Numero 3/2010

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3 Maggio/giugno 2010 – Anno XI

Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% Direzione Commerciale Imprese Regione Campania

Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino

Napoli e il Mezzogiorno nel processo di costruzione dello Stato unitario Luigi Musella

quasi centocinquanta anni dalla formazione dello Stato italiano e in presenza di forti spinte antiunitarie, leghismo ma non solo, non è detto che proprio queste ultime non possano suggerire rivisitazioni e, comunque, riflessioni più analitiche per la comprensione delle dinamiche che hanno

portato alla formazione del nostro paese. Del resto, la storia d’Italia ha vissuto sovente momenti di resistenza al processo di unificazione e di messa in discussione della stessa Unità nazionale e non poche volte il regionalismo come l’autonomismo, al Sud come al Nord, hanno minacciato l’equilibrio del paese…

Relazioni transatlantiche e integrazione europea a pagina 16 Ê

Giampaolo Calchi Novati

L’Africa 50 anni dopo l’anno dell’Africa a pagina 19 Ê

…continua a pagina 2 Ê

Classi dirigenti e Mezzogiorno nel socialismo di fine Ottocento Armando Vittoria n un volume apparso qualche anno fa Claudia Petraccone affermava che la «questione meridionale non può essere consegnata al passato»1. Per quanto fosse un affermazione tecnicamente sconveniente per uno storico, essa è oggi come allora di tutta evidenza. Nel pieno di una discussione sulla revisione dell’assetto

Giorgio Napolitano

nazionale in favore di soluzioni federaliste (a dir il vero assai discutibili sul piano del disegno normativo), affrontare la cosiddetta questione del Mezzogiorno nei termini di una categoria superata esporrebbe infatti ad un doppio rischio: di fare un torto alla realtà dei fatti, oscurando un problema dotato di una sua evidente…

…continua a pagina 8 Ê

Anna Maria Tarantola

Il rapporto della Banca d’Italia sull’economa della campania a pagina 30 Ê

Ivano Russo

La manovra e le imprese al Sud a pagina 34 Ê


Mezzogiorno Europa guarda al futuro

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sommario

Mezzogiorno Europa”.

annuale Rivista

Formazione

Responsabilità sociale delle imprese Cetti Capuano

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Europa

Il Mezzogiorno nel Mediterraneo con l’Europa e per l’Europa Enzo Giustino Sottrazione di seggi al Mezzogiorno Marco Betzu e Pietro Ciarlo

Euronote

Andrea Pierucci

Dal prossimo numero il  Focus  permanente per il 2010 sui rapporti UE-Russia  coordinato da  Carmine  Zaccaria

Le immagini che illustrano questo numero sono di Riccardo Motti. L’autore insegna Botanica Sistematica e Forestale presso la Facoltà di Agraria dell'Università degli Studi Federico II di Napoli, dove è anche Curatore dell'Orto Botanico. Ha recentemente esposto le personali I cieli sopra Napoli, Vegetalia e Aqua. [motti@unina.it]


3 …continua dalla prima pagina Ê

In Italia meridionale si potrebbero sicuramente e facilmente rintracciare nell’ambito di una storia culturale come nell’ambito di una storia dell’opinione pubblica, come pure in quello più propriamente di una storia politica, figure, dibattiti, scontri che avevano appunto al centro la tematica del processo di unificazione. E questo vale anche, se non soprattutto, per la storia di Napoli. Le ragioni che hanno periodicamente messo in discussione l’idea stessa di nazione sono state di natura politica come di natura economica. Un problema ancora oggi riproposto è relativo al come si è giunti alla formazione dell’Italia. Il «processo» al Risorgimento, in particolare, lo si è sovente condensato attraverso l’espressione negativa di «conquista regia», avvenuta ad opera del partito liberale moderato. Sarebbero stati, infatti, Cavour e il suo partito a materializzare un’egemonia, concretizzatasi per l’appunto nel ruolo centrale svolto dal Regno di Sardegna attraverso opportuni strumenti diplomatico-militari, a formalizzare, nel biennio 1859-60, una vera e propria annessione al regno sabaudo dell’Italia centrale e meridionale. Annessione confermata dalla conservazione da parte di Vittorio Emanuele di Savoia dell’antica denominazione ordinale di «secondo», propria della discendenza sardo-piemontese, a dispetto della sua qualità di monarca del nuovo Regno d’Italia. Sono stati, poi, soprattutto i continui ritorni sull’arretratezza del Mezzogiorno, sulle condizioni miserabili della maggior parte delle sue popolazioni, a riproporre la debolezza delle basi su cui il nuovo Stato è nato, e, quindi, a reimpostare il problema della scarsa partecipazione delle masse a tale nascita come il più importante aspetto dell’insufficienza del processo unitario. Questi argomenti legati alla «conquista regia» sono diventati contenuto sia di dibattiti e scontri politici, sia di confronti storiografici. E, in qualche modo, sono stati ripresi in molti casi sia da destra, che da sinistra. L’idea poi che l’origine del nostro Stato possa farsi risalire ad una più o meno brutale occupazione/annessione di una parte della penisola a danno di un’altra si è offerta come una spiegazione ideale a molti di coloro, spesso meridionali, i quali si sono interrogati sulle cause dell’arretratezza di quelle regioni d’Italia. Secondo una tale visione, dunque, le miserie e le difficoltà del Sud sarebbero nate dal suo ruolo puramente passivo o di «colonia» nel processo di unificazione. Per cui alle popolazioni del Sud non solo non sarebbe stata data la proprietà della terra, ma le sarebbe stato imposto il fardello della tassa sul macina-

Lo Stato unitario tra  leghismo e  su d i s m o Luigi Musella to, della leva, della rapina degli usi civici. Mentre alla borghesia meridionale l’Italia «piemontese» avrebbe sottratto le riserve auree in cambio dei pezzi di carta del debito pubblico. Modificata in vario modo, questa idea dell’unità italiana sarebbe diventata, quindi, la principale giustificazione di gran parte del rivendicazionismo meridionalista e, quindi, delle politiche straordinarie di spesa, specialmente rilevanti dopo la seconda guerra mondiale, rivolte alle regioni meridionali, politiche sentite, per l’appunto, alla stregua di un sacrosanto risarcimento storico. Sul piano economico una delle convinzioni più diffuse della polemica contro la politica dello Stato unitario nato dal moto risorgimentale è che tale politica avrebbe favorito un trasferimento di risorse dal Sud al Nord del paese. Tali risorse avrebbero contribuito in modo determinante alla formazione della struttura industriale dell’Italia settentrionale. Lo Stato italiano avrebbe, quindi, favorito gli interessi del Nord e leso quelli del Sud. In un primo tempo la politica commerciale liberista (anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento) avrebbe abbattuto le difese daziarie del protezionistico Regno delle Due Sicilie, costringendo al fallimento o alla chiusura gran parte dell’industria manifatturiera (soprattutto tessile) esistente al Sud. Tale politica avrebbe aperto, così, la strada a una successiva penetrazione dei prodotti dell’industria settentrionale nel mercato ormai sostanzialmente privo di produzioni proprie e dato a quell’industria settentrionale sbocchi adeguati a farsi ossa che ancora non aveva. La successiva politica protezionistica (tariffe del 1878 e del 1887) avrebbe, quindi, favorito ulteriormente l’industria del Nord, e solo

essa, non esistendo più una significativa industria nelle regioni meridionali. Ciò sarebbe avvenuto sia costringendo il mercato di consumo meridionale a sopportare i maggiori prezzi imposti dalle nuove tariffe doganali; sia esponendo talune produzioni agricole esportatrici del Mezzogiorno (specie il vino) alla rappresaglia francese contro la tariffa italiana del 1887. La politica finanziaria, nei suoi effetti complessivi di entrata e di spesa, avrebbe poi prelevato (fisco) o raccolto (debito pubblico) nel Sud più risorse di quante ne avrebbe speso nell’area. Il problema storiografi-


4 co non consiste, ovviamente, nel sapere quanto siano vere o meno tali ragioni. Probabilmente, al contrario di quanti vorrebbero soluzioni semplificate, rapide e spesso ideologiche, c’è del vero in alcune posizioni antirisorgimentali, anche se poi la ricerca porta quasi sempre a dimostrare che le vicende umane seguono percorsi contraddittori e per nulla semplificabili. Per cui una cosa è la comprensione di un dibattito ideologico con immediati interessi politici, altra cosa è l’assunzione di una formula filoborbonica, antirisorgimetale o sudista che dir si voglia per una analisi quanto più analitica possibile sul piano storiografico. Tuttavia, se noi riconsideriamo la stessa storia politica della città di Napoli, non è poco utile tener conto anche delle posizioni antirisorgimentali. Sta di fatto che non poche volte proprio da un certo rivendicazionismo, periodicamente, hanno tratto forza movimenti politici e leader che hanno finito per governare la città. E, forse, è da un tale contesto che possono spiegarsi quei circuiti particolari e specifici che hanno sovente riaggregato ceti popolari e ceti medio-alti e dato spessore ideologico e politico non spiegabile secondo categorie idealtipiche formulate su modelli di altre realtà. Il populismo di sindaci come il duca di San Donato, Nicola Amore e Achille Lauro in qualche modo ha finito per radicarsi proprio in quel sudismo antiunitario che, però, proprio dalle ragioni rivendicazioniste del popolo napoletano ha finito per comporre momenti politici speculari. Il processo d’integrazione fu condotto inizialmente da una classe politica, composta di uomini in gran parte nel partito cavouriano, che non era radicata sul territorio. Gli emigrati politici e i condannati del 1849 e del 1850, ritornati dall’esilio o dalle prigioni, finirono con l’avere un rapporto contraddittorio con la città. Nella maggior parte di essi prevalse un sentimento di disprezzo nei confronti della loro terra e dei concittadini. Soprattutto, vivendo in esilio e nelle città dell’Italia settentrionale, avevano interiorizzato un giudizio negativo che tendeva a sottolineare l’inferiorità di Napoli e dei suoi abitanti, comprendendo scarsamente la natura e il carattere dei comportamenti prevalenti. Di fatto essi non capirono quello spirito conservatore che sulle prime prevalse come reazione naturale alle riforme attuate dalla dittatura e dalla luogotenenza. I moderati, primi protagonisti dell’unificazione, furono, dunque, in qualche modo, antimeridionali e, nonostante fra di essi ci fossero uomini come Carlo Poerio, Luigi Settembrini, Silvio Spaventa, non riuscirono in pieno a rappresentare la domanda politica delle loro genti.

Di qui la reazione sudista della Sinistra che non a caso fu rappresentata da uomini come il duca di San Donato. Dopo le elezioni del 25 giugno 1876, vera svolta antimoderata, nacque, infatti, la giunta presieduta dal sindaco Gennaro Sambiase di Sanseverino, duca di San Donato. Personaggio sicuramente controverso, San Donato fu tanto popolare grazie al suo populismo che il re Umberto lo apostrofò come il «vicerè» di Napoli. Fece una lunga battaglia di opposizione a partire dal luglio 1861 nel parlamento torinese e si definì sempre negli anni seguenti «garibaldino e progressivo». La difesa degli interessi locali fu da parte sua così accanita da suscitare sovente diffidenza negli altri leader della sinistra settentrionale. Nemico giurato dei Borbone in gioventù, San Donato chiese, una volta sindaco, una commissione d’inchiesta sulle gestioni comunali degli ultimi anni, convinto che i suoi predecessori avessero dilapidato cospicui fondi senza trasformare l’aspetto della città e senza aver provveduto a bisogni edilizi e igienici. Ci fu nei suoi confronti un’accusa di cattiva amministrazione, ma ci fu anche e, soprattutto, la denuncia di un’incapacità a governare la città in termini moderni. Esponendo la sua linea governativa, il sindaco si chiese se sarebbe stato più saggio eseguire i lavori di bonifica sanitaria e sociale «a spizzico, un tanto all’anno» o, piuttosto, eseguirli possibilmente «di un tratto», conseguendo l’obiettivo a breve termine e ripartendo, invece, le spese ratealmente nei vari esercizi successivi, come quote di ammortamento di un debito calcolato fino al centesimo. Un programma «saviamente coraggioso di opere produttive che, mentre abbelliscono la città, la risanino», secondo lui, avrebbe creato nuove risorse, offrendo al Municipio l’opportunità «di chiedere all’indomani ai cittadini un legittimo corrispettivo». San Donato considerò in effetti la stessa imposizione fiscale come una conseguenza del benessere che sarebbe stato alimentato dal risanamento, e non semplicemente come un espediente a cui ricorrere per tamponare le falle del bilancio. Durante i due anni di governo, la giunta cadde infatti il 10 agosto 1878, non furono poche le opere realizzate. Si cominciarono ad abbattere i «fondaci», si affrontò il problema delle fognature, si appaltarono, divisi in quattro lotti, i lavori di via Duomo, da Forcella alla Marina; si stipulò una nuova convenzione per la condotta delle acque di Serino; si chiese al Governo una diminuzione del canone daziario e la compartecipazione agli utili del Banco di Napoli. Si completò la Galleria del Museo. In due anni di gestione, la giunta San Donato portò avanti il programma e lo completò con altre iniziative, come la sistemazione del rio-

ne Fuorigrotta, la creazione di una banchina per il lavaggio del pesce, l’estensione dell’illuminazione a gas a tutta la città. Il 9 gennaio 1877 indirizzò al Governo una mozione auspicando una nuova linea ferroviaria Napoli-Gaeta-Roma. Concluse dopo tre mesi le indagini della commissione di studio per il problema dei fondachi, il 28 aprile dello stesso anno si approvò il provvedimento che prevedeva l’inizio dei lavori nei quartieri di Porto e Stella. San Donato aspettò invano l’aiuto del Governo. La spesa pubblica, tuttavia, durante il suo sindacato aumentò. «Re Pappone» venne accusato di aver aumentato gli stipendi dei dipendenti comunali per demagogia; di aver dilapidato milioni in opere pubbliche per soddisfare l’ingordigia degli appaltatori; di aver raddoppiato il disavanzo annuo, portandolo da 6 a 12 milioni; di aver fatto votare dal Consiglio comunale uno stanziamento di 300.000 lire «per raddrizzare la pubblica opinione», ossia per corrompere la stampa. La Giunta cadde su un provvedimento che avrebbe voluto dare al sindaco una maggiore autonomia nell’uso di fondi per pubblicazioni a difesa dell’amministrazione. L’intervento prefettizio interdì una tale iniziativa, che venne interpretata come un modo per finanziare la stampa al fine di agevolare l’azione del sindaco, e portò allo scioglimento. Di fatto durante il sindacato di San Donato aumentò il deficit di cassa. Il sindaco venne accusato di finanza allegra. La posizione di San Donato, col tempo, tuttavia, s’indebolì all’interno delle stesse alleanze del suo gruppo. Le consultazioni amministrative, tenute a fine luglio non lo videro rieletto, sebbene la sua «bonaria e florida immagine», secondo le parole di Croce, fosse «intagliata o dipinta in tutte le botteghe di mac-


5 caronai ed oliandoli». Un altro momento che vide il successo di un altro esponente del sudismo fu quello del sindacato di Nicola Amore. Fu lui, infatti, il protagonista principale di quel percorso politico che avrebbe portato all’enorme finanziamento governativo per risollevare le sorti della città dopo l’epidemia di colera del 1884. Uomo appartenente alla Destra, Nicola Amore era stato prima segretario generale della Questura di Napoli e poi, dal 1862 al 1865, questore della città. Nell’ottobre del 1865 venne eletto alla Camera per il collegio di Tea­no, nell’agosto 1868 per il collegio di Campobasso. Nell’undicesima legislatura rappresentò il 12o collegio di Napoli, mentre nella successiva quello di San Severo. Con la caduta della Destra, Amore perse il seggio parlamentare. Il 26 novembre 1884 fu, comunque, nominato senatore. Piuttosto basso di statura, con una figura massiccia, una fronte larga, sopracciglia folte e ritte, baffi lunghi ed irsuti, torace largo, Amore fu sicuramente tra i penalisti più prestigiosi della città. Molte furono le cause che lo resero celebre e popolare. Amore acquistò popolarità proprio in occasione della richiesta di finanziamenti al governo per fronteggiare l’emergenza dovuta all’epidemia di colera. Il 10 ottobre, in una lettera diretta a Mancini, scrisse: «Si sollevi a favore di Napoli la giustizia del Parlamento in seguito ad una potente iniziativa del Governo […]. Si sollevi Governo e Parlamento a promuovere concordi l’immediata esecuzione delle opere necessarie per il riordinamento edilizio ed igienico ch’è nei voti di tutti, e che per una città come Napoli è sempre qualche cosa di nazionale interesse». Invocò in tutti i modi un aiuto, insistendo soprattutto sul concetto che la città, dopo numerose prove di patriottismo, non poteva rimanere con i suoi luridi fondachi e seppe creare un rapporto diretto con Depretis. E il presidente del consiglio, consapevole della grave perdita per la città del ruolo di capitale, concepì in qualche modo la legge per il risanamento come una legge di riparazione. Nicola Amore, attraverso Mancini, riuscì subito ad indurre Depretis a presentare in Parlamento il progetto di legge sul risanamento di Napoli. E così, a fine novembre, il governo presentò il disegno di legge alla Camera. Per provvedere alla spesa dei lavori di tale risanamento, il disegno stabiliva che sarebbero stati emessi titoli speciali di rendita ammortizzabili, allo scopo di ottenere il capitale effettivo di 100 milioni di lire, di cui metà a carico dello Stato e metà a carico del Comune. Alla Camera, in seguito alla relazione dell’onorevole Rocco De Zerbi, si aprì una discussione che fu serrata.

A Montecitorio il dibattito durò tre giorni. Il 21 dicembre 1884, il disegno di legge passò nella sua stesura definitiva con 259 voti favorevoli contro 62. Il dibattito al Senato vide la relazione favorevole di Caracciolo di Bella, ma anche l’opposizione del milanese Francesco Brioschi. Brioschi dichiarò la propria opposizione in quanto la finanze dello Stato non sarebbero state in grado di sopportare la spesa stabilita. L’11 gennaio 1885 intervenne Amore. Il suo fu un discorso appassionato in difesa della città. Dopo aver ricordato il precedente finanziamento dello Stato di 150 milioni a favore della città di Roma, si augurò che il Senato avrebbe fatto lo stesso per Napoli. Probabilmente nella storia di Napoli colui che più di altri utilizzò elementi antiunitari e che su di essi riuscì a trascinare le folle fu Achille Lauro. Elementi importanti dell’ideologia laurina furono, infatti, proprio il rivendicazionismo e il sudismo. Attraverso opinioni, pregiudizi, simboli, miti e risentimenti che finirono per costruire una forte immagine sia del Sud che del Nord del paese, così come del Sud e della capitale, Lauro e, soprattutto, i suoi editorialisti del Roma portarono le plebi della città, come ampi settori della media e alta borghesia su posizioni che, seppur ricche di populismo, rappresentarono una forma di partecipazione alla vita politica. Si riteneva che il Mezzogiorno fosse sfruttato e tenuto deliberatamente in uno stato di inferiorità e di minorità dal governo, dagli organi centrali dello Stato e dai potentati economici dall’Italia settentrionale e dai loro rappresentanti politici. Per porre fine a questa situazione si «rivendicava», quindi, una sorta di intervento riparatorio. Le rivendicazioni, a volte, erano indiscriminate e prescindevano da ogni logica di programmazione. Ogni occasione era buona per reclamare qualcosa, oltre agli immancabili stanziamenti finanziari, che, peraltro, venivano sempre giudicati insufficienti. Per Raffaele Cafiero, stretto collaboratore del Comandante, i «titoli» per rivendicare erano storici. Intanto, c’era una arretratezza rispetto alle regioni settentrionali dovuta soprattutto alla fortuna che queste avevano avuto a partire proprio dall’Unità; poi, ancora, «la lunga protezione doganale, destinata a sorreggere le industrie di altre regioni, con l’aggravio dei prezzi per noi popolo di consumatori; l’aver dato tutto alla guerra, sangue e denaro, l’aver avuto distrutte le nostre case assai più che altrove, nonché le nostre poche industrie, senza aver toccato finora un soldo di indennità». I monarchici cercarono sempre di accreditarsi come una formazione politica schiettamente «meridionale», in contrapposizione a tutti gli altri partiti, «asserviti agli interessi settentrionali». Lo stesso


6 governo Parri venne da loro accusato di essere il rappresentante degli interessi dei potentati economici e politici del Nord e il presidente del Consiglio fu duramente contestato in occasione di una sua visita a Napoli. Dopo le elezioni del 18 aprile, scomparso il pericolo di un governo «rosso», la progressiva disaffezione e il crescente malcontento di un’ampia area della popolazione campana nei confronti della DC e, in particolare, del governo De Gasperi trovarono proprio nel sudismo e nel rivendicazionismo uno sbocco. Alberto Consiglio affermò che il governo non aveva atteso il Piano Marshall per beneficiare le industrie del Nord, mentre i lavoratori del Sud non avevano che sperare nel «famoso» Fondo-lire. In realtà, sia i monarchici che i missini utilizzarono i temi sudisti e rivendicazionisti per occupare uno spazio politico. La rivendicazione di un ministero per l’Italia meridionale, la domanda di una quota per le aree depresse, la proposta di una commissione parlamentare, puntavano, in fondo, proprio a questo. All’inizio degli anni cinquanta, una parte considerevole della società

civile guardò, quindi, con favore la propaganda delle destre, che nel loro semplicismo riuscirono ad avere molta più forza attrattiva e capacità di convinzione di quella prodotta dai meridionalisti liberali e di sinistra. All’indomani della straordinaria affermazione elettorale del 1952, i commenti raccolti dai carabinieri in vari ambienti concordavano nell’attribuire il successo alle destre, non tanto «ad un particolare attaccamento di masse al regime fascista» o al «fanatismo per l’istituto monarchico», ma, soprattutto, al «vivo desiderio di cercare nuove soluzioni all’assetto politico italiano, affinchè gli interessi del Mezzogiorno trovino la loro efficace tutela». «Le popolazioni meridionali», pro-

seguiva la nota dei carabinieri, «invero non insensibili alla istituzione monarchica, più che rincorrere miraggi di ideologie politiche, vanno alla ricerca di capi e di partiti che possono disancorarle dalla “morta gora” della depressione economica in cui vivono e, pertanto, seguono con tutta la loro emotività gli uomini che ritengono capaci di risolvere i ponderosi problemi del Mezzogiorno». Tra questi uomini spiccava Lauro, «noto per i suoi indiscussi precedenti di fecondo costruttore». Lauro, nell’immaginario collettivo, appariva sempre più come il paladino e patrono delle derelitte popolazioni meridionali, come l’«uomo nuovo», immune dai difetti dei politci di professione, dotato di grande senso pratico e di indiscusse capacità realizzatrici. Già prima delle elezioni, infatti, i carabinieri potevano notare «una specie di esaltazione collettiva per la persona del Comandante Lauro, dalla notoria capacità amministrativa del quale e dalla sua conclamata attitudine alle grandi imprese ed alle audaci iniziative, i cittadini si attendono non si sa quali e quanti benefici in favore di Napoli».


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8 …continua dalla prima pagina Ê

attualità nazionale, e di affrontare questa stessa realtà in maniera retorica o mediante l’uso di argomentazioni forse datate e sicuramente inadeguate. Se si intende ribadire l’attualità della cosiddetta questione meridionale è necessario oggi più che mai ripensare il perimetro concettuale stesso della nozione di Mezzogiorno, quale problematicità economica, sociale e politica. Il che non significa, come è stato già autorevolmente notato, ripudiare le esperienze e le tradizioni che hanno segnato l’evoluzione del pensiero meridionalistico1, quanto piuttosto allontanare con decisione tutte quelle impostazione retoriche, generiche e stereotipate della questione meridionale – siano esse di matrice economicistica, storico-culturale o sociologico-politica – fortemente controproducenti, a favore di un rinnovamento prima di tutto metodologico del meridionalismo. Per la stessa sussistenza della questione meridionale quale fondamentale questione nazionale e democratica, è insomma indispensabile una renovatio della prospettiva stessa del meridionalismo, delle sue categorie descrittive e degli strumenti di analisi critica, muovendo dal versante culturale e della ricerca come spinta all’innovazione nelle politiche pubbliche nel Mezzogiorno. Riproporre la questione del Mezzogiorno oggi implica, in definitiva, una rilflessione di metodo. Il fatto che il problema non possa essere riconsegnato al passato ne fa certamente ancora oggi una questione nazionale; una grande questione che investe le prospettive di crescita democratica del paese nel sistema europeo, ma affrontabile unicamente – è questo il punto – se si separa con nettezza la questione in sé dal giudizio complessivo sulle politiche adottate nel passato per porvi rimedio. Una separazione concettuale che consentirebbe di scongiurare sia il rischio di una ulteriore “sparizione” del Mezzogiorno dall’agenda culturale e politica del Paese, che parallelamente la ricaduta in vecchi schemi agiografici e soluzioni infruttuose e deresponsabilizzanti, che dal finire degli anni’70 hanno arrestato definitivamente il corso della politica riformatrice nel paese. Questa opera di innovazione metodologicoculturale spetterebbe primariamente agli intellettuali ed alle classi dirigenti, in particolare ai più giovani. Separare il giudizio sull’attualità dell’arSi veda soprattutto G. Galasso, Passato e presente del meridionalismo, Napoli 1978. 1

C l a s s i  d i r i g e n t i e  M e z z o g i o r n o Armando Vittoria retratezza meridionale da quello sulle politiche attuate per il Mezzogiorno non è tuttavia cosa semplice. Con un provocatorio gioco di parole potrebbe dirsi che il Mezzogiorno, a differenza della “padania”, esiste davvero. L’arretratezza economica, politica e civile di molte zone del Sud resta oggi un dato drammaticamente reale e incontestabile. E tuttavia non vi è, a differenza che per

la cosiddetta “padania”, alcuna seria rappresentazione pubblica della categoria culturale e politica del Mezzogiorno, e questo dipende in misura determinante anche dalla incapacità e debolezza delle classi dirigenti dell’ultimo trentennio, rivelatesi culturalmente disinteressate o politicamente inadatte a ricollocare la questione “dei Sud” nella duplice sfida Europa-Federalismo che il Paese si trova ad affrontare, come opportunità e non esclusivamente come problema irriducibile. Sul fronte delle politiche per il Mezzogiorno, ammesso che esistano e siano così collocabili dentro un disegno dotato di organicità o prospettiva, l’unica svolta davvero auspicabile sarebbe stata la scomparsa di una determinata “politica per il Mezzogiorno” – prevalentemente assistenziale, deresponsabilizzante e funzionale al clientelismo – che in realtà persiste sotto vesti differenti e si irradia, talvolta più di prima, attraverso un’articolazione della spesa pubblica paradossalmente più “irresponsabile” che nel passato, perché nascosta tra le pieghe di una multivel governance che costituisce un oggetto tanto invocato quanto misterioso. Insomma il nocciolo della questione meridionale è ancora oggi politico e democratico. Innovare profondamente i temi, le idee, i progetti del “discorso sul Mezzogiorno” richiede oggi più che mai un approccio laico e culturalmente eretico, che parta dalla sostanziale inadeguatezza delle letture attualmente proposte dinanzi alle sfide nazionale, europea e globale che il Mezzogiorno deve affrontare. Il compito dell’innovazione politica e sociale spetta, principalmente, alle classi dirigenti. In questo senso resta ancora vera l’impostazione crociana per la quale fin dalle sue origini la questione dell’arretratezza del Mezzogiorno ha ricevuto le sue maggiori spinte dalla parte più avanzata delle classi dirigenti, soprattutto meridionali2, e forse unicamente da esse. Il fatto che a partire dalla seconda metà degli anni’80 del Novecento sia emersa una forte inadeguatezza di queste rispetto alla questione del Mezzogiorno, impone una riflessione sull’evoluzione dei rapporti tra classi dirigenti e Mezzogiorno, sulle continuità e le rotture di un aspetto senza dubbio caratterizzante del primo secolo e mezzo di vita nazionale. Il contributo proposto, anche ma non solo per ragioni di contesto editoriale, intende così affron-

2 Si veda sopr. G. Galasso, Il pensiero meridionalistico dall’Unità al fascismo in AA.VV., Storia del Mezzogiorno, vol. XIV, La cultura contemporanea, Napoli 1994, pp.450-451.


9 tare il tema del Mezzogiorno non in termini generalistici, bensì attraverso il punto d’osservazione dei rapporti tra Mezzogiorno e classi dirigenti, muovendo dalla significativa esperienza del socialismo meridionale di inizio novecento che per primo intese affrontare la questione proponendola sotto il profilo della riforma civile in senso democratico. L’obiettivo è riprendere il filo spezzato di una riflessione storico-critica sulle persistenze e sulle rotture di un rapporto cruciale per il pensiero meridionalistico e per lo sviluppo complessivo della vita politica nazionale.

con i canali di rappresentanza e articolazione delle spinte sociali (il rapporto con la società politica e con l’opinione pubblica), con quelli di raccolta delle spinte all’innovazione politica ed alla partecipazione (il rapporto con i partiti e la rappresentanza) e, infine, di consolidamento della legittimità e della dimensione civile (il rapporto con le istituzioni). Si potrebbe dire che una buona classe dirigente è quella che non solo esprime buongoverno ma è soprattutto capace di tratteggiare quello che Gramsci definiva un «orizzonte aperto». Modernità e insofferenza culturale qualificano il ruolo di direzione politica e di riforma che una classe dirigente è capace, stabilmente, di svolgere, soprattutto nei momenti critici o eccezionali della vicenda di un paese.

Classi dirigenti e modernizzazione sociale Molti anni fa il compianto Sir Ralph Dahrendorf, discutendo del nesso esistente tra classe dirigente e progetto politico-sociale, ebbe a dire che la spinta al progresso collettivo di un sistema era la stessa che muoveva la storia, «la molla dell’inquietudine»3. La mancanza di insofferenza culturale e civica rappresenta, probabilmente, il limite peggiore per una classe dirigente, se intendiamo con questa quella parte culturalmente più avanzata e politicamente più responsabilizzata di un sistema, da cui ci si attende oltre che il “buongoverno” anche la capacità di anticipare e tratteggiare, seppur con polso lieve, modelli ed orizzonti di sviluppo di una collettività che vadano oltre la “contabilità dello stato presente”. Nel passaggio tra il secolo XIX ed il XX, in cui l’Europa affrontava le sfide della modernizzazione politica e sociale, il differente ruolo di spinta ed avanguardia svolto dalle classi dirigenti nazionali separò talvolta irrimediabilmente la strada di quegli Stati destinati ad una rapida evoluzione democratica da quella di altri che, diversamente, andarono incontro al susseguirsi di contrasti tra spinte reazionarie ed impulsi di riforma politica4. Pur non esagerandolo, è certo che il ruolo svolto prima e dopo le due guerre dalle classi dirigenti nazionali abbia segnato a fondo il tessuto civile, democratico e nazionale dei paesi europei. Nella formazione ed evoluzione delle democrazie nazionali non tutti i sistemi europei, tutta-

3 R. Dahrendorf, Per un nuovo liberalismo, Roma-Bari 1981, p.31. 4 Cfr. sopr. E. J. Hobsbawn, L’età degli imperi (1875-1914), 1970, Roma-Bari 2007.

Mezzogiorno e classi dirigenti: un rapporto “strutturalmente” debole

via, hanno saputo esprimere un criterio di connessione strutturale tra società e istituzioni capace di garantire un meccanismo di formazione e ricambio delle classi dirigenti se non automatico quantomeno ragionevolmente stabile, capace di garantire al sistema insieme il rafforzamento di una “religione civile” ed un progetto politico condiviso per il futuro prossimo; un ruolo di consolidamento del sistema liberal-democratico tipico di una classe dirigente come dire “strutturale”, ovvero socialmente rappresentativa, culturalmente insofferente, politicamente innovativa. Una classe dirigente strutturalmente capace non solo di ordinare (governare il presente) ma anche di orientare (progettare il futuro) una società deve innegabilmente possedere, cosa affatto semplice, un rapporto privilegiato su tre dimensioni:

La criticità e problematicità del rapporto tra classi dirigenti e Mezzogiorno è riscontrabile, come traiettoria di lunga durata, in molta parte della storia meridionale. Per certi versi la storia politica del Mezzogiorno è un po’ la storia delle sue classi dirigenti in tutti i passaggi critici di età contemporanea, dalla crisi del giacobinismo all’esperienza del Decennio, dal fallimento costituzionale del 1848 alla crisi dell’unificazione, ancor prima che la questione meridionale diventasse una problematica dello Stato nazionale, convenzionalmente dalla pubblicazione delle Lettere meridionali di Pasquale Villari nel 1875. Questa constatazione pone tuttavia alcuni problemi di ordine argomentativo, giacchè ragionare di una storia della cultura politica meridionalistica come gravitante attorno al centro costituito dalle classi dirigenti meridionali significa contestualmente mettere in conto, per il passato e per il futuro, l’alternarsi di spinte e di vuoti nel meridionalismo, data la natura affatto strutturale e direi sporadica del rapporto tra struttura sociopolitica del Mezzogiorno e classi dirigenti riformatrici, in virtù di un ritardo del Mezzogiorno che, oggi in forme diverse che in passato, è prima ancora che di natura economica o politica di «struttura civile»5. Il paradosso storico del rapporto tra meridionalismo e classe dirigente può essere

5

G. Galasso, Il pensiero meridionalistico, cit., p.429.


10 in qualche misura così sintetizzato. Si deve fondamentalmente alle avanguardie intellettuali ed alle classi dirigenti meridionali degli ultimi tre secoli l’emersione del Mezzogiorno, come categoria culturale e grande questione politica nazionale; e tuttavia la debolezza di struttura civile e politica del Mezzogiorno non è stata tendenzialmente capace di garantire continuità di classe dirigente, affidandosi così al caso ed all’individualità. Già ai primi dell’Ottocento Luigi Blanch, esponente del costituzionalismo moderato della prima Restaurazione, faceva emergere questi aspetti, con lo sfondo del fallimento dell’esperienza del ‘99: «La classe media non acquista una reale importanza in una società se non quando il sapere, l’industria, il commercio e l’economia creano capitali intellettuali e materiali […] Questo doppio movimento avanza il tempo in cui il possesso passerà a chi ha fornito i capitali, come il potere a chi possiede il sapere in un modo chiaro e legale e non indiretto ed occulto. […] Ma la classe media non può essere preponderante in una società, se non quando questi due elementi progrediscono armonicamente [diversamente essa è] decomposta, divisa in partiti, piuttosto un inerte ostacolo per il potere che un elemento su cui appoggiarsi»6. Certo allora la questione nazionale del Mezzogiorno è lontana dal venire. Si pone con forza, tuttavia, la questione della riforma politica e sociale che Blanch, con qualche inclinazione romantica, colloca dentro il compito delle classi dirigenti, anticipando, con la sua disamina sui ritardi della modernizzazione borghese del tessuto civile meridionale, alcuni tratti del meridionalismo postunitario, da quello unitarista di Fortunato alla critica politica salveminiana7. Il problema della struttura civile è un dato cruciale nell’analisi dell’arretratezza del Mezzogiorno, e non solo dentro la sola borghesia. Come noterà al principio degli anni’80 dell’Ottocento un Pasquale Turiello dai toni conservatori e reazioniari: «tra la plebe e la borghesia rimane la chiave dei rivolgimenti napoletani di tutto il periodo corso dal 1806 al 1861»8.

6 L. Blanch, Il Regno di Napoli dal 1801 al 1806, in B. Croce (a cura di), Scritti storici, Bari 1945, ora in R. Villari, Il Sud nella storia d’Italia, vol. I, Bari 1971, pp.50, 51 e 54.

Cfr. G. Galasso, Il pensiero meridionalistico, cit., pp. 433437 e C. Petraccone, Le ‘due Italie’, cit., pp.46-87. 7

8 P. Turiello, Governo e governati in Italia, a cura di P.Bevilacqua, Torino 1980, p.69.

L’arretratezza della struttura sociale del Mezzogiorno, che unisce anche dopo l’Unità persistenze feudali ad una borghesia essenzialmente d’ufficio e parassitaria, pesa come un macigno in due sensi: sul limite alla trasmissione degli impulsi sociali più innovativi sulla vita pubblica e sulla fertilità del tessuto civile in termini di riproduzione delle classi dirigenti, predisponendosi con il suo particolarismo e con la sua deferenzialità dei rap-

porti politico-sociali alla diffusione delle pratiche clientelari tipiche del contesto postunitario. Il problema di un raccordo strutturale tra tessuto civile e classe dirigente come precondizione al rilancio del Mezzogiorno resterà, con accenti diversi, un tratto costante del meridionalismo. La prima criticità rispetto al ruolo delle classi dirigenti del Mezzogiorno è dunque di rappresentatività sociale, espressione di una modernizzazione borghese marginale ed incompiuta prima e dopo l’unificazione. Lo nota negli anni’80 dell’Ottocento anche il conservatore Turiello, auspicando «un’educazione nuova, [proveniente] dalle grandi correnti degli interessi generali e vistosi, nazionali ed europei, materiali e morali [che disciolgano e tirino] nelle loro grandi e salutari correnti il vortice infecondo in cui si aggira l’operosità dei più audaci della borghesia napoletana»9. Il rilievo dei limiti di struttura civile del Mezzogiorno e della sua influenza sulla riproducibilità delle classi dirigenti costituirà un tratto assai diffuso del pensiero meridionalistico, e non solo sotto il profilo della disillusione conservatrice, che sinceramente non può essere considerata il tratto costitutivo del meridionalismo postunitario10. La denuncia dei limiti sociali e politici delle classi dirigenti meridionali solo apparentemente accosta infatti, nell’ultimo quarto del XIX secolo, un reazionario come Turiello ad un meridionalista unitario come Fortunato, o al positivismo socialista di Salvemini e Ciccotti, i quali partono se si vuole da una comune diagnosi del tessuto civile del Mezzogiorno per indicare, perciò, soluzioni politiche ed istituzionali assai differenti, caratterizzate o dall’inserimento della riforma sociale dentro il quadro dello sviluppo liberale nazionale (Fortunato) o dal riscatto civile come leva di formazione di una moderna coscienza politica nel Mezzogiorno (Ciccotti). La «spietata» capacità di analisi delle arretratezze della società meridionale11 serve al meridionalismo per indicare delle vie d’uscita che insieme responsabilizzino le classi dirigenti meridionali e quelle nazionali. Come affermerà Giustino Fortunato in una lettera a Gaetano Salvemini intorno ad una polemica sul Mezzogiorno: «che i settentrionali abbiano per noi un sen-

9

Ivi, p.113.

Così invece A. Asor Rosa, Letteratura e sviluppo nazionale, in AA.VV. Storia d’Italia, vol.IX, Torino ed.2005, sopr. pp. 911-915. 0

11

p.911.

A. Asor Rosa, Letteratura e sviluppo nazionale, cit.,


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timento di disprezzo, m’importa, confesso, assai poco. Se tu fossi stato testimone coscientissimo del nostro 1860, come sono stato io del vero ’60, non della insigne impostura dei libri a’dozzina; se tu avessi la coscienza, che ho io, di tutto il marcio dell’alta borghesia meridionale […] forse lo sciocco plebeo sentimento dei settentrionali a nostro riguardo ti lascerebbe più freddo. Tutto l’affarismo dello Stato italiano è del Nord: il Sud rubacchia se stesso ne’ Comuni e nelle Opere Pie; ma la società del Nord, nel suo insieme, nel tutto suo insieme, è assai meno corrotta di quella del Sud»12. Il liberalismo illuminato di Giustino Fortunato, pur incrociando le due dimensioni della critica al radicamento sociale ed al costume politico delle classi dirigenti, evita accuratamente di appiattirsi su quella retorica del clientelismo e del buongoverno che, in chiave essenzialmente reazionaria, antiunitaria e deresponsabilizzante aveva contrassegnato il pensiero di Turiello e segnerà parte del meridionalismo conservatore13. Non v’era certamente dubbio che il gioco politico unitario avesse instaurato, nel Mezzogiorno, «un sistema legalmente rappresentativo ma in sostanza funzionante come una oligarchia»14 spinta dalle clientele, ma ciò non doveva certo né motivare un ritorno al passato né tantomeno assecondare istinti antiparlamentari. I limiti della società e delle classi dirigenti meridionali restano evidenti, e tuttavia non poteva trascurarsi il ruolo svolto dalla classe dirigente nazionale, dal governo delle istituzioni unitarie «con prefetture e sottoprefetture trasformatesi in vere e proprie agenzie elettorali»15. Se per il Mezzogiorno era

12 Giustino Fortunato a Gaetano Salvemini, 16 febbraio 1910, in G. Salvemini, Carteggio 1910, Roma 2003, pp.55-56. 13 Cfr. M.L.Salvadori, Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Torino 1963. 14 Così Mariano Torraca citato da P. Turiello, Governo, cit., p.111.

G. Fortunato, Le Regioni (1896), ora in R. Villari, Il Sud nella storia, cit., vol.I, p.279. 15

un problema di costume politico, per la nazione il clientelismo e la deferenza restavano un metodo politico e istituzionale: «Tutti i rimedi, anche accordando loro la massima efficacia di cui sono capaci, saranno tutti inferiori sempre al compito, se …primo elemento della corruttela parlamentare delle province meridionali, specialmente nei rapporti amministrativi, resterà il governo; se il governo, per avere non amici e fautori, ma clienti e seguaci […] il suo interesse e il suo dovere ricadrà nel solito andazzo di sacrificare, ogni giorno, in mille modi, il dovere all’interesse»16. La critica di Fortunato ai limiti delle classi dirigenti trovava, forse, maggiori punti di contatto con Salvemini e Ciccotti che con i conservatori. L’emersione del clientelismo postunitario, soprattutto dopo la svolta del 187417, è un dato che viene letto in senso funzionale, di osservazione e proposta politica, partendo da un dato di critica ai limiti delle classi dirigenti meridionali che da quelli civili (il rapporto con la società) si estende a quelli politici (il rapporto con i partiti e la politica) a quelli istituzionali (il rapporto con lo Stato). Particolarismo degli interessi, clientelismo politico e amministrativo sono tre aspetti dell’incapacità del Mezzogiorno di far emergere dal suo seno, se non minoritariamente, classi dirigenti avanzate, adatte ad interpretare un ruolo di promozione dello sviluppo del Mezzogiorno e dell’interesse generale. Più avanzata per tanti versi è la diagnosi di Ettore Ciccotti. Esponente di spicco del positivismo socialista di fine secolo, Ciccotti osserverà la questione meridionale da un punto per così dire privilegiato, trovandosi nel mezzo del dibattito sul positivismo che attraversa il movimento socialista nell’ultimo quindicennio dell’Ottocento, testimone degli stati d’assedio al Sud prima, poi protagonista della denuncia della corruzione

16

Ivi, p.281.

Si veda sopr. G. Procacci, Le elezioni del 1874 e l’opposizione meridionale, Milano 1956. 17

amministrativa a Napoli18, attraverso il giornale “La Propaganda”, che condurrà alla cosiddetta inchiesta goverantiva Saredo19. Nel socialista Ciccotti emergono alcuni temi dell’impostazione salveminiana, ma è fortemente accentuata, oltre alla speranza riposta nel concetto di lotta sociale, la critica alla debolezza di coscienza politica del Mezzogiorno, alla mancanza di modernità della sua classe dirigente: «In questo ambiente, con questi elementi e su questo campo d’azione non è a parlare naturalmente di partiti politici e di grandi correnti di idee. I grandi e comuni interessi sono troppo sminuzzati e sopraffatti dagli interessi municipali, locali, individuali, perché possano apparire ed operare in modo da costituire la basi di forti aggregati intenti a farli valere. Non v’è terreno per questa attività come non ve ne è per ogni altra forma di vita collettiva intellettuale e morale. Perciò il Mezzogiorno è la terra dei solitari; e le sue grandi manifestazioni intellettuali sono state e sono personali, prive di continuità, in contrasto col presente e con l’ambiente, e divinatrici dell’avvenire [e che] non può servire ad altro che ad instillare nelle coscienze un germe di inquietudine»20. Particolarismo degli interessi, clientelismo, inclinazione alla corruzione amministrativa non sono per Ciccotti deducibili biologicamente, come pure in quegli anni una parte della scuola evoluzionista sosteneva21, perché lo «stato deplorevole» delle classi dirigenti meridionali originava dall’«azione di cause prepotenti»22. Richiamando

8 La sua vicenda politica personale è narrata in E. Ciccotti, Come divenni e come cessai di essere deputato di Vicaria, Napoli 1909. 19 Cfr. R. Feola, Una rinnovata vita cittadina. Napoli e l’inchiesta Saredo in L’Ape ingegnosa, 2/2002, pp.11-41. 20 E. Ciccotti, Mezzogiorno e settentrione d’Italia, Milano-Roma 1898 ora in R. Villari, Il Sud nella storia d’Italia, cit., pp.296-297. 21

C. Petraccone, Le ‘due Italie’, cit., pp.79-87.

22

E. Ciccotti, Mezzogiorno e settentrione, cit., p.303.


12 una traiettoria di pensiero di lunga data nel riformismo meridionale, Ciccotti evidenziava come arretratezza di sviluppo economico e arretratezza di sviluppo morale andassero nel Mezzogiorno di pari passo – i capitali intellettuali e materiali di cui aveva parlato Blanch – e che questo dato non potesse di certo imputarsi a condizioni biologiche, ma a condizioni oggettive su cui pesavano certamente anche i limiti di etica collettiva, per così dire, ma a cui non era estraneo il basso spessore della stessa borghesia nazionale: «meno matura di quella di altri paesi e più tardi arrivata al potere in un paese povero [che] non è stata buona ad attenuare alcuno dei malanni del Mezzogiorno e molte volte li ha rincruditi»23. Il movimento socialista di fine secolo sposta così il fuoco critico sulle arretratezze civili e morali delle classi dirigenti, meridionali e nazionali, incapaci di favorire la precondizione essenziale ad ogni rilancio economico, industriale e sociale del Mezzogiorno: l’allargamento e la secolarizzazione della coscienza politica e civile. Scrive Ciccotti qualche anno dopo: «Da noi manca spesso una chiara coscienza politica, cioè una franca visione degli interessi collettivi ed un’inclinazione negli individui a migliorare la propria condizione mediante un determinato indirizzo dato al governo degli interessi collettivi […] Solo una nuova concezione della vita, una tendenza ad un diverso assetto sociale, basato non sulla lotta di tutti contro tutti, ma sulla reciproca cooperazione, solo una nuova forza organica sociale che induca una più stretta coesione – solo elementi come questi possono ridestare e promuovere un senso di solidarietà salvatrice»24. Senza dubbio l’impostazione di Ciccotti risentiva di spinte utopiche forti, per quanto temperate dal positivismo, tali da portarlo ad affermare che «col tramonto dell’era capitalistica scompariranno anche i caratteri degenerativi del Mezzogiorno»25. E tuttavia va affermato con forza che la prima e più avanzata espressione del meridionalismo democratico dopo l’Unità fu sicuramente fornita dalla scuola socialista di Salvemini, Colajanni e Ciccotti. Quasi a chiudere un primo trentennio di questione meridionale, nel primo meridionalismo

23

Ivi, p.305.

24 E. Ciccotti, Il movimento socialista e il Mezzogiorno ora in R. Villari, Il Sud nella storia d’Italia, vol II, cit., p.455. 25

E. Ciccotti, Mezzogiorno e settentrione, cit., p.306.

socialista si trova una elaborazione che ebbe certamente il merito di spostare l’accento sulla riforma orgnica, politica e civile, del Mezzogiorno come precondizione alla risoluzione della questione meridionale quale problema nazionale e democratico. In primo luogo quella impostazione operò uno scostamento del positivismo dagli approdi razzistici e biologici della scuola evoluzionista e da quelli deterministici e conservatori tratteggiati dallo stesso Villari. Il ricorso ad un positivismo per così dire “politico” aprì la strada allo studio ed all’approfondimento della ricerca economica e tecnica che tanto influiranno, poi, sulle posizioni nittiane e ancora in seguito sulle idee di un Rossi-Doria o sulla “politica della programmazione” degli anni ’50 del secolo XX, ridimensionando almeno in parte – come noterà proprio RossiDoria – quella «prevalente influenza del pensiero idealistico che [aveva] prestato poca attenzione ai problemi dello sviluppo economico e sociale del Mezzogiorno»26. Così emerge una prima scissione concettuale tra analisi anche storica delle origini dell’arretratezza meridionale e ricerca, scientifica e tecnica, delle soluzioni politiche per il Mezzogiorno, tuttavia da distinguersi tra quelle orientate a risolvere, nel medio periodo, i problemi dell’industrializzazione, della produttività e proprietà terriera, del governo politico e amministrativo, e quelle che invece rinviavano alle precondizioni oggettive all’insediamento di una moderna coscienza politica e civile nel Mezzogiorno, che agli occhi di un Ciccotti, ad esempio, non possono che risiedere nell’allargamento democratico della vita pubblica e nella spinta popolare alle riforme.

Un meridionalismo critico, civico e… “neo‑positivista”? La separazione metodologica tra origini strutturali dell’arretratezza e politiche ordinarie per lo sviluppo complessivo del Mezzogiorno che, forse, ancora oggi presenta una sua attualità, e che consentirebbe di impostare culturalmente prima che in termini politici la questione meridionale, evitando il ricorso a schemi superati ed a soluzioni deresponsabilizzanti ma non nascon-

26 M. Rossi-Doria, Agricoltura del Sud e del Nord in id., Dieci anni di politica agraria, Napoli 2004, p.49.

dendo l’esistenza del problema e la sua attualità politica e democratica. Ciò che tuttavia più colpisce, di questa corrente di pensiero in particolare ma anche di altre impostazioni del primo meridionalismo, è la comune convinzione di una endemica incapacità del tessuto civile del Mezzogiorno a sviluppare classi dirigenti propriamente dette, o comunque capaci di farsi carico di quello che Gramsci definiva il compito di «direzione politica e intellettuale» di una società. Nel meridionalismo delle origini, questo appare quasi un tratto costante del rapporto tra Mezzogiorno e classi dirigenti, che sbucano sporadicamente – e in quel caso come sosteneva Croce con grande eccellenza – come ginestre leopardiane. Di un Mezzogiorno che, per ripetere le parole di Ciccotti, è una terra di solitari, in cui le «grandi manifestazioni inellettuali sono state e sono personali, prive di continuità, in contrasto col presente e con l’ambiente, e divinatrici dell’avvenire [e che] non può servire ad altro che ad instillare nelle coscienze un germe di inquietudine»27. Una possibile strada per il rinnovamento della cultura politica meridionalista, forse, potrebbe risiedere in una saldatura tra il recupero dei grandi indirizzi di pensiero che hanno caratterizzato il Mezzogiorno come chiave per ribadire la centralità concettuale della questione, da un lato, e l’insistenza sul fronte del realismo e della concretezza reponsabilizzante nel campo delle politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno nel contesto prima di tutto europeo. La sfida è, prevalentemente, nella responsabilità e nel dovere intellettuale e “civico” delle nuove generazioni, delle future classi dirigenti. Come scriveva Guido Dorso: «occorre che i giovani […] escano dallo stato di fatalismo che incombe sulle anime meridionali, per dimostrare che le élites del Sud non sono costituite solo da speculatori geniali capaci di anticipare di secoli le grandi scoperte del pensiero umano, ma sono costituite anche da uomini di azione, capaci altresì di compiere il miracolo di svegliare un popolo di morti»28. Ricercatore di Storia delle Istituzioni Politiche. Università Federico II di Napoli.

27 E. Ciccotti, Mezzogiorno e settentrione d’Italia, Milano-Roma 1898 ora in R. Villari, Il Sud nella storia d’Italia, cit., pp.296-297. 28 G. Dorso, La Rivoluzione meridionale, Torino 1925 ora in R. Villari, Il Sud nella storia d’Italia, cit., vol. II, p.533.




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16 Giorgio Napolitano o speso gran parte della mia vita in Parlamenti, in quello nazionale e, in anni più recenti, in quello europeo, e credo profondamente nel ruolo delle Assemblee elettive come pilastri dei sistemi democratici: in questo senso il Congresso degli Stati Uniti rappresenta un grande esempio per tutto il mondo libero. La mia visita, su invito del Presidente Obama coincide con un momento che vede l’Europa al centro di perturbazioni monetarie e finanziarie che appaiono quasi un prolungamento della crisi globale scoppiata nel 2008. Ebbene, il messaggio che io desidero indirizzarvi a nome dell’Italia è un messaggio di rinnovata, convinta riaffermazione del valore delle relazioni transatlantiche e della validità del progetto di unità e integrazione europea. Potremo far fronte ai complessi problemi, alle molteplici sfide e minacce del nostro tempo, attraverso un crescente coinvolgimento di tutti i maggiori attori oggi presenti sulla scena mondiale nello spirito di una comune assunzione di responsabilità: ma innanzitutto tenendo ben viva e portando più avanti l’esperienza dell’impegno congiunto, in tutti i campi, dell’Europa e degli Stati Uniti. Questa è la convinzione, questa è la fiducia che certamente anima noi italiani. Non c’è bisogno di ricordare quali antichi e profondi sentimenti di amicizia leghino il popolo italiano al popolo americano. Le Americhe hanno accolto, fino alla prima metà del secolo scorso, milioni di emigranti italiani; e se rendiamo omaggio ai duri sforzi e sacrifici attraverso i quali essi hanno contribuito allo sviluppo, in particolare, degli Stati Uni-

ti divenendone cittadini meritevoli e anche esponenti di rilievo, esprimiamo nello stesso tempo immutata gratitudine per come gli emigrati italiani di prima generazione sono stati accolti e hanno potuto integrarsi nella società americana. Oggi operano negli Stati Uniti migliaia di nostri giovani, tra i quali ricercatori impegnati in studi ed esperienze di particolare valore. La nostra cultura e la nostra lingua sono alimento più che mai vivo di quella corrente di simpatia e di quella collaborazione diffusa che rendono così intenso e ricco il rapporto tra l’Italia e il popolo americano. Radici profonde hanno d’altronde la nostra gratitudine e la nostra amicizia per gli Stati Uniti nel ricordo della parte che ebbero le for-

ze armate americane, con un costo di vite umane ingente, nella liberazione del nostro Paese, e di tutta l’Europa, dal dominio nazista. Se mi è consentita una testimonianza personale aggiungerò che egualmente non posso dimenticare quale rapporto di compenetrazione e simpatia si stabilì tra la popolazione e le truppe americane che rimasero a lungo nella città di Napoli, dopo averla liberata il 1o ottobre 1943, e condivisero la drammatica condizione umana in cui la guerra l’aveva precipitata. Paese, e di tutta l’Europa, dal dominio nazista. Se mi è consentita una testimonianza personale aggiungerò che egualmente non posso dimenticare quale rapporto di compenetrazione e simpatia si stabilì tra la popolazione

e le truppe americane che rimasero a lungo nella città di Napoli, dopo averla liberata il 1o ottobre 1943, e condivisero la drammatica condizione umana in cui la guerra l’aveva precipitata. Al di là dei precedenti storici e dei sentimenti nazionali e personali, che ho voluto richiamare davanti a voi, è la realtà del mondo d’oggi che ci spinge a dire: attenzione, abbiamo cura delle relazioni transatlantiche, rafforziamole e portiamole avanti. Esse continuano a rivestire un’importanza fondamentale, anche se il mondo è cambiato e sta cambiando, anche se il baricentro degli affari internazionali si sta spostando lontano dall’Europa. L’esperienza di 60 anni dell’Alleanza Atlantica, la forza e la vitalità di questa organizzazione; il patrimonio delle relazioni intrecciatesi in tutte le sfere – tra Europa e Stati Uniti – al di là del comune impegno militare e politico imperniato nella NATO; e, last but not least, lo straordinario patrimonio di comuni principi democratici e di comuni valori umani, culturali, religiosi propri della civiltà europea reincarnatasi nel modello americano, ecco, queste sono risorse preziose oggi nel confronto con le realtà e i problemi del nostro tempo. Non penso si possa seriamente affermare che le relazioni transatlantiche contano ormai sempre meno. Naturalmente, perché le relazioni transatlantiche diano tutto il contributo che possono dare, è necessario che l’Europa faccia la sua parte. E per Europa non intendo “a collection of Nation-States” ma intendo una entità politica unitaria, e cioè l’Unione di 27 Stati membri scaturita da una Comunità di 6 paesi, tra i quali l’Italia, che nacque nei primi anni ‘50


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dello scorso secolo. La domanda che francamente mi pongo davanti a voi è però questa: l’Unione Europea è oggi all’altezza delle sue potenzialità e delle sue responsabilità? La mia risposta è che possiamo fare molto di più e molto meglio, se rafforziamo la nostra unità, se portiamo più avanti la nostra integrazione. E lo dimostrano gli avvenimenti di questi mesi e di queste settimane. L’Euro, la grande creazione della moneta unica europea, non sta crollando; chi parla di fine dell’Euro, fa un’affermazione superficiale, non seriamente fondata, esprime una propensione alle profezie catastrofiche o in qualche caso, forse, un wishful thinking. L’Europa sta vivendo una crisi che partendo dal caso estremo della Grecia ha investito l’intera Eurozona, ma si sta impegnando sempre di più per superarla. In effetti, dinanzi all’emergenza, l’Unione Europea si è trovata senza strumenti validi, senza meccanismi idonei per prevenire e risolvere una crisi simile; e ha esitato ad adottare misure straordinarie per scongiurare l’insolvenza del debito pubblico della Grecia e per fermare il rischio del contagio, l’attacco speculativo contro l’Euro come tale; ma infine misure forti sono state adottate dai governi e dalle istituzioni dell’Unione, e a ciò hanno corrisposto una coraggiosa decisione della Banca Centrale Europea e un importante contributo del Fondo Monetario Internazionale. Non nasconderò tuttavia i problemi non lievi che sono rimasti aperti. Occorre rafforzare il sistema – che ha dimostrato gravi falle – dell’Unione Economica e Monetaria: creando concretamente un meccanismo e un Fondo europeo di gestione delle crisi, prevenendo coraggiosa decisione della Banca Centrale Europea e un importante contributo del Fondo Monetario Internazionale. Non nasconderò tuttavia i problemi non lievi che sono rimasti aperti.

Occorre rafforzare il sistema – che ha dimostrato gravi falle – dell’Unione Economica e Monetaria: creando concretamente un meccanismo e un Fondo europeo di gestione delle crisi, prevenendo improvvise e acute emergenze attraverso una più efficace sorveglianza di bilancio, un più stretto controllo dell’Eurostat sull’elaborazione dei dati di finanza pubblica dei singoli Stati, la creazione di un’Agenzia di rating europea, l’istituzione di un board per i rischi sistemici e la vigilanza macro prudenziale. Percorrendo questa strada, l’Unione Europea concorrerà anche a quella nuova cornice di regole del sistema finanziario mondiale, cui sia gli Stati Uniti sia il G20 sia il Financial Stability Board stanno lavorando.

tempo ogni sforzo per promuovere lo sviluppo dell’economia europea, evitando rischi di deflazione, non recando danno ma contribuendo positivamente al rilancio dell’economia mondiale dopo la caduta del 2008-2009.

Per riuscire in questo sforzo certamente complesso e difficile nei suoi vari aspetti, e per esercitare un ruolo di rilievo nel mondo dinanzi agli sviluppi del processo di globalizzazione e all’emergere di nuovi grandi realtà nazionali e continentali, l’Europa deve compiere un deciso balzo in avanti sulla via dell’integrazione. Se si è ritardato ad adottare rimedi efficaci di fronte alla crisi greca, è perché da parte di alcuni Stati membri si è mostrata esitazione e riluttanza Essenziale è consolidare nel­ a mettere in atto strumenti comuni, l’Unione Europea il Patto di Stabilità ad attribuire maggiori poteri alle istie di Crescita, la stessa “cultura del- tuzioni europee. la stabilità”, bloccare l’aggravarsi del debito pubblico, del debito sovrano Gli squilibri che si sono manidegli Stati; compiendo nello stesso festati – andamenti divergenti non

solo delle politiche di bilancio ma delle politiche economiche nazionali – sono la conseguenza del fatto che troppe leadership nazionali hanno resistito nell’ultimo decennio a un effettivo, stringente coordinamento al livello europeo; hanno resistito ad allargare l’area delle politiche comuni dell’Unione, ad attribuire poteri adeguati alle istituzioni comunitarie, a conferire risorse più consistenti al bilancio dell’Unione. Ma ormai o si va avanti decisamente in questa direzione o l’Europa rischia una grave perdita di ruolo se non l’irrilevanza. Soltanto parlando con una sola voce e portando avanti una politica estera e di sicurezza comune l’Europa può contare nella politica internazionale. Solo mettendo insieme le sue risorse e le sue strutture per la difesa, superando assurde duplicazioni e compartimenti stagno tra Stati nazionali, l’Europa potrà elevare la produttività della sua spesa militare e assumersi le sue responsabilità per la sicurezza collettiva. In sostanza, è giunto per tutti il momento di riconoscere che nessuno Stato nazionale europeo, nemmeno i più forti, i più ricchi di tradizioni storiche, perfino imperiali, nemmeno i più ricchi ed economicamente avanzati, nessuno potrà con le sue sole forze contare come nel passato, se non contribuendo a costruire un’Europa più unita, integrata, efficiente e dinamica. europeo, nemmeno i più forti, i più ricchi di tradizioni storiche, perfino imperiali, nemmeno i più ricchi ed economicamente avanzati, nessuno potrà con le sue sole forze contare come nel passato, se non contribuendo a costruire un’Europa più unita, integrata, efficiente e dinamica. Parlare di Stati Uniti d’Europa è una eccessiva semplificazione. Federare Stati nazionali come quelli costruitisi in Europa nel corso di secoli e in alcuni casi divenuti potenti


imperi, è impresa ardua, che non a caso è stata – fin dalla nascita della prima Comunità, quella del carbone e dell’acciaio – enunciata solo in termini ideali. Invece, è stata concepita in termini concreti un’entità europea basata su una parziale rinuncia alle sovranità nazionali, e sull’esercizio di quote di sovranità condivisa, da parte di un’istituzione rappresentativa degli Stati nazionali – il Consiglio – e di istituzioni sovranazionali, come la Commissione e il Parlamento. Questa originale combinazione, definita come “Federazione di Stati nazione” o “Unione di Stati e di popoli”, si è dimostrata vitale, anche se tra molti alti e bassi. L’equilibrio istituzionale di questa entità chiamata Unione Europea deve ora decisamente spostarsi a favore delle componenti sovranazionali, a favore del metodo comunitario. Si tratta di impiegare a tal fine in modo conseguente tutte le potenzialità che presentano le innovazioni istituzionali sancite nel Trattato di Lisbona. Il chiudersi in logiche dettate dall’egoismo nazionale, da presunzioni di autosufficienza o di egemonia nazionale, sarebbe fatale per le sorti dell’Europa. Il “sogno europeo” – il sogno di un’Europa unita, capace di superare concezioni ristrette e ormai anacronistiche dell’interesse nazionale e del ruolo degli Stati nazionali – non è finito, non è sconfitto, non è condannato a finire nel nulla. Il suo punto di forza sta nel fatto che da “sogno” si è tradotto in necessità; da lungimirante disegno si è tradotto in un imperativo categorico nelle condizioni del mondo di oggi e nella prospettiva del mondo di domani. È importante, molto importante, che l’Europa venga spinta dall’altra sponda dell’Atlantico, venga stimolata e sollecitata dal grande amico e alleato americano a unirsi e integrarsi sempre di più, con sempre maggiore coerenza ed efficacia. Avete ragione

di chiederci di parlare con una voce sola, di presentarci, in quanto Unione Europea, come interlocutore coeso e affidabile, pronto ad assumersi le sue responsabilità sulla scena mondiale. L’Italia è stata tra i paesi fondatori della Comunità Europea più convinti e più conseguenti nel sostenere lo sviluppo del processo di integrazione. E da ultimo, dinanzi alla crisi greca, ha preso una posizione netta a favore di un impegno collettivo dell’Unione nella misura necessaria e ha usato tutta la sua influenza perché nel Consiglio Europeo si giungesse a un’intesa in quel senso. Nello stesso tempo, ci siamo in questi anni mostrati e ci stiamo oggi mostrando pienamente consapevoli della necessità di uno sforzo molto serio per bloccare e ridurre il nostro debito pubblico; quest’ultimo

18 è purtroppo molto ingente in cifra assoluta e in percentuale sul prodotto interno lordo (118,2 per cento) e deve, a partire dal 2012, iniziare una curva discendente. Va tuttavia rilevato che la situazione italiana è ben diversa da quella di altri paesi a forte indebitamento pubblico, non solo perché più della metà delle obbligazioni di Stato è nelle mani di italiani, ma perché l’Italia ha un indebitamento delle famiglie e delle imprese che è di gran lunga inferiore a quello di quasi assoluta e in percentuale sul prodotto interno lordo (118,2 per cento) e deve, a partire dal 2012, iniziare una curva discendente. Va tuttavia rilevato che la situazione italiana è ben diversa da quella di altri paesi a forte indebitamento pubblico, non solo perché più della metà delle obbligazioni di Stato è nelle mani di italiani, ma perché

l’Italia ha un indebitamento delle famiglie e delle imprese che è di gran lunga inferiore a quello di quasi tutti gli altri paesi e alla media europea. Accanto a questo, altri elementi positivi per l’Italia sono in questo momento costituiti da segnali di ripresa dell’economia e in particolare da una forte crescita delle esportazioni rispetto all’ultimo anno. Infine, l’Italia è impegnata attivamente a contribuire allo sviluppo della presenza internazionale e della politica estera e di sicurezza comune dell’Unione Europea. Vi contribuiamo tra l’altro con le risorse della nostra tradizionale amicizia con i paesi arabi, finalizzando i nostri sforzi al sostegno del processo di pace in Medio Oriente nel rispetto del diritto dello Stato di Israele a vivere in sicurezza. E alla presenza internazionale dell’Europa, contribuiamo con le decisioni del governo e del Parlamento, maggioranza e opposizione, a favore di una partecipazione – attualmente di circa 8 mila uomini e donne delle Forze Armate italiane – alle missioni dell’ONU, della NATO e dell’EU nelle aree di crisi, e in particolar modo in funzione della lotta contro il terrorismo. Siamo a fianco delle forze americane, sulle quali cade in così gran parte il peso e il sacrificio di questa lotta comune. Signora Speaker, signore e signori, a nome delle istituzioni democratiche e del popolo che ho l’onore di rappresentare nella loro unità, vi rinnovo l’espressione del leale impegno di un’Italia che affronta i suoi problemi e si assume le sue responsabilità avendo per punti di riferimento l’Europa unita, l’America che sentiamo come sempre amica e solidale, l’alleanza transatlantica e, nel segno di un nuovo e coerente multilateralismo, la comunità internazionale. Dall’indirizzo di saluto alla Joint Leadership Meeting presieduta dalla Speaker Nancy Pelosi. Washington 26 Maggio 2010


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L’Africa 50 anni dopo l’anno dell’Africa

Giampaolo Calchi Novati ’Africa ha celebrato nel 2010 i cinquant’anni d’indipendenza quando aveva tagliato da poco il traguardo del primo miliardo di abitanti. Non è solo una questione di spazi e di numeri, e neppure solo di risorse: oggi l’Africa conta sicuramente molto di più sulla scena mondiale rispetto a quel 1960, passato appunto alla storia, non senza un po’ di retorica, come l’“anno dell’Africa”. La massiccia spinta indipendentista trovò un riscontro immediato nelle risoluzioni approvate dall’Assemblea generale dell’Onu il 14 dicembre di quello stesso 1960 statuendo l’incompatibilità fra il colonialismo e la Carta delle Nazioni Unite. La questione del colore – aveva predetto William Burghardt Du Bois, uno dei padri del panafricanismo1 – “sarà la nota distintiva del Novecento”. Il rischio, allora non avvertito in tutta la sua dimensione perché l’euforia impediva un’esatta percezione dei rapporti di forza, era che l’indipendenza valesse più per le forme, o per i simboli, che non per la capacità reale dei nuovi attori africani di esercitare le responsabilità che sono proprie dello Stato, tanto più impegnative davanti al problema oggettivamente improbo di costruire valori e interessi condivisi dopo le lacerazioni del colonialismo

William Burghardt Du Bois (1868-1963), nato nel Massachusetts e membro attivo dei movimenti per i diritti civili degli Stati Uniti, elaborò un programma per lo sviluppo e l’unità dell’Africa mobilitando anzitutto la diaspora afro-americana.

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e gli strappi della decolonizzazione. In Africa, lo Stato post-coloniale ha preso vita più dall’accreditamento internazionale che dalla verifica imparziale del consenso all’interno. Nessuno sembrò rendersi conto quali e quanti vizi strutturali comportassero istituzioni inadatte a mobilitare le risorse per uno sviluppo generalizzato ed equanime, la violazione sistematica del principio che riserva all’autorità l’uso legittimo della forza, lo scarso controllo del territorio e delle frontiere. Le ferite inflitte ai neri dalla tratta degli schiavi, dal razzismo e dal colonialismo hanno terribilmente complicato il riscatto dell’Africa. La rappresentazione dell’Africa a livello mondiale metteva in dubbio le basi stesse della sua essenza. Nella lunga fase di avvicinamento dell’Africa all’indipendenza, l’emancipazione era concepita come un evento culturale e sociale che riguardava un’intera comunità umana al di là degli aspetti istituzionali e territoriali. Non si trattava solo di liberarsi da una dominazione politica. La premessa di tutto

era il recupero morale degli abitanti dell’Africa e dei neri ovunque si trovassero. Entravano in gioco ideali e immagini fuori della storia. I neri – “negri” nel linguaggio degli europei ma anche dei cultori della negritudine – sentivano su di sé il peso della maledizione biblica. Il grido che nell’era del nazionalismo e del liberalismo si levò dall’Africa e dagli africani, per usare le parole di Edward W. Blyden, suonava così: “Venite ad aiutarci”2. L’invocazione era rivolta in primis all’Europa e all’Occidente, ma nel disegno provvidenziale che aveva in mente Blyden la libertà non poteva venire che dall’Africa, dai neri, rielaborando nozioni

2 Edward Wilmot Blyden (1832-1912), originario delle Antille olandesi e formatosi negli Stati Uniti, fu un antesignano del panafricanismo e del nazionalismo africano. Blyden fu ministro della Chiesa presbiteriana, insegnante, diplomatico e uomo politico. Trasferitosi in Africa occidentale, operò sia in Liberia che in Sierra Leone.


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come dignità, popolo o autonomia. Le mete non erano solo l’autopromozione, l’indipendenza, ma la redenzione e la salvezza. I neri sarebbero stati più utili in Africa e l’Africa sarebbe stata rigenerata da africani. Se gli abolizionisti erano i combattenti e i politici, i coloni neri inviati dall’America potrebbero essere dipinti come i profeti e filosofi. Lo strumento impiegato da Du Bois per promuovere l’emancipazione dei neri e dell’Africa fu una serie di Congressi internazionali che incominciarono nel 1919 in concomitanza con la Conferenza della pace a Versailles: da un lato abituarono gli intellettuali e attivisti afro-americani a cimentarsi con le questioni del progresso e della libertà dei possedimenti africani delle potenze coloniali, dall’altro portarono l’Africa all’attenzione della diplomazia internazionale. Il panafricanismo è stato il brodo di coltura del nazionalismo africano. Molti dirigenti e militanti attingevano alla lezione del grande intellettuale caraibico C. L. R. James (1901-1989), oriundo di Trinidad, pioniere del movimento panafricanista e storico della rivoluzione a Santo Domingo all’inizio del Novecento3. Era originario di Trinidad anche George Padmore (1902-1959), un altro campione del panafricanismo4. Nel clima prevalente ancora nel secondo dopoguerra, era naturale che gli ideali indipendentisti dei singoli partiti nazionalisti all’opera nei territori africani fossero coniugati in una prospettiva unitaria. Kwame Nkrumah, precursore dell’indipendenza africana e futuro presidente del Ghana, era cosciente che non era concepibile per l’Africa la libertà in un solo paese. Il quinto dei Congressi panafricani organizza-

3 C[yril) L[ionel] R[obert] James, The Black Jacobins, Vintage Books, New York 1989 [1938].

L’opera più importante di George Padmore è Pan-Africanism or Communism? The coming struggle for Africa, Dennis Dobson, London 1962.

ti da Du Bois si tenne a Manchester nell’ottobre del 1945: lo presiedette Du Bois con Padmore e Nkrumah come segretari. Il compito esclusivo della diaspora poteva dirsi concluso. Il testimone passò senza altre intermediazioni ai nazionalisti africani impegnati sul terreno: “Invece di un movimento alquanto nebuloso, interessato vagamente al nazionalismo nero, il movimento panafricano era diventato un’espressione del nazionalismo africano. A differenza dei primi quattro Congressi, che erano stati sostenuti fondamentalmente da intellettuali del ceto medio e da riformisti borghesi, il V Congresso panafricano vide la partecipazione di lavoratori, sindacalisti, coltivatori e studenti, molti dei quali venivano dall’Africa”5. Nella realtà, tuttavia, la precedenza sarà data alle specificità delle “piccole patrie” appagando intanto i disegni nazionali e le ambizioni

delle burocrazie locali. Specialmente l’Africa francese subì un processo di frammentazione che Senghor definì “balcanizzazione” mettendo sotto accusa gli intenti speculativi a favore della potenza coloniale. Una causa fondamentale del sottosviluppo e dell’instabilità cronica in Africa è imputabile proprio alla debolezza strutturale dello Stato africano. L’unità dell’Africa divenne un tema da riprendere in futuro con gli strumenti e i dosaggi della diplomazia lasciando cadere l’ispirazione metapolitica. Secondo lo storico ghanese Albert Adu Boahen, che ha presente soprattutto il contesto africano, il nazionalismo fu un sottoprodotto “accidentale” del colonialismo, in cui, accanto a quelle positive, sono particolarmente evidenti le componenti negative di ogni nazionalismo: rabbia, frustrazione e umiliazione6. Anche le potenze europee impegnate nella liquidazione dei

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Albert Adu Boahen, African Perspectives on Colonialism, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1987.

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Kwame Nkruma, Africa Must Unite, Heinemann, London 1963, p. 135. 5

loro imperi preferivano comprensibilmente la decolonizzazione paese per paese per non trovarsi di fronte un continente come l’Africa, l’islam o il mondo arabo. Al nazionalismo va riconosciuto comunque il merito di aver consolidato lo Stato così com’era impedendo l’insorgere di forze centrifughe con effetti ancora più distruttivi. Il prodigio del nazionalismo africano è di aver fatto credere con un qualche successo che lo Stato creato dal colonialismo – che era essenzialmente uno Stato “territoriale” – fosse o potesse diventare una nazione. Anche Sékou Touré, che guidò all’indipendenza la Guinea, il solo possedimento dell’Africa occidentale francese che osò votare “no” nel referendum gollista del 1958, dovette ammettere che, costruito lo Stato, restava da costruire la nazione. Il 1960 fu l’apogeo delle indipendenze “dall’alto”, con poca partecipazione e pochissime riforme effettive. Nel breve spazio di pochi mesi 17 Stati, 14 dipendenze della Francia, più Nigeria, Congo belga e Soma-


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lia7, raggiunsero la sovranità. Tutti, con l’eccezione della Mauritania, su cui gravavano le rivendicazioni del Grande Marocco, furono ammessi all’Onu nel corso dell’anno dando un impulso straordinario al gruppo afroasiatico. L’Africa aveva conosciuto un decennio di crescita e l’ottimismo era di rigore. Per il soffio impetuoso del “vento del cambiamento”, come disse il primo ministro conservatore inglese Harold Macmillan parlando al parlamento sudafricano8, regioni

La Repubblica di Somalia con capitale Mogadiscio nacque dalla fusione fra la Somalia italiana e il Somaliland britannico.

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Sarebbe stato in Ghana, dove fu in visita dal 6 al 10 gennaio 1960, che il primo ministro inglese Harold Macmillan coniò dentro di sé la famosa frase sul wind of change che avrebbe scandito al parlamento di Città del Capo il 3 febbraio successivo per scuotere il Sud Africa dal razzismo, suscitando una vasta eco in tutto il mondo: amo credere, scrive Nkrumah, che la permanenza di Macmillan in Ghana lo aiutò a cogliere il senso della nuova Africa (Kwame Nkrumah, I Speak of Freedom. A Statement of African Ideology, Heinemann, London 1961, pp. 203-205 [per un errore materiale nel testo con8

vastissime con risorse inestimabili e popolazioni in rapida crescita si affacciavano a nuove possibilità di sviluppo. L’impulso fondamentale veniva dalla domanda di libertà dei popoli colonizzati e anzitutto di una classe dirigente nazionale che si era formata alla scuola del pensiero occidentale e che si trovava a suo agio con gli istituti formalizzati, introdotti spesso in extremis e mai veramente collaudati. Le gerarchie consuetudinarie, che pure avevano conservato un potere diffuso su delega delle autorità coloniali per assicurare il controllo sociale a livello locale, furono accantonate, a costo di aprire una frattura fra due ordini politici e in ultima analisi due modelli di Stato. La lotta contro il colonialismo si presentava nella forma di una rivoluzione. L’appoggio della popolazione era necessario per tener testa alle potenze europee e le élites vi facevano affidamento senza sultato, a p. 203, la data riportata per la visita di Macmillan è gennaio 1950]).

per questo abbandonare la direzione del processo e soprattutto senza fare troppe concessioni alle rivendicazioni che premevano “dal basso”. La premessa – la sostanziale “piattezza” della società africana in termini di classi – tornava tutta a favore dei gruppi dominanti. Sarà questa l’accusa che verrà scagliata contro la negritude in quanto teoria di conservazione da autori come il cubano René Depestre o il nigeriano Wole Soyinka9. Anche un dirigente sociali9 “Per voler difendere, ad ogni prezzo, le nostre civilizzazioni, abbiamo finito per cristallizzarle, per mummificarle”, scrive Paulin Hountondji, che altrove riconosce che “la tradizione non esclude ma implica al contrario, necessariamente, un sistema di discontinuità” (per la prima citazione, Combat pour le sense: un itinéraire africain, Le Flamboyant, Cotonou 1977, pp. 43-44 e per la seconda Sur la philosopie africaine, Maspero, Paris 1976, p. 28). Fanon era consapevole che la negritude era stata sfruttata dalle élites per occultare le gerarchie sociali, ma nella sua interpretazione la negritudine non voleva recuperare un ieri idealizzato bensì mobilitare nel presente i popoli africani al riscatto dalla sottomissione al colonialismo e all’alienazione e per questo ammoniva neri e bianchi a non farsi imprigionare

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steggiante come Julius Nyerere amava ripetere che tutti gli africani erano have-nots, impegnati a misurarsi con un sistema di potere di origine straniera (il colonialismo e il neo-colonialismo) da intendersi come la sintesi degli haves10. La lotta di classe era ritenuta estranea alle tradizioni africane anche da Nkrumah, almeno fino al ripensamento maturato dopo aver sperimentato dal vivo l’opera del neo-colonialismo11. Senza paura di andare contro corrente, il francese René Dumont, un agronomo che si spese come consigliere di molti governi africani, denunciò la falsa partenza di Stati che non solo avevano pochi poteri ma che per di più si fondavano sulla fiducia di un ceto urbano poco o nulla rappresentativo di una popolazione formata in stragrande maggioranza da contadini12. La decolonizzazione che culminò nel cosiddetto “anno dell’Africa” fu un trapasso relativamente indolore se si esclude il caso del Congo belga, uno Stato di grosse dimensioni e dotato di immense ricchezze, ossessionato dai ricordi letterari del conradiano “cuore di tenebra”13. Che il Congo belga fosse un caso speciale lo si intuì dai tempi e dalle modalità con cui fu impostata la sua decolonizzazione. A metà degli anni Cinquanta nella “torre sostanzializzata del Passato. […] Non c’è una missione negra; non c’è un fardello bianco. […] Io non sono schiavo dello schiavo che disumanizzò i miei padri” (Frantz Fanon, Peaux noires, masques blancs, Seuil, Paris 1972, pp. 183 e 186). 10 Julius Nyerere, Socialismo in Tanzania, Istituto affari internazionali, il Mulino, Bologna 1970.

Nkrumah dedicherà uno studio apposito al significato e alle implicazioni del neo-colonialismo (Kwame Nkrumah, Neo-Colonialism. The Last Stage of Imperialism, Heinemann, London 1965). 11

12 René Dumont, L’Afrique noire est mal partie, Seuil, Paris 1962.

Molto istruttiva è la lettura di Adam Hochschild, Gli spettri del Congo, Rizzoli, Milano 2001. Il famoso testo di Conrad è disponibile in molte traduzioni italiane, per esempio: Joseph Conrad, Cuore di tenebra, Garzanti, Milano 1990 (traduzione di Luisa Saraval).

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il governo di Bruxelles dichiarò irrealizzabile perché troppo sbrigativo un piano per portare il grande possedimento dell’Africa centrale all’indipendenza in 30 anni. Ai primi segni di turbolenza, nel 1958-59, subentrò il panico. Bruxelles non voleva correre l’alea di una guerra civile che avrebbe avuto ripercussioni devastanti in una società già alle prese con un inasprimento della tradizionale rivalità fra valloni e fiamminghi a causa del processo di impoverimento della regione francofona. Prevalse così l’opzione dell’indipendenza subito e nel 1960 furono convocate per la prima volta elezioni generali. Ne emerse una specie di binomio al vertice fra Patrice Lumumba, capo del governo e astro nascente di un radicalismo quasi solo elitario, e il presidente della Repubblica, Joseph Kasavubu, esponente del nazionalismo su base etnico-regionale. Lumumba scoprì la sua vocazione nel discorso pronunciato alla cerimonia del passaggio delle consegne. Davanti a un re Baldovino sbigottito e via via sempre più irritato, il capo del governo del Congo ricordò senza mezzi termini le violenze subite durante il colonialismo: “Tutto ciò è ormai finito. […] Faremo regnare non la pace dei fucili e delle baionette, ma la pace dei cuori e della buona volontà”. La visita di re Alberto II a Kinshasa (la ex-Léopoldville) per le feste del Cinquantenario ha chiuso il cerchio. A pochi giorni dall’indipendenza, il Congo sprofondò nella guerra civile per la decisione di Moïse Tshombe, presidente del Katanga, la provincia più ricca, di proclamare la secessione. Dietro a quel gesto si intuiva un accordo tacito con l’ex-potenza coloniale e il capitalismo mondiale14. Le truppe belghe si dimostrarono fin troppo pronte a intervenire con

14 Una ricostruzione molto ben documentata del contesto internazionale in Maria Stella Rognoni, Scacchiera congolese. Materie prime, decolonizzazione e guerra fredda nell’Africa dei primi anni Sessanta, Polistampa, Firenze 2003.

la scusa di proteggere i cittadini europei rimasti nel paese. Il Congo era esattamente sul crinale fra l’Africa in via di decolonizzazione e l’Africa “utile” che doveva essere preservata per la sicurezza dei coloni bianchi e le fortune dei colossi finanziari e minerari. L’Onu vide nella crisi del Congo lo spunto per esordire nella funzione di padrino dei popoli in via di sviluppo e di garante della decolonizzazione (un compito che diverrà abituale utilizzando i bilanciamenti del sistema bipolare). Il segretario generale, lo svedese Dag Hammarskjöld, un politico sensibile e ambizioso, si immedesimò in quella sfida ma nonostante le buone intenzioni il risultato finale fu disastroso. Hammarskjöld si illudeva di aver trovato una funzione per la massima organizzazione internazionale schivando le tensioni UsaUrss. Gli sfuggiva che anche l’Africa, ultima venuta e rimasta parzialmente fuori dai blocchi militarizzati, era, come tutta la Periferia, parte della confrontazione Est-Ovest. La guerra civile in Congo fu la spia degli espe-

dienti con cui era stata imbavagliata la decolonizzazione. Quando l’ipotesi della secessione rientrò, Lumumba era stato ucciso e il Congo si era rassegnato alla “normalità” neocoloniale15. Lo stesso Hammarskjöld perì in un incidente aereo mentre era impegnato in una frenetica “navetta” fra le varie capitali per negoziare una via d’uscita16. Come detto, l’indipendenza dell’Africa spinse l’Onu ad applicare davvero il principio dell’universalità uscendo dall’impostazione occidentalista che l’aveva segnato alla nascita (gli Stati membri nel 1945 venivano pressoché tutti dall’Europa e dell’America). La Carta di San Francisco citava ampiamente i po-

15 Il testo più recente e più completo sulle vicende è Ludo De Witte, L’assassinat de Lumumba, Kathala, Paris 2000. 16 L’incidente avvenne il 18 settembre 1961. Nessuna prova è mai stata trovata su un presunto attentato ma i dubbi sono rimasti. Pochi mesi prima era stato assassinato Lumumba nel Katanga.


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poli ma era stata concepita per gli Stati costituiti. In materia di colonialismo o anti-colonialismo, anche la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata dall’Assemblea generale dell’Onu nel 1948 non si spinge oltre indicazioni meramente programmatiche. L’universalismo eurocentrico non si è mai completamente dissolto e si è riproposto con vigore rinnovato dopo la fine della guerra fredda sulla scia della “vittoria” dei precetti liberal-democratici e il collasso del sistema socialistarivoluzionario. Fin dall’inizio gli Stati di nuova indipendenza considerarono comunque l’Organizzazione delle Nazioni Unite come un alleato nei loro sforzi per non essere inghiottiti senza scampo nello scontro fra le grandi potenze. Dalla Conferenza di Bandung dell’aprile 1955 in poi l’Africa parteciperà con trasporto a tutte le espressioni della collaborazione terzomondiale, portando nel movimento dei non allineati la causa della lotta contro il colonialismo e il razzismo. L’Africa faticò, per la debolezza intrinseca di molti dei suoi Stati, a coordi-

narsi con la strategia per un Nuovo ordine economico internazionale che fu lanciato dal Terzo mondo dopo il boom dei prezzi del petrolio nel 1973 come contraccolpo della guerra del Kippur e insistette più sull’aiuto che sulla riforma del sistema. A posteriori, la decolonizzazione può apparire come la razionalizzazione di un processo finalizzato al riassetto del potere al vertice più che alla base. Nella prospettiva CentroPeriferia, la decolonizzazione non rappresenta la fine dell’interdipendenza ineguale e se mai la cristallizza nel divario sul piano politico e soprattutto economico. Il colonialismo aveva concentrato le prerogative della sovranità in un numero esiguo di Stati europei, negando ai paesi dell’Asia, dell’Africa e del mondo arabo l’identità e i diritti di nazioni. Con le indipendenze dei territori coloniali si moltiplicava il numero dei soggetti della politica mondiale. Il potere ordinativo del mercato prendeva il posto delle altre forme di dominio. Non era certo alla portata dei paesi africani e del Terzo mondo in generale la dispo-

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nibilità dei capitali, della tecnologia e della manodopera nei processi di accumulo e produzione all’insegna del capitalismo. Faceva difetto un po’ a tutti i beneficiari della decolonizzazione, e soprattutto ai governi africani, una strategia coerente e consapevole della transizione. Il Sud del mondo era stato una specie di retroterra dell’Europa e dell’Occidente. Gli Stati Uniti si proponevano come capofila supremo del cosiddetto “mondo libero”, dei paesi organizzati secondo il mercato, in antitesi con l’economia di comando vigente nell’Unione Sovietica e nei paesi dell’Est. Dal canto suo, Mosca appoggiava l’antimperialismo, la rivoluzione e il socialismo nei paesi emergenti, ma non aveva gli strumenti per stabilire un’interazione operativa con i paesi in via di sviluppo non essendo uno sbocco prioritario per i loro prodotti e non avendo i capitali e la tecnologia di cui essi avevano un urgente bisogno. Il Terzo mondo – una pletora disorganica di paesi di diversa estrazione e variamente dislocati nella scala di potere a livello internazionale17 – era una riserva economica e strategica, il luogo deputato della contesa fra due ideologie e due blocchi che avevano la pretesa di essere universali. Le nazioni del Terzo mondo non erano consegnate di fatto o di diritto all’influenza dell’una o dell’altra superpotenza. L’“ordine di Jalta”, che presupponeva confini invalicabili e alleanze stipulate in forma debita, garantite con la persuasione o con la forza, non poteva essere esportato impunemente fuori dell’Europa18. Al contrario, la decolonizzazione era

17 L’origine della locuzione Terzo mondo (tiersmonde) si deve all’economista e demografo francese Alfred Sauvy in un articolo apparso su “L’Observateur”. Al pari del Terzo stato, il Terzo mondo era eterogeneo ed esprimeva una rivendicazione nei confronti dei due stati (o mondi) dominanti (Vijay Prashad, The Darker Nations. A People’s Hisytory of the Third World, The New Press, New York 2007, p. 11). 18 André Fontaine, Histoire de la guerre froide, Fayard, Paris 1965-1967, vol. I, p. 269.


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essa stessa movimento. Nel Terzo mondo sono possibili mutamenti di regime o addirittura spostamenti da uno schieramento all’altro. In Africa, il solo riparo, parziale, veniva dal primato che Washington riconosceva in tema di “sicurezza” ai suoi maggiori alleati, Gran Bretagna e Francia, nella loro veste di potenze o ex-potenze coloniali. Gli Stati Uniti si riservavano di agire e persino di intervenire solo dove il colonialismo non aveva lasciato dietro di sé l’armamentario che consente di praticare il neo-colonialismo. Era il caso in particolare dei possedimenti di Belgio, Portogallo e Italia. È stato soprattutto nel bacino del Congo (Congo-Zaire, Angola) e nel Corno (Somalia, Etiopia) che le interferenze della guerra fredda sono state più lampanti. Nell’ordine mondiale post-bipolare anche il “cortiletto” della Francia (il pré-carré rappresentato dal suo impero in Africa occidentale e equatoriale) si è aperto alla competizione libera: la svalutazione del franco Cfa decisa nel 1994, accogliendo finalmente le reiterate sollecitazioni della Banca mondiale per facilitare l’export, fu una specie di spartiacque fra un “prima” e un “dopo”. Pressoché scomparsa la già debole intelaiatura creata dalla Russia quando era Urss, erano gli Stati Uniti ormai a candidarsi come il partner più convincente. I favori dell’unica superpotenza del sistema post-bipolare sono ovviamente graditissimi se si sogna di inserirsi alle condizioni migliori negli interstizi della globalizzazione. I gruppi dirigenti che cercano di normalizzare le istituzioni e di rispettare almeno sommariamente il principio del rule of law hanno rotto con il colonialismo, il neo-colonialismo e lo stesso anti-colonialismo. Essi appartengono a un contesto postcoloniale. Soprattutto nella regione che dal Corno si spinge verso l’Africa centrale fino al sempre bramato Congo, si è prodotta una vera mutazione a livello di governo. Al posto di regimi che coltivavano il caos come rimedio all’impotenza dello Stato e alla man-

canza di risorse da distribuire, intanto ai propri clienti, sono arrivati al potere governi disposti a interpretare gli interessi dei ceti in crescita, che credono, fosse pure a proprio profitto, nelle regole dell’internazionalizzazione, puntando di nuovo al “riconoscimento” delle alte sfere. La scena africana è tutt’altro che stabilizzata. Conflitti e colpi di Stato sono sempre all’ordine del giorno. La guerra scoppiata nel 1998 fra Eritrea e Etiopia, formalmente per una disputa sul confine, fu un segnale particolarmente inquietante visto che i due paesi del Corno passavano per essere fra i capisaldi del “nuovo ordine”. Resta il fatto che il ricambio generazionale e sociologico avvenuto in paesi come il Ruanda, l’Uganda, forse la Nigeria e, con molti interrogativi, il Congo-Zaire, oltre all’Etiopia (l’Eritrea rischia di finire nel novero degli Stati “falliti”), ha rappresentato un salto di qualità effettivo e duraturo. Il termine di riferimento degli Stati africani è sempre di più e sempre più chiaramente l’America. Si deve agli aiuti finanziari dei grandi organismi internazionali e all’assistenza soprattutto in campo militare degli Stati Uniti se paesi relativamente piccoli come il Ruanda e l’Uganda possono aspirare a esercitare una politica di potenza in una regione cruciale come quella dei Grandi Laghi, che rigurgita di risorse economiche e strategiche. Un grosso inconveniente dal punto di vita dell’etica politica e dell’emulazione virtuosa è che in Africa le guerre hanno cambiato il panorama politico molto più delle elezioni. Anche dove si sono tenute elezioni multipartitiche e relativamente libere, esse si sono ridotte spesso al confronto fra due personalità o due partiti che rappresentavano uno stesso, circoscritto gruppo di potere e quasi sempre l’esito della consultazione si è deciso su basi regionali o etniche invece che su alternative fra programmi diversi. È con le guerre che si sono affermati i governi più risoluti a chiudere con un passato fatto di instabilità, con-


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flittualità e illegalità. Gli Stati Uniti, con una forzatura, hanno salutato a suo tempo questi governi come “democratici”19. Ma essi non sono democratici in senso proprio. Molto più semplicemente, praticano il libero mercato come discepoli diligenti delle ricette della Banca mondiale. Un regime che nasce dalla forza è probabilmente portato a confidare nella forza per affrontare le scadenze più

L’Africa subsahariana è la regione del mondo a cui tutti istintivamente pensano quando si parla di aiuto allo sviluppo. Tra il 1960 e il 1990, in un arco di tempo che viene generalmente considerato come tutto e solo negativo, sono stati raggiunti risultati notevoli nel campo della mortalità infantile, della scolarizzazione della popolazione femminile, della produttività agricola, ma nel complesso

ardue che via via si presentano. Fra sviluppo e democrazia c’è un rapporto virtuoso ma è difficile stabilire empiricamente quale dei due fattori sostenga l’altro.

l’Africa ha fatto registrare le performances più deludenti. A fronte di un aumento degli aiuti, il continente ha sperimentato (fino alla fine del Novecento, perché nel Duemila ci sono stati alcuni anni molto positivi) una diminuzione del tasso di crescita del Pil individuale. L’impatto degli aiuti sulla crescita, del resto, non è provato, continuo e costante. Nei paesi del Sud che hanno conosciuto un balzo in fatto di crescita, produzione e commercio, la cooperazione allo svi-

19 L’Uganda fu una delle tappe più significative di Bill Clinton nel corso del suo viaggio africano del 1998 e a Kampala il presidente americano promosse l’elaborazione di una dichiarazione sulla democrazia e contro il genocidio che non impedirà altre guerre e altre violazioni dei diritti umani da parte degli stessi paesi firmatari.


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luppo non è stata determinante. Con l’irruzione di Cina, India e Brasile, ma anche dei paesi del Golfo e dei Fondi arabi e islamici il monopolio occidentale è finito. Anche per l’Africa è scoccata l’ora della nuova cooperazione Sud-Sud come complemento o alternativa della globalizzazione nella versione imposta dall’Occidente. Sulla scena continentale si è affermato il Sud Africa, il solo paese africano a far parte del G20. Il sistema mondiale è troppo diverso da quello degli anni Cinquanta per immaginare un remake di Bandung20, quando il bipolarismo teneva uniti i paesi del Centro capitalista (gli Stati Uniti, l’Europa occidentale, il Giappone) e d’altra parte il conflitto politico ed economico per la liberazione e lo sviluppo vedeva uniti i paesi d’Asia e d’Africa contro il campo imperialista. Oggi. una politica afroasiatica è destinata a essere meno ideologica e meno esclusiva. Il senso di fratellanza che aleggiava a Bandung nel 1955 o ad Algeri nel 1973 appartiene a un altro tempo. Anche l’ultimo fattore comune, il sottosviluppo, non è in realtà più lo stesso per tutti i paesi del Sud. Se il Sud conserva ancora interessi comuni, la dimensione Sud-Sud presenta essa stessa discrasie e disparità. Si conferma che superare l’asimmetria è il

20 Nel 2005 c’è stata in verità una celebrazione dei cinquant’anni di Bandung, ma alla riunione convocata a Djakarta non parteciparono sol rappresentanze di associazioni, partiti e movimenti e non delegazioni ufficiali dei paesi afro-asiatici.

presupposto minimo per una cooperazione che promuova uno sviluppo reale. La combinazione fra aumento dei prezzi di alcune materie prime e la contemporanea riduzione dei prezzi dei manufatti penalizza molti paesi in via di sviluppo dell’America latina e tanto più dell’Africa. La situazione dell’Africa a sud del Sahara (e delle altre regioni più sfavorite dell’Asia meridionale e dell’America centro-meridionale) è peggiorata nonostante gli aiuti elargiti. E questo è un solido argomento in mano a chi auspica una diminuzione o addirittura l’abolizione dell’Aps (aiuto pubblico allo sviluppo, Oda nell’acronimo inglese) o quanto meno l’ impiego di quelle stesse risorse in altre direzioni (per esempio in campo commerciale). La corruzione è l’argomento che ricorre più spesso nelle requisitorie contro l’aiuto. Per amore di liberismo, ma non solo, si arriva a criminalizzare l’aiuto quasi che esso rappresenti un “controsviluppo” da esorcizzare, si sarebbe tentati di dire senza pietà, perché il vero incentivo dello sviluppo va cercato nel mercato e quindi in un ambito non inquinato dal flusso di aiuti o anche solo dalla prospettiva che alla fine saranno i soccorsi dall’esterno a risolvere emergenze, sottosviluppo e povertà. La lobby anti-aiuti ha trovato appigli anche in opere che provengono dal Sud. Sensazione hanno destato, fra i tanti i libri che voltano e rivoltano la questione dell’aiuto, i saggi di due donne africane: Wangari Maathai, cittadina del Kenya, insignita nel 2004 del Premio Nobel per la Pace in riconoscimento delle sue

battaglie per i diritti umani e a difesa dell’ambiente21, e Dambisa Moyo, originaria della Zambia e laureata a Harvard, che ha lavorato alla Banca mondiale e in altri istituti finanziari in America22. Sia l’una che l’altra fanno a pezzi la politica dell’aiuto all’Africa così come è stata gestita finora e sostengono che provochi più danni che vantaggi. La scelta del mercato non esclude peraltro che lo sviluppo possa dare frutti sociali come istruzione e sanità gratuite23. Altri testi si limitano a proporre una drastica riconsiderazione delle modalità dell’aiuto, tanto più necessaria da quando non sono più solo gli Stati occidentali a fornirlo, con l’intento anzitutto di restituire più potere e più responsabilità ai paesi beneficiari24. Lo Stato africano indipendente è un insieme complesso. In esso convivono dinamiche, codici e modi di

21 Wangari Maathai, The Challenge for Africa, Pantheon Books, New York 2009. Il libro critica la dipendenza dagli aiuti, ma non esclude la necessità di flussi finanziari a titolo benevolo dall’esterno, purché non mettano in pericolo, con una crescita non governata, l’ambiente e le tradizioni della società africana.

Dambisa Moyo, Dead Aid, Penguin Books, London 2009. Il libro è nettamente contrario all’assistenza esterna, ritenendola alle radici del sottosviluppo dell’Africa, della corruzione e dell’irresponsabilità dei governi nazionali.

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23 Nel suo libro (Dead Aid, cit., p. 73), Dambisa Moyo usa questa formula: strumenti di libero mercato al servizio di valori socialisti. 24 William Easterly (ed.), Reinventing Foreign Aid, The Mit Press, Cambridge 2008; Lindsay Whitfield (ed.), The Politics of Aid. African Strategies for Dealing with Donors, Oxford University Press, New York 2009.

produzione che in parte sono di derivazione europea e in parte riflettono la storicità africana. Invece della mancanza di Stati – un classico della letteratura colonialista – l’Africa soffre se mai di una sovrabbondanza di istituzioni. La cultura originale evolve e cambia per effetto delle contaminazioni dello sviluppo e della modernizzazione, ma riaffiora di continuo in pratiche che seguono la consuetudine o nei revivalismi etnici. La sovranità di tipo convenzionale vale soprattutto verso l’esterno. All’interno sopravvivono sfere di appartenenza e quindi di giurisdizione che ricalcano piuttosto la tradizione. La tesi che liquidava lo Stato post-coloniale con le categorie del neo-colonialismo e della dipendenza si è rivelata semplicistica e in ultima analisi sbagliata. Se le istituzioni centrali e formali rappresentano immancabilmente il “regno dell’importato” – ed è questa la dimensione più visibile – il comportamento dell’individuo nella società e specialmente nella vasta area dell’informale rappresenta di più il “regno dell’indigeno”. Non esiste del resto una dicotomia netta fra i due ordini. Gruppi dirigenti e popolazione si muovono in una stessa società. I processi di democratizzazione, pur imperfetti, comportano un’ulteriore ibridazione non foss’altro perché con il decentramento le diverse funzioni si intersecano con rimandi reciproci in settori cruciali come la giustizia e la normativa sulla terra.

Professore di Storia dell’Africa, Università di Pavia e Roma La Sapienza e Senior Research Fellow, ISPI



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30 Anna Maria Tarantola

IL RAPPORTO DELLA BANCA D’ITALIA

L’ECONOMIA DELLA CAMPANIA […] Il rapporto esamina l’economia di una importante regione meridionale. Al Mezzogiorno la Banca d’Italia ha dedicato una particolare attenzione, soprattutto in questi ultimi anni; è un’area troppo grande perché il paese possa permettersi di trascurarne l’importanza sotto i profili macroeconomico e della coesione sociale. La nostra economia stenta a progredire. In assenza di un incremento della produttività, di un aumento della partecipazione al lavoro, vi sono rischi per la solidarietà intergenerazionale, che possono derivare, per esempio, dall’invecchiamento della popolazione. Vi è la necessità di aumentare il tasso di sviluppo del paese, puntando su tutte le risorse che possono essere mobilizzate. E nel Mezzogiorno ve ne sono in abbondanza. Nel novembre scorso abbiamo presentato a Roma i risultati di una vasta ricerca sul Mezzogiorno1 che si è concentrata sulle carenze di capitale sociale (inteso come insieme di norme e regole condivise che facilitano la cooperazione tra i membri di una società), sui divari di competitività nei mercati dei beni e del lavoro, sul capitale pubblico, sul ruolo del sistema finanziario, sull’efficacia degli aiuti alle imprese, sul ruolo della finanza pubblica e delle politiche regionali. Una particolare attenzione è stata dedicata alla valutazione della qualità di importanti servizi pubblici: istruzione, sanità, giustizia civile, servizi pubblici locali. Le carenze nella disponibilità di buoni servizi influenzano infatti pesantemente la qualità della vita nelle regioni meridionali e il processo di convergenza economica. L’Università Federico II di Napoli nello scorso aprile ha organizzato un convegno in cui sono stati discussi alcuni risultati delle nostre ricerche, assieme ad altri lavori scientifici, che hanno contribuito a stimolare il dibattito sui problemi del Mezzogiorno. Colgo l’occasione per ringraziare tutti coloro che hanno contribuito a realizzare quell’iniziativa. Sono lieta che oggi la presentazione del rapporto

regionale sulla Campania sia ospitata dalla stessa Università. Il lavoro che viene illustrato oggi è un segnale dell’attenzione che la Banca d’Italia continua ad avere per il territorio, anche dopo il recente riassetto della rete territoriale, effettuato con successo, con la chiusura di alcune filiali e la ristrutturazione di altre. Il riassetto ha reso la rete territoriale più aderente per struttura e compiti alla domanda di servizi da parte della clientela, sfruttando a pieno le possibilità offerte dalle nuove tecnologie e modificando radicalmente le tradizionali operazioni di sportello. La ristrutturazione non ha significato “abbandonare” il territorio, né sul piano della vigilanza, né su quello della ricerca economica. Vi è un impegno della Banca verso il rafforzamento della capacità di analisi economica a livello territoriale.

La congiuntura recente La crisi economico-finanziaria ha duramente colpito l’economia italiana in tutte le sue articolazioni territoriali. Il PIL è caduto del 5 per cento in Italia; di poco meno nel Mezzogiorno, ma soltanto grazie alla maggior rilevanza in quest’area del settore dei servizi, relativamente meno esposto agli effetti della crisi2. All’interno dei singoli comparti dell’industria e dei servizi, la flessione dell’attività produttiva nel meridione è stata analoga a quella del Centro Nord. L’elevata incertezza e un basso grado di utilizzo della capacità produttiva hanno portato le imprese italiane a ridurre gli investimenti, scesi del 15 per cento nel 2009; il calo è stato più contenuto nei servizi, soprattutto nel Mezzogiorno. Al netto dei prodotti petroliferi, le esportazioni meridionali, già modeste in quantità nel confronto nazionale, si sono ridotte nel 2009 del 25 per cento (5 punti più che nel Centro Nord), con una peg-


31 giore performance nei settori tradizionali (tessile, abbigliamento, cuoio, calzature e mobilio) e senza evidenti spostamenti verso i più dinamici mercati di sbocco extra-europei. Nel mercato del lavoro si è manifestata la maggiore fragilità del Sud. La generalizzata contrazione delle ore di lavoro nel 2009, dovuta alla crisi, si è tradotta in una caduta del 3 per cento dell’occupazione nel Mezzogiorno. Il calo nel Centro Nord è stato inferiore (-1,1 per cento), anche per il più elevato ricorso alla Cassa integrazione guadagni. Soprattutto nel Mezzogiorno, la riduzione si è concentrata tra le figure marginali e più deboli sul mercato del lavoro: i lavoratori con un contratto temporaneo, quelli con un basso livello di istruzione, i giovani. Gli occupati in possesso della licenza media inferiore, maggiormente diffusi nel Mezzogiorno, si sono ridotti in misura più consistente in quest’area (del 5,4 per cento, contro il 4 per cento nel Centro Nord). Le differenze territoriali sono ancor più marcate per i diplomati, rimasti stabili a Nord, cresciuti al Centro e ridottisi nel Sud. Anche i giovani tra 15 e 34 anni con un contratto di lavoro dipendente sono stati fortemente colpiti dal calo dell’occupazione; il loro numero è sceso addirittura del 9,3 per cento nel Mezzogiorno, oltre 4 punti in più che nel resto del Paese. Nel Mezzogiorno è inoltre particolarmente ampia la sacca di lavoratori scoraggiati, sostanzialmente assente nel Centro Nord; essa è costituita da coloro che rinunciano ad effettuare azioni di ricerca attiva di un posto di lavoro, uscendo dal calcolo dei disoccupati. Nel 2009 gli scoraggiati nel Mezzogiorno hanno superato il 5 per cento dell’intera forza lavoro, più che raddoppiando rispetto all’anno precedente. Nel 2009 i prestiti bancari alle famiglie hanno continuato a crescere, seppure a ritmi moderati. I prestiti alle imprese hanno invece fortemente rallentato, riducendosi nella seconda parte dell’anno nel Centro Nord e rimanendo stagnanti nel Mezzogiorno. In entrambe le aree vi hanno contribuito sia la ridotta domanda di fondi da parte delle imprese sia la maggiore cautela delle banche nell’erogazione del credito. Negli ultimi mesi si osservano segnali di recupero dei finanziamenti nelle diverse aree del Paese. Le difficoltà di accesso al credito per le imprese sono state diffuse; nelle indagini condotte dalla Banca d’Italia la quota di imprese che ha dichiarato di non ottenere il credito desiderato è aumentata in tutte le aree geografiche nel 2009. Combinando quelle informazioni con l’archivio della Centrale dei bilanci, emerge che le aziende che hanno indica-

to un peggioramento delle condizioni di accesso al credito presentano, come prima dell’insorgere della crisi, una situazione economico-finanziaria meno solida; la loro domanda di credito risulta più elevata. I divari nella rischiosità delle imprese tra Mezzogiorno e Centro Nord sono rimasti sostanzialmente inalterati; pesa la debolezza strutturale del sistema produttivo e delle istituzioni meridionali. Il flusso di nuove sofferenze in rapporto ai prestiti è aumentato di circa un punto percentuale in entrambe le aree, raggiungendo il 2,4 per cento al Centro Nord e il 3,2 nel Mezzogiorno. Le nostre indagini sulle banche3 confermano che l’irrigidimento dell’offerta si sarebbe progressivamente attenuato nel corso del 2009 in tutte le ripartizioni territoriali; il miglioramento delle condizioni di offerta è segnalato anche per il primo semestre di quest’anno, soprattutto nel Nord Ovest e nel Mezzogiorno. Dall’estate dello scorso anno si erano fatti più evidenti i segnali di un miglioramento dell’attività produttiva. Per il 2010 le imprese prevedevano una lieve espansione del fatturato e degli investimenti, in modo relativamente omogeneo per settore e area geografica. Ma l’esplodere della crisi greca ha cambiato il quadro di riferimento. Le prospettive appaiono ora più incerte. In diversi casi le ristrutturazioni operate dalle imprese durante la crisi hanno portato a un ridimensionamento del potenziale produttivo. Esistono peraltro casi di successo aziendale, che indicano anche nel Mezzogiorno una vitalità del sistema produttivo. Ma il ritorno su un più elevato sentiero di crescita non può basarsi solo sulla capacità e sull’impegno dei singoli, sul successo di casi isolati. Se non si rimuovono gli ostacoli allo sviluppo delle imprese vi è il rischio che il Paese tutto, ma in particolare il Mezzogiorno, non riesca a tenere il passo degli altri paesi industriali.

La difficoltà di fare impresa Nel Mezzogiorno più che altrove incide sul potenziale di crescita la difficoltà di fare impresa. L’Amministrazione pubblica non agevola l’attività imprenditoriale. Una specifica rilevazione della Banca d’Italia4 mostra che nel Mezzogiorno gli oneri amministrativi e burocratici necessari all’avviamento e allo svolgimento dell’attività di impresa, misurati in termini di tempi e costi, sono

generalmente più elevati. Alcune recenti modifiche normative hanno avuto primi effetti positivi. Riguardo all’avvio d’impresa, la cosiddetta Comunicazione unica, introdotta nel 2007, ha consentito di interagire con un solo ufficio, in luogo dei quattro previsti in precedenza. Questo ha determinato un contenimento dei tempi per l’apertura di un’impresa in tutte le aree del Paese, con miglioramenti più accentuati nel Mezzogiorno, che ha così ridotto il divario con le altre regioni; i costi sono invece rimasti invariati dopo la riforma e più elevati nel Sud. Tempi e costi per il trasferimento di una proprietà immobiliare sono superiori nel Mezzogiorno, dove sono necessari tempi più lunghi rispetto al Centro Nord anche per chiudere un’impresa. I tempi della giustizia rimangono ancora lunghi, nonostante le iniziative intraprese. La lentezza dei processi implica elevati costi sociali, penalizza le parti economicamente più deboli, alimenta atteggiamenti diffusi di sfiducia e di accettazione di situazioni di illegalità. Sono necessari interventi volti a rendere il sistema giuridico più efficiente, per favorire il buon funzionamento del sistema economico, per sostenere la competitività. La soluzione giudiziale delle controversie commerciali richiede tempi molto elevati in tutte le aree del Paese. Per ottenere un giudizio di cognizione ordinaria di primo grado si impiegano poco più di 3 anni al Sud, poco più di 2 nel Centro Nord. Le spese legali sostenute nel Mezzogiorno – circa un terzo del valore della controversia – sono notevolmente superiori rispetto a quelle registrate nelle altre aree. La durata delle procedure fallimentari è mediamente superiore nel Mezzogiorno. Il concordato preventivo, riformato negli ultimi anni, è divenuto più celere, presentando tempi medi di circa 6 mesi; questa procedura viene però meno utilizzata nelle regioni meridionali. Gli aiuti alle imprese hanno avuto una modesta efficacia nel sostenere lo sviluppo del Sud. Come mostrano le nostre ricerche, gli incentivi a favore dell’attività di investimento hanno prevalentemente generato un anticipo, da parte delle imprese sussidiate, di investimenti che in larga misura si sarebbero comunque realizzati in seguito, anche in assenza del sostegno pubblico. La qualità dei servizi pubblici nel Mezzogiorno è ampiamente inadeguata; i divari con le regioni del Centro Nord hanno assunto dimensioni rilevanti. La sanità è l’esempio più evidente di un settore in cui la modesta qualità dei servizi resi, testimoniata anche dalle migrazioni sanitarie, non dipende da una carenza di spesa. I risultati di nostre recenti


32 ricerche suggeriscono che è possibile conseguire risparmi senza ridurre qualità e quantità dei servizi sanitari offerti ai cittadini. Iniziative come quella recentemente avviata dal Ministero della salute, con la pubblicazione di indicatori di qualità ed efficienza5, sono utili per diffondere le migliori pratiche, disporre di dati confrontabili, conseguire un più attento controllo sull’appropriatezza dei trattamenti di tipo ospedaliero, individuare gli ambiti di intervento per migliorare qualità ed efficienza. In diversi servizi pubblici locali – trasporti, servizi idrici, rifiuti urbani, distribuzione del gas e servizi per l’infanzia – le riforme degli ultimi quindici anni hanno prodotto miglioramenti soprattutto al Nord e in misura più contenuta al Centro. Permangono deficit di performance nel Mezzogiorno, riconducibili a una minore capacità di azione delle Amministrazioni pubbliche locali, alle più forti opposizioni della collettività ai processi di ristrutturazione del settore e a peggiori dotazioni di infrastrutture. Effetti positivi sulla concorrenza e sullo sviluppo potrebbero derivare da una maggiore trasparenza nei processi di fornitura di beni e servizi alla Pubblica Amministrazione e dalla riduzione delle connessioni tra amministrazioni e imprese. Secondo nostri studi6, per effetto dell’elezione di propri dipendenti nelle amministrazioni locali, le imprese, in particolare quelle che operano nei settori che dipendono in prevalenza dalla domanda della Pubblica amministrazione, beneficiano di incrementi di fatturato e di profitti che non dipendono dalle caratteristiche del prodotto o dell’impresa. Queste connessioni, che si rilevano per la generalità delle imprese, assumono una maggiore rilevanza nel Sud, ove è più elevata l’incidenza della spesa pubblica sul prodotto; ostacolano il successo delle imprese migliori che non dispongono di canali privilegiati di contatto. Le difficoltà di fare impresa sono aggravate dalla diffusa presenza della criminalità organizzata che altera le condizioni di concorrenza, accresce i costi per le imprese e i cittadini, ostacola l’accumulazione di capitale. Un adeguato livello di sicurezza e il rispetto della legalità sono prerequisiti indispensabili per il corretto funzionamento del sistema economico e della vita civile. La presenza della criminalità organizzata ha caratterizzato la storia di Sicilia, Campania e Calabria sin dal periodo preunitario; negli ultimi decenni si è estesa alle regioni limitrofe, soprattutto Puglia e Basilicata, nonché in alcune aree del Centro Nord. Il radicamento territoriale conferisce alle associazioni criminali la stabilità necessaria per gestire crimini potenzialmente complessi quali il racket delle

estorsioni e il traffico di stupefacenti; facilita altresì le relazioni corruttive che coinvolgono i soggetti privati e le amministrazioni pubbliche. I costi per la collettività sono elevati. Alcune stime suggeriscono che l’espansione delle organizzazioni criminali in Puglia e Basilicata dalla fine degli anni settanta ad oggi abbia comportato un significativo aumento dei reati più gravi. Nostre stime indicano che l’infiltrazione della criminalità è in grado di frenare significativamente la crescita del prodotto. Come indicato dal Governatore nelle Considerazioni Finali di quest’anno, “nelle tre regioni del Mezzogiorno in cui si concentra il 75 per cento del crimine organizzato, il valore aggiunto pro capite del settore privato è pari al 45 per cento di quello del Centro Nord”. Dal contrasto alla criminalità possono derivare benefici rilevanti per la crescita non solo del Mezzogiorno, ma di tutto il Paese. Le situazioni di crisi determinano difficoltà economiche e finanziarie per le famiglie e le imprese, aumentano i rischi di penetrazione criminale nel tessuto produttivo, possono favorire l’espansione dell’erogazione illegale del credito. Tali dinamiche incidono maggiormente sulle famiglie a più basso reddito e sulle imprese di minore dimensione. La Banca, d’Italia ha ripetutamente richiamato la peculiare responsabilità degli intermediari nei momenti di difficoltà, sia in termini di sostegno all’economia, sia in termini di presidio contro fenomeni illeciti; nell’esercizio delle proprie funzioni è impegnata a promuovere legalità, integrità e correttezza nel sistema finanziario e nelle relazioni tra intermediari e clienti. Questo impegno trova una specifica ragione nelle finalità dell’azione di vigilanza. Intensa è la collaborazione fornita alle Procure7, sia sotto il profilo della segnalazione di fatti di possibile rilievo penale riscontrati nell’azione di vigilanza sia per l’ausilio assicurato alle indagini in termini di documentazione prodotta e di consulenza prestata. È divenuta più incisiva l’azione di prevenzione e contrasto alla criminalità economica, specie con riguardo all’usura e al riciclaggio. L’Unità di informazione finanziaria (UIF), autorità indipendente e autonoma costituita nel 2008 presso la Banca d’Italia, ha intensificato l’analisi delle operazioni sospette e la collaborazione con le altre istituzioni nazionali e internazionali. Il numero di segnalazioni anomale è cresciuto in modo significativo: dalle 12.500 del 2007 sino alle oltre 21.000 del 2009, con la previsione di superare le 30.000 quest’anno. Rispetto al peso econo-


33 mico e demografico delle aree geografiche del Paese, è piuttosto contenuta la quota di segnalazioni provenienti da alcune regioni meridionali ad alto tasso di criminalità8. Questo fenomeno sembra dipendere dai condizionamenti ambientali; viene considerato nel definire le priorità ispettive. Quasi il 60 per cento delle segnalazioni di operazioni sospette trasmesse dalla UIF nel 2008 sono state ritenute meritevoli di un seguito investigativo9, contro il 20 per cento medio degli altri Paesi europei. La Banca d’Italia partecipa inoltre all’Osservatorio permanente sui fenomeni dell’estorsione e dell’usura; apposite riunioni sono state organizzate, in via prioritaria, nelle province meridionali a più alto rischio (Caserta, Palermo, Napoli).

Conclusioni Affinché lo sviluppo del Mezzogiorno possa costituire una leva per la crescita dell’intera economia nazionale, è necessario agire su più fronti. Il recupero dei divari richiede innanzitutto un innalzamento della qualità dei servizi pubblici: istruzione, giustizia, sanità, sicurezza sono aspetti essenziali per la competitività dell’economia e per la qualità della vita dei cittadini. Occorre proseguire nell’azione di modernizzazione delle Amministrazioni pubbliche, ampliare le informazioni disponibili sulle loro performance, potenziare l’utilizzo di strumenti di valutazione dell’operato dei singoli comparti. La trasparenza consente un più consapevole vaglio da parte dei cittadini, può favorire il raggiungimento di standard minimi di qualità nei servizi pubblici essenziali. Un significativo passo nella giusta direzione è stato avviato con il percorso di riforma delle amministrazioni pubbliche, che poggia sui pilastri del contrasto all’assenteismo, del rafforzamento dei controlli interni, dell’introduzione di meccanismi, anche giudiziali, di controllo esterno. Va integrato con un’azione di riordino delle strutture amministrative e delle loro prassi di funzionamento. Il sistema sanzionatorio nei confronti della corruzione nella Pubblica Amministrazione andrebbe reso più incisivo per conseguire una efficace prevenzione e repressione. Semplificare gli adempimenti normativi e ridurre gli oneri burocratici sono passi necessari per rendere più agevole lo svolgimento delle attività imprenditoriali. Assieme all’abrogazione di norme ritenute obsolete e non più applicabili, è auspicabile il riordino e la razionalizzazione della normativa primaria e secondaria rimasta in vigore. Il processo iniziato con la riduzione di alcuni oneri

amministrativi a carico delle imprese nelle aree di competenza statale (lavoro, previdenza, beni culturali) andrebbe proseguito anche con un maggior contributo degli Enti locali e un migliore coordinamento tra livelli di governo. Dalla sicurezza e dal controllo del territorio possono discendere benefici grandi per il Mezzogiorno. La Banca d’Italia e l’UIF forniscono, per i profili di loro competenza, il loro contributo all’azione di contrasto alla criminalità. L’impegno delle istituzioni va sostenuto anche dalla società civile. Negli ultimi anni le associazioni imprenditoriali sono state più attive sul territorio nel contrastare, anche culturalmente, le influenze della corruzione e della malavita sulla libera attività d’impresa. Affinché il Paese, e in particolare il Mezzogiorno, possa cogliere i benefici della ripresa, e spostarsi su un più elevato sentiero di sviluppo, è importante realizzare, con il contributo di tutti, le condizioni di contesto entro le quali le imprese migliori possano trarre vantaggio dai benefici della concorrenza e le risorse più qualificate possano valorizzare le proprie capacità. 1 I lavori sono raccolti nei volumi “Mezzogiorno e politiche regionali”, Banca d’Italia, Seminari e convegni, n. 2 del novembre 2009; “Il Mezzogiorno e la politica economica dell’Italia”, Seminari e convegni, n. 4 del 2010 (di prossima pubblicazione) e L. Cannari, M. Magnani e G. Pellegrini (2010), “Critica della ragione meridionale. Il Sud e le politiche pubbliche”, Laterza, Bari. 2 Si veda “L’Economia delle regioni italiane”, Banca d’Italia, di prossima pubblicazione. 3 Tra marzo e aprile 2010 le sedi regionali della Banca d’Italia hanno condotto una rilevazione su un campione di circa 400 intermediari bancari, estendendo soprattutto per l’articolazione settoriale e territoriale la Bank Lending Survey dell’Eurosistema; cfr. “La domanda e l’offerta di credito a livello territoriale”, Banca d’Italia, Economie regionali, di prossima pubblicazione. 4 L’indagine riprende la metodologia della Banca Mondiale; cfr. M. Bianco e F. Bripi “Le difficoltà di fare impresa”, in “Il Mezzogiorno e la politica economica dell’Italia”, Banca d’Italia, op. cit. 5 Ministero della salute (2010) “Il sistema di valutazione della performance dei sistemi sanitari regionali. Anno 2008”. 6 F. Cingano e P. Pinotti (2009) “Politicians at work. The private return and social costs of political connections”, Banca d’Italia, Temi di discussione, n.709. 7 Nel 2009 la Banca d’Italia ha inoltrato 70 denunce all’Autorità giudiziaria e ha corrisposto a 159 richieste di informazioni e documentazione pervenute dalle Procure. 8 Dal Mezzogiorno proviene circa il 21 per cento delle segnalazioni di intermediari finanziari e solo 18 delle 139 segnalazioni di professionisti ed operatori non finanziari. 9 Si veda l’ultima Relazione al Parlamento del Ministro dell’Economia.

Vice Direttore Generale della Banca d’Italia Presentazione del rapporto “L’economia della Campania” Napoli. 7 Giugno 2010


34 Il Sud e la manovra finanziaria

Le  zone a  burocrazia zero el Decreto Legpiccole e medie imprese che Ivano Russo ge recante midecidano di mettere a fattor sure di stabilizcomune strategie di crescita e zazione finanziaria e di competitività investimenti oppure specifici asset dell’organizzaeconomica, all’articolo 43, si prevede l’istituzione zione del lavoro e della produzione. delle “zone a burocrazia zero”. Nello specifico, con Oramai la competizione economica ed il conDecreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, fronto tra mercati non avviene più a livello di sinsu proposta del Ministro dell’Economia e di con- gole aziende, bensì a livello di sistemi territoriali e certo con il ministero dell’Interno, si potranno cir- contesti ambientali. E, nel Mezzogiorno, le prime coscrivere specifiche aree in ritardo di sviluppo che due grandi diseconomie sono rappresentate proprio necessitano – anche in deroga alle normative vi- dall’inefficienza degli uffici pubblici e dalla crimigenti – di misure straordinarie di semplificazione nalità organizzata. dei procedimenti amministrativi al fine di velocizCome ha giustamente sottolineato la Presidenzare gli iter autorizzativi e il conseguente avvio del- te Marcegaglia nell’ultima Assemblea di Confindule attività imprenditoriali. stria, occorre dire basta alla “manomorta amminiI provvedimenti amministrativi, in tali zone, sa- strativa”: basta con le pratiche avanzate da privati ranno adottati da un Commissario di Governo che, che restano dormienti per interi mesi sulle scrivanie solo quando necessario, potrà convocare apposite di funzionari senza alcuna responsabilità di fronte conferenze di servizio. alla legge, basta con la sciatteria e il lassismo delSe entro 30 giorni dal recepimento dell’istanza le strutture pubbliche, basta con la incivile pratica di parte avanzata dall’impresa, atto che da avvio al degli uffici di non presentarsi – magari a rotazioprocedimento, non dovessero tuttavia comunque ne – a conferenze dei servizi pletoriche e multiliarrivare risposte dalla pubblica amministrazione, vello provocando così il rinvio, sine die, dell’assunil provvedimento si intende adottato nei confronti zione delle scelte. del richiedente. Un imprenditore che decida di investire nel Restano ovviamente escluse dalla misura in Mezzogiorno deve anzitutto trovare un istituto banoggetto le aree sottoposte a vincolo ambientale cario disposto a sostenere il suo progetto, cosa ase paesaggistico. sai difficile per la cronica carenza nel Sud di attori E se la zona in questione coincide con una Zona finanziari solidi e di relativi centri decisionali. Poi Franca Urbana, sarà il Sindaco a gestire le risorse deve intraprendere un iter amministrativo e autopreviste in favore di nuove iniziative imprendito- rizzativo dai tempi assolutamente ignoti, vagando riali qui insediatesi, e a coordinare l’incrocio delle tra gli uffici per interi mesi. Quindi deve tutelarsi misure agevolative: alleggerimento burocratico più da un intermediazione politica opprimente ed imincentivi alle nuove aziende. propria che spesso tende ad intervenire addirittura Tali aree godranno anche di un altro vantag- anche sulla selezione della mano d’opera da reclugio: le Prefetture dovranno predisporre specifici tare. Infine deve subire – quasi sempre – il ricatto piani di messa in sicurezza del territorio, agendo della criminalità organizzata. così sulle condizioni di contesto – spesso dramQuesto non è fare impresa, questo significa rimatiche – che rappresentano un reale disincentivo chiedere ad un imprenditore una vocazione al saagli investimenti. crificio e al martirio. A queste misure va aggiunta la cancellazione Per invertire questa tendenza, l’articolo 43 generalizzata nel Mezzogiorno dell’odiosa IRAP, della Finanziaria rappresenta un primo benauguper le nuove attività produttive, nonché l’innovati- rante passo. vo strumento del Contratto di Rete di Impresa, inNon credo che sia indispensabile mettere mano trodotto già nel 2009, che prevede decontr buzione alla Costituzione per agevolare la libertà di impresa. fiscale e facilitazione nell’accesso al credito per le La proposta a tal riguardo avanzata dal Governo sa

un po’ troppo di norma spot o di progetto bandiera. Bastano le leggi ordinarie, e soprattutto basterebbe dotare la pubblica amministrazione di un vero piano industriale e di un istituto terzo di valutazione delle performance, dotato di poteri sanzionatori rispetto ai dirigenti degli uffici inadempienti. Si parla tanto, forse troppo, di Mezzogiorno ma raramente ci si mette poi di fronte a singoli problemi specifici alla ricerca di specifiche e circostanziate soluzioni di governo. E questo approccio parolaio alla Questione,


35 ha fatto forse più danni al Sud di decenni di politiche sbagliate. Il Mezzogiorno soffre da sempre, anzitutto, di un drammatico gap organizzativo che con le risorse finanziarie c’entra ben poco: ci sono i trasferimenti nazionali, le finanze locali provenienti dalla fiscalità territoriale, ci sono i fondi europei Obiettivo Convergenza, i Programmi a Sportello Bruxelles, le risorse legate alle politiche europee di Vicinato ed Euro mediterranee. E poi, di fronte ad un chiaro disegno di sviluppo, non mancherebbero risorse private per investimenti produttivi. Ciò che manca, invece, è un contesto ambientale amico di chi voglia fare impresa, a partire dalla salvaguardia dei grandi beni e servizi comuni o di pubblica utilità: infrastrutture, ambiente, sanità, giustizia, qualità della scuola e della formazione, sicurezza. Lo Stato e la politica in tutte le rispettive articolazioni, concentrino le risorse pubbliche su questi grandi obiettivi, anche se forse non portano voti perché non direttamente e immediatamente riconducibili a specifiche clientele o gruppi di pressione, ed escano dal mercato. In Italia abbiamo oltre 1.470 società partecipare da istituzioni o enti locali, di cui oltre 450 direttamente controllate. Si tratta di un effetto droga rispetto al mercato di beni e servizi che pesa incredibilmente sulle tasche dei cittadini offrendo tra l’altro, in cambio, servizi scadenti a tariffe alte. Un vero e proprio paradosso a cui, c’è da augurarsi, il federalismo fiscale dovrebbe porre argine: spendi ciò

che hai, e per i servizi essenziali ma fino ad una certa soglia può intervenire il livello centrale attraverso il fondo di perequazione. Tuttavia se un Comune decide di tenere in piedi società pubbliche decotte affidate a manager ex politici disoccupati e impreparati, e per far ciò deve tagliare servizi sociali o asili nido o trasporti pubblici, lo faccia pure. Saranno poi i cittadini a giudicare. L’importante è fissare il principio che “a piè di lista” non interverrà più “il centro” a sostenere e foraggiare sistemi locali di governance pubblica inefficienti e dediti a drenare consenso più che ad offrire servizi e buon governo. Del resto, l’Italia ha un vincolo comunitario nel Patto di Stabilità, e questo può reggersi rispetto a Bruxelles solo se anche all’interno del Paese viga un analogo Patto tra centro e centri di spesa locali. In questa direzione va il Decreto voluto da Tremonti, che resta certamente migliorabile per quanto attiene il meccanismo di deroga nei confronti degli enti locali virtuosi e con i bilanci in attivo, che potrebbero permettersi investimenti – oggi burocraticamente bloccati – in conto capitale per infrastrutture e servizi aggiuntivi. La sfida è complessa: riqualificare la spesa pubblica, valutare in un quadro di insieme i POR delle Regioni ex Obiettivo 1, in base a ciò riprogrammare i fondi FAS complementari alla spesa dei fondi europei, allargare le maglie del credito per favorire le iniziative imprenditoriali, sburocratizzare le procedure amministrative e offrire maggior sicurezza di contesto a cittadini e operatori economici. Sarebbe utile che gli osservatori attenti delle questioni politiche meridionali si occupassero di questo, avanzando proposte concrete – anche alternative a quelle del Governo – e sviluppando temi correlati allo sviluppo e alla crescita economica, magari sostenuti da una rinnovata classe dirigente diffusa.


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LA SUMMER SCHOOL DI MEZZOGIORNO EUROPA

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Cetti Capuano

Sin dal momento della sua nascita, la Fondazione Mezzogiorno Europa ha individuato nella formazione uno degli assi portanti della sua attività. Le quattro Scuole realizzate dal dicembre 2006 al febbraio 2009 hanno costituito momenti di discussione e confronto, superando ogni volta la dimensione spazio – temporale del singolo workshop, proseguendo talvolta attraverso incontri di approfondimento, talaltra nella forma di veri e propri gruppi di lavoro, con un calendario di incontri ed una apprezzabile produzione di paper e documenti che hanno trovato ampio spazio nella rivista e nel sito della Fondazione. La tematica di fondo sulla quale sono state pensate e costruite le Scuole è stata sempre quella dello sviluppo del Mezzogiorno nella prospettiva europea e mediterranea. Per questo motivo ha suscitato in alcuni una certa sorpresa la decisione di dedicare la Summer School 2010 ad un tema, quello della Responsabilità Sociale delle Imprese, apparentemente lontano dalle istanze tradizionali e dalla mission che Mezzogiorno Europa si è data sin dai tempi della vecchia Associazione. Di più, il tema della RSI, ripreso da Benedetto XVI nell’enciclica “Caritas in veritate” appariva come estraneo alla radice riformista e laica della Fondazione, sebbene questa abbia avuto sempre un atteggiamento di estrema apertura e massimo confronto con la cultura politica di matrice cattolica.

Ciò nonostante, il tema ci è sembrato degno di attenzione ed approfondimento. Dal punto di vista formale la Corporate Social Responsibility (Responsabilità Sociale delle Imprese, di qui in poi RSI) nasce nel gennaio 1999, quando l’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, in occasione del suo discorso a Davos presso il World Economic Forum, invitò i leader dell’economia mondiale a stringere un Patto Globale (Global Compact) a supporto di nove principi universali nell’ambito dei diritti umani, del lavoro e della tutela dell’ambiente. Da giugno 2004, ai nove principi ne è stato aggiunto un decimo relativo alla lotta alla corruzione. L’iniziativa nasceva dalla volontà di arginare attraverso comportamenti responsabili alcune delle nefaste conseguenze introdotte dalla globalizzazione soprattutto nel settore del lavoro. La scarsa regolamentazione delle imprese “globalizzate” ha infatti prodotto problemi sociali di portata planetaria, nonché una “corsa verso il basso” per quanto riguarda diritti dei lavoratori, salari, orari e condizioni di lavoro. Fenomeni come il lavoro infantile e in schiavitù, piuttosto che diminuire sono aumentati, e peggio ancora si sono annidati subdolamente in alcuni passaggi della filiera produttiva, riuscendo spesso a passare inosservati. A seguito del Global Compact, l’OCSE si è dedicata specificamente a costruire linee guida per le imprese multinazionali, mentre la Commissione Europea nel Libro Verde del 2001

ha esplicitamente introdotto la RSI come “integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle operazioni commerciali delle imprese nei loro rapporti con le parti interessate… nell’ambito di un approccio globale della qualità e dello sviluppo sostenibile”. A partire dalla fine degli anni ’90 in linea di massima si è affermata una tendenza da parte delle aziende ad assumere comportamenti etici riguardo soprattutto al rispetto dei diritti e alla tutela dell’ambiente. Malgrado la nascita di una cospicua normativa, soprattutto europea, questi comportamenti sono stati essenzialmente assunti su base volontaristica. Per una serie di ragioni tutto sommato in minima parte pratiche (acquisire alcune certificazioni è condizione necessaria per accedere, ad esempio, ad alcuni bandi europei) le aziende hanno cominciato autonomamente ad adottare codici etici, ad attenersi ai 10 punti fissati dal Global Compact, e in diversi casi anche ad usare uno strumento peculiare come il bilancio sociale. La base essenzialmente volontaristica dell’applicazione della RSI rende molto difficile affrontare compiutamente e soprattutto correttamente il tema. La RSI è appunto un codice generale di comportamento folto di richiami all’etica; un insieme di principi specifici circa il modo di trattare correttamente, oltre agli azionisti, tutti coloro che per vari motivi sono interessati all’attività di impresa, perché in essa “tengono una posta in gioco” (che è il significato letterale dell’inglese stakeholder).

Ma come mai le imprese, categoria che Milton Friedman vuole per definizione orientata solo ed unicamente al profitto, scelgono autonomamente di assumere comportamenti etici? La risposta, che è facile desumere se si naviga qualunque sito internet facente capo ad associazioni di imprese che promuovono la RSI, sta nel fatto che molte aziende hanno iniziato a considerare vantaggioso e conveniente adottare comportamenti socialmente responsabili, perché monitorando e rispondendo alle aspettative economiche, ambientali, sociali di tutti i portatori di interesse è possibile cogliere anche l’obiettivo di conseguire un vantaggio competitivo e massimizzare gli utili di lungo periodo. Una motivazione di tipo economico quindi, peraltro teorizzata anche da alcuni studiosi, primo tra tutti Robert Edward Freeman, che valorizza ed afferma valori etici. L’impegno dell’impresa nel rispetto dei codici etici e degli standard di responsabilità sociali ed ambientali apre una prospettiva nuova in cui essa lavora con lo Stato, con gli enti locali, con i territori e le loro comunità, con la società civile organizzata e con gli stakeholder per dare allo sviluppo economico e sociale, sostenibilità nel medio e nel lungo periodo. Questo nuovo modello di sviluppo che si viene affermando e che apporta modifiche strutturali al modo di produzione capitalista, potrebbe rappresentare un’opportunità per il Mezzogiorno, il cui tessuto di imprese piccole e medie si presta ottimamente alla pratica della RSI. Di qui


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l’idea di dedicare al tema una Scuola. Ci piaceva dare il nostro contributo ad una nuova cultura del fare impresa, capace di incidere sui processi di lungo periodo. Inizialmente avevamo pensato ad una Scuola molto tecnica, essenzialmente rivolta a chi già lavora dentro le imprese, che fornisse ai discenti le competenze per utilizzare gli strumenti della RSI, a partire dal bilancio sociale. Strada facendo abbiamo compreso che in un territorio come il nostro poteva essere più utile affrontare il tema sotto il profilo culturale e politico in senso lato, perché la RSI rappresenta innanzitutto un cambiamento di mentalità e di cultura del fare impresa. Sul nostro progetto abbiamo voluto far convergere patrocini eminenti: Parlamento Europeo, Ministero dello Sviluppo Economico, l’Alta Scuola di Impresa e Società dell’Università Cattolica di Milano (ALTIS) e Global Compact Italia oltre a tradizionali partner territoriali quali Unione degli Industriali di Napoli, Camera di Commercio, Comune e Provincia. Da tutte queste realtà siamo partiti per l’individuazione

dei relatori, riempiendo un panel di personalità dall’altro profilo scientifico e culturale. La Summer School 2010 della Fondazione Mezzogiorno Europa, dal titolo “Etica, Coesione, Sostenibilità: la Responsabilità Sociale delle Imprese come nuovo modello di sviluppo” si è svolta a Napoli, nella ormai consueta cornice dell’Hotel San Germano di Agnano, da 10 al 13 giugno. Ad essa hanno preso parte 70 studenti, che abbiamo selezionato esaminando più di 150 curricula. Tra questi, 12 studenti hanno potuto usufruire di una borsa di studio a totale copertura delle spese di partecipazione. È questa una innovazione che abbiamo introdotto con grande entusiasmo, nel convincimento che una Fondazione come Mezzogiorno Europa abbia il dovere di mettere le competenze e i saperi di cui dispone al servizio delle nuove generazioni, e di offrire il proprio contributo alla formazione delle nuove classi dirigenti. Per quattro giorni abbiamo discusso con un qualificatissimo gruppo di giovani laureati e ricercatori in discipline economico/

giuridiche, filosofia e sociologia, consulenti aziendali, esponenti dell’associazionismo, di etica e sviluppo, approfondendo gli aspetti dei diritti e della sicurezza del lavoro, del ruolo che in un contesto etico spetta al credito e alla finanza, delle pari opportunità e occupabilità femminile, del rapporto tra legalità e sviluppo del territorio. Per sviluppare il tema della RSI ci siamo avvalsi del contributo di 42 relatori (docenti universitari, rappresentanti delle istituzioni, imprenditori, consulenti di azienda, esponenti della società civile), cui ha voluto aggiungersi S.E. il Cardinale Crescenzio Sepe, che è intervenuto con un saluto alla classe, non formale, ma ricco di contenuti. Il dato di fondo che è emerso dai lavori è che sicuramente in una società di cittadini sempre più informati e consapevoli è necessario che ciascun gruppo portatore di interessi agisca in maniera responsabile, non semplicemente perché è giusto, ma perché conviene a tutti operare in un generale clima di fiducia. E che la RSI, come mentalità e cultura d’impresa,

può certamente costituire la chiave di volta per liberare il Mezzogiorno dalla morsa dell’illegalità ed accelerare così i processi di sviluppo, perché le pratiche di RSI si prestano a rigenerare il tessuto sociale, innescando dinamiche virtuose capaci di togliere terreno alle mafie. L’interesse e l’entusiasmo con cui gli studenti hanno partecipato ai lavori ci inducono a pensare di aver fatto un buon lavoro. Proprio dalla classe è emersa l’istanza di proseguire il discorso sulla RSI, magari immaginando una serie di incontri seminariali da tenersi in autunno nella sede della Fondazione. Sicuramente, come è già avvenuto in occasione delle altre Scuole, continueremo ad aggiornare la sezione documentaria dedicata alla Summer School 2010 all’interno del sito www.mezzogiornoeuropa.it. Ci piacerebbe infine giungere alla produzione di un volume, da realizzarsi con i contributi degli studenti. In attesa della Summer School 2011. Responsabile Winter e Summer School Mezzogiorno Europa


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IL MEZZOGIORNO NEL MEDITERRANEO

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C O N   L’ E U R O PA   E   P E R   L’ E U R O PA el corso degli anni, ma anche di recente, si è avuto modo di registrare manifestazioni di sfiducia a proposito dell’ambizioso Progetto di Partenariato Euro‑mediterraneo.Sia per tentare di conquistare agli ambiziosi obiettivi del Progetto componenti autorevoli della società, sia per creare motivazioni a possibili iniziative imprenditoriali, abbiamo promosso quest’incontro. È da presumere infatti che, per gli studi e le ricerche elaborate per l’occasione dalle strutture del Gruppo Intesa‑Sanpaolo e per la qualità di coloro che interverranno, vi sarà modo di chiarire molti punti su cui oggi non ancora vi è diffusa consapevolezza. Ciò anche perché gli avvenimenti degli ultimi anni inducono a pensare che la prospettiva per il Mezzogiorno di ritagliarsi un ruolo in quel progetto, non sia solo una ipotesi o un sogno, ma una inderogabile necessità. L’attenzione verso la prospettiva Mediterranea, come è stato rilevato in tante occasioni, si è sostanzialmente imposta con il crollo del muro di Berlino. E non solo per il Mezzogiorno, ma per l’intera area centro meridionale italiana, insieme con la Spagna del Sud, il Portogallo e la Grecia, pena un destino di emarginazione e di periferia per queste aree (come dimostrò a suo tempo una ricerca dell’European Institute of Urban Affairs). Questo perché l’impegno dell’Europa verso i paesi dell’Est, induceva l’Europa stessa a non guardare più a Sud. Anche per questo nacque nel 95 il Processo di Barcellona e con esso il Partenariato Euro‑mediterraneo, oggi Unione per il Mediterraneo, come si è ricordato. Non credere e non lottare affinché questo ambizioso ma pur sempre realistico progetto sia perseguito, significava fino a qualche anno fa, dar vita alla profezia di quello scrittore marocchino, Mohammed Guessous, secondo il quale con l’ultima pietra rinvenuta dalla demolizione del muro di Berlino se ne sarebbe costruito un altro attraverso il Mediterraneo.Ma come si sono poi messe le cose, si potrebbe verificare che quel muro nel Mediterraneo di qui a poco potrebbe riguardare solo il Mezzogiorno d’Italia. Oggi infatti con l’ingresso sui mercati dei grandi paesi come India e Cina, il Mediterraneo si è rivalutato e con esso i nostri mari. Non a caso si parla del raddoppio di Suez. La globalizzazione dell’economia e la stessa crisi finanziaria ed economica hanno poi rafforzato queste tendenze. Non cogliere questa opportunità, potrebbe significare isolare Napoli ed il Mezzogior-

Enzo Giustino no da questo nuovo corso, nel quale devono invece arrivare a vantare un ruolo economico-finanziario ed, al tempo stesso, culturale e di proposta di assoluta eccellenza. Il pericolo è altrimenti quello di riprendere la strada delle occasioni perdute, costituite dall’intervento straordinario prima, elevando a sistema poi; seguito dall’incapacità di “intendere il significato rivoluzionario del decentramento amministrativo”, come insegnava Dorso, negli anni in cui furono istituite le Regioni. Il Mezzogiorno non può competere con le Regioni del Nord nel saldarsi al “nuovo cuore” dell’Europa. L’Italia è lunga diceva De Gasperi. Ed anche se con le moderne tecnologie, fisiche ed elettroniche, lo stivale si accorcia, nella competizione con il Nord ne uscirebbe comunque battuto. È per questo che il Mezzogiorno ha bisogno di un suo ruolo e la prospettiva mediterranea può offrirglielo. Naturalmente dipende da noi, da come sapremo modernizzare e garantire un efficace governo del territorio per stimolare ed attrarre investimenti, da come sapremo decidere ed essere più coerenti con le decisioni assunte; da come sapremo conferire efficienza ai processi burocratici ed amministrativi; infine da come sapremo valorizzare l’immenso patrimonio di beni culturali ed ambientali, che uno studioso della Bocconi riferendosi all’intero Mediterraneo ha definito “ il petrolio verde”. Certamente le difficoltà ci sono, ed è con esse che bisogna fare i conti. Ma ci sono anche le premesse per poter affrontare quella sfida. E che questa non sia solo un’affermazione di circostanza, lo dimostrano gli studi: quello promosso e pubblicato con l’Associazione Guida ”Mediterraneo 2010” e quello elaborato dal Servizio Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo in occasione del convegno di oggi “I paesi del Sud del Mediterraneo: Crescita e Opportunità di Business nel contesto delle relazioni con l’Unione Europea”. L’importante è che il Mezzogiorno nel Mediterraneo resti saldamente, insieme all’intero paese, “aggrappato all’Europa”, come ci ricordò l’Avv. Agnelli citando Ugo La Malfa, in un importante convegno al Lingotto di Torino, proprio su questo argomento. Eravamo nell’86. In ragione degli studi effettuati, che saranno distribuiti nel corso del Convegno, tenuto conto di quanto emergerà dal Convegno stesso, ci si propone di proseguire con iniziative di contenuto

operativo, dirette ad agevolare la missione degli imprenditori e delle stesse istituzioni. Il Gruppo Intesa‑Sanpaolo, di cui il Banco di Napoli fa parte, dispone infatti di un insieme di strutture e di professionisti che intende mettere a disposizione delle famiglie e del mondo imprenditoriale italiano meridionale. L’incontro di oggi si propone anche di promuovere la conoscenza di tali strutture. Oltre il Servizio Studi e Ricerche che ha elaborato lo suo studio che presentiamo, vi sono la Banca dei Territori, la Divisione Corporate, la Banca per le Infrastrutture, Innovazione e Sviluppo, il Servizio di Internazionalizzazione Country Desk di Padova, come ben si evince il gruppo è in grado di accompagnare le imprese a spingersi verso la sponda Sud del Mediterraneo e non solo.A conferma dell’interesse e della particolare attenzione che Intesa‑Sanpaolo ha nei confronti delle imprese meridionali, le stesse possono fare affidamento sulla particolare competenza del nostro Direttore Generale Giuseppe Castagna, la cui esperienza come Responsabile Corporate e della rete estera del gruppo sarà particolarmente utile per il nostro territorio. Intesa‑Sanpaolo è una realtà che assiste le imprese e le famiglie anche attraverso le banche estere, quella in particolare bagnata dal mar Mediterraneo è la Bank of Alexandria di cui oggi abbiamo l’onore di ospitare il Presidente Latif, proprio al fine di testimoniare la sinergia che il gruppo riesce a sviluppare nei suoi progetti in Italia e nel Mediterraneo. Vi sono poi tutte le Banche dell’Est Europa come in particolare la Intesa Sanpaolo Bank of Albania e tutti gli uffici di rappresentanza ad Istanbul, Tunisi, Casablanca. Cui si aggiunge la struttura del gruppo a Bruxelles, Intesa Sanpaolo Eurodesk. Sono certo che l’attuale incontro possa stimolare le sinergie necessarie per non perdere questa opportunità; per vincere questa sfida che si chiama: Mediterraneo. Nel concludere, in coerenza con il tema oggetto di quest’incontro “Il Mezzogiorno nel Mediterraneo, con e per l’Europa” non posso fare a meno di citare ancora una volta, non mi stancherò mai di farlo, il pensiero di due grandi studiosi Mateijevic e Braudel, riassunte in due frasi: “Sul Mediterraneo è stata concepita l’Europa”. E poi “Essere stati è una condizione per essere”. Introduzione al Convegno indetto dal Banco di Napoli sul tema: “Il Mezzogiorno nel Mediterraneo con l’Europa e per l’Europa”.




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La sottrazione di seggi europei al Mezzogiorno

risultati delle recenti elezioni europee del 6 e 7 giugno 2009 sono ancora sub judice e potranno subire anche variazioni notevoli. A nostro avviso la legislazione statale in materia penalizza il Mezzogiorno in modo del tutto arbitrario, tanto da essere illegittima. Speriamo che la Corte Costituzionale vorrà sanzionarla, eliminando una ulteriore discriminazione ai danni del Mezzogiorno. Con l’ordinanza del TAR Lazio n. 6378 del 2009 è stato impugnato dinanzi alla Corte costituzionale l’art. 21, comma 1, n. 3, della l. n. 18 del 1979 per il rinnovo del Parlamento Europeo. In particolare, nel ricorso è stato prospettato un contrasto tra l’art. 2, commi 2 e 3, della l. n. 18 del 1979 e l’art. 21, comma 1, n. 3, della

medesima legmento di seggi e ge. Inizialmente rappresentanti Marco Betzu i seggi tra le cirda una circoscrie Pietro Ciarlo coscrizioni per il zione ad un’alParlamento Eutra, favorendo le ropeo sono stati ripartiti, sulla base circoscrizioni del Nord e del Centro a del censimento della popolazione danno del Mezzogiorno (cfr. tab. 1). residente. Sennonché, l’art. 21, comLa questione di legittimità sollema 1, n. 3 della medesima legge pre- vata dal TAR Lazio appare fondata. Il vede un articolato sistema di calcolo contrasto tra l’art. 2 e l’art. 21, comche utilizza, nell’assegnazione con- ma 1, n. 3, dà luogo ad un conflitto tra creta dei seggi alle liste nelle singo- norme in cui una disciplina di dettaglio le circoscrizioni, il criterio dei votanti si pone in contrasto con quella di prininvece di quello degli aventi diritto al cipio: il legislatore ha adottato una voto e, quindi, l’assegnazione finale scelta palesemente irrazionale. Le redei seggi viene fatta senza rispettare gole della logica costituiscono, infatti, il numero dei seggi preventivamente un limite alla potestà legislativa non attribuito alle singole circoscrizioni superabile: pertanto la Corte costiin relazione alla popolazione resi- tuzionale dovrebbe pronunciarsi per dente. Il risultato applicativo del cri- l’annullamento dell’art. 21, comma 1, terio di calcolo previsto dall’art. 21, n. 3, determinando una nuova districomma 1, n. 3, è stato un trasferi- buzione dei seggi.

TAB. 1 – ELEZIONI EUROPEE 2009 2009

Nord Ovest

Nord Est

Centro

Sud

Isole

71,09

71,04

67,93

61,96

44,70

Seggi in base ai residenti

19

13

14

18

8

Seggi in base ai votanti

21

15

15

15

6

Variazione % dei seggi

+ 10,5%

+ 15,3%

+ 7, 1%

- 16,6%

- 25%

Votanti (%)

TAB. 2 – ELEZIONI EUROPEE 2004 2004

Nord Ovest

Nord Est

Centro

Sud

Isole

75,05

77,04

75,18

70,05

63,99

20

15

15

19

9

Seggi in base ai votanti

23

15

16

17

7

Variazione % dei seggi

+ 15%

=

+ 6,6%

- 10,5%

- 22,2%

Votanti (%) Seggi in base ai residenti

TAB. 3 ELEZIONI EUROPEE 1999 1999

Nord Ovest

Nord Est

Centro

Sud

Isole

74,75

76,11

71,42

66,64

61,66

23

16

17

21

10

Seggi in base ai votanti

26

16

18

21

6

Variazione % dei seggi

+ 13%

=

+ 5,8%

=

- 40%

Votanti (%) Seggi in base ai residenti

L’irragionevolezza della disciplina dettata dall’art. 21 risulta ancor più chiara, ove mai ve ne fosse bisogno, prendendo in considerazione i risultati che effettivamente ne scaturiscono in sede applicativa, cristallizzati nello scarto tra i seggi assegnati alle circoscrizioni sulla base degli abitanti residenti e i seggi realmente attribuiti a ciascuna di esse nelle recenti elezioni del 2009. La rappresentanza del Meridione ha subito una riduzione di quasi il 17% passando da 18 a 15 seggi e quella delle Isole addirittura del 25% passando da 8 a 6 seggi (cfr. tab. 1). Nelle elezioni del 2004, per le quali all’Italia spettavano 78 seggi contro i 72 attuali, le circoscrizioni Meridione ed Isole risultarono analogamente penalizzate, rispettivamente per il 10 ed il 20%, ma differente fu la distribuzione del vantaggio rappresentativo tra le altre circoscrizioni. Infatti, diversamente dal 2009, l’incremento dei seggi allora riguardò solo le circoscrizioni del Nord Ovest e del Centro (cfr. tab. 2). In termini generali ed astratti, collegando l’effettiva attribuzione dei seggi alla percentuale dei votanti, secondo quanto previsto dall’art. 21, si ottengono risultati fortemente connotati da una sorta di casualità perché essi non sono espressione solo della percentuale di voto riscontrabile in ciascuna circoscrizione, ma anche dei rapporti che si instaurano tra le diverse circoscrizioni. Infatti, la partecipazione al voto in ciascuna di esse non viene considerata a se stante, ma è posta in concorrenza con quella delle altre circoscrizioni e, dunque, il numero dei seggi alla fine effettivamente attribuiti ad una circoscrizione non dipende solo dalla partecipazione al


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voto in essa riscontrabile, ma anche dall’affluenza elettorale che si è avuta nelle altre. Tutti questi complessi calcoli sono, poi, condizionati anche dalla consistenza demografica delle circoscrizioni medesime in quanto nelle diverse circoscrizioni un punto percentuale di affluenza non ha lo stesso peso in valore assoluto trattandosi di circoscrizioni fortemente sperequate dal punto di vista demografico, infatti si va dai quasi 15 milioni di abitanti del Nord ovest ai circa 6,6 delle Isole. Gli effetti paradossali di tale metodo di calcolo risaltano con ancor più evidenza se si comparano le effettive assegnazioni delle elezioni del 2009 con quelle di dieci anni prima. A seguito di questa sorta di confronto delle affluenze, nel 1999 gli incrementi delle circoscrizioni del Nord e del Centro avvennero tutti a spese della rappresentanza delle Isole che dal passaggio dai residenti ai votanti perse ben il 40% scendendo da 10 a 6 seggi (cfr. tab. 3). Nel 2009 alle Isole è stato attribuito lo stesso numero di seggi del 1999, nonostante l’Italia oggi goda di soli 72 seggi europei contro gli 87 di allora e nonostante la partecipazione al voto nelle isole abbia subito un vero e proprio tracollo passando dal 61,66 del 1999 al 44,70% attuale. Nella sostanza i seggi effettivamente assegnati a questa circoscrizione nelle diverse tornate elettorali è avvenuta a prescindere sia dal numero complessivo dei seggi assegnati all’ Italia, sia dal tasso di partecipazione al voto nelle Isole, per

essere stati massimamente influenzati dal flusso dei votanti riscontrato nelle altre circoscrizioni. La formula elettorale, cioè il metodo di calcolo per la trasformazione dei voti in seggi, prevista dall’art. 21, non solo si mostra in contrasto con principi consolidati di organizzazione della rappresentanza politica, con norme europee e costituzionali, con i principi dichiarati dalla stessa l. n. 18 del 1979 ma, alla prova dell’applicazione, risulta anche intrinsecamente irrazionale ed arbitraria, portando a risultati del tutto illogici e irragionevoli. L’articolata ordinanza di rimessione del TAR Lazio appare, perciò, del tutto condivisibile e le norme in oggetto censurabili. Naturalmente chi ha una legittimazione da far valere nel processo ha tutto il diritto di resistere. Invece, meno chiara è la motivazione di chi interviene nel processo stesso a difendere la normativa per motivi politici che si pretendono di carattere generale. Il riferimento è ovviamente a quei partiti che hanno deciso di farlo. La normativa impugnata, di cui sarebbe interessante ricostruire la genesi parlamentare, di fatto determina una sottorappresentazione delle popolazioni meridionali poiché storicamente esse partecipano meno al voto. È certamente un problema legato alle condizioni civiche del Mezzogiorno, ma non crediamo che il modo migliore per affrontarlo sia quello di ridurre la rappresentanza politica di questa parte del Paese, fino a negarla sostanzialmente ove il divario

partecipativo dovesse ulteriormente incrementarsi. Sinora gli effetti punitivi per il Mezzogiorno sono stati occultati dal tecnicismo della materia, ma questa volta il giudizio di legittimità costituzionale, oltre a ripristinare

il diritto, potrà anche evidenziare la portata sostanziale di una normativa che, in questa fase politica di scarsa attenzione meridionalista, vede accentuarsi la sua portata, in fatto, discriminatoria.



47 L’Europa riacquista fiducia: era tempo, ora dobbiamo sperare

indietro sull’indicazione del nostro paese come futuro debitore insolvente. Per la Spagna, la verifica del FMI portava lo stesso Presidente Strauss-Kahn a certificare a Zapatero che, effettivamente, il suo paese non correva rischi di questo genere. Dei rischi per il Portogallo non si sente quasi più parlare.

che duri È certo che il principale avvenimento europeo di questi mesi riguarda l’azione delle Istituzioni per rispondere alla sfida del mercato contro le finanze degli Stati dell’Unione europea e dell’Euro in particolare. A questo proposito dobdi Andrea Pierucci   Misure concrete : biamo ricordare le conclusioni del l’applicazione è lasciata Consiglio europeo del 17 giugno, al “buon cuore” degli Stati i lavori della task force creata da In secondo luogo, il Consiglio europeo ha preVan Rompuy, l’attuale Presidente visto delle misure per far fronte alla crisi, concernenti in carica del Consiglio europeo, la sorveglianza del mercato, la tassazione delle banche, la risoluzione del Parlamento euuna linea comune per il G20 in materia di regolazione dei ropeo della sessione di giugno, il mercati finanziari internazionali, controlli sui bilanci pubblici dedibattito presso il Comitato econogli Stati e incitamento a questi ultimi a risanare il deficit con misure mico e sociale europeo con la parterestrittive. Ahi! Ma ormai anche i capi di Stato e di governo hanno ben cipazione di Van Rompuy e, non certo ultima, l’azione costante della Commissione per sbloccare le diverse compreso che la semplice ricetta “economia all’osso” non basta; anzi proposte che trovavano ostacoli nell’uno o nell’altro governo. Prima di Galbraith ha spiegato a tutti che questo modello è solo recessivo e non dare un giudizio anche sommario della provvisoria conclusione di que- risolve che a breve scadenza i problemi di deficit, per creare le condizioni per un rapido ritorno in forza di questi ultimi. Ecco, allora, che il Consta vicenda, tocca analizzarne qualche aspetto. siglio europeo invita a ridurre i bilanci pubblici senza provocare effetti recessivi! Mah! Inoltre, e questo mi sembra più interessante, il Consiglio   L’Europa conferma la sua fiducia europeo ha approvato la strategia 2020 proposta e sostenuta con forza da Barroso compresi i suoi cinque obiettivi di cui alcuni, per esempio la nell’Euro In primo luogo è confermato che gli Stati europei che partecipano lotta alla povertà e l’accento sull’educazione, hanno un forte carattere all’Euro, Germania in testa, confermano la loro fiducia nella moneta uni- politico-sociale. Per memoria si ricorderà che la strategia 2020, basata ca. Dopo i recenti attacchi e le immediate brillanti reazioni politiche e sull’innovazione e sull’azione in materia ambientale, è il proseguimento intellettuali, che già certificavano la morte dell’Euro, e nonostante una della strategia di Lisbona che, per dieci anni, ha caratterizzato la politica ferma azione di difesa della moneta con la dichiarazione che una cifra economica in Europa con luci e tante ombre. Ma, almeno, ha costituito stravagante – 720 miliardi di Euro – era disponibile per contrastare la una prospettiva di sviluppo della società abbastanza seria. Tutto bene, allora? No, perchè l’azione europea presenta due omspeculazione, era proprio necessario. In particolare, era necessaria una forte presa di posizione politica che contrastasse i giochi speculativi, bre. La prima è che il Consiglio europeo ha preso degli orientamenti fondati sulle valutazioni delle famigeratissime agenzie di rating (le stes- che speriamo siano poi interinati dal Parlamento che, salvo una grave se, giova sempre ricordarlo, che davano voti altissimi alle banche anche ragione, lo farà e dal Consiglio che, invece, riunirà tutti i cavilli diplopoco prima della crisi finanziaria del 2008/2009). L’attacco sembra ve- matici per annacquare le decisioni, limitare, ridurre, lasciare margini nire dal mercato, ma non è difficile immaginare un disegno politico che di manovra agli Stati. Questo è tanto più probabile, in quanto gli stessi certamente stava dietro a quest’attacco. Fin dall’inizio, infatti, la sfiducia Capi di Stato e di Governo hanno annacquato fortemente la minestra, del mercato nell’Euro e nei paesi in difficoltà era scarsamente giustifica- lasciando margini agli Stati che consentono loro di non fare quello che ta se si pensa alla massa economica composta dagli Stati membri. Non tutti insieme hanno deciso, tant’è vero che Berlusconi non ha neanche si poteva dubitare, nonostante i capricci elettorali della signora Merkel, finito di prendere il caffè con gli altri e subito annuncia che l’Italia non che l’Europa avrebbe sostenuto gli Stati in difficoltà; tutti sapevano che sostiene più la tassa sulle transazioni finanziarie internazionali, sostenuta accettare la defaillance di uno Stato sarebbe equivalso ad una crisi cata- all’unanimità dagli Stati membri come proposta al G20. È un po’ quelstrofica dell’Euro e, dunque ad una catastrofe per tutti. D’altra parte, se è lo che ha reso poco efficace la strategia di Lisbona. Quando si leggono vero che la Grecia aveva difficoltà effettive a far fronte ai propri impegni, le conclusioni dei dieci Consigli europei che se ne sono direttamente si è dimostrato che Italia e Spagna non avevano affatto questo proble- occupati, si ha l’immagine di un’Europa pronta a risolvere i propri proma. Per l’Italia, le stesse agenzie di rating avevano dovuto fare marcia blemi; poi, gli stessi che hanno rivestito le penne del pavone, si svelano

Euronote


48 come galline o paperette disposte a razzolare ciascuna nel proprio orto e a fare quel che loro pare utile, specie in vista del prossimo sondaggio, col beneplacito di tutti.

L’Unione c. l’intergovernativo; vince il secondo?

La stessa scelta di Van Rompuy di costituire la task force del Consiglio europeo per preparare delle proposte è animata da buona volontà, ma rafforza l’ambito dell’azione intergovernativa contro la tradizionale azione delle istituzioni sempre più efficace rapida e attenta all’interesse comune. Lo stesso Parlamento europeo chiedeva ai governi di evitare la deriva intergovernativa, consapevole del rischio che le decisioni intergovernative rischiano di essere un flatus vocis o perlomeno poco efficaci – la storia dell’Europa ne è una prova costante. Si è scelta la strada intergovernativa nella forma e nella sostanza, senza avere il coraggio di prendere impegni veri e formali. Non è un buon segno. Viceversa, mi sembra che la scelta di agire a 27 – dunque tutti e non solo i paesi dell’Euro, come invece proposto da Sarkozy contro il parere dei tedeschi – sia quanto mai opportuna. La solidarietà è assolutamente necessaria; se n’è accorto anche il premier britannico Cameron, ostilissimo all’entrata del Regno Unito nell’Euro, ha riconosciuto che il successo di quest’ultimo è una necessità anche per il medesimo Regno Unito. D’altra parte, mi viene la solita domanda: è certo che i “buoni” (gli Stati che hanno l’Euro, in questo caso),da soli, avrebbero fatto meglio, viste le varie posizioni assunte? Cameron non ha per perso l’occasione di attaccare la prospettiva europea dichiarando che non cederà un solo potere di “Westminster a Bruxelles”.

Il problema della lotta contro la povertà e l’esclusione sociale: una decisione dei governi ed un’iniziativa del CESE

Resta da commentare brevemente la decisione del Consiglio europeo circa la lotta contro la povertà. Finalmente il Consiglio europeo ha accolto la proposta della Commissione di prendere impegni cifrati circa la riduzione della povertà. 20 milioni di poveri in meno entro il 2020. Gli impegni europei sono molto chiari, ma, ahimè, gli impegni per paese sono assai meno precisi; preoccupa il fatto che le misure da adottare sono di stretta competenza nazionale. E dire che anche questo risultato non molto soddisfacente lo si è ottenuto solo grazie ad un’azione molto decisa della Commissione europea e del Presidente Barroso! Tuttavia non tutto è perduto, perché gli Stati stanno negoziando con la Commissione degli obiettivi nazionali. Un risultato debole, in particolare se si pensa che quest’anno è dedicato alla lotta contro la povertà. Un’azione importante è stata sviluppata a questo proposito dal Comitato economico e sciale europeo. Ogni due anni il Comitato organizza una manifestazione importante su un tema di società. Quest’anno il Presidente Sepi ha voluto dedicare la manife-

stazione all’educazione per combattere l’esclusione sociale. L’iniziativa ha avuto luogo a Firenze dal 20 al 22 maggio all’Istituto degli Innocenti ed ha visto una partecipazione molto importante di Ministri (eccetto gli Italiani, mah!), di parlamentari europei, fra i quali Gianni Pittella, la belga Isabelle Durant e Luigi Berlinguer, di personalità come Mario Monti o Martin Hirsch e di autorità locali; Barroso ha concluso l’iniziativa. Soprattutto vi è stata la partecipazione di qualche centinaio di organizzazioni (che si occupano di questo problema) provenienti dall’Italia e da parecchi paesi dell’Unione, che hanno discusso in tre atelier dei diversi aspetti del problema, sia sotto un profilo più generale che attraverso la presentazione d’idee e d’iniziative. Un tratto comune (senza distinzione di paesi) è stata la critica alla riduzione delle spese per l’educazione come strumento importante per contenere i deficit nazionali. L’assurdità del doppio discorso dei governi (l’educazione è fondamentale per il futuro delle nostre società, è la via maestra per combattere l’esclusione, ma bisogna ridurre i crediti a questo settore). In sostanza, i nostri governanti sono incapaci di trovare una via per assicurare il rispetto delle priorità considerate essenziali per evitare la decadenza dell’Europa. Paradossalmente, la Ministra greca Anna Diamatopoulou ha espresso nel modo migliore questa difficoltà, citando la sua personale lacerante contraddizione fra la necessità del risanamento delle finanze pubbliche e finanziamento dell’educazione e delle politiche sociali. Si ha un po’ la sensazione (ma mi pare di averlo già sottinteso) che la politica europea sia governata più dalle agenzie di rating che dai propri governi! Pochi giorni dopo, in una forma più seminariale, il Comitato delle Regioni riprendeva il tema dell’esclusione sociale.

Una Presidente per il Comitato delle Regioni, finalmente!

L’Italia ha seriamente rischiato di perdere la presidenza del Comitato delle regioni. Come abbiamo visto nel numero precedente della rivista, la signora Bresso, governatore del Piemonte, era stata eletta Presidente del Comitato delle regioni. Poche settimane dopo, perdeva le elezioni in Piemonte e con ciò la sua carica di governatore. Ne conseguiva che, non avendo più il titolo per il quale era stata nominata membro del Comitato, decadeva da membro e, conseguentemente, non poteva più essere Presidente del Comitato. Come abbiamo visto, l’immediato precedente riguardava il suo predecessore, anch’egli privato della carica per la quale era stato nominato al Comitato. Il Belgio ha inventato qualsiasi cosa per non mettere in causa una “propria” presidenza, anche se Van den Brandt è un personaggio scomodo nel panorama belga. L’Italia è diversa! Ci sono volute settimane per risolvere il problema, tanto che a metà giugno il Comitato ha dovuto rieleggere la signora Bresso Presidente del Comitato, allorché erano cominciate le manovre per “scipparle” la presidenza. È andata bene, per fortuna. Tralascio i commenti “irriguardosi” che ho dovuto ascoltare sui meriti del mio paese! Ma tant’è. Non ci resta che augurare a Mercedes Bresso una presidenza di successo.


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