Diritti civili: a che punto siamo

La direzione
Direttori
Niccolò Generoso Alessia Prunecchi
Vicedirettori
Vittoria Lettieri Niccolò Moretti
Caporedattori
Alessia Prunecchi e Niccolò Generoso (attualità) Rosa Sperduti (letteratura) Rocco Sebastiani (cinema) Niccolò Moretti (sport) Tommaso Casanovi (musica)
L’editoriale | La necessità di dubitare
Alessia Prunecchi
“Ignorance is strength” scriveva Orwell in 1984 , indubbiamente il suo libro più riuscito. Ferma condanna contro i totalitarismi di qualsiasi colore, 1984 è molto più di una semplice opera narrativa: si tratta di un vero e proprio cult book , come affermato dallo stesso Umberto Eco nel 1984. Concluso ad appena sette mesi dalla propria scomparsa (mentre scriveva Orwell stava morendo di tisi), esso è il testamento di un autore che ha dedicato la sua intera esistenza alla difesa della libertà e della verità. 1984 è un romanzo crudo, caratterizzato da una stile asciutto e privo di fronzoli: si tratta, tuttavia, di una scelta voluta. Gli artifizi del linguaggio, l’ampollosità della prosa, la tagliente ironia orwelliana non trovano spazio nella dimensione distopica narrata, che l’autore condanna ideologicamente ma asseconda stilisticamente. Paradossalmente si cela nella parola, infatti, nella polisemia, il più grande nemico del regime del Grande Fratello. L’impoverimento culturale e sentimentale, di cui il linguaggio è veicolo primario, è alla base del controllo esercitato dal Partito sulle masse.
“Ignorance is strength”, appunto. La potenza narrativa di 1984 risiede nell’universalità del messaggio trasportato, valido oggi esattamente come nel 1948, quando fu scritto,o tra 100 anni, giacché non è un
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mistero, come ampiamente dimostrato dalla Storia, che il rifiuto dell’intelligenza è alla base di ogni totalitarismo. Laddove viene meno il pensiero critico, la pluralità di opinione, la capacità di mettere in discussione la realtà circostante, affonda le proprie radici un regime.
La coltivazione del dubbio, inteso come rifiuto delle verità assolute, è il più grande esercizio democratico si possa praticare. Il dibattito, lo scambio di idee, la contestazione sono la linfa della democrazia. La passività politica dell’individuo, di contro, è amica dell’autocrazia.
In ciò, nella primaria necessità di porsi domande, trova il proprio discorso legittimante tale cartaceo, nato con l’obiettivo di tentare di tracciare una risposta ad un interrogativo che dovrebbe esserci caro: “A che punto siamo giunti nel lungo e tortuoso cammino dei diritti civili?”.
Fin troppo spesso, infatti, si tende a crogiolarsi nei privilegi frutto dei diritti ottenuti e, in virtù di ciò, a lasciare in secondo piano quel che ancora resta da fare o, peggio, a pensare che non si possa regredire. Quel che è accaduto all’aborto quest’estate negli Stati Uniti è il più lampante esempio di ciò.
Non fa parte dei tanti privilegi di cui godiamo quello di smettere di porci domande, di dubitare.
Diritti civili e sociali
Diritto, secondo il dizionario, è un sostantivo dai numerosi significati. Un diritto può essere sia, giuridicamente parlando, una serie di norme che tutelano la convivenza dei cittadini e della società, tramite la prescrizione o il divieto di alcuni comportamenti; sia, in un contesto più ampio, una “possibilità offerta e garantita ad una persona o ad una comunità da una valutazione morale (oggettiva o soggettiva) di meriti, fatti, circostanze.” (Dizionario Devoto-Oli). Spesso primo e secondo significato sono in costante contatto tra loro: infatti, quando un diritto è voluto dalla comunità, viene spesso regolarizzato. Poi ci sono dei diritti fondamentali il cui insieme forma i diritti umani, i quali non possono e non devono essere messi in discussione all’interno di una società democratica e libera. Questi sono regolamentati dalla Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite che, tra le altre cose, riconosce cinque libertà fondamentali dell’uomo: ovvero libertà di pensiero, di opinione, di fede religiosa e di coscienza, di parola e di associazione pacifica. Questa carta, che propone una visione dei diritti come fondamento delle società, ha però un grande problema: non fa nulla per attuarli e per mantener-

li e non è, dunque, una concreta soluzione all’emancipazione degli oppressi. Come affermato dal celebre antropologo Claude Levi-Strauss: “Limitarsi ad affermare l’uguaglianza naturale di tutti gli uomini non basta, le grandi dichiarazioni dei diritti dell’uomo hanno la forza e la debolezza di enunciare un ideale troppo spesso dimentico del fatto che l’uomo non realizza la propria natura in un’umanità astratta, ma in culture tradizionali”.
Vi sono, inoltre, diverse tipologie di diritti, tra le quali spiccano due categorie: diritti civili e diritti sociali. I diritti civili sono quelle libertà garantite sia alle persone in quanto tali, come la libertà di pensiero, di movimento ecc., sia alle organizzazioni di persone, come la libertà di culto e propaganda di una religione. I diritti sociali sono, invece, tutti i diritti che che riguardano sia la tutela dei lavoratori, sia l’insieme dei servizi forniti dallo stato per garantire una rete di previdenza sociale, come istruzione, sanità o pensioni. Apparentemente queste due categorie non sono in stretto legame tra loro, ma autonome nella loro applicazione. Tuttavia, facendo un’analisi più approfondita, possiamo notare come non sia così. Infatti i diritti civili non possono essere
correttamente ed interamente applicati se non in una condizione sociale che non prevede disuguaglianze. Difatti in una società non equa è più facile che si rimanga ancorati ad una visione più conservatrice e meno aperta a nuove conquiste civili e sociali, poiché le persone potenti cercano inevitabilmente e perennemente di mantenere la loro ricchezza, tramite, anche, la conservazione degli ideali di una società che non solo li approva, ma li sostiene. I diritti sono, invece, un passo avanti, un nuovo tassello che può danneggiare la loro sovranità e, in quanto tale, un pericolo da non sottovalutare. Non è un caso che sia proprio una caratteristica tipica della destra conservatrice l’opposizione sia a diritti civili sia a diritti sociali.
Ovviamente questa si professa sempre come “dalla parte del popolo”, ma senza specificare quale parte di popolo: i ricchi. Tutto ciò può essere semplicemente sintetizzato in due parole: conservatorismo classista. La soluzione dunque alla mancanza di diritti civili, nella nostra società, è una sola: l’attuazione di una concreta lotta di classe, che ponga fine alle differenze tra gli esseri umani, allo sfruttamento di essi e, una volta per tutte, alle arretratezze culturali che frenano l’applicazione di diritti e libertà.
Aborto: diritto o crimine?
Diritto o crimine? Aborto o omicidio?
Dopo anni e anni di lotte questo resta uno degli argomenti di attualità più dibattuti. I dibattiti possono essere riassunti in queste poche, semplici parole: l’aborto è un diritto o un crimine?
Parole che si contraddicono a vicenda ma che, paradossalmente, indicano lo stesso concetto da punti di vista diversi. Ma quali sono questi punti di vista? Possiamo citare, per esempio, Marina Casini, presidente del movimento per la vita, che dice, a proposito della situazione americana: “Finalmente dopo tanto lavoro raccogliamo i frutti [...] Ci ha impiegato mezzo secolo e un numero incalcolabile di vittime indifese tra mamme e figli.” Eugenia Roccella, ministra della famiglia nel nuovo governo Meloni, che inizialmente partecipava con ardore alle manifestazioni per il diritto all’aborto, adesso lo definisce “un male necessario, per non essere schiacciate in un ruolo che chiudeva le donne in una gabbia di oppressione e subalternità” e che era vissuto come “una disperata via di fuga”. Come se l’aborto fosse un espediente, uno strumento finalizzato alla rivendicazione disperata di una tanto agognata emancipazione femminile. Poi, insieme a Meloni, afferma con convinzione di voler proteggere il diritto delle donne a non abortire. A lei si oppone Emma Bonino, compagna storica durante le lotte pro-abortiste, ricordando che “l’aborto non è un dovere, ma un diritto e chi non vuole abortire non abortisce”. I due principali gruppi che si distinguono nel dibattito sull’aborto sono i cosiddetti pro-choice e pro-life, rispettivamente pro e contro all’aborto. Il problema principale sul quale si basa la differenza tra aborto e omicidio, è quello dello statuto dell’embrione. I gruppi a favore sostengono l’idea che una persona sia un essere in grado di manifestare determinate capacità mentali e che possegga gli organi necessari alla manifestazione di queste capacità. Quindi l’embrione non può essere considerato una persona, né l’aborto un omicidio. Riferendosi al saggio pro-abortista di Judith Jarvis Thomson, ci si chiede anche se, a prescindere dallo statuto dell’embrione, la donna non sia comunque legittimata ad abortire in quanto nessuno può essere obbligato ad usare il proprio corpo per la sopravvivenza di un’altra persona.
Tra le argomentazioni è presente una
ricchissima riflessione in ambito femminista che si concentra principalmente su due punti. Il primo è in opposizione all’idea di Roccella. Le femministe definiscono l’aborto come un diritto (non un dovere) necessario per il raggiungimento della liberazione da un sistema oppressivo e discriminatorio. La seconda argomentazione si riferisce all’etica della cura, concentrandosi particolarmente sul concetto di relazionalità. La relazione tra la donna e l’embrione può essere considerata una relazione unilaterale dal momento che la totale dipendenza dell’embrione dalla donna non è reciproca. Una reazione di questo tipo non ha nessun valore morale e rimanere in una relazione di cura non desiderata implicherebbe il rischio di compromettere altre relazioni e di trascurare la cura verso sé stessi. L’American Psychological Association afferma che le donne che ricorrono all’aborto indotto non sono più a rischio di problemi di salute mentale rispetto a quelle che portano a termine una gravidanza indesiderata. Inoltre, la “sindrome post-aborto” denunciata dagli anti abortisti, non è riconosciuta da nessuna organizzazione medica o psicologica. Il numero degli aborti in Italia è inferiore a quello di molti altri paesi e in calo. È in aumento invece il numero di aborti tra ragazze giovanissime: prova che l’Italia manca di un sistema di educazione sessuale e alla contraccezione, cosa che sicuramente farebbe diminuire il numero di gravidanze indesiderate. Tematiche analoghe a quelle affrontate dai gruppi pro-choice sono discusse anche dai gruppi pro-life. Il feto è considerato da questi essere umano non per le capacità che associamo normalmente a questo ma per la capacità di svilupparle grazie al proprio corpo e seguendo uno sviluppo regolato dal suo organismo. Seguendo questa concezione (chiamata sostanzialismo), dove è l’organismo e non la mente a determinare un essere umano, l’embrione è considerato tale e l’aborto un omicidio. Il feto è vulnerabile e si trova in una condizione di bisogno a causa di un atto compiuto dalla donna, che è l’unica persona che può prendersene cura in questa fase per motivi biologici. L’opposizione ai movimenti femministi vede l’aborto come mezzo volto alla soluzione di un problema sociale che comporta violenze verso un essere vulnerabile e dipendente, trascurato dalla società.
Inoltre viene fatto notare che sono sempre presenti relazioni indesiderate, ma comunque significative, nella nostra vita. Gli anti-abortisti considerano il medico protettore della vita e totalmente in diritto di essere obiettore.
Una delle posizioni più estreme di questo fronte del dibattito è la chiesa cattolica che spesso prorompe in azioni estremiste che talvolta arrivano al fanatismo.
Il cardinale Meisner parla dell’aborto come di un genocidio e Papa Francesco si spinge fino a pargonarlo all’assunzione di un sicario.
Troviamo cimiteri dei feti, sacerdoti che irrompono in sale operatorie per bloccare interventi di interruzione di gravidanza, professoresse di religione che obbligano le alunne a giurare sulla loro castità. La chiesa si è sempre messa in mezzo alle questioni politiche italiane ed estere, spesso raggiungendo i suoi obiettivi. La legge 194 del 1978, che permette l’interruzione di gravidanza entro i primi 90 giorni dal concepimento, è infatti stata approvata in un momento di relativa debolezza del Vaticano: Papa Paolo VI era gravemente malato e sarebbe morto di lì a poche settimane. Anche dopo l’approvazione della legge, il Vaticano continua a dimostrare la sua contrarietà. Abortire resta comunque molto difficile, dal momento che in Italia c’è il 70% dei medici obiettori e 31 strutture con il 100% di obiettori tra il personale sanitario. Oltretutto, essendo l’aborto un’operazione relativamente semplice, i medici obiettori restano “casualmente” disponibili per eseguire altri interventi più difficili. L’obiezione dei medici a lungo andare spinge le donne bisognose di aiuto a cercare altre soluzioni non sicure, come metodi di auto-interruzione e operazioni eseguite da persone prive di sufficiente formazione medica o all’interno di strutture non adeguate. L’aborto non sicuro è una delle principali cause di morte tra le donne di tutto il mondo e provoca fino a 70.000 decessi e 5 milioni di disabilità ogni anno. L’aborto è una questione dibattuta da decenni e forse destinata a non cadere mai. Emma Bonino dice: “Se non vi occupate dei diritti conquistati vi alzerete un bel giorno e non ne avrete più”. Anche dopo l’approvazione delle leggi, dobbiamo continuare a lottare perché i diritti siano rispettati e non trasformati in una concessione fatta per farci stare zitti.
Eutanasia pro o contro?
Liberi fino alla fine
Alessia PrunecchiLa morte è parte della vita: chi nega ciò nega l’essenza della vita stessa. In quanto elemento costituente della vita, godere di una buona morte dovrebbe essere concesso, nel limite del possibile, ad ogni individuo. Ciò, tuttavia, malgrado la volontà personale, non sempre è possibile, specie per le persone gravemente malate, costrette a sopportare, a causa di patologie irreversibili, dolori intollerabili e a trascorrere nella sofferenza il lasso di tempo che le separa dalla morte.
A tale condizione in molti casi lo Stato italiano non offre risposte alternative alla sopportazione, per un tempo indeterminato, non necessariamente
breve, dei propri patimenti. Nel nostro paese, infatti, possono porre fine alle proprie sofferenze soltanto le persone per cui a fare ciò sia sufficiente l’interruzione delle terapie o l’assunzione (autonoma) del farmaco letale, dunque ricorrere all’eutanasia passiva. Tutte le altre non sono libere di scegliere sul proprio corpo: non fino alla fine. E un’ulteriore conferma di ciò è risuonata forte e chiaro lo scorso 15 febbraio, dopo il deposito in Corte di Cassazione di oltre 1,2 milioni di firme raccolte a favore del referendum per l’eutanasia legale, quando la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile tale quesito referendario. Il tema del fin di vita è ampio, complesso, per certi aspetti controverso, e sicuramente non comprensibile fino in fondo da coloro i quali vi si approcciano soltanto in via puramente teorica. A fianco di questa indubbia
ineffabilità, tuttavia, è evidente agli occhi dei più che la legalizzazione dell’eutanasia attiva sia un riconoscimento di dignità e di umanità a coloro che soffrono, in quanto, anzitutto, individui liberi e dotati di libero arbitrio. Essere favorevoli all’eutanasia, infatti, non significa nella maniera più assoluta volervi ricorrere, ma equivale a concedere a chi è terribilmente stanco della propria condizione di pena e dolore la possibilità di farlo, nella legalità e senza la necessità (nel caso ci sia disponibilità economica) di recarsi all’estero. La libertà di ciascuno ha come limite quella altrui. Precludere agli altri di concludere dignitosamente la propria esistenza in virtù della propria contrarietà di opinione, pertanto, appare ai miei occhi un atto immotivato, estraneo alla capacità di confrontarsi col dolore altrui e farsene carico come fosse il proprio, di provare compassione.
Il valore della vita
Lorenzo UngarL’eutanasia è un argomento molto complesso e discusso, specialmente tra i giovani. Si distinguono da subito due divergenti fazioni di pensiero: quella “pro eutanasia”, che vorrebbe garantire alle persone con gravi disabilità il diritto di morire qualora lo richiedano, e quella “contro eutanasia”, che invece sostiene la necessità di tutelare al meglio la vita, senza lasciare spazio a leggi che promuovano e consentano la morte dolce. Non credo ci sia bisogno di fornire noiose nozioni sull’ argomento, poichè sono sicuro che tutti coloro che stanno leggendo questo articolo sappiano qualcosa a riguardo e, almeno una volta nella loro vita, si siano trovati a parlarne con qualcuno. Personalmente sono scettico sulla
posizione del referendum proposto ad inizio 2022.Ritengo infatti che sia molto pericoloso proporre una legge basata sui “casi limite”, come DJ Fabo o altre persone tenute in vita da macchine. Credo sia giusto concedere loro una fine dignitosa, dal momento che sono impossibilitate ormai a compiere qualsiasi tipo di azione o che, addirittura, sono in coma da molto tempo. Mi preme sottolineare, tuttavia, che durante la mia vita ho conosciuto una persona grazie alla quale ho compreso che è possibile vivere veramente, anche se gravemente disabili. Rimango però perplesso su ciò che una legge riguardante un argomento così delicato possa provocare. Attorno ai “casi limite”, infatti, si possono sviluppare situazioni nelle quali viene praticata l’eutanasia, seppur non spetterebbe di diritto.Ciò che più mi preoccupa, è la possibilità che in un ipotetico futuro, forse non lontano, chi è in procinto di morire e dunque non è ritenuto più
utile alla società, venga semplicemente “addormentato”, poiché considerato una sola spesa economica.
L’aspetto che più mi demoralizza è che ci sarebbe un’alternativa all’eutanasia: le cure palliative. Queste permetterebbero di ridurre drasticamente le morti atroci che si verificano nel nostro paese, e di concedere una vita dignitosa a coloro che ormai sono costretti ad una sedia a rotelle o ad un letto.
Lo Stato, tuttavia, non ha intenzione di investire su tale opzione, poiché è esosa, e, forse, anche perché considera inutile spendere per una minoranza ormai incapace di giovare all’economia del paese. In conclusione, mi preme dire che l’argomento è molto delicato, e io non mi definisco contro all’idea di concedere la morte ai cosiddetti “casi limite”. Sono tuttavia contrario ad una legge formulata in questo modo, e affermo che esiste una strada per valorizzare anche le vite nelle quali tutto sembra ormai buio.
Perché i diritti umani non sono una questione (unicamente) attuale
libertà personale senza che venisse dimostrata la sua colpevolezza.
Nel 1689, dopo la seconda Rivoluzione inglese, si approvò il Bill of Rights, nel quale si riconobbe la libertà di religione, di parola e di stampa. Si trattava di due atti in cui si stabilivano diritti civili validi per tutti i sudditi inglesi senza alcuna distinzione di censo e genere; ricordiamo tuttavia che le donne e i meno abbienti continuavano però a rimanere escluse dalla vita politica. Nel 1776 si approvò la Dichiarazione di indipendenza delle colonie americane e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Si affermava così il principio con il quale è il popolo che conferisce i poteri al governo e attraverso questo meccanismo può destituirlo.
In Francia, nel 1789, venne approvata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che conteneva principi quali la scissione dei tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario), esaltava i diritti dell’individuo come libertà personale, di espressione, di culto, di stampa, e promuoveva l’uguaglianza di fronte alla legge.
I diritti civili sono diritti di cui godono tutti i cittadini di uno Stato, sono i diritti riconosciuti dall’ordinamento giuridico come fondamentali, inviolabili e irrinunciabili. I diritti civili nascono dall’esigenza di riconoscere a ciascun individuo, degli spazi di libertà nei confronti del potere.
Nel 539 a.C., l’esercito di Ciro il Grande, primo re dell’antica Persia, conquistò la città di Babilonia, ma fu la sua azione successiva a segnare veramente un passo importante: liberò gli schiavi, dichiarò che ognuno aveva il diritto di scegliere la propria religione e stabilì l’uguaglianza tra le razze. Questi ed altri decreti furono incisi su un cilindro di argilla cotta, in lingua accadica, con la scrittura cuneiforme; quest’antica incisione è stata ora riconosciuta come il primo documento al mondo sui diritti umani. Così gli Ebrei, prigionieri in Babilonia, furono liberi di tornare in patria e professare la propria fede. Da Babilonia, l’idea dei diritti umani si diffuse rapidamente in India, in Grecia ed infine a Roma.
Nel 1215, il re d’Inghilterra Giovanni Senzaterra emanò la Magna Charta Libertatum in cui erano stati affermati alcuni diritti fondamentali come quello di non essere condannati senza motivo e di essere giudicati da un tribunale legittimo. Questi diritti, tuttavia, non spettavano a tutto il popolo ma solo agli aristocratici e al clero. Successivamente la Petizione dei Diritti, del 1628: un documento creato dal Parlamento inglese e indirizzato al re Carlo I, a cui era chiesto il riconoscimento di diritti, tra i quali l’inviolabilità personale e la necessità del consenso parlamentare per le imposizioni fiscali. Fu il primo tentativo di limitare i poteri della Corona inglese. Carlo I fu ucciso: oltre ai motivi religiosi che causarono la rottura con il Parlamento possiamo ipotizzare che la causa sia stata anche il non avere assecondato la richiesta, da parte del popolo, di maggiore libertà. Nel 1679, sempre in Inghilterra, venne emanato l’Habeas Corpus Act, il quale stabiliva che nessun suddito poteva essere arrestato dunque privato della sua
Nel corso dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento le lotte del movimento operaio e di quello femminista portarono alla conquista di nuovi diritti civili e politici, tra i quali il diritto di voto alle donne. Ricordiamo che in Italia il diritto al voto per le donne fu conferito solamente nel gennaio del 1945. Il suffragio universale, tuttavia, era già presente in altri Paesi. In Nuova Zelanda, ad esempio, le donne potevano votare già dal 1893, in Finlandia dal 1906 e in Norvegia dal 1907.
La seconda metà del ventesimo secolo fu connotata dalle battaglie degli afroamericani contro le discriminazioni razziali negli USA, la lotta all’apartheid in Sudafrica, la discussione mondiale contro la pena di morte.
La lotta per i diritti civili prosegue da migliaia di anni. La conclusione di essa, tuttavia, non verrà mai raggiunta poiché alterne e complesse sono le vicende dei vari stati; continuo e progressivo, seppur talvolta interrotto, è il cammino dei diritti; è un gradino di una lunga scala difficoltosa, a volte piena di ostacoli, battaglie, conquiste e involuzioni. È giusto interrogarsi, però, sul punto a cui siamo giunti oggi: se ci troviamo ancora davanti al cilindro di Ciro il Grande o qualche passo in avanti l’abbiamo fatto.

Il caporalato e il lavoro in nero nel settore agricolo italiano

Caporale è colui che, per conto di un proprietario terriero o un imprenditore, è incaricato di reclutare per poco tempo e in maniera irregolare dei braccianti, per portarli a lavorare nei campi. Il fenomeno del caporalato è diffuso in tutta Italia, particolarmente all’interno del settore agricolo. Per caporalato si intende, ufficialmente, una “forma illegale di reclutamento e organizzazione della mano d’opera”: costituisce in Italia la forma più comune di sfruttamento dei lavoratori nei campi, in particolare a causa della stagionalità dei rapporti di lavoro nei campi, e spessissimo la sua pratica è connessa a organizzazioni malavitose e mafiose, che ne traggono facile profitto. Le fasce di popolazione maggiormente al rischio di tale tipologia di sfruttamento sono migranti, extracomunitari e più in generale individui che si trovano in condizioni economiche precarie o disagiate, che si trovano quindi costretti a sottoporvisi: nel settore agricolo italiano raggiunge il 24% il tasso di occupati irregolari, senza nemmeno includere nella stima i lavoratori privi di permessi di soggiorno validi – il che sarebbe a dire, la categoria fra tutte più a rischio di sfruttamento.
L’assenza del contratto lavorativo rende, dunque, effettivamente invisibile e irrilevabile agli occhi dello Stato l’esistenza del rapporto lavorativo in nero: il datore,
in questo modo, può evadere il fisco, assumere manodopera priva di permessi di soggiorno, violare le normative vigenti riguardo agli standard di sicurezza e ai diritti dei lavoratori; coloro che, costretti dalla necessità, accettano di prestare la propria manodopera sotto questi sistemi di lavoro sono dunque costretti a sopportare condizioni spesso disumane e degradanti, il tutto in cambio di una paga assolutamente esigua, al limite della schiavitù. I braccianti sono frequentemente ridotti a vivere in vere e proprie baraccopoli temporanee, come nel caso di coloro – in prevalenza di origine africana – che ogni estate si prestano a lavorare nei campi di pomodori del sud Italia: in queste tendopoli mancano servizi pressoché indispensabili, come acqua, luce e servizi igienici, senza contare il problema dello smaltimento dei rifiuti.
Nei campi non viene fatta alcuna distinzione tra giorni feriali e non; la giornata lavorativa dura dalledieci alle dodici ore, con una retribuzione che consiste spesso di meno di quattro euro all’ora. Sul campo la manodopera non è fornita di dispositivi di protezione, né ovviamente di una formazione adeguata sul piano teorico (è frequente la falsificazione dei documenti che servirebbero ad attestarla).Non è raro che le persone ridotte a lavorare per undici ore sotto
al sole cocente di agosto finiscano per sentirsi male e persino col morire: basta menzionare il caso del quarantasettenne Mohammed Abdullah, padre di due figli, che dopo essere stato mandato nei campi – nonostante i datori di lavoro sapessero che aveva febbre alta e polmonite – in una giornata di 40 gradi di temperatura, morì a causa di un malore. Le condizioni delle lavoratrici donne sono, se possibile, anche peggiori. Se un bracciante maschio può guadagnare la gargantuesca somma di quaranta euro al giorno, per una donna questa si abbassa generalmente intorno ai venti – trenta, se non inferiore. Sul posto di lavoro sono frequentissimi gli abusi psicologici e sessuali, le molestie, gli stupri da parte dei caporali, che restano impuniti; rifiutare le avance sessuali del reclutatore può significare il licenziamento o la punizione sul lavoro, in un sistema di ricatto da cui è complicato sfuggire. La differenza di paga conosce anche differenze basate sulla nazionalità: una donna italiana può guadagnare in certi casi più di un uomo straniero. Una realtà, quella del caporalato e del lavoro agricolo in nero, i cui confini sfumano indistintamente nello schiavismo, quasi anacronistica eppure radicata e oppressiva, che rimane (e probabilmente rimarrà a lungo) per la maggior parte impunita.
Realtà come traduzione
Nel Seicento lo scrittore francese Perrot d’Ablancourt faceva traduzioni ammodernate dei classici della letteratura, in cui Achille e Odisseo, raffinati schermidori, sembravano più ambasciatori del Re Sole che eroi antichi. In un celebre commento, l’erudito Gilles Ménage definì una delle traduzioni di Perrot d’Ablancourt “bella ma infedele”, una formula fortunata, oggi entrata nell’uso comune per riferirsi a un processo di addomesticamento del testo: il traduttore si manifesta, per avvicinare il lettore all’autore. Nell’annosa questione della traduzione letteraria, a questa concezione si oppongono i letteralisti, secondo cui il traduttore dovrebbe scomparire. Il movimento, dunque, sarebbe uno solo, quello dall’autore al lettore. Quando si arriva di fronte a casi estremi, come la tauto-traduzione di Georges Perec (membro dell’Oulipo che sperimentava traduzioni dal francese al francese, seguendo i vincoli della cosiddetta “letteratura potenziale”, come, ad esempio, l’eliminazione di una certa vocale in un testo), l’ideale della letteralità viene meno. La traduzione è un tradimento sempre possibile. Umberto Eco, nella sua introduzione agli Esercizi di stile di Raymond Queneau (Einaudi, Torino, 1984, pag. XVII), scrive che “nessun esercizio di questo libro è puramente linguistico [...], ciascuno è legato all’intertestualità e alla storia”, quindi “bisogna, più che tradurre, ricreare in un’altra lingua e in riferimento ad altri testi, a un’altra società, e a un altro tempo storico”. Non solo, dunque, la traduzione è un tradimento possibile, ma è anche estensibile, come voleva Nabokov, che alla sua versione di Alice nel Paese delle Meraviglie diede caratteri della cultura popolare russa. Il poeta messicano Octavio Paz arriva ad affermare, per sostenere la traducibilità della poesia, che la traduzione è insita al testo letterario, nel momento in cui si mette per iscritto nella propria lingua ciò che della realtà si è percepito col mentalese, una lingua muta, o un modo d’intendere le cose, che non ha bisogno delle parole, scritte o parlate. Si comunica in mentalese quando si prova un’emozione indicibile (e quindi la letteratura è parziale e fedifraga in partenza), o quando si balbetta per cercare la parola corretta in un’altra lingua, ma l’interlocutore ci intende prima. Anna Aslanyan, nel suo libro I funamboli
della parola, mette in luce l’importanza della traduzione al di fuori dell’ambito strettamente letterario, con avventurose e paradossali interpretazioni, in cui la storia sarebbe oggi diversa se, di un testo o di una dichiarazione, non fosse stata data quella interpretazione. Così, se l’astronomo Giovanni Schiaparelli non avesse usato indifferentemente le parole “fiume” e “canale” per indicare le striature sulla superficie di Marte, creando grande scompiglio nei traduttori inglesi, forse non si sarebbe diffusa la strampalata teoria, poi vera e propria moda, delle grandi opere idriche costruite da misteriose civiltà aliene; forse, se gli interpreti di Kruscev non avessero attenuato la sua ironia mordace e sboccata, Kennedy non avrebbe avuto il medesimo riguardo durante la crisi della baia dei Porci. Accanto ai se e ai forse, Aslanyan riporta anche fatti, in cui, ad esempio, la traduzione si fa strumento di lotta e di sopraffazione. Come quando Göring, per bulimico orgoglio, correggeva gli interpreti al processo di Norimberga, e di tutta risposta fu soprannominato, da un interprete ebreo sfuggito alla Shoah, “signor Scarso” (in tedesco, “Herr gering”). Fa notare Aslanyan che la traduzione non si limita alla parola; la trasposizione da un linguaggio a un altro si risolve anche nelle azioni. L’etichetta di comportamento è un codice dove è stato facile, nel corso dei secoli, incagliarsi per via di un’incomprensione, quasi non si riuscisse a trovare una certa parola nel vocabolario. Come accadde al diplomatico britannico Arthur Connolly, nell’ambito del Grande Gioco, che fu giustiziato dall’emiro di Bukhara per non essere sceso da cavallo all’atto di salutarlo. E come accadde - questo Aslanyan non lo racconta - durante la prima ambasciata britannica in Cina, nel 1793: lord George Macartney vi fu
inviato da Giorgio III per instaurare una nuova rotta commerciale, ma alla richiesta della corte di inchinarsi per tre volte al cospettodell’imperatore Qianlong, Macartney si rifiutò, mandando a rotoli la spedizione.
L’ossequio dell’Oriente, misto a un retroterra filosofico così antipodico rispetto all’Occidente, ha costituito sempre una muraglia per le comunicazioni. Così quando, al mutismo del Giappone, racchiuso in sé da due secoli, gli Stati Uniti opposero, nel 1853, lo strepitio dei cannoni, pronti abombardare una Tokyo (allora Edo) ancora in legno, pur di creare un nuovo asse commerciale. In questa prospettiva, la traduzione è il processo con cui si interpreta il mondo. E non solo attraverso gli scritti, ma anche attraverso i comportamenti e il loro protocollo. La realtà ci risulta una traduzione, sempre, comunque mediata dal linguaggio e dai sensi.
Così definita la traduzione, ci sarà sempre un margine di incomprensione, dovuto a un compromesso fra linguaggio di partenza e linguaggio d’arrivo.
La diversità stessa fra un intelletto e un altro, fra un mentalese che non sarà mai lo stesso di un altro mentalese, pone la traduzione, che è lo strumento con cui interpretiamo la realtà, di fronte a una criticità: l’impossibilità di capire e capirsi del tutto. Della realtà come traduzione aveva già scritto, in versi, Charles Baudelaire nella poesia Correspondences (Corrispondenze): “La Nature est un temple où de vivants piliers / Laissent parfois sortir de confuses paroles; / L’homme y passe à travers des forêts de symboles / Qui l’observent avec des regards familiers. “ (“È un tempio la Natura ove viventi / pilastri a volte confuse parole / mandano fuori; la attraversa l’uomo / tra foreste di simboli dagli occhi / familiari”, traduzione di Luigi de Nardis).

La politica della guerra nel cinema
Il cinema è cultura. Il cinema è colore. Il cinema è arte. Il cinema è lingua, genio, creatività, illusioni ed emozioni. È razionalità, intelligenza, disciplina. È autogoverno, libertà ed emancipazione.
Il cinema propaga idee e sensazioni, manifesta agli occhi della platea realtà nuove e affascinanti, presupposti, concezioni di vita ed opinioni.
Il cinema è uno strumento di diffusione. Il cinema è un messaggero, è un messaggio. Ma il cinema è anche politica. È una politica più barbara, più diretta, più sofisticata e moderna di quella canonica; un attrezzo sempre utilizzato al fine di molteplici scopi dai politici nella storia, per avvicinarsi di più al demos e per dunque avere un rapporto più intimo e familiare con esso: nelle grandi pellicole della storia sono presenti svariati messaggi, di cui molti politici. Il cinema è condizionato comprensibilmente dalla condizione politica del momento, checambia da territorio a territorio, che influisce (sia negativamente che positivamente) sul lavoro conclusivo, appoggiando determinate idee e visioni politiche. In questi casi l’occhio del regista e del produttore determina radicalmente lo scorrimento del film e della trama, insinuandosi nei più rarefatti dialoghi e quindi giocando un ruolo essenziale per quello che poi sarà, oltre che un film, anche una finestra sui modelli degli autori. Infatti il cinema è anche opinione: è occhio critico e archetipo personale. Un argomento che però anche il cinema può mancare di rappresentare è la guerra. La guerra è un tema spesso intrattabile a causa dei complicatissimi presupposti che, conflitto dopo conflitto, hanno contribuito a dare un’idea brusca e severa di una materia attuale e contemporanea. Esistono film di pura propaganda bellica: prodotti e creati dai governi di singoli Paesi, hanno lo scopo di avvicinare e di proiettare quelli che sono gli ideali del Paese in questione durante un determinato periodo, tramite un mezzo tanto potente come il cinema. Spesso sono film pseudo-documentaristici, con una voce narrante che espone princìpi politici avversi ed ostili ad una determinata parte nemica, accompagnata da immagini di archivio reali o di stampo fantasioso (attenendosi ad un’esposizione alquanto di parte, per esigenze logiche).
La Seconda guerra mondiale ci ha re-
galato diverse “perle” in questo senso: le opere che trattano il conflitto, anche quando sono prodotte decenni dopo la sua fine, non sono mai neutrali. In ogni pellicola sul tema possiamo rilevare una parte malevola, rappresentata nella stragrande maggioranza delle volte dalla Germania nazista, ed una parte “buona”, con protagonisti provenienti da quello che diventerà poi il blocco occidentale. Un conflitto politico che comunque ha segnato nel profondo anche a livello artistico, causando uno scontro di interessi altresì nel cinema. Per dare un’etichetta a questi film bisogna però esporre alcuni precetti comuni. Per esigenze di sintesi ho creato due gruppi distinti per chiave interpretativa e temporale: i film girati durante la Seconda guerra mondiale e nei due decenni successivi, principalmente negli Stati Uniti (che ricordo essere uno dei vincitori del conflitto, oltre ad essere la superpotenza che si sarebbe in seguito divisa il mondo con l’Unione Sovietica), ed i film realizzati dopo questo periodo. Il primo periodo è caratterizzato principalmente da film di propaganda e di contenuto patriottico: tra il 1940 ed il 1950 le principali case di produzione americane, tra cui Hollywood, sotto comando del governo realizzarono moltissimi film di propaganda bellica, fondamentalmente per invogliare i giovani ad arruolarsi nell’esercito. Uno degli esempi più calzanti è Why We Fight (“Perché combattiamo”), una serie di sette film prodotti tra il 1942 ed il 1945 commissionati dal governo americano, che affidò il compito di realizzarli ad uno staff di Hollywood sotto la supervisione del regista Frank Capra, vincitore di sei premi Oscar. In pochissimo tempo, utilizzando materiale di repertorio e avvalendosi di un abile montaggio, il governo americano ha regalato ai posteri delle vere e proprie fonti storiche, tanto che tutta la serie di film è stata inclusa nel 2000 nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Questa era la premessa che appariva nei titoli di testa: «Lo scopo di questi film è di dare informazioni reali sulle cause e sugli eventi che hanno portato alla nostra entrata in guerra e sui principi per i quali stiamo combattendo.» Anche dall’altra parte della linea nemica il cinema giocava un ruolo fondamentale nella propaganda: nel 1931
la Germania organizzò i Giochi Olimpici del 1936, e Hitler salirà al potere nel 1933. Berlino 1936 avrebbe potuto essere l’occasione per far vedere al mondo la rinascita della nuova Germania, distrutta dalla fine della Prima guerra mondiale, ed il cinema era il mezzo giusto: aveva un grande impatto sulle masse e sulla produzione di un immaginario collettivo.
La regista Leni Riefenstahl (1902-2003) fu incaricata di girare un documentario sull’evento. Ebbe ampia libertà nella produzione del soggetto e grandissimi mezzi per produrlo. La regista e Hitler godevano di reciproca stima e fiducia; lei era rimasta folgorata durante un incontro politico dall’energica retorica del Führer, e lui, che si reputava un artista, era stato colpito dal primo film di Riefenstahl. Olympia, il risultato di questa collaborazione, è un documentario di 217 minuti dove trovano spazio valori come bellezza, fascino e spettacolarità: gli elementi che Hitler voleva esaltare della nuova gloriosa Germania nazista. Il valore tecnico e agonistico è quasi in secondo piano, l’Olimpiade è un pretesto per esaltare l’armonia dei corpi, la suggestione del momento. Dopo circa vent’anni dalla fine della guerra il cinema bellico si trasforma in antimilitarista: si mostrano la violenza e la distruzione; uomini e donne che cercano di sopravvivere, tentando di conservare i valori di umanità e solidarietà che spesso, al contrario, si perdono. Questi film sono stati prodotti appunto decenni dopo la fine della guerra, quando la memoria dello scontro si era affievolita e quando l’esigenza prevalente era di raccontare storie legate a valori universali che accomunano l’umanità intera.
I soggetti delle storie che raccontano il periodo tra il 1939 ed il 1945 talvolta sono storie vere: ad esempio L’uomo che verrà, che tratta dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, oppure Schindler’s List (con cui Steven Spielberg vinse l’Oscar alla miglior regia nel 1994), che racconta la storia di Oskar Schindler, imprenditore tedesco che riuscì a salvare circa un migliaio di persone da morte certa nei campi di concentramento.
Il cinema è allora anche storia: una storia raccontata in modi diversi, sotto chiavi di interpretazioni discordanti, una narrazione unica e ben diretta verso un determinato scopo.
Caro Seppi, il tennis italiano ti è riconoscente
“Giocherò il mio ultimo torneo a Napoli o a Ortisei” diceva, in un’intervista rilasciata a RAI Tgr Sudtirol il 12 ottobre, un ignaro Andreas Seppi mentre dava l’annuncio del suo addio al Tennis giocato. Invece il suo ritiro si è consumato nell’intimo ambiente del challenger di Ortisei, dove Seppi ha trionfato nel 2013 e nel 2014, al termine di un primo turno perso, non senza lottare, contro Yannick Hanfmann, davanti alla sua gente, ai suoi tifosi, ai suoi conterranei. Andreas Seppi si è ritirato senza troppe cerimonie in un centrale del Tennis Center di Ortisei ben lontano in tutto e per tutto dalla grandiosità della O2 Arena o dell’Arthur Ashe, testimoni dei più celebri addii di Roger Federer e Serena Williams. L’altoatesino, che nel corso di tutta la sua carriera si è contraddistinto per la discrezione, avrebbe preferito ritirarsi per una volta facendo rumore, magari davanti ad un pubblico più nutrito, magari davanti ai 4000 del Tennis Napoli Club in occasione dell’ATP 250. Sceso al numero 257 della classifica mondiale, Andreas non aveva una posizione sufficiente per accedere al tabellone principale di un torneo ATP, e quindi aveva chiesto all’allora Federazione Italiana Tennis una Wild Card.
La concessione sembrava scontata, tuttavia la FIT(P) ha spiazzato tutti negandogliela. La motivazione, a quanto ha dichiarato il tennista, è che la federazione non se la sentiva di “sprecare” una Wild Card per un giocatore in odore di ritiro, preferendogli giovani rampanti come
Luca Nardi e Flavio Cobolli (entrambi usciti al primo turno). Seppi si è limitato ad esprimere il suo disappunto in modo moderato, come sempre ha fatto nel corso della sua carriera: “Mi sarebbe tanto piaciuto giocare in tabellone a Firenze o a Napoli per dare l’addio al tennis, purtroppo però la Federazione Italiana Tennis non me l’ha permesso, dicendomi che ‘dare la Wild Card a uno che si ritira sarebbe stato uno spreco’”. Così ha affermato con una storia instagram il campione caldarese. Le sue parole, tuttavia, hanno suscitato l’ira di molti appassionati, italiani e non. È vero che il tennis italiano sta vivendo uno dei momenti più floridi della sua storia, con nuovi giovani talenti che vengono fuori quasi ogni settimana e con (ormai possiamo dirlo) tre atleti di punta che stanno ottenendo risultati incredibili, ma è anche vero che non bisogna mai dimenticare da dove si viene.
E il tennis italiano viene da anni bui, in cui l’unica, rara, luce erano gli acuti di Andreas Seppi che comunque ha passato 810 settimane tra i migliori 100 tennisti al mondo. Persino il sito di tennis spagnolo “Punto de Break” ha commentato: “È incredibile che nel momento finale della sua carriera (di Seppi ndr) la Federazione Italiana del Tennis (FIT) non ha ritenuto di dovergli attribuire una Wild Card, motivo per cui al tennista di 38 anni non è stato consentito di salutare i suoi fans” e poi ha aggiunto che “non si può dimenticare e trattare un giocatore che ha fatto tanto per il tennis

italiano in questo modo”.
La concessione di una Wild Card ad un atleta prossimo al ritiro non sarebbe stata neanche tanto scandalosa, ne sono la dimostrazione quelle date a Jo-Wilfried Tsonga (37 anni) per questo Roland Garros e a David Ferrer (allora trentasettenne) in occasione del Masters 1000 di Madrid del 2019.
Sicuramente quella di Napoli sarebbe stata la cornice perfetta per il suo ritiro perché Andreas Seppi, sul lungomare della rotonda Diaz, ha ottenuto una delle vittorie più importanti della sua carriera, quella contro James Ward in coppa Davis, che consentì all’Italia di superare la Gran Bretagna di Sir Andy Murray e di accedere alle semifinali del 2014. Si sarebbe accontentato anche di un posto nel tabellone principale a Firenze ma neanche lì hanno ritenuto opportuno concedergli una Wild Card. Al primo turno di qualificazione a Firenze ha giocato bene, tanto da mettere alle corde Mikael Ymer, che ha poi raggiunto la semifinale. Nonostante la poca riconoscenza da parte della federazione al momento del ritiro, di Seppi ci rimarranno 215 settimane come tennista italiano più forte, più di 1200 partite giocate, una bellissima vittoria contro Roger Federer in Australia nel 2015 e il ricordo di una bravissima persona perché, checché tu ne dica caro Andreas, essere una brava persona conta più di 1000 vittorie.
Ma soprattutto sappi che l’intero tennis italiano ti è riconoscente
Le premesse del Mondiale più discusso di sempre
Il 21 novembre 2022 alle 11 italiane ha preso il via la ventiduesima edizione dei mondiali di calcio, che si sono tenuti per la prima volta nella loro storia durante i mesi autunnali di novembre e dicembre. Questa scelta è dovuta all’impossbilità di svolgere delle gare a così alta intensità con il clima torrido del Qatar nel periodo estivo e ciò, di conseguenza, ha portato a una forzata sospensione di tutte le competizioni per club per consentire lo svolgimento dei mondiali. Viene quindi spontaneo chiedersi perché la FIFA abbia scelto come paese ospitante del Mondiale 2022 proprio il Qatar. Per capire meglio la vicenda, bisogna fare un lungo passo indietro, fino al 23 Novembre 2010. Più precisamente ci troviamo in un affollato ristorante francese, l’Eliseo, dove ad un tavolo pranzano alcuni rappresentanti dell’ Emirato e, tra gli altri, l’allora presidente della repubblica francese Nicolas Sarkozy affiancato da Michel Platini, a quel tempo presidente dell’UEFA. Non sappiamo e probabilmente non sapremo mai di cosa discussero, ma nove giorni dopo, il 2 Dicembre 2010, il Qatar venne designato come paese ospitante del mondiale 2022, e proprio grazie al voto decisivo dello stesso Platini che poco più di una settimana prima aveva preso parte al fatidico pranzo. Come affermò l’allora vicepresidente della Fifa Jérôme Valcke “Ci fu un voltafaccia, un cambiamento improvviso da parte di Michel, che fu legato a qualcosa.
O al fatto che si rese improvvisamente conto che il Qatar era il candidato migliore, o a qualcosa di cui si discusse a quel pranzo”. Secondo un’inchiesta portata avanti da Radio France, tra le principali stazioni radio francesi, fu lo stesso presidente della repubblica Sarkozy a convincere Michel Platini a cambiare decisione in merito al paese ospitante. Il presidente UEFA di quel tempo, Sepp Blatter, affermò che Platini dopo il pranzo del 23 Novembre lo aveva chiamato per dirgli che Sarkozy gli aveva raccomandato di votare per il Qatar. Ma tutto ciò porta ad un’altra domanda: in cambio di cosa il presidente Sarkozy esercitò pressioni così grandi su Platini (e probabilmente non soltanto su di lui)? Questo probabilmente non verrà mai appurato con certezza, ma alcune piste verosimili potrebbero essere l’acquisto del PSG (squadra calcistica più importante di Francia) da parte di Qatar Sport Investment, avvenuto poco tempo dopo la scelta ufficiale del Qatar come paese ospitante per il mondiale 2022 o la creazione della BeinSport TV in Francia, con i diritti della Ligue 1 e del mondiale. In seguito all’assegnazione, il Qatar ha presentato un piano di costruzione perrealizzare ben sei nuovi stadi, a cui si aggiunge l’ampliamento di uno dei due già esistenti, per un totale di otto stadi ospitanti, senza considerare gli impianti sportivi di allenamento e gli hotel necessari per giocatori e tifosi. L’ingente offerta lavorativa ha attirato mano

d’opera da tutto il resto dell’Asia e, negli anni subito successivi all’assegnazione del progetto, il Qatar ha registrato un afflusso migratorio superiore al 50% (la stessa popolazione qatariota è passata dai circa 1,7 milioni del 2010 ai più di 3 milioni registrati nel 2021).
La grande quantità di edifici da costruire in solo un decennio e i tempi di consegna molto ristretti hanno esposto i lavoratori a lavorare in condizioni disumane, tra temperature proibitive e turni di lavoro stremanti e particolarmente lunghi. Per molti anni la FIFA e il Qatarhanno agito nell’ombra nascondendo i reali numeri delle vittime dietro pratiche archiviate e false informazioni. Solo nel 2020 il celebre quotidiano britannico “The Guardian” ha condotto un’inchiesta per dare al mondo un’idea veritiera sulla quantità di operai morti sul posto di lavoro nella costruzione di tali infrastrutture. Secondo le stime da loro condotte la somma complessiva delle vittime tocca i 6751 lavoratori, tutti migranti, di cui 2711 indiani, 1641 nepalesi, 1018 provenienti dal Bangladesh, 824 pakistani e 557 provenienti dallo Sri Lanka, ai quali vanno aggiunti i decessi successivi al 2020. Parliamo di 13 operai morti a settimana. Come spesso accade in situazioni di questo tipo, lo scalpore destato dall’articolo del “The Guardian” ha spinto moltissime altre testate giornalistiche ad approfondire le indagini. Ad oggi ci è ancora impossibile determinare con certezza un numero esatto di vittime, dal momento che molte di queste non sono state neanche conteggiate nei documenti ufficiali, ma con ogni probabilità siamo venuti a contatto solo con la punta dell’iceberg.
Dalle poche testimonianze a noi giunte, ci troviamo di fronte a una vera e propria schiavitù moderna: uomini che hanno vissuto sulla propria pelle questa tortura ci raccontano di turni da 66 ore settimanali per arrivare a guadagnare 2000 riyal (poco più di 500 euro mensili), nel caso degli operai specializzati, o addirittura 500 riyal (circa 150 euro) nel caso dei lavoratori semplici.
Appare dunque chiaro il motivo per cui, fin da prima di iniziare, il mondiale in Qatar è stato uno dei più discussi di sempre. Nell’ultimo mese, abbiamo visto il frutto delle migliaia di vite e tangenti occorse per praticare uno sport.
Perché ricordiamolo: il calcio dovrebbe essere uno sport.
AlbertoIntervista a Larissa Iapichino
Larissa Iapichino è una ragazza di venti anni, Fiorentina, la cui più grande passione è il salto in lungo. Figlia della grande lunghista Fiona May, anche Larissa negli ultimi anni, sta entrando sempre di più nel mondo dell’atletica, ottenendo ottimi risultati, conquistando l’oro negli Europei U20 del 2019 e qualificandosi per le Olimpiadi con un salto di ben 6,91 m. (a cui poi non ha potuto partecipare per via di un infortunio). L’atleta oltre ad essere sempre molto presente per i suoi fan, ha pubblicato un libro: “Correre in aria”. Larissa in questo libro oltre a parlare del suo sport, descrive anche le


emozioni e le difficoltà che incontra al di fuori della pista, facendo capire ai lettori che è una ragazza come tutte le altre, parlando della sua vita amorosa, delle sue amiche, dell’interesse per la moda, delle sue mattinate e delle corse che fa a colazione per non arrivare tardi a scuola. Nutrendo personalmente una grande ammirazione nei confronti di Larissa, ho pensato di presentarla ai miei coetanei, ponendole alcune domande che riguardano sia lo sport che la sua vita quotidiana.
Larissa, come hai fatto a conciliare scuola e sport? È stato difficile? Quali
consigli vorresti dare ai ragazzi e alle ragazze che fanno sport per riuscire ad organizzarsi meglio?
È stato abbastanza difficile conciliare le due cose, ma con tanta organizzazione si riesce a fare tutto bene.
Il consiglio che mi sento di dare è non arrendersi mai e cercare il proprio equilibrio tra scuola e sport (programmi giornalieri nel mio caso) senza però rendere la cosa troppo stressante.
Il fatto che tua mamma sia una grande atleta, ha influito sulla tua scelta sportiva?
Il fatto che mia mamma sia stata una grande atleta non ha influito sulla mia scelta sportiva, anzi. Inizialmente non volevo fare atletica per questo motivo.
C’è uno sportivo o una sportiva a cui ti ispiri?
La sportiva a cui mi ispiro è Ivana Vuleta. Oltre ad essere fenomenale nel salto in lungo, è una persona umile, che ha un bellissimo rapporto con i suoi fan.
Hai un motto o una frase motivazionale che ti ripeti prima delle gare? Se si, qual è?
Il mio motto è “the best is yet to come” (il meglio deve ancora venire).
MicheRubriche
MicheLiber Mille splendidi soli di Khaled Hosseini
Giulia Maglio
Mariam, una delle due protagoniste del romanzo, è una ragazza di quindici anni.Questa sogna la vita che suo padre, ricco uomo d’affari, le racconta ogni giovedì quando le fa visita. Cinema, luoghi meravigliosi e poeti che Mariam non conoscerà mai perché è una harami, una bastarda. Laila, invece, è cresciuta avendo la possibilità di formarsi ma abbandonata, con al suo fianco solo Tariq, il vicino di casa. In un Afghanistan dilaniato dalla guerra, martoriato e condannato alla violenza, il destino delle due ragazze si incontra. Laila e Mariam, accomunate solo da un passato di dolore e sopportazione, trovano il coraggio di alzare la testa e allearsi contro Rashid, loro marito. Circondate da mortificazione e paura, offese e violenze, in una realtà dove alle donne non è concesso di sperare, le due giovani traggono uno spiraglio di luce l’una dall’altra. Si ribellano alla sofferenza delle umiliazioni che gli hanno sempre insegnato essere inevitabili e giuste. Mille splendidi soli è un romanzo crudo, di denuncia, ora più che mai attuale. L’osservatore dell’Onu per i diritti umani in Afghanistan ha affermato, infatti, che ‘i talebani tentano
di rendere invisibili le donne’. In un mondo patriarcale, che dichiara guerra ad ogni parte rigogliosa e femminile, le donne, tuttavia, alzano la testa, disposte a pagare qualsiasi prezzo, proprio come Laila e Mariam. Ed è emblematico di ciò non solo quanto avviene in Afghanistan, ma anche ciò che è accaduto e sta accadendo in Iran: capelli tagliati, veli bruciati e un unico grido comune “Donna, vita e libertà”.
MicheLiber Diari di Sylvia Plath
Margherita Fiani“Ogni giorno un esercizio, oppure un giretto nel flusso di coscienza? L’odio crepita e mi si agita contro: offuscando l’idea di luminosità.” Dal 1950 al 1962 la poetessa e scrittrice Sylvia Plath tiene i suoi diari. Abitudine nata fin dall’infanzia, la scrittura del diario per la Plath rappresenta un modo per registrare la propria vita e idee poetiche. All’interno di questa raccolta sono contenuti resoconti autobiografici in prima persona, ma anche estratti delle sue opere, come “La campana di vetro”.
All’inizio del libro la Plath è una giovane donna con l’obiettivo di diventare una scrittrice. Frequenta lo Smith College grazie ad una borsa di studio. In questo periodo la sua scrittura è visibilmente
influenzata dai maestri assumendo fini pratici e remunerativi, quasi per ottenere approvazione. La vita scolastica scandisce pagina dopo pagina la quotidianità della Plat: la pressione accademica per essere all’altezza delle opportunità ricevute è grande. Per cercare di costruirsi un nome invia poesie e testi presso i giornali più importanti, cercando di essere pubblicata, ma i rifiuti compaiono più volte, portando la sua fiducia in se stessa a diminuire. Uno dei temi più ricorrenti in questi scritti è la sua fragile sanità mentale. Le crisi nervose sono frequenti, accompagnate da episodi depressivi e tentativi di suicidio. La madre le sarà d’aiuto nel percorso di psicoanalisi, ma ben presto si trasformerà in un ostacolo alla felicità della figlia diventando intollerente ed esigendo da parte sua maggiore impegno. A causa della sua malattia Sylvia non riesce a continuare a scrivere. Le appare sempre più duro quando allo specchio vede solo la figura sbiadita di colei che avrebbe voluto essere e non riesce a non mettersi a confronto con i suoi coetanei. Ma riconoscersi degni del vero amore è lo scoglio principale. L’immagine di se stessa le appare continuamente distorta, come scrive: “La mia faccia non la conosco. Un giorno un giorno lo specchio me la sbatte davanti brutta come un rospo: la pelle con i pori dilatati, ruvida come una grattugia, che trasuda soffici pustole di pus, punti neri, duri grani di impurità, un reticolo ruvido.” Dopo il matrimonio si può notare che il suo tono cambia: nei diari sminuisce le sue abilità di fronte alla figura del marito Ted Hudges, noto scrittore. Un matrimonio che all’inizio sembrava una favola si rivela presto una delusione: marito infedele ed unavita amorosa deludente; ma i figli le arrivano in soccorso come un dono divino, riportandole la felicità. Nel 1962 Sylvia Plath muore suicidandosi. Tali diari, che si distinguono per uno stile semplice e colloquiale, hanno affascinato numerosi lettori. In essi, infatti, si possono rivedere moltissime donne. Sylvia Plath racconta di sensazioni e situazioni comuni e esprime quello che molti non riescono a dire a parole. Apre il suo cuore alle pagine di un diario, diventando una confidente fedele e paziente, quasi un’amica. Ci permette di rifugiarci nei suoi pensieri tangibili e ritrovarci i nostri.

Pink Floyd Animals, finalmente uscito il remix

È ormai da qualche settimana che è uscito il remix, realizzato nel 2018, del rivoluzionario album “Animals” del 1977 dei Pink Floyd ed in particolare del bassista Roger Waters, principale autore dei brani, con il quale il gruppo rock britannico ha aggiunto alla grandiosità della parte musicale una forte componente di denuncia sociale dei testi. L’album comprende cinque brani, accomunati dal fatto di voler esprimere in maniera allegorica la decadenza morale della società inglese negli anni Settanta, paragonando singole categorie umane a specifiche tipologie di animali, come George Orwell in “La fattoria degli animali”.
La fotografia della copertina originale rappresenta la Battersea Power Station, tra le cui ciminiere fluttua un gigantesco maiale. Nella nuova copertina del remix il maiale è stato aggiunto in postproduzione e ciò ha permesso di evitare inconvenienti come quello accaduto durante la realizzazione della foto originale, quando l’ancoraggio che bloccava il maiale gonfiabile si spezzò, portandolo a fluttuare per i cieli londinesi finché non fu ritrovato in una fattoria ben lontana dal set fotografico.
Il maiale, battezzato Algie, venne utilizzato in varie esibizioni dal vivo.
Il disco inizia con la prima parte di “Pigs on the Wing”, una breve canzone d’amore, che Waters dedica indirettamente a sua moglie. La melodia del brano viene ripresa alla fine dell’album in “Pigs on the Wing part 2”, che è identica alla prima, tranne che per il testo. Il secondo brano, Dogs, descrive una delle tre categorie nelle quali è suddivisa la società: gli arrampicatori sociali, ovvero le persone senza scrupoli, disposte a commettere ogni genere di nefandezza per arrivare in cima alla scala sociale e ottenere denaro e potere. Nel testo si percepisce il disprezzo di Waters, che arriva ad augurare ai “cani” i peggiori mali. Già nella prima strofa i “cani” iniziano la loro scalata verso il successo e, quando riescono nella loro impresa, assecondando le regole imposte dalla società per mantenere quella posizione, devono giustificare tutte le azioni compiute per arrivare così in alto. Con il passare del tempo, però, questo risulta sempre più difficile. Inesorabile, quindi, il successivo declino dei “cani” per la consapevolezza di essere stati manipolati
dallo stesso sistema che ha dato loro il potere. A meno che i “cani” non riescano a raggiungere livelli molto elevati di potere, sostituendosi ai “maiali” (o, addirittura, trasformandosi in essi), prima o poi si ritroveranno in trappola e si accorgeranno che la realtà in cui vivono non è poi così diversa da quella delle loro vittime.
Anche la terza traccia, Pigs (Three Different Ones), descrive una categoria sociale, i “maiali”, dispotici e spietati, che hanno così tanto potere nelle loro mani da doverne trasferire una parte ai livelli inferiori per mantenere la loro posizione di prestigio. Le prime tre strofe del testo delineano ognuna un tipo differente di “maiale”. Secondo alcuni, la prima allude agli uomini di potere in generale, simboleggiati dalla figura del primo “maiale”. La seconda sarebbe un riferimento indiretto a Margaret Thatcher, all’epoca “lady di ferro” dell’opposizione conservatrice. Non ci sono dubbi, invece, sulla protagonista della terza strofa: Mary Whitehouse, figura di spicco nell’Inghilterra di metà anni Settanta, moralista e conservatrice fino all’eccesso, alla quale Waters sferra un pesante attacco; la definisce, infatti, un «topo di città orgoglioso della propria casa, che si tiene tutto dentro» (house proud town mouse).
Sheep, la quarta traccia, parla invece delle persone che hanno bisogno di un leader per sentirsi al sicuro, delle persone senza carattere, incapaci di pensiero critico, ovvero le “pecore”. Come Dogs, anche Sheep risale a qualche anno prima della pubblicazione di Animals, ma era noto col titolo di Raving and Drooling (nel caso di Dogs, Gotta Be Crazy). Nel brano le “pecore” si ribellano ai “cani” (i loro sfruttatori), riuscendo a sconfiggerli; alcune “pecore”, però, iniziano ad intimare ad altre “pecore” più deboli di «restare nelle loro case e fare ciò che viene detto loro», a dimostrazione del fatto che le “pecore”, in un modo o nell’altro, saranno sempre sottomesse.
A distanza di 45 anni dall’uscita dell’album originale, la denuncia sociale di Waters si rianima con Animals 2018 Remix. I testi delle canzoni sono ancora incredibilmente attuali; questo perché l’album contiene un messaggio universale che, probabilmente, resterà valido in ogni epoca.
MicheOroscopo Nov-Dic 2022
Ariete
Compatibilmente al vostro caratterino, eccovi un film altrettanto focoso! film: Storia di un matrimonio (disponibile su: Netflix) pietra preziosa: eliotropo segno compatibile: vergine
Leone
La vostra vita in questo periodo è troppo scialba e monotona… Avete bisogno di drammi ed azione. film: seven sisters (disponibile su: now tv) pietra preziosa: ambra segno compatibile: bilancia
Sagittario
Dal momento che in questo mese avete la testa altrove eccovi qui un film incline al vostro umore. film: Passengers (disponibile su: Netflix o Amazon Prime Video) pietra preziosa: turchese segno compatibile: acquario
Toro
Con questo film risparmierete le sedute dallo psicologo e vi aiuterà a capire che non gliene frega niente di voi… film: La verità è che non gli piaci abbastanza (disponibile su: Netflix) pietra preziosa: smeraldo segno compatibile: capricorno
Vergine
Cari vergine, stavolta siete voi ad essere inutili ed indesiderati…
Ci piaceva solo il film. film: Il diritto di contare (disponibile su: Disney + o Amazon Prime Video) pietra preziosa: quarzo rosa segno compatibile: ariete
Capricorno
Per voi capricorno (come Miranda Priestley) abbiamo un classico film: Il diavolo veste Prada (Amazon Prime Video) pietra preziosa: ossidiana segno compatibile: toro
Gemelli
Noti a chiunque, ormai, sono i vostri incessanti cambi d’umore… Questo film vi rispecchia proprio a pieno! film: Split (disponibile su: Netflix o Amazon PrimeVideo) pietra preziosa: topazio giallo segno compatibile: cancro
Bilancia
Abbiamo scelto questo film perché sappiamo quanto amiate la famiglia! film: The impossible (disponibile su: Amazon Prime Video o NOW TV) pietra preziosa: zaffiro segno compatibile: leone
Acquario
Beh, come potevamo non metterlo… Speriamo che l’abbiate già visto, altrimenti correte a rimediare! film: Mamma mia! (disponibile su: Netflix o Amazon Prime Video) pietra preziosa: acquamarina segno compatibile: sagittario
Cancro
Sappiamo che amate piangere e lamentarvi della vostra vita… almenoquesta volta vi commuoverete per qualcos’altro film: 7 anime (disponibile su: Amazon Prime Video) pietra preziosa: perla segno compatibile: gemelli
Scorpione
Quale film più azzeccato di questo per voi scorpioni arroganti, egoisti, violenti e presuntuosi? Nessuno. film: Fight Club (disponibile su: Disney+ o Amazon Prime Video) pietra preziosa: rubino segno compatibile: pesci
Pesci
Ultimi ma ovviamente non per importanza, ecco a voi pesci un film assolutamente perfetto per la vostra indole sognatrice e romantica! film: La La Land (disponibile su: RaiPlay o NOW TV) pietra preziosa: ametista segno compatibile: scorpione
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A PROPOSITO DEL MERITO
Il merito è sacrosanto. Questo è, utopisticamente parlando, il motore dell’ascensore sociale. La realtà dei fatti, però, è ben diversa”
PERCHÉ LA MERITOCRAZIA NON È UN’ UTOPIA
Il merito è la sola e unica caratteristica, la sola e unica peculiarità, che ci dà il diritto di arrivare prima o dopo, di raggiungere più o meno successo, più o meno guadagno.