Numero 6/2007

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6 Novembre/dicembre 2007 – Anno VIII

Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% Direzione Commerciale Imprese Regione Campania

Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino

Giorgio Amendola e il Mezzogiorno

Atti del seminario promosso dalla Fondazione Mezzogiorno Europa nel Centenario della nascita di Giorgio Amendola Napoli 6 Dicembre 2007

Le comunicazioni

I giovani ricercatori

La tavola rotonda

Giuseppe Vacca Relatore ••• Mariano D’Antonio ••• Adriano Giannola ••• Simone Misiani ••• Nino Novacco

Alfonso Musci ••• Enrico Sacco ••• Giulia Velotti ••• Armando Vittoria ••• Cordinatore Amedeo Lepore

Marina Comei ••• Biagio de Giovanni ••• Massimo Lo Cicero ••• Giovanni Matteoli ••• Cordinatore Andrea Geremicca

Dal 28 Febbraio al 2 Marzo LA SCUOLA D’INVERNO DELLA FONDAZIONE MEZZOGIORNO EUROPA

Il bando a pag. 13



Giorgio Amendola storico del PCI Giuseppe Vacca Iniziati negli anni Sessanta, gli scritti di Amendola sulla storia del comunismo italiano si vennero via via inserendo nella sua riflessione sull’antifascismo e sulla storia d’Italia. Essi hanno un carattere fortemente autobiografico e sono parte costitutiva del suo profilo di dirigente politico. Nessun altro dirigente del Pci, a parte Togliatti, sentì così forte l’assillo di giustificare storicamente la propria azione politica, e se quest’attitudine fu incoraggiata e orientata dal magistero di Togliatti, essa però aveva radici più lontane, precedenti l’approdo di Amendola alla milizia nelle file del Pci: traeva origine dall’educazione paterna e dall’ambiente familiare della sua giovinezza, in ultima analisi dallo storicismo crociano. Questo contribuì a dare ai suoi scritti storici un’intonazione particolare, rintracciabile soprattutto nella sua visione della storia, nella quale, come ha osservato acutamente Simona Colarizi, il partito prendeva il posto che nella storiografia liberale hanno le élites, e sua concezione della storiografia, che assunse sempre più un ruolo pedagogico, illuministico e catartico. Inoltre, al carattere emblematico della figura paterna nell’antifascismo liberale ed alle ragioni che determinarono la sua «scelta di vita» risale, io credo, anche l’inclinazione a fare della propria biografia una vicenda esemplare per la formazione delle più giovani generazioni: un veicolo attraverso cui trasmettere un patrimonio di valori, esperienze e conoscenze fondamentali per la loro educazione anche perché simbolo degli aspetti più nobili della storia nazionale. Affrontare il tema Amendola storico del Pci vorrebbe dire, quindi, scegliere la prospettiva più ricca per

lumeggiare la figura dell’uomo e del politico, e ricostruirne la biografia secondo l’angolazione forse più perspicua. Non è questo il compito che qui mi propongo; mi limiterò, invece, a prendere in esame solo alcuni scritti di carattere più propriamente storiografico e metodologico. Anche con questa limitazione, però, non ci si può sottrarre al fatto che essi sono immersi nella lotta politica che vedeva Amendola protagonista. Dunque, non si potrà prescindere dal contesto politico in cui nacquero e da cui traggono il loro significato. […]

Il Pci nell’Italia repubblicana L’«anno d egli stud enti» e l’«autunno caldo» segnavano la fine «irreparabile» del centro-sinistra e inaugurarono un nuovo ciclo della politica italiana nel quale venne in primo piano la «questione comunista». La riflessione di Amendola sulla storia del Pci assunse allora delle direttrici più distinte, che ne caratterizzarono il percorso in tutto il decennio successivo: da un lato gli dedicò alcuni interventi anche all’azione del Pci dal 1943 al 1953, dall’altra, pur ribadendo il legame imprescindibile fra storia contemporanea e autobiografia, si sforzò di tenerle separate lavorando, per il periodo 1921-1943, da un lato ai due volumi autobiografici Un scelta di vita e Un’isola, e dall’altro ad una Storia del Pci dal 1921 al 1964 di cui vede la luce solo il primo volume. Le Lettere a Milano (1973) costituiscono invece un genere misto essendo una raccolta di documenti commentati ri-

guardanti l’attività svolta da Amendola come dirigente del Pci dal ’43 al ’45 e al tempo stesso un lavoro preparatorio della successiva Storia del Pci. I contributi più propriamente storiografici sul Pci nel decennio 1943-1953 sono tre: Il Pci all’opposizione. La lotta contro lo scelbismo del 1971, Il balzo nel Mezzogiorno (1943-1953) del 1972, e Riflessioni su una esperienza di governo del Pci (1944-1947) del 1974. Al pari degli altri scritti autobiografici e storici degli anni Settanta anch’essi sono strettamente collegati all’azione svolta da Amendola nel partito e nella vita politica italiana e internazionale. Questa coincideva largamente con quella del nuovo gruppo dirigente che dal 1969 veniva emergendo intorno a Longo e a Berlinguer, ma se ne discostava su due questioni strategiche fondamentali quali il rapporto del Pci con l’Urss e il modo di risolvere il problema del suo accesso al governo. Il riverbero di tali consonanze e divergenze sull’attività storiografica di Amendola si manifesta nella rappresentazione della classe operaia come la vera nuova classe dirigente della democrazia repubblicana e del Pci come la principale se non l’unica risorsa capace di portare a termine la «riforma intellettuale e morale» del Paese cominciata con la Resistenza e la Guerra di liberazione. […] La possibilità di condizionare il gruppo dirigente giuocando sull’indeterminatezza della sua prospettiva di governo era vanificata dal fatto che Amendola condivideva l’impianto strategico dell’«alternativa democratica» e le sue aporie. Infatti, uno schieramento riformatore basato sull’antifascismo non avrebbe potuto

né escludere la Dc, né romperne l’unità. Fin dal ’46 essa costituiva il maggiore dei partiti antifascisti, non aveva mai messo in dubbio il proprio orientamento antifascista, che perciò era divenuto uno dei cementi dell’unità del partito e, grazie alla sua forza, la Dc si era affermata anche come l’arbitro degli indirizzi che l’ispirazione antifascista poteva assumere secondo il mutare delle congiunture politiche italiane ed internazionali. Per il Pci l’unica possibilità di tornare al governo in nome dell’unità antifascista era quindi affidata ad un mutamento radicale del quadro politico internazionale come Togliatti per primo sapeva. Amendola pensava di forzare la situazione ribadendo l’autonomia della politica italiana dal sistema internazionale della guerra fredda e affermando come un dato acquisito che l’ingresso del Pci al governo costituiva «un problema che non riguarda né gli americani, né i russi». La citazione era tratta dall’intervista di Togliatti a «L’Unità» del 5 maggio 1963, che Amendola riprendeva ampiamente a sostegno della sua posizione. Ma non si può fare a meno di osservare che il contesto in cui Togliatti aveva rilasciato quell’intervista - le elezioni di aprile avevano penalizzato il centro-sinistra premiando il Pci e il Pli - qualificava la proposta di «inserire la grande forza comunista in un campo governativo» come una mossa tattica, volta a contrastare una più netta delimitazione a sinistra della maggioranza governativa e il rischio di isolamento del partito. In tale contesto l’affermazione che l’ingresso del Pci al governo costituisse un problema che non riguardava né i russi, né gli americani, aveva un valore puramente propagandistico, tanto


è vero che, come è stato di recente argomentato, il viaggio di Togliatti a Mosca nell’agosto 1964 aveva anche lo scopo di sondare il governo sovietico sull’eventualità dell’ingresso del Pci al governo. Per contro Amendola sembra riprendere quell’affermazione con convinzione, quasi ignorasse che l’indeterminatezza della proposta di governo del Pci scaturiva soprattutto dalla difficoltà di evitare uno scontro sia con gli Stati Uniti, sia con l’Urss. Perdippiù Amendola insisteva nell’additare la Dc come il principale ostacolo a un’«alternativa democratica» e questo aggiungeva un’altra aporia a quelle che già minavano la strategia del partito. D’altro canto, i contraccolpi originati dai movimenti del ’68-’69, l’inizio della «strategia della tensione», i moti di Reggio Calabria e lo spostamento a destra degli equilibri elettorali nelle amministrative del 1971, spingevano Amendola a drammatizzare la minaccia neofascista come carta di riserva della grande borghesia e dell’«imperialismo americano», e pericolo incombente permanentemente sulla democrazia repubblicana. Penso che la sua analisi del Mezzogiorno come area del Paese in cui un’ipotesi neofascista poteva trovare nuove basi di massa influì sulla visione della situazione italiana che indusse Berlinguer a formulare la strategia del «compromesso storico» ben prima dei famosi articoli sui «fatti del Cile» dell’autunno 1973. Infatti, con un lessico diverso e meno comunicativo quella strategia era stata proposta nel congresso del marzo 1972, in cui Berlinguer era stato eletto segretario: Ma, se l’ipotesi è fondata, le analisi di Amendola finivano per accrescere anziché sciogliere le ambivalenze della proposta di governo del Pci. Né mi pare che una correzione di tali aporie venisse dal contributo dato da Amendola, in quegli anni, all’apprendistato europeistico del Pci. In questo contesto si collocano i tre contributi storiografici sul Pci nel decennio 1943-1953: essi configurano un tentativo riuscito di fondere, da un lato, storia del Pci e storia d’Italia, dall’altro storiografia e autobiografia. […]

Un aspetto saliente del primo saggio è la differenziazione della storia del Pci fra Nord e Sud, secondo un giusto criterio generale necessario a ricostruire in modo perspicuo la storia politica e sociale italiana nel suo complesso. E non a caso alla vicenda del Pci meridionale Amendola dedicò subito dopo il lungo saggio Il balzo nel mezzogiorno (1943-1953). Se con il saggio sul Pci all’opposizione egli aveva inteso ribadire - esperienza storica alla mano - la validità della strategia democratica del Pci contestata in modo virulento dall’estremismo post-’68 (Lotta Continua, che fra le nuove formazioni extra parlamentari era allora la più influente, aveva sostenuto, insieme ai neofascisti e alla destra democristiana calabrese, la «rivolta di Reggio»), con Il balzo nel Mezzogiorno ricostruiva un’esperienza di lotte politiche e sociali che avevano cambiato il volto dell’Italia additando ad esempio il modo in cui il Pci le aveva impostate e dirette combinando in modo sapiente iniziativa politica, azione di massa e battaglia parlamentare. […] Fra i tre saggi esaminati Il balzo era quello più schiettamente autobiografico, poiché in quel decennio Amendola era stato a capo dell’azione politica del Pci nel Mezzogiorno. Ma questo non gli impediva di collocare quell’esperienza in una valida prospettiva storica. «L’affermazione nel Mezzogiorno di un movimento organizzato della classe operaia e delle masse lavoratrici - egli esordiva - è il fatto nuovo che ha mutato negli ultimi venticinque anni la carta politica del paese». Non mi pare che tale giudizio si possa contestare: le lotte per la terra del ’49-’51 avevano aperto la strada alla «riforma stralcio» e incrinato il blocco conservatore coagulatosi intorno alla Dc nel 1948, dando inizio alle crisi del centrismo. Nel ’53 quel blocco aveva ricevuto il colpo di grazia proprio nel Mezzogiorno dove, raddoppiando in pochi anni i suoi voti, il Pci aveva sconfitto la «legge truffa». Ma il suo «balzo» non era solo elettorale. Amendola metteva in luce la vera novità della

storia politica italiana: la costruzione di un partito di massa del movimento operaio che il socialismo prefascista non era mai riuscito a impiantare nel Mezzogiorno; il suo incardinamento in un movimento contadino e in élites operaie e intellettuali urbane ristrette, si, ma moderne e nazionali; quindi la sua capacità di dare un contributo decisivo all’unificazione del Paese e al suo rinnovamento politico. Se sotto il primo aspetto i fatti decisivi erano stati il colpo finale al «blocco agrario» e l’allargamento del mercato interno, e l’inserimento del Sud in un nuovo sistema politico basato sulla democrazia dei partiti, sotto il secondo aspetto Amendola sottolineava soprattutto un elemento di «riforma intellettuale e morale» quale il valore che la costruzione del «partito nuovo» aveva assunto nell’erosione delle basi ideologiche e sociali del trasformismo, tara storica della vita politica meridionale. Ma soprattutto Amendola intendeva evidenziare alcuni tratti esemplari di quella esperienza al fine della sua battaglia politica attuale anche dentro il partito. Infatti, egli documentava come quei risultati si fossero potuti conseguire grazie a una solida unità fra comunisti e socialisti, alla loro azione comune nella costruzione di strumenti di mobilitazione e autorganizzazione delle masse, e dunque dalla capacità dei due partiti di procedere insieme, «dal basso e dall’alto», legando i gruppi intellettuali più avanzati del Mezzogiorno alla costruzione di una democrazia organizzata. Elemento decisivo di tutta l’impostazione del Fronte del Mezzogiorno era stata l’elaborazione di un programma di sviluppo di respiro nazionale, fondato sull’alleanza produttivistica con parti significative dell’industria e delle élites tecnocratiche meridionali, collegate anche con la Dc e capaci di influenzarla. In fine, Amendola sottolineava come questo disegno fosse entrato in crisi con la fine dell’unità d’azione fra socialisti e comunisti, e come il centro-sinistra avesse rinnovato le fortune del trasformismo nel Mezzogiorno coinvolgendo anche il Psi e imponendo una seria battuta d’arresto allo sviluppo del Pci. Non è chi non

veda i vari «fronti» - erano certo più di due – a cui la lezione della storia veniva indirizzata. […] Le elezioni del 4 giugno 1979 registrarono la sconfitta del Pci che perse un milione e mezzo di voti (il 4%). Pochi mesi dopo la Fiat licenziava 61 operai e dirigenti sindacali sospettati di complicità con il terrorismo. Lo sciopero indetto prontamente dai sindacati confederali fallì miseramente. Fu quella l’occasione per Amendola di manifestare con estrema determinazione tutto il suo dissenso sulla condotta del partito nell’ultimo decennio. Si affidò ancora una volta ad un lungo articolo su « Rinascita» che si può considerare il suo ultimo intervento politico di grande spessore. Colpisce, in esso, l’analisi delle ragioni per cui il fallimento della «solidarietà nazionale» chiamava in causa le responsabilità dell’intera classe dirigente italiana, che non aveva saputo riformare il sistema dell’economia mista e ricollocare il capitalismo italiano nella competizione internazionale. Inoltre emergeva chiaramente la consapevolezza della portata storica della sconfitta subita dal Pci, che s’era visto costretto a ritirare l’appoggio al governo e provocare elezioni anticipate senza essere in grado di avanzare una proposta di ricambio. Lucida era, infine, la percezione che alla base dell’una e dell’altra sconfitta v’era l’esaurimento delle capacità egemoniche della classe operaia. Rinuncio con rammarico ad analizzare distesamente quel testo che è forse il documento più emblematico delle ragioni per cui gli anni Settanta rappresentano il passaggio decisivo di quello che in seguito si sarebbe chiamato «il declino dell’Italia». In questa sede mette conto piuttosto registrare come la percezione di una sconfitta storica della classe operaia, sulle possibilità egemoniche della quale Amendola aveva costruito la sua vita di politico di professione, affinasse la sua capacità di collocare la congiuntura politica in una prospettiva di lungo periodo. Per darsi una ragione della


sconfitta Amendola partiva da lontano: dal rapporto fra Pci e classe operaia fin dagli anni Venti. É degno di nota che in questa occasione egli rettificasse la sua posizione sulla «svolta» del 1930 in modo ancor più radicale di quanto non avesse già fatto nella Storia del Pci l’anno precedente. Infatti, riconosceva con inusuale franchezza non solo che i collegamenti del Centro estero con la classe operaia italiana in seguito alla «svolta» non si erano affatto rinsaldati, ma anche che, malgrado la gravità della crisi economica, persino alla Fiat gli operai, saggiamente, non avevano preso in alcuna considerazione le parole d’ordine insurrezionistiche dell’Internazionale comunista. Inoltre, venendo agli anni Sessanta e Settanta, superava definitivamente le idiosincrasie del 1968 per il movimento studentesco e tracciava una genealogia persuasiva dell’estremismo italiano dai «Quaderni Rossi» alle Br. In verità da qualche anno il distanziamento di Amendola dalle urgenze della lotta politica immediata ne favoriva una visione più equilibrata della storia politica italiana. Infatti nel 1977, recensendo il volume di Pietro Scoppola su La proposta politica di De Gasperi, Amendola correggeva profondamente il suo giudizio sulla Dc degasperiana, aderendo, con uno dei suoi contributi storiografici più sereni e meditati, alle principali tesi dello storico cattolico. Sullo sfondo delle riflessioni politiche del triennio cruciale degli anni Settanta, finora brevemente richiamate, Una scelta di vita sembra ispirato dalla volontà, ricca di umori vitali ma anche velata di malinconia, di affidare alla propria autobiografia il compito di trasmettere alle nuove generazioni una esperienza esemplare per la loro educazione politica e morale: quasi un Bildungsroman. Il libro costituisce, però, anche una fonte indispensabile per l’analisi dei contributi storiografici di Amendola poiché ripercorre le linee della cultura politica della sua formazione. Egli documenta che per lui, così come per altri giovani intellettuali italiani approdati al comunismo fra

la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, era stata fondamentale l’influenza dei testi canonici del leninismo; e questo non poteva non riflettersi sul modo di concepire il nesso fra politica e storia, definitosi in quegli anni un volta per sempre. La Storia del Pci assume invece il valore di una difesa estrema dell’eredità to-

gliattiana che, dinanzi alle crisi degli anni Settanta, appariva ad Amendola un patrimonio prezioso da preservare contrastando il pericolo sempre più evidente della sua dispersione. Poco dopo la pubblicazione della Storia di Amendola uscì da Laterza l’Intervista sulla storia del Pci di Paolo Spriano, condotta da Simona

Colarizi. Amendola prese spunto da essa per sintetizzare, in una lettera aperta all’autore, i temi principali del loro disaccordo. La «lettera» contiene un’utile traccia per fare il punto, in conclusione del nostro saggio, sulla Storia del Pci 1921-1923. Trattandosi di un’opera di seconda mano, ci limiteremo a segnalarne le novità metodologiche e a registrare sia le conferme che i mutamenti di giudizio maturati nel frattempo sui momenti più importanti della storia del partito. Innanzi tutto va segnalato che Amendola dichiarava di non considerare più la storia del Pci come storia meramente nazionale e ne affermava l’interdipendenza con la storia del comunismo internazionale. In secondo luogo egli ribadiva l’intenzione di ultimare il secondo volume, al quale stava lavorando, e confermava che sarebbe giunto fino al 1964. Il modo in cui motivava la periodizzazione complessiva della sua Storia appare particolarmente significativo poiché dimostra che Amendola aveva maturato il convincimento che il 1964 rappresentasse una data periodizzante sia per la storia italiana, sia per la storia mondiale in quanto segnava l’inizio della fine del secondo dopoguerra: [Il 1964, egli scriveva,] ha un valore periodizzante non solo per ciò che ha rappresentato per il partito comunista la scomparsa dell’uomo che, dal giorno dell’arresto di Gramsci, per circa 38 anni lo aveva ininterrottamente diretto […]. Il valore del 1964 come punto di svolta nazionale ed internazionale è indicato dalla vicinanza di altri fatti: dopo la morte di papa Giovanni XXIII, l’assassinio di Kennedy, l’inizio dell’aggressione americana al Vietnam, l’allontanamento di Chruscëv dalla guida dell’Unione Sovietica. Nazionalmente il 1964 è l’avvio dell’esperienza governativa del centrosinistra, ma anche la fine del periodo di espansione monopolistica. Infine, Amendola dichiarava che il suo lavoro era «essenzialmente fondato» sulla Storia del Pci di Spriano: non era frutto d’una ricerca personale ma si basava sulla considerevole bibliografia accumulatasi negli ultimi anni


sulla storia italiana e internazionale del ventennio considerato. La Storia di Amendola sembra dunque mirare all’obbiettivo di distinguere nettamente storiografia e autobiografia, ma anche di affidare ad una riflessione storica fondata sui risultati delle ricerche esistenti il ripensamento della propria esperienza politica. In questo senso ci pare che la sua Storia del Pci abbia, come abbiamo accennato, un valore catartico. Nuova e assai netta appare nella Storia, la negazione che nel 1919-1920 ci fosse stata in Italia una situazione rivoluzionaria. Le motivazioni di tale giudizio sono riassunte nella «lettera» a Spriano. Amendola contestava la divisione del quadriennio 1919-1922 in due periodi, il “biennio rosso” e il “biennio nero”, adducendo validi motivi per affermare che un “biennio rosso” non era mai esistito: in primo luogo egli sottolineava l’isolamento della classe operaia, soprattutto nella crisi del dopoguerra, a causa della «estraneità» del Partito socialista alla guerra. In secondo luogo rimproverava a Spriano di sottovalutare il ruolo del nazionalismo, che nel corso della guerra aveva allargato le sue file ed era stato la forza su cui il fascismo s’era abilmente innestato fin dall’inizio, senza che il movimento operaio fosse in grado di capirlo. L’unico movimento rivoluzionario manifestatosi nel biennio ’19-’20 era stato quello dei consigli, che però non era andato mai al di là dei confini del Piemonte e agli inizi del ’20 («sciopero delle lancette») era già stato sconfitto. Nel dopoguerra si era dunque aperta una crisi del vecchio sistema parlamentare, ma non dello Stato, poiché, argomentava efficacemente Amendola, la monarchia era restata il suo pilastro non solo non era stato scosso, ma si era persino rafforzato grazie alla guerra (il mito del «re soldato»), tanto da essere arbitro della situazione, come si vide chiaramente al momento della marcia su Roma.. L’argomentazione di Amendola è quanto mai importante perché giustifica la nascita del Pcd’I come «un atto di necessità destinato a promuovere effetti profondi e lontani», ma nell’immediato privo di validità politica. Com’è noto questo

era il giudizio sulla scissione di Livorno che Gramsci aveva cominciato a maturare fin dal primo momento. Al di là del teleologismo di cui Amendola lo vestiva esso è coerente con l’affermazione, generalmente condivisa anche dalla storiografia, che il vero atto di fondazione del partito fu quindi il

Congresso di Lione in quanto ne definì la funzione in base ad una visione autonoma della storia d’Italia. Va notato, inoltre, che anche il teleologismo che aveva segnato pesantemente la storiografia amendoliana sul Pci negli anni Sessanta, ora si affievolisce sensibilmente. Avendo riconosciuto anche

al Congresso di Lione un valore più di prospettiva che immediato, Amendola aderiva alla tesi di Spriano, secondo il quale la strategia di transizione democratica formulata da Gramsci nel ’24-’26 non aveva nulla in comune con la «rivoluzione democratica» prospettata dal Pci dopo la caduta del fascismo, poiché concepiva ancora, come punto d’approdo la «dittatura del proletariato». Abbandonando il precedente continuismo Amendola considerava quindi il Congresso di Lione solo un lontano «incunabolo» della politica del Pci nella «guerra antifascista» grazie al fatto che, con la direzione di Gramsci, il Pci aveva superato l’«estraneità» del vecchio socialismo alla storia d’Italia. Last but not least, Amendola obiettava a Spriano di aver invece sottovalutato gli errori d’analisi di Gramsci nel corso del 1926: enfatizzando l’instabilità del capitalismo mondiale e considerando «catastrofica» la crisi del fascismo originata dalla rivalutazione della lira, Gramsci aveva previsto una rapida dissoluzione del «regime» e ciò, osservava giustamente Amendola, aveva ritardato in misura grave la preparazione del partito alla clandestinità ed era stato causa del suo stesso arresto. A fronte di tale errore Amendola sottolinea la differente posizione di Togliatti che, da lontano (egli era a Mosca dal febbraio del ’26 come rappresentante del partito nell’esecutivo del Comintern), vedeva meglio la situazione e avvertiva il partito che Mussolini avrebbe risposto alla crisi di «quota 90» con «l’accentuazione sfrenata del regime di terrore», come infatti avvenne. Tuttavia, Amendola non estende il confronto fra Gramsci e Togliatti all’analisi della situazione internazionale, per cui ripropone la lettura erronea, ma consolidata, del dissenso manifestatosi tra loro nell’ottobre del ’26 proposto dalla «questione russa». Sulla «svolta del ‘30», invece, Amendola conferma i giudizi formulati in tutti gli scritti precedenti. Anzi, la polemica con Spriano fa emergere una motivazione ancora più sofistica. Avendo circoscritto il dissenso di Gramsci sulla «questione russa» alla critica del «rigore» del regime interno


del Pcus, Amendola ridimensiona anche le resistenze successive del Pci ad adeguarsi alla politica staliniana quando ormai a Gramsci, era subentrato Togliatti. Infatti egli sostiene che lo scontro fra il Pci e il Comintern, verificatosi nel X Plenum (luglio 1929), non riguardava la tesi del «socialfascismo» in quanto anche l’atteggiamento del Pci verso la socialdemocrazia era sempre stato di totale ostilità. Amendola sostiene invece che nel X Plenum dell’Internazionale comunista le resistenze della delegazione italiana alle pressioni dell’Internazionale avevano riguardato solo la strategia degli obiettivi intermedi a cui il partito era costretto a rinunciare. Inoltre aggiunge ritiene che nel ’30 la parola d’ordine dell’Assemblea repubblicana non corrispondeva più a nulla di preciso nella realtà del paese. D’altro canto, sotto la superficie della parola d’ordine dell’Assemblea repubblicana il settarismo operista che caratterizzava il Pci fin dalle origini non era mai venuto meno. Il corpo del partito - per non dire di Longo e Secchia che l’avevano anticipata - era dunque più che disposto ad accogliere la «svolta» dell’Internazionale. Con tali argomentazioni Amendola intendeva sostenere l’origine «italiana». Certo, egli nota, la «svolta» si rivelò un fallimento; ma poiché aveva evitato il pericolo che il Pci si riducesse ad un club di emigrati, gli consentì di trovare in se stesso la forza per correggere, in seguito, quella politica e diventare il punto di riferimento della nuova leva di militanti antifascisti che dal ’32 si formava grazie anche ai successi del primo piano quinquennale sovietico. Lo «stalinismo» che in quegli anni plasmava il «legame di ferro» del Pci con l’Urss corrispondeva dunque, secondo Amendola, ad un esigenza vitale per il partito in Italia. Quindi, al di là dei condizionamenti esterni, anche in quegli anni,la storia del Pci era stata una storia fondamentalmente nazionale. Nella Storia del 1978 l’incongruenza di tali giudizi risalta ancor più chiaramente perché Amendola si propone di inquadrare le vicende del partito nel contesto della storia internazionale e quando passa ad esaminare la storia della Kpd sottolinea

giustamente il peso che essa ebbe nel determinare la persistenza nel Comintern della tesi del «socialfascismo» fino a favorire l’ascesa al potere di Hitler. Questo paragone documenta in modo forse più semplice di quanto non provi la storia del Pcus, come la politica del Comintern non fosse altro

al Cc del Pcr del 14 ottobre 1926, il dissenso con la politica di Stalin era motivato tanto dal timore che la volontà di «stravincere» mostrata dalla maggioranza alterasse irreparabilmente la fisiologia del centralismo democratico, quanto dal rischio che il nazionalismo della politica di Stalin

che la proiezione internazionale di politiche nazionali dell’uno o dell’altro partito comunista. Il paragone con la Kpd è dunque una spia del vero limite della enfatizzazione amendoliana della storia del Pci come storia tutta nazionale. L’esempio tedesco da Amendola ricordato dimostra, in maniera palmare che nella storia dei partiti comunisti il nesso nazionale-internazionale non è tanto necessario a dare il giusto peso ai condizionamenti esercitati dall’Urss, quanto perché, per il modo in cui erano nati e appartenendo a un’unica organizzazione mondiale, la storia dei patiti comunisti è al tempo stesso storia nazionale e internazionale. Le loro particolarità nazionali non si limitavano alla politica sviluppata da ciascuno all’interno del proprio paese, ma comprendevano il nesso da essi stabilito fra politica interna e politica internazionale. Non è chi non veda quanto questo dato influisse sulla visone della leadership del Pci fin dall’avvento di Gramsci alla sua direzione. Infatti, nella celebre lettera

distruggesse le prospettive della «rivoluzione mondiale». Intorno a questo problema ruotò anche la riflessione dei Quaderni del carcere, nei quali Gramsci non solo elaborò il nesso nazionale-internazionale come criterio fondamentale per inquadrare storicamente la politica dei partiti comunisti, ma formulò anche una teoria generale della costituzione dei soggetti politici fondata sulla funzione nazionale e internazionale delle classi e dei gruppi sociali da essi rappresentati. Vero è che per Amendola il problema era stato risolto una volta per tutte dalla fedeltà dei partiti comunisti all’Urss, che a suo modo di vedere, malgrado i condizionamenti che ne derivavano, a datare almeno dalla seconda guerra mondiale non aveva impedito e non impediva loro di sviluppare una politica nazionale autonoma ed efficace. Quello che importa qui rilevare è che, a causa di questa visione, che costituiva il trait d’union fra le posizioni politiche e l’impostazione storiografica di Amendola, l’obiettivo dichiarato di voler

scrivere una storia del Pci fondata sul paradigma dell’interdipendenza fra il nazionale e l’internazionale veniva sostanzialmente mancato. Nella Storia del Pci 1921-1943 Amendola offre un ampio affresco della storia italiana e internazionale fra le due guerre, e su questo sfondo proietta la storia del Pci. Ma sui passaggi decisivi che già abbiamo esaminato e su quelli successivi che ci limitiamo a menzionare - la politica del Pci e il VII Congresso dell’Internazionale, l’annichilimento d’una azione efficace negli anni del Grande Terrore e del patto tedesco sovietico, il dispiegamento della sua iniziativa con l’inizio della «grande guerra patriottica», i successi della politica di unità nazionale nella Resistenza e nella Guerra di liberazione - la Storia del 1978 conferma l’impostazione e i giudizi sedimentati negli scritti degli anni Sessanta. In definitiva, storia nazionale e storia internazionale scorrono parallele in un mosaico mosso e calibrato, ma non c’è l’esplicazione della storia del Pci come attore politico nazionale-internazionale. La grandezza di Togliatti, che Amendola intendeva palesemente mettere in luce, è ricondotta quindi alla capacità di mantenere ininterrottamente la guida del partito. Solo così, infatti, adeguandosi alle brusche oscillazioni della politica di Stalin Togliatti aveva potuto preservare la possibilità di sviluppare, quando se ne era presentata l’occasione, una strategia nazionale lucida ed efficace. Se questo aveva comportato fare dei «salti della quaglia» - come Amendola in fine riteneva che Togliatti avesse fatto nel 1930 -, mantenere sapienti «riserve mentali» - come Amendola sosteneva che Togliatti avesse fatto nel biennio del patto Molotov-Ribbentrop - questi non erano altro che simboli della sua straordinaria virtù.

*  Presidente dell’Istituto Gramsci *  Dato il carattere della Rivista e delle stesso Seminario siamo costretti a pubblicare solo un breve stralcio dell’ampio saggio introduttivo di Giuseppe Vacca, il cui testo integrale, assieme alle altre comunicazioni, è disponibile sul sito www.mezzogiornoeuropa.it nella sezione dedicata al Mezzogiorno.


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Il nuovo meridionalismo Mariano D’Antonio Il nuovo meridionalismo col quale Giorgio Amendola si confrontò polemicamente negli anni ’50, accomunava eminenti politici ed economisti tra i quali Ugo La Malfa, Donato Menichella, Manlio RossiDoria, Pasquale Saraceno, Ezio Vanoni, tutti esponenti della sinistra laica e democristiana che, pur con accenti, cultura e collocazione politica differenti, rivendicarono il salto di qualità rappresentato dalla politica economica avviata per il Sud d’Italia con la riforma agraria e la nascita della Cassa per il Mezzogiorno. La politica meridionalista, secondo questi protagonisti dell’Italia repubblicana, si distingueva dagli interventi tradizionali dello Stato nel Mezzogiorno per alcuni caratteri radicalmente nuovi: era una politica organica, condotta in forma non episodica, secondo un programma pluriennale; coinvolgeva più settori d’attività economica (l’agricoltura, le infrastrutture e in seguito, agli inizi degli anni ’60, l’industria, in particolare quella di grandi dimensioni); era gestita da un organismo straordinario, appunto la Cassa per il Mezzogiorno, dotato di risorse finanziarie per più anni, distinto dall’amministrazione pubblica ordinaria (i Ministeri, gli Enti locali), gestito in forma agile, quindi rapido nell’eseguire i suoi interventi. Amendola si oppose fin dall’inizio alla nuova politica meridionalista con argomenti molto chiari esposti nel discorso che egli pronunciò alla Camera dei Deputati nella seduta del 20 giugno 1950, in occasione del dibattito sulla legge istitutiva della Cassa per il Mezzogiorno. A suo avviso, la questione meridionale non poteva essere affrontata con leggi

speciali, con i soli lavori pubblici (da lui ritenuti allora la missione prevalente dell’intervento straordinario) ma richiedeva un indirizzo generale della politica che investisse l’intera economia italiana. Perciò egli rivendicava a tal fine le riforme di struttura che riducessero il potere del capitale monopolistico e rivendicava l’autogoverno regionale mediante il quale le popolazioni meridionali sarebbero state “le protagoniste del processo di valorizzazione e di sviluppo economico di cui esse dovranno anche essere le beneficiarie” . Su quest’aspetto cruciale dell’intervento straordinario, vale a dire il nesso tra politica di sviluppo e autogoverno locale, Amendola pronunciò parole che si riveleranno in seguito profetiche: “La via per la soluzione della questione meridionale, disse, G. Amendola, intervento sul disegno di legge: Istituzione della Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia meridionale (Cassa per il Mezzogiorno), in Atti parlamentari, Camera dei Deputati, resoconto della seduta pomeridiana di martedì 20 giugno 1950, pag. 19804. Nel suo discorso A. affermava esplicitamente: “La via per la soluzione della questione meridionale non è quella di un intervento dall’esterno o dall’alto, a mezzo di un ente speciale che, sotto la copertura di un’azione tecnica, aprirebbe la strada all’espansione di gruppi monopolistici anche stranieri. La via à un’altra: quella di permettere alle stesse popolazioni meridionali di operare il rinnovamento e il progresso economico di quelle regioni e promuovere lo sviluppo delle forze produttive rimuovendo, con una svolta della politica dello Stato italiano verso il Mezzogiorno, e non solo con l’esecuzione di determinate opere pubbliche, le cause di carattere politico e sociale che hanno, dal 1862 in poi, determinato il formarsi di una questione meridionale.”


10 non è quella di un intervento dall’esterno o dall’alto, a mezzo di un ente speciale…”. Amendola nel suo discorso alla Camera dei Deputati contrastò la teoria del Mezzogiorno inteso come area depressa, una teoria mutuata dall’esperienza del New Deal rooseveltiano e che egli definì

“una terminologia di derivazione keynesiana”. A suo avviso, la teoria delle aree depresse coincideva “con gli sforzi compiuti dai gruppi capitalistici monopolistici per cercare nuove zone di espansione interne ed esterne che garantiscano un maggiore saggio di profitto”. Pesava in questo suo giudizio

l’esperienza degli anni ’30, gli anni della grande depressione che dagli Stati Uniti si era propagata all’Europa, all’America Latina, a tutta l’economia mondiale, lasciando però indenne l’Unione Sovietica dove i comunisti erano riusciti a realizzare un imponente sviluppo industriale grazie alla proprietà statale dei mezzi di produzione e alla pianificazione centralizzata. Amendola non aveva mai creduto che il capitalismo potesse risollevarsi durevolmente mediante le politiche keynesiane, mediante il controllo politico della domanda aggregata con le leve della moneta e del bilancio pubblico azionate per stabilizzare, anzi per stimolare la produzione e l’occupazione. La sua avversione al cosiddetto keynesismo lo aveva già portato a criticare il Piano del lavoro presentato da Di Vittorio e dalla CGIL nel marzo del 1950, un piano da lui ritenuto d’impostazione keynesiana, così come criticò l’atteggiamento possibilista assunto da Giuseppe Di Vittorio al momento dell’avvio della Cassa per il Mezzogiorno, come egli stesso ha ricordato in un’intervista concessa pochi mesi di morire . Nella stessa intervista Amendola per motivare la sua ostilità alle politiche keynesiane si rifaceva all’incontro che ebbe per la prima volta nel giugno del 1931 con Piero Sraffa a Cambridge : “Mi ricordo l’incontro a Cambridge nel ’31 con Sraffa in cui si parlò proprio di KeyLuigi Vimercati e Sergio Soave, “La politica economica e il capitalismo italiano. Conversazione con Giorgio Amendola”, Roma, 13 dicembre 1979, pubblicata sul sito internet (www.fondazioneisec. it) della Fondazione ISEC (Istituto per la storia dell’età contemporanea).

Amendola s’era recato da Sraffa su sollecitazione di Togliatti: aveva il compito di ritirare da S. un misterioso pacchetto e poi recapitarlo al capo dei comunisti italiani a Parigi. Il pacchetto, com’ebbe a mostrargli emozionato Togliatti al ritorno di A. a Parigi, conteneva le prime lettere scritte da Antonio Gramsci nel carcere di Turi, che pervenissero tramite Sraffa a Togliatti. L’incontro tra Sraffa e Amendola a Cambridge è riportato in G.Amendola, Un’isola, Rizzoli, Milano, 1982, pag.36.

nes. Discutemmo il problema della moneta, il problema della domanda: domanda di armi o domanda di beni di consumo o domanda di beni di produzione.” In altre parole, Amendola, diremmo oggi, era interessato alla composizione, alla qualità dell’intervento pubblico nell’economia capitalistica piuttosto che ad una generica politica di sostegno della domanda aggregata. Giorgio Amendola si era laureato in giurisprudenza a Napoli nel luglio del 1930 discutendo una tesi in economia sul credito al consumo, uno strumento che allora appariva, specie negli Stati Uniti, atto a sostenere la domanda di beni espressa dai consumatori anche a basso reddito, tanto da aprire sbocchi di mercato alle imprese . La crisi avviatasi un anno prima in America e poi trasmessa dall’America al resto del mondo dimostrò anche ai suoi occhi quanto fosse fragile la speranza di affidare alle vendite a rate il compito di stabilizzare l’economia capitalistica: con l’aumento della disoccupazione i lavoratori che si erano indebitati per acquistare beni durevoli, dall’automobile all’abitazione, divennero di colpo insolventi e il castello di carta dei debiti crollò travolgendo banche e imprese creditrici e creando con ciò maggiore disoccupazione. L’esperienza, i dati di fatto della crisi mondiale contribuirono a convalidare la decisione del giovane La tesi di laurea di Amendola sul credito al consumo, argomento suggeritogli da Francesco Saverio Nitti, ebbe come relatore il professore Augusto Graziani, docente di Scienza delle finanze nell’Università di Napoli fin dal 1898, padre del giurista Alessandro Graziani e nonno del giovane Augusto Graziani, anch’egli dedicatosi in seguito agli studi di economia. La tesi di laurea di Amendola, nel 1931, quando Amendola divenuto comunista era già passato all’attività politica illegale, ricevette il premio Tenore dell’Accademia Pontaniana, relatore un altro illustre economista, Epicarmo Corbino. Cfr. Valeria Sgambati, “Economia e storia nella formazione intellettuale di Giorgio Amendola”, in L’Acropoli, n.5, settembre 2007; Id., “La formazione politica e culturale di Giorgio Amendola”, in Studi storici, n.3. 1991.


11 Amendola d’impegnarsi nella lotta politica antifascista militando nelle fila del Partito comunista. Da allora egli maturò una sana diffidenza nei confronti degli economisti e dei loro teoremi astratti dalla realtà, teoremi che bollava col termine di economicismo: quando la teoria economica non si àncora alla realtà sociale, agli interessi delle classi, dei gruppi di potere che sono in campo, perde ogni interesse per la gente comune, per i lavoratori che ne sono la maggioranza e per i politici che li rappresentano. Torniamo al rapporto tra Amendola e il nuovo meridionalismo, un rapporto che non è estraneo al suo rifiuto del cosiddetto economicismo. Svalutando la Cassa per il Mezzogiorno e l’intervento straordinario che si avviava negli anni ’50, criticando la tesi del Sud come area depressa bisognosa di essere risollevata con nuove politiche pubbliche, Amendola fu tuttavia vittima di un abbaglio intellettuale e commise un errore politico, ma al tempo stesso intravide il destino del nuovo meridionalismo, intuì le ragioni che quarant’anni dopo avrebbero portato quell’esperimento all’esaurimento e infine alla sua cancellazione. Quello che ho definito l’abbaglio intellettuale di Giorgio Amendola, è l’avere accomunato la politica di sviluppo con una politica keynesiana di sostegno della domanda aggregata, con una politica di stabilizzazione del mercato. In realtà, si trattava di due approcci ben differenti. La politica di sviluppo puntava alla trasformazione della struttura economica del Mezzogiorno, a modificare l’agricoltura e soprattutto a porre le premesse dell’industrializzazione. Quest’orientamento fu presente, fin dal dopoguerra, nelle posizioni di alcuni esponenti del nuovo meridionalismo, in particolare nel socialista Rodolfo Morandi, ministro dell’industria nel 1946, nell’ingegnere Giuseppe Cenato che era a capo della Società Meridionale di Elettricità (SME), nel professore Pasquale Saraceno, economista industriale e dirigente dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI),

e nei lavori della Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, nata nel dicembre 1946 ad iniziativa di questo gruppo di meridionalisti . L’errore politico di Amendola e del gruppo dirigente del Pci di quegli anni fu, a mio avviso, di non aver colto le premesse di una modernizzazione stentata e distorta sì ma pur sempre avviata, che l’intervento straordinario promuoveva nel Mezzogiorno. La riforma agraria, la costruzione di alcune infrastrutture a servizio dell’agricoltura ma capaci pure di soddisfare i bisogni di civiltà delle popolazioni meridionali, e prima ancora la diffusione nel Sud dei partiti politici di massa e dei sindacati, avevano smosso le acque stagnanti della società meridionale, del mondo contadino in primo luogo. Le aspettative dei meridionali per un futuro migliore s’innalzarono nella prima metà degli anni ’50 e Testimonianze eloquenti delle posizioni assunte da Morandi, Cenzato e Saraceno sul necessario sviluppo industriale del Mezzogiorno, fin dal 1947 e coerentemente mantenute nel tempo, si ritrovano negli scritti raccolti nel volume Autori vari, Il Mezzogiorno nelle ricerche della Svimez (1947-1967), Giuffrè editore, Roma, 1968. Pasquale Saraceno, commentando nel 1957 le implicazioni dello Schema Vanoni per lo sviluppo del Mezzogiorno, scrisse chiaramente (Pasquale Saraceno, “lo ‘Schema Vanoni’ due anni dopo la sua presentazione”, ibidem): “… neppure la politica di sostegno della domanda effettiva (per intenderci quella nota sotto il nome di politica keynesiana) può essere applicata nella nostra situazione… la crisi italiana è totalmente diversa dalla crisi ciclica; la nostra disoccupazione non deriva da un rallentamento del meccanismo economico che lascia temporaneamente inutilizzate alcune sue parti; ma da uno squilibrio tra dotazione di capitale e dotazione di forze di lavoro, squilibrio che può essere superato non aumentando la liquidità del mercato, ma intensificando il processo di accumulazione del capitale… Una politica ispirata allo ‘Schema’ deve quindi articolarsi su due caposaldi. Da un lato, un aumento rilevante del risparmio nazionale…; dall’altro, un intervento pubblico attivo nelle zone sottosviluppate, intervento che, non limitato alle opere e agli incentivi tradizionali, solleciti la nascita di forme moderne di produzione, e in primo luogo la nascita dell’industria.”

non potendo realizzarsi nell’ambito del Mezzogiorno si riversarono nel resto d’Italia. L’emigrazione dal Sud al Nord s’impennò anno dopo anno fornendo all’industria settentrionale in rapida crescita le forze di lavoro necessarie. La seconda fase del nuovo meridionalismo, quella che promuoveva lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, avviatasi nel 1957 con la legge di rinnovo della Cassa per il Mezzogiorno, con gli incentivi alle imprese e con il vincolo degli investimenti da localizzare nel Sud posto a carico del capitalismo di Stato, dell’IRI e dell’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), consolidarono ed estesero i nuclei di classe operaia fino ad allora ristretti a pochi luoghi, contribuendo anche per questa via ad articolare in senso moderno la composizione sociale del Mezzogiorno. Amendola e i comunisti in quegli anni sottovalutarono questi processi di trasformazione della condizione sociale e delle aspirazioni dei cittadini meridionali. Si attardarono in una rappresentazione statica dell’economia e della società italiana, di quella meridionale in particolare. Fece loro da velo alla percezione del cambiamento la tesi elaborata negli anni ’30 di un capitalismo bloccato anche in Italia dalla catena dei monopoli industriali alleati con la grande finanza, col capitale finanziario. Paradossalmente in quegli anni i comunisti non colsero la portata, il salto di qualità delle nuove istituzioni repubblicane che il Partito comunista contribuiva a radicare nelle coscienze e nei comportamenti degli italiani, il nuovo rapporto tra politica e mercato che i movimenti di massa organizzati, con i comunisti in prima fila, modificavano spostando gli equilibri sociali. Ugo La Malfa, avversario dei comunisti fino a ritenere astratta e semplicista la posizione di Gramsci sulla questione meridionale, sull’alleanza tra operai del Settentrione e contadini del Meridione, nell’editoriale che apriva il primo fascicolo della rivista Nord e Sud, tuttavia

scriveva : “Il comunismo ha avuto il merito, nel Mezzogiorno, di rendere politicamente attivi molti strati sociali tra i più miseri e sprovveduti, di saper dar loro un’organizzazione, di sottrarli all’oppressione, al clientelismo, al provincialismo, alla corruzione.” Anche La Malfa definiva in quell’articolo il nuovo indirizzo della politica meridionalista un “riformismo calato dall’alto” e sollecitava i giovani democratici della borghesia meridionale ad uscire dalla loro condizione minoritaria, a ricercare nel Mezzogiorno “le forze di appoggio all’ideale di una democrazia moderna, di un new deal italiano”. Il “riformismo calato dall’alto” temuto da La Malfa ovvero l’”intervento dall’esterno” avversato da Amendola sono stati il tarlo che ha eroso nel tempo il nuovo meridionalismo fino a provocare nel 1993 la cancellazione dell’intervento straordinario. Il nuovo meridionalismo non si è dissolto a seguito di una congiura, come sostengono alcuni tardivi nostalgici dell’intervento straordinario che, militando anche tra le fila della sinistra, ne decantano ancora oggi i meriti. Il nuovo meridionalismo è stato spazzato via insieme con gli strumenti di una politica disegnata dall’alto, insieme con lo Stato imprenditore, con il dissesto della finanza pubblica, con i risultati deludenti ottenuti dall’intervento straordinario che non è riuscito in quarant’anni ad accorciare sensibilmente le distanze tra Nord e Sud. L’intervento straordinario ha seguito il destino delle politiche interventiste con le quali i governi centrali hanno cercato dappertutto, anche in altri paesi, di contrastare senza riuscirci le forze centripete dei mercati, che attirano risorse nei luoghi in cui sono già produttive, vale a dire nelle regioni più sviluppate. L’intervento pubblico da fattore di sviluppo si è rovesciato, nel Mezzogiorno come altrove, in fattore d’inefficienza, ha creato posizioni di rendita dei beneficiari, d’imprese U. La Malfa “Mezzogiorno nell’Occidente”, in Nord e Sud, n.1, dicembre 1954.


12 e famiglie, capaci di catturarne i vantaggi sotto forma d’incentivi, di sussidi, di remunerazioni generose corrisposte ai dipendenti degli Enti pubblici e delle imprese di proprietà statale. L’autogoverno delle popolazioni meridionali è stata invece la promessa non realizzata, invocata da Giorgio Amendola ma tuttora ancora aperta. Tra i due poli contrapposti della politica per il Mezzogiorno, l’intervento straordinario ormai esaurito e una politica promossa, come si dice, dal basso, partecipata dalle popolazioni, con gli enti territoriali protagonisti e con lo Stato e le istituzioni comunitarie in funzione sussidiaria, tra questi due poli, uno ormai spento e l’altro non ancora affermatosi, si consuma oggi la crisi del meridionalismo, in un’epoca nella quale lo sviluppo governato dallo Stato centrale ha fatto il suo tempo e le istituzioni democratiche decentrate (le Regioni e i Comuni) non sono riuscite, a quindici anni dalla fine dell’intervento straordinario, a svolgere nel Mezzogiorno appieno la loro parte. Mi sia permesso di ritornare su due questioni a cui ho accennato prima, una di metodo e l’altra di merito, sollevate a suo tempo da Giorgio Amendola, e lo faccio scavando nei miei ricordi personali. La prima volta che ebbi l’occasione d’incontrare Amendola, fu durante il 23° congresso nazionale del Partito socialista che si tenne a Napoli nel gennaio del 1959, al quale A. partecipava guidando tra gli invitati la delegazione del Partito comunista. Allora militavo nella Federazione giovanile comunista e i compagni napoletani mi presentarono ad Amendola dicendogli che ero uno studente universitario della Facoltà di Economia. “Giorgione”, come lo chiamavano affettuosamente i compagni per la sua mole fisica ma pure e soprattutto per la sua statura di dirigente comunista, ebbe con me un breve scambio di battute tra il tono burbero e l’aria scherzosa: prima mi ammonì a non seguire la moda degli economisti del tempo (allora l’indirizzo dominante negli studi di

economia era quello neoclassico, fondato sull’approccio soggettivista, dei soggetti economici cosiddetti razionali che massimizzano i vantaggi del loro operato ovvero ne minimizzano i sacrifici); poi mi strapazzò dicendo che rischiavo di diventare un economista estraneo ai problemi sociali e politici più rilevanti, cadendo schiavo dell’economicismo (la sua eterna bestia nera); infine,

foss’altro perché, accogliendo il suo invito a studiare intensamente, nel frattempo sono diventato professore di economia, quindi tendenzialmente deformato dai miei studi; né posso sostenere che il capitale finanziario sia nel tempo svanito come pericolo da esorcizzare. La trappola del cosiddetto economicismo mi è tuttavia ben presente se rifletto su ciò che è accaduto in

procede stentatamente. In questa sfasatura di tempo e d’intensità della liberalizzazione dei mercati contano la politica, il sindacato, i rapporti tra le classi sociali, la gerarchia dei poteri che si fanno valere sui mercati, questioni tutte queste che gli economisti di solito trascurano per deformazione professionale, appunto perché intrappolati nell’economicismo avversato da Giorgio Amendola. Anche sulla questione di merito (il ruolo dominante del capitale finanziario) toccata a suo tempo da Amendola, le vicende degli ultimi tempi sono eloquenti: l’attività finanziaria, gli affari delle banche, degli altri intermediari, dei fondi d’investimento e poi la debole funzione degli organi di vigilanza (banche centrali e commissioni di sorveglianza delle borse), sono diventati i problemi preminenti del capitalismo contemporaneo in America, in Europa, in Asia. I mercati finanziari sono stati liberalizzati, sono divenuti interdipendenti, globali, i controlli si sono allentati in nome dell’efficienza, la speculazione domina la scena. Gli anni ’90 e i primi anni del secolo presente sono stati contrassegnati da diffuse e ripetute crisi finanziarie dovute all’avidità degli speculatori finanziari e agli errori nonché all’impotenza dei governi: la crisi del Messico negli anni 1994/95, quella che si è abbattuta sull’Asia orientale nel 1997, quella della Russia nel 1998, del Brasile nel 1998/99, dell’Argentina nel 2001 e buon’ultima la crisi dei mutui per la casa e degli strumenti cosiddetti derivati, partita dagli Stati Uniti nel 2007, propagatasi poi e ancora presente anche in Europa. La produzione e l’occupazione sono state dappertutto ciclicamente coinvolte dalle crisi finanziarie. La politica ha cercato e cerca tuttora di tamponarne gli effetti ma non riesce a incidere sulla radice dei problemi, abbagliata e condizionata com’è dal predominio del capitale finanziario. Giorgio Amendola aveva dunque visto giusto: il capitale finanziario è ancora oggi il nemico dei popoli.

vedendomi imbarazzato e avvilito, mi rincuorò con un sorriso e m’invitò vigorosamente, com’era il suo solito, a studiare, studiare, studiare. L’ultima occasione d’incontro con “Giorgione” l’ho avuta nell’autunno del 1979, pochi mesi prima che egli venisse meno, durante un convegno organizzato dalla rivista Politica ed Economia, dedicato alla riforma del sistema monetario internazionale, in quegli anni dominato ancora dal dollaro statunitense. Amendola nell’intervallo dei lavori, commentando il tema del convegno mi disse una frase che allora mi apparve singolare e fuori tempo perché riecheggiava le tesi dei comunisti sul capitalismo degli anni ’30. Mi disse: “stai attento, il capitale finanziario è il principale nemico dei popoli”. Cinquanta e trent’anni dopo quegli incontri, non posso dire di avere seguito del tutto l’indicazione di metodo che egli mi diede, di evitare la trappola dell’economicismo, non

Italia e altrove negli ultimi tempi. La tendenza a privilegiare l’economia nell’analisi dei problemi sociali, compare infatti ancora oggi quando si parla di riformismo. In Italia il riformismo è diventato purtroppo sinonimo di liberalizzazione dei mercati, del mercato del lavoro dapprima e poi dei mercati di beni e servizi. Si dice anzi che la liberalizzazione, accrescendo la concorrenza, sarebbe una politica economica “di sinistra”: eviterebbe ai lavoratori d’essere preda delle rendite monopolistiche, dei monopoli piccoli e grandi, che, manovrando i prezzi nei mercati non concorrenziali, decurtano il potere d’acquisto dei salari. Il guaio di questa tesi liberista è che il mercato del lavoro è stato in Italia e altrove il primo mercato ad essere liberalizzato riducendo così la forza contrattuale di operai e impiegati, mentre la liberalizzazione dei mercati dei beni salario, quelli comprati con le buste paga, Docente di Economia dello Sviluppo. è venuta dopo e quando è arrivata Università Roma Tre.



14 L’intervento straordinario Simone Misiani 1. Il nuovo meridionalismo e l’oppo- nalismo con l’indirizzo rivoluzionario sizione alla istituzione della Cassa e anticapitalista del comunismo sovietico. Rossi-Doria avrebbe risolto La posizione di Giorgio Amen- questa antinomia nel corso degli anni dola nei riguardi dei programmi del Trenta facendo prevalere il punto di cosiddetto “nuovo meridionalismo” vista riformatore con la sua apertura non può essere compresa senza verso l’indirizzo di bonifica integraandare al momento della sua “scelta le; diversamente Amendola rimase di vita”, quando decise sul finire del coerentemente e rigidamente fermo 1929 di lasciare la famiglia liberal-de- sulla scelta comunista. Senza questa mocratica della quale era considerato premessa non è possibile intendere un esponente di primo piano dopo la ragione di fondo del suo indirizzo la uccisione del padre Giovanni, per davanti alla svolta meridionalista abbracciare la fede nella rivoluzione presa dal Paese nel 1950 e anche, io russa . La conversione avvenne nel credo, il successivo mutamento di clima della “svolta” operata dall’In- rotta amendoliano e perfino il suo ternazionale comunista sull’onda isolamento interno al Partito davanti emotiva degli effetti della Depres- alla crisi del comunismo. All’indomani della caduta del sione economica mondiale. Sono gli anni del braccio di ferro con Emilio Fascismo e nei primi governi di unità Sereni. Amendola seguì l’itinerario nazionale Amendola guidò il propolitico dell’amico Manlio Rossi- gramma di riunificazione delle forze Doria. Il crollo del capitalismo che si riformiste entro un progetto di rilancredeva immanente avrebbe dovuto cio della politica meridionalista. La consentire di adottare le politiche di prima iniziativa in questa direzione sviluppo rurale nelle regioni meri- era venuta dal Partito d’Azione con il dionali che non erano state accolte convegno organizzato a Bari sul finire nell’Italia prefascista. Il “pessimismo” del 1944 quando l’Italia era divisa in di Fortunato veniva rivisitato alla luce due. In questa occasione Rossi-Doria delle categorie del leninismo assunte autore della relazione economica dal Partito con la “svolta”. Amendola aveva riproposto il problema della divenne comunista in quanto meri- questione meridionale, rimosso dal dionalista. La contraddizione stava Fascismo, rilanciando nel secondo nel ritenere di poter conciliare la dopoguerra la prospettiva della prospettiva riformatrice del meridio- ripresa del programma di opere di bonifica integrale e di sviluppo rura Sugli anni della infanzia e della le. Si iniziò a discutere del problema formazione politica, da ultimo, G. Cerchia, Giorgio Amendola. Un comunista dell’industrializzazione del Mezzonazionale. Dall’infanzia alla guerra par- giorno dopo le prime elezioni libere tigiana (1907-1945), Rubbettino, Soneria che videro la vittoria della repubblica Mannelli, 2004. Utili indicazioni inter- e la formazione del primo Parlamenpretative sono nelle relazioni di Simona to. Il 6 luglio 1946 per iniziativa di Colarizi, Giorgio Amendola, storico e Amendola e Sereni sorse a Napoli di Roberto Gualtieri, Dirigente del Pci tenute nel Convegno della Fondazione il Centro Economico Italiano per il Istituto Gramsci “In ricordo di Giorgio Mezzogiorno (CEIM), istituzione che Amendola. A venticinque anni dalla era animata al suo interno del gruppo morte”, Roma, 14 luglio 2005.

dirigente meridionale dell’IRI e che organizzò alcuni incontri in cui fu portata per la prima volta al centro dell’analisi politica nell’Italia liberata il tema della industrializzazione del Mezzogiorno . Sulla scorta delle conclusioni a cui erano giunti i centri studi dell’industria di Stato, della Banca d’Italia e dell’Istat nel corso degli anni Trenta veniva assegnato al programma di intervento industriale nel Mezzogiorno una funzione prioritaria nelle politiche pubbliche della ricostruzione del Paese, una volta esaurita l’emergenza post-bellica . Le ragioni di questa presa di posizione erano di tipo squisitamente economico: l’industrializzazione delle regioni meridionali avrebbe permesso di valorizzare un capitale umano altrimenti destinato ad una disoccupazione strutturale e avrebbe consentito all’Italia di rafforzare la sua posizione di potenza industriale. Il disegno risorgimentale si fondava su solide ragioni economiche. Era Il presidente del CEIM fu Giuseppe Paratore, presidente dell’IRI; Emilio Sereni fu consigliere delegato, mentre Giorgio Amendola con Giovanni Porzio ricoprirono l’incarico di vice presidenti. Le iniziative più importanti organizzate dal CEIM furono le seguenti: Il Convegno per le trasformazioni fondiarie e le isole (ottobre 1946); convegno sui trasporti nel Mezzogiorno (Napoli, gennaio 1947) e un convegno sui lavori pubblici (Napoli, luglio 1947). G. Amendola, Il balzo nel Mezzogiorno (1943-53), in Il Mezzogiorno negli anni della Repubblica, a cura di G. Mughini, Roma, Quaderni di Mondoperaio, 1977, pp. 289-294. È questa la tesi avanzata da Guidotti e Cenzato della SME nell’ambito dei lavori pubblicati dal Centro studi del Ministero dell’Industria di Rodolfo Moranti e successivamente sostenuta dai numeri offerti dai primi approssimati calcoli del reddito nazionale.

questo il punto di maggior originalità della posizione sostenuta dai tecnici. Il CEIM non approdò ad alcun risultato concreto. Si limitò ad organizzare alcuni convegni di studio sui temi della terra, dei lavori pubblici e dei trasporti. Nella esperienza del CEIM si riflettevano le contraddizioni del nuovo corso economico del PCI inaugurato nel 1946. L’apertura alle riforme avveniva senza una rinuncia alle teorie del marxismo-leninismo. L’alleanza politica nascondeva un limite nell’elaborazione del pensiero economico: la politica di piano doveva preparare una soluzione rivoluzionaria in attesa del crollo imminente del capitalismo. Il punto di riferimento era ancora il Capitale finanziario scritto dall’amico Pietro Grifone, volume elaborato negli anni del carcere che rifletteva le discussioni avvenute entro il gruppo napoletano nei primi anni Trenta e applicava al caso italiano la teoria catastrofista di Hilferding. La soluzione del problema meridionale veniva affidato in primo luogo alla riforma agraria, mentre le iniziative industriali nel Mezzogiorno realizzate dall’IRI venivano ritenute come manifestazione del capitale monopolistico di Stato. L’obbiettivo strategico delle nazionalizzazioni e delle socializzazioni produttive restava la parola d’ordine del Partito, rinviato e non certamente rimosso dal programma. La contraddizione della proposta politica di Amendola stava tra nell’aver aperto al mondo liberal-democratico con l’adesione ai principi di un meridionalismo di origine risorgimentale e, al tempo stesso, considerare questo atto come un passo transitorio in vista dell’av-


15 vento del leninismo aggiornato al caso italiano. La scelta a favore di una politica di intervento industriale nel Mezzogiorno fu decisa solamente dopo lo scoppio della guerra fredda nel quadro della opportunità date dalla scelta occidentale operata dal Centrismo degasperiano , e in particolare sua origine fu resa possibile dai fondi del piano Marshall. La politica a favore del Mezzogiorno doveva dare un contenuto più propriamente sociale alla ricostruzione economica dell’Europa . Una volta ottenuta la stabilizzazione della lira conseguita con la manovra deflativa dell’autunno del 1947 il Paese usciva dal dopoguerra e veniva reso possibile dar concreta attuazione al disegno elaborato dal gruppo M. Del Pero, L’alleato scomodo (1948-1955). Gli Usa e la Dc negli anni del centrismo, prefazione di F. Romero, Roma, Carocci, 2001; C. Spagnolo, La stabilità incompiuta, Roma, Carocci, 2001. La “linea Menichella” è stata posta al centro di una rilettura della storia politica economica dello sviluppo italiano negli ultimi decenni. Punto di avvio di questa fase di studi è il volume di Piero Barucci, Ricostruzione, pianificazione, Mezzogiorno. La politica economica in Italia dal 1953 al 1955, Bologna, Il Mulino, 1978. Negli ultimi decenni la ricerca storica ha confermato la linea IRI degli anni Trenta e la nascita dell’intervento straordinario. M. De Cecco, Splendore e crisi del sistema Beneduce: note sulla struttura finanziaria e industriale italiana dagli anni venti agli anni sessanta, in Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi, Roma, Donzelli, 1997, pp. 389 e ss; R. Petri, Storia economica d’Italia. Dalla Grande guerra al miracolo economico (1918-1963), Bologna, Il Mulino, 2002; ; S. Misiani, I numeri e la politica. Statistica, programmazione e Mezzogiorno nell’impegno di Alessandro Molinari, Bologna, Il Mulino, 2007. Con riferimento alla nascita dell’intervento straordinario: V. Negri Zamagni e M. Sanfilippo, Nuovo meridionalismo e intervento straordinario. La Svimez dal 1946 al 1950, Bologna, Il Mulino, 1988; L. D’Antone, L’”interesse straordinario” per il Mezzogiorno (19431960), in Id. (a cura di) Radici storiche ed esperienza dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, Napoli, Bibliopolis, 1996, pp. 51-110; S. Cafiero, Storia dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno (1950-1993), Bari, Piero Lacaita, 2000.

della Svimez guidato da Pasquale Saraceno sotto la regia della Banca d’Italia di Menichella. Il momento di svolta ebbe luogo nel VI governo De Gasperi con la istituzione nel 1950 della Cassa per il Mezzogiorno. La impostazione del piano Beveridge e anche l’esperienza del New Deal venivano adattate ai problemi strutturali e alle strozzature del sistema economico italiano. La istituzione della Cassa per il Mezzogiorno vide il prevalere in Italia di una linea modernizzatrice basata sulle analisi economiche e le previsioni di crescita dell’Italia fornite dai primi calcoli del reddito nazionale. Il programma di investimenti poteva contare sul sostegno determinante degli organismi economici internazionali di Bretton Woods (Fmi, Birs) e l’appoggio del governo degli Stati Uniti. Il programma di riforme contava per avere successo di poter ottenere il sostegno e l’appoggio all’interno del Paese delle forze economiche e sociali. Una sorta di patto costituzionale come contributo alla nascita di una democrazia liberale e anche come completamento del processo di unificazione risorgimentale in senso economico. Ai rappresentanti del mondo imprenditoriale e del “quarto partito” veniva chiesto di continuare a garantire il sostegno alla maggioranza di governo nello slancio impresso alla politica economica, accettando di abbandonare l’ortodossia liberista. Al sindacato e alle forze della sinistra veniva domandato di assumersi una responsabilità nel governo dello sviluppo italiano. La “linea Menichella” espressione diretta del gruppo Svimez e delle minoranze liberal-democratiche incassò il sostegno dei settori più avanzati del mondo imprenditoriale, conquistò all’idea della Cassa un liberale come Einaudi ma registrò le critiche del presidente della Confindustria Angelo Costa e degli ambienti fedeli all’ortodossia liberoscambista. I maggiori ostacoli vennero dalle forze della sinistra che avrebbero dovuto raccogliere i benefici occupazionali della politica di spesa. Davanti all’annuncio del piano di riforme le parti sociali si erano divise secondo una

linea tracciata dalla scelta di campo dei due blocchi. Il Partito comunista si schierò contro la istituzione della Cassa. Con la scelta filosovietica e la nascita dei fronti popolari il mito rivoluzionario tornò a prevalere sulla strategia della collaborazione adottata nel dopoguerra . A farne le spese furono i riformatori che avevano aderito al Partito comunista e che si videro costretti ad una scelta drammatica. Con la formazione del IV governo De Gasperi nato dopo la cacciata delle forze legate a Mosca si era esaurita anche la funzione politica del CEIM, che in effetti sopravvisse fino all’autunno del 1947. Nel suo scioglimento emergevano le contraddizioni interne al riformismo comunista, l’incapacità ad assumere una posizione di condanna del modello sovietico. Con questa scelta di campo perse spazio e ripiegò l’iniziativa politica presa da Amendola nel secondo dopoguerra. In una testimonianza rilasciata negli anni Settanta ha ricordato di aver accettato dopo un duro confronto l’idea che il Mezzogiorno fosse passato tutto all’opposizione, secondo la nuova parola d’ordine proposta da Sereni . Nella decisione di subire il peso dello stalinismo piuttosto che uscire dal Partito emerge tutta la debolezza della sua proposta politica, l’incapacità di superare il conflitto insanabile tra il riformismo e il comunismo. Accettò la disciplina di Partito contro le ragioni del pragmatismo economico. La crociata contro la nascita dell’intervento straordinario diede luogo ad impiego eccezionale di mezzi specie se commisurati alla posta in gioco. La politica della Cassa, non diversamente dagli altri interventi economici adottati nei primi anni Cinquanta, fu uno dei terreni privilegiati della battaglia ideologica condotta dal movimento operaio, in Su questo snodo concordano: S. Pons, L’impossibile egemonia: l’Urss, il Pci e le origini della guerra fredda, 1943-1948, Roma, Carocci, 1999; E. Aga-Rossi e S. Pons, Togliatti e Stalin: il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Bologna, Il Mulino, 2007. G. Amendola, Il balzo nel Mezzogiorno (1943-53), cit., p. 294 e sgg.

quanto punto di forza della proposta riformatrice. In questa fase si colloca la polemica nei confronti della posizione assunta dalla Cgil. Di Vittorio aveva affidato a dei “tecnici” in quanto indipendenti la stesura di un piano economico presentato a Roma alla Conferenza Economica Nazionale della Cgil del febbraio 1950 . Il Piano riprendeva gli elementi di astrattezza keynesiana, contenuti nei programmi di politica economica avanzati nel secondo dopoguerra dai settori più avanzati del riformismo italiano. Su queste basi il piano della Cgil offriva una posizione interlocutoria rispetto al programma dell’intervento straordinario. Per questo motivo Di Vittorio fu oggetto di un duro attacco da parte di Amendola che rimproverò al leader sindacale di aver dato al piano non una valenza propagandistica e di denuncia ma di aver offerto al governo la piattaforma per una trattativa . La critica coglieva nel segno. Con il consenso manifesto di Togliatti e degli altri principali esponenti del Partito fu approvata una linea di opposizione all’avvio del programma di intervento straordinario e fu affidata ad Amendola la elaborazione di una argomentata linea, presentata alla Camera il 20 giugno 1950 in occasione del dibattito sulla nascita della Cassa. Il testo formò il principale documento a cui si ispirò la politica di rinascita del partito nel Mezzogiorno nel successivo quinquennio e anche oltre. Nel suo discorso Amendola fece propri i dati sul divario e la disoccupazione strutturale forniti dalla Svimez ma respinse l’opzione di “un intervento esterno”10, quale era Giuseppe Di Vittorio era portato a sottolineare la convergenza di intenti con le proposte del governo, in Il Mezzogiorno repubblicano (1948-1972), a cura di P. Bini, Milano, Svimez, 1976, p. 384 ss. R. Martinelli e G. Gozzini, Storia del Partito comunista italiano. Dall’attentato a Togliatti all’VIII Congresso, Torino, Einaudi, 1998, 120-122.; G. Barone, La Cassa e la “ricostruzione”, in L. D’Antone (a cura di), Radici storiche ed esperienza, cit., pp. 235-236. 10 G. Amendola, Contro la istituzione di una Cassa per il Mezzogiorno, in La democrazia nel Mezzogiorno, Roma, 1957, p. 284.


16 appunto la Cassa, per preconizzare invece un non meglio esemplificato intervento delle “stesse popolazioni meridionali”11 al fine “di operare il progresso di quelle regioni rimuovendo, con una svolta della politica dello Stato italiano verso il Mezzogiorno, le cause profonde che dal 1860 hanno determinato il formarsi di una questione meridionale”12. Viene disegnata, allora, per la prima volta in modo organico una idea di meridionalismo comunista ispirato ad una ideale e astratta linea di pensiero Fortunato-Gramsci. Riemerge nelle sue parole l’impianto dottrinario elaborato dal gruppo napoletano sul finire degli anni Venti, aggiornato alla luce della scoperta del pensiero gramsciano. I punti nodali del programma amendoliano erano la critica alla politica di industrializzazione interpretata come manifestazione del potere monopolistico di Stato e la riproposizione in termini aggiornati della categoria del “blocco storico” tra gli industriali del Nord e gli agrari del Sud cementato dalla Cassa per il Mezzogiorno e le altre forme dell’intervento straordinario. L’elemento di originalità del suo comunismo stava nell’aver collocato al centro del suo discorso il tema risorgimentale della nazione, l’obbiettivo del raggiungimento dell’unificazione economica, sociale e civile dell’Italia. Il pensiero meridionalista anche grazie ad Amendola divenne patrimonio costitutivo del comunismo italiano. La linea amendoliana fornì gli argomenti teorici ad una opposizione di tipo morale e contribuì a porre il tema della soluzione della questione meridionale come un obbiettivo strategico per la tenuta della democrazia13. La critica

all’ingerenza dei partiti politici nell’intervento straordinario avvicinò, da fronti diversi, la linea amendoliana all’impostazione liberale della Banca d’Italia e del nuovo meridionalismo. Il linguaggio politico su questo punto non era poi così distante nella forma e nei contenuti dall’impostazione seguita nelle Considerazioni del governatore della Banca d’Italia e nelle pubblicazioni della Svimez.

ziato a metà degli anni Settanta da G. Galasso, Il Mezzogiorno. Da “questione” a “problema aperto”, Bari, Piero Lacaita editore, 2005, pp. 95-96. Nel breve periodo la mobilitazione politica comunista contribuì a creare un clima favorevole all’avvio delle riforme: R. Gualtieri, La politica economica del centrismo, in U.

De Siervo, S. Guerrieri, A. Valsori (a cura di), La prima legislatura repubblicana, vol. I, Roma, Carocci, 2004, p. 102.

2. Gli anni dello Schema Vanoni e della Programmazione economica

L’obiettivo di una politica di industrializzazione diretta nel Mezzogiorno fu assunto dal governo soltanto con lo schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito in Italia nel decennio 1955-’64, noto come schema Vanoni, primo passo verso la nascita della programmazione. Lo Schema fu elaborato da un gruppo di ricerca della Svimez nel 1953-5414 e vide la convergenza tra la “linea Menichella” e la posizione degli organismi di valutazione internazionale. Nella visione dei meridionalisti l’Europa avrebbe dovuto a un tempo accelerare la liberalizzazione del mercati e sostenere la crescita delle zone più deboli e in primo luogo del Mezzogiorno d’Italia. Fu accolta la tesi che, tenuto conto dei tassi di crescita straordinaria dell’economia italiana, fosse possibile dirottare una parte delle risorse disponibili per rimuovere gli elementi di strozzatura del sistema economico. L’obbiettivo del raggiungimento della piena occupazione nel Mezzogiorno fu assunto nel programma del gruppo di lavoro Oece nel 1955. In questi periodo prese slancio in Italia un vi11 Ivi. vace dibattito sull’interpretazione da 12 dare allo Schema che accompagnò Ibidem. l’evolversi dello scenario politico. Si 13 La portata e il significato del meridionalismo comunista nella storia confrontarono una linea ancorata aldell’Italia repubblicana fu ben eviden- l’impostazione della Banca d’Italia di

14 N. Novacco, Politiche per lo sviluppo. Alcuni ricordi sugli anni ’50 tra cronaca e storia, Bologna, Il Mulino, 1995.

impianto liberale e una seconda più aperta ad una lettura di tipo politico e sociale, capace di misurarsi con le sollecitazioni derivanti dal dialogo tra Fanfani e Nenni in vista della nascita del centrosinistra. La posizione del Partito comunista davanti all’annunciato Schema fu di dura opposizione in coerenza con la scelta frontista del 1948. Il primo commento ufficiale venne a margine del congresso per il terzo anno di vita della Cassa organizzato nel novembre 1953 in cui Saraceno annunciò il programma del governo. All’iniziativa fu presente anche una delegazione della Cgil guidata dal segretario generale Di Vittorio. Non si trattò di una presenza puramente formale come si ricava dal lavoro preparatorio e dagli atti del convegno15. Negli organismi direttivi del Partito Amendola in quanto responsabile del Pci nel Mezzogiorno si incaricò di criticare il punto di vista sindacale. Fu il segno manifesto del perdurare del condizionamento derivato dal vincolo della appartenenza ideologica16. In questo quadro e con questi limiti Amendola rilanciò la campagna per la conquista della egemonia culturale; rinsaldò il gruppo direttivo del Partito nel Mezzogiorno chiamando a collaborare alla direzione giovani vicini alle sue posizioni come Giorgio Napoletano e Gerardo Chiaromonte e annunciò la nascita di «Cronache Meridionali» che doveva costituire un valido contraltare a «Nord e Sud»

rivista sorta per iniziativa di Francesco Compagna e Ugo La Malfa, che raccoglieva le forze liberaldemocratiche favorevoli all’intervento straordinario. Sono gli anni del duro scontro ideologico tra Sereni e Romeo sui temi del Risorgimento e dello sviluppo italiano. Ma sono anche gli anni in cui il Partito comunista abbandonata la parola d’ordine della riforma agraria e pone in primo piano l’esigenza dell’industrializzazione delle regioni meridionali. Il punto di snodo ebbe luogo nell’autunno del 1957 in coincidenza con il voto per il rinnovo della Cassa. La nuova legge rompeva con l’impostazione liberale dello Schema e segnava il primo risultato del mutamento di rotta dei socialisti che avevano abbandonato la linea frontista dopo i fatti d’Ungheria. Amendola criticò la decisione del socialista Francesco De Martino di uscire dalla direzione di «Cronache Meridionali»17 ma contemporaneamente iniziò a guardare con atteggiamento meno preconcetto alla prospettiva della programmazione e all’intervento industriale per il Mezzogiorno18. In questo triennio si avvia un ripensamento della impostazione assunta nel 1950. Il Partito comunista abbandonò la sua pregiudiziale verso l’intervento straordinario astenendosi sulla legge di rinnovo della Cassa in cambio dell’inserimento dell’articolo che rendeva obbligatorio per le industrie a Partecipazione statali (Iri 15 Di Vittorio alcuni giorni pri- ed Eni) di reinvestire il 40% dei loro 19 ma dell’incontro di Napoli scrisse al utili nel Mezzogiorno , e, negli anni presidente del Comitato dei ministri del Mezzogiorno Campilli, augurando piena riuscita all’iniziativa. Di Vittorio a Campilli, 28 ottobre 1953, in Archivio storico Cgil, Segreteria generale, Atti e corrispondenze 1953, n. 255: “Industrializzazione del Mezzogiorno”. La Cgil fu presente per tutte e due le giornate con una delegazione diretta da Di Vittorio e composta da Oreste Lizzadri, Vittorio Foa, Giuseppe Tanzarella, Clemente Maglietta, Armando Roveri e Bruno Trentin. Nel corso dei lavori Di Vittorio pronunciò un discorso in cui aprì al Governo: Cassa per il Mezzogiorno, Atti del secondo congresso di Napoli (4-6 novembre 1953), Roma, 1954. 16 R. Martinelli e G. Gozzini, Storia del Partito comunista italiano, op. cit., pp. 122-124.

17 F. De Martino, Testimonianza, in Giorgio Amendola comunista riformista, a cura di G. Matteoli, Soneria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2001, pp. 132-133. 18 Primi segnali a riguardo nel discorso pronunciato l’11 maggio 1957 a Napoli all’assemblea meridionale del Pci dove pure ancora viene affermata la centralità della parola d’ordine della lotta per la terra e la riforma agraria. G. Amendola, I comunisti per la rinascita del Mezzogiorno, in La democrazia nel Mezzogiorno, op. cit., pp. 427-431 19 Ricorda Napolitano che fu relatore di minoranza alla Camera che in sede di votazione il Pci non votò contro la legge, ma si astenne. G. Napolitano, Dal Pci al socialismo europeo. Un’autobiografia politica, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 44-45.


17 successivi, il Partito favorì l’installazione dell’impianto siderurgico Iri a Taranto e aprì all’iniziativa dell’Eni di Mattei in Sicilia. In un convegno organizzato a Palermo da Danilo Dolci nel novembre 1957 intorno alla prospettive della piena occupazione, i comunisti aprirono all’idea di una politica di piano forzandone la lettura in senso politico e sociale20. Appoggiarono l’idea di una contrapposizione tra una programmazione essere centralistica e diretta “dall’alto” un’idea dal “basso” affidata alla direzione delle forze sociali e degli enti locali nel quadro della battaglia per un allargamento dei poteri di controllo democratico sull’economia. Il numero di dicembre del 1957 di «Cronache Meridionali» fu introdotto da un lungo resoconto del convegno affidato allo scrittore Carlo Levi21, in precedenza oggetto di un duro attacco, sullo stesso periodico, da parte di Alicata. L’evoluzione della linea amendoliana fu scandita dai tempi della storia del centrosinistra. Nel novembre del 1962 Amendola organizzò con l’Istituto Gramsci un convegno per discutere sulle tendenze del capitalismo italiano sotto l’onda d’urto della Nota aggiuntiva del ministro del Bilancio Ugo La Malfa che aveva sancito la nascita della politica di programmazione. A metà degli anni Sessanta lanciò il programma di riunificazione con i socialisti a cui propose di rientrare nella famiglia comunista e riaprì il dialogo con le componenti più avanzate del meridionalismo, in favore di una politica di programmazione che fosse impegnata a risolvere i problemi strutturali dell’economia italiana e in primo luogo la questione meridionale. La iniziativa di Amendola prese corpo nel 1966 all’indomani 20 D. Dolci (a cura di), Una politica per la piena occupazione, Torino, Einaudi, 1958. Per i riflessi avuti da questo convegno nel dibattito in corso sulla applicazione di una politica di piano: S. Misiani, I numeri e la politica, cit., pp. 223-227.

dell’unificazione socialista. Il punto di partenza del dialogo fu nella individuazione degli elementi di una comune appartenenza ad una cultura storicista di stampo liberale 22. In questo periodo Amendola riallacciò i contatti con Rossi-Doria che era tornato alla politica attiva nelle fila del Partito socialista unificato per il quale aveva elaborato il programma per il Mezzogiorno ed era membro del consiglio di amministrazione della Cassa. Amendola inviò a Rossi-Doria una copia del volume “Classe operaia e programmazione democratica” e uno scritto di commemorazione di Croce in cui ricordò il ruolo che

21 C. Levi, Il lavoro, misura della libertà, in «Cronache Meridionali», n. 12, dic. 1957, pp. 808-825. Sull’episodio si veda: G. Napolitano, Op. cit., pp. 49-50.

22 Utili elementi a riguardo sono nella testimonianza di Norberto Bobbio contenuta nel volume Giorgio Amendola comunista riformista, cit., pp. 157-168.

ebbe la frequentazione di palazzo Filomarino nella formazione antifascista dei giovani durante il periodo del Regime23. Lo scambio non diede vita ad alcun passo concreto. Le distanze 23 Il 27 maggio Rossi-Doria ricevute le pubblicazioni così gli rispose: «Caro Giorgio, ricevo in questo momento copia del tuo volume “Classe operaia e programmazione democratica». Ti sono vivamente grato di avermelo inviato. Ho letto il tuo bellissimo articolo di commemorazione di Croce sul «Contemporaneo» [G. Amendola, Incontro a palazzo Filomarino, in «Il Contemporaneo», n. 4, 18 apr. 1966]. Era perfetto e ti sono grato di aver scritto tu cose che tutti noi giovani allora insieme con te avremmo potuto scrivere. Ricordami ai tuoi». M. RossiDoria a G. Amendola, 27 maggio 1966, in Archivio storico ANIMI, Fondo RossiDoria, Corrispondenza Varia, f., 16.

ideologiche erano ancora incolmabili. L’idea di programmazione democratica era lontana dalla impostazione di Rossi-Doria favorevole all’intervento straordinario. Ma non era questo il nodo che impedì l’avvio della discussione. Il tentativo di Amendola di superare la fase di stallo della politica italiana avveniva senza dar luogo ad una proposta di modificazione delle alleanze politiche con l’Unione Sovietica e ciò rendeva impossibile giungere ad un superamento della formula che aveva dato vita al centrosinistra. La Malfa in una lettera dal tono profetico vide le prospettive di modificazione della situazione politica in relazione con la distensione dei rapporti tra Est e Ovest. Rispetto all’affermarsi dell’ecumenismo e del dialogo cat-


18 tolico-comunista invitò Amendola a farsi interprete dentro il Partito della linea di difesa dello Stato risorgimentale e dei principi di una democrazia modernamente laica24. La risposta di Amendola ebbe luogo nel periodo successivo e fu individuata nella formula dell’eurocomunismo, in cui si misurarono le possibilità e i limiti di allargamento delle categorie del marxismo senza una rottura con il legame di fedeltà verso l’Unione Sovietica25. E solamente nel biennio 1973’75, di fronte alla crisi del centrosinistra e la fine del ciclo di crescita economica, che l’iniziativa riformista dei comunisti ottenne risultati concreti. Nei primi mesi del 1973 Amendola indicò un percorso per il superamento del frontismo, in parte diverso rispetto al “compromesso storico” disegnato in quegli stessi mesi dalla segreteria di Berlinguer. 24 In una lettera del 9 settembre 1967 che riprendeva temi apparsi in un editoriale su «La Voce Repubblicana» invitò Amendola a contrastare nel Partito la linea di dialogo con i cattolici e l’indirizzo cattolico-comunista e gli suggerì di interpretare una linea di dialogo sulla base di una comune difesa dei principi del fondamento dello Stato risorgimentale. Scrive La Malfa: «Caro Giorgio, ti mando copia di un lungo corsivo della Voce che ti può interessare. Quanto è stato scritto sulla rivista Il Ponte può essere da te facilmente rintracciato. Come noterai, si tratta di una polemica di fondo, che vi riguarda in prima persona. A mio giudizio, l’avvenire sta nel progresso della distensione e della coesistenza pacifica fra i due blocchi; e non nell’ecumenismo e nel dialogo cattolico-comunista. Se i comunisti, invece di guardare alla realtà dei problemi e prendere le iniziative necessarie, commettono errori di valutazione del tipo art. 7 della Costituzione, cooperano a distruggere ogni traccia dello Stato risorgimentale. Conto sulla tua sincera attenzione a questo problema». U. La Malfa a G. Amendola, 9 settembre 1967, in Apc, Carte Amendola, Serie: Corrispondenza, f: “La Malfa”. Il disegno del leader del Partito repubblicano negli anni Sessanta e Settanta è messo in luce da P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, TEA, Milano, 1996. 25 Utili elementi interpretativi per inquadrare la posizione di Amendola sono forniti nel volume di S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Torino, Einaudi, 2006, pp. 3 e ss.

Aprì alla “linea Menichella” attraverso il rapporto con Saraceno, anche se tardivamente rispetto ai cambiamenti della congiuntura economica globale e senza che questo mutamento di indirizzo fosse accompagnato dall’abbandono definitivo della prospettiva rivoluzionaria. Negli anni sessanta si era consumato un mutamento antropologico ai vertici delle imprese pubbliche. La generazione che aveva diretto il miracolo economico era stata sostituita da manager di nomina politica secondo una pratica che nascondeva un cambio di indirizzo nella conduzione del sistema delle imprese a partecipazione statale con il prevalere di una finalità di tipo sociale meglio funzionale alla logica del consenso elettorale dei partiti di massa26. Saraceno aveva continuato a ribadire il concetto che il manager doveva servire il principio della economicità della gestione in continuità con l’insegnamento del suo maestro Menichella 27. L’interesse del leader comunista si appuntò prevalentemente intorno al ruolo delle partecipazioni statali nella battaglia per rompere il regime di una economia ristretta e dominata dai monopoli privati28: all’intervento diretto dello Stato veniva affidata una funzione di lotta contro i monopoli e di strumento di allargaÈ un punto molto ben sottolineato da A. Becchi Collidà, La formazione dell’imprenditorialità pubblica: i gruppi dirigenti delle partecipazioni statali, in Problemi del movimento sindacale,a cura di A. Accornero, «Annali della Fondazione G. G. Feltrinelli», XVI (1974-75), pp. 523 e sgg. 26

27 P. Saraceno, Il sistema delle imprese a partecipazione statale nell’esperienza italiana, Milano Giuffrè, 1975. 28 Sul significato assunto da tale snodo ai risultati del recente convegno Giorgio Amendola. La politica economica e il capitalismo italiano svoltosi (Milano, 18 giugno 2007) con relazioni di Franco Amatori, Francesco Silva e Edoardo Borruso. Il punto di vista di Amendola è stato assunto come chiave interpretativa nella ricostruzione storica di F. De Felice, Nazione e sviluppo: un nodo non sciolto, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, t. 1, Torino, Einaudi, 1995, p. 809 e sgg.

mento della democrazia29. Saraceno prese parte al convegno del Cespe, l’istituto di ricerche economiche presieduto da Amendola, sul tema del rapporto tra Imprese pubbliche e programmazione democratica che ebbe luogo nel gennaio del 1973. L’incontro faceva seguito a diverse iniziative che avevano avuto per tema il ruolo dell’Italia nel processo di internazionalizzazione economica. Nelle due giornate gli economisti del Pci si confrontarono sui problemi dello sviluppo con i manager delle partecipazioni statali. L’idea della programmazione democratica fu portata fino alle sue conseguenze estreme. Fu offerto a Saraceno il sostegno del Pci per uscire dall’isolamento in cui era stato posto dalla Democrazia cristiana, di cui pure veniva sottolineato il fatto che ne aveva ispirato le linee di politica economica fino alla nascita della Programmazione nel 1962. Amendola distinse tra la impostazione della politica di intervento degli anni cinquanta e la stagione della programmazione diretta dai governi del centrosinistra. L’indomani Saraceno scrisse ad Amendola ritenendosi deluso per come era stato presentato, chiedendo dal presidente del Cespe una presa di posizione chiarificatrice in vista di una futura collaborazione30. 29 G. Amendola, Imprese pubbliche e programmazione democratica, in Imprese pubbliche e programmazione democratica. Atti del convegno indetto dal Cespe e dall’Istituto Gramsci, Roma, 8-10 gennaio 1973, Quaderni di Politica ed Economia, n. 7, Roma, Cespe, 1973, pp. 7-22. Il discorso di Amendola fu seguito dalle relazioni di A. Pesenti, Capitalismo monopolistico di Stato e imprese pubbliche, in Ivi, pp. 25-45; E. Peggio, Le imprese pubbliche nella economia italiana, in Ivi, pp. 47-121 e N. Colajanni, Problemi della democrazia e sistemi istituzionali delle partecipazioni statali, Ivi, pp. 123-153. 30 Scrive Saraceno: «Caro Amendola, Mi avete cortesemente invitato a dare un mio contributo al convegno sulle Partecipazioni statali; ed io ho accettato volentieri e mi sono seriamente impegnato a delineare i tratti salienti di una teoria del comportamento, o un’economia di necessità, di un’impresa a partecipazione statale. Nella replica potevi dichiararti

Nella risposta il leader comunista si spinse ben al di là delle aperture svolte nel corso del convegno. Rivalutò in sede di giudizio storico la “linea Menichella” e lo schema Vanoni ponendo le premesse per un ripensamento generale della politica economica fino ad allora perseguita. Vale la pena riportare per intero le sue parole. Di ritorno da Firenze, dove aveva presentato il II volume delle opere di Togliatti, scrisse quanto segue: Caro Saraceno, […] Veramente non credevo di avere detto cose che tu non potessi non accettare. Ti ho dato esplicitamente ragione per la tua affermazione sulla superiore responsabilità che spetta alle forze politiche ed al governo per deliberare gli indirizzi programmatici che le imprese pubbliche debbono attuare con piena autonomia imprenditoriale. Ho anche rivendicato per le imprese pubbliche l’esigenza della “efficienza”. Ho voluto, soltanto, indicare l’equivoco di coloro che, specialmente tra gli economisti ed i sindacalisti della sinistra d.c., preferiscono criticare i dirigenti delle imprese pubbliche per non colpire il reale bersaglio, che è il governo diretto dalla DC. E qui ho sollevato il problema delle responsabilità che sul piano politico spettano a quei dirigenti di imprese pubbliche che sono anche uomini politici della DC – ed ho fatto il tuo nome, ricordando, con molto rispetto, il tuo ruolo di “dirigente storico della DC”, per la tua ininterrotta funzione di ispiratore delle linee generali della politica economica seguita dalla DC, dal ’45 ad oggi. Tu d’accordo o in disaccordo con me; potevi anche non menzionare il mio contributo giudicandolo convincente. Invece hai preferito ricordare solo, invero un po’ frettolosamente, attività da me svolte in passato, e ciò in termini che esprimono un giudizio negativo sulle possibilità da parte mia di interloquire nella materia oggetto del Convegno. Ma allora perché mi avete invitato?». P. Saraceno a G. Amendola, 11 gennaio 1972 [ma presumibilmente si tratta del 1973], in Acs, Carte Saraceno, B. 2, f. “Amendola, Giorgio”. Copia anche in: Apc, Fondo Amendola, Serie: Corrispondenza, f. “Saraceno Pasquale”.


19 non puoi disconoscere la funzione che hai avuto, dai primi piani Cer, al piano Vanoni, a San Pellegrino. Da quando non hanno più seguito le tue indicazioni le cose sono andare di male in peggio. Non vedo in che modo io possa avere espresso un giudizio negativo sulla attività che hai svolto in passato, e che io avevo ricordato nella mia introduzione in termini che tu avevi apprezzato. Certo, la linea che hai seguito con coerenza è stata da noi (ed anche da me) oggetto di critiche e contestazioni (ricordo il mio discorso di critica al piano Vanoni). Ma di queste divergenze si è alimentato il rapporto tra noi, che è stato da parte mia sempre molto rispettoso del tuo contributo e della sincerità delle tue motivazioni. Nella mia affrettata (e bene tu dici “frettolosa”) risposta (appena mezz’ora, dopo due giorni di discussione) io non ho ripreso il merito di molte posizioni espresse nel Governo, assicurando che avremmo a lungo meditato sulle critiche e proposte. Ciò che voglio fare anche per quello che è stato il contenuto del tuo intervento. Mi auguro che queste mie franche spiegazioni valgano a dissipare ogni equivoco. Spero di poterti incontrare e di riprendere la discussione. Cordialmente31.

dagli interessi corporativi. Affermò la necessità di una riorganizzazione mediante la creazione di una pluralità di istituti capaci di ripristinare una effettiva separazione tra le imprese e la politica. La proposta dei comunisti era in disaccordo con quella di Saraceno. La soluzione della crisi dell’industria di Stato secondo Saraceno non stava nell’accrescimento della funzione di controllo democratico quanto, all’inverso, nel ripristino del primato dei criteri del raggiungimento dell’efficienza produttiva32. In questa valutazione riemergevano le differenze di analisi della realtà economica generale. Per Saraceno l’intervento pubblico e la riforma del capitalismo era finalizzata allo sviluppo di una economia aperta; diversamente per Amendola le politiche pubbliche erano un mezzo in vista della rivoluzione e l’avvento del socialismo33.

Il punto di avvio della collaborazione tra i due riguardò il tema della mancata attenzione allo sviluppo del Sud da parte delle forze politiche e sociali del centrosinistra34. La portata e limiti della revisione amendoliana si rese manifesta nei mesi successivi con il progressivo accentuarsi della crisi economica e i primi segni del riaccendersi del divario regionale. Il Mezzogiorno fu posto al centro di un programma riformatore volto all’apertura di una nuova fase della politica italiana. Nel ricevere la ristampa del volume Il Mezzogiorno e lo Stato unitario di Giustino Fortunato scrisse a Rossi-Doria, che ne era stato il curatore, di sentire ancora il problema della questione meridionale come attuale nella congiuntura politica attraversata dall’Italia35. Nel suo intervento alla Camera del dicembre 1973 portò questo concetto a sintesi politica 36 . Riprese gli argomenti della critica morale di Salvemini per 32 Scrive Saraceno: «Caro Amendola, La tua lettera del 16 scorso mi ha molto denunciare gli sprechi dell’intervento mortificato perché non pensavo, con le straordinario e invitò a dar vita ad

Le novità più interessanti del discorso di Amendola riguardano il terreno dell’analisi storica. Veniva riconosciuto il fatto che, malgrado le critiche, quando all’Iri vi era Saraceno, al Tesoro Vanoni e all’Eni Mattei la collaborazione tra imprese pubbliche e potere politico non aveva incrinato il principio che fine ultimo della politica economica fosse di garantire l’interesse generale del Paese. Il presidente del Cespe distinse tra il modello degli anni Cinquanta che aveva garantito efficienza e sviluppo e gli anni della Programmazione in cui si era affermato un regime guidato dai partiti e

mie brevi considerazioni, di causarti un dispiacere. Debbo dire però che esso mi testimonia un’amicizia che ricambio di cuore e ciò bilancia il rincrescimento per averti scritto. Ti debbo però qualche spiegazione; io credo che veramente sia un grave errore da ogni punto di vista, ma specialmente dal punto di vista di un partito di opposizione, mescolare nell’attività di decisione che quotidianamente si svolge nelle imprese a partecipazione statale, l’obiettivo di produttività con altri obiettivi che dovrebbero essere di volta in volta identificati e quantificati da una folla di persone che comprende non solo l’ente di gestione, ma la moltitudine di persone che nelle imprese ogni giorno prende decisioni. Come non temere che si venga a costituire con questa commistione oltre che gravi inefficienze, una enorme area di pericolosissimi sottogoverni locali? Penso che di questo possiamo ancora discutere a lungo tra noi; ed è un tema che certamente reca con sé, come ho fatto presente a comuni amici, quello di una seria programmazione. Considera comunque la mia lettera troppo affrettata come espressione del mio desiderio di continuare questo genere di discussioni con te e con gli altri amici che con te collaborano». P. Saraceno a G. Amendola, 1 febbraio 1973, in Acs, Carte Saraceno, B. 2, f. “Amendola, Giorgio”.

31 G. Amendola a P. Saraceno, 16 gennaio 1973, in Acs, Carte Saraceno, B. 2, f. “Amendola, Giorgio”.

33 P. Saraceno, Relazione nel dibattito, in Ivi pp. 216-218; G. Amendola, Discorso conclusivo, in Ivi, pp. 303-312.

34 Il 16 gennaio Saraceno organizzò con la Svimez a Napoli una tavola rotonda dal titolo “La centralità del problema meridionale” a cui parteciparono degli economisti del Pci Augusto Graziani e Mariano D’Antonio. Le relazioni furono pubblicate sul numero di febbraio della rivista «Nord e Sud». 35 Così Amendola a Rossi-Doria: «Caro Manlio, la Casa editrice Vallecchi ha avuto la cortesia di inviarmi la nuova edizione di Fortunato “Il Mezzogiorno e lo Stato unitario” con la tua prefazione. La metterò nella mia biblioteca accanto alla 1° edizione Laterza, che fu, negli anni lontani della nostra giovinezza, uno dei nostri testi sacri. Ricordo quando ti accompagnai a casa sua, in una di quelle visite dei “giovanissimi” che tu giustamente ricordi. Doveva essere nel 24. Sono passati quasi cinquant’anni, e il Mezzogiorno si trova ancora in queste tristi condizioni. Saluti». G. Amendola a M. Rossi-Doria, 30 novembre 1973, in Archivio storico ANIMI, Fondo Rossi-Doria, Corrispondenza ordinata per mittente e materia, f., 23. Copia è anche in Apc, Fondo Giorgio Amendola, Serie: Corrispondenza, f: “Rossi-Doria, Manlio”. 36 L’intervento si svolse a dicembre del 1973. Il significato di questa presa di posizione è stato sottolineato da G. Napolitano, Giorgio Amendola e la democrazia italiana, in Giorgio Amendola comunista riformista, cit., pp. 15-16.

una nuova fase della politica meridionalista con un allargamento delle funzioni di controllo democratico del processo di spesa. 3. La crisi della Repubblica e la proposta politica di Amendola Nella seconda metà degli anni Settanta con il procedere della crisi del sistema politico italiano Amendola andò ulteriormente ricucendo lo strappo con gli ambienti e le personalità che avevano dato vita negli anni cinquanta alla nascita dell’intervento straordinario e che si trovano sempre meno ascoltati nei rispettivi partiti. L’iniziativa politica prese corpo davanti alla crisi dei governi di solidarietà nazionale e il fallimento della strategia del compromesso storico di Berlinguer. Vi era in Amendola il convincimento che il ciclo storico iniziato nel 1948 si fosse esaurito e la speranza di poter portare i comunisti all’assunzione di responsabilità dirette nel governo per contribuire al superamento della crisi politica italiana. In questo periodo intraprese un programma di revisione storica finalizzato a sottolineare la diversità del comunismo italiano rispetto al modello sovietico37. Dopo la crisi del governo Andretti che aveva decretato la morte della stagione della solidarietà nazionale e del compromesso storico, il 22 gennaio 1978 dalle colonne de «l’Unità» Amendola lanciò la proposta di una alternativa democratica38. Riconobbe la fine della strategia frontista e lanciò un programma di governo che faceva propria la proposta di politica dei redditi avanzata da La Malfa. Sostenne la necessità di un 37 Un punto sottolineato da Simone Colarizi, Giorgio Amendola, storico, cit. Sull’apporto di Amendola al rinnovamento degli studi sul Partito comunista si è ampiamente soffermato nella relazione di apertura al presente incontro Giuseppe Vacca. 38 G. Amendola, Anniversario di lotta, «l’Unità», 22 gennaio 1978. Sviluppò i temi della sua proposta politica nel volume: G. Amendola, Il rinnovamento del Pci, Roma, Editori Riuniti, 1978.


20 indirizzo di contenimento della spesa pubblica e l’attuazione di una politica dei redditi che doveva anteporre gli interessi nazionali a quelli particolari e corporativi delle organizzazioni economiche, sociali e dei partiti. Nel linguaggio e nei contenuti venivano ripresi gli argomenti della tradizione liberal-democratica 39. Fu un tentativo estremo e irrealistico di riformare in senso liberale il Partito comunista. All’invito rispose il giorno dopo il suo amico Rossi-Doria con una lettera che vale la pena di riportare per intero. Nelle parole di Rossi-Doria traspare non solamente l’adesione manifesta alla proposta politica avanzata da Amendola ma anche, più in profondità, il senso di isolamento dei due meridionalisti rispetto alle tendenze in atto della politica italiana. Il riavvicinamento tra i due aveva avuto un precedente simbolico importante nel discorso ai funerali di Emilio Sereni in cui Rossi-Doria aveva tracciato le radici del comunismo napoletano40. Scrive Rossi-Doria: «Caro Giorgio, ho letto il tuo articolo di ieri su «l’Unità» e desidero abbracciarti. Più “cane sciolto” che mai – e come tale diverso da te e contento di esserlo – approvo la tua e vostra azione. Se sarete molto calmi, fermi, non rigidi, aperti e rispettosi verso gli apporti degli altri di buona volontà, forse il trentennio cominciato il 18 aprile 1948 potrebbe chiudersi alla scadenza dell’anniversario. Peccato non essere più giovane e più forte. 39 Sulle novità del riformismo amendoliano: L. Cafagna, Le sfide di Giorgio Amendola, in Giorgio Amendola comunista riformista, cit., pp. 27-33. Con riferimento alla dialettica interna al Partito comunista: R. Gualtieri, Il Pci tra solidarietà nazionale e “alternativa democratica” nelle lettere e nelle note di Antonio Tatò a Enrico Berlinguer, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta a cura di G. De Rosa e G. Monina, v. IV Sistema politico e istituzioni, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 281-282.

M. Rossi-Doria, In ricordo di Emilio Sereni. Alle radici della nostra storia, in «Rinascita», aprile 1977, rist in: Gli uomini e la storia. Ricordi di contemporanei, a cura e con introduzione di P. Bevilacqua, Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 193-200. 40

Ti abbraccio Manlio»41. Nelle parole di Rossi-Doria vi era la speranza di poter riportare il comunismo italiano nell’alveo del riformismo. Come è noto in quei mesi La Malfa tentò, senza successo, di dar vita ad un governo sulla base di una convergenza programmatica con Amendola. Il progetto fu stroncato sul nascere dal veto dell’amministrazione degli Stati Uniti e anche dalle resistenze all’interno della compagine del governo e dello stesso Partito comunista42. 41 Archivio storico ANIMI, Fondo Rossi-Doria, Corrispondenza Varia, f., 24. Dopo la morte dell’amico avvenuta il 5 giugno 1980 Rossi-Doria scrisse una lunga lettera al fratello Pietro in cui riversò pensieri di un percorso troncato che avrebbe voluto trasmettere al fratello scomparso. Scrive Rossi-Doria: «Caro Pietro, non ti ho scritto, ma ti sono stato molto vicino nei giorni passati, come avrai anche visto dalle poche righe scritte per “Rinascita” [ M. Rossi-Doria, Quei giovani napoletani e la sua “scelta di vita”, in «Rinascita», 13 giugno 1980]. Due giorni fa mi è stata recapitata una copia del libro di Giorgio, che naturalmente avevo già comprato e letto. Ringrazio te, non potendo più ringraziare lui, dell’invio e ti prego di porgere il grazie anche all’editore per l’omaggio. Negli intensi ricordi di questi giorni è cresciuto il rammarico di non essermi a lungo incontrato con lui negli ultimi anni, quando i motivi di dissenso politico non costituivano più un ostacolo all’intendersi. Ma proprio in questa riservatezza sua e mia era forse l’essenza della calda, ininterrotta amicizia che ci ha legato e verso la quale – come anche il libro dimostra – egli è sempre stato affettuosamente leale, come lo sono stato io. Spero, tuttavia, che lo stesso non avvenga tra me e te. Ciò significa che mi auguro che tu possa trovare il tempo per venirmi a trovare o per combinare altrimenti un incontro. Sarò fuori d’Italia sino al 10 di luglio, ma passerò l’estate, come sempre, nella casa costruita vent’anni or sono nella frazione di Montechiaro in comune di Vico Equense. Se hai occasione di venire da quelle parti, telefonami e combiniamo l’incontro». M. Rossi-Doria a P. Amendola, 16 giugno 1980. in Archivio storico ANIMI, Fondo Rossi-Doria, Corrispondenza Varia, f., 28. 42 A. Manzella, Il tentativo di La Malfa, Bologna, Il Mulino, 1989. Circa gli elementi di apertura di Amendola all’impostazione lamalfiana e l’isolamento in cui si trovò all’interno del suo Partito nel 1978-79: A. Marzano, Contributo, in Giorgio Amendola comunista riformista,

Negli ultimi anni di vita Amendola promosse una dura battaglia per il rinnovamento del comunismo in senso liberale. Attaccò la linea della Cgil contraria all’abbandono dell’istituto della scala mobile richiamandosi all’indirizzo della politica dei redditi e affermando il primato degli interessi generali del Paese su quelli corporativi e di classe 43. Negli stessi mesi prese posizione contro le forme di violenza politica, denunciando le zone d’ombra e di tolleranza nei riguardi del terrorismo presenti nel movimento operaio. Particolare attenzione rivolse alla difesa della libertà della cultura, da lui correttamente intesa come il momento più alto del vivere civile. A metà degli anni settanta aveva manifestato il proprio sostegno a Renzo De Felice contro gli attacchi polemici che gli erano stati rivolti per i suoi studi sul Fascismo. Meno nota è la sua presa di posizione a difesa di Romeo, protagonista negli anni cinquanta, della nota polemica con Emilio Sereni e che era stato preso di mira dai giovani della sinistra extraparlamentare. In seguito ai ripetuti attacchi e alle minacce lo storico siciliano aveva deciso di lasciare La Sapienza dove insegnava e spostarsi alla Luiss. Nell’aprile del 1979 il suo studio era stato oggetto di nuovo attentato, nel clima degli scontri scoppiati in segno di protesta per gli arresti del gruppo cit. pp. 150-153; A. Maccanico, Contributo, in Giorgio Amendola, cit., pp. 57-60. 43 Di notevole interesse è la lettera di Amendola a Napolitano scritta il 4-5 novembre 1978 pubblicata in appendice al volume Giorgio Amendola comunista riformista, cit., pp. 171-179. In questi mesi si aprì un dibattito nell’ambiente economico vicino al Partito comunista sul tema del “salario variabile indipendente”. L’economista Mariano D’Antonio riconobbe che tra i fattori che favorirono la crisi dei risultati della Cassa vi fu anche una mancata adesione dei sindacati ad una politica dei redditi ai fini dello sviluppo piuttosto che il perseguimento di obiettivi di stabilizzazione occupazionale. M. D’Antonio, La politica economica degli anni Sessanta, ovvero le occasioni perdute, in «Economia Italiana», n. 1-2, 1997.

di Autonomia. L’episodio non era trapelato sui giornali. Amendola intervenne personalmente con un telegramma per manifestare a Romeo la propria solidarietà e questi gli aveva riconosciuto lo status di alleato e amico nella battaglia per la difesa delle libertà democratiche 44. Il progetto di riavvicinamento alla tradizione liberale di cui il meridionalismo aveva formato un momento cruciale, sarebbe avvenuto solamente dopo il crollo dell’Unione Sovietica e senza dar luogo ad una elaborazione culturale adeguata. La considerazione che gli obiettivi di uguaglianza sociale per essere raggiunti hanno bisogno di fondarsi sui principi del pensiero liberale resta ad oggi un nodo non pienamente sciolto dalla sinistra italiana e forma una questione irrisolta della democrazia italiana che rende attuale e vivo il pensiero politico di Amendola. Docente di Storia Contemporanea. Università di Teramo. 44 Dopo quanto accaduto manifestò la propria indignazione in un telegramma: «Esprimole mia profonda solidarietà et viva indignazione per grave atto violenza et teppismo che indicano necessità combattere ogni forma di attacco alle nostre libere istituzioni democratiche». G. Amendola a R. Romeo, 11 aprile 1979 (Apc, Carte Amendola, Serie: Corrispondenza, f: “Romeo, Rosario”). Questi rispose alle parole del leader comunista con una lettera. Scrive Romeo: «Caro onorevole, tornato da Parigi, dove mi trovavo per un impegno di ricerca al momento dell’aggressione al mio studio, trovo il suo telegramma. Le sono molto grato del suo gesto di solidarietà, per ragioni personali, e anche per il grande significato, politico e morale, che riveste la Sua condanna dei metodi di lotta di personaggi come questi, che pure si atteggiano a paladini della classe operaia. È una condanna nella quale si realizza la solidarietà di tutti coloro che vedono nella democrazia la base irrinunciabile della vita politica e civile nel nostro Paese. Mi auguro di avere presto il modo di ringraziarti ancora di persona, e intanto mi abbi con la più cordiale amicizia». R. Romeo a G. Amendola, 20 aprile 1979. Apc, Carte Amendola, Serie: Corrispondenza, f: “Romeo, Rosario”.



BANDO


Giovani ricercatori si misurano col pensiero di Giorgio Amendola

C

redo che prima di affrontare qualsiasi argomentazione sia opportuno rendere merito ad Andrea Geremicca, che ha fortemente voluto, all’interno di questa giornata, la riflessione di giovani ricercatori, ai quali è stato chiesto di misurarsi col pensiero di Giorgio Amendola. Dando uno sguardo alle tematiche delle singole relazioni è possibile rendersi conto di quanto sia stato impegnativo il lavoro nel quale essi hanno dovuto cimentarsi. La scelta si rivela tanto più opportuna se si pensa alla particolare attenzione che Giorgio Amendola ha sempre manifestato nel suo rapporto con i giovani, un rapporto scevro da qualsiasi tentazione paternalistica, privo di “tenerezze”, ma sempre improntato ad una grande fiducia e considerazione. Come lui stesso ebbe a dire nella sua Intervista sull’antifascismo, “i giovani devono avere il coraggio di rischiare, anche a costo di spezzarsi le gambe”. E ancora, nel suo richiamo alla lotta antifascista, incitò i suoi contemporanei a “fare largo ai giovani”, nel convincimento che in una grande politica ricca di senso nazionale il ruolo dei giovani è fondamentale. Sempre sui giovani, in “Fascismo e Movimento Operaio”, riprendendo una relazione al Comitato Centrale del Partito Comunista del ’75, Amendola ebbe a dire: “spetta ora ai giovani partire per condurre a termine l’opera iniziata nella lotta antifascista e nella resistenza”. Nel ’64, dalle pagine di Rinascita, Amendola aveva lanciato l’idea della riunificazione con i socialisti e del partito unico dei lavoratori, esprimendo quella che probabilmente è l’istanza più moderna del suo pensiero. Questo lo portò ad uno scontro violento con la Nuova Sinistra interna al PCI, e con coloro che ritenevano sbagliata quella ipotesi, che erano per lo più i giovani del partito. Ma egli espresse la parte più vera del suo pensiero sui giovani quando scrisse: “il discorso di un vecchio ai giovani non può essere che sincero, anche se è destinato a non essere ascoltato, ma io non credo che i problemi centrali per i giovani di oggi siano quelli posti da una tematica dell’individuo e del privato, quanto piuttosto di liberare l’individualità dei giovani di oggi dai lacci di una umiliante e compassionevole permissività che scoraggia il necessario sforzo personale, l’inevitabile fatica e incoraggia invece devianti ignoranze”. Il cuore di questo messaggio si collega direttamente alla testimonianza di Mariano D’Antonio riguardo ai ripetuti inviti a studiare e a impegnarsi in uno sforzo di approfondimento serio di tipo individuale. Attraverso queste citazioni del pensiero di Amendola a proposito dei giovani intendo in qualche modo rendere omaggio al lavoro e all’impegno dei giovani ricercatori che sono oggi qui in veste di relatori. Amedeo Lepore


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Giovani ricercatori si misurano col pensiero di Giorgio Amendola

Tra Stato e Partito Armando Vittoria

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uella di Amendola è stata una figura tanto importante quanto ingombrante nella storia del Partito Comunista Italiano e della Sinistra italiana tutta. Per queste ragioni un tema impegnativo ma a mio modo di vedere anche euristicamente significativo: il ruolo dello Stato, da un lato, e del Partito, dall’altro, nel pensiero e nell’azione di Giorgio Amendola. Perché in una prospettiva storico-istituzionale, che è quella a me scientificamente più familiare, nulla illustra meglio di questa coppia concettuale la matrice culturale di Amendola, la sua azione politica nel Partito, per la Repubblica e per la Nazione, tra gli anni ’30 e gli anni ’60. Un punto d’osservazione che ha il pregio a mio avviso di riuscire ad inquadrare adeguatamente il profilo di Amendola nella storia italiana senza incorrere nei pericoli, entrambe incombenti, né di impostazioni agiografiche né tantomeno di letture costruite interamente su di una presunta “eccezionalità” della sua figura nel panorama del gruppo dirigente comunista, e che ne ha fatto ingiustamente – a seconda dei casi – o un “comunista imperfetto” o un “socialista mancato”. È giunto a mio avviso il tempo di rimuovere dalla figura di Giorgio Amendola il peso di quella damnatio memoriae cui soprattutto una parte della storiografia di origine comunista lo ha ingiustamente condannato, evitando contestualmente la tendenza, talvolta abusata pur in buona fede da una certa storiografia laica, di costruire un profilo di Amendola esclusivamente sulla sua “singolarità” nel panorama della classe dirigente comunista del secondo dopoguerra, vista come diretta

conseguenza delle sue origini culturali o anche famigliari. Per queste ragioni vorrei prima di tutto sgombrare il campo da ogni equivoco. Pur cosciente di potermi sbagliare, guardo alla figura di Giorgio Amendola ed al suo importante contributo alla costruzione della democrazia italiana, come a quella di un intellettuale ed uomo di partito comunista «fino alla fine», e per il quale contestualmente la scelta della democrazia era «definitiva ed irrevocabile» (De Martino, 2001, 129-130). Insomma, dando per acquisita la sua originaria e “famigliare” matrice idealisticocrociana o storicista, definirei Amendola “comunista perché crociano”, e non “comunista nonostante il suo retaggio idealista”; comunista perché convinto della funzione “nazionale” ed antifascista del Partito, non “nonostante tutto ciò”. Amendola «non fu un cane sciolto» (Cafagna, 2001, 19): fu la «positività storica dell’azione comunista nel Paese» a conferire all’allora PdCI quella funzione nazionale ed egemonica nella costruzione dell’antifascismo democratico (Macaluso, 2003, 11), della Resistenza e della Repubblica che condussero il giovane Amendola a maturare la scelta d’iscriversi al PCdI. Il partito della “svolta del ’29”, che supera la sudditanza del centro interno ed abbandona progressivamente la condanna al “socialfascismo”; il Partito di “Ordine nuovo”, de “Lo Stato operaio” e della lettura gramsciana della rivoluzione nazionale (Amendola, 1978 A, 28); il Partito del “manifesto Grieco” del 1935-36 che cercava la “riconciliazione” sul terreno nazionale della gioventù italiana deviata dal fascismo (Vittoria, 2006, 37 ss.).

Insomma è sul terreno dell’antifascismo, della difesa dello Stato democratico e del meridionalismo che il giovane studente, di famiglia liberal-democratica ed ambiente crociano, si spinge verso il partito comunista. Perché il fascismo rappresenta per Amendola la più grossa delle ferite etico-politiche e personali: una brutale rottura della evoluzione in senso democratico dello Stato nazionale, secondo l’eredità raccolta dal padre, da Croce e Gobetti, ma anche da Gramsci. Nel riprendere quella eredità alla fine degli anni venti egli non può che aderire al Partito comunista: l’unico soggetto in grado di invertire attraverso la sua azione quella tendenza, e ricostruire un antifascismo combattivo e ideologicamente vivo (Amendola, 1978 B, 205). Ma sono anche le amicizie personali a contribuire alla sua scelta: non può non ricordarsi che egli giunge al partito attraverso Emilio Sereni e Manlio RossiDoria, e quella generazione di giovani meridionalisti che nello studio del rapporto tra cultura, economia e terra si avvicineranno ad una lettura “critica” della questione meridionale (Cerchia, 2004). Antifascismo democratico, meridionalismo, funzione nazionale delle masse di lettura gobettiana-gramsciana: questi tre elementi fecero da catalizzatore per una intera generazione di intellettuali (oltre ad Amendola il già citato Rossi-Doria, Alicata, Reale, Silone, Giolitti) che negli anni’30 e ’40 costruisce il partito sovrapponendosi ad una prima generazione (Togliatti, Secchia, Scoccimarro, Terracini, Tasca), convinta, e non a torto, che il PCdI fosse il solo capace di fornire quella solida struttura

ideologica ed organizzativa utile a ricostruire un fronte antifascista forte, sulle ceneri lasciate dalla deriva aventiniana dei socialisti e da un movimento liberal-democratico ridotto ad un pugno di intellettuali ormai privi anche del tradizionale apporto massonico (Mola, 2006, 596 ss.). In definitiva, nel Partito comunista Amendola individua l’«erede privilegiato dei democratici del Risorgimento che poteva storicamente vincere la battaglia laddove quelli [l’azionismo e poi il Partito socialista] l’avevano perduta» (Salvadori, 2001, 88). Perché solo quel soggetto – in quanto comunista ed in quanto partito – poteva svolgere appieno la «funzione nazionale della classe operaia» (Cafagna, 2001, 21) di emancipazione e progresso democratico dello Stato, vista come portatrice dell’interesse generale (Napolitano, 2001, 13) . Qui c’è tutto il senso del nesso tra Stato e Partito nel pensiero e nell’azione di Amendola: i due pilastri della «via italiana al socialismo» come forma di completamento della democrazia nazionale. Dall’idealismo crociano Amendola mutua, direi, il senso quasi risorgimentale della difesa dello Stato come portatore dell’interesse generale; da Gramsci (e da Gobetti), l’idea della funzione democratico-nazionale della classe lavoratrice (Bobbio, 2001, 165 ss.) come egemonica nella «direzione intellettuale e morale dei processi» (Gramsci, 2000, 87). Ciò spiega anche il suo rapporto, complesso e viscerale, con il partito cui dedicò una vita intera, di chi «contraddì e si contraddisse» per dirla con Macaluso (Macaluso, 2003, 147 ss.): la sua «leggendaria discipli-


25 na» (Cafagna, 2001, 20 ss.) come la sua forza critica; l’imponenza fisica e verbale (Macaluso, 2003, 147) nel porre domande scomode nel partito e la sua tendenza «autodisciplinante» da vero quadro comunista; l’Amendola innovatore od anzi «anticipatore» impaziente (Cafagna, 2001, 22 e 31), fautore dell’improvvisazione politica ma anche autoritario “uomo d’ordine” (Salvadori, 2001, 87) nel riportare tutti alla linea del Partito ed alle scelte del suo ceto dirigente, più raramente a quelle di Mosca. Amendola amò il suo partitò almeno quanto lo sfidasse (Tamburrano, 2001, 135), ma di certo ne fu un fedele servitore: lo servì come stesse servendo lo Stato perché per lui quel partito era l’attore principale del riscatto dello Stato nazionale, che lui vedeva democratico e – se mi consentite – “progressivo”. Una vita vissuta con «laicità di pensiero e di comportamento, per quel codice etico-politico di serietà, coerenza, responsabilità, che forse gli veniva, prima ancora che dall’esperienza della clandestinità e delle lotte nel PCI, dalla severa e quasi religiosa pratica del liberalismo da parte del padre» (Natta, 2001, 123). Questa l’unica chiave di lettura possibile, quella che almeno a me sembra meno didascalica e manichea, per comprendere il percorso politico di Giorgio Amendola, nella storia del PCI, della sinistra italiana e della Repubblica. Una chiave di lettura che ne spiega insieme tutte le principali scelte politiche personali e i giudizi spesso contradditori che di esse diedero i suoi compagni, gli osservatori, i suoi avversari. Nello sviluppare questo piano d’analisi mi servirò di tre passaggi della sua storia personale nel PCI che mi sono sembrati particolarmente significativi – il “partito nuovo” (1945), il dibattito al C.C. dell’ottobre del 1961 sul XXII congresso del PCUS, e il carteggio con Bobbio del 1964 sul “partito unico della dei lavoratori” – che dimostrano,

e qui mi perdonerà Macaluso, come egli non contraddisse e non si contraddì. Dimostrano, in definitiva, quanto la usa vicenda stia appieno nella tracciato storico del PCI e della sinistra italiana della seconda metà del novecento e che le sue furono posizioni coerentemente comuniste prima che amendoliane: le posizioni di chi fondò, questo è il mio giudizio, tutto il suo percorso politico sull’obiettivo della via nazionale al socialismo. Altro è dire perché non riuscì a realizzare questo suo obiettivo. Amendola accoglie Togliatti al suo “sbarco” in Italia. La svolta del “partito nuovo”, da egli fortemente condivisa, costituisce infatti il percorso in cui il partito poteva svolgere appieno il suo ruolo nazionale. Durante il V Congresso del partito (Roma, dicembre 1945- gennaio 1946) il gruppo dirigente del PCI tratteggiava il programma: lotta all’illegalismo ed alla «malattia del mitra», accettazione e promozione di una «repubblica organizzata sulla base di un sistema parlamentare rappresentativo, una repubblica cioè che rimanga nell’ambito della democrazia ed in cui tutte le riforme di contenuto sociale siano realizzate col rispetto del metodo democratico» (Da Gramsci a Berlinguer, 1985, 77 ss.). L’orizzonte segnato da Togliatti e dal gruppo dirigente comunista non è privo di conseguenze nella base e verso Mosca. Negli articoli 1 e 2 dello Statuto approvato al congresso c’è l’inveramento di quella funzione nazionale del PCI che conferma per Amendola il senso della sua scelta di aderire al Partito: tutti possono iscriversi al partito accettandone semplicemente il programma politico, «indipendentemente dalla razza, dalla fede religiosa e dalle convinzioni filosofiche» (art.2); «Il PCI è l’organizzazione politica dei lavoratori italiani – e non della classe operaia! – i quali lottano in modo conseguente per

la distruzione di ogni residuo del fascismo, per l’indipendenza e la libertà del paese, per l’edificazione di un regime democratico e progressivo, per la pace tra i popoli, per il rinnovamento socialista della società» (art.1) (Martinelli, 1982). Il partito si colloca – immediatamente a ridosso della Costituente e dell’avviamento alla normalizzazione democratica del Paese – nel sistema politico con la strategia della «democrazia progressiva», attraverso le libertà democratiche e la rappresentanza, per la via italiana al socialismo (Vittoria, 2006, 59 ss.). L’idea del “partito nuovo” – per quanto si possa storiograficamente discutere dei termini ed anche della “sincerità” dell’operazione – spiazza per il suo profilo avanguardistico. Togliatti dettava la via italiana al socialismo, il recupero – si pensi alla politica culturale del PCI (Vittoria, 2006, 72 ss.) e successivamente alle edizioni gramsciane – di un terreno nazionale, l’apertura di una strategia che poneva le premesse di una nuova collocazione del partito nella sinistra e nell’arco parlamentare, ovvero tutto ciò per cui Amendola aveva lottato e lotterà durante la sua lunga vicenda politica, e che – utilizzando l’efficace forzatura di Macaluso – potrebbe sintetizzarsi nel suo obiettivo di traghettare il «PCI dall’area comunista all’area socialista» (Macaluso, 2003, 151). Amendola era in quella fase appena entrato nella direzione ed era sottosegretario nel Governo Parri, poi nel primo di De Gasperi (Amendola, 1974). Tuttavia la linea del “partito nuovo” era destinata a forti modifiche sotto l’opera dei colpi interni ma soprattutto esterni: la riunione del settembre del 1947 in cui Longo e Reale sono accusati di «arrendevolezza»; le pressioni dell’Urss ad abbandonare la “via nazionale” del PCI e la risoluzione del Cominform del novembre 1949; l’opposizione interna di Secchia e il VI congresso

che obbliga Togliatti ad allineare il partito all’Urss, ad abbandonare la via nazionale e a modificare l’articolo 2 dello Statuto. La vexata quaestio della nomina di Togliatti al Cominform costituì poco dopo un momento di svolta. Nulla spiega meglio della direzione nazionale del 31 gennaio del 1851, cui Stalin accettò si demandasse la decisione sulla collocazione di Togliatti, l’impatto in termini di revisione della politica del “partito nuovo” negli anni che vanno dal 1946 in poi. Amendola avrebbe poi detto di aver votato a favore come tutti alla proposta sovietica (astensione di Negarville, voto contrario di Terracini) (Amendola, 1978 C), ma quel voto confermerà la percezione da parte di Togliatti di una dirigenza sfibrata e divisa (con una forte opposizione interna), costringendolo ad abbandonare una decisa politica di rinnovamento e nazionale e riallinenando il partito a Mosca, per esigenze esterne ma anche di controllo sul partito. Gli anni che vanno dal 1949 al 1956 sono gli anni in cui la politica del PCI passa sostanzialmente dalla strategia del “partito nuovo” al centralismo democratico ed all’unitarismo interno. Anni che oggettivamente rappresentano nella prospettiva amendoliana un arretramento rispetto alla sua politica della «specificità nazionale» (Natta, 2001, 123), alla sua idea “frontista” fino all’eccesso – anche in tempi non maturi – di un «partito della via italiana al socialismo» (Bobbio, 2001, 161). Eppure sono gli anni in cui Amendola conduce la battaglia meridonalista per la riforma della terra (assieme a Ruggiero Grieco) e fonda con Alicata e De Martino la rivista Cronache Meridionali (1954), riuscendo se vogliamo a tenere la politica del Pci dentro la propria prospettiva politica. Dopo la citata direzione del 1951 Togliatti medita e programma quella che potremmo definire


26 una “seconda svolta”, cercando di tenere assieme un adeguato e mai supino allineamento all’Urss e un rafforzamento del suo controllo sul partito, senza pregiudicare eccessivamente la strategia della via nazionale e del partito nuovo che pure avevano subito dei duri colpi. La morte di Stalin, sfumata la patina della commozione, apre il «disgelo» e la discussione sil “policentrismo” (Vittoria, 2006, 177) – che decollerà dopo il XX congresso del PCUS – ma soprattutto rafforza le posizioni di quanti, con toni e forse anche prospettive diverse, avevano puntato con forza sulla strategia del “partito nuovo”. La linea di Togliatti, ma anche di Amendola e Terracini, vede aprirsi con la sconfitta della “legge truffa” e soprattutto della sua applicazione elettorale prospettive politiche importanti. Quando dunque nella primavera del 1954, nel comitato centrale che deve preparare la IV conferenza sull’organizzazione del partito, Togliatti chiama a relazionare a sorpresa proprio Amendola – e non Secchia, responsabile dell’organizzazione – il cerchio comincia a chiudersi: l’affare Seniga, l’inchiesta Scoccimarro, saranno tappe interlocutorie di un processo interno che “veniva da lontano”. La IV segna l’estromissione sostanziale di Secchia dalla linea dirigente: la rottura insanabile con Togliatti sulla visione del partito – di quadri, di massa – era scivolata sul piano delle esclusioni personali, e la sua vicenda successiva ne fu una dimostrazione come lo stesso Secchia tenne sempre a precisare. Giorgio Amendola lo sostituiva, ed entrava anche nella segreteria del partito. Questa scelta, spesso non messa debitamente in risalto dalla storiografia, ebbe a mio modo di veder un significato importantissimo, nella direzione che Togliatti e il gruppo dirigente a lui vicino davano al partito in quella determinata fase. La relazione di Amendola al comitato

centrale del 16-18 luglio 1854 dava ragione a Togliatti ed era un «manifesto politico»: era il rilancio di una strategia di respiro nazionale della politica del PCI, di programmazione economica e sociale dai profili riformisti (Gualtieri, 2006, 27-41). Era un esito prevedibile. Amendola, per formazione, percorso e posizioni nel partito, aveva un profilo assai diverso dall’ortodosso Secchia. Come ricorderà Macaluso parlando delle loro diverse vedute proprio sul modello organizzativo di partito, Amendola aveva più volte ripetuto «a Secchia che una struttura così [il modello organizzativo staliniano] si poteva costituire al nord, ma, nel Mezzogiorno, non se ne parlava neppure» (macaluso, 2003, 54): sembra di risentire la polemica di fine ottocento tra Turati e Salvemini. Di certo la scelta di Togliatti si collocava coerentemente dentro una più ampia strategia incline a recuperare la politica del “partito nuovo”, di un partito «aperto a tutti i campi della vita economica, politica e sociale della nazione» (Da Gramsci a Berlinguer, 1985, 574 ss) come egli stesso disse nella quarta conferenza: era il recupero almeno parziale del V congresso, era la via italiana per una “democrazia progressiva”. Giorgio Amendola era in quella fase l’uomo giusto al posto giusto: dentro quella prospettiva, dentro quella storia, che era la sua storia. Ma è soprattutto con la fase politica interna al PCI che si apre con il XX Congresso del PCUS che spinge Amendola a praticare con più intensità – e con una posizione interna al partito ed al dibattito politico del Paese ormai di primo piano – la sua linea e la sua prospettiva politica. Le critiche ormai scoperte allo stalinismo ma ancora di più i fatti di Ungheria avranno, come noto, un forte impatto sulla sinistra italiana e particolarmente sul PCI – non ultimo un dissanguamento di alcuni tra i migliori della sua classe

dirigente e degli intellettuali: da Giolitti a Onofri; da Calvino a Crisafulli, Diaz, Cantimori e Sapegno; da Muscetta a Reale (M.S.Righi, 1996). Qualche anno dopo nel Comitato centrale del novembre del 1961, lo stesso Amendola che aveva aperto il fuoco delle critiche interne sul XX congresso, ma poi era rientrato nei ranghi ed anzi aveva cercato, con l’idea della «lotta su due fronti», di contenere i dissensi di Terracini, Negarville e Di Vittorio sull’Ungheria (Vittoria, 2006, 8586), non farà sconti al partito ed alla sua leadership nel chiedere il dibattito su «quel nodo…quella remora insuperabile se si voleva andare avanti davvero sulla strada del rinnovamento» (Macaluso, 2003, 149). Era, nella visione amendoliana, il momento di aprire «in termini di concretezza, alle novità» (Tamburrano, 2001, 136), di spingere il cuore oltre l’ostacolo: era l’occasione per una svolta storica nel PCI, tale da collocarlo alla guida della via nazionale al socialismo, in un programma strutturale, progressivo e riformatore, che abbandonasse alcune contraddizioni scaturenti dai legami con una parte della politica sovietica. Il Comitato centrale del 1961 in cui si discussero, soprattutto su spinta di Amendola, le tesi del XX e del XXII congresso del PCUS costituirono per la sua posizione nella classe dirigente del PCI uno spartiacque. Le divergenze con Togliatti emersero con forza su alcuni punti essenziali della politica del partito – democrazia interna, interpretazione del policentrismo – sia nelle relazioni, che nel documento finale come nella direzione immediatamente successiva (M.L.Righi, 2007). Il rapporto tra il dirigente napoletano ed il partito uscì indubbiamente logorato, anche per la forza con cui egli pose quelle questioni. In questo sono fortemente in disaccordo con alcuni giudizi storiografici sulla presunta incapacità

di Amendola di varcare, in quel passaggio, “il rubicone” (Cafagna, 2001, 28 ss.): egli spinse fino al consentibile – in quel tempo, in quel partito – la dirigenza del PCI ad una sua Bad Godesberg se volgiamo utilizzare questo termine. Fu il gruppo dirigente maggioritario a scegliere di “dimenticare Kruschev” (o forse l’Ungheria). Se una responsabilità si può trovare ad Amendola – non col sennò di poi ma con la contestualizzazione dello storiografo, si badi bene – non fu un difetto di convinzione quanto, piuttosto, di efficacia politica di quelle scelte, ovvero di quanto quella sua strategia sia risultata o meno vincente. Ciò che voglio dire, in definitiva, è che su questo aspetto le critiche non vanno condotte al percorso e la “scelta di vita” di Amendola per l’impazienza del suo carattere né per la sua «rozzezza» – come amava dire – , né per la sua impazienza né forse per la sua disciplinata devozione all’unitarismo di partito (che ebbe però altri effetti), ma solo per l’inefficacia della sua strategia politica. Il limite di Amendola, per dirla con Colajanni, fu di determinazione nel porre una leadership alternativa, perché «per affermare le proprie idee occorre anche porre candidature al comando e organizzare le forze. Comportandosi come si comportò, Amendola rimase isolato» (Colajanni, 2001, 74). Nel momento della rottura, egli servì il partito, la sua “patria”; ma «il presupposto unitario», cui Amendola rimase fedele dopo il Comitato centrale del 1961 comportò «un prezzo elevato per il PCI», quello dell’«isterilimento delle intelligenze» e del «dilagare del conformismo» (Colajanni, 2001, 76). Un giudizio, quello di Colajanni, che oggettivamente restituisce le dovute responsabilità anche all’altra parte del gruppo dirigente che non seppe valorizzare adeguatamente le suggestioni e, a volte, le provocazioni di Amen-


27 dola, al di là delle divergenze di linea politica. Bollandolo come «provinciale» – come Togliatti al citato Cc dell’autunno 1961 (Righi, 2007, 5-38) – o come analfabeta del leninismo” (è il caso di Berlinguer al Cc del ’79), facendo emergere quel tratto di snobbismo, chiusura ed autoreferenzialità culturale di un certo Pci che, certo, mostravano un certo conformismo. Di certo va ascritto ad Amendola il merito, negli anni decisivi della “crisi sotteranea della chiesa comunista”, di essere stato tra i pochissimi a proporre un serio percorso di revisione critica dentro il partito (Crainz, 2005, 161-174). Va precisato, inoltre, che anche i “cugini” socialisti e della Sinistra in generale non si mostrarono particolarmente reattivi nel raccogliere le suggestioni spesso lanciate dal dirigente napoletano, nei suoi modi nei suoi limiti. Si pensi al celebre dialogo a distanza con Norberto Bobbio del 1964 (Bobbio, 2001, 157 ss.). La proposta di Amendola di un «partito unico dei lavoratori» nella sinistra italiana, né comunista né socialdemocratico, «capace di elaborare una nuova strategia nuova ed una politica nuova» fu una vera «bomba» (Macaluso, 2003, 150) nel Partito, che egli pagherà con «una vera e propria aggressione morale», come avrà modo di dire (Crainz, 2005, 162). Certamente sulla scelta dei modi e dei tempi per quella iniziativa da parte di Amendola ci sarebbe tanto da approfondire: per la crisi del primo centrosinistra e la riunificazione socialista in atto e anche per la fase politica assai problematica in cui il PCI si trovò ad operare. Eppure non si spiega, diversamente dallo stupore, l’aggressione ad una proposta che almeno nei contenuti in senso stretto in fondo riproponeva, mutatis mutandis, la politica del “partito nuovo”, «il partito della via italiana al socialismo» (Bobbio, 2001, 161), se si vuole confermata nella sostanza poco

successivamente dal memoriale di Yalta. In ogni modo alla luce degli eventi successivi è forse facile ed anche un po’ banalizzante affermare che per molti versi Amendola ebbe ragione. In questo senso egli fu senza dubbio un anticipatore e un innovatore. Ma queste non sono categorie della storia, e l’attuarismo storiografico è uno dei peggiori pericoli per lo storico, da cui mi hanno insegnato a rifuggire. Una frase tuttavia, del primo degli articoli pubblicati da Amendola nel 1964 su Rinascita, rappresenta più di ogni altra cosa detta sino ad ora, il suo percorso, il suo impegno, la sua azione politica e quella religione civile in lui sospesa tra Stato e partito. Il sogno di un «grande partito unico del movimento operaio – come scrisse a Bobbio – nel quale trovino il loro posto i comunisti, i socialisti e uomini come Bobbio, che rappresentano degnamente la continuazione della battaglia liberale iniziata da Piero Gobetti». Di fatto con quelle parole Amendola ritornava al punto in cui tutto per lui era iniziato, alla sua “scelta di vita”. Ricercatore in Storia delle Istituzioni Politiche. Docente incaricato in Scienza dell’Amministrazione. Università Federico II.

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Giovani ricercatori si misurano col pensiero di Giorgio Amendola

Autocritica sul Mezzogiorno Alfonso Musci

M

isurarsi col pensiero di Giorgio Amendola, per chi appartiene alla mia generazione, vuol dire anzitutto avviare la frequentazione con un “classico” del pensiero storico e politico del Novecento. Èun’affermazione non peregrina questa, proprio nella misura in cui lo sforzo della “storicizzazione” verso un classico – di qualunque epoca e di qualunque disciplina, e nel caso specifico di Giorgio Amendola, del pensiero e dell’azione politica – è agevolato dal permanere di una lezione viva, che trascende la contingenza storica. Nel vuoto di “memoria” di cui soffre la civiltà politica italiana, pur oltre i radicali mutamenti sopravvenuti in Italia e in Europa dopo la sua scomparsa, le posizioni di Amendola, rimangono sullo sfondo, come esemplari nel metodo, di come – nel solco di una “una scelta di vita” – nasce e si forma una “classe dirigente”, si dota di una “visione unitaria” del proprio paese e dei propri problemi strutturali, dispiega e organizza la sua azione secondo un’etica del lavoro politico ad essa conforme. Non entusiasma il ritratto di Amendola come riformista “migliorista” fine, intelligente, ma minoritario e perdente, né la vexata questio delle basi minoritarie del riformismo italiano che riduce la vicenda di Giorgio Amendola, – riformista in un partito comunista di massa – a caso esemplare e semplificativo di una sconfitta storica. Né attualità dunque, né rievocazione memorialistica, né processo, né elogio, ma ricostruzione di un clima intellettuale e di un contesto storico che – nel riflesso con le ferite aperte della storia d’Italia unitaria: il Risorgimento, la Questione meridionale, le origini del Fascismo, la Ricostruzione,

l’incontro con l’Europa – offre un’ampia prospettiva visuale per “l’autobiografia della nazione” o d’una sua parte consistente, e questo – permettetemi un inciso ulteriore – è tanto più concreto nel caso di Giorgio Amendola, che, dello sforzo d’aderenza della sua parte politica alle emergenze della “nazione”, della “funzione nazionale” nell’azione di massa del movimento operaio comunista, fece un vero è proprio metodo formale d’impostazione delle “questioni” e della “decisione” politica; uno sforzo che avrebbe caratterizzato intimamente l’indole di quello che con un ossimoro è stato definito “riformismo comunista”. Ma il riformismo comunista non fu una corrente, c’è una recente definizione di Emanuele Macaluso, molto adeguata a rappresentare quello che fu l’esercizio politico di Amendola e dei suoi allievi, ma che può essere assunto a norma generale dell’etica politica dei comunisti italiani, e cioè: “muoversi in una strettoia, tra l’impossibilità del governo, la scelta della legalità e della costituzione e l’integrazione di massa senza opzione rivoluzionaria”. È un esercizio che riassume largamente la storia dei gruppi dirigenti comunisti vicini a Togliatti e eredi della sua impostazione e non può essere considerata una posizione isolata o marginale, ma largamente maggioritaria e rappresentativa nel mondo comunista. Si tratta dunque di una posizione tutta calata nel dramma del suo tempo che non va scorporata dal suo contesto ma che per varie ragioni: le sue matrici culturali, il suo approccio pragmatico alle vicende sociali e economiche del paese, la lucidità nell’analisi storica pure in una fase di profonda trasformazione, in una parola – mutuata e presa in prestito da Antonio Labriola e volta

in positivo – la sua “congreunza” rispetto alle emergenze del proprio tempo, fanno di Amendola un interlocutore capace di superare il recinto della contingenza. Misurarsi col pensiero di Giorgio Amendola significa dunque non solo provare a familiarizzare dall’esterno con i suoi testi, con la sua imponente produzione pubblicistica nei panni di redattore delle “Cronache meridionali” o di responsabile per il P.C.I. nel Mezzogiorno d’Italia, oppure con la fluviale produzione politica da uomo delle istituzioni nel suo lungo magistero parlamentare, ma anche misurarsi dall’interno con le manifeste espressioni della sua azione di dirigente politico, nel quadro organizzativo “centralistico” del P.C.I., su “questioni cruciali” della vita italiana che, pure nella mutevolezza degli scenari, si sono agitate sullo sfondo di un lungo periodo, suscitando, almeno sino alla sopravvivenza delle strutture emanazione diretta del “continuismo comunista”, dibattito pubblico e polemica politica, ma questo lungi dall’indurre a porre il falso problema dell’attualità di Giorgio Amendola, anzi, oggi di fronte a una stagione politica che, almeno nelle intenzioni, si annuncia come “nuova”, per il suo carattere di decisa discontinuità storica, si pongono forse le premesse per consengare agli arnesi della ricerca storiografica il controllo del giudizio sul passato, ma come è noto “passato” e “presente” non sono dimensioni alternative o gradi di esistenza incomunicabili, ma convivono il più delle volte in un impasto unico, cui solo il giudizio storico ben avvertito e ben controllato è in grado di imprimere una forma selettiva, assumendo, sul piano della rappresentazione soggettiva, l’alterità dell’oggetto in esame. In questa direzione credo

sia insufficiente invocare il rinnovamento in politica, intendo dire nei luoghi della direzione e della decisione politica, senza pretendere da chi arriva un “rinnovamento storiografico”, nei luoghi della cultura alta e dell’opinione, non a caso, perché credo invece che una “generazione nuova”, che non sia tale in termini solo anagrafici, si insedia e matura buoni frutti se la sua visione del passato poggia su solide basi, se è in grado di sostenere il costo di un passaggio di memoria senza correre il rischio dell’oblio o dell’amnesia o della rimozione di quello che rimane altro da sè, e non per questo minore o maggiore del presente, ma semplicemente diverso. Credo – e concludo questa lunga premessa – che per affrontare la storia del comunismo italiano da questa prospettiva – ma questo vale per qualsiasi impresa storiografica – si debba far ricorso all’esercizio intellettuale dell’etnologo, che Claude Levi Strauss, in un saggio del 1956 dal titolo Les trois Humanismes definiva ‘tecnica dello straniamento’, che non solo prelude allo studio, ma anche alla comprensione di cio che non ci è mai appartenuto o non ci appartiene più, per la mia generazione è il caso di Giorgio Amendola. In questa breve relazione, vorrei concentrare la mia attenzione, attorno al nodo della “questione meridionale” seguendo da vicino il percorso di definzione dell’approccio amendoliano ai problemi del Mezzogiorno. Il pretesto per occuparmi di Giorgio Amendola e la questione meridionale, mi giunge in maniera indiretta da una pagina autobiografica di Giorgio Napolitano che ricostruisce le vicende che condussero all’insediamento del IV centro Siderurgico a Taranto. È una pagina meditata che fa ammenda sul passato e sulla cul-


29 tura “industrialistica” dei comunisti italiani, una pagina densa che pone problemi sul passato e invita all’”autocritica” sulle scelte politiche degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta. Un torno di tempo gravido di eventi, che sul piano della mera cronaca coincisero con la nascita dello SVIMEZ nel 1946 per impulso di Rodolfo Morandi, con l’ampio dibattito ‘economico’ nelle vicende congressuali dei partiti del CLN: ad esempio il Partito d’Azione, col convegno svoltosi a Bari dal 3 al 5 dicembre del 1944 sul tema “Dati storici e prospettive attuali della Questione meridionale” cui presero parte Guido Dorso, Manlio Rossi Doria e altri esponenti del “nuovo meridionalismo” o con le conferenze programmatiche della Democrazia Cristiana che nell’ultimo lustro degli anni Quaranta avrà nella schiera degli economisti ‘dossettiani’ un nucleo vitale e fertile di innovazione scientifica, in grado di accompagnare, sul piano teorico, in sintonia con le più avvertite e avanzate posizioni della scuola angolasassone, il ciclo di ricostruzione economica e produttiva del secondo dopoguerra. Si tengano presenti ad esempio la mozione conclusiva del convegno economico indetto in Puglia nell’autunno del 1947 in preparazione del secondo congresso nazionale della DC o i documenti risolutivi emersi l’anno successivo, sempre a Bari, alla Fiera del Levante, in un convegno sul tema “ERP e Mezzogiorno”, si ritroveranno gli incunaboli teorici del dibattito che condurrà all’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno e alla legislazione speciale per il Sud. In questo scenario maturerà la decisione di istituire la Cassa per il Mezzogiorno, il quadro normativo per l’intervento straordinario e l’istituzione del Ministero per le partecipazioni statali (1956) e in questo contesto, iniziative come il “piano del lavoro” (1950) della C.G.I.L. di Di Vittorio e lo “schema Vanoni” di Pasquale Saraceno (1955), l’approvazione della legge 634 sulle Partecipazioni statali (del

1957) (l’art.2 regolava le politiche d’investimento destinando il 40% dell’investimento totale e il 60% del nuovo investimento al sud) saranno al centro di un disegno “produttivista” in cui da un lato il P.C.I. e la C.G.I.L., con l’ancoraggio del movimento operario e popolare a una nuova politica di sviluppo fondata sulla piena occupazione e sull’espansione produttiva, e dall’altro la DC e la CISL, con un disegno governativo fondato sulla riforma agraria in un primo momento e su una politica di investimenti pubblici, rivolti alla regioni meridionali, attraverso la filiera della Cassa per il Mezzogiorno e del Ministero per le partecipazioni statali, prima in direzione del supporto infrastrutturale all’azione della riforma agraria e poi decisamente in direzione dello sviluppo industriale, concorreranno in maniera complementare e in ambiti diversi, a una fase di intensa trasformazione economica e sociale, da cui l’Italia uscirà profondamente rinnovata. In questo acceso confronto tra le parti, soprattutto nelle commissioni parlamentari, nei centri studio e nei luoghi della direzione politica, in un quadro segnato anche da forti divergenze di natura teorica oltre che politica, prenderà vita una sorta di best practice, un ciclo virtuoso del nesso tra momento esecutivo e legislativo, tra consenso e decisione, che farà fare all’Italia un grande salto “morfologico”, collocandola al centro del sistema delle grandi economie avanzate del mondo occidentale. Vero è che si trattava di allocare nel modo migliore un arco di finanziamenti provenienti dall’ERP e cioè dal fondo del “Piano Marshall” per l’Europa (il 2% del totale, pari a 1470 milioni di dollari) in un quadro di intesa tra le maggiori forze politiche del paese, ma non si trattò di un processo né sereno né scontato, perché da un lato il P.C.I. dovette affrontare, senza il supporto del “collateralismo”, la competizione interna con i sindacati operai e con

le frange della sinistra sindacale e dall’altro la DC dovette intaccare un solido blocco di potere costituito dalla destra agraria e monarchica meridionale e dalla destra protezionista alimentata dai grandi monopoli del capitale e dell’industria del centro nord, e dettaglio non meno rilevante, il passaggio da un modello d’economia orientato al pareggio di bilancio e alla “stablizzazione” mediante la stretta deflattiva concepita per irrobustire le riserve valutarie, che segnò l’azione dei primi governi a monocolore democristiano, a un modello di politiche anticicliche e programmatorie di stampo “strutturalista”, che segneranno invece la seconda metà degli anni Cinquanta, fu talmente rapido da entrare in collisione col timore cronico di una spirale inflazionistica e di un crack finanziario, un timore che per più di una generazione e, senza dubbio per la generazione di Giorgio Amendola, rappresenterà non solo una distopia collettiva ma l’impressione di un rischio concreto. Ma lo sforzo d’aderenza al sistema delle relazioni internazionali emerso col secondo dopoguerra e l’obbiettivo strategico di porre l’Italia al centro del sistema delle economie avanzate, indurranno le giovani classi dirigenti del P.C.I. e della DC, a dismettere le paure e a tentare l’intentato. Sia pure nella differenza di toni e di sfumature, DC e P.C.I condivisero sullo sfondo di scelte strategiche, quella che Valerio Castronovo ha defintio la “filosofia dello sviluppo” (comune alle classi dirigenti di altre giovani democrazie europee) orientata dalla prospettiva di un’espansione accellerata e continua del sistema produttivo, da un’azione di governo rivolta alla piena occupazione e all’espansione del settore pubblico, una posizione ideologica debitrice verso le teorie di John Maynard Keynes e dello svedese Gunnar Myrdal, che avevano attribuito allo Stato una parte di rilievo nel mantenimento della domanda aggregata di beni e servizi, e che nel caso specifico dell’Italia

si declinava nell’intensivo programma di riduzione del divario macroeconomico e “strutturale” tra Nord e Sud della penisola. Lo SVIMEZ, ad esempio, nato per impulso del mondo accademico e della società civile concorse allora ad aggiornare i termini della “questione meridionale” adeguandoli ai nuovi strumenti dell’osservazione e del calcolo economico, e offrì un terreno solido di integrazione tra “tecnica” e “politica”, tra elaborazione di idee e supporto alle decisioni, e concorse, in una direzione ben precisa, a sprovincializzare il problema del Mezzogiorno, ricollocandolo sulla grande scala dell’economia mondiale. La scelta strategica di fondo del gruppo di intellettuali che animava le attività dello SVIMEZ fu senza dubbio di tipo “industrialista” e finì per contaminare il nucleo intellettuale dei giovani dirigenti comunisti, di cui Amendola rappresentava senza dubbio l’espressione più avanzata e più dotata sul piano dell’esperienza istituzionale. Non si trattò, però, nel caso dello SVIMEZ di un semplice trust di tecnici senza missione etica, anzi, Pasquale Saraceno, con la giovane schiera dei suoi allievi, Salvatore Cafiero, Nino Novacco, Giuseppe De Rita e altri, seppe alimentare e tenere viva la visione e l’orientamento generale dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno, sottraendolo alla casistica del localismo e della contingenza dei cicli elettorali e consentendo, anzitutto al proprio interno, un ampio spazio di riflessione “critica” e “autocritica”, incontrando, almeno in questo, una comune impostazione valoriale con la posizione di Amendola che – almeno nella fase fondativa – dell’intervento straordinario e delle iniziative dello Stato imprenditore, fu duro e inflessibile detrattore. Questa affinità e questa disposizione a problematizzare e complicare le analisi, ha offerto un solido supporto per una visione comune dei problemi del Mezzogiorno e ha segnato questa stagione come un


30 capitolo centrale della moderna “questione meridionale” in età repubblicana. Su un punto ben preciso di questo ampio dibattito vorrei concentrare in conclusione, la mia attenzione, vale a dire la catena di argomenti che dal punto di vista di Pasquale Saraceno sono al centro dell’opzione industrialista e a fondamento teorico dell’intervento straordinario, e che invece dal punto di vista di Amendola,si muovono nel senso dei “controargomenti” che egli muove contro la teoria “keynesiana” (si considerì pero che Mariano d’Antonio ha definito l’accostamento delle dottrine dello SVIMEZ a Keynes, da parte d’Amendola, un “abbaglio intellettuale”) delle “aree depresse” applicata al mezzogiorno d’Italia, ma che conducono entrambi a un’analisi comune, sui rischi di degenerazione dell’intervento straordinario e di corruzione all’interno dell’ente cassa in assenza di un concreto programma di riforme del sistema produttivo e di radicamento industriale. Sono punti di vista differenti che però, dal lato della posizione critica di Amendola e dal lato della revisione “autocritica” di Saraceno, svelano una comune impostazione nel giudizio storico di lungo periodo sulla mancata modernizzazione economica e politica dell’Italia meridionale, che, sia pure nella differente tonalità, di tipo gramsciano nell’interpretazione di Amendola e di taglio neoclassico e strutturalista nell’impostazione di Saraceno, rinviano a una interpretazione della moderna storia economica italiana di matrice liberale. Saraceno, intervenendo in occasione del II convegno dal titolo: “L’industrializzazione e l’istruzione professionale” indetto a Napoli dalla Cassa, nel novembre del 53,’ esprimerà non poche perplessità e cautele sul percorso da intraprendere per una robusta e durevole industrializzazione del Mezzogiorno. Saraceno nel 53 – siamo ancora nella prima fase “agrarista” dell’intervento straordinario, eppure Saraceno insinua i primi germi

di un disegno “industrialista”. Saraceno muove dalla constatazione che: “lo squilibrio economico delle regioni meridionali” è tale da porre un “limite” allo sviluppo dell’intera economia nazionale; per ovviare a questo squilibrio – continua Saraceno – non basta “un piano per le opere pubbliche, né un piano di investimenti a sostegno dell’agricoltura, ma occorre realizzare un processo di industrializzazione”, che non può derivare dall’intervento eteronomo o esterno, ma che deve reggersi su “condizioni ambientali”, il cui compimento è connaturato al processo dinamico di industrializzazione, che non è dunque “epilogo” di uno svolgimento, ma “premessa” a una “mutazione strutturale” dell’economia del mezzogiorno. L’impegno massiccio dello Stato nella fase d’abbrivio deve caratterizzarsi come momento “propulsivo” e temporaneo, e non invasivo, e sul lungo periodo deve indurre l’iniziativa privata a “svolgere il suo ruolo” e non sostituirla in una sorta di schema assistenziale e paternalistico. L’anno successivo, in occasione del V congresso nazionale delle DC, svoltosi sempre a Napoli, Saraceno denuncerà i limiti e la frammentarietà nell’azione della Cassa, introducendo la necessità di un programma di “educazione civile e morale” delle classi dirigenti meridionali sempre inclini al vizio del baronaggio e della malversazione, in un contesto di depressione che prima che economica è anche “umana”. In uno scritto assai più vicino a noi (1991) Saraceno, presentando un’antologia di suoi interventi apparsi tra gli anni Sessanta e Settanta, a fronte di un lungo bilancio storico e dell’esaurimento di un ciclo che porterà alla fine dell’intervento straordinario, osserverà quanto ambizioso e visionario fosse il disegno “industrialista” che animò le politiche di quella fase, partendo, oltre che dall’osservazione che il divario Nord-Sud si era semplicemente “replicato” su un’altra scala di indici e di valori, da una valutazione di lungo periodo e dalla constatazione che la natura

dell’industrializzazione del mezzogiorno, fu, e non poteva essere altrimenti, per ragioni storiche e morfologiche, “incomparabile” col processo d’industrializzazione dell’Italia settentrionale, legato intimamente ai cicli della “rivoluzione industriale e manifatturiera e del sistema del credito, avvenuti nell’Europa centro-settentrionale alla fine del 700’, partecipi d’ una ‘durata’ storica cui il Mezzogiorno e l’Europa mediterranea furono complessivamente estranei. In questo senso si deduce quanto sarebbe stato titanico lo sforzo di recuperare due secoli di storia e di mutazione morfologica nel torno d’un decennio. In assenza di solide fondamenta, e cioè delle condizioni storiche e ambientali si stava procedendo a costruire un “gigante dai piedi d’argilla”. Amendola in parlamento nel giugno del 1950 avrebbe votato contro il decreto che istituì la Cassa per il Mezzogiorno, votando solo l’ordine del giorno aggiuntivo proposto da Alicata che chiedeva l’inclusione dei “lavoratori” nel consiglio di amministrazione della Cassa. Il rinnovamento del Mezzogiorno per Amendola sarebbe giunto da un graduale “allargamento delle basi dello stato con l’espansione dell’economia pubblica e privata, con l’abbattimento dei monopoli, con la democratizzazione dei processi produttivi. Questo processo avrebbe dovuto fondare il suo peso sulla funzione progressiva delle masse lavorative endogene al Mezzogiorno e non sull’intervento verticale e eteronomo delle istituzioni governative. La; liberalizzazione dell’economia sarebbe dovuta passare attraverso l’impulso popolare. Amendola avrebbe evocato inoltre i rischi concreti di corruzione nel Banco di Napoli e nella Cassa. Certo era la posizione di un ‘agrarista’ molto vicino alle tesi di Sereni, ma non estraneo al nodo della modernizzazione, della meccanizzazione e dell’industrializzazione dei processi produttivi. Il Mezzogiorno, nella visione di

Amendola – pur seguendo una linea d’analisi keynesiana – non era assimilabile a “un’area depressa”, ma al volano dell’economia nazionale, alla base su cui fondare l’espansione delle basi del capitalismo, la liberalizzazione dei monopoli e la piena attuazione di un’economia di mercato. Processo economico e processo politico assieme, democratizzazione delle istituzioni e democratizzazione del sistema produttivo sarebbero passati attraverso la liberalizzazione delle energie inespresse del sud, che in larga parte erano rappresentate non solo dalle masse inoperose ma dal lavoro organizzato e specializzato, posto alla base del sistema di produzione dei salari e dei consumi. La “Questione meridionale” – secondo Amendola – avrebbe cessato di essere una “quistione”, se, le classi dirigenti meridionali e nazionali avessero imparato a non considerarla un caso eccezionale e confinato a una precisa area geografica, ma anzi il punto debole dell’intero sistema economico nazionale e della sua parziale modernizzazione. In una certa misura – sia chiaro però che non è mia intenzione avanzare soluzioni affrettate o banali ricomposizioni tra cose che nel loro svolgersi furono in aperta opposizione, ma anzi suggerire nuovi spunti di ricerca come del resto ha fatto chi mi ha preceduto – a distanza di quarant’anni, sia pure in chiave speculare e per contrasto, Saraceno e Amendola, guardarono al lungo periodo. Entrambi – ma il loro è il merito delle visioni profonde tipiche di chi ha uno sguardo lungo e sa guardarsi al di fuori della battaglia pur nel vivo della battaglia – hanno offerto una “visione complementare” del Mezzogiorno, Amendola nel vivo della polemica e Saraceno nel momento della riflessione e dell’autocritica. Dottorando di Ricerca in Civiltà dell’Umanesimo e del Rinascimento. Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento. Firenze


Giovani ricercatori si misurano col pensiero di Giorgio Amendola

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I comunisti e l’Europa Giulia Velotti

M

i sono chiesta, come cercare di comunicare, cons a p e vole d ella difficoltà di “fare storia quando è troppo vicina a noi” e diversamente da chi l’ha conosciuto, e quindi solo mediante lo studio, la ricerca, le testimonianze, l’attualità del pensiero e dell’agire di un protagonista della vita nazionale del XX secolo, uno dei padri della costituzione italiana, un grande italiano che ha combattuto per liberare l’Italia dal fascismo e dare al nostro paese la libertà ed un avvenire migliore, un intellettuale e un politico rigoroso, un convinto assertore delle ragioni del socialismo nel mondo e colui che pilotò l’avvicinamento del Partito comunista italiano alla Comunità europea. Gli ambiti della sua azione politica erano tanti, ma ne vorrei ricordare solo uno, di quell’europeismo comunista di cui si fece portavoce in fasi diverse e in particolare quando scoprì in anticipo il contesto europeo mediante l’incontro con il federalismo di Altiero Spinelli e del gruppo di Ventotene. Come è noto, il PCI ebbe un approccio nettamente contrario al processo che determinò la nascita della comunità europea: il dissenso dei comunisti a tal riguardo ebbe modo di manifestarsi in tutta la sua evidenza durante il dibattito parlamentare sui Trattati di Roma nel 1957 e si concluse, con il voto contrario da parte della delegazione comunista. Il motivo di tale atteggiamento va ricercato nella complessa situazione internazionale di quegli anni, il cui mondo risultava diviso in due blocchi contrapposti, USA e URSS, e nel totale allineamento delle posizioni

del PCI con quelle dei comunisti sovietici, i quali vedevano nella Comunità europea “una alleanza antisovietica” e nell’europeismo “un semplice paravento”. Ma a partire dagli anni sessanta il PCI iniziò a riconoscere “i possibili vantaggi che dalla CEE potevano derivare agli effetti di una intensificazione degli scambi commerciali e di un’azione coordinata e unitaria per il movimento sindacale europeo.” Siamo nel 1962. Un anno importante per i fatti della politica italiana ma anche internazionale, e pur mantenendosi critico, intervenendo ad un noto convegno dell’Istituto Gramsci sulle tendenze del capitalismo italiano, sulla costituzione della CECA e del MEC, con coraggio notevole affermo che la unificazione economica europea rispondeva ad esigenze obiettive dell’industria siderurgica italiana. “Sarebbe sbagliato da parte nostra minimizzare questi risultati, che ci sono. Una politica che non si basa sui fatti quali essi sono, è una politica sbagliata. La propaganda non può capovolgere i fatti, deve spiegarli”. E qui Amendola, riferendosi alla forte crescita produttiva e competitiva dei paesi europei coglie un punto fondamentale: il MEC concepito inizialmente come” testa di ponte del capitale americano” in Europa, diventava invece, progressivamente, lo strumento necessario per ottenere una sempre più evidente autonomia dall’Europa dagli Stati Uniti sul piano non soltanto economico ma politico. Un altro punto su tale processo di revisionismo, fu senza dubbio il netto distacco, “Il grave dissenso” del PCI dalle posizioni di mosca sulla crisi cecoslovacca nel 1968.

Da allora l’impegno del PCI, sui temi europeisti, si diramò in due direzioni: si scelse, da una parte, di dare un proprio contributo nel processo di costruzione europea; dall’altra, di intensificare i rapporti con le principali forze di sinistra operanti in Europa. L’importanza che nel PCI andava assumendo la questione europea fu evidenziata dalla designazione di Amendola a capo della delegazione comunista che nel 1969 ottenne la possibilità di sedere al Parlamento europeo di Stasburgo, non ancora eletto a suffragio universale (insieme a lui, per il PCI, Silvio Leonardi e Nilde Iotti, unica donna tra i 18 parlamentari italiani). E ben prima degli altri partiti, Amendola riuscì a far cambiare la visione della CEE ai “compagni” che non volevano riconoscere la Comunità come realtà oggettiva del panorama politico internazionale; ed è grazie alla sua opera che il PCI entra nell’Europarlamento e la sua azione improntata, fin da subito, all’aumento del ruolo decisionale del Parlamento a scapito del Consiglio. Amendola, che nel 1971 con il libretto “I Comunisti e l’Europa”, uno scritto tecnico per un partito in parte ostile e in parte indifferente all’unificazione europea, contribuì ancora una volta a modificare l’atteggiamento di iniziale contrarietà del Pci nei confronti della Comunità europea, ma c’è da chiedersi: riuscì a comunicare al Partito Comunista Italiano la prospettiva dell’integrazione europea?

ne ombelicale che legava il MEC all’alleanza atlantica, ribadisce che ciò non impedì di avere una certa visione europea. “Quindi – continua nell’intervista – non è che fossimo così chiusi alle esigenze dell’unificazione europea. Debbo dire che conoscevamo poco che cosa era. Arrivati a Strasburgo, animati dalle migliori intenzioni combattive per sfondare la porta, dietro la porta c’era il vuoto”. E nel suo primo discorso a Strasburgo, Amendola infatti, parlò di “RE nudo” a proposito di una istituzione che non aveva tutti i pregi decantati dalla propaganda europeistica, e nemmeno tutti i difetti denunciati dalla propaganda comunista. Non posso qui riportare più stralci dei suoi interventi al Parlamento europeo datati tra il 1969 e il 1973, tutti permeati da una lucidità di analisi e da una capacità di proposta anticipatrice, ma mi preme sottolineare questo passaggio: “L’Europa Unita si determina nei suoi rapporti con il mondo esterno: USA, terzo mondo e mondo socialista. Se non si ha il coraggio di affrontare questi problemi, il resto è vano sforzo. Si tratta magari di buone intenzioni, ma che non possono portare ad alcun risultato. L’avvenire dell’Europa è nel superamento dei blocchi. Questa, e soltanto questa, è la via dell’unità europea e della pace”. Come ha scritto Giorgio Napolitano “Amendola rimase a lungo legato all’idea di una ricomposizione della frattura determinatasi nel continente europeo attraverso il superamento dei blocchi; ovvio che come doveva realizzarsi questo superamento non veniva detto!”.

In una intervista di Renato Nicolai del 1978, Amendola analizzando l’opposizione al Mercato Pertanto, come si evince dai comune che nascava con un vizio suoi interventi, l’evoluzione di di origine rappresentato dal cordo- Amendola e del PCI si fece, dopo


32 gli anni Settanta, più rapida e chiara, traducendosi in posizioni e proposte favorevoli allo sviluppo di politiche comuni e all’affermazione di una “Europa politica”. Si possono citare molti discorsi ed articoli nei quali Amendola esprime la sua preoccupazione per “una crisi delle istituzioni comunitarie che ritarda il processo di unificazione politica ed economica e rinvia a tempo indeterminato la creazione di un nuovo potere multinazionale, il solo che possa risolvere problemi che gli Stati nazionali non sono più in grado, ciascuno per suo conto, di dominare”. Siamo negli anni Settanta, nella fase dell’eurocomunismo di Berlinguer. Il rapporto con l’Europa costituisce uno dei punti focali dell’Eurocomunismo, ed è il PCI

il primo partito a rendersi conto che la costruzione del socialismo nell’Europa occidentale non può prescindere dal tenere conto del processo di integrazione europea. Nella Conferenza dei Partiti comunisti dell’Europa Occidentale di Bruxelles del 1974 Berlinguer parla di una via al socialismo non solo nuova e originale per ogni nazione ma anche “rispondente ai tratti comuni che si presentano in questa zona del continente”, inoltre lancia l’idea di “un’Europa Occidentale democratica, indipendente e pacifica, che non sia né antisovietica né antiamericana ma si proponga di stabilire rapporti di amicizia e collaborazione con questi e con tutti gli altri Paesi.” Ma accanto a questa visione degli equilibri mondiali è di fondamentale importanza l’idea amendoliana secondo cui solo

la CEE profondamente rinnovata, potenziata e democratizzata può risolvere i gravi problemi economici che affliggono l’Europa Occidentale. L’idea di Europa di Giorgio Amendola era diversa da quella di Enrico Berliguer, e la prova ne fu proprio l’eurocomunismo di Berlinguer che voleva creare rispetto all’Europa e alla stessa Unione Sovietica una alternativa tutta comunista in Europa. Per Amendola il percorso era opposto. L’europeismo comunista fu una convinzione di cui proprio Amendola si fece portavoce, in quanto la intendeva come un avvicinamento e osmosi col socialismo europeo. Ed è ancora Amendola che comincia a dialogare con la socialdemocrazia europea e in particolare con gli esponenti tedeschi, sempre con l’idea del superamento delle divisioni

interne alla sinistra. Simbolo di questa rinnovata linea politica è l’elezione di Altiero Spinelli come indipendente nel PCI (anno 1976) ad opera di Amendola. Nella sua esperienza da deputato europeo la sua presenza in parlamento non rimase mai muta, perché Amendola e vorrei concludere con le sue stesse parole: “Bisogna starci dentro per vedere le cose e come vanno le cose, non si può pretendere di giudicarle bene dal di fuori”. Credo che oggi, in questa attuale fase di difficoltà del processo d’integrazione europea, di un’Europa al bivio, se serve o meno un Trattato, il metodo amendoliano, rigoroso e privo di sovrastrutture ideologiche è di grande attualità. Ricercatrice.


Giovani ricercatori si misurano col pensiero di Giorgio Amendola

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La programmazione democratica

Enrico Sacco

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Quando ci si confronta con l’impegno politico di Giorgio Amendola è quasi inevitabile che l’attenzione iniziale sia indirizzata all’approfondimento dei suoi meriti principali, vale a dire maggiormente riconosciuti come simboli della sua intelligenza politica e della sua lungimiranza storica. Penso, ad esempio, al suo inestimabile contributo per avvicinare il partito comunista al giovane progetto integrativo europeo; ma soprattutto alla sua idea di Europa: il 5 aprile 1973, in Parlamento, aveva detto: “La Comunità Europea non è altro che un gruppo di Paesi associati, dilaniati da contrasti, in cui domina un direttorio di grandi potenze, la Germania, la Francia e l’Inghilterra”. Urgeva, invece, “un’Europa che avesse una base politica democratica, che non fosse un’Europa dei monopoli”. Bisognava, per esser chiari, “trasformare l’Europa dei monopoli in Europa dei popoli”, secondo una espressione ormai ricorrente in tutti i convegni dei socialisti di quei mesi. Ciò significava che “l’unità europea andava costruita anche dal basso e non soltanto dall’alto per iniziativa degli Stati e per l’attività di una burocrazia internazionale”. E la sua consapevolezza di quanto l’Europa fosse ancora lontana dal raggiungere un tale equilibrio democratico non è mai stata indirizzata a delegittimare un progetto sovranazionale unico nel panorama storico, ma è stata sempre indirizzata a un dialogo costruttivo con le altre forze politiche. Poi da meridionale, penso alla sua costante attenzione per i problemi – ancora gravi e numerosi – che negli anni cinquanta attanagliavano le regioni del Sud in un perpetuo circolo

di miseria e impotenza politica. Anche in questo caso si è trattato di un impegno sincero che non ha mai accettato i compromessi di una micropolitica più attenta a drenare finanziamenti dal centro che al loro efficace impiego. La posizione fortemente critica assunta da Amendola a sfavore della Cassa per il Mezzogiorno – da lui considerata dispendiosa e dannosa, utile solo a raccoglier voti per la Democrazia Cristiana e consensi per una fallace e distorta politica sociale – ne testimonia il carattere. Tuttavia, al di là delle posizioni – condivise e osteggiate – oramai chiare nella mente di tutti da attribuire all’azione politica di Giorgio Amendola – quelle che in altre parole sono le posizioni emerse dalla riflessione documentata, dall’analisi critica che ha potuto prendere le distanze dagli umori e dalle passioni di una determinata fase storica del nostro paese – nell’analisi che ognuno fa del percorso politico e riflessivo di tale figura è inevitabile che ad incidere siano anche le competenze, le passioni e gli ideali dell’osservatore. Insomma, ogni disamina soggettiva si colloca molto spesso, in modo sempre differente, all’incrocio tra azioni collettivamente riconosciute, oggettivate da chi scrive e tramanda il discorso storico, e interessi scientifici e culturali di ogni singolo analista. Ognuno cerca, cioè, di riversare i propri interrogativi, la propria sensibilità conoscitiva – non legata soltanto a delle competenze specialistiche – sulle spalle del proprio interlocutore indiretto, nella speranza di ricevere se non proprio delle risposte chiare quantomeno le tracce di una posizione abbastanza definita. Ed è proprio ciò che personalmente ho fatto al

cospetto di Amendola, al cospetto di chi ha costruito la sua militanza politica nel partito comunista a partire da una autonoma libertà di pensiero, di coscienza e di azione. 2. Da qualche anno interessato all’analisi del rapporto che intercorre tra crescita materiale e mutamento sociale nelle politiche dell’Unione europea – riprendendo il linguaggio scientifico diffusosi negli anni cinquanta, tra crescita e modernizzazione – e, quindi, in linea generale attento alle immagini dello sviluppo in questo periodo preminenti negli schemi pianificatori nazionali e sovranazionali, ho riversato queste mie priorità conoscitive nella peculiare esperienza di politico e di studioso di Amendola. Ho cercato, in breve, di comprendere la sua concezione di sviluppo, come ha inteso il rapporto, l’equilibrio, che almeno sul piano analitico dovrebbe instaurarsi tra le varie dimensioni costitutive di quel proteiforme concetto; ho cercato di comprendere quale rilevanza attribuisse all’innovazione sociale, intesa come progresso civile di una determinata comunità di soggetti. Ho cercato, infine, in Amendola, il suo giudizio sul tipo di sviluppo, sul tipo di mutamento intrapreso dall’Italia dopo il secondo dopoguerra. Un giudizio che pur essendo indissolubilmente legato alla linea politica del partito comunista italiano ed internazionale contiene convinzioni maturate soggettivamente e strettamente riconducibili ad un tipo di esperienza unica ed irripetibile. Un giudizio, su cosa debba intendersi per sviluppo, non sistematizzato analiticamente ma desumibile dalla sue posizioni politiche, dalle sue riflessioni retrospettive sempre in bilico tra

la storia degli eventi che hanno contrassegnato il nostro paese fin dall’avvento del fascismo e la sua particolarissima storia biografica. Le posizioni assunte in riferimento al “fragile” progetto europeo e alla questione meridionale già potrebbero bastare per intravedere una “costante” della sua visione, del suo modo di intendere il mutamento virtuoso di una collettività: l’inclusione degli interessi di tutti i cittadini nelle più alte sfere decisionali, siano esse sovranazionali, nazionali o locali. Continuando a ricercare quelle che in un certo senso rappresentano le “regolarità” del pensiero amendoliano, sono stato attratto dalle posizioni politiche e intellettuali assunte di volta in volta in riferimento alle numerose trasformazioni che attraversarono l’Italia durante il trentennio postbellico. Tra tutte, la lucidità con la quale Amendola ha letto le contraddizioni dell’economia e della società italiana mentre il cosiddetto miracolo economico raggiungeva il suo apice; quando anche gli spiriti più critici hanno riconsiderato il loro originario dissenso nei confronti della politica economica italiana, tutta proiettata a rincorrere gli obiettivi finanziari e produttivi già conseguiti dalle principali economie industriali. Una fase storica all’insegna soprattutto della rimonta quantitativa, quella del trentennio repubblicano, durante la quale sono stati ad ogni modo compiuti dal nostro paese significativi passi in avanti anche sul piano della qualità dello sviluppo; “un periodo nel quale il popolo italiano, sulla spinta sempre operante data dalla lotta antifascista e dalla Resistenza, è riuscito a compiere grandi progressi nell’incremento dell’attività produttiva, nel miglioramento


34 delle condizioni materiali di vita, nella conquista di un più elevato grado di istruzione e, soprattutto, nel rafforzamento delle istituzioni democratiche, garantito da una sempre più larga e permanente partecipazione popolare” (1976, p. XI). Constatazione che, però, non ha in alcun modo inibito una riflessione critica sulle numerose conseguenze negative che quello stesso trentennio aveva pesantemente contribuito ad esacerbare. Un periodo che Amendola non esitò a definire come orgia keynesiana, quando si guardava, appunto, più alla quantità dello sviluppo che alla sua qualità. In questo senso, un interrogativo posto nella sua intervista sull’antifascismo merita una grande attenzione:

delle società a più scarsa mobilità. Ma in questo quadro, in ogni caso sommario, come contestualizzare il giudizio comunque sia positivo, espresso più volte in occasione del trentesimo anniversario della Repubblica? Con le parole dello stesso Amendola, il giudizio sul trentennio deve partire dalla conoscenza delle condizioni di partenza, e non solo dalle condizioni materiali causate dalle distruzioni della guerra, ma dallo stato di arretratezza politica e culturale, aggravato dalla ventennale dittatura fascista. Bisogna quindi cominciare col non sopravvalutare la forza democratica presente nel paese nel momento della liberazione. La questione, quindi, viene posta in termini relativi e non assoluti; distinzione di non “Come mai, però, dopo que- poco conto. sto periodo di espansione e di progresso culturale il paese vive 3. La critica del miracolo ecoin uno stato di crisi? Il progresso nomico, allora in piena esplosione, ha aggravato le vecchie contrad- esigeva la presentazione di un dizioni e suscitato problemi nuovi. programma di sviluppo econoE allora evidente che sorge una mico e politico democratico, in riflessione critica sulla storia del alternativa alla linea di espansione nostro paese, sui limiti che impedi- monopolistica. Osservazione che rono all’espansione di continuare acquista una valenza significativa in forma ordinata e diventare alla luce dei progressi comunque sviluppo” (1994, p. 190). evidenti sul piano della crescita economica, della produttività del L’espansione non si era tramu- lavoro e della crescente capacità tata in sviluppo. Il solo fatto che esportativa dei grandi colossi l’espansione e lo sviluppo fossero industriali italiani. Ma tutto ciò concettualizzati su due piani di- non è stato sufficiente, non è oggi versi già indica la lungimiranza del sufficiente, se si intende raggiunnostro interlocutore. Amendola si gere uno sviluppo sostanziale, riferisce qui ai peculiari caratteri incentrato sulla partecipazione assunti dal processo di industria- della cittadinanza, incentrato su lizzazione, alle sue contraddizioni di un avanzamento di carattere derivate dal fatto che questo sociale, sulla creazione di beni processo si è svolto, non sulla pubblici locali, sulla valorizzabase di un programma di sviluppo zione delle tradizioni, sul raffordemocratico, deciso e controllato zamento di uno spirito civico (di dalla volontà pubblica, ma per la una concezione radicata di bene direzione dei gruppi monopolisti- pubblico) e infine sulla legittimaci, che lo hanno invece controllato zione dello Stato come istituzione e utilizzato a proprio favore. La non soggetta all’influenza di classi mercificazione della società e particolari. del lavoro è avversata svelando Progresso sociale che nell’anala finzione del mercato, prodotto lisi storica amendoliana è ricercato da logiche di clan che poi in Italia in via prioritaria nelle condizioni hanno assunto quelle caratteristi- della classe operaia (dell’operaio che peculiari che ne fanno una “complessivo”), nel grado di

integrazione sociale raggiunto da quest’ultima; ciò, ad oggi, potrebbe apparire anacronistico, ma solo se si omette di ricordare che nel secondo dopo-guerra la classe operaia incarnava lo specchio del mutamento, una cartina tornasole, dei progressi raggiunti e di quelli mancati da tutto il Paese, da tutti gli strati della popolazione lavoratrice. E anche qui il riduttivismo e l’euforia economicista degli anni sessanta lascia il posto ad una spietata disamina critica volta ad evidenziare le storture che il sistema socioeconomico capitalista imponeva ed esigeva: “l’imposizione di modelli di consumo individualistici e quindi di un’organizzazione particolare del tempo libero; la diffusione dei mezzi di informazione di massa controllati dalla classe dirigente, nei loro contenuti e nella loro forma espressiva; la disgregazione della vita sociale nei centri urbani; il peso crescente che la collocazione non di classe ma locale (nord-sud), sociale (residenti e immigrati), familiare (il numero di componenti che lavorano) acquistano nel determinare la concreta condizione sociale” (1976, p. 186). È come dire che la società contemporanea è enormemente progredita dal punto di vista della produzione e dell’organizzazione industriale, ma non è riuscita a coniugare tutto ciò con il più generale miglioramento delle condizioni di esistenza: è il profondo inquinamento morale che desta le maggiori preoccupazioni nel trentesimo anniversario della creazione della Repubblica. La crisi attuale, prima che finanziaria ed economica, è anzitutto crisi morale, crisi di prospettiva (1976, p. XXXIV). Una preoccupazione costante e mai sopita che acquista una capacità di interpretare non solo il nostro recente passato ma anche le nostre possibilità presenti, quando nonostante il peso crescente delle iniziative sociali, tramite l’ideazione di politiche di sviluppo locale tese almeno formalmente a coinvolgere le

popolazioni locali destinatarie di incentivi finanziari ed organizzativi, le filosofie budgetarie dello sviluppo continuano a imporre la loro sedimentata e interiorizzata ortodossia. Quando troppo frequentemente passa sotto traccia che il mercato è una costruzione sociale, frutto del mix di relazioni di associatività, reciprocità, e di autorità che si instaurano tra attori individuali e collettivi sulla base di un determinato sistema di produzione. Una verità posta da Amendola alla base di molte sue rivendicazioni. Quest’ultimo non rinnegava la relazione tra offerta e domanda né si fermava alla semplice insoddisfazione per la scarsa capacità di autoregolazione del mercato, ma evidenziava ad ogni occasione che il mercato non esiste di per sé – le cause che contribuivano a spiegare l’arretratezza meridionale erano per lui esemplificative in tal senso –, bensì è un’istituzione fatta di soggetti che lo edificano sulla base di rapporti di produzione e di potere che si alimentano a vicenda. Pur apprezzando i miglioramenti realizzati nel tenore di vita delle masse, Amendola non indugia in una rappresentazione idilliaca della società italiana, e non dimentica che lo sviluppo industriale del paese è stato pagato da un “feroce” sfruttamento, da un lavoro compiuto in condizioni disumane, da uno sperpero distruttivo di energie umane. La rottura dei vecchi equilibri, le grandi migrazioni, il brusco passaggio dal lavoro contadino alla catena delle fabbriche moderne, le ore bruciate dai viaggi quotidiani dei pendolari, tutto ciò è stata la condizione umana delle classi lavoratrici, in un periodo nel quale agli elevati incrementi annuali di produttività ha corrisposto un lento e sempre ritardato miglioramento salariale. E la necessità, da parte delle classi lavoratrici, di avanzare rivendicazioni elementari – così come erano elementari le condizioni di disagio vissuto – ha reso più difficile avanzare rivendicazioni


35 di controllo e di portare avanti e locali; non a caso i discorsi progetti di riforma strutturale de- dominanti entro l’Unione europea e tra i soggetti istituzionali in mocraticamente stabiliti. questa coinvolta gravitano in vario “Il controllo operaio in fabbri- modo intorno a tale questione. ca pone necessariamente il pro- Ma c’è anche un problema di blema di un controllo democratico autonomia a livello teorico, a della società sugli investimenti livello di definizione della realtà, privati e pubblici, sugli indirizzi dove tutta l’azione di una società dello sviluppo economico e so- dipende da specifiche definizioni ciale, pone cioè il problema della della situazione. “Ogni definiprogrammazione democratica. zione della situazione implica La contraddizione fondamentale determinati presupposti teorici, della società capitalistica, tra il un certo quadro di riferimento, carattere sociale della produzione in ultima analisi una visione della e il carattere privato dell’appro- realtà. Una volta che la situazione priazione, si esprime nel contrasto sia stata definita in certi termini, sempre più stridente tra la corsa tutta una serie di opzioni pratiche al soddisfacimento dei consumi sono ipso facto precluse (Berger privati, sotto la pressione di una 1981, p. 144). È un’idea molto offerta inesistente, e l’incapacità limitata di partecipazione quella di di soddisfare i bisogni pubblici” lasciare che una élite definisca una situazione senza curarsi affatto (1976, pp. 208-209). dei modi in cui tale situazione è Il costante riferimento amen- già stata definita da coloro che ci doliano alla necessità di una vivono; e poi consentire a questi programmazione democratica ultimi di intervenire nelle decisioni dello sviluppo rappresenta forse prese sulla base della definizione la prova principale che testimonia precostituita; in estrema sintesi un l’originalità e la lungimiranza del tipo di concezione partecipativa suo pensiero. Basti riflettere sulla attribuita da Amendola alle corcrescente centralità che va assu- renti socialdemocratiche, accusate mendo nelle società cosiddette di inseguire indistintamente tutte avanzate il tema dell’autonomia, le possibili spinte al cambiamento direttamente connesso e dipen- senza mai porre in discussione la dente da una visione democratica realtà fondamentale, o meglio la dello sviluppo. Proprio nell’ultimo definizione di questa, propagandecennio, dopo la complessa data dai proprietari dei mezzi di diatriba ideologica e scientifica produzione; accusa valida non che ha coinvolto i paesi del Terzo solo entro il contesto italiano: mondo e il loro supposto proces- “dovunque i socialdemocratici so di avanzamento sulla strada costituiscono il maggiore partito della crescita economica, anche della classe subordinata, non esiin Europa si è parlato molto di ste nella società una forza politica autonomia politica nella gestione di rilievo che opponga un rifiuto dello sviluppo territoriale; dove si radicale al sistema dei compensi tratta, in sostanza, della possibilità del capitalismo moderno” (Parkin per i destinatari dello sviluppo 1976, p. 146). E parte del leitmotiv di partecipare alle decisioni da della critica amendoliana, diretta a prendere: in altre parole, di una chiarire la natura e le implicazioni partecipazione a livello pratico. Il dell’espansione italiana durante discorso, poi, sotto le spinte dalle quelli che sono stati etichettati progressiva globalizzazione dei anche come i “trent’anni gloriomercati, è stato trasferito nelle si”, racchiude – non sempre in sedi decisionali sovranazionali, modo esplicito – il timore di una dove vengono concordati i limiti definitiva messa in disparte della d’azione dei modelli di regola- cittadinanza (della cittadinanza zione socioeconomica nazionali che lavora, che produce, che ha

pagato direttamente il prezzo delle libertà formali) dalle decisioni politiche indirizzate alla costruzione oltre che della realtà concreta, di una definizione rappresentativa di quest’ultima. Il timore di non assistere alla costruzione di un modello democratico incentrato su di una partecipazione prima di tutto conoscitiva, dove le esigenze, gli interessi e gli obiettivi di tutte le classi lavoratrici, di tutta la popolazione, contribuiscono a strutturare le fondamenta di un ordinamento politico, sociale ed economico intrinsecamente aperto anche nei confronti di quella crescente massa di esclusi dal mercato del lavoro, che oggi definiremmo come marginali. Diventava urgente nella sua mente il bisogno di concedere alle collettività territoriali e alle classi sociali, oggetto di determinate politiche, la possibilità di partecipare non solo a decisioni specifiche (tecniche), ma alle definizioni della situazione sulle quali queste decisioni erano stabilite; diventava urgente il bisogno di una partecipazione conoscitiva, tramite la quale l’esperienze di vita e di lavoro di tutti i cittadini acquistano rispetto e considerazione. Una via virtuosa alla partecipazione, negata oltre che dalle classi dirigenti italiane dall’ancora debole Stato unitario: “La crisi dello Stato – determinata essenzialmente dalla crescita del sistema del capitale monopolistico di Stato, dalla crescente integrazione tra apparato statale e centri di potere del capitale monopolistico, dalla formazione di nuovi organi (politici, economici, amministrativi) parastatali – mette a nudo l’arretratezza delle strutture statali, rivela la crisi della giustizia, della scuola, della pubblica amministrazione, e spinge insegnanti, magistrati, pubblici impiegati sulla via della protesta, dell’organizzazione, della lotta” (1976, p. 147).

problematiche affrontate e sollevate da Amendola, diventano evidenti le linee-guida del suo pensiero; la sua volontà di perseguire un percorso di sviluppo che non sia soggetto a compromessi decisionali e distributivi, che sia sostanzialmente condiviso e tarato sulle reali deficienze sociali, che non sia votato al solo miglioramento della performance economica nazionale. E l’unico strumento capace di sintetizzare questa volontà politica era una programmazione socioeconomica democratica. Nei suoi sogni, perciò, più che mai, negli anni settanta, rientrò l’unità dei lavoratori, tanto più necessaria, quanto più si registravano preoccupanti fenomeni di lacerazioni interne e nuovi e gravi squilibri. Superare le fratture interne tra classe operaia e contadini, tra le confederazioni sindacali, tra le molteplici rappresentanze politiche della classe lavoratrice, al fine di contrapporre unitariamente un progetto societario speculare allo schema regolativo prevalso dopo la Costituzione; un progetto – che pur non potendosi realizzare in tempi brevi – fosse chiaro nella sua impostazione antimonopolistica e socialista. Se si concede a tale obiettivo il carattere prioritario che rivestiva nell’azione politica amendoliana, anche quelle che sono state definite le contraddizioni di un comunista non ortodosso (la continua ricerca del dialogo e del compromesso virtuoso, la condanna di ogni chiusura massimalista e il rifiuto per ogni strategia di apatica attesa) potrebbero ricevere una sistematizzazione più coerente.

4. A questo punto sorge un interrogativo formulabile nel modo seguente: quali priorità e macrosensibilità è possibile attribuire al pensatore autonomo e quali invece ritrovano la loro matrice logica nel partito in cui quest’ultimo è stato quotidianamente impegnato In breve, anche dal sintetico a partire dal 1929? È importante resoconto delle più importanti soffermarsi su tale interrogativo,


36 anche perché la sua risoluzione può contribuire alla sedimentazione di una riflessione storica che abbia una cognizione più flessibile del binomio, eccessivamente irrigidito in alcune sedi celebrative, Amendola-comunista. Ora ritornando alle costanti della sua azione politica, mentre l’attenzione di Amendola per un percorso di sviluppo in primo luogo sociale – dove la produttività del lavoro e il progresso tecnico rappresentano il mezzo per raggiungere un fine superiore – può essere ascritta in misura maggiore o minore alla concettualizzazione dello sviluppo di matrice comunista e marxista, la sensibilità per una programmazione socioeconomica strutturalmente democratica, invece, assume connotazioni meno istituzionalizzate da una linea partitica e più intimamente legate ad una riflessione autonoma; e quest’ultima sensibilità può contribuire a spiegare la sua peculiare posizione volta a condannare la rigidità di ogni forma elitaria di democrazia, fosse anche per un breve interludio. È bene ricordare, infatti, che la propensione a realizzare un mutamento socioeconomico che ponga al centro l’esigenze di avanzamento sociale del soggetto (del lavoratore, dell’operaio), a perseguire politicamente lo sviluppo reale, concreto, di una collettività, è stata condivisa con altri (nella storia del partito comunista italiano penso a Gramsci, a Togliatti, a Longo). In riferimento a Gramsci, ad esempio, è utile riprenderne una convinzione profonda sul pensiero di Marx, prima ancora che marxista: e cioè che “questo pensiero pone sempre come massimo fattore di storia non i fatti economici bruti, ma l’uomo, ma le società degli uomini, degli uomini che si accostano fra loro, sviluppano attraverso questi contatti (civiltà) una volontà sociale, collettiva, e comprendono i fatti economici, e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa

la motrice dell’economia” (Dotti 1999, p. 278). Quel mancato adeguamento più volte denunciato da Amendola nell’osservare le strategie di crescita dei colossi industriali nel nostro paese. Prescindendo poi dall’appartenenza partitica, è inoltre interessante cercare nelle particolari esperienze soggettive di grandi politici, di grandi intellettuali, quali siano i tratti costitutivi che questi condividevano con una determinata epoca storica e quali, invece, hanno maggiormente contribuito a differenziarli da quello che potremmo definire il “sentire comune”. Come sempre, infatti, quando si parla del pensiero e dell’azione di uomini che hanno inciso largamente sul corso degli avvenimenti del loro paese e non solo, non si può prescindere dalla situazione storica nei quali furono immersi; in tal senso, certo è che Amendola ha condiviso con un dato periodo storico importanti rappresentazioni; tra tutte, una di queste ha accompagnato il suo impegno militante e la sua riflessione: una concezione del mutamento lineare, dove una peculiare idea di progresso occidentale era parte integrante sia del pensiero politico di destra che di sinistra. Una concezione, però, che nel pensiero di Amendola, lo si è constato più volte, viene riadattata e piegata dalla sua sensibilità nei confronti di uno sviluppo sociale e democraticamente programmato. Riuscendo così a prendere le distanze dall’accezione dominate di progresso e dall’ideologia modernizzante posta a suo fondamento paradigmatico, che lo designa innanzitutto come progresso tecnico e ingegneristico, come progresso dell’attività materiale e non dell’azione così come intesa ad esempio dalla Arendt (1958) nella sua vita activa; accezione, purtroppo ancora dominante, che si caratterizza per la sua incapacità di dare conto dello sviluppo reale della civiltà. Un adattamento di non poco conto, ma che non ha posto in discussione una precisa

filosofia della storia, incentrata sull’inesorabilità del cambiamento virtuoso, sia esso unidimensionale – tecnico, economico − che multidimensionale (economico e sociale). A questo proposito, scrive Giovanni Cerchia (1996): “nell’ottica di Giorgio l’incessante sviluppo della storia politica italiana era segnata da una progressione verso forme sempre più perfette di vita democratica: una continuità dal basso verso l’alto, dove il liberalismo democratico trovava nel comunismo il suo erede migliore e, allo stesso tempo, il suo più spietato seppellitore”. La convinzione di una continuità storica si ripercuote anche sui protagonisti delle alterne vicende politiche italiane, e non a caso Amendola condivideva la legittimazione culturale del Pci messa in opera da Togliatti attraverso il recupero proprio di quel filo di continuità Vico-De Sanctis-Labriola-CroceGramsci. Purtroppo quella continuità, quella linearità, frutto di ragione e speranza, sembra essersi inesorabilmente spezzata ed è proprio alle nuove generazioni che ad oggi si chiede l’impegno maggiore per riscrivere un copione politico adeguato alla risoluzione di un rinnovato malessere sociale – sfociato in quella che comunemente è definita come l’anti-politica – e alle nuove speranze di rinnovamento; come? Valorizzando e approfondendo la lezione di chi ci ha preceduto nel migliore dei modi. Questo compito, in primo luogo per i più giovani, assume una grande importanza e merita un impegno costante: confrontarsi e comprendere fino in fondo le ragioni di chi intendeva la politica come la piena espressione della cittadinanza, come l’espressione prima della volontà di cambiamento, di azione volta allo sviluppo civile; come l’impegno sincero di chi intende farsi voce delle spinte della società tutta, dei suoi cittadini, degli interessi diffusi e non corporativi che cercano quotidianamente di portare

all’attenzione dei rappresentanti democraticamente eletti un progetto societario alternativo. Dottore di Ricerca in Socilogia e Ricerca Sociale. Università Federico II.

Bibliografia minima Amendola, G. 1966. Classe operaia e programmazione democratica. Roma: Editori Riuniti. Amendola, G. 1976. Gli anni della Repubblica. Roma: Editori Riuniti. Amendola, G. 1994. Intervista sull’antifascismo. RomaBari: Laterza. Amendola, G. 2006. Una scelta di vita. Milano: BUR. Berger, P. L. 1981. Le piramidi del sacrificio. Etica politica e trasformazione sociale. Torino: Einaudi. Cerchia, G. 2004. Giorgio Amendola. Un comunista nazionale. Rubbettino. Dotti, U. 1999. Storia degli intellettuali in Italia. Roma: Editori Riuniti. Longo, L. 1962. Il miracolo economico e l’analisi marxista. Roma: Editori Riuniti. Parkin, F. 1976. Disuguaglianza di classe e ordinamento politico. Torino: Einaudi.


37 Una questione ancora aperta Adriano Giannola Farò alcune considerazioni cercando di porre in parallelo il dibattito e il confronto politico che vide protagonista Amendola come appassionato analista e portavoce PCI nella critica che il partito sviluppò fin dall’ avvio sulla esperienza dell’ intervento straordinario e la situazione odierna del dibattito sul Mezzogiorno che è praticamente inesistente, anzi – ad essere precisi – accuratamente oscurato non perché sia mutato qualcosa nel rapporto Nord – Sud, ma in nome di una “questione settentrionale”. Credo che sia utile adottare un approccio storico, perché oggi riviviamo – in modo e per cause ovviamente diverse dal passato – un periodo di grandi mutamenti, ricco di opportunità e carico di rischi. In questa situazione ritengo illuminante far riferimento al periodo della ricostruzione, tra gli anni ’50, e l’ inizio degli anni ’60 per trarre – da questa lettura storica – qualche utile indicazione per l’ azione di oggi. Un approccio storico consente ampi margini per sviluppare un’ analisi di sistema, nella quale il Mezzogiorno diviene parte di un discorso complessivo che lo raccorda alle vicende nazionali ed alle dinamiche che, dal di fuori, investono l’ Italia. Visto che parliamo di Mezzogiorno – un approccio di sistema consente di riconsiderare e comprendere davvero il significato dell’intervento straordinario. Infatti, fino a che continuiamo a confinare l’ analisi all’ angusta prospettiva locale, limitandoci a considerarlo una strategia da leggere esclusivamente per i suoi effetti sul Mezzogiorno, capiremo ben poco del senso complessivo di quell’ esperienza, decisiva per le vicende del Paese oltre che per il Sud.

Con questa sensibilità, a mio avviso, dovremmo ragionare oggi al fine di verificare se e come nel Mezzogiorno, si possa avviare, in analogia a quanto avvenne negli anni della ricostruzione, una fondamentale azione di rigenerazione dell’ economia e della società italiana. In quegli anni ormai lontani il Mezzogiorno fu il fulcro su cui si fece leva per industrializzare tutto il Paese, produrre beni-salario a costi decrescenti fidando su un’ ininterrotta migrazione di forza lavoro dal Sud, invadere i mercati esteri, entrare in Europa nel ’57 con un Trattato che prevedeva in un capitolo (redatto da Saraceno) regole particolari per l’ Italia, proprio con riferimento al Mezzogiorno ed in significativa coincidenza con la prima legge di industrializzazione del Sud. In questa ottica l’intervento straordinario è stato un tassello essenziale di una grande stagione di politica industriale, tesa a realizzare – in regime di smantellamento del protezionismo, grazie ad un uso strategico, non localistico, degli strumenti di politica regionale – una poderosa azione pubblica di industrializzazione di base. Una stagione di politica industriale che costituì il solido asse portante sul quale si è fondato il successo dell’ Italia nel secondo dopoguerra. Grazie alle deprecate cattedrali nel deserto ed alla politica di industrializzazione del Mezzogiorno, si sono sciolti nodi strategici per l’ industria nazionale creando un moderno settore energetico e siderurgico, che ha consentito al settore metalmeccanico, automobilistico, aeronautico ed elettronico di decollare, oltre che – contrariamente alla

vulgata – di attivare proprio negli anni Settanta notevoli effetti indotti sulla industria manifatturiera meridionale. Di tutto ciò – come noto – si è poi persa memoria rifugiandosi, per 20 anni, nella celebrazione retorica dei distretti con il risultato di trovarci oggi a discettare del declino italiano. C’ è onestamente da constatare che l’ analisi della sinistra – specie di quella del PCI – fu poco attenta al significato complessivo del progetto e poco fiduciosa che esso – fortemente ispirato dall’ azione pubblica attraverso il ruolo decisivo delle Partecipazioni Statali – potesse conseguire reali obiettivi di sviluppo e, al contempo, di riequilibrio. Paradossalmente quando negli anni Settanta dopo una lenta maturazione il PCI aderì di fatto alla riforma dell’ intervento straordinario, esso aderì sostanzialmente ad un approccio che vedeva quell’ intervento come strumento del decentramento, sempre più lontano dalla sua logica originaria di disegno nazionale. Come sappiamo, sui miti dell’ autopropulsività e del localismo redistributivo si è consumato il fallimento e la degenerazione di quell’ esperienza con impressionante progressione dalla metà degli anni settanta in poi ivi compresa l’ esperienza della “Nuova Programmazione”. Se vogliamo ritrovare il filo dello sviluppo sarebbe molto opportuno riandare alla logica “aggiornata ma originaria” con l’ intento di ritrovare una strategia di rilancio dell’ economia e – al suo interno – una collocazione funzionale del Mezzogiorno. Superare cioè quella che è attualmente la visione prevalente di contrapposizione se non di disartico-

lazione nel confrontarci con le gravi difficoltà della nostra economia e che ora ripropone il Sud come palla al piede, sinonimo di sottrazione di risorse, inefficienza e spreco. Con questo approccio possiamo individuare una strategia da sottoporre all’ attenzione anche di quegli scettici perplessi all’ idea che il Sud, possa avere ancora un ruolo strategico per fare ripartire il sistema. Il sistema produttivo italiano necessita, sostanzialmente, di “invertire” il tanto discusso declino. A determinare la dinamica di questa deriva, non è la Cina bensì l’euro che ha messo impietosamente a nudo l’ insostenibilità di un modello che si affida esclusivamente al dinamismo di piccole imprese di settori maturi resi – ci illudevamo – sempre verdi dalla fantasia nostrana. In nome di questo unilateralismo fondamentalista alimentato da 20 anni di svalutazioni competitive si è allegramente consentito di smantellare tutto il resto. Rafforzare quel che c’ è quindi non basta, occorrono sostanziali modifiche del modello di specializzazione replicando tardivamente quanto realizzato da anni in Germania, Francia, l’Inghilterra, ecc. Per fare ciò torna in gioco, da protagonista attivo, il Mezzogiorno. Il Sud in questo momento offre per molte significative opportunità come luogo fisico fruendo – per la sua collocazione – di una “rendita di posizione logistica” che – ben sfruttata – può assolvere al ruolo essenziale di dare respiro ampliando significativamente gli spazi di manovra per realizzare il complesso e difficile mutamento strutturale. Una bella differenza rispetto al passato


38 quando fu necessario “esportare” milioni di persone per farne la leva dello sviluppo nazionale. Il richiamo al ruolo centrale del Sud nel Mediterraneo rischia però di essere puramente rituale. Il Mediterraneo va inteso in senso diverso rispetto a pochi anni fa quando la prospettiva si esauriva nella realizzazione della zona di libero scambio tra le due sponde. Una prospettiva interessante ma non decisiva, lenta e problematica a realizzarsi. È sempre più concreto ed attuale invece l’ interesse vitale che esprimono i nuovi protagonisti del mercato globale. India e Cina in testa, che hanno la convenienza e la necessità di battere questa strada e l’ interesse a valorizzarla ed investire risorse sempre più ingenti. Noi possiamo partecipare a questo tumultuosa evoluzione non solo come luogo di transito, ma attrezzandoci a svolgere un ruolo di partner di un processo che rappresenta l’ aspetto più dinamico e progressivo della globalizzazione dei mercati. Non è perciò credibile per l’ Italia incapsularsi nella strategia (cara al redivivo Lombardo – Veneto) di agganciarsi alla Baviera per un’espansione dipendente sui mercati dell’Est. Senza “buttare il bambino con l’ acqua sporca”, quello del Mediterraneo è un discorso serio, molto impegnativo, che al di là di interessi regionali, rappresenta una opportunità unica di rilancio e sviluppo della nostra economia. Occorre perciò affrontare con chiarezza di idee e di intenti i nodi da sciogliere dell’ intricato scenario del persistente dualismo italiano. Condizione preliminare è una corretta applicazione del nuovo Titolo V della Costituzione, cosa che non fa la proposta di attuazione dell’ articolo 119 presentata dal Governo attuale. Applicare l’art. 119, vuol dire molto prosaicamente un 36% di spesa ordinaria corrente ed oltre il 45% di quella in conto capitale al Sud. Applicare l’art. 119 vuol dire infatti non dimenticare che il comma 5 recita che nei territori a minor svi-

luppo, indipendentemente da quanto previsto nei primi 4 commi, è lo Stato, che con risorse aggiuntive e straordinarie definisce ed attua progetti di invento. Quindi c’è una politica costituzionalmente identificata su scala nazionale (da concentrare appunto sulla realizzazione dell’ opzione

Mediterraneo), che si raccorda alla strategia di conseguire obiettivi di interesse nazionale. Ne deriva, complementarmente, la natura strettamente aggiuntiva dei Fondi dell’Unione Europea, deliberati per il periodo 2007 – 2013. Aggiuntività e straordinarietà, riemergono a

dar corpo ad un’ azione che non per questo deve calare dall’ alto ma che può divenire occasione di partecipazione e concertazione tra territori a condizione che si chiariscano ambiti e competenze con precise funzioni e responsabilità gerarchiche. È da aprire immediatamente un discorso che coinvolge solidalmente le regioni meridionali, lo Stato centrale, l’Unione Europea, sul tema della fiscalità di vantaggio, termine tanto citato ed invocato ed altrettanto privo di contenuti. Essa potrebbe effettivamente rappresentare un’ efficace misura automatica per favorire sia la riduzione del nostro dualismo, sia – riattivando l’ accumulazione industriale e terziaria del Sud – il rilancio del sistema. L’ obiettivo che un simile intervento dovrebbe porsi è quello di far si che una regione d’Europa come il Mezzogiorno con oltre 20 milioni di abitanti possa applicare un regime fiscale particolarmente efficace e diretto per attrarre capitali ed investimenti in settori industriali innovativi, ricerca, terziario avanzato,nuove fonti di energia, ecc. La paventata opposizione della Commissione Europea e, soprattutto, di eminenti commissari italiani non ha da anni alcun fondamento analitico. In regime di Moneta Unica, è pretestuoso lamentare una lesione della concorrenza in Italia per chiudere poi gli occhi di fronte alla lesione della concorrenza che nell’ambito della zona euro, ad esempio, Irlanda, e magari Galles e Scozia già praticano da anni e domani praticheranno Polonia, Slovacchia e repubblica Ceca, ecc. Pochi, ma significativi temi sui quali varrebbe la pena ragionare per valutare in un quadro europeo le prospettive di sviluppo del sistema Italia. Una riflessione da fare con lo spirito e volontà che animarono gli anni della ricostruzione e attorno alla quale realizzare la convergenza – come avvenne allora – tra un meridionalismo illuminato ed un lungimirante disegno dell’interesse nazionale. Presidente della Fondazione Banco di Napoli. Docente di Economia Bancaria. Università Federico II.


39 I “limiti” del meridionalismo della sinistra degli anni ’50 Nino Novacco 1. Avendo avuto l’opportunità di conoscere e frequentare Giorgio Amendola, ho accettato volentieri, nei mesi scorsi, l’invito di Emanuele Macaluso e di Gianni Cervetti a far parte del Comitato per le celebrazioni del centenario della sua nascita. E poiché da oltre sessanta anni, a vario titolo e con diverse responsabilità, mi occupo del Mezzogiorno, dei suoi problemi, del suo necessario e possibile sviluppo, mi sono fin permesso di suggerire ai promotori che l’odierna manifestazione conclusiva delle Celebrazioni potesse avere come tema proprio i rapporti di Amendola col Mezzogiorno e con quel “meridionalismo” che dal 1950 ebbe a caratterizzare una parte non marginale delle politiche pubbliche dell’Italia, seppure in un quadro – quale è stata quello dell’intervento straordinario – che Amendola ebbe a contrastare con vigore in Parlamento, e poi anche per non pochi anni successivi. Poiché il suggerimento sul tema da trattare oggi a Napoli è stato accolto – e verrà affrontato sotto diversi profili e, con riferimento al c.d. “intervento straordinario”, dal prof. Mariano D’Antonio e dal prof. Simone Misiani, un giovane e qualificato storico che io stesso mi son permesso di suggerire −, non mi pare corretto sprecare tempo per approfondire anch’io le motivazioni delle diversità che negli anni ’50 vi furono tra le posizioni e gli approcci di Giorgio Amendola e le posizioni ed il ruolo della SVIMEZ; anche se da un richiamo a tale tema mi è parso doveroso non prescindere anche in un breve intervento svolto a Roma il 21 novembre scorso, nella Sala della Lupa della Camera, e che in qualche punto riprenderò qui come

premessa ad una testimonianza che la lettura che della “questione” aveva considero significativa. fatto Antonio Gramsci – dell’intera sinistra meridionale di quegli anni. 2. A metà del 1950, quando si Sulle caratteristiche di quel discorso affrontò in Parlamento l’esame della del 1950 di Amendola vale comunque Legge che diede vita alla “Cassa per il recente riconoscimento di Giorgio il Mezzogiorno”, io ero entrato da Napolitano, secondo il quale esso era pochi mesi nella SVIMEZ di Pasquale “inficiato da non lievi unilateralismi e Saraceno, avendo come iniziali punti schematismi”. di riferimento del mio lavoro AlessanE sintonia non vi fu neanche dro Molinari e Giorgio Ceriani Sebre- negli immediatamente successivi gondi, ma anche, progressivamente, anni dello “Schema Vanoni”, i cui il retroterra “alto” dell’Associazione, meccanismi – anticipati dal prof. Sacostituito – oltre che da Saraceno stes- raceno a Napoli nel novembre 1953 so – da Rodolfo Morandi, da Donato [temi su cui poi per oltre un anno fui Menichella, da Francesco Giordani, allora direttamente impegnato nella da Giuseppe Cenzato, da Vincenzo SVIMEZ] – ricevettero una migliore Caglioti, da Stefano Siglienti, e da tanti accoglienza nel sindacalista Giuseppe altri rappresentanti dell’economia e Di Vittorio che nel politico Giorgio della società di allora. Amendola. Date le idee che circolavano A tali scelte della sinistra negli e maturavano in quegli anni nella anni ’50 e ’60 si riferirà lo stesso giovane SVIMEZ – che aveva, come Amendola in una lettera a Pasquale ha ancor oggi, obiettivi statutari di Saraceno del gennaio 1973, scrivenindustrializzazione e di avanzamento do: “La linea che hai seguito con economico e civile della parte debole coerenza è stata da noi (ed anche da dell’Italia, e che guardava con interes- me) oggetto di critiche e contestazioni se alle esperienze del New Deal ame- (ricordo il mio discorso di critica al ricano ed alle realizzazioni della TVA piano Vanoni). Ma di queste divergenrooseweltiana –, non vi fu certo in noi ze si è alimentato il rapporto tra noi, sintonia con le tesi esposte a nome del che è stato da parte mia sempre molto PCI in Parlamento da Giorgio Amen- rispettoso del tuo contributo, e della dola, che prese posizione contro la sincerità delle tue motivazioni”. nascita della “Cassa” [strumento che Non è certo un’autocritica, ma nella sua specialità e straordinarietà a me pare che ne contenga i segni; appariva invece a noi – e per tanti e lo dico pensando ad un’altra noaspetti a mio avviso lo fu – importante tazione di quel testo, in cui – dopo e necessario], argomentando la sua aver ricordato di Saraceno la sua esposizione in termini che, anche ad “ininterrotta funzione di ispiratore una lettura di oggi, risultano ispirati da delle linee generali della politica ecouna immagine del Sud troppo legata nomica seguita dalla DC” – gli dice: ad una sua caratterizzazione troppo “Tu non puoi disconoscere la funzione “rurale”, ed al peso che la “terra” ave- che hai avuto, dai primi piani CIR, al va non solo nell’occupazione e nella Piano Vanoni, a San Pellegrino. Da produzione del Sud, ma nell’immagi- quando non hanno più seguito le tue nario collettivo di molti, e – anche per indicazioni, le cose sono andate di

male in peggio”. 3. Al di là di ogni giudizio di merito, io credo che le responsabilità della sinistra comunista di allora (perché la sinistra socialista fece più presto formale autocritica, e mutò perfino il suo iniziale voto di opposizione in Parlamento) siano oggettive, figlie di una cultura e di una visione troppo influenzata dalla contrapposizione politica alla DC. Il fatto è che: • sfuggì alla sinistra in quegli anni la natura strutturale – e le implicazioni, strutturali anch’esse e di lungo periodo – dei pesantissimi divari territoriali tra l’insieme del Mezzogiorno e l’insieme del Centro-Nord, che facevano e mantengono ancor oggi dualista l’Italia; • sfuggì il ruolo potenzialmente determinante dall’industria manifatturiera, ed in essa della meccanica, che Saraceno già dai primi anni ’50 aveva posto al centro delle politiche per lo sviluppo dei Paesi sovrapopolati, caratterizzati cioè da uno squilibrio tra popolazione e occupazione; • il “ruralismo” del PCI, ed i giudizi sulle caratteristiche del “latifondo” e sul disinteresse proprietario per la sua valorizzazione, finirono con l’influenzare gli approcci connessi alle risorse naturali inutilizzate (ed anche dopo la fine della Cassa, nel 1993, si è continuato a voler parlare di aree sotto-utilizzate); • si sottovalutò il ruolo civile, oltre che produttivo, della pur limitata riforma agraria, e degli approcci alla trasformazione fondiaria ed all’irrigazione, mentre si dimostrò che la sinistra non rifletté a sufficienza sul ruolo di modernizzazione che l’ industria avrebbe avuto sulla crescita


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di nuclei di classe operaia anche nel Sud di allora; • l’accusa di “keynesismo” alla politica straordinaria per il Mezzogiorno era errata [e lo ha confermato oggi con ragione il prof. Mariano D’Antonio]; in Italia non servivano politiche di sostegno della domanda, anche perché, specie a Sud, non vi erano settori con capacità produttiva inutilizzata, ma vi erano state scarse ed insufficienti processi di formazione di capitale, produttivo e infrastrutturale; • se nel Mezzogiorno il vero fattore inutilizzato era il lavoro, ciò era per mancanza di accumulazione. E di accumulazione e di sviluppo – e di infrastrutture necessarie a caratterizzare un ambiente che potesse così divenire adatto ad accogliere e attrarre l’industria – si parlava invece nella SVIMEZ, che – come ho detto – guardava al New Deal, alla Tennessee Valley Authority di Roosewelt, e che discuteva col prof. Rosenstein-Rodan del MIT (e più tardi – attraverso la scuola di Claudio Napoleoni – anche con economisti marxisti, che però avevano spesso in mente, per l’industria, il modello dei settori merceologici adottato

nell’URSS fin nella pianificazione e nella ripartizione delle competenze ministeriali, e che prescindeva del tutto dal mercato; • un vecchio vizio, questo relativo ai prodotti, che resisté fino alla metà degli anni ’70, e la sinistra, che ebbe un ruolo nella Legge 675, guardava ancora ai settori. Dopo la crisi petrolifera mondiale, e quando le loro conseguenze ebbero a mordere anche il nostro Centro–Nord, la Legge sulla ristrutturazione e riconversione industriale (oggettivamente nordista) finì col concorrere a fermare quel poco di politica industriale che si era avviato nel Mezzogiorno con l’intervento straordinario, quale si era venuto caratterizzando a partire dalla legge del 1957, che dalla preindustrializzazione aveva aperto le strade a forme di possibile industrializzazione, sia da parte dei privati, sia attraverso le Partecipazioni Statali. • una autocritica del PCI sugli iniziali giudizi in ordine alla politica per il Mezzogiorno – cioè rispetto alle tesi di Amendola del 1950 – vi è stata, ma fin dopo la metà degli anni ’70 le scelte della sinistra per il Sud sono restate sempre condizionate dalle valutazioni politico-elettorali

sulla necessaria “guerra contro la DC”; • le scelte della sinistra – e dell’Amendola del 1950 –, dichiaratamente contrarie alla “Cassa per il Mezzogiorno” come intervento centrale e dall’alto, ed a favore di politiche definite e realizzate tutte e soprattutto dal basso – attraverso Regioni ed Enti che anche dopo gli anni ’70 se ne dimostrarono comunque incapaci – sono state forse il più grosso limite dell’approccio del PCI, che si è tradotto poi nell’errore di puntare troppo – anche più tardi – su regionalismo e localismi, strizzando l’occhio agli studiosi di “Meridiana”. Invece che con le politiche centrali e speciali – alla Nitti e Beneduce – la sinistra si schierò in difesa di un’ottica regionalista assai parcellizzata, che pure non aveva caratterizzato né il suo iniziale approccio, né le tesi sostenute dal PCI in seno alla Costituente; • erano infine e soprattutto sfuggite alla sinistra le ragioni profonde della necessaria straordinarietà e specialità degli interventi e delle politiche per il Mezzogiorno, che certo ordinarie non potevano essere, data la pesantissima arretratezza del

Mezzogiorno, e dato il dualismo tra Nord e Sud. Le Pubbliche Amministrazioni ordinarie – con la loro storica e limitata capacità di spesa – non capivano e non sapevano affrontare la specialità della condizione del “dualismo” nazionale; e lo hanno dimostrato fin dopo il 1993, anche con la c.d. “Nuova Politica Economica” del DPS di Barca. Ma se tutto ciò meriterà di essere meglio conosciuto e documentato, trasformando in storia la cronaca e la pubblicistica di una quarantennio – durante la seconda parte del quale la sinistra è stata succube di non pochi distorsivi sociologismi meridionali – consentitemi di riprendere quanto ho avuto occasione di dire il 21 novembre scorso, in occasione della cerimonia svoltasi nella Sala delle Lupa della Camera dei Deputati. 4. Vengo perciò brevemente ad un ricordo personale ed all’evocata piccola testimonianza, certo non determinante rispetto ad una personalità complessa come quella di Giorgio Amendola; ma a me essa appare interessante, e desidero perciò citarla. Giorgio Amendola, intorno agli


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anni ’70, accolse quasi sempre gli inviti che io [allora Presidente dello IASM, un organismo nato per fornire assistenza tecnica e per promuovere l’immagine e le opportunità di sviluppo e di industrializzazione del Mezzogiorno, ma che ebbe a vivere con risorse del tutto inadeguate rispetto a tali ambiziose finalità] ebbi in più occasioni a rivolgergli, di voler offrire agli interlocutori specie esteri il suo punto di vista sulla affidabilità anche politico-sociale dell’Italia, Paese su cui, nel clima di quegli anni, maggiori erano i dubbi e più penetranti le domande e le preoccupazioni degli imprenditori, l’Italia essendo considerata lo Stato in cui pesava, attivo ed operante – più che in altri Stati d’Europa e del mondo – un forte Partito Comunista filo-sovietico, che restava uno spauracchio. Certo, nell’accettare di svolgere da par suo, come più volte ebbe a fare con noi e per noi, questo ruolo di autorevole garante sulla affidabilità politica e programmatica, presente e futura, dell’Italia e in essa della sinistra italiana, Giorgio Amendola si muoveva – pur senza entrare nel giudizio sulle politiche applicate al Sud dal Governi dell’epoca – nel

quadro di scelte di cui forse negli archivi del PCI sarebbe interessante poter ritrovare delle tracce. Ma mi sia permesso di dire che, nell’accettazione di quei miei inviti formulati a nome dello IASM, ebbe sicuramente a giocare un significativo ruolo il fatto del progressivamente mutato giudizio – anche di Amendola, ma non solo suo, nel PCI – su quel che ancora intorno alla prima metà degli anni ’70 il c.d. intervento straordinario nel Mezzogiorno – la “Cassa” e gli enti ad essa collegati, come ad esempio lo IASM e il FORMEZ [oggi purtroppo ridotti a poco utili e strumentali strutture ministeriali, non più meridionaliste] si stava dimostrando capace di realizzare, meglio e più di quanto nel 1950 si era pensato potesse avvenire. Il sistema poi di rapporti, anche personali, che – attraverso la comune partecipazione a convegni, incontri e tavole rotonde organizzate un po’ da tutti – si erano venuti creando, e che si traducevano in sovente positivi giudizi sull’onestà intellettuale, e sugli orientamenti politico-tecnici, e sulle “motivazioni” di persone che pur erano vicine alla Cassa e che, mentre non erano comuniste, con

essi avevano libere frequentazioni e dialoghi sovente approfonditi e costruttivi, è stato di sicuro un fattore reale di anticipato “disgelo”, dato che esso era riuscito a far superare alcuni pre-giudizi, anche se non aveva cancellato differenze e preoccupazioni ideali e politiche. Mi riferisco comunque – ed anche qui mi ripeto rispetto a quel che ho altrove osservato – ai contatti ed al dialogo che personalità ed esponenti della sinistra di allora – Giorgio Amendola, Giorgio Napolitano, Napoleone Colajanni, Emanuele Macaluso, D’Alema (padre), Gerardo Chiaromonte, Tonino Tatò, Luciano Barca, Alfredo Reichlin, Antonio Bassolino, Pio La Torre, Eugenio Peggio, per non fare altri nomi – hanno avuto con Pasquale Saraceno, con Manlio Rossi-Doria, con Francesco Compagna [il Chinchino che da “Nord e Sud” guerreggiò per anni con “Cronache Meridionali”, rivista diretta inizialmente da Amendola e da Mario Alicata], ma anche con Vittore Fiore e con Domenico La Cavera, e nella galassia della SVIMEZ con Massimo Annesi, con me che vi parlo, con Salvatore Cafiero, oltre che con Claudio Napoleoni, dalla cui

“Scuola sullo sviluppo economico”, portata avanti dalla SVIMEZ con risorse anche della americana Ford Foundation, passarono molte giovani intelligenze vicine al PCI, come è stato anche qui testimoniato oggi dal prof. D’Antonio. Ed ai giudizi su aspetti pubblici rilevanti, connessi all’impegno ideale, economico e programmatico dei meridionalisti, si univano spesso altri giudizi e circostanze, propriamente private, come quelle che sono intervenute tra chi vi parla e Giorgio Amendola, legate al fatto di essere entrambi appassionati d’arte – e frequentatori di mostre e gallerie – come ho altrove testimoniato. Si determinavano così anche rapporti che oggi tendo quasi a mitizzare, per taluni mai raccontati né precisabili effetti che il franco e disinteressato “dialogare” – tradizione ed abitudine di cui oggi si sta perdendo la traccia ed il gusto stesso – riusciva ad avere fin sulla politica del Paese, e sul futuro stesso del Mezzogiorno.

Presidente SVIMEZ.



A n d r e a Geremicca

Nel lasciare i relatori ov‑ viamente liberi di affrontare gli aspetti che ritengono mag‑ giormente degni di nota, mi piacerebbe comunque orientare la discussione di questa tavola rotonda intorno ai due temi fondamentali che mi sembrano emersi dalla prima parte del convegno. Il primo è quello del rapporto tra Amendola e il partito; l’altro riguarda più specificatamente Amendola e il Mezzogiorno. Sul primo tema si sono delineate posizioni abba‑ stanza contrastanti: da un lato di chi considera Amendola come un liberaldemocratico prestato al Partito Comunista, dall’altro di chi lo considera comunista tout‑court, quasi sempre alli‑ neato alle posizioni della mag‑

A m e n dol a e il partito G i ov a n ni M a t t i o l i

Anzitutto devo dire, per dovere di ufficio, in quanto rappresentante del Comitato Nazionale per il centenario di Giorgio Amendola, che giungiamo all’appuntamento odierno dopo altre iniziative di grande rilievo. A Torino abbiamo avuto il Convegno su Amendola e la classe operaia, a Milano quello su Amendola e l’Economia, e infine qui a Napoli affrontiamo il discorso sul rapporto tra Amendola e il Mezzogiorno. A queste si sono affiancate altre

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trice culturale liberaldemocrati‑ ca della formazione di Amendola ha dato al Partito Comunista. Sempre nell’ambito di questa te‑ matica, vorrei anche soffermare l’attenzione sulla capacità di dialogo di Amendola, comunista, con una serie di forze socialiste, liberali e democratica impegnate per il riscatto dell’Italia e per il Mezzogiorno. Dunque un primo ordine di questioni sul profilo politico e culturale di Amendola, non per il gusto di fissare delle linee quanto piuttosto per capire gli insegnamenti e l’attualità del suo pensiero. Il secondo aspetto per consentirci invece di tornare sulla polemica di Amendola nei confronti del cosiddetto Nuovo Meridionalismo, e di soffermarci gioranza del partito. Rispetto a vorrei ascoltare il parere dei sui caratteri della questione me‑ questo tema c’è un aspetto che mi nostri relatori: quello relativo al ridionale oggi nel nuovo scenario sembra significativo e sul quale contributo che l’innegabile ma‑ europeo e mondiale.

Tavola Rotonda

iniziative, come quella del 21 novembre a Montecitorio, e altre ancora in diverse città d’Italia. Una iniziativa molteplice e multiforme, quindi, che ha contribuito a richiamare l’attenzione su una figura importante della storia del Movimento Operaio e della sinistra in Italia, e per la storia della democrazia italiana. Attenzione, data la distanza storica dagli avvenimenti, un po’ meno condizionata dall’interesse di usarla politicamente, correndo il rischio di deformare e piegare ad esigenze quotidiane e contingenti l’analisi del ruolo e della figura di Giorgio Amendola. Si è detto poco fa che la storia di Giorgio Amendola si colloca interamente all’interno del PCI e, aggiungeva Beppe

Vacca, all’interno della sua maggioranza. Su questa seconda asserzione io non sono del tutto d’accordo. Tuttavia certamente Amendola fu uomo di partito. Personalmente ritengo, anzi, che abbia rappresentato su tanti punti un segno distintivo e importante, e che abbia imposto la sua grande personalità proprio perché in qualche modo era espressione, da uomo di battaglia politica e non di mediazione, come lui stesso si definiva, di quello strano animale che era il Partito Comunista Italiano. Questo suo esprimere le contraddizioni del partito su tanti temi costituiva anche l’elemento per cui egli in qualche modo anticipava, intravedeva problemi e formulava ipotesi o tendenze di soluzioni

che erano certamente avanzate, e che tuttavia non si sono mai realizzate, alimentando in seguito qualche analisi anche un po’ semplicistica su un Giorgio Amendola in qualche modo sconfitto, isolato. Vediamo dunque in che modo Amendola esprimeva le contraddizioni e le peculiarità del PCI. In primo luogo egli era profondamente convinto del ruolo di cesura storica che la Rivoluzione di Ottobre rappresentava nella storia del Movimento Operaio, dell’Europa e del mondo contemporaneo. Era convinto di questo al di là del fatto che poi lui stesso fosse stato tra i primi a criticarne fortemente gli esiti. Lo scontro con Togliatti nel ’56, che è stato qui rievocato, e quello ancora più netto nel ’61,


44 testimoniano la sua posizione. Al tempo stesso egli vedeva nella possibilità di una rottura del monopolio capitalista la possibilità di perseguire vie nuove in tutto il mondo. Su questo punto si apre una contraddizione nella contraddizione, che ha il suo punto più rimarchevole nella posizione da lui assunta durante il suo ultimo anno di vita, nel 1980, riguardo all’invasione sovietica dell’Afghanistan. Contraddizione che deriva dal fatto che il ’17 segna la nascita del Movimento Comunista, e quindi di un inserimento del PCI in un ambito che certamente non era solo quello nazionale e nemmeno esclusivamente quello della lotta e della resistenza antifascista. L’aspetto internazionale non era secondario. Invece proprio l’ambito della lotta e della resistenza antifascista costituisce a mio avviso il secondo punto che segna profondamente il rapporto di Amendola col partito. Le pagine in cui narra della scelta di vita, il modo di come arriva ad aderire al PCI, l’incontro con Treves a Parigi, sono elementi illuminanti che testimoniano la ricerca di una sponda per l’iniziativa antifascista. Amendola non rinuncia mai alla visione del Movimento Operaio come difensore e custode di quella bandiera di democrazia e di libertà che la borghesia aveva gettato nel fango, secondo una storica definizione. Su questo punto, anche, si pone il problema relativo alla definizione del significato dell’egemonia della classe operaia. Io ricordo che Amendola veniva sempre di buon grado alla scuola giovanile di partito di Frattocchie, dove io giovanissimo lavoravo; ma in particolare non si sottraeva mai quando veniva chiamato a lezioni o incontri in senso lato che fossero rivolti ad operai, e questo era indicativo dell’im-

por tanza che egli attribuiva al ruolo che gl i opera i avrebbero dovuto assumere nella società. Io credo anche che lui ritenesse possibile arrivare al socialismo per una via democratica, e che questa possibilità la si desse come fattore oggettivo: perché la classe operaia, protagonista della battaglia della trasformazione socialista, era stata fondatrice della democrazia italiana nella lotta antifascista, nella resistenza, e nella costituente, attraverso i partiti che ad esse facevano riferimento. Infine lo riteneva possibile perché considerava possibile andare avanti in questa prospettiva, ma con una strategia di unità nazionale, che a mio parere non coincide con la strategia del compromesso storico degli anni ’70. Questa strategia è un qualcosa che ha conosciuto fasi diverse in tutto il percorso di Amendola, e che probabilmente è alla base della sua proposta di riunificazione dei partiti del movimento operaio, la quale aveva già allora caratteri di inattualità. Macaluso ha definito quella proposta come una provocazione. Tale infatti poteva sembrare proporre al PSI di unificarsi, nel momento stesso in cui si apprestava ad entrare al governo, giacché l’accettazione di un simile percorso equivaleva a farlo ritornare all’opposizione. Al tempo stesso però si trattava di una provocazione positiva, sul fronte del cambiamento di una mentalità. Tra l’altro io ricordo che tra le carte di Paolo Bufalini, passate alla sua morte all’Istituto Gramsci, c’era un documento sul progetto del partito unico nel ’64. La prima stesura di questo

documento venne sottoposta ad una piccola commissione, d i cu i erano parte Berlinguer e Ingrao. Inutile dire che il documento che uscì da questa commissione alla fine era un qualcosa di completamente snaturato rispetto alle intenzioni iniziali, per cui alla fine non se ne fece più nulla. Naturalmente la presenza di Ingrao e Berlinguer in quella commissione la racconta lunga su come certe questioni venissero trattate all’interno del partito. L’ultima caratteristica “amendoliana” che mi pare si possa richiamare in questa sede, è quella della sua concezione del partito e dell’unità di partito. Senza questa concezione, collegata al modo in cui secondo lui il partito doveva operare nella società, ma anche alla sua esperienza della lotta antifascista e della vita clandestina, non è possibile comprendere perché un uomo che ha ipotizzato un dibattito aperto e che ha operato come responsabile dell’organizzazione del partito per aprire un confronto più democratico, poi alla fine non avesse mai formalizzato un dissenso. In realtà credo che vi fosse in lui proprio la volontà di non spingersi oltre nel portare avanti il confronto, anche incoerentemente con la sua stessa istanza di ottenere un dibattito più aperto. In occasione dell’XXI congresso Amendola affrontò la questione di Ingrao e degli ingraiani, operando fortemente non solo per combatterli politicamente, cosa che io ritengo giusta, ma anche per emarginarli all’interno del partito con una serie di misure e di scelte di inquadramento. Da questo punto di vista riten-

Tavola Rotonda

go che il giudizio di Spinelli, secondo il quale il grande valore della figura di Giorgio Amendola sia stato quello di saper aprire vie nuove sia vero solo in parte. Forse più che aprire vie nuove, indicare vie nuove. Ma indicare una via in un momento in cui si è persa la strada e si annaspa per riuscire ad uscire da un groviglio di problemi e di contraddizioni, è cosa di grande valore. Del Comitato Nazionale per le Celebrazioni del Centenario di Giorgio Amendola.

M a s s i m o L o  C i c e r o

Io vorrei partire da una parola che è un po’ ambigua, ma che per quanto mi riguarda serve abbastanza bene a spiegare qual è, nella mia valutazione, la caratteristica principale di Giorgio Amendola: egli era un uomo singolare. Singolare nel senso che era capace di esprimere tutta la forza della sua individualità, ma anche di reggere il confronto con gli altri ed agire positivamente all’interno di un’organizzazione. Tutte le scelte di Amendola, nella loro singolarità, si collocano poi all’interno di un’opzione fondamentale. Amendola era un uomo che aveva scelto di mettere la sua vita al servizio di un progetto politico. Egli credeva fortemente, individuo singolare qual’era, che l’azione collettiva si sviluppa sempre attraverso un’organizzazione. Pertanto nella sua ottica il problema era costituito dalla propria capacità di indirizzare l’organizzazione, e non tanto quella di offrire soluzioni più o meno originali. Se non si considera questo punto di vista, poi molte delle sue battaglie e delle sue scelte sembrano poco compren-


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sibili. In realtà tutte le battaglie amendoliane, e tutte le sue scelte sono in qualche modo legate a questa idea secondo me centrale, e cioè del mettersi al servizio di un progetto politico partecipandovi attivamente, ma nella consapevolezza che i progetti politici non procedono sulla base delle scelte degli individui ma sulla base delle scelte di un’organizzazione. Amendola si poneva il problema di stare nell’organizzazione con lealtà, ma con la fermezza di chi difende le sue idee e con l’intelligenza di chi usa di volta in volta l’idea più confacente allo spostamento di tutta l’organizzazione nella direzione che a lui interessava. Da questo punto di vista, come ha detto prima Armando Vittoria, è sicuramente un comunista. Ma io aggiungerei un aggettivo ulteriore: egli è un comunista italiano, appartenente cioè ad una specie che non esiste in nessuna altra parte del mondo, e che io credo in definitiva abbia poco a che fare col comunismo stesso. Nell’ambito del comunismo italiano, di per sé stesso cosa veramente originale, Amendola è certamente un comunista italiano. L’esempio di Amendola come persona singolare è interessante perché permette di valutare la molteplicità dei modi in cui era possibile estrinsecare la voglia di fare politica. Non è un caso che sia stato il capo dell’organizzazione: condizionare l’organizzazione era infatti l’unico modo per sviluppare l’azione collettiva. Se ragioniamo in quest’ottica è molto più importante essere il capo dell’organizzazione che non il capo, che ne so?, della commissione lavoro. Il problema vero è riuscire non attraverso quello che si dice, ma attraverso gli uomini che agiscono nell’organizzazione con determinati

ruoli, ad ottenere un risultato, che nel caso di Amendola è sempre un risultato politico. E il risultato politico spiega anche la contraddizione enorme di una persona singolare, amante dell’individualismo e protagonista individuale di moltissime battaglie politiche, che difende l’Unione Sovietica., senza la quale il PCI non sarebbe neanche esistito. Il paradosso del PCI è che esso era un partito a suo modo antisovietico, ma che difendeva l’Unione Sovietica perché la sua presenza consentiva, negli anni tra il 1950 e il 1960, una voce diversa nel dibattito politico italiano, una voce che fosse capace di alimentare la differenza e quindi la democrazia. In questo contesto si colloca poi quello che secondo me è un punto fondamentale del pensiero di Amendola, e cioè l’idea che il capitalismo sia un ordinamento economico e che la democrazia sia una forma organizzativa della politica. In quest’ottica lo stato non è lo stato borghese che si abbatte e non si cambia, ma è un’istituzione che si rispetta, e che nel caso si governa anche. La figura di Amendola sta tutta nell’equilibrio bipolare tra Unione Sovietica e Stati Uniti, ma in questo equilibrio essa si connota come figura singolare, che si spende per la battaglia politica ovunque ci riesca. Quello che invece a mio avviso è assolutamente inappropriato è considerare Amendola un economista. Certamente, era un uomo di robuste letture e di sana cultura, per cui aveva una certa conoscenza della materia; ma non vi è dubbio che il fulcro del suo ragionamento fu sempre politico. L’attacco di Amendola a Saraceno, ricordato poco fa da Adriano Giannola, non avviene perché questi facesse un politica eco-

nomica che non gli piaceva. Avviene perché Saraceno era un democristiano. Era un attacco politico. Come pure era politica e tattica la battaglia di Amendola contro la Cassa per il Mezzogiorno. Infine vorrei soffermarmi su un’altra caratteristica della personalità di Amendola che, almeno per quelli della mia generazione, è stata molto importante. Giorgio Amendola ha insegnato ai giovani che è possibile difendere un punto di vista anche se esso non era riconosciuto nell’organizzazione. E che un punto di vista può essere usato per aggregare, ma anche per distinguersi e farsi rispettare in quanto portatore di un’idea. Questa sua peculiarità gli consentiva di fare breccia in mondi assolutamente lontani dal Partito Comunista. Una testimonianza molto bella, in questo senso, è quella affidata da Guido Carli alla penna di Paolo Peluffo, nel libro “Cinquant’anni di vita italiana”. Carli incontrò Amendola quando tornò dall’America, dove aveva negoziato i fondi del Piano Marshall da executive director della Banca Mondiale. Egli conobbe un giovane Amendola, presentatogli da Mattioli, e gli fece una grande impressione per il suo essere un uomo vigoroso, un uomo che ispira fiducia e che avrebbe avuto un ruolo nella vita di questo paese. Infine, io credo che Amendola si occupasse di politica economica perché in questo modo poteva parlare alla classe dirigente e ad avere un accesso che non gli serviva per negoziare al ribasso vantaggi per sé, ma per capire dove, come e fino a che punto poteva sviluppare l’iniziativa politica nelle sedi proprie della politica. Docente di Economia dell’Informazione e della Conoscenza. Università di Roma Torvergata

Marina Comei

Certamente Amendola è un comunista che può essere inserito a pieno titolo nella storia del comunismo italiano, e anche in quella del comunismo internazionale. Ma probabilmente quello che più ne rende interessante e originale la figura politica è il suo storicismo. Egli mostra una straordinaria capacità di intessere la sua geometria politica con le sue riflessioni sulla storia d’Italia sulla nazione italiana, sul fascismo e sui tratti salienti del capitalismo italiano. Sono queste riflessioni che lo condurranno a pensare che l’esperienza del liberalismo paterno ha in qualche modo fallito, e che lo indirizzeranno verso il PCI e a ritenere che a questo partito spettasse il compito di portare a termine il processo di emancipazione delle masse, interrotto dal fascismo. Lo storicismo di Amendola è il principale imprinting che gli rimane dalla sua storia familiare, ed è altresì il filo rosso culturale che lo lega a Togliatti, e al continuum tra De Sanctis, Croce, Labriola e Gramsci, che lo stesso Togliatti individuava come presente nella storia del nostro paese. Lo storicismo è certamente la categoria analitica principale che gli consente di muoversi nella società italiana, e di guardare al passato ma anche di vivere il suo presente; ed è anche il punto di vista che gli consente di avviare il rapporto con le altre forze politiche. Quando tra il ’46 e il ’54 Amendola diventa responsabile della Commissione Meridionale, ed è contemporaneamente segretario del partito per Campania e il Molise, sono anni in cui la crisi del mondo agrario. iniziata negli anni precedenti, si manifestava compiutamente. Amendola imposta l’iniziativa politica del PCI nel Mezzogiorno


46 organizzando le lotte per la terra, ma colloca questo movimento su uno sfondo politico anch’esso in qualche modo storicista. In generale l’iniziativa politica di Amendola nel PCI di quegli anni mostra tre punti principali: anzitutto l’antifascismo, che è il terreno principale su cui costruire il nuovo Mezzogiorno, il vero banco di prova del rinnovamento. Secondo punto la Questione Agraria, che egli riteneva fondante e in qualche modo esaustiva della Questione Meridionale. La Riforma agraria era vista da lui come strumento decisivo per condurre a termine l’iter del processo “rinascimentale” ed allargare il mercato interno e riequilibrare i profitti, che erano stati segnati dalla politica economica del fascismo. Poi, coerentemente con la convinzione cui accennava prima il prof. Misiani, Amendola assume negli anni ’30 posizioni di grande cautela, che lo avrebbero sempre contraddistinto, nei confronti delle ricette industrialiste. Il terzo punto su cui Amendola costruisce la sua politica per il Mezzogiorno in quegli anni è la funzione di indirizzo sull’insufficienza della borghesia meridionale. Su questi tre punti Amendola organizza e delinea il meridionalismo comunista del dopoguerra. Un meridionalismo che nasce dal riconoscimento del carattere strutturale delle contraddizioni interne all’economia italiana, che il fascismo aveva negato, e che non era riuscito a risolvere. In questi anni il meridionalismo diventa la forma specifica che l’antifascismo assume nel dopoguerra, in seno al PCI, ma non solo. Diventa un terreno su cui si definiscono i nuovi soggetti politici che avevano preso nel dopoguerra il posto del fascismo. Questa impostazione condiziona in maniera efficace anche l’iniziativa di De Gaspe-

ri sul fronte della scelta della riforma agraria, e consente di incontrare il meridionalismo della sinistra laica nella sua accezione occidentalista. Questi mi sembrano i punti di vista da cui nasceva l’intervento e la politica per il Mezzogiorno in quegli anni. Prima di concludere, vorrei tornare un attimo sulla questione del rapporto col partito socialista. La difficoltà a comprendere quanto il paese stava mutando e da dove venisse quel mutamento induce Amendola negli anni tra il ’62 e il ’66 ad intensificare i suoi rapporti col PSI e a fare la sua proposta di partito unico. Questa proposta andava di pari passo con l’insistenza sempre più forte da parte di Amendola nel presentare un programma di riforme che facesse fronte in qualche modo alle istanze di governo che provenivano dal paese. Oggi è stato espresso un giudizio di inefficacia dell’iniziativa politica di Amendola nei confronti del partito socialista. Tuttavia quella proposta era qualcosa di forte ed estremamente significativo, poiché in quel momento il PSI era al governo. In questo senso Amendola anticipava un problema che il partito avrebbe dovuto poi riaffrontare in anni più recenti anche in seno all’Internazionale Socialista.

come di un uomo pienamente pa r tecipe del comunismo storico. Un comunista italiano. Però essere un comunista italiano è cosa varia e complessa, sulla quale vorrei esprimere telegraficamente qualche considerazione. Amendola vive la scelta comunista quasi esclusivamente attraverso la scelta antifascista, perché trova la militanza comunista l’unica risposta concreta e decisa per una battaglia antifascista. Attraverso l’antifascismo arriva a lui la tradizione paterna, che tra l’altro è una tradizione che non va ascritta al liberalismo classico. Giovanni Amendola è un liberale eterodosso, più legato alle filosofie irrazionaliste del primo novecento, più verso Gentile che verso Croce. La scelta antifascista e l’interpretazione del fascismo come segno di una crisi di civiltà è un punto chiave nell’analisi di Amendola. Qui secondo me fa una per molti versi drammatica abbreviazione, non riuscendo a vedere mai la vera autonomia delle istituzioni liberal-democratiche, e manifestando una incapacità a saper distinguere e a mettere la giusta distanza tra le democrazie europee e fascismo. C’è uno schiacciamento costante che torna in tutte le sue scelte fondamentali, perfino nel suo iniziale antieuropeismo, e poi naturalmente, la sua grande capacità “storicistica” di sapersi adeguare ai fatti e di capirli. L’antieuropeismo iniziale è legato profondamente all’idea che l’avvio dell’europeismo non solo non costituisce un salto di qualità – come in realtà nelle cose stava avvenendo – ma tutto sommato finisce per affermare una sorta di continuismo

Tavola Rotonda

Docente Associato di Storia Contemporanea. Univeristà di Bari

B i a g i o de  Giovanni Nel corso del dibattito odierno sono state dette molte cose convergenti ed espresse idee largamente condivisibili. Viene fuori un quadro di Amendola

con la storia precedente.Lo storicismo di Amendola non è crociano. Il rapporto con Croce è un rapporto amabile e affettuoso. Amendola accompagna Croce nelle passeggiate ma subito prende le distanze duramente dalla posizione crociana, soprattutto ancora una volta rispetto al fascismo. Però è giusto dire che quell’atmosfera lo influenza e lo condiziona. Io posso capire la definizione di Amendola storicistra, ma tutto sta a capire anche cosa si intende per “storicismo”. Io credo che in Amendola questo vada ad indicare una fortissima voglia di seguire all’interno di un quadro ideologico molto preciso il continuismo dei fatti, la necessità di capire, e spesso il giustificazionismo. Amendola ha un rapporto forte per ragioni storiche, addirittura prima familiari e poi relative al suo atteggiamento, con il riformismo laico. Oggi sono venute fuori giustamente riflessioni complesse e fondate sulla problematicità di questo rapporto niente affatto pacifico. Tuttavia gli interlocutori di Amendola sono quelli: La Malfa, Rossi Doria, Saraceno, cattolico ma di un riformismo laico. Due tradizioni, dunque, che divaricano e che si scontrano. Perché l’interpretazione che Amendola dà della storia d’Italia lo conduce in quella direzione, con tutte le problematicità che io stesso ho messo in campo quando ho segnalato fino a che punto Amendola riusciva a vedere l’autonomia delle istituzioni liberali (anche se poi successivamente se ne rese conto). In Ingrao rimane molto potente il richiamo delle masse. Questo tema invece secondo me in Amendola non c’è proprio. E questo spiega la profondità storica delle due linee, quella di Ingrao e quella di Amendola. Ingrao è un grande stigmatiz-


47 zatore ma non riesce a cavarne fuori una politica. Queste secondo me sono le ragioni per le quali possiamo essere tutti d’accordo nel definire Amendola un comunista “doc”, con la concretezza di un personaggio che si ritrova tutto nella politica del fare, nella politica dell’iniziativa . Pur non essendo mai stato federalista, Amendola sceglie Spinelli perché capisce che li c’è una via che va portata avanti. Questo è Amendola: non ha bisogno di essere federalista per scegliere Spinelli come capolista. Gli basta di capire che quella via conduce da qualche parte, spinge, fa avanzare e lui ci vuole stare dentro, pur mantenendo rigorosamente le sue posizioni. Filosofo.

Amendola e il Mezzogiorno M a t t i o l i

Vorrei fare solo una brevissima premessa sulla questione del comunismo di Giorgio Amendola. Ricordo che nel 1978 Amendola, che aveva rifiutato di essere candidato alla Presidenza della Camera, fu scelto come candidato di bandiera alla Presidenza della Repubblica Allora era appena uscito il suo volume sulla storia del PCI dal 1921 al 1948, ed egli andava in giro in transatlantico, orgoglioso, distribuendo il volume, perché lo considerava uno dei lasciti più importanti della sua esperienza, e anche qui si potrebbe innestare la riflessione sull’attenzione pedagogica di Amendola. Ma ricordo che in quella occasione qualcuno, mi pare Giorgio La Malfa, scrisse un articolo nel quale esprimeva apprezzamento per questa candidatura, dicendo: è l’ora finalmente

che il figlio del grande martire dell’antifascismo Giovanni Amendola, sia candidato. Lui replicò in maniera secca, dicendo più o meno:“ma che c’entra mio padre, io sono comunista, sono stato candidato dal Partito Comunista. Non dovete tacere questo fatto”. Questo è un punto su cui la sua coscienza, di essere pienamente appartenente al Partito Comunista Italiano era assoluta. La seconda questione è più generale. Prima ho detto forse lui più che aprire nuove strade le indicava. C’è un terreno però sul quale davvero ha aperto una strada, ed è la questione dell’europeismo nella sinistra italiana . Credo che se in Italia non è accaduto al referendum sul Trattato europeo quello che è accaduto in Francia è perché il PCI non è il Partito Comunista francese. Ha seguito un’altra traiettoria di attenzione verso l’Europa e verso l’europeismo e tanto è dovuto, io ritengo, all’opera e alla tempra di Giorgio Amendola. Vengo adesso alla questione del Meridione. Ritengo che oltre al fatto personale di essere meridionale, egli vedesse nella questione meridionale una delle due grandi questioni giudicate da Gramsci come problemi storicamente irrisolti nello stato italiano da parte della borghesia, con cui dovevano misurarsi la sinistra italiana e il movimento operaio. È stato opportunamente segnalato come per Amendola la “Questione meridionale” di Gramsci fosse addirittura la chiave di lettura per comprenderne i “Quaderni”. La questione meridionale era da lui analizzata fondamentalmente non come problema economico ma come problema politico, che riguardava lo sviluppo del meridione, la sua arretratezza e l’essere elemento debole dello stato, possibile elemento debole

della democrazia. Il giudizio di Amendola sugli avvenimenti a Napoli, che all’epoca era monarchica, sono illuminanti. E credo che, della battaglia meridionalista di Amendola non vadano ricordate solo le sue elaborazioni, ma anche l’impegno e il lavoro di costruzione del tessuto democratico e associativo, politico, e non solo politico, del Meridione negli anni ’40-’50. Nel ’63, alla Camera, egli esprimeva un giudizio molto critico sullo sviluppo, denunciando i giochi di potere e di corruzione cresciuti intorno alla spesa pubblica, all’intervento straordinario e così via. A questo però aggiungeva: “sento, invecchiando, il fascino del moralismo salveminiano da me criticato con storicistica crudezza negli anni della gioventù anche prima che diventassi comunista”.

L o C i c e r o

Sono assolutamente d’accordo con quello che dice Mattioli, e cioè che per capire bene Amendola occorra guardarlo essenzialmente sotto il profilo politico. E non vi è dubbio che il giudizio politico di Amendola sulla società meridionale sia che essa era una società arretrata, con elite incapaci e un popolo ignorante. Infatti l’argomento principale sul quale Amendola faceva leva nel rapportarsi alla tematica del Mezzogiorno era quello dell’educazione. Più che sullo sviluppo locale, Amendola puntava sulla leva degli operai comunisti membri del Comitato Centrale, molti dei quali ebbi la possibilità di conoscere, e che costituivano una “noce” di classe dirigente. Essi non c’entravano niente con l’autogoverno delle fabbriche, ma erano potenzialmente un serbatoio di ricambio per una elite incapace e parassitaria che in quel momento dominava la scena

politica del Mezzogiorno. È per questo motivo che Amendola spendeva una cura particolare nel seguire le Conferenze Operaie, e in generale la nascita di figure di operai comunisti che diventavano dirigenti politici, perché immaginava che la proiezione dovesse essere di tipo democratico – istituzionale e non anarco – sindacalista, e non si è mai interessato particolarmente delle questioni dei consigli di fabbrica. Da questo punto di vista la figura di Amendola è talmente deformata in questa direzione, che là egli commette quello che non è un errore, ma certamente un misunderstanding tattico: quando si trova di fronte Saraceno, il club dei “nittiani”, il mondo tecnocratico che propone la trasformazione del Mezzogiorno con un’incisiva azione e con strumenti, quelli si, della tecnica della politica economica, allora, nei suoi memorabili discorsi in parlamento contro la Cassa per il Mezzogiorno, dice: “Ma quale cassa e cassa, non voglio organismi straordinari, voglio la capacità della democrazia meridionale di governarsi da sola”, che non è la pianificazione dal basso (una cosa che avrebbe fatto girare la testa da un’altra parte). Nella sua “offensiva” successiva contro la linea Carli – Colombo, quando Saraceno teorizzava incentivi come un dazio che aiutasse le fragili creature del Mezzogiorno a crescere, quando il centrosinistra diventava forte e si strutturava subito dopo la politica Carlo – Colombo, nel ’74, è allora che Amendola diventa ancora più forte, con i suoi operai comunisti del comitato centrale, perché dentro le fabbriche dell’industrializzazione forzata nasce una classe politica alternativa alla classe dirigente locale. È là l’investimento politico di Amendola, che da questo


48 punto di vista se ne fregava altamente del dibattito sullo sviluppo esogeno e lo sviluppo endogeno, perché quello che gli interessava era che nascessero fabbriche contro il monopolio del capitalismo privato, e che contro il monopolio privato nascessero alleanze coi ceti medi, per creare un’economia diffusa, più piccola e competitiva rispetto all’economia del capitalismo privato. Da questo punto di vista è chiaro perché Amendola, nel pieno del centrosinistra trionfante, contrappone la proposta del partito unico, che voleva dire considerato che ormai col capitalismo conviviamo tranquillamente, considerato che abbiamo il più grande partito comunista d’Europa, considerato che col centrosinistra anche l’Italia si adegua al generale clima di distensione dopo Krushev e Papa Giovanni, allora perché non fare il più grande partito socialdemocratico d’Europa e glie lo mettiamo nel sedere a tutti?! Questa opzione politica è esattamente il contrario di quella che invece si afferma nel partito comunista e anche nel partito democratico di oggi. Probabilmente se il dibattito sulle diverse opzioni fosse stato portato all’esterno, tra gli elettori del PCI, avrebbe prevalso la linea di Amendola, ma siccome allora il PCI aveva l’abitudine di svolgere il dibattito nel suo interno, ad affermarsi fu la linea Berlinguer – Ingrao.

Marina Comei

Certamente per Amendola il Mezzogiorno era un problema politico e non economico. Un problema su cui si interveniva attraverso la visione politica oppure, se si era al governo, attraverso l’azione di governo. Ma volevo aggiungere qualche

considerazione sulla q uest ione delle politiche per il Mezzogiorno e la questione del federalismo, legandola anche ad alcune considerazioni e giudizi che Amendola esprimeva sul Mezzogiorno e sulla debolezza delle classi dirigenti meridionali. Amendola legava strettamente il rinnovamento del Mezzogiorno alla nascita di nuove classi dirigenti, e in questo senso, come diceva De Giovanni, sottolineava la funzione del partito, come strumento di questa costruzione. Ora questo problema della debolezza della classi dirigenti meridionali è nuovamente di attualità, e lo è stato anche negli anni dell’intervento straordinario, costituendone uno dei motivi veri del fallimento. Infatti in quel contesto non è nata una nuova classe dirigente, quanto piuttosto un ceto di mediatori tra centro e periferia, che hanno fatto dell’intervento straordinario il motivo stesso della loro sopravvivenza. E questi non erano sottoposti a nessun giudizio di responsabilità. Uno degli altri elementi di debolezza della programmazione regionale, che poi è connessa con questa difficoltà a creare nuova classe dirigente, è il problema della scarsa capacità di incidenza sul sistema formativo, che oggi è la vera essenzia del divario tra Mezzogiorno e resto del paese. Ma il problema della debolezza delle classi dirigenti meridionali è anche una questione che si connette con la complessa e contrastata concezione di nuovo stato federale. Forme di federalismo più o meno accentuate sono oggi realizzate; la riforma costituzionale renderà

tutto questo probabi l m e n t e più lineare e visibile, e se noi pensiamo a parti del nostro paese come la Lombardia e il Nord est vediamo che questo discorso è andato molto avanti. Nel Mezzogiorno invece la discussione su questo tema sembra privo di consapevolezza. E qui davvero, se io dovessi considerare l’esperienza appena fatta della formazione del PD nel Mezzogiorno, dovrei aggiungere ulteriori elementi di preoccupazione. Nella mia regione, che è la Puglia, la costruzione del PD poteva essere una importante occasione per discutere di questa questione, ma questo non è avvenuto neanche lontanamente nell’ambito del dibattito.

Tavola Rotonda

B i a g i o De  Giovanni

Qualche brevissima osservazione. Intanto, credo che sarebbe interessante capire se è possibile definire le fonti attraverso le quali Amendola approfondisce la questione meridionale. Io ho l’impressione che al di là delle riserve che lui formula in molte fasi, il suo meridionalismo nasce molto dall’interno del meridionalismo storico, da Fortunato allo stesso Salvemini, nonostante tutte le riserve da lui stesso avanzate. Meno, per esempio, dal testo gramsciano del 24/26, che invece diventa un po’ una delle bibbie del movimento comunista italiano, ma è un testo molto datato (Gramsci dirà cose infinitamente più importanti nei “quaderni”). Credo che Amendola sia sostanzialmente estraneo a questo aspetto delle fonti del

meridionalismo, il che apporta elementi alla formazione “anomala” di Amendola, per quanto poi in Amendola possano pesare le fonti, ché naturalmente è un grande storicista. La seconda questione: punto fermo secondo me è il Mezzogiorno come grande questione nazionale, e quindi la lettura e rilettura del dualismo italiano come chiave di lettura della storia d’Italia, la chiave del partito pedagogo (i quadri amendoliani del PCI hanno avuto questo ruolo) che era fondamentale nel suo pensiero. La formazione era l’elemento centrale dentro questo quadro, nel quale il problema del Mezzogiorno era la democrazia meridionale e dell’incapacità di diventare protagonisti del processo politico. Passando ad altro: la crisi della civiltà occidentale ha nel 1917 il principio del rovesciamento, e quel punto rimane ineludibile in Amendola, ed è alla luce di questo che Amendola accetta finanche l’invasione della Afghanistan da parte dell’Unione Sovietica. Ultima considerazione: concordo appieno con Giannola e con quello che ribadisce Marina Comei, cioè sul totale silenzio del Partito democratico sulla questione meridionale. Questo è scomparso dall’agenda politica, e dietro questa scomparsa c’è il fallimento sostanziale del regionalismo meridionale, cioè di quella reinterpretazione del meridionalismo che poteva rispondere alla crisi degli stati nazionali e ristabilire un nesso virtuoso tra le regioni e l’Europa. Oggi si ricomincia a parlare di Agenzie Centralizzate, e il ministro Bersani ironizza sul Meridionalismo come processo dal basso. Su questo punto occorre un grosso sforzo di riflessione da condurre in maniere aperta e critica.





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