, Neisseria spp, Prevotellapallens o Streptococcussinensis [2]. Diversi studi, utilizzando il topo transgenico INS-GAS (insulina-gastrina), confermano le evidenze che anche batteri non-H. pylori contribuiscono all’ insorgenza del carcinoma gastrico. Lertpiriyapong et al. hanno mostrato che H. pylori può agire in sinergia con specie batteriche come il Clostridium e Lactobacillus, al fine di promuovere il carcinoma gastrico. Bisogna ancora rilevare come l’abbondanza relaBiologo, ricercatore presso l’Istituto dei Tumori di Napoli, Fondazione “G. Pascale”.

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tiva dei generi PrevotellaeStreptococcus è stata riscontrata di frequente nei tessuti tumorali rispetto ai tessuti non tumorali [3]. È interessante notare che le infezioni da micoplasma, in particolare M. hyorhinis, sono presenti maggiormente nei tessuti del cancro gastrico che in altre malattie gastriche. Sebbene i meccanismi di carcinogenesi del cancro gastrico non siano del tutto chiari è possibile che il microbiota gastrico costituisca il collegamento tra popolazioni batteriche e cancerogenesi gastrica, quando in condizioni di gastrite atrofica cronica specifiche popolazioni lo colonizzano creando specie reattive dell’ossigeno (ROS), dell’azoto e modulando risposte infiammatorie che stravolgono la normale fisiologia dell’epitelio gastrico verso fasi di trasformazione neoplastica. Molti studi hanno evidenziato il ruolo pro-oncogenico di alcune adesine (Bab, SabA), proteine di membrana (OipA, HomB) e alcune citotossine, che sono in grado di traslocare nelle cellule ospite, o di facilitare la colonizzazione della mucosa da parte di H. pylori. In tal senso sono molto note le CagApathogenicityisland (cag PAI), che codificano per la più nota oncoproteina batterica CagA, che unitamente ad VaC, un’altra oncoproteina, sono entrambe in grado di destabilizzare le giunzioni cellulari e la polarizzazione apico/basale delle cellule, ed attivare le vie pro-infiammatorie portando all’instabilità dell’integrità, differenziazione e auto-rinnovamento dell’epitelio gastrico [4, 5]. Numerosi studi hanno dimostrato una stretta correlazione tra i microorganismi del cavo orale ed il GC; infatti, esso può essere influenzato dalla densità e dalla diversità dei microrganismi orali [6]. I pazienti con GC mostrano un’aumentata proliferazione di Peptostreptococcus, Fusobacterium, Alloprevotella e Capnocytophaga, ed una notevole diminuita presenza di RothiaeHaemophilus nel cavo orale. È noto che i meccanismi cancerogeni dei micro-organismi comprendono la produzione di sostanze cancerogene, come l’acetaldeide, i ROS, ed alcuni acidi organici e l’N-nitrosodimetilammina. Si ha, inoltre, l’aumento dell’infiammazione cronica e l’alterazione del metabolismo cellulare, attraverso questi fenomeni i mi-


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crorganismi orali e gastrici influenzano lo sviluppo del cancro gastrico [7]. L’infiammazione cronica è uno dei fattori alla base della cancerogenesi ed in tale ambito innumerevoli citochine, come IL6, IL1, TNFa svolgono un ruolo importante nel loro sviluppo. Addizionalmente, l’IL6 attiva innumerevoli popolazioni cellulari immunitarie tra cui macrofagi e cellule T [8, 9]. In questo scenario assume grande importanza NF-kB che media la proliferazione, la differenziazione, la morte cellulare e coopera con un gran numero di segnali per l’attivazione dell’immunità innata. Inoltre, analisi immunoistochimiche e di qPCR hanno rivelato che i livelli dell’espressione dell’acido grasso sintasi e dell’acetil-CoA carbossilasi sono aumentati in modelli murini infettati da P. gingivalis, indicando così che la via di sintesi degli acidi grassi può essere attivata durante la cancerogenesi, e può essere ulteriormente sovra-regolata dall’infezione da P. gingivalis. Queste evidenze confermano come il microbioma abbia un’influenza anche sul metabolismo dei prodotti fisiologici [10, 11]. Un numero crescente di studi ha dimostrato che il microbiota intestinale potrebbe frequentemente influenzare la chemioresistenza ai farmaci antitumorali utilizzati come irinotecan, oxaliplatino, ciclofosfamide, 5-fluorouracile, gemcitabina o antracicline [12]. Il microbiota intestinale può, infatti, promuovere o ridurre l’efficacia di questi farmaci antitumorali. Al contrario, alcune specie batteriche possono metabolizzare (o disintossicare) le antracicline; tra queste il ceppo Streptomyces WAC04685 può inattivare la doxorubicina attraverso un meccanismo di deglicosilazione. Usando lo stesso meccanismo, un altro batterio intestinale Raoultellaplanticola può deglicosilare la doxorubicina nei metaboliti 7-deossidoxorubicinolo e 7-deossidoxorubicinolone. Inoltre, i micoplasmi all’interno del microambiente tumorale potrebbero interagire

con gli analoghi della fluoropirimidina. In particolare, è stato dimostrato la presenza di Mycoplasmahyorhinispuò ridurre l’attività degli analoghi nucleosidici della pirimidina nelle cellule tumorali. L’attività citostatica della 5-fluoro-2’-deossiuridina e della trifluorotimidina è drasticamente ridotta (da 20 a 150 volte) dalla degradazione a basi meno attive rispettivamente, la 5FU o l’inattiva trifluorotimina [13, 14]. Il microbioma modula il sistema immunitario, sia locale che sistemico, e può anche influenzare l’efficacia dell’immunoterapia. L’interazione tra le molecole dei checkpoint immunitari (ICI) sulle cellule tumorali ed i loro recettori delle cellule ospite del Sistema immunitario sono responsabili della risposta immunitaria dell’ospite alle cellule cancerogene [15]. Il blocco delle molecole ICI è usato in oncologia, utilizzando anticorpi contro la morte cellulare programmata 1 (PD-1), la morte cellulare programmata 1 ligando 1 (PD-L1) e la proteina citotossica associata ai linfociti T 4 (CTLA-4), che influenza l’immunità antitumorale. Sfortunatamente, le risposte dei pazienti alla terapia con i ICI variano e sono spesso transitorie. Diversi studi hanno dimostrato che il microbiota intestinale dei pazienti con GC hanno un anormale composizione che può indurre resistenza ai ICI [16]. Gopalakrishnan et al. studiando pazienti con melanoma metastatico trattati con immunoterapia hanno evidenziato che i “goodresponder” all’immunoterapia possedevano un microbioma intestinale caratterizzato da un’elevata diversità ed elevata abbondanza di Clostridiales/Ruminococcaceae. Questo era associato ad una potenziata risposta immunitaria dei linfociti T sistemici. Al contrario, la scarsa risposta all’immunoterapia presentava un microbioma con bassa diversità e elevata abbondanza di Bacteroidales, che è stato associato ad una risposta immunitaria soppressiva. Zitvogel et al. dimostrano che gli effetti antitumorali di CTLA-4 dipendono da specie distinte di BacteGdB | Aprile 2022

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roides. [17]. Nei topi e nei pazienti, le risposte dei linfociti T specifiche per Bacteroidalesthetaiotaomicron o Bacteroidalesfragilis erano associate all’efficacia del blocco di CTLA-4; confermando un ruolo chiave per Bacteroidales negli effetti immunostimolatori del blocco CTLA-4 [18]. Per quanto evidenziato, è importante investigare il ruolo del microbiota per determinare quali possono essere i fattori di cooperazione genetici e non alla base della genesi del carcinoma gastrico al fine di individuare strategie innovative di prevenzione e terapie che migliorino l’efficacia e l’efficienza dei trattamenti farmacologici clinici. Bibliografia 1. Parsonnet, J., Friedman, G. D., Vandersteen, D. P., Chang, Y., Vogelman,J. H., Orentreich, N., et al. (1991). Helicobacter pylori infection and the risk of gastric carcinoma. N. Engl. J. Med. 325, 1127– 1131. doi: 10.1056/NEJM199110173251603 2. Jo, H. J., Kim, J., Kim, N., Park, J. H., Nam, R. H., Seok, Y.-J., et al. (2016).Analysis of gastric Microbiota by Pyrosequencing: minor role of bacteria other than Helicobacter pylori in the gastric carcinogenesis. Helicobacter 21, 364–374. doi: 10.1111/hel.12293 3. Lertpiriyapong, K.; Whary, M.T.; Muthupalani, S.; Lofgren, J.L.; Gamazon, E.R.; Feng, Y.; Ge, Z.; Wang, T.C.; Fox, J.G. Gastric Colonisation with a Restricted Commensal Microbiota Replicates the Promotion of Neoplastic Lesions by Diverse Intestinal Microbiota in the Helicobacter pylori INSGAS Mouse Model of Gastric Carcinogenesis. Gut 2014, 63, 54–63. 4.Peek RM Jr, Crabtree JE. Helicobacter infection and gastric neoplasia. J Pathol 2006;208:233–48. 5.Hatakeyama, M. (2017). Structure and function of Helicobacter pylori CagA, the first-identified bacterial protein involved in human cancer. Proc. Jpn. Acad. Ser. B. Phys. Biol. Sci. 93, 196–219. doi: 10.2183/pjab.93.013 6. Williams Fernandes Barra, Dionison Pereira Sarquis, André Salim Khayat, Bruna CláudiaMeirelesKhayat, SamiaDemachki, Ana Karyssa Mendes Anaissi, Geraldo Ishak, Ney Pereira Carneiro Santos, Sidney Emanuel Batista dos Santos, Rommel Rodriguez Burbano, Fabiano Cordeiro Moreira, Paulo Pimentel de Assumpção, Gastric Cancer Microbiome, Pathobiology, 2021; 88:156-169. DOI: 10.1159/000512833. 7.Fuhao Chu, Yicong Li , XiangmeiMeng, Yuan Li, Tao Li, MengyinZhai , Haocheng Zheng , Tianxi Xin, Zeqi Su, Jie Lin, Ping Zhang, Xia Ding. Gut Microbial Dysbiosis and Changes in Fecal Metabolic Phenotype in Precancerous Lesions of Gastric Cancer Induced With N-Methyl-N’-Nitro-N-Nitrosoguanidine, Sodium Salicylate, Ranitidine, and Irregular Diet. Front Physiol, 2021 Nov 4; 12:733979. doi: 10.3389/fphys.2021.733979. eCollection 2021. 8.Bimczok, D., Clements, R. H., Waites, K. B., 70 GdB | Aprile 2022

Novak, L., Eckhoff, D. E., Mannon,P. J., et al. (2010). Human primary gastric dendritic cells induce a Th1 response to H. pylori. Mucosal Immunol. 3, 260–269. doi: 10.1038/mi.2010.10 9.Karkhah, A., Ebrahimpour, S., Rostamtabar, M., Koppolu, V., Darvish, S., Vasigala, V. K. R., et al. (2019). Helicobacter pylori evasion strategies of the host innate and adaptive immune responses to survive and develop gastrointestinal diseases. Microbiol. Res. 218, 49–57. 10.Brennan, C. A., and Garrett, W. S. (2019). Fusobacterium nucleatum – symbiont, opportunist and Oncobacterium. Nat. Rev.Microbiol. 17, 156–166. doi: 10.1038/s41579-018-0129-6 11. Burleigh, M. C., Liddle, L., Monaghan, C., Muggeridge, D. J., Sculthorpe, N., Butcher, J. P., et al. (2018). Salivary nitrite production is elevated in individuals with a higher abundance of oral nitrate-reducing bacteria. Free Radic. Biol. Med. 120, 80–88. doi: 10.1016/j.freeradbiomed.2018.03.023 12. Shuwen, H.; Xi, Y.; Yuefen, P.; Jiamin, X.; Quan, Q.; Haihong, L.; Yizhen, J.;Wei,W. Effects of postoperative adjuvant chemotherapy and palliative chemotherapy on the gut microbiome in colorectal cancer. Microb. Pathog. 2020, 149, 104343. 13. Lehouritis P., Cummins J., Stanton M., Murphy C.T., McCarthy F.O., Reid G., Urbaniak C., Byrne W.L., Tangney M. Local bacteria affect the efficacy of chemotherapeutic drugs. Sci. Rep. 2015;5:14554. doi: 10.1038/srep14554.] 14. VandeVoorde J., Sabuncuoğlu S., Noppen S., Hofer A., Ranjbarian F., Fieuws S., Balzarini J., Liekens S. Nucleoside-catabolizing Enzymes in Mycoplasma-infected Tumor Cell Cultures Compromise the Cytostatic Activity of the Anticancer Drug Gemcitabine. J. Biol. Chem. 2014; 289:13054–13065. doi: 10.1074/jbc. M114.558924. 15. Shigematsu, Y.; Inamura, K. Gut microbiome: A key player in cancer immunotherapy. Hepatobiliary Surg. Nutr. 2018, 7, 479–480. 16. Routy, B.; Le Chatelier, E.; Derosa, L.; Duong, C.P.M.; Alou, M.T.; Daillere, R.; Fluckiger, A.; Messaoudene, M.; Rauber, C.; Roberti, M.P.; et al. Gut microbiome influences efficacy of PD-1-based immunotherapy against epithelial tumors. Science 2018, 359, 91–97. 17. Bertrand Routy, VancheswaranGopalakrishnan, RomainDaillère, Laurence Zitvogel, Jennifer A Wargo, Guido Kroemer. The gut microbiota influences anticancer immunosurveillance and general health. Nat Rev ClinOncol. 2018 Jun; 15(6):382-396. doi: 10.1038/s41571-018-0006-2. 18. Mager, L.F.; Burkhard, R.; Pett, N.; Cooke, N.C.A.; Brown, K.; Ramay, H.; Paik, S.; Stagg, J.; Groves, R.A.; Gallo, M.; et al. Microbiome-derived inosine modulates response to checkpoint inhibitor immunotherapy. Science 2020, 369, 1481–1489.


INQUINANTI, ALIMENTAZIONE E FERTILITÀ:

SABATO 11 GIUGNO 2022

Valutazione dell’impatto ambientale e dello stile di vita

HOTEL EXCELSIOR BARI

Moderatori

DR. FABIO LA GRUA, Direttore di Laboratorio NOVOLI (LE) DR.SSA VALENTINA GALIAZZO, Biologo Nutrizionista LECCE DR.SSA ELVIRA TARSITANO, Biologo Ambientale, Università degli Studi “A. Moro” BARI 9.00 - 9.30 Saluti istituzionali ed introduzione al corso Dott. Sen Vincenzo D’Anna 9.30 - 10.15 L’influenza dei Pfas nella fertilità Prof. Carlo Foresta, Andrologo – Università degli studi di PADOVA 10.15 - 11.00 Stress ossidativo, frammentazione del DNA e fertilità Dr.ssa Maria Vincenza Savoia, Embriologa Centro PROLAB Molfetta 11.00 - 11.45 PMA e diagnosi prenatale: un adeguato percorso genetico Dr. Sergio Carlucci, Genetista - S.I.R.U. (Società Italiana per la riproduzione umana) 11.45 - 12.30 Interferenti endocrini e qualità ovarica Dr.ssa Maria Giulia Minasi, Embriologa Università Tor Vergata ROMA 12.30 - 13.15 La comunicazione nella coppia Dr.ssa Agata Battinelli, Psicologa psicoterapeuta, LECCE 13.30 - 14.30 light lunch 14.30 - 15.15 La ricetta per la fertilità Dr. ssa Veronica Corsetti, Biologa Nutrizionista, Gruppo Nutrizione S.I.R.U. 15.15 - 16.00 Microbiota ed epigenetica: le influenze nella PMA Dr.ssa Marina Baldi, Genetista, Coordinatrice Enpab ROMA 16.00 - 16.45 Risoluzione dell’infiammazione nella ricerca della gravidanza Dr.ssa Veronica Di Nardo, Biologa Nutrizionista, NAPOLI 16.45 - 17.30 Tavola rotonda 17.30 - 18.00 Chiusura dei lavori e compilazione Quiz Ecm Responsabile scientifico: Dr.ssa Valentina Galiazzo GdB | Aprile 2022

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Noi mangiamo in modo sostenibile? (parte I) L’influenza che il consumo di cibi animali può avere sull’ambiente e le conseguenze possibili sul piano ambientale con l’adozione di diete a basso contenuto di proteine animali

di Antonella Pannocchia

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l tema del cambiamento climatico è stato nel corso degli ultimi anni ampiamente dibattuto sia con riferimento agli elementi trasversali comuni a molti settori di attività (ad es.le politiche energetiche), sia relativamente ad aspetti più specifici, legati ad alcune filiere produttive. I legami tra alimentazione, filiere agroalimentari e climate change sono oggi oggetto di crescente attenzione da parte delle organizzazioni internazionali e dei policy maker. D’altra parte appare non del tutto adeguata consapevolezza della rilevanza della sfida e delle sue implicazioni (anche in termini di specifiche responsabilità) né da parte della comunità degli operatori del settore, su scala nazionale ed internazionale, né dei consumatori dei prodotti provenienti dal settore agroalimentare. Il consumo di prodotti animali va crescendo con particolare rapidità nei paesi in via di sviluppo, parallelamente alla crescita economica: la carne infatti rappresenta per queste popolazioni un modello occidentale da imitare, uno status symbol, un segno di prestigio e ricchezza sociale. Nella seconda metà del Novecento il consumo di carne pro capite in tutto il mondo è più che raddoppiato, insieme alla crescita della popolazione, passata da 2,7 a oltre 6 miliardi di persone: di conseguenza, il consumo globale di carne è aumentato di 5 volte, passando da 45 milioni di tonnellate all’anno nel 1950 a 233 milioni di tonnellate all’anno nel 2000 [1]. Da qui il crescente interesse della comunità scientifica sull’influenza che il consumo di cibi animali può avere sull’ambiente, e diversi autori hanno indicato come la riduzione del consumo di carne possa considerarsi una necessità per contrastare i gravi effetti avversi della produzione zootecnica [1]. Diversi studi hanno inoltre evidenziato i vantaggi possibili sul piano ambientale con l’adozione di diete vegetariane o comunque a basso contenuto di proteine animali [2]. La zootecnica globale è infatti ritenuta uno dei fattori rilevanti nell’uso di risorse alimentari e idriche, inquinamen-

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to delle acque, uso delle terre, deforestazione, degradazione del suolo ed emissioni di gas serra. Nonostante spesso sia un fattore trascurato, anche il consumo degli animali marini incide in maniera significativa sull’equilibrio ambientale, e la pesca e l’acquacoltura sono ritenuti anch’essi responsabili di diversi problemi di natura ambientale. L’insieme di questa situazione si ripercuote anche sulla fauna e sulla flora selvatica impoverendone la biodiversità. E il consumo globale di carne continua a crescere rapidamente: solo dal 2007 al 2008 si è passati da 275 a 280 milioni di tonnellate di carne prodotta in tutto il mondo e la FAO ha stimato che entro il 2050 si arriverà a 465 milioni di tonnellate [3]. Nei paesi industrializzati mediamente si consumano 224 grammi di carne pro capite al giorno (circa 80 kg l’anno a persona). Anche la produzione di latte, secondo le previsioni, è destinata a crescere velocemente, passando da 580 milioni di tonnellate del biennio 1999-2001 a 1043 milioni di tonnellate entro il 2050 [3]. Nei paesi in via di sviluppo, come detto, dal 1983 il consumo di carne è più che raddoppiato, passando dai 14 kg di carne pro capite annui agli attuali 30 kg [4]. Anche il consumo di latte è aumentato notevolmente, passando in soli 10 anni (dal 1983 al 1993) da 35 kg pro capite a 40 kg pro capite, ed entro il 2020 è stimata una crescita fino a 62 kg pro capite [4].

Tabella 1. Consumo di carne pro-capite(kg/anno) in diversi paesi.


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In Cina il consumo di carne è passato dai 13 kg pro-capite del 1980 ai 53 kg pro capite del 2004[4], con un aumento di oltre il 300% in poco più di 20 anni, ed è stato calcolato che, con l’attuale tendenza, nel 2031 il cinese medio potrà arrivare a consumare la stessa quantità di carne di un nordamericano del 2015, con un consumo annuo nazionale che raggiungerà i 181 milioni di tonnellate, corrispondenti a circa quattro quinti dell’attuale produzione mondiale di carne. Naturalmente c’è stato in parallelo un aumento del numero di animali allevati: secondo le statistiche della FAO (2007), in tutto il mondo ogni anno vengono uccisi, per fini alimentari, circa 56 miliardi di animali, esclusi pesci e altri animali marini [3]. Impatto sulle risorse alimentari e indice di conversione alimentare Gli animali allevati, per svilupparsi, vivere, crescere e produrre carne, latte, uova destinati al mercato, hanno ovviamente bisogno di nutrirsi. Le risorse alimentari consumate da questi animali sono però maggiori di quante essi ne producano sotto forma appunto di carne, latte e uova. La quantità di cibo assunta da un organismo animale in allevamento, non produce direttamente un’analoga quantità di massa corporea: infatti, solo una parte del cibo ingerito viene usata dall’organismo per la crescita della sua struttura corporea, il resto viene bruciato come energia per il mantenimento delle normali funzioni vitali e per lo svolgimento delle attività quotidiane; il resto viene espulso con le deiezioni.

Il rapporto tra cibo ingerito e crescita dell’organismo è noto come indice di conversione alimentare, che misura la quantità di mangime, espressa in chilogrammi, necessaria per l’accrescimento di un chilogrammo di peso vivo dell’animale. Ad esempio, in un manzo, l’indice di conversione va da 7 a 10 [5]: questo vuol dire che per crescere di un chilogrammo di peso corporeo, ad un manzo occorrono da 7 a 10 kg di mangime, solitamente costituito da cereali e leguminose. Un manzo, che normalmente alla nascita pesa intorno ai 50 kg nel momento in cui avrà raggiunto il peso di 600 kg e sarà pronto per la macellazione, avrà consumato circa 4000– 5000 kg di mangime. Per gli altri animali allevati l’indice di conversione è minore, ma comunque sempre con un rapporto tra cibo ingerito e crescita dell’organismo, che rimane, svantaggioso. Il sistema di allevamento usato influisce notevolmente sull’indice di conversione dell’animale: in animali allevati in sistemi intensivi è possibile ottenere un indice di conversione molto più vantaggioso (di circa 3-4 volte) rispetto ad animali allevati con metodi estensivi [5]. Quando l’animale viene ucciso, eviscerato e lavorato, il suo peso utile si riduce ulteriormente. Ad esempio, è stato calcolato che in alcune delle più diffuse specie allevate (manzo, maiale e agnello) lo scarto (testa, ossa, viscere e altri tessuti e organi non commestibili) dopo la macellazione varia dal 54 al 74% [5]. Un altro fattore da considerare è la resa del taglio, ovvero GdB | Aprile 2022

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la quantità finale di carne disponibile per la vendita che si ottiene dopo il taglio. Tenendo conto dell’insieme di queste perdite, il peso del prodotto finale può arrivare anche ad essere meno della metà del peso dell’animale vivo: ad esempio, da un manzo di 600 kg si ricava una quantità di carne pronta per la vendita che varia da un minimo di 175 kg e un massimo di 310 kg, per un maiale di 110 kg si va da un minimo di 41 kg a un massimo di 68 kg, mentre per un vitello di 55 kg si va da un minimo di 17 kg a un massimo di 24 kg [5]. Il risultato complessivo di queste perdite è un rapporto tra quantità di mangime consumato dall’animale e prodotto finale distribuito estremamente svantaggioso: se per ottenere un chilogrammo di peso vivo un manzo deve consumare una quantità di mangime di 7–10 kg e se, per ottenere un chilo di carne di manzo per il mercato occorrono, nella migliore delle ipotesi, due chili di animale vivo, ne discende che per un kg di carne di manzo sul banco della macelleria, si saranno consumati circa 14- 20 kg di mangime. Consumo di risorse alimentari La produzione di cibi di origine animale e in particolare di carne richiede quindi un vasto uso di risorse alimentari. Un terzo della produzione mondiale di cereali - 745 milioni di tonnellate nel 2007 [6] - viene consumata dagli animali allevati. I polli rappresentano i principali responsabili del consumo globale di mangimi concentrati consumando circa 30% del totale. Negli USA e in Europa oltre la metà dei cereali sono consumati dagli animali allevati (rispettivamente il 59% e il 56%), mentre in Asia e in Africa i cereali prodotti usati come mangime sono rispettivamente il 22% e il 13%. Il mais è il principale cereale utilizzato negli allevamenti: circa il 60% della produzione mondiale di mais viene usata come mangime. Per quanto riguarda la soia, l’altro principale componente dei mangimi moderni, oltre il 70% della produzione mondiale è usata negli allevamenti [5]. La quota maggiore di mangimi concentrati consumati spetta ai polli, con il 30%, seguono poi i maiali (29%), le mucche da latte (25%) e i manzi da carne (14%) [5]. Inefficienza alimentare Lo svantaggioso indice di conversione alimentare alla base del sistema zootecnico determina l’inadeguatezza ecologica di una dieta basata sulle proteine animali. Frances Moore Lappè (scrittrice a attivista statunitense esperta di politiche alimentari ed ambientali) ha osservato come negli USA, nel 1979, al bestiame siano state somministrate 145 milioni di tonnellate di cereali e soia, e di queste solo 21 milioni siano tornate ad essere disponibili per l’alimentazione umana sotto forma di carne e uova: «il resto, equivalente a circa 124 milioni di tonnellate di cereali e soia, è stato sottratto al consumo umano». 74 GdB | Aprile 2022

Tabella 2. Consumo di risorse idriche per la produzione di 1 kg di prodotto. Nel caso della carne si tiene conto sia dell’acqua necessaria alla varie fasi dell’allevamento, che di quella necessaria ad irrorare gli ettari necessari alla produzione del foraggio per mangime relativo.

Lappè ha calcolato che se queste 124 milioni di tonnellate di cereali e soia fossero state utilizzate per l’alimentazione umana, avrebbero fornito «l’equivalente di una ciotola di cibo per ogni essere umano del pianeta per un intero anno» [6]. È stato inoltre stimato che un ettaro coltivato a patate e un ettaro coltivato a riso sono in grado di provvedere al nutrimento annuo rispettivamente di 22 e 19 persone, mentre un ettaro destinato alla produzione di manzo è sufficiente per il nutrimento annuo di una sola persona [6]. Negli USA ogni anno 41 milioni di tonnellate di proteine vegetali vengono consumate dagli animali allevati per la produzione di sole 7 milioni di tonnellate di proteine animali da destinare al consumo umano: per ogni chilogrammo di proteine animali prodotte, occorrono circa 6 chilogrammi di proteine vegetali. A causa di questo svantaggioso rapporto di conversione proteica, la produzione di proteine dalla carne necessita da 6 a 17 volte più terra rispetto all’equivalente quantitativo di proteine fornite dai vegetali: un ettaro coltivato a cereali fornisce cinque volte più proteine di un ettaro destinato alla produzione di carne, i legumi ne forniscono dieci volte di più, i vegetali a foglia quindici volte di più e gli spinaci ventisei volte di più [7]. Impatto sulle risorse idriche L’allevamento richiede l’utilizzo di molte risorse idriche Un manzo può consumare oltre 80 litri di acqua al giorno, un maiale oltre 20 litri e una pecora circa 10 litri, una mucca da latte, durante la stagione estiva, può consumare


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fino a 200 litri di acqua in un solo giorno [8]. Altra acqua viene usata per la pulizia delle strutture di allevamento degli animali, per i sistemi di raffreddamento e per lo smaltimento dei rifiuti. . L’acqua viene infine usata nel processo di macellazione e relativa pulizia degli impianti. Secondo un calcolo fatto per ogni pollo macellato occorrono 1590 litri di acqua , ma gran parte dell’acqua (il 98%) necessaria alla produzione dei cibi animali è usata naturalmente per la coltivazione del foraggio: a tale scopo, su scala globale, vengono impiegati oltre 2300 miliardi di metri cubi d’acqua l’anno [8]. L’impronta idrica (ovvero il volume totale di acqua dolce impiegata per produrre un prodotto) della produzione globale dei prodotti animali nelle diverse fasi produttive dall’irrigazione del foraggio all’allevamento dell’animale fino alla preparazione del prodotto finito - è stata stimata, nel periodo 1996-2005, in 2422 miliardi di metri cubi l’anno, una quota che rappresenta circa un quarto dell’impronta idrica globale [9]. Un terzo del consumo d’acqua è dovuto all’allevamento dei manzi, e quasi un quinto al settore della produzione di latte. Anche in questo caso, il sistema di allevamento usato influisce significativamente sul volume d’acqua necessario: generalmente, i prodotti da allevamento intensivo richiedono un consumo idrico minore rispetto a quelli da allevamenti estensivi (ad eccezione dei prodotti lattiero-caseari, dove invece non c’è molta differenza) [9]. Come evidenziato in tabella son necessari circa 15 400 litri di acqua per un chilo di carne di manzo. Alcuni stimano che ne servano addirittura ben 100 000, se l’allevamento è estensivo. Tale volume di acqua è sufficiente a soddisfare i consumi domestici complessivi di una famiglia europea di quattro persone per sei mesi, o di una famiglia del Bangladesh di quattro persone per quasi tre anni [8]. Per un solo uovo sono necessari circa 200 litri di acqua, 1020 per un solo litro di latte e 5060 per un chilo di formaggio. A confronto, la produzione di cibi vegetali richiede una quantità di acqua decisamente più ridotta: per un chilogrammo di riso, la coltura a più alta richiesta idrica, occorrono 2500 litri di acqua; per un chilo di soia ne bastano 2145, 1827 per un chilo di grano, 1220 per un chilo di mais e 290 per un chilo di patate [8]. Secondo l’UNESCO -IHE (Institute for Water Education), «considerando il consumo di risorse d’acqua dolce, si dimostra più efficiente ottenere calorie, proteine e grassi dai prodotti vegetali rispetto ai prodotti animali». In confronto, per una caloria da cibi animali occorre una quantità di acqua 8 volte superiore a quella necessaria per una caloria da cibi vegetali e fino a 20 volte superiore se il cibo animale e’ costituito da carne di manzo. Per un grammo di proteine da carne bovina occorre una quantità di acqua 6 volte superiore a quella necessaria per

un grammo di proteine da legumi, e per latte e uova ne occorre una quantità 1,5 volte superiore. Per un grammo di grasso, tutti i prodotti animali ad eccezione del burro hanno un’impronta idrica di gran lunga maggiore rispetto alle colture oleaginose (piante dalle quali si può estrarre olio) [8]. Inquinamento idrico derivante dalla zootecnia estensiva Mente dal punto di vista delle condizioni di vita dell’animale, gli allevamenti estensivi, consentano una situazione meno drammatica, dal punto di vista ambientale gli allevamenti estensivi sono ancora più devastanti di quelli intensivi. I liquami fortemente acidi prodotti dagli allevamenti e dalla pulizia dei ricoveri animali rappresentano un’importante fonte di inquinamento del terreno e delle falde acquifere. Negli Stati Uniti circa il 55% dell’erosione del terreno è attribuibile al pascolo del bestiame, soprattutto quando la densità della popolazione animale è alta, ed è causa di perdita di biodiversità oltre che di sterilità del terreno superficiale. Inoltre, nei sistemi di allevamento estensivo, la contaminazione delle acque di superficie si verifica anche tramite la deposizione diretta delle feci nei corsi d’acqua oppure tramite il deflusso nel sottosuolo quando la deposizione fecale avviene sul terreno [3]. L’inquinamento idrico prodotto dalla zootecnia industriale è molto più acuto e visibile di quello dovuto alla zootecnia tradizionale, specialmente quando si sviluppa in prossimità delle aree urbane e determina pertanto un impatto diretto sul benessere umano. Nelle condizioni di affollamento degli allevamenti intensivi, il territorio circostante lo stabilimento non è in grado di assorbire efficacemente l’enorme quantità delle deiezioni prodotte, cariche di contaminanti ambientali che finiscono per depositarsi nella acque di superficie e nelle falde acquifere, con gravi effetti per l’ecosistema, la vita animale e vegetale e la salute umana. Si stima che un unico manzo produca in un solo giorno oltre 20 chilogrammi di sterco, e un allevamento medio, con 10 000 capi, può produrre fino a un totale di 200 tonnellate di sterco al giorno. Secondo il Worldwatch Institute, solo in Cina vengono prodotte ogni anno 2,7 miliardi di tonnellate di deiezioni animali, una quantità pari a 3,4 volte la quantità di rifiuti solidi prodotti dall’intera popolazione cinese [2]. I mangimi usati sono ricchi di nutrienti quali azoto e fosforo, che solo in parte vengono assorbiti dagli animali, la maggior parte finisce per disperdersi nell’ambiente. Una mucca da latte ingerisce fino a 163,7 kg di azoto e 22,6 kg di fosforo in un anno, di cui 129,6 kg di azoto (79% del totale ingerito) e 16,7 kg di fosforo (73%) vengono espulsi con le feci. Azoto e fosforo raggiungono la maggiore concentrazione rispettivamente nel letame dei suini (76,2 g di azoto su chilogrammo di peso secco) e nel letame delle galline ovaiole (20,8 g di fosforo su chilogrammo di peso secco). GdB | Aprile 2022

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Secondo stime della FAO, a livello globale, gli allevamenti sono responsabili di 135 milioni di tonnellate di azoto e 58 milioni di tonnellate di fosforo depositate nell’ambiente ogni anno. Negli Stati Uniti il settore zootecnico è responsabile per circa il 32% e il 33% rispettivamente dei carichi di azoto e fosforo nelle risorse d’acqua dolce, e in altri paesi tale contributo è maggiore, ad esempio in alcune province cinesi, si arriva a valori del 72% di azoto e 94% di fosforo. Un’eccessiva concentrazione di questi nutrienti nelle acque determina iperstimolazione delle piante acquatiche e delle alghe e conseguente eutrofizzazione, produce sapori e odori sgradevoli, favorisce un’eccessiva crescita batterica e la propagazione di microrganismi nei sistemi di distribuzione con rischi per la salute umana [3]. I mangimi inoltre possono contenere metalli pesanti quali rame, zinco, selenio, cobalto, arsenico, ferro e manganese (somministrate al bestiame per ragioni di salute o come promotori della crescita), che vengono assorbiti dagli animali solo dal 5 al 15%; la maggior parte viene espulsa con le feci depositandosi nell’ambiente. Ad esempio, il 37% dello zinco e il 40% del rame distribuito sulle terre agricole in Inghilterra e nel Galles proviene dal settore zootecnico [3]. I residui farmacologici rappresentano un altro importante rischio. Negli allevamenti odierni l’uso di antibiotici e ormoni è molto diffuso, per motivi terapeutici ma più spesso per motivi non terapeutici quali profilassi delle malattie e incremento della crescita o della produzione dell’animale. Nei paesi sviluppati i farmaci usati nella zootecnia rappresentano una quota elevata del totale nazionale, ad esempio negli USA oltre il 70% degli antibiotici usati sono somministrati agli animali allevati. Una parte sostanziale dei farmaci somministrati non viene assorbita dall’animale e si disperde nelle acque tramite lo scarico dei reflui o l’uso del concime sui terreni. La contaminazione delle acque con agenti antimicrobici provoca un antibiotico-resistenza nei batteri, mentre la presenza di sostanze ormonali disciolte può avere effetti sulle colture e può provocare alterazioni del sistema endocrino negli esseri umani e negli animali selvatici [10]. Inquinamento idrico derivante dalla produzione di mangime Secondo la FAO, «la produzione di mangime e foraggio, l’applicazione del concime sulle colture e l’occupazione delle terre dei sistemi estensivi, sono tra i principali fattori responsabili degli insostenibili carichi di nutrienti, fitofarmaci e sedimenti nelle risorse d’acqua del pianeta» L’elevata richiesta di mangime per la produzione zootecnica esige un considerevole uso di composti chimici di sintesi, che possono contaminare le risorse idriche dopo essere stati applicati sul terreno. Ad esempio, negli Stati Uniti, il volume di erbicidi (che negli USA rappresentano la più ampia categoria di fitofarmaci) usati nel 2001 per mais e soia destinati alla zootecnia raggiungeva le 74 600 tonnellate, corrispondente al 70% del 76 GdB | Aprile 2022

totale di erbicidi usati in agricoltura [3]. E anche se negli Stati Uniti l’uso totale di fitofarmaci per la produzione di mangime è diminuito nel corso degli anni (dal 47% del 1991 al 37% del 2001), la produzione zootecnica rimane comunque uno dei principali contributori dell’uso di queste sostanze. La produzione zootecnica gioca un ruolo ugualmente importante nell’utilizzo dei fitofarmaci anche negli altri principali paesi produttori di mangime, inclusi Argentina, Brasile, Cina, India e Paraguay. Uso delle terre, deforestazione e degradazione del suolo Il settore dell’allevamento rappresenta, a livello mondiale, il maggiore fattore d’uso antropico delle terre: direttamente e indirettamente, la moderna zootecnica complessivamente utilizza il 30% dell’intera superficie terrestre non ricoperta dai ghiacci e il 70% di tutte le terre agricole. Secondo l’International Livestock Research Institute (ILRI) occupa il 45% delle terre emerse del pianeta. Per lo più le terre vengono usate per il pascolo degli animali: quasi il 29% della superficie degli Stati Uniti[53], oltre il 40% del territorio della Cina (più di 4 milioni di chilometri quadrati) e più del 50% della regione orientale del continente africano, sono occupati da pascoli. La produttività dei prati a pascolo è molto variabile: un ettaro di prateria molto ricca può sostenere un manzo per un anno, ma possono essere necessari anche 20 ettari se si tratta di prateria marginale. Un altro importante fattore d’uso delle terre è la produzione di mangime: il 33% delle terre arabili del pianeta è usato a tale scopo [11]. Deforestazione Nella seconda metà del XX secolo, la considerevole crescita dell’allevamento animale ha determinato un significativo fenomeno di deforestazione, soprattutto in America Latina. In America centrale, fra gli anni sessanta e gli ottanta il numero di capi bovini allevati crebbe dell’80% e la produzione di carne bovina del 170%, prevalentemente a scopo di esportazione [12]. Nello stesso periodo, oltre un quarto delle foreste furono rase al suolo per fare posto a pascoli. Il fenomeno fu particolarmente significativo.[12-13]. L’effetto dell’allevamento è particolarmente grave nella foresta amazzonica. In questa regione l’allevamento di bovini è la causa primaria di deforestazione almeno fin dagli anni 1970, e nel 2006 la FAO ha stimato che, complessivamente, il 70% delle terre deforestate dell’Amazzonia è stato trasformato in pascoli bovini e la produzione di mangime occupa gran parte del restante 30%(secondo altre stime il bestiame occuperebbe invece fino all’80% delle aree deforestate[14]). ll Brasile è considerato il principale esportatore mondiale di carne bovina, e nel il 2018 è il avvenuto il raddoppio della quota del Brasile nel commercio globale di carne bovina, con due tonnellate su tre di provenienza dal mercato brasiliano. Inizialmente e fino agli anni del 1990, la deforestazio-


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Tabella 3. Cause di deforestazione dell’Amazzonia brasiliana.

ne della regione amazzonica avveniva per lo più a causa della forte richiesta di carne del mercato brasiliano, che dal 1972 al 1997 è cresciuto di ben quattro volte. In questo periodo, l’esportazione della carne dal Brasile verso il mercato internazionale era limitata: nel 1995, il Brasile esportava meno di 500 milioni di dollari di carne bovina. Tuttavia, appena otto anni dopo, l’esportazione aumenta del 300%, arrivando a 1,5 miliardi di dollari [14]. Il volume delle esportazioni invece aumenta di oltre cinque volte tra il 1997 e il 2005, passando da 232 000 tonnellate a 1,2 milioni di tonnellate di peso equivalente in carcassa e nel 2008, appena tre anni dopo, arriva ad essere quasi sei volte maggiore. Solo in Europa, tra il 1990 e il 2001 la percentuale di carne importata dal Brasile è quasi raddoppiata, passando dal 40% al 74% [14]. Le terre dell’Amazzonia sono di grande interesse per gli allevatori perchè possono sopperire all’insufficienza di terreni disponibili nel pianeta a fronte della crescita della produzione zootecnica mondiale. La forte espansione del mercato brasiliano della carne bovina è stata resa possibile da una combinazione di diversi fattori. • In primo luogo la svalutazione della valuta nazionale del Brasile ha determinato una riduzione del prezzo della carne bovina, rendendo l’esportazione brasiliana molto competitiva sui mercati internazionali. • In secondo luogo, in molte aree del Brasile è stata debellata l’afta epizootica – precedentemente molto diffusa in queste regioni • la contemporanea diffusione della BSE (encefalopatia spongiforme) nel Canada e negli Stati Uniti e dell’influenza aviaria in Asia ha ulteriormente favorito l’espansione del mercato brasiliano. Questi cambiamenti hanno anche favorito dinamiche già esistenti da tempo in Amazzonia che giocano un ruolo importante nella distruzione delle foreste, quali la rapida espansione delle infrastrutture stradali e delle reti elettriche, i forti investimenti in moderni impianti di macellazione, di confezionamento della carne e di produzione lattiero-casearia e i bassi prezzi delle terre forestali che rendono la creazione di pascoli molto conveniente [14]. L’allevamento di bovini nella regione amazzonica è considerato il principale fattore di deforestazione del mondo:

è stato stimato che a causa dell’allevamento di bestiame è stato perso in media un ettaro di foresta amazzonica ogni otto secondi. In soli tredici anni, dal 1996 al 2009, 100 000 chilometri quadrati di foresta sono stati trasformati in terra da pascolo e, complessivamente, un’area di 550 000 chilometri quadrati, pari alla superficie della Francia, è occupata da mandrie bovine. Tra il 1990 e il 2003 nell’Amazzonia brasiliana la popolazione bovina è più che raddoppiata, passando da 26,6 a 64 milioni di capi: il Brasile è considerato il paese con il maggior numero di capi bovini. La maggior parte di questa crescita è avvenuta negli stati del Mato Grosso, Pará e Rondônia, che nello stesso periodo hanno infatti registrato anche i tassi più alti di deforestazione [14]. Molte persone, credono che la causa principale della devastazione delle foreste sia il taglio di legname, ma in realtà questa attività non causa deforestazione, ma solo degradazione dell’ambiente. Nella foresta amazzonica il taglio di legname legale e illegale è responsabile solo di un 2-3% della deforestazione totale. I terreni forestali da destinare al pascolo vengono invece letteralmente devastati e rasi al suolo con l’uso di enormi bulldozer o appiccando il fuoco. Poiché la terra liberata dalla foresta non è adatta al pascolo, in quanto estremamente fragile e scarsamente nutrita, dopo pochi anni di pascolo il suolo diventa sterile e gli allevatori devono abbattere un’altra sezione di foresta per spostarvi le mandrie, lasciandosi dietro vaste distese di terre desolate; infatti il 90% dei nuovi allevamenti di bestiame nel bacino amazzonico sospende l’attività entro otto anni dall’avvio. Degradazione del suolo Il settore dell’allevamento ha un sostanziale impatto anche nella degradazione del suolo, soprattutto a causa del sovrasfruttamento dei pascoli: la continua pressione dello zoccolo provoca compattamento del terreno, mentre l’estirpazione della vegetazione effettuata dall’animale per nutrirsi provoca impoverimento della flora. Il compattamento del terreno diminuisce la capacità della terra di trattenere acqua e di rigenerarsi, mentre l’impoverimento della flora compromette la resistenza del suolo non più trattenuta dalle radici e riduce funzioni essenziali svolte dai sistemi vegetali quali l’assorbimento dell’acqua e il riciclo degli elementi nutritivi: la terra finisce così per essere sempre più esposta all’erosione del vento e dell’acqua e destinata all’isterilimento agricolo. Il 20% dei pascoli del pianeta si trova in una condizione di degradazione, e particolarmente colpiti risultano gli ambienti aridi e semi-aridi dell’Africa e dell’Asia, nonché le zone semi umide dell’America Latina. In Cina circa il 90% dei pascoli naturali - che rappresentano oltre il 40% del territorio del paese - è soggetto a degradazione, responsabile di un’intensificazione delle tempeste di sabbia che flagellano la Cina settentrionale durante il peGdB | Aprile 2022

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riodo primaverile, al punto che il governo cinese è costretto ad emanare occasionalmente il divieto di pascolo in tutto il paese. Parallelamente, anche l’espansione della coltivazione di mangimi negli ecosistemi naturali crea problemi di degradazione del territorio [3]. Già negli anni del 1980 il matematico Robin Hur ha stimato che, ogni anno, fra 6 e 7 miliardi di tonnellate di massa erosa siano attribuibili direttamente al pascolo del bestiame e alla coltivazione per alimentazione animale [vedi nota 6 pag. 80]. Il sovrasfruttamento dei pascoli e la coltivazione intensiva, insieme all’uso smodato di acqua e alla distruzione delle foreste (entrambi fattori anch’essi strettamente collegati all’allevamento di animali) rappresentano inoltre i principali responsabili di desertificazione delle terre. Emissioni di gas serra Il complesso dell’agricoltura e zootecnia mondiale è uno dei principali contributori della produzione di gas serra, responsabili dell’aumento delle temperature medie terrestri. La coltivazione del riso rappresenta circa il 20% delle emissioni totali antropiche di metano. E’ stato stimato che i processi coinvolti nell’allevamento di animali generano una produzione di gas serra equivalente 78 GdB | Aprile 2022

al 18% delle emissioni globali prodotte dalle attività umane, una quota questa superiore a quella relativa all’intero settore dei trasporti (stradali, aerei, navali e ferroviari), responsabile del 13,5% di gas nocivi. Successivamente, la riclassificazione di alcune voci, la correzione di stime e il conteggio di elementi inediti, pubblicata dal Worldwatch Institute, ha concluso che il totale delle emissioni di gas serra attribuibili al settore zootecnico sarebbe maggiore del 18% e rappresenterebbe una quota pari o superiore al 51% delle emissioni totali [15 e 16]. Nonostante l’allevamento di animali contribuisca solo limitatamente alla produzione di anidride carbonica (CO2) con un 9% del totale, è tuttavia responsabile di alte emissioni di altri importanti gas serra: il 35-40% delle emissioni di metano, che ha un effetto 23 volte superiore a quello dell’anidride carbonica come fattore di riscaldamento del globo, il 65% delle emissioni di ossido di azoto, un gas che è 296 volte più dannoso della CO2, e il 64% delle emissioni di ammoniaca, un gas che contribuisce significativamente alle piogge acide e all’acidificazione degli ecosistemi, sono prodotti infatti dal settore zootecnico. Nella quota calcolata del 18% di emissioni di gas serra attribuite al settore zootecnico, il contributo maggiore proviene dagli allevamenti esten-


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sivi (13%), mentre una quota più ridotta (5%) è attribuibile ai sistemi intensivi [15 e 16]. È stato stimato che in sistemi CAFO (Confined Animal Feeding Operations) (sistemi di allevamento intensivo a ridotte emissioni di gas serra) la produzione di 225 g di carne di manzo produce emissioni CO2 equivalenti pari a quelle generate da un viaggio in auto di 15,8 km, 4,1 km per la stessa quantità di carne di maiale e 1,17 km per la stessa quantità di carne di pollo, mentre 225 g di asparagi (tra i vegetali a più alto impatto nella produzione di gas serra) corrispondono a guidare un’auto per 440 metri e 225 g di patate corrispondono a guidare un’auto per 300 metri. La produzione di un solo chilo di latte comporta una emissione di 2,4 kg di CO2 equivalenti. Un altro studio ha stimato che la produzione di un chilogrammo di manzo causa una emissione di gas serra e altri inquinanti maggiore di quella che si ottiene guidando un’auto per tre ore e lasciando nel frattempo accese tutte le luci di casa [16].

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Ecocidio, Arnoldo Mondadori Editore, 2001, pag. 220. 14. Mongabay.com, Amazon Destruction: Why is the rainforest being destroyed in Brazil?. 15. WorldWatch Institute, Livestock and Climate Change - What if the key actors in climate change are… cows, pigs, and chickens? Archiviato il 17 aprile 2017 in Internet Archive., November/ December 2009. 16. FAO, Livestock’s long shadow, Tab. 3.12, pag. 113. 17. Anthony J McMichael, John W Powles, Colin D Butler, Ricardo Uauy, Food, livestock production, energy, climate change, and health. The Lancet, September 13, 2007. 18. FAO, The State of World Fisheries and Aquaculture 2012, pagg. 82-89. 19. Confagricoltura, La filiera dell’acquacoltura. 20. Tukker, A., Jansen, B., Environment impacts of products - A detailed review of studies, J. Ind. Ecol. 2006 10 3 159 182. Cit. in: Christopher L. Weber e H. Scott Matthews, Food-Miles and the Relative Climate Impacts of Food Choices in the United States, Environ. Sci. Technol., 2008, 42 (10), pp 3508–3513. 21. Weber, C. L., Matthews, H. S., Quantifying the Global and Distributional Aspects of American Household Carbon Footprint, Ecol. Econ. Cit. in: Christopher L. Weber e H. Scott Matthews, Food-Miles and the Relative Climate Impacts of Food Choices in the United States, Environ. Sci. Technol., 2008, 42 (10), pp 3508–3513. 22. Carlsson-Kanyama A, González AD., Potential contributions of food consumption patterns to climate change, Am J Clin Nutr. 2009 May;89(5):1704S-1709S. 23. UNEP, Assessing the Environmental Impacts of Consumption and Production Archiviato il 2 dicembre 2013 in Internet Archive. 24. Harold J Marlow, William K Hayes, Samuel Soret et al., Diet and the environment: does what you eat matter?, Am J Clin Nutr May 2009. 25. Valori calcolati dalla tabella a pag. 1258 di: Anthony J McMichael, Food, livestock production, energy, climate change, and health. The Lancet, September 13, 2007. 26. NaturalNews.com, Al Gore criticized for eating meat diet that contributes to global warming. 27. L Baroni, L Cenci, M Tettamanti, M Berati, Evaluating the environmental impact of various dietary patterns combined with different food production systems, European Journal of Clinical Nutrition, 11 October 2006; Raffaella Ravasso e Massimo Tettamanti, Valutazione dell’impatto ambientale di diverse tipologie di alimentazione. 28. Christopher L. Weber, H. Scott Matthews, Food-Miles and the Relative Climate Impacts of Food Choices in the United States, Environ. Sci. Technol., 2008, 42 (10), pp 3508–3513.

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Studio epidemiologico in una coorte di addetti presso centrale nucleare E. Fermi in Trino: mortalità dal 1974 al 2019 Lo stato di salute occupazionale delle attività produttive come indicatore anche di eventuali e possibili rischi nella popolazione meritevoli di eventuali approfondimenti e spiegazioni eziologiche ad oggi ignote

di C. Salerno*, M. Fracassi*, R. Cenna** e C. Cagnazzo**

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onoscere il territorio attraverso un’appropriata promozione d’indicatori dell’ambiente e della salute, diviene un requisito inderogabile per ogni comunità per tutelare la salute di tutti e per preservare le risorse ambientali esistenti: ciò può avvenire attraverso l’analisi dei diversi pressanti siti in Trino sia di natura ambientale sia occupazionale. (11) Tra i vari siti produttivi costruiti negli anni 60 nel Comune di Trino (13,20), vi è certamente quello delle Centrale Elettronucleare E.Fermi entrata in funzione nel 1964 e chiusa alla fine degli anni 80 a seguito dell’esito referendario del 1987. Valutare, seppur con alcuni limiti che saranno descritti in seguito, lo stato di salute occupazionale di determinate attività produttive può costituire un in- © ricochet64/shutterstock.com dicatore anche di eventuali e possibili rischi nella popolazione circostante meritevoli di eventuali approfondimenti e/o fornire spiegazioni na” uscendo se possibile da preconcetti, pregiudizi e per il sentito dire che possono generare timori nella popolazione eziologiche ad oggi ignote. Diviene pertanto importante eseguire indagini epidemio- se non sempre supportati dai fatti o risultando magari poi logiche appropriate per valutare il danno pregresso e attuale infondate. alla salute delle persone esposte, lavoratori e abitanti. (11,18) Crediamo che, attivare per la prima volta in Italia, una Breve storia e descrizione dell’impianto La centrale elettronucleare Enrico Fermi di Trino (VC) è valutazione dei rischi in una coorte occupazionale di una ex centrale nucleare possa contribuire con dati scientifici uno dei quattro impianti italiani (tutti e quattro dismessi) di ad una più obiettiva analisi della “questione nucleare italia- produzione di energia elettrica da fonte nucleare, che aveva un unico reattore da 260 MW di potenza elettrica netta, a uranio a basso arricchimento (circa il 4,5%), moderato ad * Osservatorio Socio Ambientale Trinese (OSAT), Trino. acqua leggera e raffreddato secondo lo schema ad acqua ** SC Oncoematologia Pediatrica, AOU Città della Salute e della pressurizzata (PWR). Scienza, Presidio Ospedaliero Infantile Regina Margherita, Torino.

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Costruita dal 1961 al 1964 da un consorzio misto di produttori privati e pubblici, e finanziata per più della metà del suo costo totale da capitali pubblici italiani (tramite la Finelettrica) e statunitensi (tramite la Export-Import Bank, che coprì da sola il 50% della spesa), entrò in esercizio nel 1965 e quasi subito passò all’Enel, l’ente nazionale di energia elettrica formatosi solo due anni prima, che la esercì fino al 1987, anno di cessazione del servizio; nel 1999 l’Enel ne conferì la proprietà alla propria consociata SOGIN, successivamente passata allo Stato, la quale è incaricata di curare la bonifica ambientale del sito. (5,7) Dopo il primo ciclo di combustibile la centrale ebbe un fermo di tre anni a seguito della rimozione dello scudo termico del reattore; il secondo ciclo fu prodotto interamente in Italia dalla società Coren della vicina Saluggia[4]; questa, acronimo di Combustibili per Reattori Nucleari, era una joint-venture paritaria tra Fiat, Breda e Westinghouse[, e consegnò all’Enel la prima fornitura di materiale nucleare nel 1968. Nella sua vita la centrale fu in funzione per un equivalente di 10,6 anni, con una possibile vita residua del 34%; consumò 4,6 tonnellate di uranio producendo quindi 26 TWh di energia elettrica lorda (corrispondenti a 23,8 TWh netti), pari a 13 volte il fabbisogno della provincia di Vercelli del 1987. Nel novembre 1999 la proprietà della centrale, così come per le altre tre centrali nucleari italiane, fu trasferita a SOGIN, che ha il mandato di procedere alla sistemazione dei materiali radioattivi presenti nel sito, allo smantellamento della centrale e al recupero e alla valorizzazione dell’area con l’obiettivo di realizzare la bonifica ambientale del sito: allontanamento del combustibile nucleare, decontaminazione e smantellamento delle strutture e gestione e messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi. (1,6,22) La centrale E.Fermi risulta essere stata ferma per 998 giorni fra il 1967 e il 1970: per buona parte di questo tempo ha scaricato nelle acque del fiume trizio radioattivo. Dal periodico Notiziario del CNEN (3,4) si può leggere quanto segue : “TRINO 1967-1970:” In occasione della prima fermata per ricarica del combustibile vennero riscontrati estesi danneggiamenti alle strutture di sostegno del nocciolo del reattore. Oltre allo spostamento dello schermo termico, si riscontrò la rottura di quasi il 50% dei bulloni di collegamento tra la parte inferiore e quella superiore del cilindro di sostegno del nocciolo, la rottura del 70% dei tiranti nella zona inferiore della struttura e la distruzione quasi completa del sistema interno di misura del flusso neutronico (aero-ball system). La durata della fermata è stata determinata dalla necessità di indagare sulle cause del guasto, dalla progettazione e l’esecuzione dei lavori di modifica e riparazione, e dai controlli ulteriori dopo un breve periodo di funzionamento”. Ci fu una seconda fermata nel 1979 di circa 4 anni

Tabella 1.

Tabella 2.

Materiali e metodi Lavoratori - Definizione e analisi coorte dipendenti. Grazie alla collaborazione di SOGIN S.P.A. e dai dati raccolti da Osat (Osservatorio Ambientale Trinese) in questi anni, si sono estratte le informazioni occupazionali degli addetti presso la Centrale E.Fermi e seguiti in follow-up fino alla stesura della relazione qui presentata. Una piccola parte dei dati sono stati anche raccolti presso la Camera del Lavoro CGIL di Vercelli. La coorte è costituita da 319 soggetti di cui 54 deceduti, vista l’esiguità dei soggetti e decessi (solo 2 casi osservati) tra il genere femminile si è provveduto a non includerle nelle analisi di rischio. Fonti Dati: sono i registri di mortalità creati da OSAT grazie ai differenti flussi dati adoperati quali i certificati di morte di coloro che sono deceduti in Trino, dati di mortalità ISTAT e i questionari epidemiologici raccolti in maniera pressoché continuativa presso il comune di Trino. (11)

Tabella 3.

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Tabella 6. Tabella 4.

Risultati descrittivi La coorte risulta costituita da 319 addetti di cui 288 uomini e 31 donne con il maggior numero di soggetti collocati nelle fasce 65-69 anni (61 soggetti) , 70-74 (45 addetti) e 60-64 (41 soggetti) Ovviamente si tratta di soggetti, limitatamente a questi gruppi di età, in follow-up con cessazione dell’attività lavorativa all’interno del sito produttivo. La prima causa di morte complessiva (Vedi tab.1) riguarda i decessi cardiovascolari, seguiti da mesotelioma e neoplasia del polmone. Irrilevanti i decessi nel genere femminile con solo due osservazioni Risutlati rischi mortalità-Totale addetti Analizzando la Tab. 2 s precisa che si sono considerate le cause di morte più frequenti con almeno 3 osservazioni: l’unico eccesso statisticamente significativo riguarda i decessi per mesotelioma. Altro incremento, ma senza conferma statistica, è a Tabella 5. carico delle neoplasie del colon-retto. Valori significativi di riduzione rispetto all’atteso per totale cause (-42%) e cardiovascolare con un -55%. Nello studio dei rischi per fasce di età nelle totali cause (Tab.3 ) non si osservano eccessi particolari se non nella fascia 45-49 ( con un campione osservato di 16 addetti ) anni con 3 osservazioni e un SMR che indica un rischio 5 volte maggiore rispetto all’atteso. Per quanto concerne il totale tumore e i rischi per fasce di età (Tab.4 ) si rileva un incremento di 10 volte nei soggetti 45-49 ma basato su solo due osservazioni. Eccesso del 40% ma senza significatività statistica per i soggetti 65-69 anni con 56 addetti. Sono stati identificati 8 comparti per mansioni svolte all’interno dell’ex Centrale E.Fermi che sono: 82 GdB | Aprile 2022

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Laboratorio Chimica-Fisica (43 addetti) Dirigenti/Responsabili (11) Personale in esterno (14) Manutenzione (76) Personale amministrativo/Impiegati (62) Portiere/Autista/Fattorino (29) Programmazione sicurezza (10) Reattore (60) Unità Tecnica (14)

I settori (Tab.5) dove si sono registrati il maggior numero di decessi sono manutenzione, portineria e personale amministrativo. I rischi di mortalità per settori (Tab.6) evidenziano due comparti con le maggiori criticità: il reparto manutentivo con eccessi statisticamente significativi dell’87% per le totali neoplasie e mesotelioma (eccesso 30 volte superiore rispetto all’atteso con 3 osservazioni). Meritevoli d’attenzione gli eccessi senza conferma statistica per neoplasie del polmone (organo potenzialmente sensibile alle radiazioni) e totale apparato digerente. A seguire il settore portineria/autista e fattorino con rischi più che doppi e significativi per la mortalità totale e l’insieme delle neoplasie dell’apparato digerente. Incrementi senza significatività statistica per totale neoplasia e tumori del polmone. Infine si segnala un eccesso sensibilmente alto rispetto all’atteso per mesotelioma negli addetti dell’unità tecnica; un incremento non statisticamente significativo (4 decessi) del 21% per totale neoplasie tra il personale amministrativo. Conclusioni e considerazioni finali Per la prima volta in Italia si è condotta un’indagine epidemiologica su addetti (ed ex) impiegati in una delle quattro ex centrali nucleari attive sul territorio nazionale dalla fine degli anni 50 al 1987. La situazione sanitaria da questo iniziale studio preliminare risulta essere soddisfacente nei dati complessivi della coorte con un solo eccesso statisticamente significativo per mesotelioma (8,15) e valori protettivi per il totale cause e apparato cardiovascolare. (2) Questi primi risultati confermano con dati scientifici quello che già si era osservato negli anni passati con diversi decessi per patologia amianto correlata perciò dovuta ad un’esposizione occupazionale a tale fibra di una parte degli


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addetti. La successiva divisione per comparti ha permesso d’indentificare e confermare che gli occupati del reparto manutentivo e dell’unità tecnica erano, proprio per la tipologia di lavoro svolto, i più esposti al materiale amiantifero rispetto ai colleghi impiegati in altri settori. (16) Inoltre è verosimile che l’esposizione all’amianto per il comparto manutentivo possa aver inciso anche nell’insorgenza di altre forme tumorali. Di più difficile spiegazione sono gli eccessi per quanto concerne la mortalità complessiva e tumori digestivi per gli addetti della portineria, fattorini e autisti: è ipotizzabile in questo caso un ruolo dei rischi individuali quali ad esempio il fumo di sigaretta ed errati stili di vita. (8,14,15,16,24) Restano certamente meritevoli d’attenzione gli eccessi, senza conferma significativa, osservati specialmente a carico del tumore del polmone dove, oltre agli agenti radiologici, anche la fibra di amianto può costituire un agente eziologico importante. (8,16,24) La ricerca qui presentata, è caratterizzata da diversi limiti quali ad esempio l’assenza del controllo dei confondenti individuali (fumo, alcool, alimentazione), eventuali esposizioni ad altre occupazioni precedenti e la non conoscenza dei valori di esposizione durante l’attività lavorativa a possibile fonti radioattive. (8) Inoltre per eseguire modelli di analisi

più complessi e raffinati sarebbe stato utile disporre della durata del periodo trascorso all’interno della centrale per ogni addetto per permettere un’analisi del rischio stratificata per durata anni –lavoro. Inoltre, su indicazione del comitato cittadino sul nucleare, in sede di pianificazione dello studio, venne fatto presente a OSAT che gli addetti di diverse ditte esterne (ad esempio cooperative ma anche enti pubblici preposti) erano stati impiegati con diverse mansioni all’interno della centrale. Nonostante la messa a disposizione dell’elenco di tali ditte esterne da parte di SOGIN e dopo una valutazione con l’INPS si è preso atto dell’impossibilità di disporre di un numero enorme di soggetti ma anche nella difficoltà di capire quali tra questi soggetti potesse essere effettivamente inserito nella coorte qui presentata o meno. Ciò, qual ora fosse stato fattibile tecnicamente ed epidemiologicamente, avrebbe comunque potuto indurre una distorsione notevole dei risultati. (probabile sottostima dei rischi) Nell’analisi per fasce di età si osservano eccessi nei soggetti 45-49 anni sia per le totali cause (3 osservati) che mortalità oncologica totale (2 casi): tali incrementi vista l’esiguità dei casi, devono essere certamente meritevoli d’attenzione ma nello stesso tempo, allo stato attuale, non possono costituire motivo di allarmismo. Inoltre il confronto con gli ex addetti della Prolafer (19) e la popolazione generale di Trino GdB | Aprile 2022

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(11), specialmente per le totali neoplasie, mostra in maniera chiara una situazione del tutto rassicurante per gli occupati della centrale con un solo lieve eccesso nei soggetti 65-69. Lo studio presentato può certamente costituire una base per successive indagini ed approfondimenti; nell’attività OSAT (11) può inoltre contribuire alla comprensione su quali ed eventuali patologie possono avere una potenziale associazione con le radiazioni e/o particelle emesse dall’attività della centrale anche nel contesto ambientale circostante. (12) A tale proposito c’è da considerare che negli addetti qui osservati non si notano medesime problematiche epidemiologiche riscontrate nella popolazione trinese quali, tra i vari, si menzionano eccessi per tumori celebrali e leucemie. (11,17-19) Inoltre non si osservano casi di neoplasie tiroidee organo bersaglio molto sensibile ad eventuali esposizioni radioattive. (9,16,21,23) Tale osservazione unitamente all’assenza di problematiche per tumori celebrali nel vicino comune di Palazzolo fa propendere per l’esclusione, almeno per tale sede tumorale, tra i possibili agenti eziologici. In conclusione crediamo che tale indagine, seppur con i diversi limiti qui elencati, possa contribuire a comprendere al meglio come si è sviluppato il nucleare in Italia e i suoi effetti/conseguenze eventuali non solo a livello ambientale ma anche per coloro che ci hanno lavorato/lavorano quotidianamente. (10,16).

Bibliografia 1. Appalto per la progettazione esecutiva e l’esecuzione dei lavori di smantellamento del circuito primario e dei sistemi ausiliari escluso vessel e internals della centrale di Trino Association of Anxiety over Radiation Exposure and Acquisition of Knowledge Regarding Occupational Health Management in Operation Leader Candidates of Radioactivity Decontamination Workers in Fukushima, Japan: A Cross-Sectional Study.Int J Environ Res Public Health. 2019 Dec 28;17(1). pii: E228. doi: 10.3390/ijerph17010228. 2. Belyi D, Nastina O, Sydorenko G, Kursina N, Bazyka O, Gabulavichene Z, Kovaliov O.THE DEVELOPMENT OF HYPERTENSION DISEASE AND ISCHEMIC HEART DISEASE IN EMERGENCY WORKERS OF THE CHORNOBYL ACCIDENT AND INFLUENCE ON IT CONDITIONS OF BEING UNDER RADIATION.Probl Radiac Med Radiobiol. 2019 Dec;24:350-366. doi: 10.33145/2304-8336-2019-24-350-366. English, Ukrainian. 3. C.N.E.N., Notiziario, n°7-luglio 1976, p. 42. 4. C.N.E.N., Notiziario, n°8-9-settembre 1971, p. 106. 5. Comunicato stampa Sogin, “Approvato il decreto di disattivazione per la centrale di Trino” – 06.08.2012 6.Comunicato stampa Sogin, “Sogin, presentati i risultati 2011-2012 e il programma di bonifica dei siti nucleari piemontesi” – 13.11.2012 7.Decreto di disattivazione della centrale nucleare di Trino 8.F McNamara K, Peters C, Burstyn I.orecasting Dose from Unobserved Times: Case Study of Transient Workers at a Nuclear Power Plant.Ann Work Expo Health. 2018 Aug 13;62(7):808-817. doi: 10.1093/annweh/wxy057.

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a Sclerosi multipla o polisclerosi o sclerosi a placche è una malattia infiammatoria cronica che colpisce il Sistema Nervoso Centrale, che si manifesta fra i 20 e i 40 anni e con una incidenza maggiore nel genere femminile. La prevalenza della SM è maggiore in alcune aree quali l’Europa del nord, l’America del nord e il Canada. In generale, la sua distribuzione aumenta con l’aumentare della distanza dall’equatore. La SM riconosce una patogenesi autoimmune. Il sistema immunitario, infatti induce una risposta contro auto-antigeni della mielina prodotta dagli oligodendrociti, tale risposta è mediata dal sistema immunitario adattativo con l’attivazione dei linfociti T CD4+ e CD8+. I linfociti T CD4 coinvolti nella SM appartengono alla sottoclasse dei linfociti Th1 e Th17. Anche i linfociti B contribuiscono alla patogenesi della SM in vario modo: nella presentazione dell’antigene, nella produzione di auto-anticorpi (Ig monoclonali), nella generazione di centri germinativi ectopici, nella produzione di citochine pro-infiammatorie. Macrofagi, microglia e astrociti sono presenti nelle aree di demielinizzazione e di neurodegenerazione, attivati da citochine pro-infiammatorie secrete dai linfociti autoreattivi succitati. La SM è una patologia multifattoriale in cui in cui sono coinvolti fattori ambientali, genetici ed immunitari. Per quanto riguarda la genetica, esistono polimorfismi predisponenti e polimorfismi protettivi. I polimorfismi di due geni codificanti rispettivamente per la molecola del sistema maggiore di istocompatibilità HLA-DRB1 e per il recettore dell’interleuchina 7 rappresentano importanti fattori di rischio. Fra i fattori ambientali più importanti vanno citati la carenza di vitamina D, dovuta essenzialmente a scarsa esposizione alla luce solare 86 GdB | Aprile 2022

ed il fumo di sigaretta, che alimenta l’infiammazione. Infine, alcuni agenti infettivi possono giocare un ruolo nell’insorgenza della SM, fra cui gli herpes virus quali il virus di Epstein-Barr. Anche il microbiota intestinale è stato implicato nella patogenesi della SM sia in senso protettivo sia come parte del meccanismo patogenetico. La diagnosi di SM si avvale dell’esame clinico, di esami strumentali, quali la risonanza magnetica e biologici, quali l’analisi del liquido cefalo-rachidiano. © Shidlovski/shutterstock.com


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Anno V - N. 4 Aprile 2022 Edizione mensile di AgONB (Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi) Testata registrata al n. 52/2016 del Tribunale di Roma Diffusione: www.onb.it

Direttore responsabile: Claudia Tancioni Redazione: Ufficio stampa dell’Onb

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Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132

Aprile 2022 Anno V - N. 4

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Intervista a Justin Zook ricercatore del National Institute of Standards and Technology che ha contribuito a completare la mappatura del genoma umano

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