Numero 1/2011

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1 Gennaio/febbraio 2011 – Anno XII

Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% Direzione Commerciale Imprese Regione Campania

Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino

Mediterraneo e Unione Europea

L

Cosimo Risi

a crisi nel Mediterraneo, iniziata coi fatti di Tunisia (gennaio 2011), suscita un benefico dibattito sulle pro‑ spettive della politica europea nell’area. Tale politica si era attestata dal 2008, almeno sotto il profilo multilaterale, sull’esperimento dell’Unione per il Mediterraneo (UpM). E pur tuttavia l’UpM era in stallo da tempo, al punto che molti in Europa s’interrogavano sulla sua tenuta anche prima degli eventi tunisini. La conclusione (prov‑ visoria) da trarre è che il multilateralismo euro‑medi‑ terraneo non ha dato buona prova nell’immediato con l’Unione per il Mediterraneo né prima con la strategia di Barcellona. Avrebbe mag‑ giore credito un altro tipo di multilateralismo – il Dialo‑ go 5 + 5 – dalle dimensioni e dal campo d’applicazione meno ampi. Un multilaterali‑ smo informale che si basa su paesi dagli interessi sostan‑ zialmente convergenti anche se non proprio like‑minded. E d’altronde il fatto che la Libia partecipi al “5 + 5” ma non all’UpM e neppure alla stra‑ tegia di Barcellona porta ad una duplice considerazione: Tripoli aveva forse ragione quando avanzava riserve circa la tenuta di Barcellona

e la viabilità dell’UpM; la re‑ gione euro – mediterranea è troppo vasta e differenziata per aderire, tutta insieme, a regole strette di cooperazio‑ ne come quelle che derivano da una “quasi organizzazio‑ ne” come l’UpM. L’approccio europeo al caso Mediterraneo è vizia‑ to alla radice dal fatto che il processo di integrazione europea è un modello irri‑ petibile altrove. Da questa parte del Mare, l’Unione europea ha stabilito un’ege‑ monia sulle altre organizza‑ zioni continentali (Consiglio d’Europa) e transcontinen‑ tali (NATO, OSCE). Dall’al‑ tra parte del Mare, nessuna organizzazione regionale ha stabilito un’egemonia. Anzi, alcuni tentativi di associa‑ zione si sono rivelati cadu‑ chi o irrimediabilmente fra‑ gili: è il caso dell’Unione del Maghreb Arabo ed anche della Lega Araba. La riflessione sul mul‑ tilateralismo euro‑medi‑ terraneo rinvia alla capa‑ cità dell’Unione europea di dotarsi di una politica mediterranea adeguata alle sfide che vengono dal Medi‑ terraneo. La Comunità euro‑ pea fu tempestiva negli anni Sessanta   Segue a pag. 3

Un piano del Sud o un piano per la ripresa della crescita italiana? Massimo Lo Cicero Eravamo alla fine del mese di novembre, nel 2010, ed il Piano Sud fece capolino, a metà strada della lista dei dieci obiettivi che il Governo aveva individuato per avviare il rilancio economico ed il consolidamento delle istituzioni pubbliche del paese. Del resto la crescita economica e la go‑

vernabilità viaggiano parallelamente: se un paese cresce si governa più facilmente il conflitto distri‑ butivo, perché dividere la nuova ricchezza in ter‑ mini più equi non compromette troppo gli assetti proprietari precedenti, il gioco non è io vinco e tu   Segue a pag. 5 perdi, tra ricchi e poveri,…

Fondi europei dal letargo alla primavera Marco Esposito I piani di spesa dei fondi europei vivono cicli‑ camente quattro stagioni: l’annuncio, il letargo, la corsa, la delusione. È accaduto nel ciclo 1994‑1999, si è ripetuto con Agenda 2000 (2000‑2006) men‑ tre per il settennio 2007‑2013 siamo nel passaggio dal letargo alla corsa. Caratteristica della stagione

della corsa è il concentrarsi sulla quantità di spe‑ sa, premessa per il passaggio alla quarta stagio‑ ne, quella nella quale si lamenta la scarsa qualità della spesa e l’occasione perduta, cui segue l’an‑ nuncio che con il ciclo successivo si farà tesoro   Segue a pag. 7 dell’esperienza e…

l’Europa oggi

Andrea Pierucci e Vincenzo Baldini intervengono sulle riflessioni di Biagio de Giovanni

intorno ai problemi e alle prospettive dell’Unione europea

da pag. 11 a 18



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Segue da pag. 1 …e Settanta del XX secolo quan‑ do ancora i suoi strumenti di “azio‑ ne esterna” erano rudimentali. Ha maggiore titolo per farlo nel XXI se‑ colo, ora che dispone della più sofi‑ sticata strumentazione del Trattato di Lisbona. La cooperazione con il Mediter‑ raneo comincia negli anni sessanta del XX secolo con l’azione della Co‑ munità volta a riprendere in diverso contesto i preesistenti rapporti fra alcuni stati membri, e segnatamen‑ te la Francia, ed alcuni paesi terzi del Mediterraneo dopo la decoloniz‑ zazione. La dimensione regionale è ignorata. È parimenti trascurata la coerenza dell’azione esterna della Comunità: sia perché il Trattato di Roma non offre gli strumenti giuridici per perseguirla sia perché il mondo mediterraneo è enormemente frasta‑ gliato. Nel 1973 il Parlamento euro‑ peo lancia la “politica mediterranea globale”: il primo tentativo di si‑ stematizzare l’azione comunitaria nell’intero bacino mediterraneo, a fini di sicurezza strategica e nel quadro della contrapposizione est‑ovest. Lo

Mediterraneo e Unione Europea Cosimo Risi choc petrolifero del 1973, seguito alla guerra dello Yom Kippur, esaspera i contrasti fra Israele e mondo arabo, nonché fra questo e l’Occidente fi‑ lo‑israeliano, e compromette la glo‑ balità della politica mediterranea. La dimensione multilaterale, appena evocata nel progetto del Parlamen‑ to, finisce per rifluire nella tradizio‑ nale rete degli accordi bilaterali fra la Comunità da una parte ed i singoli PTM dall’altra. La Comunità non può mescolare l’attività che essa pratica con Israele con quella che pratica con i paesi arabi. Emerge il nodo di fondo delle re‑ lazioni euro‑mediterranee: la profon‑ da conflittualità che oppone alcuni paesi terzi fra loro e impedisce alla CEE di costruire modelli di coopera‑ zione regionale. La politica europea si svolge all’insegna della cooperazione, per rilanciare l’economia della regio‑ ne e trasformarla in zona di crescita e stabilità, ma con approcci caso per

L’Unità d’Italia Il fenomeno Achille Lauro negli anni Cinquanta a Napoli

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Andrea Geremicca

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L a cultura a Napoli

Napoli, il Sud cioè Italia, Europa, Mondo

Marina Guardati

Memoria

In ricordo di Geppino Golia

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caso, modulati sulle priorità politiche della CEE e sul grado di vicinanza dei singoli PTM. Nel 1990 la Commissione propo‑ ne “la politica mediterranea rinnova‑ ta”, che il Consiglio approva e lancia nel successivo 1992. Crescono gli stanziamenti comunitari a fronte dei crescenti debiti dei PTM, migliora il regime commerciale, si estende la cooperazione a settori come l’aggiu‑ stamento strutturale, la tutela am‑ bientale, la cooperazione regionale. Ma la politica mediterranea rinno‑ vata resta al di sotto delle attese, in mancanza di un disegno forte da ambedue le parti. La Comunità, poi Unione col Trattato di Maastricht, si concentra sul processo di riforme nell’est europeo e nell’avvio della stagione del grande allargamento. A sud occorre aprire nuove prospettive con un processo a dimensione bila‑ terale‑regionale che connetta i due filoni della politica mediterranea. Il

Dimissioni del Governo versus scioglimento anticipato

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permanente Rapporti UE‑Russia

Carmine Zaccaria

Idee

Pietro Ciarlo

Focus

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1995 è l’anno della Dichiarazione di Barcellona. Tre sono i fattori che spingo‑ no l’Unione a lanciare una politica mediterranea veramente globale con la Dichiarazione di Barcellona: l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht che istituzionalizza la politica estera e di si‑ curezza comune (PESC); la felice espe‑ rienza della strategia onnicomprensiva come quella in corso in Europa centrale e orientale; la normalizzazione dei rap‑ porti, auspici gli Stati Uniti e la Russia, fra Israele e Autorità Palestinese. Gra‑ zie soprattutto al reciproco riconosci‑ mento fra Israele e Autorità Palesti‑ nese, la politica euro‑mediterranea acquisisce una credibile dimensione regionale, che asseconda e integra il tradizionale filone bilaterale. La zona di stabilità, pace, sicu‑ rezza, che è posta in premessa della Dichiarazione, deve seguire al succes‑ so di una strategia così articolata. Il partenariato euro‑mediterraneo si pone tre obiettivi che rispondono ad altrettanti capitoli di cooperazione: 1) la definizione di un’area comune di stabilità e pace attraverso il raf‑ forzato dialogo politico e di sicu‑

Euronote Andrea Pierucci

Eurodate Daniela Russo

Le opere che illustrano questo numero sono progetti e realizzazioni architettoniche di autori vari

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4 rezza; 2) la costruzione di un’area di prosperità condivisa attraverso il partenariato economico e finanzia‑ rio e l’instaurazione a termine (2010) della zona di libero scambio (ZLS); 3) il ravvicinamento fra popoli eu‑ ropei e mediterranei attraverso il partenariato culturale, sociale, uma‑ no, volto a favorire gli scambi umani e la comprensione fra società civili. I flussi migratori da sud a nord sono al tempo stesso motivo di con‑ trasto e di cooperazione fra le due sponde del Mediterraneo. Il contra‑ sto viene dalla diversa percezione del fenomeno, che gli europei ten‑ dono a contenere ed i PTM a fluidi‑ ficare. La cooperazione si rafforza mediante accordi bilaterali che com‑ portano diritti ed obblighi a carico delle Parti e portano benefici ai pa‑ esi terzi mediterranei a misura della loro adesione alla necessità di con‑ trollare i flussi. È improbabile che attraverso l’UpM si possa riavviare la coope‑ razione politica cui aspirava Barcel‑ lona, che avrebbe dovuto portare ad un’area di sicurezza basata sulla cooperazione (cooperative security). E d’altronde la politica europea di vi‑ cinato (PEV), lanciata nel 2003 per stringere un anello di amici attorno all’Unione, nelle ultime versioni ab‑ bandona l’obiettivo strategico della cooperative security a favore di ap‑ procci bilaterali ai singoli paesi, tal‑ ché non si parla più di anello di amici ma di un certo numero di “ben go‑ vernati vicini”. Sia l’UpM che la PEV andrebbe‑ ro preservate per i loro aspetti più progressivi fra i quali, anzitutto, la stessa nozione di un multilateralismo possibile nelle relazioni euro‑medi‑ terranee. Occorre cioè considerare l’attuale stallo non come irrimediabi‑ le blocco ma come tappa di una mar‑ cia che procede in modo tortuoso e lungo rotte a volte imprevedibili. La cooperazione regionale attraverso il Mediterraneo è soprattutto un’inizia‑

tiva dell’Unione. I principi di partner‑ ship (Barcellona) e di co‑ownership (Parigi) sono politicamente corretti ed inevitabili in un quadro di relazio‑ ni globalizzate. Ma rispondono solo in parte allo stato dei fatti, che vede pur sempre l’Unione in prima linea a cercare canali di cooperazione eu‑ ro‑mediterranea che integrino quelli tradizionali basati sulla rete degli ac‑ cordi bilaterali. Con Barcellona e con Parigi l’Unione esplora nuove piste nell’ambito delle sue rafforzate com‑ petenze in materia di politica estera comune. Ma si tratta di nuove piste che trovano il consenso assai riluttan‑ te dei partner. I paesi terzi del Medi‑ terraneo cercano nella politica di Bru‑ xelles il canale per le loro privilegiate relazioni con i singoli stati europei e vedono nell’UE un attore importante, ancorché non decisivo, nel conflitto mediorientale grazie al rapporto eu‑ ropeo con gli Stati Uniti. Il partenariato euro‑mediterra‑ neo (PEM) ricalca il modello dell’in‑ tegrazione normativa europea. È as‑ sai più penetrante ed organico delle precedenti politiche mediterranee. Si arricchisce di temi originali come le riforme dei sistemi economici e poli‑ tici: temi che erano alla base di altri modelli di successo come la CSCE ed il processo di allargamento ad est. Le premesse su cui poggia l’espe‑ rimento “comunitario mediterraneo” si rivelano paradossalmente più de‑ boli col passare degli anni. Nel 2000, alla Conferenza di Marsiglia, i part‑ ner rinunciano a definire il terreno comune necessario a concretizzare gli obiettivi politici del PEM e così di fatto bloccano il suo sviluppo po‑ litico‑istituzionale. Essi prendono atto che tale sviluppo è impratica‑ bile nelle condizioni date, che sono quelle prevalentemente dei conflitti sul campo. La politica europea di vicinato comprende sia i paesi dell’Europa orientale esclusi dall’allargamento sia i paesi terzi del Mediterraneo.

La PEV applica lo stesso modello di rapporti a ciascun partner preso se‑ paratamente, e cioè in via bilatera‑ le. Ingloba la componente bilaterale del PEM e segna – nella visione dei partner mediterranei – il ritorno al modello hub and spokes della politica mediterranea globale. Il Vertice PEM del decennale (Barcellona, 2005) cer‑ tifica l’involuzione del PEM nella com‑ ponente politica e multilaterale. La Francia lancia nel 2007 il pro‑ getto di Union méditerranéenne che si rivolge in primo luogo ai soli stati “mediterranei” dell’UE, e cioè Cipro, Malta, Grecia, Portogallo, Spagna. Un’Unione mediterranea “stretta”, rispetto al partenariato “largo” di Barcellona, per raccordare i paesi delle due sponde che condividono profondi legami e concreti interes‑ si, all’insegna di nozioni meta‑poli‑ tiche come “mediterraneità” e “la‑ tinità”. La dimensione politica del multilateralismo si attenua per la‑ sciare spazio alla dimensione econo‑ mica in cui si iscrive la cooperazione in materia di flussi migratori. La “securitizzazione” delle rela‑ zioni euro‑mediterranee diviene la nota dominante sotto il duplice pro‑ filo del contenimento dei flussi mi‑ gratori, col loro bagaglio di rimpatri e respingimenti, e della cooperazione contro i radicalismi, specie quello di matrice islamista. Guardando attra‑ verso le lenti della “securitizzazione”

l’Unione europea rischia d’indebolire la capacità di comprendere fenome‑ ni altrimenti articolati. Giunge poco preparata ai sommovimenti che col‑ piscono la sponda sud, a partire dal Maghreb per estendersi al Mashrak ed al Golfo. La lettura in chiave eco‑ nomicistica dei fenomeni, innescati dalle crisi alimentari e dalla disoccu‑ pazione di massa, non riesce a dare completa ragione della loro portata politica: la rivendicazione di spazi di agibilità e libertà da parte di milio‑ ni di cittadini. Il paradosso è che la condizionalità politica, che l’Unione aveva assunto a parametro della sua cooperazione con i PTM e che poi tra‑ scura in omaggio alla “securitizzazio‑ ne”, penetra nel mondo mediterraneo come influenza culturale. Con la globalizzazione gli europei cedono al ripiegamento sulle vicende domestiche e si mostrano poco atten‑ ti alle vicende mediterranee, quasi dubitino della forza dei fondamenti ci‑ vili d’Europa. Con la globalizzazione le masse arabe s’impossessano di quei fondamenti, che essi collegano al pro‑ prio desiderio di entrare come sog‑ getti nei processi mondiali. Il ritardo d’Europa va spiegato non tanto con la mancanza di strumenti idonei quanto nel suo adeguarsi allo statu quo di re‑ gimi dai tratti autoritari ma vicini agli interessi occidentali. Il ritardo può es‑ sere colmato con strategie adeguate verso il nuovo che emerge.


Segue da pag. 1 …ma si può migliorare la condizione dei poveri dando incrementi meno che propor‑ zionali ai ricchi, che si accontentano per il fatto di esserlo, più ricchi. Se, invece, un Governo è capace di attivare la crescita, perché produce politiche fiscali e monetarie affidabili e perché offre alle banche ed alle imprese regole ed infrastrutture adeguate al potenziale di sviluppo che la tecnologia e la dinamica dei mercati competitivi con‑ sentono, allora è la capacità di governo che alimenta la crescita e, di conseguenza, si può procedere anche al secondo tempo del‑ le politiche redistributive tra i gruppi socia‑ li. Insomma governabilità e crescita simul stabunt simul cadent, anche se non siamo proprio in grado di dire quale sia la causa e quale l’effetto delle due variabili: ricchez‑ za e benessere, buongoverno e legalità. Il caso italiano ci insegna che, purtroppo, e da molti anni, dal 1992, più o meno, la crescita è stata ridotta ed incostante ed il governo è stato frammentato ed instabile: perché si vincevano le elezioni e si sfaldavano le coalizioni di maggioranza nel durante suc‑ cessivo: quale che fosse l’identità politica della maggioranza. Se aggiungete a queste circostanze che siamo un paese dove c’è troppa distanza tra grande impresa e pic‑ cola impresa; dove c’è troppa distanza tra la dimensione della pressione fiscale, per chi le tasse le paga, ed il costo dei servizi pubblici, il paese dove la pubblica ammini‑ strazione costa troppo e produce troppo poco per i cittadini e siamo, infine, il pae‑ se duale, dove i cittadini del Sud sono tutti troppo poveri e quelli del Nord sono qua‑ si tutti troppo ricchi, si capisce che siamo arrivati con il fiato grosso ai giorni nostri. Privi di crescita e di buongoverno ed avvi‑ liti dalle conseguenze recessive della prima crisi finanziaria del mercato globale. Non ci si deve meravigliare, insomma, se la nostra banca centrale ed il suo Governatore ci ri‑ cordano con insistenza che l’Italia è arrivata debole all’impatto con la crisi, perché non cresceva da molti anni, ed è incapace di riagganciare la ripresa perché la distanza che separa il Nord dal Sud, il fisco dall’equi‑ tà redistributiva, e la grande dalla piccola impresa, rappresentano una terna di dua‑

Un piano del Sud… Massimo Lo Cicero lismi che impedisce al paese di trovare un ragionevole equilibrio tra coesione interna e crescita economica. Nel novembre del 2010, insomma, essendo tutti consapevoli di questo gro‑ viglio di problemi che strozzava la crescita italiana, sembrò a molti quasi una buona notizia l’attenzione che il Governo riserva‑ va alla politica economica per il Sud. Certo era assai singolare, e deludente, il modo in cui questa attenzione, ed i contenuti della stessa, venivano comunicati alla stampa ed al paese. Berlusconi, affiancato da Tremon‑ ti e da Fitto, proponeva, in una conferenza stampa, un ragionamento singolare. Secondo il Presidente del Consiglio con il Piano Sud – che segue federalismo sicurezza & legalità ma precede giustizia e fisco, nella sequenza ordinata dei provvedi‑ menti del suo gabinetto – si passava oltre la metà delle cinque priorità sulle quali il Governo aveva ottenuto la fiducia. Ed inoltre, affermava sicuro il presi‑ dente, le scelte per il Sud sono l’altra faccia della medaglia rispetto al federalismo: una cosa al Nord ed una al Sud, sembrerebbe di capire. Giulio Tremonti presentava, nel‑ la medesima conferenza stampa, un’altra versione. Ricordava come il Sud fosse una questione nazionale e non la somma di tan‑ te questioni regionali. Rimpiangeva la prima stagione dell’intervento straordinario e ne

mimava, per certi versi, l’impianto logico. Seguendo Vanoni e Saraceno ricordava che un regime fiscale, amichevole verso l’impresa, è meglio degli incentivi. Trala‑ sciava, purtroppo, di ricordare come l’abo‑ lizione decennale, delle imposte dirette e della patrimoniale (allora Ilor), sulle società trasferite al Sud, negli anni cinquanta, fos‑ se stata una misura molto più robusta de‑ gli accenni odierni ai crediti d’imposta ed alla “futura” fiscalità di vantaggio. Anche la Cassa del Mezzogiorno, di allora, i mitici cinquanta, era più robusta ed efficace del Fas “accentrato”, che Fitto, proporrà dopo Tremonti, sempre nella conferenza stampa di presentazione del Piano per il Sud. Così come il Mediocredito Centra‑ le – istituto di credito speciale, gestore di fondi di garanzia e molla per attivare pro‑ getti industriali ed infrastrutture – ricorda oggi, ma non è la stessa cosa, gli Istituti di credito speciale, dove erano azionisti la Cassa e le grandi banche meridionali. Ora gli azionisti del Mediocredito saranno le poste italiane, le banche di credito coo‑ perativo – che nel Sud non sono moltissi‑ me – e le associazioni della cooperazione, la Confcooperative e la Lega. Meglio di niente ma perché – visto che si dovranno anche gestire strumenti come la Bei ed il fondo Jeremie, per ricapitalizzare le picco‑ le imprese – non aggiungere agli azionisti

5 anche la Cassa Depositi e Prestiti, che di queste cose ne capisce molto ed è anche una banca? In fondo è dal 2004 che si par‑ la di una Banca del Sud e per il Sud: ec‑ cellente intuizione dello stesso Tremonti, Anche se, proprio Tremonti ricordava ai giornalisti presenti che un Italia duale ri‑ mane diversa ma non deve essere divisa in due. Ma allora non ha molto senso dire che ci vogliono due politiche – federalismo e piano per il Sud, come aveva appena det‑ to Berlusconi – mentre avrebbe avuto sen‑ so dire, al contrario, che il piano approvato dal Governo fosse un piano per la crescita economica in Italia. Che quel piano avrebbe creato le opportunità per la nascita di nuo‑ ve imprese e la espansione delle imprese esistenti; avrebbe collegato, nei trasporti e nelle telecomunicazioni, le due parti di un paese troppo lungo e troppo eterogeneo; avrebbe riequilibrato la concentrazione delle imprese, al Nord, rispetto a quella dei senza lavoro, al Sud. Che si investiva al Sud ed al Nord per chiudere il dualismo nel paese e per fare crescere l’intera eco‑ nomia italiana. Finalmente, e dopo quasi vent’anni di basso profilo espansivo. Tutto questo, forse, Tremonti lo avrebbe anche potuto dire ma, subito dopo, non avrebbe potuto e dovuto parlare Raffaele Fitto, di‑ cendo quello che, invece, ha detto. Che si deve creare un coordinamento istituzionale tra i livelli di Governo – ministeri, regioni e comuni – e che si deve cercare la concer‑ tazione tra le parti sociali; che si deve dar vita ad un “contratto” tra enti pubblici di‑ versi tra loro per governare le risorse che l’Europa ci trasferisce e che non abbiamo saputo spendere o spendiamo male. Noi sappiamo, tuttavia, che i soldi “europei” sono versati all’Europa dall’Italia per svi‑ luppare le regioni deboli dell’Europa intera; e sappiamo anche che l’Italia rimane cre‑ ditore netto, ritira meno di quanto versa all’Europa. Anche perché spende poco e male i fondi europei, attraverso le regioni ai quali il Governo trasferisce larga parte di quei fondi medesimi.. Mentre il baroc‑ co triplice legame, tra enti della pubblica amministrazione, organismi di rappresen‑ tanza sociale e livelli di Governo, ricorda i processi di piani e programmi, ricamati


6 dai ministri democristiani nel tragico in‑ terregno tra la fine della prima Cassa, gli anni settanta, e lo scoppio dell’euforia sul terremoto, negli anni ottanta: prima della catastrofe valutaria del 92. Dieci anni dopo venne Agenda 2000 e non fu un successo, come sappiamo. Ma sappiamo anche che quell’esperimento di politica economica subì tre traumi epocali in sette anni: sep‑ tember eleven, l’allargamento ad est nono‑ stante l’euro forte, la crisi finanziaria glo‑ bale ed il fallimento di Lehman Brothers. Scusate se è poco. I miliardi di euro in gioco, ancora oggi e nel piano Fitto, restano quelli annunciati alla nascita del Governo Prodi a Caserta, 100. Ora non c’è più la crisi finanziaria ma la sua conseguenza, la recessione econo‑ mica, e la smania deflattiva della Merkel verso l’economia europea. Speriamo che almeno una parte di questi miliardi possa passare tra le maglie strette del triangolo tra livelli di Governo, pubblica amministrazione e consenso del‑ le parti sociali. Troppa gerarchia e vincoli pubblici nel ragionamento di Fitto. Troppa simmetria redistributiva – le “due facce” del Sud e del federalismo – nel giudizio di‑ stratto del premier. Tremonti sembrerebbe e forse è un in‑ terlocutore per una politica diversa. Ma basterà tornare allo spirito di Va‑ noni e Saraceno? La politica economica non si recita più nel teatro domestico, la miopia tedesca tormenta l’Europa, l’assenza della crescita mette l’Italia in coda tra coloro che vorreb‑ bero tornare ad una stagione di sviluppo. Non date al Sud qualche cosa, pur di tacitarne il malessere, direbbe Nitti, ma fate un piano per l’Italia. Chiamate ban‑ che ed imprese a reagire contro la crisi. Non pensate che la crescita sia un affare di Stato: perché gli affari si fanno sul mer‑ cato e generano reddito che lo Stato ridi‑ stribuisce, dopo, per aggiungere equità e consenso alla crescita. Se usate i soldi dello Stato per creare consenso, le cose vanno in una direzione assai diversa dalla crescita. E, comunque, vanno anche più lente. Ma cerchiamo di concludere con un

impianto positivo e non solo con le recri‑ minazioni. Esistono tre direttrici di riferimento per sviluppare una politica economica per la crescita dell’Italia attraverso la cresci‑ ta del Sud. Non serve un piano per il Sud, serve all’Italia la crescita del Sud. Parliamo di questo. Apriamo una ri‑ flessione sulla relazione tra finanza e cre‑ scita e, di conseguenza, sulla natura ed il ruolo del sistema bancario rispetto al processo di accumulazione. Si potrebbe allargare lo spettro di questa prima di‑ mensione di approfondimento, suggeren‑ do una ripresa dell’attenzione sul sistema bancario meridionale. Una linea di analisi a livello del sistema, e della natura degli intermediari che lo compongono, che ri‑ prenda e riproponga i temi del volume di Tamagna e. Qualeatti, Sviluppo economi‑ co ed intermediazione finanziaria, (Franco Angeli, Milano 1978). Il sistema bancario ha superato la dicotomia tra banche ed istituti speciali di credito ma resta aperta la questione del processo di trasferimento dal risparmio all’investimento: consideran‑ do che le banche gestiscono sia il credito a medio che quello a lungo termine e con‑ trollano, indirettamente, attraverso sgr e fondi, la raccolta di risparmio dal patrimo‑ nio delle famiglie ed il suo trasferimento alle imprese, con titoli, obbligazionari ma anche azionari. In questo nuovo contesto, con banche che sono diventate imprese quotate ma non contendibili, perché controllate dalle Fon‑ dazioni bancarie, bisognerebbe prendere in esame la seguente questione: esiste, ed in caso affermativo per quale motivo, un dif‑ ferenziale di rischio tra le imprese locali stand alone, le imprese locali che creano network tra imprese locali o fondi collettivi di garanzia, le imprese incluse nelle filiere lunghe trans regionali ed, infine, le impre‑ se medie e grandi che localizzano impianti nelle regioni importatrici nette? Le tecniche del rating, che si sono molto sviluppate, misurano questi rischi ma sarebbe impor‑ tante aggiungere alla tecnica della misura una descrizione delle origini e delle cause dei rischi stessi: per aggredire alla radice,

nella gestione dell’impresa e nella politica economica, la rimozione od almeno il ridi‑ mensionamento delle stesse. Una tassonomia della diversità di que‑ sti rischi, e del loro impatto sulle gestioni aziendali, sarebbe molto interessante per misurare la affidabilità delle banche nella stima adeguata della capacità di credito, che rappresenta la molla della dinamica possibile della crescita. Essendo il credito una sorta di biglietto necessario per acce‑ dere alla crescita. Apriamo anche una ulteriore e paral‑ lela discussione su tecnologia ed orga‑ nizzazione, sui modi e la dimensione dei processi di produzione: per capire come ragionare sulla dimensione dell’impre‑ sa, sulla capacità delle reti di imprese di proiettarsi attraverso ed oltre i confini re‑ gionali e nazionali, sulle competenze e le capacità delle risorse umane necessarie perché queste ambizioni possano diven‑ tare realizzazioni concrete.

ratteri strutturali. Valga per tutti l’esempio della soluzione di Bretton Woods nel 1944, dove al Fondo Monetario Internazionale ve‑ niva affidato il coordinamento degli squilibri temporanei delle bilance di pagamenti tra paesi sviluppati mentre, alla Banca Mon‑ diale, era assegnato l’obiettivo del supera‑ mento della condizione di importatori netti, per i paesi poveri, garantendo trasferimenti di risparmio addizionale e monitorando l’in‑ vestimento di quei flussi di risparmio per‑ ché si traducessero in investimenti capaci di allargare la creazione di reddito nei pa‑ esi stessi, arrivando progressivamente ad un volume di prodotto interno lordo capa‑ ce di alimentare, senza trasferimenti netti dall’esterno, il volume degli investimenti coerente con il pieno impiego delle risorse umane disponibili. Un federalismo che serve per dividere e contrapporre le parti del paese, invece di unirle; un Mediterraneo che è teatro di con‑ flitti, e non solo di opportunità; una marcata

Ed apriamo anche una ultima frontie‑ ra di confronto sugli effetti del decentra‑ mento amministrativo nella gestione delle politiche fiscali, la riforma federalista che si propone in Italia. Su questo ultimo punto esistono inter‑ rogativi abbastanza rilevanti: se sia efficien‑ te la scala delle attuali regioni amministrati‑ ve come dimensione ottimale del processo di decentramento; se si possa imporre il me‑ desimo criterio di decentramento alle regio‑ ni esportatrici nette ed a quelle importatrici nette; se non si debba prendere in conside‑ razione, per superare gli ostacoli derivanti dalle due fattispecie appena ricordate, la opportunità di individuare macro regioni che abbiano le medesime caratteristiche economiche strutturali creando, per ognuna di esse, una politica, ed un sistema di orga‑ nizzazioni che diano corso a quella politica, adeguati alla morfologia dei rispettivi ca‑

asimmetria tra intermediari finanziari e si‑ stema delle imprese sarebbero i problemi da affrontare per chiudere il dualismo tra le due Italie. Un piano per il Sud, che si li‑ miti a riordinare la dimensione dei fondi europei residui, per indicare quali grandi progetti finanziare nel Sud, ripetendo quel‑ lo che emerge dai cassetti polverosi degli ultimi venti anni, mentre tutto il panorama di contorno alla scala del Mediterraneo, dell’Europa e del Mondo, è radicalmente cambiato, sembra davvero una scelta pa‑ radossale ed improbabile. Nel migliore dei casi si otterrebbe un soffio di spesa congiunturale che farebbe tracimare liquidità fuori dalla grande pen‑ tola bucata del mezzogiorno, come era av‑ venuto, prima della crisi del 2007, e verso la coda della famosa “Agenda 2000”, quando si spesero i fondi europei solo per paura che fossero revocati.


Segue da pag. 1 …si eviteranno gli errori del passato. Il 19 dicembre 2010 del Commissario europeo per le Politiche regionali Johannes Hahn per chiudere la stagione del letargo ha scritto al ministro per i Rapporti con le Regioni e per la Coesione territoriale Raffaele Fitto una lettera nella quale si evidenziano sei critiche all’Italia. In primo luogo Hahn manifesta “pro‑ fonda preoccupazione” sul ritmo di spesa. In base al dato al 31 ottobre 2010 i paga‑ menti certificati dall’Italia sono fermi al 9%. Peraltro con i dati aggiornati al 31 dicembre 2010 si è raggiunta la quota del 9,5%, un valore che non muta la sostanza dei rilie‑ vi della Commissione. Per recuperare, nel 2011 si dovrebbe certificare una spesa pari a quella realizzata in quattro anni e cioè dal 2007 al 2010. I programmi lumaca sono dieci, tra i quali due Pon (Programmi operativi nazio‑ nali): Ricerca e Sviluppo e Reti e Mobilità;

Fondi europei… Marco Esposito due Poin (Programmi operativi interregio‑ nali): Attrattori culturali ed Energia; e sei Por (Programmi operativi regionali) e cioè Campania, Puglia, Calabria, Sicilia, Abruz‑ zo e Lazio. I dati al 31 dicembre fanno in‑ serire tra i Por in forte ritardo anche il Friuli Venezia Giulia. Un’altra critica è relativa al fatto che a quattro anni dall’inizio del periodo di pro‑ grammazione del 2007‑2013 ci sono ancora due programmi (il Pon Ricerca e Sviluppo locale e il Poin Attrattori culturali) non han‑ no ottenuto l’approvazione da parte della Commissione europea. La Commissione osserva inoltre che una delle ragioni dei ritardi è la accentua‑ ta instabilità delle amministrazioni e del personale amministrativo dopo le ultime

elezioni regionali. In particolare si sono registrati cambiamenti di maggioranza in Campania, Lazio e Calabria. Si evidenzia poi la scarsa chiarezza sul Piano per il Sud. La Commissione nonostan‑ te i contatti con il governo non ha ancora capito se il Piano ha un carattere di medio o di breve termine. Infine si sottolineano i rischi della riprogrammazione. La Commissione non è contraria a un cambiamento di rotta in corsa ma avverte che, visto che siamo al quinto anno del settennio, la ridefinizione degli obiettivi “può anche essere causa di ulteriori, significativi, ritardi”. È il caso di ricordare che in base ai target del periodo di programmazione 2007‑2013 la spesa certificata dovrebbe procedere in modo omogeneo nel set‑ tennio. Com’è noto, la Ue dà due anni di tempo per arrivare alla spesa effettiva di ciascun periodo (la cosiddetta regola dell’N+2) per cui a fine 2010 si sarebbe do‑ vuta realizzare la spesa del 2007 e 2008, pari a due settimi ovvero il 28,6%. Nes‑ sun programma, neppure quello della Valle d’Aosta, è in linea con il trend auspicato. Significativo è anche il fatto che il pro‑ gramma con il maggiore ritardo è quello della Campania, ovvero di tutti proprio quello di importo complessivo maggiore. Non a caso a fine gennaio il commissario Hahn ha provato a dare una scossa proprio al Por Campania con l’idea di utilizzare i fondi per Pompei. Il Cipe peraltro nella delibera dell’11 gennaio 2011 al punto 7 prende atto del “fortissimo ritardo” e dei “gravi rischi di disimpegno” ma segue una strada per la riprogrammazione che appare non esente dal rischio di accumulare ulteriori ritardi. In‑ fatti si indicano due date, il 31 maggio 2011 e il 31 dicembre 2011, dopo le quali i Pro‑ grammi operativi che non hanno raggiunto il target dovranno essere forzosamente og‑ getto di riprogrammazione. Si rischia perciò di veder sfilare via un ulteriore anno.

7 Peraltro al punto 8 della delibera del Cipe si assegna ai Fas, già decurtati, il compito di coprire i debiti sanitari regiona‑ li, venendo meno con tutta evidenza agli obiettivi di coesione e sviluppo. Nella tabella allegata alla delibe‑ ra del Cipe, inoltre, spicca l’azzeramento dello stanziamento di 150 milioni per le zone franche urbane, un caso raro di prov‑ vedimento promosso dal governo Prodi e portato avanti con coerenza dal governo Berlusconi fino al via libera dell’Unione europea, che risale alla fine del 2009. Da quel momento il ministro Tremonti ha boi‑ cottato un provvedimento che pure aveva contribuito a costruire, fino all’annullamen‑ to delle risorse dello scorso gennaio, con il quale sparisce uno dei pochi provvedimenti passati positivamente al vaglio della Com‑ missione europea e in grado di garantire una fiscalità di vantaggio. Drastico, inoltre, è il taglio effettua‑ to sempre dal Cipe al Programma Banda Larga, il cui stanziamento viene dimezzato passando da 800 a 400 milioni, azzoppando un progetto avviato nel 2003. Sembra insomma ancora una volta che si stia entrando nella stagione della corsa, dove l’unico obiettivo è quello di certificare spesa per incassare i contributi europei. Eppure uscire dal letargo per en‑ trare finalmente nella primavera è ancora possibile. Certo, con modifiche nel metodo e nel merito alle quali dovrebbero essere chiamati a contribuire i soggetti che hanno a cuore l’interesse del Mezzogiorno e per esso dell’Italia. Come contributo al dibattito e a titolo esemplificativo ecco quattro proposte: una di metodo – la regia pluriregionale e tre di merito su infrastrutture, capitale umano e la fondazione di una nuova città La Cabina di Regia del Mezzogiorno

Nella decennale esperienza di pro‑ grammazione dello sviluppo del Mezzo‑ giorno si è oscillato tra centralizzazione e decentramento, con risultati comun‑ que nel complesso insufficienti. Per la riprogrammazione del 2007‑2013 occorre che il Mezzogiorno ritrovi al suo interno


8 la forza e la capacità di perseguire alcuni chiari obiettivi. Va pertanto organizzata una Cabina di regia del Mezzogiorno, composta da nove persone di alto livello tecnico e professionale e di indiscussa moralità: i nove membri sono nomina‑ ti uno da ciascuna delle cinque regioni Obiettivo 1 (Basilicata, Calabria, Cam‑ pania, Puglia e Sicilia) uno dal ministero degli Affari regionali e della Coesione sociale, uno dal Dipartimento politiche di sviluppo, uno dal Commissario euro‑ peo per le Politiche regionali e uno, il presidente, scelto a maggioranza dalle Regioni in una rosa di tre nomi indica‑ ta dal ministero degli Affari regionali e dal Dps. La Cabina di regia del Mezzo‑ giorno ha il compito di riprogrammare la spesa dei fondi strutturali europei pun‑ tando su due assi fondamentali: rete di infrastrutture e valorizzazione delle ri‑ sorse umane.

La piattaforma del Mediterraneo

Il Mezzogiorno deve diventare un’area di eccellenza infrastrutturale nel Mediter‑ raneo. Vanno pertanto realizzate: • una rete a banda larga con fibra e wi‑ reless in grado di coprire entro il 2015 almeno il 95% della popolazione, con servizio gratuito per dieci anni; • una rete ferroviaria ad alta capacità lun‑ go l’asse adriatico e tirrenico; • un sistema portuale in grado di competere con i principali attori del Mediterraneo; • un sistema stradale a rete, con il miglio‑ ramento degli assi viari che collegano la costa adriatica e quella tirrenica. L’Erasmus del lavoro, chance per 300mila giovani

Il Mezzogiorno è un caso in Europa. Campania, Calabria, Sicilia e Puglia sono le regioni su 270 con il più basso tasso di occupati (40‑45%; Italia 56,7%; Ue 64,6%). Nella medesima area si registra anche la quota più alta di giovani Neet, cioè di ragaz‑ zi con meno di 30 anni che non studiano, non lavorano e non fanno formazio‑ ne (con una quota che supera il 30% in Campania e Sicilia; Ita‑ lia 21,2%; Ue 12,2%). Il Mez‑ zogiorno è anche una delle aree della Ue dove ci si laurea meno (con il caso limite in Campania dove ha completato gli studi universitari appena il 12,9% della popo‑ lazione tra i 30 e i 34 anni contro il 19% dell’Ita‑ lia e il 32,3% dell’Ue).

Neet è una sigla inglese e sta per Non education, employment, training e indica una potenziale e pericolosa esclusione sociale. Di fronte a una situazione di estrema gravità occorre mettere in campo, con il sostegno dell’Unione europea, un’azione straordinaria che incida sul fattore di maggiore debolezza: i giovani che non studiano e non lavorano. In‑ fatti la mancata partecipazione sia al mercato del lavoro, sia alle attività di formazione fa del ragazzo Neet non soltanto “un disoccupato in più” ma una persona priva di esperienza e destinata alla emarginazione sociale. Quel 30% di Neet nel Mezzogiorno è riferito alla popolazione tra i 15 e i 29 anni ed è pari a 1,2 milioni di persone. Occor‑ re mettere in campo un’azione che nello stesso tempo sia di stimolo a chi intende proseguire gli studi e metta in contatto con il mondo del lavoro chi ha concluso l’espe‑ rienza formativa. L’Ue potrebbe sostenere l’avvio di un bando chiamato Erasmus del lavoro proprio perché Campania, Calabria, Sicilia e Puglia rappresentano l’epicentro della crisi occupazionale nella Ue e l’espe‑ rienza del Sud Italia potrebbe fare da apripi‑ sta per lo sviluppo di una nuova formula che metta in contatto i ragazzi che hanno termi‑ nato il ciclo di studi e il mondo del lavoro. L’obiettivo quindi è lanciare un grande piano di avvio al lavoro per i giovani che hanno concluso il ciclo scolastico. L’idea è orga‑ nizzare nell’ambito della riprogrammazione dei fondi strutturali e d’intesa con l’Unione europea un Erasmus del lavoro: un training formativo di nove mesi in aziende italiane ed europee per giovani tra i 25 e i 29 anni residenti nelle aree Obiettivo 1 e cioè Cam‑ pania, Calabria, Puglia, Sicilia e Basilicata. Le aziende si impegnerebbero a garantire l’equivalente monetario di vitto e alloggio. Il target è dare un’occasione di contatto con il mondo del lavoro ad almeno 300mila giovani meridionali con almeno 25 anni nel corso di cinque bandi, dal 2011 al 2015. Per i più giovani, quelli che non hanno l’età per il bando, si crea un incentivo a completare il ciclo di studi superiori e universitari, contra‑ stando un altro dei problemi del Mezzogior‑ no: l’interruzione del percorso formativo. L’Erasmus del lavoro può diventare il fiore all’occhiello del curriculum dei ragazzi meri‑

dionali e andrà accompagnato da un piano di rientro nella regione, con possibilità di assunzione presso le aziende locali e atti‑ vità di autoimpiego con prestiti personali a tassi convenzionati. Una nuova città: Campania Felix

La principale area urbana del Mezzo‑ giorno, quella di Napoli, conta quasi 4 milioni di abitanti, superando i confini provinciali in direzione di Caserta e Salerno. È l’area d’Ita‑ lia dove la vita media è più bassa, con una situazione gravissima per l’inquinamento ambientale a causa dell’interramento per decenni di rifiuti tossici provenienti da tut‑ ta Italia. Al di là della contingenza della rac‑ colta quotidiana dei rifiuti, occorre pertanto programmare un grande piano di recupero e riequilibrio del territorio a fini sanitari ed economici. La proposta è di utilizzare i fondi europei per una straordinaria opera di boni‑ fica dei territori. Nell’ambito di tale progetto, vanno unificati quattro comuni della provin‑ cia di Caserta: Cancello‑Arnone, Casal di Principe, Grazzanise e Villa Literno i cui nomi peraltro sono ormai legati alla criminalità or‑ ganizzata. Il nuovo comune sarà ribattezzato Campania Felix e avrà una superficie di 181 chilometri quadrati (Napoli ne conta 117). Dopo aver bonificato l’area, va realizzata con pianificazione pubblica sulla base di un concorso di idee internazionale e con investi‑ menti privati una città‑giardino di 70‑80 mila abitanti nella quale sperimentare le più in‑ novative tecniche di edilizia ecocompatibile, riqualificando inoltre le aree dove vivono gli attuali 45mila residenti dei quattro comuni. Una città dove le piste ciclabili non si incro‑ cino mai con il traffico tradizionale. Una città collegata con mezzi su ferro all’aeroporto di Grazzanise e al centro di Napoli, che dista 30 chilometri. Realizzare Campania Felix avrebbe effetti benefici diretti di deconge‑ stionamento dell’area metropolitana di Na‑ poli, di attrazione di investimenti dall’intero Mezzogiorno e non solo, di riqualificazione del territorio. Ma l’effetto forse di maggior rilievo sarebbe un altro: quello di chiudere simbolicamente la stagione di Gomorra e di rifondare un patto tra uomo e ambiente che si basi sulla legalità, sull’equilibrio e, perché no, sul recupero dell’antica felicità.




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Pennino

Luciano O – Art director LITAN Geremicca e Andrea NAPO – Direttor Europa RGIO Mezzogiorno emergenze GIO re a nuove se euro‑ spondequelle greca e irlande gli assetti criteri dopo zione dei sconvolgere definitivo. Si può alla ridefini patto di stabilità, pei in modo , il problema che del vecchio d’ogni dubbio , vedere, dunquepositivo delle fuor è ma lato incalza la crisi intor‑ anche dal tate, della loro e che difese appres ia, dalla crea‑ no a essa efficac ri‑ comuni per Giovanni sicura sia neces‑ zione di fondi Biagio de sario ri‑ e per to di unità flettere e tra i giovani he il proget rsi un sere diffuso ormai allarman‑ decide re. te, cre‑ o europea attravepochis‑ on vi stupire questo un distacc sono compe‑ , tra le stes‑ grave crisi, dubbio. Che Non ho la e te tra la politica do, se dedico lo in entrar nel soprat‑ ni democratiche tenza per crisi fi‑ simi a metter sotto i colpi del‑ se istituzio forze sociali, in messaggio giovani , le aria, merito della l’euro vacilli finanzi tutto ai più anche se rsi la società lare le giovani nanziaria, è andata la speculazione tà perfino il vedono avvicina modo particoMa non intendo difficol tra noi, che scelte e cerca‑ essa si che sia in progetto destina‑ do… generazioni. sera su tutti i delle , o avvitan tempo grande il più questa pazione, cercan e “integrazione” contro. Riba‑ que‑ tornare no un'occu to a produrr pensavano, con   Dedico loro pro‑ temi di quell'in za di uno i come molti autom atismi una strada. solo l'esigen gio, perché – da ap‑ veri e propri sto messag sentono e si disco di condivisione è un dato che o‑ ee essi successivi, blemi che il futuro sono spirito delle forze politich alla riflessi ormai e per parte o isti, che partien per sfide l'Ita‑ pongon ana di econom‑ si pongono sociali – delleta ad affronta‑ ne quotidi gli stessi che ia. i d’opinio di è chiama politici e giornaldifferen‑ il futuro dell'Ital di recen‑ lia e l'esigenza di un salto ne, e la stessa tesi sta a Incontr ando natalizi, i re; politica, essen‑ auguri qualità della la dignità, la za tra le varie il proble‑ te, per gli Parla‑ che giuoco del re in ti done mostra à di offri‑ rappre sentangoverno, delle Natural‑ à, la capacit ma esiste. tano mento e del dei corpi dello moralitriferimento e una guida. un mente, si appres e im‑ e re oni   mia sarebb istituzi la difese, né cosa diversa: espresso Stato, ho il males‑ ‑ maginabile be assiste pazione per e un fat‑ potreb iament preoccu o crisi indubb e nessun È rente a una che, tante il recent re indiffe to confor nziaria Chiam pa‑ economico‑finastessa, sa‑ o delle libro di Sergioo di Torino, se coordin amentche è del lasciata a ‑ one di rino – Sindac a plice li, affatto sempli rebbe in condizi ricominciare ‑ politiche naziona e che ha città niente   iente la crisi, per creare occupa tutto insuffic fallimento del‑ ce – che,… crescere, al overe inclu‑ contribuito Lisbona, e ca‑ zione, promu e mettere al ia di strateg politi‑ la are alla sione sociale membri e – Ei‑ rino: La sfida Stati pace di affianc della BCE una S. Chiampa sicuro gli ria ntonio a da futuri 2010 ca moneta e di bilancio Gilberto‑A naudi, Torino l’Unione Europe ativi. È im‑ lla politica fiscale a. Gianni Pitte attacchi specul re un vero Marselli costrui davvero europe    è in un mo‑ pegnata a europeo L’Euro pa ico sua o econom le della sem‑ mento crucia ata a difen‑ govern di superare il storia, impegne uscire dal‑ capace dere l’euro Periodic

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Sullo scorso numero di Mezzogiorno Europa

Biagio de Giovanni aveva scritto

Alla base dell’idea di una Europa come “potenza civile”, e quasi come fondamen‑ to profondo del suo disegnarsi, c’era l’idea di uno sviluppo addolcito del processo di globalizzazione, che avrebbe dato sempre più spazio a quella Europa post‑sovrana, madre del diritto e capace di influenzare la fine della vecchia geopolitica, a favore di una visione neocosmopolitica o macroregionale dialogante, variamente rappresentata. L’Eu‑ ropa, continente della pace e del diritto, e di compromessi democratici e sociali, aperti all’inclusione dell’altro, ostile a ogni ipotesi di scontro di civiltà. Ebbene, la mia tesi è che questa ipote‑ si essenziale attraversi una fase di profon‑ da difficoltà, e che questa difficoltà – in un complesso intreccio di cause e di effetti – sia produttiva di una crisi ideale e politica del progetto europeo. È da diversi anni che per‑ seguo questa idea, che ora mi sembra pren‑ der forma più concreta e argomentabile. Non mi voglio dilungare in una rappresentazio‑ ne necessariamente approssimativa di uno scenario mondiale nel quale sembrano ap‑ prossimarsi scontri di egemonia, e la politica reclamare con urgenza il proprio ruolo. La situazione può ancora evolvere in direzioni opposte, ma di certo, la crescita esponenziale di grandi stati nazionali o multinazionali non è estranea alla nuova dinamica che sembra delinearsi, e i macroregionalismi possono as‑ sumere, forse stanno già assumendo, carat‑ teri non solo dialoganti ma preannuncianti scontri di egemonia e di potenza. Se provo appena a determinare questa idea in modo più interno al lessico europeo, direi che l’Europa ha immaginato di poter isolare in se stessa una idea di governance che non dovesse essere necessariamente so‑ stenuta e alimentata dalla forza di una co‑ munità politica, proprio nella fase in cui di comunità politiche si andava affollando il mondo, e che dunque quell’Europa postso‑

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Europa: la crisi c’è ma se ne deve uscire! Andrea Pierucci L’Europa è in crisi. Beh, cer‑ to, da sempre. La sua stessa sto‑ ria – intendo quella dell’Unione europea – è, per l’essenziale, una successione di crisi dalle qua‑ li si esce per ripiombare subito in un’altra crisi. Credo che sia talmente evidente che non sia necessario giustificare quest’af‑ fermazione. È interessante nota‑ re che dalle crisi si esce sempre in modo diverso da quello che si poteva prevedere all’inizio e du‑ rante il loro svolgimento. È em‑ blematica la soluzione della crisi europea dell’inizio degli anni ’80. La crisi era palesemente istitu‑ zionale, nel senso che le istitu‑ zioni decisionali erano diventa‑ te quasi incapaci di decidere e, soprattutto, non riuscivano più a decidere senza ricorrere alla su‑ prema mediazione dei Consigli europei, dei capi di Stato e di go‑ verno. Giustamente, sia pure in modi fondamentalmente diversi, Tindemans, nel suo rapporto del‑ la metà degli anni ’70, il progetto Spinelli, adottato dal Parlamento europeo il 14 febbraio 1984 e la dichiarazione di Stoccarda del 1983, puntavano ad affrontare direttamente il nodo istituzionale in quanto tale. Pur partendo da essi, specie dal progetto Spinelli, l’uscita dalla crisi si strutturò in‑ torno al completamento del mer‑ cato unico, tirato fuori in partico‑ lare da Delors e dall’antieuropei‑ sta Thatcher. Questa intuizione trascinò con sé una prima rispo‑ sta al problema istituzionale, fu all’origine della moneta unica e lanciò concretamente, appena in tempo per i grandi cambiamenti della fine degli anni ’80 inizi anni

’90, la questione della politica estera comune. Su due punti dunque le crisi europee si assomigliano: il tra‑ sferimento di poteri concreti al Consiglio europeo ed il suo for‑ te attivismo, da un lato, e la pro‑ spettiva di soluzioni non neces‑ sariamente previste, dall’altro. Mi sembra che questi due punti emergano in modo nettissimo dall’articolo di Biagio de Giovanni apparso sullo scorso numero di questa rivista. In fondo, questa regolarità deducibile dalla storia della costruzione europea mi ren‑ de ottimista o, più precisamente, mi conforta e mi fa sentire su un terreno conosciuto e, in fondo, non tanto infido. Due dei problemi che de Giovanni solleva mi preoccupa‑ no invece molto di più. Il primo riguarda l’innegabile decaden‑ za dell’Europa negli ultimissimi anni sia nel campo economico che in quello della politica inter‑ nazionale. Mi riferisco qui tan‑ to all’Unione europea quanto ai suoi Stati membri. Né mi basta, neanche se mi metto da un pun‑ to di vista “tedesco”, dire che in fondo l’economia tedesca tira: quanto pesa sulla scena globa‑ le? Neanche quanto il Giappo‑ ne! Il problema è qui l’urgenza della risposta. Chi può dubitare che il confronto internazionale per l’egemonia o, almeno, per l’affermazione del proprio ruo‑ lo nella scena multipolare, sia in corso e vada più rapidamente di quanto si era pensato? L’escala‑ tion cinese, per esempio (ha ap‑ pena superato economicamente il Giappone, s’è detto e strillato),

tende a mostrare che in un’ipote‑ si egemonica come in una situa‑ zione di Risiko con alcune grandi potenze che si giocano (a dadi?) pezzi del mondo, la Cina è il nu‑ mero uno, politico, s’intende. E non è certo la sola ad avere simili aspirazioni. E l’Europa? Come si può pensare che l’Europa possa vivacchiare politicamente e tro‑ vare una posizione interessante sulla scena internazionale, ma‑ gari grazie al rispetto dovuto alla sua storia? Non vorrei, appunto, tristemente, soffermarmi sulle recenti importantissime vicen‑ de dei paesi arabi mediterranei, rispetto alle quali i governi eu‑ ropei si sono trovati ridicolmen‑ te impreparati (si vedano i viag‑ gi privati, ah, ah, della Ministra degli esteri francese o il brillante sostegno italiano a Ben Ali fino al giorno prima della sua partenza). A livello europeo per un bel po’ di giorni, poi, si è insistito sulla “libertà di manifestazione”! La crisi mediterranea e l’affanno dell’Europa a seguirla sono una vera prova della difficile situazio‑ ne. E la crisi dell’Euro è un altro elemento della debolezza politi‑ ca internazionale dell’Europa. I deficit europei (Italia compresa) sono relativamente modesti, se confrontati ad altri paesi, primi fra tutti gli Stati Uniti. Eppure, ci siamo lasciati massacrare da indecenti società di rating che hanno chiaramente attaccato alcuni paesi europei, in certi casi (Spagna e Italia) in modo del tutto pretestuoso. Certo, si è tappato (e bene) il buco. Tutta‑ via la reazione politica è decisa‑ mente mancata. Il problema che


12 ci si è posti è stato come far fronte, appunto, alle paure suscitate dalle società di rating, questi screditatis‑ simi interlocutori (Enron, Leemans & brothers docent). La conclusione è addirittura una proposta di modifica del Trattato che rafforza il sistema proprio dell’Euro e del patto di sta‑ bilità. Da un punto di vista interna‑ zionale la soluzione è un po’ dubbia, perché fornisce agli “aggressori” dei parametri belli e pronti e, per di più, condivisi dalla possibile vittima, per attaccare l’Euro o i paesi Euro in caso di crisi; tuttavia rafforza la capacità d’intervento dell’Unione nei confronti degli Stati “birboni”.

La crisi istituzionale

Questo risultato introduce il se‑ condo punto, la questione istituziona‑ le o, più precisamente, la questione costituzionale. de Giovanni la solleva e nega subito la soluzione federale, come impensabile in questo momen‑ to: giusto. Eppure la soluzione data alla questione della difesa dell’Euro è strettamente federale. Forse in al‑ cuni Stati federali i poteri dell’autorità centrale non sono così forti. Addirittu‑ ra l’Europa può dettare regole di po‑ litica economica strette agli Stati in difficoltà. Inoltre, gli Stati membri non potranno decidere del proprio bilancio senza prima averne discusso con le Istituzioni e gli altri Stati. Si tratta di un atto che potremmo definire alme‑ no d’integrazione, se non di modifica, delle costituzioni nazionali. Estremiz‑ zando, ci si avvia a rendere costitu‑ zionalmente obbligatorio il pareggio di bilancio. Sempre cercando una pro‑ spettiva estrema si potrebbe dire che la Corte costituzionale tedesca potrà in un lontano futuro ripetere la sua sentenza a difesa della democrazia tedesca, in particolare, ma ormai sarà vana perché gran parte della Legge fondamentale tedesca sarà europea (si badi che già oggi, per esempio, ci si è accorti che il Trattato di Lisbona

l’Europa oggi

modifica alcuni rapporti fondamenta‑ li fra governo e Parlamento). Ecco: di nuovo siamo davanti ad una risposta alla crisi poco coerente con le minac‑ ce della crisi stessa. Ma, ovviamen‑ te, dobbiamo vedere come davvero si sviluppano le cose. E qui entriamo nel vivo della questione istituzionale. Secondo de Giovanni si sta sviluppando una preoccupante egemonia tedesca, favorita, immagino, dal potere eco‑ nomico. Giusto. Ma perché? Ci vedo tre ragioni. La prima riguarda il ruolo delle Istituzioni europee, soprattutto la Commissione e l’Alto rappresen‑ tante della PESC, ma anche il Parla‑ mento. Il sistema europeo ha sempre funzionato grazie ad un originale si‑ stema di proposte provenienti dalla Commissione, organo sopranaziona‑ le, non minacciato dai sondaggi o dal prossimo attacco politico. Questo ha permesso alla Commissione non solo di fare interessanti proposte legislati‑ ve – cha ancora fa – ma, soprattutto, di immaginare scenari futuri, even‑ tualmente futuribili, di fare proposte

precisamente politiche. E questo non accade più. Mi sembra uno dei nodi centrali della costruzione europea e delle sue difficoltà. Mi piacerebbe fare una specie di metafora. Gli Sta‑ ti viaggiano su solidi, ma lenti e re‑ trogradi, carri a cavalli. Magari non vanno da nessuna parte, ma restano sempre in piedi. L’Unione europea va in bicicletta: corre più svelta, ma se si ferma casca! Ed è allora che qual‑ cun altro prende a pedalare. Sovente è il Consiglio europeo, talora, come all’inizio degli anni ’80 o intorno al progetto di Maastricht, il Parlamen‑ to. In altri termini, qualcuno deve ben fare politica! La Commissione non lo fa (l’Alto rappresentante, beh…), il Parlamento, tutto fiero del suo pote‑ re legislativo e di controllo, non lo fa abbastanza e allora restano i governi e il Consiglio europeo. Ma quest’organo presenta due grandi difetti. Il primo è che la natura esecuti‑ va delle sue componenti non è parti‑ colarmente favorevole alle grandi in‑ novazioni ed alle grandi prospettive.

Basta un’idea e il prossimo sondag‑ gio per l’uno o l’altro governo sarà un vero disastro! Più seriamente, i governi sono creati per prendere de‑ cisioni di attualità immediata, non per fare progetti a lungo termine; non si vede perché dovrebbero inventare la Luna. Certo, se la responsabilità è di qualcun altro (la Commissione, appunto o, in qualche modo anche il Parlamento) si apre la discussione e forse si arriva a concepire un disegno. Ma oggi non sembra essere così. An‑ che Istituzioni che potrebbero andare più in là sembrano contente di gestire l’esistente – burocrazia, non politica. In sostanza, si risolvono i problemi, non si creano problemi agli altri, agli Stati terzi, a certe strutture del mer‑ cato, si sviluppa la cassa integrazio‑ ne, non s’investe per il futuro. È un po’ il frutto di una certa ideologia – si proprio un’ideologia in senso stret‑ to – che vedeva lo Stato utile solo a mantenere l’ordine ed a risolvere qualche problema che il mercato non riesce a risolvere da solo, ma anate‑ ma a chi prende l’iniziativa politica di cambiare qualcosa. La Commissione si è lasciata avviluppare da questa ideologia pseudo liberale e ha net‑ tamente ridotto la propria capacità di fare grandi proposte d’innovazio‑ ne. Il fatto che il Parlamento vi abbia in gran parte rinunciato rappresenta soprattutto un colpo molto grave per la democrazia. Il secondo difetto è che il siste‑ ma istituzionale (più o meno qualun‑ que sistema istituzionale) è concepito per preparare mediazioni, per evita‑ re il confronto diretto fra i portatori d’interessi, riservando tale confronto agli ultimi compromessi ed alle ultime prove di forza. La bizzarria italiana è appunto che si vedono le istituzioni solo come luoghi di scontro e di do‑ minio della maggioranza, trascuran‑ do il ruolo proprio delle istituzioni e, infatti, siamo fermi come azioni e come idee: quando si fa la guerra si


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l’Europa oggi

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LA SFIDA I DA IPOTES A REALTÀ

vrana (e perciò postpolitica) resti spettatri‑ ce di questo mondo, incapace né di entrarvi né di stimolarne il mutamento. […] L’Unione si disegna come una associa‑ zione di stati sovrani, non dotati come tali di una autonoma legittimazione etico‑poli‑ tica. È nel recinto dello Stato‑nazione che si svolge l‘effettivo dibattito politico, sia re‑ lativo allo spazio pubblico – che non è se non nazionale – sia relativo alla dialettica maggioranza‑minoranza. E la stessa dina‑ mica del conflitto sociale, sale della demo‑ crazia, sembra confinata entro i limiti dello Stato‑nazione, arricchire entro quei confini il confronto fra le culture politiche. La sen‑ tenza della Corte federale tedesca del 2009, se guardata nella prospettiva che vuole in‑ dicare, in quello che non dice esplicitamente oltre che in quello che dice, mostra una fron‑ tiera insuperabile all’integrazione politica che ha sul proprio frontone inscritta l’esclusività originaria della sovranità statale e l’impossi‑ bilità storico‑morfologica di superarla: de‑ mocrazia e sovranità vivono nel recinto del‑ lo Stato‑nazione, fuori di esso sono flatus vocis. Naturalmente, si potrebbe annotare subito che anche un’analisi siffatta contiene un’illusione, non riesce a vedere l’irreversibile insufficienza della statualità, la drammatica problematicità della sua pretesa di esclusivi‑ tà legittimante, ma questa osservazione, si‑ curamente fondata e che andrà valorizzata per riprendere il discorso sull’Europa, che insomma potrà essere utilissima per costruire la controfaccia del problema indicato, non toglie nulla alla radicalità della tesi ripor‑ tata, per ora da registrare come tale: tutt’al più potremo dire che le due tesi, abolendosi a vicenda, mostrano l’incertezza progettua‑ le e la difficoltà intrinseca del processo eu‑ ropeo, come stretto fra due opposti che non riescono a trovare mediazione. […] Voglio esser chiaro, in conclusione, la‑ sciando intravedere la possibilità di una ri‑ flessione rovesciata che non sia solo segno della mia cattiva coscienza. L’Europa è as‑

spara e si pensa poco! Solo che non siamo in guerra. Il Consiglio europeo, ben più saggio comun‑ que del nostro sistema politico, soffre del fatto che la mediazio‑ ne si fa direttamente fra i grandi poteri statali. È un po’ vero che si torna, come dice de Giovanni, allo stato di natura, la Germania contro la Francia, l’Italia even‑ tualmente contro la Spagna, o la Gran Bretagna contro l’Irlanda, con tutte le possibili combina‑ zioni. C’è, allora, da stupirsi che la Germania svolga un ruolo ege‑ mone? Sarebbe incomprensibile il contrario: soldi, tanti, stabilità politica, rapidità di uscita dalla crisi, produzione industriale ec‑ cetera. Tuttavia questa questio‑ ne dell’egemonia in Europa mi è sempre sembrata provvisoria, da un lato, e non strutturale, dall’al‑ tro. È certamente provvisoria per‑ ché abbiamo avuto esempi diver‑ si di egemonia e scontri di ege‑ monia. L’Atto unico, per esempio, è anche il risultato dello scontro fra l’egemonia franco‑tedesca e l’aspirazione britannica, con l’Ita‑ lia che non aveva certamente un ruolo marginale (anche grazie a Spinelli). L’egemonia franco‑te‑ desca si è poi appannata. Negli anni ’70, sia pure in negativo, c’è stata una manifesta egemo‑ nia francese. In altri termini, non credo in un’egemonia tedesca stabile e permanente, in un’Eu‑ ropa “governata” dalla Germa‑ nia. In secondo luogo, l’egemonia dev’essere sempre contrattata, legata a scambi, sempre in dub‑ bio in caso d’irrigidimento di un partner importante. Nondimeno un sistema essenzialmente fon‑ dato su egemonie nazionali è ef‑ fettivamente diverso dall’Europa che abbiamo finora concepito e, secondo me, non può durare che lo spazio di un recupero politico

delle istituzioni. Certo, se non si dovesse rivenire ad un ruolo cen‑ trale delle istituzioni ci sarebbe un vero problema ed un’Europa diversa.

Ma non siamo allo “stato di natura” Peraltro, mi lascia sempre perplesso l’idea del “recupero” degli Stati rispetto all’Unione europea. Infatti essi non svol‑ gono, per le questioni essenziali un proprio ruolo sovrano (Euro, fondamentalmente politica este‑ ra, sicurezza interna, mercato), ma quello di partner negoziali più o meno forti. Non è che la Ger‑ mania abbia fissato tutta sola le condizioni dell’aiuto all’Irlanda, c’è voluto l’accordo di altri ven‑ tisei Stati. In altri termini, soprat‑ tutto in ragione dei tanti interes‑ si in comune, di “tanta Europa”, non è completamente vero che si torna allo “stato di natura” tipico del diritto internazionale classi‑ co. Mancano proprio alcune ca‑

13 ratteristiche essenziali. In primo luogo la forza, in senso proprio, non fa parte del nostro sistema e, invece, è una caratteristica dello stato di natura degli Sta‑ ti (il diritto internazionale nasce proprio sullo ius belli ac pacis). In secondo luogo, manca la liber‑ tà, che invece hanno gli Stati in “natura” – appunto “tanta Euro‑ pa”. Infine esiste, diversamente dallo stato di natura, una finalità comune. Questi ultimi due aspet‑ ti sono certo discutibili, ma non tanto, se si pensa alla situazio‑ ne internazionale ed alla rapida e continua evoluzione dei rapporti economici e di potere al livello internazionale. La Germania era certo dispiaciuta, per esempio, di contribuire a salvare la Grecia o l’Irlanda, ma non poteva certo rinunciare all’Euro o al mercato interno. D’altra parte, è immagi‑ nabile che il ruolo economico e politico internazionale della Ger‑ mania possa permanere senza il suo radicamento nel sistema europeo?


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l’Europa oggi

La crisi della politica

Mi preoccupa, invece un fenome‑ no, proprio all’Unione ed a ciascuno degli Stati membri: l’indebolimento della democrazia e delle classi diri‑ genti. Il primo mi pare concernere la capacità dei cittadini di esprime‑

gravemente la prospettiva democra‑ tica. Secondo me diventa il problema più urgente sul quale discutere. Per esempio, m’interessa poco sapere chi sarà il candidato a premier del PD alle prossime legislative, mi piace‑ rebbe sapere cosa mi propongono di

re punti di vista e aspirazioni sulle questioni di prospettiva. Neanche gli Stati totalitari hanno potuto fare a meno di proporre ai cittadini del‑ le prospettive future di grande im‑ portanza, anzi, questo è stato il loro cemento e il venir meno di tali pro‑ spettive li ha messi in crisi definitiva. Ancor di più è vero per i grandi Stati democratici e per quelli che cercano di esserlo, si vedano gli Stati Uniti. Invece, al giorno d’oggi, meno male che Berlusconi è un po’ scostumato, altrimenti sarebbe il fallimento della stampa! Questa mancanza di senso allontana dalla politica e danneggia

sognare e come battermi per questo Ne usciremo? Ritorniamo all’Europa come pos‑ sogno. È inequivocabilmente vero che manca la politica, intesa come proget‑ siamo immaginarla, senza pensare, to, obiettivi, volontà di potenza. Se senza accettare per ora troppi cata‑ questo è vero per l’Unione europea, strofismi. Certamente assistiamo ad è sempre più vero anche per i governi degli Stati membri. Certo, senza po‑ litica è evidente che si va al disastro: il mondo, appunto, non aspetta noi. Però qui non è più questione di Eu‑ ropa, intesa come sistema istituzio‑ nale dell’UE, ma di Europa come ter‑ ritorio, popoli e Stati. È probabile che l’Europa come struttura permanga a lungo, anche senza modificare questa situazione. Il rischio è che sia l’insie‑

me sottostante a regredire, impove‑ rirsi, “squagliarsi” progressivamente. Ovvio che, in questa catastrofica pro‑ spettiva, un’Europa potenza, anche “civile”, quali che ne siano le istitu‑ zioni o la natura più o meno federale, sarebbe inimmaginabile.

una crisi che sembra mettere proprio in discussione alcuni fondamenti del sistema stesso. Assistiamo ad un ritorno degli Stati (non in natura, come si è visto); ma non vorrei (anzi, mi farebbe proprio piacere) che si uscisse dalla crisi con un rafforza‑ mento istituzionale, reso necessario dalle attuali difficoltà. La Germania sta acquisendo dei punti, ma sa che non potrà avere una situazione di privilegio in eterno e tenterà d’isti‑ tuzionalizzare i suoi successi (quel che ha fatto proponendo una modi‑ fica dei Trattati per l’Euro), sia in ter‑ mini normativi che operativi – qual‑ cuno che agisca per garantire i suoi acquis. Gli altri vedranno il rischio di un prolungamento dell’egemonia tedesca, dovuto certo alla loro de‑ bolezza e cercheranno di contrarre questo rischio, sottraendosi al con‑ fronto diretto e rafforzando il sistema istituzionale. D’altra parte, non è la prima volta che si assiste ad una crisi di ruolo del‑ le istituzioni (1966, inizio degli anni ’70, 1979‑1984…) ed essa ha sem‑ pre avuto una durata limitata. Dalla crisi si è usciti con un ritorno (parola inadatta, perché non si è mai torna‑ ti a quello che esisteva prima) ed un rafforzamento delle istituzioni. Sulla crisi della democrazia europea e di quella nazionale, invece, non so che dire; ho paura che ci vorrà del tempo ad uscirne. C’è solo da sperare che il superamento della crisi istituzionale europea abbia un benefico effetto sull’insieme del sistema.


6 L’Europa oggi C

strada verso Aprire la degno un futuro onio e patrim del grand o della storic italiana Nazione sui giovani re Scommette

l’Europa oggi

N

o Il libro di Chiamparin

sulla tolda del tItanIC

LA SFIDA I DA IPOTES A REALTÀ

sai di più di come la ho raccontata in queste note all’insegna del disincanto. Lo so bene. Si potrebbe riscrivere tutto dal punto di vi‑ sta dell’Europa che c’è. Ma rimarrebbe il vuoto di quella introvabile e forse impossi‑ bile comunità politica. E tutta l’Europa che c’è, finirebbe con il trovarsi assisa come su un vuoto, mentre il mondo parla la lingua della potenza, che, fino a una prova con‑ traria che non è mai giunta, è il linguaggio del mondo. Ma anche qui voglio spezzare una lancia quasi contro tutto quello che ho detto, come una sorta di palinodia e di au‑ tocritica. Non è detto che smussare il lato della potenza, della decisione, non conten‑ ga dentro di sé quel “valore” politico che l’occhio iperrealistico non riesce a vedere, come non è detto che le linee di sviluppo della globalizzazione non riprendano una via collaborativa. Molte cose, oggi, (e forse la stessa “na‑ tura delle cose”) sembrano andar contro questa possibilità, ma in uno sfondo lon‑ tano, in un orizzonte fatto di incertezze e perfino di tensioni catastrofiche, si intrave‑ dono due possibilità: che lo stato di natura dell’homo homini lupus, il duro pessimismo antropologico di una vitalità irriducibile dominerà il campo delle relazioni interna‑ zionali, facendo emergere quella che sem‑ bra la natura delle cose, lo sguardo della potenza; che, all’opposto, dal timore e dal tremore, il mondo umano della storia lasci intravedere la possibilità dell’homo homi‑ ni deus, e che perciò l’apparato sapienziale europeo che ha posseduto dentro di sé, fra i tanti, anche questo lato, venga allo scoper‑ to con una convinzione assai più grande di quella che oggi riesce a rappresentare. Non sto parlando qui né dell’Europa che c’è, né di quella che mi pare introvabile, ma di un mondo idealtipico che l’Europa possa con‑ tribuire a creare, andando anche a rovistare nell’archivio delle sue idee e in qualche ra‑ gione costituente della sua volontà di inte‑ grazione. Questo è una sorta di auspicio che ha di fronte quello che oggi appare il muro della realtà. Ma, come si sa, ogni muro può essere abbattuto, liberando l’interminato orizzonte che si trova di là da esso.

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Quale Europa in crisi? Vincenzo Baldini Ho letto il suggestivo saggio di Biagio de Giovanni su: “L’Euro‑ pa oggi”, nel quale egli (provo ad interpretare il pensiero dell’A.) si mostra “scettico” sugli sviluppi del processo di integrazione eu‑ ropea. De Giovanni sostiene che la costruzione di un Europa “po‑ tenza civile” resta allo stato una “grande illusione”, che “l’idea che la politica nel suo aspro realismo stesse per cedere il posto al diritto e al procedura‑ lismo democratico, e ad un’idea universale di cittadinanza”, l’ipotesi di un ampliamento del‑ la sfera di attribuzioni del livello sovranazionale “in perfetta cor‑ rispondenza all’esaurirsi della spinta propulsiva degli stati nazionali” sia in profonda crisi, gettando così in una crisi “idea­ le e politica” l’intero progetto europeo. Tra le principali cause di questo effetto, l’A. rinviene l’esi‑ stenza, a livello europeo, di “una governance senza comunità poli‑ tica” che, come tale “non regge al confronto con il mondo così com’è e come sta diventando”. Giacché ogni governance politi‑ ca ‘debole’ indebolisce la propria legittimazione.” Si tratta, quelle espresse autorevolmente da de Giovanni, di considerazioni che giungono a scuotere fino alle radici la fede in un cammino virtuoso dell’inte‑ grazione sovranazionale e, come tali, sono fatalmente destinate ad rilanciare il dibattito sul futu‑ ro dell’Europa. A “prima lettura” esse appaiono nella sostanza e per molti aspetti condivisibili, so‑ prattutto se, abbandonato il pia‑

no di un’analisi giuridica del pro‑ cesso di integrazione europea, ci si ponga su quello, piuttosto sdrucciolo tuttavia, dell’analisi scientifico‑sociologica. Su que‑ sto piano non è chi non veda come il senso dell’appartenen‑ za – parlo di appartenenza po‑ litica, e non solo – nazionale fa

lare. Pertanto, sul primo versan‑ te, ogni critica circa l’inesistenza di una comunità politica europea non può non misurarsi alla luce del dato normativo ed istituzio‑ nale, di ciò che, da quest’ultimo punto di vista, l’Unione europea è e/o potrebbe ancora esse‑ re, del senso che assume, al ri‑

senz’altro premio su quello eu‑ ropeo. Insomma, più che cittadi‑ ni europei, ci sentiamo cittadini dello Stato (tedeschi, francesi, italiani, etc.). Quando però ci si incammi‑ na sul versante dell’analisi giuri‑ dica – ed è su di esso che, quasi esclusivamente, l’Europa susci‑ ta la mia attenzione di costitu‑ zionalista – le considerazioni di de Giovanni sembrano ascrivibili ad un “linguaggio” diverso, quel‑ lo delle scienze politico‑sociali, che un giurista non è solito par‑

guardo, l’affermazione dell’esi‑ stenza di un “costituzionalismo multilivello” (Pernice). Proverò, da questo punto di vista, a sostenere che, forse, il “pessimismo” di de Giovanni non sia del tutto fondato, basandomi su dati e riflessioni essenzial‑ mente riferibili alla scienza ed alla letteratura giuridica. In primo luogo, se si guarda al cammino intrapreso – dalla fine degli anni ’50 in poi – dal processo di integrazione euro‑ pea – non si può che registrarne


16 il costante avanzamento. Dalla con‑ figurazione di un’unione economica e monetaria fino alle soglie di un “trat‑ tato costituzionale”, a suggello della costruzione di un’unione politica, il percorso compiuto si mostra senz’al‑ tro lungo e virtuoso. Il riconoscimen‑ to, poi, che, alla base di tale Unione, sia la consapevolezza di “eredità cul‑ turali, religiose e umanistiche dell’Eu‑ ropa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e ina‑ lienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto” (Preambolo al Trattato sull’Unione europea) costi‑ tuisce una premessa decisiva per la costruzione e il progressivo arricchi‑ mento di un “vocabolario dell’identi‑ tà collettiva” (Bogdandy) dei popoli europei. In tale processo, generato e por‑ tato avanti, come è noto, dalle volon‑ tà di Stati sovrani, il peso specifico dell’ente sovranazionale, in termini di perseguimento di fini, titolarità di attribuzioni ed esercizio di competen‑ ze, è andato dunque sensibilmente crescendo. Ad oggi non può essere denegata una costante, progressi‑ va strutturazione dell’ordinamento sovranazionale da cui, quasi natu‑ ralmente, si è sollevata la questio‑

l’Europa oggi

ne di una “Costituzione” dell’Unione europea. Sorvolo, poi, per ragioni di “spa‑ zio” giornalistico (ma anche perché il tema non appassiona poi tanto), ogni più approfondita considerazione circa la natura giuridica del trattato costituzionale di Roma (se “trattato” internazionale in senso tecnico o vera e propria Costituzione). È indubitabi‑ le, ad ogni modo, che il lavoro che ne ha accompagnato la stesura è stato svolto – ed anche percepito – come un impegno al varo di una Carta co‑ stituzionale che conferisse all’Europa una veste formale più classica, apren‑ dola forse ad uno sviluppo meno rat‑ tenuto e dipendente dalle titubanze e (a volte) ritrosie degli Stati sovra‑ ni. Condizione fondamentale, questa, che ha poi finito per costituire la ra‑ gione decisiva del fallimento del trat‑ tato costituzionale, bloccato dai veti di alcuni Stati membri. Un secondo punto di riflessione vorrei proporre muovendo dalle con‑ siderazioni che un acuto giurista, stu‑ dioso di “cose” europee, come Armin Bogdandy, ha sviluppato in merito proprio al problema dell’identità col‑ lettiva europea, da molti letta in cor‑ relazione con l’esistenza di una Co‑ stituzione. Questo A. ritiene che tale

identità non costituisca un necessa‑ rio presupposto dell’esistenza di una comunità politica, che invece si affi‑ da alla forza razionale di procedure e regole normative di condotta. Tanto, vale anche per ritenere, dunque, che il richiamo ad un deficit di identità col‑ lettiva – che peraltro de Giovanni non fa – non sarebbe di per sé in grado di spiegare la (sostenuta) inesistenza di una comunità politica europea. Peraltro, da quest’ultimo “valore” sembra rendersi indipendente ogni di‑ scorso sulla esistenza di una Costitu‑ zione europea, soprattutto da parte di fautori della teoria funzionalista, che riassumono la prima nel sistema delle norme mirate a fondare ed or‑ ganizzare un potere (Bogdandy, Per‑ nice). Certo, si può discutere sull’as‑ senza di una Costituzione secondo una visione legata, in generale, alla concezione del costituzionalismo de‑ mocratico, che la riconnette essen‑ zialmente all’espressione di volontà di un potere costituente del popolo (europeo) (Böckenförde). Di sicuro, è che, nel dibattito scientifico il tema della Costituzione europea viene sopito dalla realtà di un diritto primario europeo (trattati) che sempre più e meglio si atteggia come un diritto costituzionale, organizzan‑

do e limitando il potere europeo, de‑ finendo obiettivi e valori dell’Unione così come statuendo un catalogo di diritti fondamentali. In proposito, non va sottaciuto nemmeno il gran‑ de significato che ha l’incorporazio‑ ne, nell’ultimo trattato di Lisbona (già ratificato dagli Stati dell’Unione), della “Carta dei diritti fondamentali dell’UE”, da tanti salutata, al momen‑ to del suo varo, come una vera e pro‑ pria Costituzione dell’Europa. Tutto ciò sembra porsi in linea con il deliberato dell’art. 16 della De‑ claration del 1789: “Uno Stato, nel quale non è assicurata la divisione dei poteri e non sono garantiti i dirit‑ ti fondamentali, non ha una Costitu‑ zione”. Si può obiettare che l’Unione europea non è uno Stato e, dunque, senza Stato non può esservi una Co‑ stituzione (Isensee). A me sembra non difficile replicare che l’Unione europea costituisce un “novum” a cui le classiche categorie della scienza giuspubblicistica non possono essere applicate correttamente se non par‑ tendo dalla consapevolezza dell’ori‑ ginalità dell’esperienza istituzionale in questione. Così, anche la questione avanzata da de Giovanni, dell’ assenza, cioè, di una comunità politica europea, se per


l’Europa oggi

un verso rilancia l’antico dibattito sul deficit democratico dell’Unione, per altro verso sembra fondarsi su una visione “statualista” dell’esperienza, nella quale l’esistenza di una comuni‑ tà politica statale appare sovente un dato fattuale piuttosto che un prodot‑ to dell’ordinamento giuridico. Sul primo versante, può dirsi che il diritto dei trattati – da Maastricht in poi – ha cercato di porre un rimedio, rafforzando il ruolo dei Parlamenti na‑ zionali e, soprattutto, del Parlamen‑ to europeo nelle determinazione del‑ le decisioni a livello sovranazionale. Proprio la consapevolezza di un tale deficit, del resto, aveva indotto Stu‑ diosi autorevoli (Dieter Grimm) a sostenere che l’Europa non avesse bisogno di una Costituzione in sen‑ so formale. Ora, la sempre più frequen‑ te ricerca di soluzioni “equilibrate” compatibili con la natura dell’Unio‑ ne quale “associazione di Stati so‑ vrani” (Staatenverbund) appare, a mio avviso, il più chiaro segno di un intento diretto a progressivamente allargare le attribuzioni dell’organo rappresentativo dei popoli europei in una dimensione, tuttavia, che non pregiudichi la riserva di competenza degli Stati sovrani.

Peraltro, un punto che mi ha par‑ ticolarmente colpito (ed interessato) delle riflessioni esposte nel bel sag‑ gio di de Giovanni riguarda la lettura teleologica della “sentenza Lisbona” del Tribunale costituzionale federale tedesco. Confesso di essere rimasto un po’perplesso quando de Giovanni rileva come nel “Lissabon Urteil” si manifesta quale, “ispirazione di fondo”, la impossibilità di “parlare di una democrazia oltre lo Stato”. de Giovanni ritiene che il “ forte e convinto ritorno della statualità” in Germania, debba intendersi come un “passaggio culturale di cui vanno sottolineate le peculiarità”. “Si trat‑ ta” – dice l’A. – “di una rivendicazio‑ ne tutta politica che, nel dichiarare lo Stato vero padrone dei trattati, si colloca non solo in un punto che non esclude di poter affermare il disaccordo sui fini della comunità, ma che intende dichiarare che una politica vera può nascere solo dal‑ la sovranità dello Stato democrati‑ co, e che solo questo punto di vista può dare un significato politico alla governance di una più ampia realtà come quella europea”. Nei molti simposi e discussant cui ho preso parte con Colleghi te‑

deschi ho ascoltato tanto da dubitare un po’della correttezza della lettura proposta da de Giovanni. Tuttavia, non posso disconoscere l’eventualità che quest’ultimo abbia ragione. Dico solo che, da giurista, resto interessa‑ to alle sole argomentazioni espres‑ se dal Tribunale di Karlsruhe nella decisione di cui si parla, e dato che ho commentato tale sentenza dopo qualche giorno dalla sua emissione (cfr. il commento in www.osserva‑ toriosullefonti.it), posso affermare di averla letta. Dal mio punto di vista ho espres‑ so apprezzamento per le argomenta‑ zioni riportate in quella decisione che si iscrive in una linea di sostanziale continuità e coerenza con l’indiriz‑ zo già espresso da quel Giudice con la precedente (e altrettanto nota) “Maastricht‑Urteil”. Lo sviluppo del processo di integrazione europea non può ignorare l’esistenza di limiti assoluti di legittimità costituzionale, risalenti in ultima analisi alla tutela della “sovrana statalità costituzio‑ nale” (souveräne Verfassungsstaat‑ lichkeit). Esso dunque deve essere sempre compreso ed interpretato alla luce di siffatti paradigmi di ri‑ ferimento, riconducibili alle espres‑ sioni della cd. “clausola di eternità”

17 ex art. 79, c. 3, GG, la cui violazione finirebbe per pregiudicare la consi‑ stenza stessa dello Stato costituzio‑ nale democratico tedesco. In tal senso, dunque, quei limi‑ ti, espressamente posti all’esercizio della funzione di revisione costitu‑ zionale, valgono vieppiù per lo svi‑ luppo del processo di integrazione sovranazionale. Credo che su tanto ci sia poco da dubitare o da contestare. Chi lo ha fatto (es. Pietro Perlingieri), oltre a conoscere poco (e male) la strutturata formazione ed elabora‑ zione della dottrina dello Stato tede‑ sca, non ha ben tenuto in conto che la pronuncia promana da un Tribunale costituzionale (non da un organismo sovranazionale), chiamato dunque a presidiare l’integrità della Costitu‑ zione statale e, così, l’esistenza dello Stato medesimo. Ora, quanto alla impossibilità di una democrazia “oltre lo Stato”, cui fa riferimento de Giovanni, credo che la sentenza vada letta per quel che dice, non per ciò che intenda anche dire. Al riguardo, mi sembra che la Corte ab‑ bia semplicemente inteso precisare che c’è una soglia di consistenza es‑ senziale della democrazia nazionale che non può essere pregiudicata da un ampliamento – pur legittimo e am‑


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missibile, in via di principio – delle at‑ tribuzioni dell’UE. D’altro canto, la Corte ha affer‑ mato che qualunque decisione rela‑ tiva ad un ampliamento dei poteri dell’Unione tanto da determinarne la conversione in Stato federale non può avvenire in forme procedurale tipizzate nell’art. 23 GG, rimettendo‑ la dunque alla decisione dell’organo rappresentativo, ma dovesse impe‑ gnare il popolo in una manifestazio‑ ne diretta di volontà “costituente”. Essa, dunque, non ha preconizzato in generale l’ “arrivo al traguardo” dell’ integrazione: ha (soltanto) confer‑ mato l’esistenza di limiti costituzio‑ nali assoluti, il cui superamento può compiersi unicamente attraverso la creazione di una nuova Costituzio‑

l’Europa oggi

ne statale attraverso una decisione costituente del popolo tedesco. Sol‑ tanto la sua diretta espressione di volontà potrebbe, infatti, sancire la fine di “questo” Stato costituzionale tedesco e la creazione di un nuovo assetto, nel quale la stessa Germa‑ nia figuri quale Stato membro della Federazione europea. Dunque, “scatti in avanti” del processo di integrazione europea ri‑ spetto agli spazi ammessi dal diritto positivo del Grundgesetz non sono ammissibili attraverso il diritto dei trattati ma abbisognano di una svol‑ ta “costituente”. In definitiva, quelli enunciati in sentenza sono vincoli direttamen‑ te ed immediatamente connessi alla configurazione giuridica attua‑

le dell’Unione europea, nella quale gli Stati restano (ancora) i titolari di una Kompetenz‑Kompetenz. Se, poi, ciò sottende all’idea (politica) di una riserva statale di “disaccordo sui fini della comunità”, francamente, non saprei e (da giurista) mi interessa poco. So che, nella condizione (giuri‑ dica) esistente, nulla vieterebbe agli Stati membri di esprimere un tale disaccordo promuovendo, eventual‑ mente, una revisione degli obiettivi dell’Unione. Vorrei concludere questi brevi considerazioni provando a decrittare meglio il pensiero (o il retro pensie‑ ro) di de Giovanni. Credo che, quando egli lamenta l’assenza di una comu‑ nità politica a livello europeo che ne indebolisce la governance, abbia ri‑

ferimento, implicitamente, ad un mo‑ dello “statalistico” di ordinamento. In esso, la comunità politica è “premes‑ sa” dello Stato (secondo Schmitt) o è conseguenza del determinarsi dell’or‑ dinamento statale (Hesse). In tal sen‑ so, una comunità politica europea non c’è, né potrà mai esserci fino a che esiste “questa” Unione europea. Se, invece, proviamo a conside‑ rare l’Europa per quello che essa è nella realtà dell’esperienza, allora forse possiamo con minori pregiudizi avvicinarci all’idea che la nascita di una comunità politica europea – nel senso di un’unità soggettiva “più forte” degli Stati‑istituzione sovra‑ ni – non sia al momento indispensabi‑ le per garantire una forte governance dell’Europa.


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Andrea Geremicca

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ell’ambito del ciclo di conferenze su Na‑ poli nella storia d’Italia mi è stato chiesto un intervento sul fenomeno laurino ne‑ gli anni Cinquanta. Voi lo sapete: io non sono uno storico. Non è questo il mio mestiere. Sono solo stato, da giovanissimo, testimone e per qualche verso protagonista di quegli anni. Perciò potrei raccontarveli sul filo della mia memoria. Potrei. Ma mi è sembrato più utile avvalermi del mio vissuto, delle mie esperienze per rileggere quegli anni con gli occhi di oggi – che in effetti sono i vostri occhi – liberandoli dalle passioni e le for‑ zature dello scontro politico di allora. E su alcune vicende sono giunto a conclusioni in parte diverse dai giudizi dati per acquisiti in sede storica. Forse mi sbaglio. Comunque parliamone. Achille Lauro è stato Sindaco di Napoli negli anni Cinquanta del secolo scorso, dal luglio 1952 al novembre 1961. Erede di una grande Flotta com‑ merciale, si arricchisce col fascismo. È rovinato dalla guerra. Torna a galla per le sue capacità e per l’aiuto che chiede e ottiene dal potere politi‑ co. Bussa alle porte di tutti i partiti, dalla destra ai comunisti. Entra nell’Uomo Qualunque di Gugliel‑ mo Giannini. Infine si mette in proprio nel Partito Monarchico, prima con Alfredo Covelli, dopo con‑ tro di lui. Nella precaria fase di transizione dalla dittatura alla democrazia a Napoli e in Italia svol‑ ge un ruolo originale e acquista un peso specifico. Almeno due sembrano essere le ragioni del suo successo. Da un lato il rapporto di massa, diretto, senza mediazioni, con il popolo. Parla al ventre e alla immaginazione delle persone, che si ricono‑ scono in lui “perché ci ha saputo fare, è già ricco di per se e non avrà bisogno di rubare”, e perché

“parla a muso duro con Roma”. D’altro canto usa la sua base elettorale e il suo controllo sulla protesta popolare come armi di pressione nei confronti dei governi di Roma. Al di là della demagogia e della retorica, Lauro si limita a chiedere soldi per la sua città e condizioni favorevoli per la sua Flotta. Per i governi nazionali e la Democrazia cristiana il gioco vale la candela. E quando non hanno più bisogno dei suoi voti in Parlamento e di mediazioni sociali a Napoli staccano la spina. Si conclude così l’av‑ ventura politica del Comandante. Assieme al crollo finanziario della sua Flotta. Muore a 95 anni, il 15 novembre del 1982. Forse troppo sommariamente giudicato, archi‑ viato e dimenticato. lauro “dentro” la storia di napoli e del paese Riflettendo sul laurismo si potrebbe credere che stiamo parlando di un fenomeno dai tratti an‑ tichi: di notabilato, clientelismo e trasformismo. Niente a che fare col cammino di Napoli e del Mezzogiorno verso l’autogoverno e la moderniz‑ zazione. Non sono d’accordo. Come sempre, la realtà è un po’ più complessa. Tanto per cominciare, eviterei una visione chiu‑ sa, meramente municipale del fenomeno laurino. Mi sforzerei di leggerlo dentro la storia del Mez‑ zogiorno e dell’Italia negli anni Cinquanta, den‑ tro lo sviluppo duale dell’economia e dello Stato nazionale, dentro le contraddizioni del processo di ricostruzione del dopoguerra concentrato sul‑ la ripresa delle aree più forti del paese, e dentro la precarietà degli equilibri politici dopo la rottura dell’unità nazionale. Lauro si affaccia alla politica in un Mezzogior‑ no in fuga: due milioni di emigranti hanno lasciato la loro terra. L’apparato industriale napoletano, per

la maggioranza a Partecipazione statale, fortissimo sino a prima della guerra, è in crisi profonda. E il go‑ verno non sa, non vuole, non può adottare politiche e programmi per la sua riconversione e il suo rilancio. 10 mila lavoratori licenziati nell’area napoletana, dei quali 6.500 nel settore metalmeccanico. 200 mila disoccupati di cui 111 mila giovani. “Sento i passi dei miei sogni e delle mie speranze – scrive uno stu‑ dente nel suo tema a scuola – che si allontanano precipitosamente dalla mia vita”. E Carlo Scarfoglio, nella primavera del 1951, in un reportage sul Gior‑ nale d’Italia grida: “Napoli muore”. Il confronto – scontro tra Napoli e i gover‑ ni nazionali sul destino della città è tesissimo. D’altronde non è la prima volta. Già a metà degli anni Quaranta, con Amministrazioni locali al di fuori di ogni sospetto circa il loro rapporto poli‑ tico con Roma, il clima è infuocato. Nel verbale del Comitato di Liberazione Nazionale Napoleta‑ no del 5 giugno del 1945, è scritto con allarme e asprezza: “i bisogni di Napoli sono tanti e il malcontento aumenta: nonostante visite e pro‑ messe, provvedimenti concreti tardano a venire; il Sindaco Fermariello recentemente si è recato dal Prefetto per protestare per il danno arrecato alla città dalla politica del governo che, intento ad affrontare i problemi nazionali, trascura gli in‑ teressi di Napoli”. In questa situazione economica, sociale e mo‑ rale sull’orlo dell’implosione Lauro ha contribuito a modo suo alla tenuta democratica della città e all’incontro di grandi masse popolari, specie le più umili, con la politica, le istituzioni locali e lo Stato nazionale. Un incontro distorto, se si vuole, bor‑ der line quanto si vuole, ma pur sempre un incon‑ tro‑confronto e un reciproco riconoscimento. So che non tutti sono d’accordo con questa valutazione. Ma stiamo ai fatti e ragioniamo senza pre‑ giudizi:


20 • Al referendum di pochi anni prima – il 2 giu‑ gno 1945 – i cittadini napoletani avevano vo‑ tato in modo plebiscitario contro la Repubbli‑ ca, e avevano aggredito la Federazione del PCI in via Medina, al prezzo di morti e feriti nel tentativo disperato di stracciare la bandiera tricolore esposta al balcone senza il simbo‑ lo sabaudo. • Il 10 novembre del 1946, alle prime elezioni amministrative del dopoguerra, aveva parte‑ cipato il 42,5 per cento degli elettori. • Nelle votazioni del 1952 la stagione laurina si è aperta con oltre il doppio dei votanti: l’86,5 per cento. • Un anno dopo, alle elezioni politiche del ’53, la famosa ‘Legge truffa’ che prevedeva un premio di mag‑ gioranza per la coalizione vin‑ cente non passò per la batta‑ glia nazionale delle sinistre, assieme però all’impegno na‑ zionale determinante dei mo‑ narchici capeggiati da Lauro, che passarono nel paese da poco più di 700 mila a quasi 2 milioni di voti, da 14 a 40 seggi alla Camera. Per questo io dico che a partire da quegli anni, dagli inizi dei terri‑ bili anni Cinquanta, il percorso dei napoletani, la loro protesta, le loro speranze si sono mosse “dentro”, non “contro” le istituzioni e l’unità del paese. Sostenere, come ha sostenuto Francesco Compagna in un impeto polemico, che “Lauro si è messo a capo di una massa zingaresca di voti, di una insurrezione separa‑ tista‑velleitaria e primitiva” non mi convince. Così come non mi sembra corretto confondere il fenomeno laurino con le spinte sanfediste e neo borboniche dell’immediato dopoguerra. In effetti, considera‑ to che le gravissime condizioni di Napoli in quegli anni erano anche il frutto delle scelte sbagliate o delle mancate scelte a livello nazionale, il laurismo ha saputo cogliere l’oc‑ casione per mettersi al passo coi

tempi e mutare prospettiva alla protesta popola‑ re: non più reazione per il mondo che se ne andava con il crollo del fascismo e la fine della monarchia, ma contestazione per l’attuale assenza di orizzonti accettabili per la città. E opposizione ad un corso storico‑politico che si identifica col Centro‑Nord. Perciò ora Napoli non nega il resto del paese. Dia‑ loga, combatte, preme, chiede giustizia all’Italia “cui è indissolubilmente legata”. Non sono io a dirlo. È Lauro a sostenerlo in Consiglio comunale nelle dichiarazioni program‑ matiche del 26 gennaio 1953. E a rivendicare il diritto di Napoli di esistere come grande città ita‑ liana, “capitale ideale del Mezzogiorno”, dopo aver passato in rassegna le cause salienti della nostra

depressione economica, “non per incolpare le altre regioni d’Italia più fortunate, alle quali – è sempre lui a parlare – ci sentiamo stretti da vincoli indisso‑ lubili, ma per fissare i principali titoli che Napoli ha per esigere un vigoroso intervento della collettività nazionale, cioè dello Stato, a nostro favore”. ARCAICITÀ E MODERNITÀ DEL LAURISMO Si è rilevato da più parti che Lauro sostiene queste posizioni esaltando al tempo stesso il “par‑ ticolarismo” e gli aspetti più arcaici del popolo na‑ poletano e meridionale. “E ciò – osserva Pasquinelli nell’introduzione della raccolta Antropologia cultu‑ rale e questione meridionale – lungi da introdurre le masse nella storia, le riconferma protagoniste di una storia separa‑ ta, della non‑storia”. Io invece penso che la vicenda laurina non galleggia nel nulla, ma si colloca con forza nel contesto magmatico e in movimento di que‑ gli anni e interviene nella transizio‑ ne della città dal lungo dopoguerra con un ruolo specifico, per molti aspetti inedito e inesplorato. Galasso, nella conversazione con Allum sulla storia di Napoli apre una interessante “finestra” sul problema: “Non voglio dire che il laurismo abbia rappresen‑ tato qualcosa di qualitativamente superiore o di più moderno rispet‑ to al vecchio notabilato clientela‑ re. Ma non credo neppure possibile negare che il laurismo abbia avuto una forza aggregante e abbia inci‑ so nella vita cittadina in maniera ben diversa. Il “blocco” laurino stringeva insieme imprenditori e speculatori edilizi, borghesia pro‑ fessionistica e commerciante e quel tanto di capitale finanziario che era presente nella città; e riu‑ sciva a farsi seguire in massa sia dalla piccola borghesia che dai ceti popolari e sottoproletari”. Nella interpretazione di Minol‑ fi e Soverina: “una volta giunto a Palazzo San Giacomo il personale politico laurino si propose – e fu effettivamente percepito – come


21 estrema e diretta propaggine della società civi‑ le nelle istituzioni dello Stato”. Il fatto che tra gli amministratori figurassero – oltre ai più consueti gruppi di avvocati, di medici, di docenti – anche imprenditori e commercianti grandi e piccoli, in mi‑ sura mai più registrata, era l’avviso che mutavano i confini stessi della politica. Da questo punto di vista la composizione so‑ ciale dei partiti politici presenti nel Consiglio comu‑ nale di Napoli è significativa. Dal 1946 al 1972 gli imprenditori erano così distribuiti: Destra 80,4%; DC 8,9 %; PCI 1,8%. E i commercianti, in partico‑ lare: Destra 62,0%; DC 31,0 %; PCI 3,4%. La singolare commistione di conservatorismo e innovazione, arcaicità e modernità del laurismo si esprimeva a vari livelli. Primo: l’indiscutibile abilità comunicativa, che oscillava tra la reiterazione del modello populistico dei “bagni di folla” e la precoce intuizione dell’asso‑ luta novità dei media e della politica‑spettacolo. Secondo: la spregiudicatezza imprenditoriale che costituiva il nucleo di una sorta di neapolitan dream, di una mobilitazione individualistica senza regole e principi. Terzo: Il richiamo alla difesa dell’identità di Na‑ poli e la retorica sui diritti offesi della città. Lauro: • Recupera il quotidiano il ROMA. • Reinventa feste popolarissime, da quella del Monacone a quella della Madonna del Car‑ mine, a quella di Piedigrotta. L’Espresso del 9 ottobre 1955 scrive che “Lauro ha dato a Napoli, con 50 milioni di spesa, una Piedigrot‑ ta che resterà memorabile. Quindici giorni di luminarie e di fuochi, canzoni all’aperto, con‑ corsi di bellezza. In Piazza Plebiscito ha innal‑ zato un Pulcinella grande quanto la facciata di una villa”. • Rilancia alla grande la squadra del Napoli. Nel 1952 acquista dall’Atalanta Jeppson per una cifra folle per quell’epoca: 105 milioni di lire. E un giorno, quando il giocatore scivola sul cam‑ po bagnato e si infortuna lievemente, una voce disperata grida: “Se n’è caduto il Banco di Na‑ poli”. Nel ’56 acquista Luis Vinicio, anche se le fortune del Napoli rimangono alterne. Nel 1959 inaugura lo Stadio San Paolo nel tripudio di 80 mila napoletani. Insomma, starei attento a parlare di una pura e semplice riedizione dell’antica pratica della festa, farina e forca. Anche qui io trovo nelle intuizioni di

Lauro i segni di una modernizzazione della politica: una perversa, patologica modernizzazione, che più che ricordarci il passato, secoli lontani, ci riman‑ da al presente, a quello che sta accadendo oggi a Napoli e in Italia. Anche i rapporti di pressione – ricatto – com‑ promesso che Lauro intrattiene con i governi nazio‑ nali (Lauro gestiva sapientemente in Parlamento astensioni, voti favorevoli e voti contrari) avevano come obiettivo qualche soldo per la città e qual‑ che vantaggio per la sua Flotta. Ma non solo. Il laurismo, appariva come il realistico tentativo di rinegoziare la collocazione della città e dei suoi ceti dominanti all’interno della compagnie e dello svi‑ luppo nazionale. Ed era proprio l’evocazione di un ordine socio‑economico “altro”, era questa sorta di grossolana cultura della differenza ad incontrare un consenso di massa di proporzioni storicamente inedite per una città come Napoli. Massimo Caprara: “Dietro il tumultuoso con‑ senso di strati popolari e sottoproletari dei vicoli e dei quartieri sta il consapevole appoggio della borghesia urbana che individua nel modello lauri‑ no l’arma di ricatto efficace contro il governo di Roma, precipitato nell’instabilità post‑centrista”. In effetti la lettura del rapporto Lauro – governi nazionali sta anche, e forse in primo luogo nella crisi della maggioranza centrista a Roma: dopo il 1953 i voti dei deputati monarchici furono una co‑ moda e non trascurabile risorsa per la Democra‑ zia cristiana, alle prese col problema di assicurarsi comunque una maggioranza nel Parlamento e nel paese e del rifiuto ad aprire un dialogo coi sociali‑ sti. Quando si avvia l’esperienza del primo centro sinistra a livello nazionale, si chiude l’avventura di Lauro a Napoli. GLI ESORDI DI LAURO SINDACO DI NAPOLI L’avventura di Lauro si aprì con un clamoroso episodio. Il Consiglio comunale eletto il 25 mag‑ gio del 1952 doveva insediarsi il 28 giugno. Ma la solenne seduta andò deserta. Cosa era successo? Era successo che il giorno prima era stato arresta‑ to l’Avv. Raffaele Cafiero per abusi commessi in una vertenza fiscale di Achille Lauro col Comune di Napoli. E per protesta Lauro aveva ordinato ai suoi consiglieri di starsene a casa. Un quotidiano dell’epoca diede così la sconcertante notizia: “Per solidarietà con i privati interessi di Lauro monarchi‑ ci e fascisti disertano il Consiglio comunale”. Nulla di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire.

Circa due anni dopo, sempre nel Consiglio co‑ munale di Napoli, nella seduta del 18 agosto 1954, un consigliere monarchico dissidente, di nome Cap‑ pa, dichiarò pubblicamente di essersi incontrato col Sindaco Lauro: “Mi aveva fatto chiamare – di‑ chiarò – perché rientrassi nelle file della maggio‑ ranza. In quell’occasione il valore del voto di ogni Consigliere del mio Gruppo fu calcolato intorno alle 5/600 mila lire. Ora diteci voi, Consiglieri della maggioranza quanto valete”, gridò lasciando tutti di gelo. In realtà Lauro sapeva bene quanto vale‑ vano, e quando consumò la scissione con Covelli dichiarò pubblicamente ai suoi collaboratori: “Si, va bene, saranno nove o dieci i consiglieri che re‑ steranno con Covelli. Ma basta che io me li chiami, che prometta un mercato ittico, un Assessorato alla nettezza urbana, e tutto finisce”. Stiamo parlando di 60 anni fa… ma sem‑ bra oggi! LE MANI SULLA CITTÀ Lauro passerà alla storia per “Le mani sulla città” per il sacco di Napoli. La speculazione edi‑ lizia negli anni della sua amministrazione ricorda l’assalto alle dilegenze nel Far West, cosa diversa rispetto alla occupazione del territorio scientifica, ‘moderna’, ‘pianificata’ da parte della gestione commissariale (vedi ‘varianti’ al PRG Lauro – Cor‑ rera) e delle successive amministrazioni DC. Lauro ostacolò qualsiasi normativa. Lasciò mano libera agli speculatori da ogni regola e vinco‑ lo. Anzi, mise gli speculatori direttamente in Giun‑ ta. O alla presidenza della Commissione edilizia. Valga qualche cenno dello storia urbanistica di quegli anni a Napoli. Dopo gli sconvolgimenti della guerra che ren‑ devano inattuabile il PRG del ’39, l’Amministrazio‑ ne comunale Fermariello nominata dal C.L.N. deci‑ se la elaborazione di un nuovo Piano. Il 24 giugno 1946 il Comune di Napoli inviò a Roma gli elabo‑ rati del Piano. Bisognò giungere all’11 febbraio 1950 perché il Piano ritornasse a Napoli col Parere del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Questo Parere non era negativo ma conteneva alcuni suggerimenti di modifica. La Giunta comunale del tempo nominò il 4 maggio 1950 una nuova Commissione la quale consegnò le sue conclusioni il 24 settembre 1951, approvate dal Consiglio comunale il 17 dicembre dello stesso anno. A quel punto si scoprì che era sparita una ‘tavola’ del Piano. Bisognava correggere questo ‘vizio di for‑


22 ma’, ma nel frattempo il Consiglio co‑ munale aveva esaurito il suo mandato. Allora – il 7 marzo del 1952 – la Giunta approvò la correzione con i poteri del Consiglio che sarebbe stato eletto a maggio. Ma l’8 ottobre del 1952 uno dei primi atti della nuova maggioranza di destra fu quello di negare ratifica di quell’atto del 7 marzo. L’ordine del giorno col quale de‑ stra affossava la delibera di Piano portava la firma dell’ing. Vittorio Matarazzo, allora consigliere comu‑ nale del MSI, il quale aveva ammesso pubblicamente, in Consiglio comuna‑ le, di aver ricevuto 4 milioni e mezzo di lire come “compenso professio‑ nale” da un Consorzio di proprietari immobiliari costituito per opporsi alla normativa del Piano regolatore. Lau‑ ro lo nominò Assessore ai lavori pub‑ blici e Presidente della Commissione edilizia. Matarazzo successivamente venne eletto Consigliere provinciale sempre con Lauro, poi colpito da una crisi di coscienza fu nominato Asses‑ sore all’urbanistica dell’Amministra‑ zione diretta da Antonio Gava”. Azzerato il Piano Regolatore, Napoli entra nel regno della giungla. E del degrado. È in atto una vera e propria “frana edilizia”. La città “se ne va a pezzi” come fu scritto all’epo‑ ca. Nei primi due mesi del 1954 si aprono 12 voragini nelle strade an‑ che al centro della città; crollano 5 edifici; 6 edifici vengono sgombrati perché pericolanti. Il 13 aprile 1955 fu insediata la Commissione per elaborare un nuo‑ vo Piano Regolatore, che terminò i suoi lavori nel 1958, poco prima dello scioglimento del Consiglio comunale. Il Commissario straordinario modifi‑ cò in peggio i risultati di questi lavori, e il 3 dicembre 1958, quando i suoi poteri erano già scaduti, adottò il nuovo strumento urbanistico, respin‑ se le 590 ‘opposizioni che erano sta‑ te presentate, e lo trasmise all’esa‑ me del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Che non lo approvò.

Ma intanto il Commissario ave‑ va adottato uno scandaloso sistema di ‘varianti’ al Piano Regolatore del 1939, formalmente ancora vigente: quella del Vomero, Arenella, Posilli‑ po; quella di Capodimonte, Colli Ami‑ nei; quella di Via Orazio, Via Stazio, Via Pacuvio, e quella del ‘Drizzagno’ al corso Vittorio Emanuele. Ha così inizio il massacro di Napoli “a nor‑ ma di Legge”. Lasciamo che parlino i fatti e le cifre. Nel periodo laurino – dal 1951 al 1960 – a Napoli furono autoriz‑ zate costruzioni residenziali pari a 1.989.144 metri cubi senza obbligo di urbanizzazione primaria. Durante le gestioni straordina‑ rie e le prime amministrazioni a di‑ rezione DC – dal 1961 al 1972 – fu‑ rono autorizzate lottizzazioni pari a 10.906.510 metri cubi coperti, sfor‑ niti di ogni servizio. Per non parlare del famoso ago‑ sto 1968 quando, col ricorso dissen‑ nato alla cosiddetta Legge‑ponte, in una sola notte vennero rilasciate a Napoli licenze per 74.000 nuovi vani: 150 vani al minuto. Tuttavia il fermo‑immagine del laurismo, con tutta la forza emble‑ matica e coinvolgente di un’opera d’arte, rimane e rimarrà il film di Franco Rosi Le mani sulla città, pre‑ miato con il Leone d’oro al Festi‑ val di Venezia. Icastico e spietato il commento di Gian Carlo Pajetta su Cronache meridionali: “A Venezia lo hanno fischiato i pescecani di tutto il mondo e le loro donne con i fischietti d’argento. A Napoli lo hanno deplo‑ rato democristiani e monarchici; non potevano applaudirlo, anche perché avevano le mani occupate in altre faccende. Bravi, li ringraziamo, i loro fischi daranno più significato agli ap‑ plausi di quelli che hanno i calli nelle mani o comunque le mani pulite”. I democristiani replicano con un Atti‑ vo provinciale del partito il 2 ottobre del 1963. Presente la deputazione


23 parlamentare, i consiglieri comunali e provinciali, i sindaci dc dei Comuni della provincia, nonché “un ristretto gruppo di esponenti del mondo catto‑ lico”. “Il dibattito – si legge nei reso‑ conti stampa dell’epoca – ha posto in luce come il film sia una dimostrazione del cedimento della cultura italiana al frontismo culturale dei comunisti”. Dal canto suo Lauro, nella seduta del Con‑ siglio comunale del 7 ottobre, giudica “ampiamente denigratorio e quindi le‑ sivo del buon nome di Napoli” l’opera premiata a Venezia. E attacca frontal‑ mente la DC, alla quale appartengono “coloro che hanno realmente avuto ed hanno le mani sulla città, la quale in tutti questi anni Napoli ha potuto giovarsi solo della nostra azione am‑ ministrativa, mentre il suo sviluppo è stato costantemente ostacolato e talvolta soffocato dalla faziosità del‑ la Democrazia Cristiana che ha preci‑ pitato la città nell’assurda condizione attuale”. Si tenga presente che nel ’63 Lauro aveva perduto il controllo della città, ora amministrata dal Sindaco d.c. Ferdinando Clemente. GLI ANNI CINQUANTA FURONO SOLO “LA LUNGA NOTTE LAURINA”? È sbagliato identificare e liqui‑ dare gli anni Cinquanta del Nove‑ cento unicamente come la stagione della “Lunga notte laurina” e della non‑storia della città. No, quella fu anche una stagione di una straordi‑ naria creatività artistica, di grandi fermenti culturali. E di significativi movimenti sociali. Lo dico pur sapendo che molti la pensano diversamente. A cominciare da Giuseppe Ga‑ lasso, che conversando con Pery Al‑ lum dice: “ho l’impressione che si sia portati in genere a mitizzare un po’ gli anni del dopoguerra La città delle Quattro Giornate, di Omodeo e di Dorso, della giovane narrativa che sembrò una vera esplosione di felicità

creativa, delle accese lotte politiche e sindacali fino al ’46, diventò, dopo, la roccaforte della destra tradiziona‑ lista, e lo restò a lungo”. Per non dire dell’immagine che Anna Maria Orte‑ se rende degli intellettuali napoletani di quegli anni nell’ultimo capitolo de Il mare non bagna Napoli: “presenta gli scrittori napoletani – osserverà Marina Guardati sul La voce della Campania dell’11 gennaio 1976 – in una luce cruda, spietata, impietosa: esseri lattiginosi, vaganti senza meta, sconfitti in partenza”. Ma, anche qui, stiamo ai fatti. Nel 1954 nascono quasi contem‑ poraneamente due riviste meridio‑ naliste di rilevante spessore politi‑ co‑culturale. Una di sinistra, Cronache meri‑ dionali (Macchiaroli, Alicata, Villari, Chiaromonte) l’altra liberaldemocratica, Nord e Sud (De Capraris, Cappa, Mazzet‑ ti, Compagna). A metà degli anni ’40 erano nati il Gruppo Sud e l’omonimo periodico promosso da Pasquale Prunas, con Carla De Riso e Raffaele La Capria (Segretario di redazione!). “Sud per noi ha il significato di Italia, Europa, Mondo”. La rivista durò solo 7 numeri. Il Gruppo ebbe vita più lunga e si articolò sino agli anni Cinquanta in un collettivo di scrittori, giornalisti, registi: Ennio Mastrostefano, Gian‑ ni Scognamiglio, Luigi Compagno‑ ne, Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Gino e Franco Grassi, Anna Maria Ortese; e di pittori: Raffaele Lippi, Pe‑ rez, De Stefano, Venditti, Barisani, Tatatiore, Causa, De Fusco, Florio, Montefusco, Turchetti, Washimps, Castellano. Nascono, nel 1960, Le Ragioni narrative: Domenico Rea, Luigi Com‑ pagnone, Michele Prisco, Luigi Inco‑ ronato, Mario Pomilio, Paolo Ricci, Gianfranco Venè, Leone Pacini Savoj, Anna Maria Ortese.

Nasce (1947) Cultura Nuova pres‑ so il Liceo Sannazaro: Ansalone, Sansone, Nicolini, Graziani, Gerar‑ do e Lucio Marotta, Gino Cioffi, Ugo Gregoretti, Marina Guardati, Maria Teresa Pisani. Nascono due Centri di Arti figu‑ rative: il MAC (Movimento Arte Con‑ creta) e il Gruppo ’58 con la Rivista Documento Sud. Nasce la Sezione Teatro di Cultura Nuova, e quattro Circoli del Cinema e Cine Club: Renato Caccioppoli, Gior‑ gio Napolitano, Nino e Laura Sanso‑ ne, Maria Alicata, Renzo Lapiccirella, Ninni Mozzillo, Francesco Guizzi, Ric‑ cardo Napolitano, Enzo Oliveri. Sempre di quegli anni, dal ’49 al ‘54 fu la nota travagliata vicenda del Gruppo Gramsci (Piegari, Marotta, Caccioppoli, Rosario Villari, Allodi, Aloisio, Sandro De Val, Galzenati). Un collettivo del PCI (si riuniva nella Sezione Chiaia Vetriera a San Carlo alle Mortelle), collegato però stretta‑ mente con l’Università e vasti settori della cultura democratica. Questo per accennare solo ad al‑ cuni punti di aggregazione culturale. Varrebbe tuttavia la pena di ripercor‑ rere anche i temi, i contenuti, la ma‑ teria del dibattito politico‑culturale di quel periodo, e degli anni precedenti e successivi. Penso, le tante, a due aspre polemiche. La prima si riferisce alla antica e irrisolta questione della ’napoletanità’. Affrontata da Antonio Ghirelli nell’ultimo capitolo della sua Storia di Napoli, provocò la reazione pesantemente negativa, una vera e propria stroncatura, da parte della in‑ tellighentzia comunista (Paolo Ricci, Gerardo Chiaromonte, Maria Alicata). Cocciuto e spuntuto, Ghirelli replica qualche anno dopo, nel 1976, con un saggio‑inchiesta che affronta di petto la questione: Il contributo di Napoli alla storia italiana può considerarsi esau‑ rito con l’unificazione del territorio na‑ zionale, o sussistono tuttora elementi che caratterizzano in modo originale la sua presenza nel contesto del Paese?.

Al dibattito parteciparono 21 uomini di cultura, da Luigi Compagnone, a Elena Croce, Vittorio De Sica, Anna Maria Ortese, Pier Paolo Pasolini, Michele Prisco, Franco Rosi, Maurizio Valenzi, Vittorio Viviani. Le posizioni a confron‑ to furono diverse, in qualche caso net‑ tamente contrastanti. Un’altra occasione, a metà degli anni Quaranta, che ha diviso e segna‑ to a lungo, sino al decennio succes‑ sivo e oltre, le posizioni della cultura e della politica meridionalista e di si‑ nistra si sviluppò in occasione della pubblicazione del libro di Carlo Levi Cristo si è fermato a Eboli. L’autore fu accusato – persino da Ernesto De Martino, il che è quanto dire! – di sostenere il valore dell’antica civiltà contadina in alternativa alla moder‑ nizzazione del Mezzogiorno e del Pa‑ ese. “La rappresentazione che Levi ci dà del mondo contadino meridiona‑ le – scrisse Mario Alicata, Responsa‑ bile culturale del PCI – spezza arbitra‑ riamente il legame del Mezzogiorno con il resto del mondo, nello spazio e nel tempo. No – concludeva Alica‑ ta – il meridionalismo non si può fer‑ mare ad Eboli”. Anche in questo caso si tratta di materia controversa. Se‑ condo Maurizio Valenzi “sino agli anni Settanta il PCI non ha capito niente di Levi”. E per Giuseppe Galasso: “che Levi pensasse che la società contadi‑ na non dovesse mai varcare le soglie della modernizzazione, è solo un’illa‑ zione molto indebita da ciò che egli ha scritto. Levi voleva dire soltanto che la modernizzazione doveva avere rispetto e considerazione di tradizio‑ ni la cui perdita non avrebbe giovato neppure ad essa”. Anche sul fronte sociale – per concludere questa parte della mia riflessione – una visione parziale e riduttiva mi sembra francamente sba‑ gliata: si ebbero eventi e movimenti di grande rilevanza, dai Consigli di fabbrica, con i lavoratori impegnati nella ricostruzione del tessuto indu‑ striale, ai Comitati per la Rinascita


24 del Mezzogiorno, nei quali si incon‑ travano operai, popolo e intellettuali di Napoli con i contadini delle altre regioni meridionali. Non dimentichiamo che nel ’50 nasce la Cassa per il Mezzogiorno, ideato da un gruppo di economisti di altissimo livello e assunto dal gover‑ no dell’epoca tra polemiche, proposte, speranze e realizzazioni, anche, specie nella prima fase. Tenuto conto dei diversi punti di vista su questi aspetti degli anni Cinquanta a Napoli, sarebbe inte‑ ressante che qualcuno di voi, ragaz‑ ze e ragazzi, da soli o in gruppo, ap‑ profondisse l’argomento. Immagino un seminario, un gruppo di studio o – perché no? – una tesi di laurea su Cultura e Società a Napoli negli anni Cinquanta. Da parte mia rimango a vostra disposizione per eventuali domande e infor‑ mazioni. Soprattutto po‑ tremmo avvalerci delle com‑ petenze di Marina Guardati, che sul tema ci ha fornito un prezioso appunto, una pun‑ tuale memoria, che riporte‑ remo sul prossimo numero della rivista Mezzogiorno Europa. CONCLUSIONE Agli inizi degli anni Sessanta, mentre nazionalmente inizia l’espe‑ rienza di centro sinistra, a Napoli l’avventura laurina si avvia a conclusione, con la DC che la spinge a l’ac‑ compagna in una ‘caduta dolce’ per poter assorbire i voti – e gli interessi – in libera uscita. Basti pensare ai sette consiglieri comunali laurini passati in blocco alla DC nell’autunno del 1961 (il ROMA li definì i sette putta‑ ni). Il Mottola, protagonista

di Mani sulla città è Giuseppe Musca‑ riello, eletto nelle liste monarchiche nel 1952 in Consiglio comunale e nel 1953 in Parlamento. Rieletto per due volte al Comu‑ ne, nel settembre del 1961 ’tradisce’ Lauro e passa alla DC assieme agli altri 6 transfughi. Viene cooptato nelle liste e nelle Giunta democri‑ stiane. Nello stesso periodo 4 Con‑ siglieri provinciali passano da Lauro alla DC per consentire in quell’Assise la prima Giunta Gava. E un monoco‑ lore DC (il famoso Governo di affari: ottobre 1962‑luglio 1963) si regge al Comune di Napoli con il sostegno della destra.

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apoli  nobilissi‑ ma, Napoli “di più”, Napoli vul‑ cano ribollente di idee e di intelligenze – quante definizioni e realtà si contrappon‑ gono alla Napoli laurina. Per meglio inquadrare questo periodo, conviene partire dai primi anni del dopoguerra, in una tensio‑ ne per una città nuova, i giovani af‑ fermano con enfasi di voler essere “il noviziato per una nuova cultura nel mondo”. A Latitudine rivista del gennaio 1944 che si apre e chiude in un unico numero, collaborano Massimo Caprara, Giuseppe Patro‑ ni Griffi, Raffaele La Capria, Luigi Compagnone, Tommaso Giglio, An‑ tonio Ghirelli, Gianni Scognamiglio, Giorgio Napolitano. Tra il 1945 e il 1950 vengono pubblicate le riviste L’Acropoli di Adolfo Omodeo gestita dal venten‑ ne Gaetano Macchiaroli, Arethusa di Francesco Flora editore Casella. Anche Rinascita resterà a Napoli per alcuni mesi. Sud, giornale di cultura, prima quindicinale poi trimestrale è la creatura del geniale ventenne Pa‑ squale Prunas ma, come lui scrive nel 1o numero del 15 novembre 1945 “…Sud non ha il significato di una geografia politica né tantomeno spi‑ rituale; il Sud ha per noi il significato di Italia, Europa, Mondo. Sentendoci meridionali, ci sentiamo europei…”. Franco Fortini presentando Sud ai lettori di Politecnico scrive nell’otto‑ bre 1947 “…è un urlo e un discorso che ci vengono da Napoli”. Ne fan‑ no parte Carla De Riso, Luigi Com‑ pagnone, Raffaele La Capria, Ennio Mastrostefano, Anna Maria Ortese, Giuseppe Patroni Griffi, Mario Ste‑ fanile, Francesco Rosi, Gino e Franco Grassi, Raffaello Franchini e Rugge‑ ro Guarini sedicenne. Nel settembre 1947 Sud chiude per assoluta man‑ canza di denaro. Nel libro di cassa Prunas annota le vendite persona‑

Napoli, il Sud cioè Italia, Europa, Mondo

li per pagare quisito per un la tipografia rinnovamento Amodio:pezzo della società di catena d’oro italiana. 3.5 0 0 lire, Il legame scarpe 8.800 tra i ragazzi di lire, cane pa‑ Cultura nuo‑ store tedesco va (i ragazzi di 5.250 lire, to‑ Monte di Dio vaglia di lino come li chiama 5.000 lire; tra Ninni Mozzil‑ Marina Guardati gli introiti an‑ lo) e il vecchio che i biglietti gruppo Sud di per i tre tè danzanti nel Salone della Prunas è forte. Hanno in comune Nunziatella (il comandante generale buone intenzioni e programmi am‑ era il padre di Prunas). Vi partecipa‑ biziosi. E quando la grande mostra rono le giovinette dell’aristocrazia e di pittura progettata da Prunas e alta borghesia napoletana. Arturo Bovi sta fallire, Cultura nuo‑ Ma Pasquale Prunas non de‑ va generosamente va in soccorso siste, dopo qualche mese nasce il degli amici e si accolla le spese del Gruppo Sud di pittura che Ferdinan‑ catalogo. do Bologna definisce “la vera spina Da notare che in questo decen‑ dorsale del rinnovamento dell’arte nio nelle iniziative culturali sono napoletana e la matrice di tutti i protagonisti quasi sempre i mede‑ più importanti movimenti che se‑ simi giovani ventenni, entusiasti, guirono…”. colti, onesti. Il grande desiderio La redazione si riuniva nella cu‑ di comunicare, di fare, li portava cina di casa Prunas, era composta per irruenza a litigi – i gruppetti si da Raffaele Lippi, Vincenzo Monte‑ frantumavano, si ricomponevano, fusco, Armando De Stefano, Raffa‑ mantenendo spesso il titolo di ap‑ ello Causa – che si definiva “un di‑ partenenza – come è accaduto per lettante estroso in pittura”. Cultura nuova, più volte dichiarata Nel 1947 nasce anche l’Asso‑ fallita e poi ricompattata. La sede ciazione napoletana Cultura nuova preferita per gli incontri era la Li‑ nel Liceo Sannazaro al Vomero. I breria Macchiaroli. Cultura nuova fondatori sono Dario Santama‑ con una articolata struttura, pre‑ ria, Gerardo e Lucio Marotta, Gino vedeva varie sezioni: letteratura, Cioffi, Massimiliano Vajro. Corrado arte,scienza, teatro, cinema – ma Alvaro inaugura l’attività il 27 apri‑ ben poco riuscirà a fare per una cro‑ le 1947. Il Direttivo è composto da nica mancanza di denaro. Gerardo Marotta, Atanasio Mozzil‑ La sezione teatro era composta lo, Ugo Gregoretti, Enzo Oliveri del da Gigi Amirante, Gilmo Arnaldi, Lu‑ Castillo, Marina Guardati, Luciano igi Incoronato, Brunello Calogero, Grasso, Francesco Macchia, Ma‑ Massimo Nunziata, Antonio Ven‑ riateresa Pisani. Cultura nuova si ditti, Filippo Castriota Scanderbeg. presenta come un “movimento cul‑ Quest’ultimo sarà il regista dei Nö turale e politico capace di mobilitare giapponesi al Mercadante. una adesione trasversale di tutte le La sezione cinema inizialmen‑ formazioni del fronte laico” élites di te gestita da Franco Bottacchi è intellettuali caratterizzati da quella il primo nucleo del glorioso Circo‑ onestà che Prunas e i suoi amici lo napoletano del cinema. Verso hanno sempre ritenuto il primo re‑ quest’ultima iniziativa – osserva

25 Atanasio Mozzillo – assai più che in altri settori di Cultura nuova, il Partito comunista mostra un ac‑ centuato interesse intervenendo in più fasi con uomini e sovvenzioni. Pochi nomi ma significativi: Renzo Lapiccirella, Laura Sansone, Nino Numeroso, Enrico Scarciglia, Ar‑ mando Carta. Il tentativo del PCI di inserirsi, nelle attività giovanili culturali di questo decennio è stato costante, incontrando talvolta forti personalità in opposizione (vedi Pru‑ nas, Caccioppoli, Piegari). La sezio‑ ne cinema di Cultura nuova aveva quale sede il Circolo Omodeo a fian‑ co alla sezione del PCI del Vomero. Nel comitato sostenitore troviamo Mario Alicata, Paolo Ricci, Giorgio Napolitano, Pasquale Prunas, Nino e Laura Sansone, Geppino Golia, Raf‑ faele Mammalella, Roberto Paolella, Marcello Clemente. Presidente Re‑ nato Caccioppoli. Le proiezioni dei films avveni‑ vano la domenica alle 11 al cinema Alhambra; memorabile la presenta‑ zione di “Giovanna d’Arco” di Dre‑ yer con le musiche di Bach esegui‑ te al pianoforte in sala da Renato Caccioppoli. Ma soltanto dopo pochi mesi dalla sua costituzione, nel 1950 chiude il primo Circolo napoletano del cinema‑naturalmente per man‑ canza di fondi. Pochi mesi prima, nel dicembre del 1949 il PCI ave‑ va offerto la sua disponibilità ma l’inserimento dei “compagni” non fu accettato anche perché contem‑ poraneamente Prunas, indomabile, aveva fondato con atto notarile un nuovo Cineclub coinvolgendo l’inte‑ ro vecchio gruppo di Sud con un bel programma. Prunas fu costretto a chiuder quasi subito perché la Cine‑ teca italiana pretendeva il saldo di un debito di 7.000 lire del precedente Circolo napoletano del cinema. Ma Pasquale Prunas non è tipo da desi‑ stere e alla finedel 1952, affianca‑ to da Enzo Oliveri, Ninni Mozzillo,


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dai giovanissimi Francesco Guizzi e Riccardo Napolitano, ripropone il Circolo napoletano del cinema con il bollettino Canudo, questa volta con sede alla Galleria Sant’Orsola a Chiaia. Renato Caccioppoli vi ade‑ risce come sempre quando si trat‑ ta di affiancare i giovani entusiasti ma conservando sempre, a difesa, un sorrisino ironico. Prunas nel 1953 deve lascia‑ re Napoli, lavorerà a Milano poi a Roma, Mozzillo, Guizzi e Napolitano resisteranno fino al 1961 quando dopo 14 anni chiude definitivamente il Circolo napoletano del cinema. In questo decennio sorgono altri Circoli del cinema: nel 1949 il Film Club Napoli di via Martucci (con Cin‑ gotti,. Mammalella, Nuzzi, Paolella) che chiude nel 1957 e il Cineclub di

via Orazio animato per molti anni da Vincenzo M.Siniscalchi e Anto‑ nio Napolitano. Da ricordare altre iniziative cul‑ turali in questo periodo: nel 1961 Le ragioni narrative, rivista letteraria voluta da Mimi Rea, Luigi Compa‑ gnone, Leone Pacini Savoj, Luigi In‑ coronato, Gianfranco Vené che pur avendo prestigiosi collaboratori, chiude dopo 7 fascicoli. Dichiaratamente marxista, sen‑ za chiaroscuri è il Gramsci, gruppo di studio con conferenze programmate e dibattiti; si riunisce nella Sezione Chiaia‑Vetriera di PCI dall’inverno 1949 alla primavera del 1954, è di‑ retto da Guido Piegari, vi partecipa‑ no Ettore Lepore, Vanni Allodi, Ugo Feliziani, Gerardo Marotta, Rosario Villari, Ennio Galzerati, Geppino Go‑

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lia, Sandro De Val, Aedo Violante. Piegari e Marotta saranno “scomu‑ nicati” dal PCI nel 1954 per “devia‑ zionismo scismatico”. Alla fine degli anni Cinquan‑ ta, Luigi Cosenza riuscirà a crea‑ re un rapporto tra l’Università e i giovani che volevano un mondo migliore e gravitavano intorno al PCI; al suo studio a Mergellina si riunivano:Lorenzo Pagliuca, Antonio Guistelli, Vittorio Caruso, Geppino Golia, Bice Foà, Ada Defez. Citiamo velocemente altre ri‑ viste: Op. cit. fondata negli anni Sessanta da Renato De Fusco con attenzione per l’architettura e l’ur‑ banistica; Nord e Sud che nasce nel 1954 con Vittorio de Caprariis, Fran‑ cesco Compagna, Gigi Amirante, Renato Cappa, Nello Ajello.

La parola del passato edita da Macchiaroli nel 1945 con la super‑ visione di Giovanni Pugliese Carra‑ telli è tra le più importanti riviste europee di storia antica; la Gazzetta musicale di Napoli, rivista mensile di musicologia e di critica fondata da Vincenzo Vitale che ebbe vita dal 1955 al 1958; Il Tetto di Pasquale Colella; Cronache meridionali dalla lunga vita 1954‑1965, con Giorgio Amendola, Francesco De Martino, Mario Alicata, Gerardo Chiaromon‑ te; Documento Sud del Gruppo ’58 con Domenico Spinosa, Persico, Biasi, Del Pezzo che si pubblica dal 1959 al 1961. Dunque iniziative tante in questi decenni, persone e personaggi che oggi nel Duemila ricordiamo con af‑ fetto e ammirazione.

I n   r i c o r d o   d i   G e p p i n o   G o l i a mava gli amici con i quali aveva affi‑ nità ma la sua inesauribile curiosità intellettuale lo portava ad accettare la provocazione e la polemica – se poste su un piano alto.

Nasce il 3 aprile 1927, partecipa sedicenne nel settembre 1943 alle Quattro giornate di Napoli, è a fianco di Adolfo Pansini, ucciso dai tedeschi nella Masseria Pezzalonga al Vomero. Ventenne fa parte della squadra di rugby per i Campionati nazionali del 1947 a Merano. Un gruppo di giovani vomeresi colti, onesti, entusiasti si incontrava nel Circolo Omodeo, una modesta stanzetta a piano terra in via Cimarosa dove, con la benedizione di Renato Caccioppoli

fu fondato il primo Circolo napoletano del cine‑ ma. Geppino Golia ebbe la tessera n°17 di socio fondatore. Nel Comitato vi erano: Mario Alicata, Paolo Ricci, Giorgio Napolitano, Pasquale Prunas, Nino e Laura Sansone, Raffaele Mammalella, Franco Bottacchi, Vitaliano Corbi, Aedo Violante, Augusto Perez. Il circolo Omodeo confinava con la Sezione del PCI, Geppino Golia vi si iscrisse nel 1948, tesse‑ ra n°0801722 firmata da Palmiro Togliatti e Iffri‑ do Scaffidi. Partecipa al gruppo Gramsci, attivo tra il 1949 e il 1954, dichiaratamente marxista diretto da Guido Piegari ed è presente nei dibattiti con Ettore Lepore, Gerardo Marotta, Sandro De Val, Rosario Villari. Mai interrotti gli stimolanti incontri serali con Raffaello e Chérie Causa, Ferdinando Bologna, Gi‑ gino Mendia, Mimì Rea, Luigi Compagnone. Il Partito comunista con Alinovi gli propose di diventare funzionario di Partito ma lui preferì finire gli studi di Ingegneria, sotto la guida di Adriano Galli e Luigi Cosenza. Lavorò a Roma, dopo la laurea, alla Cassa per il Mezzogiorno, poi al Provveditorato alle Opere pub‑ bliche; alla fine degli anni Sessanta come libero pro‑ fessionista con Geppino Mascoli, Silvio Terracciano, Vittorio Biggiero. Dal 1990 collabora con il CNR in

progetti di ricerca. Tra il 1974 e il 1981 affianca il Partito comunista per sostenere i Circoli Neruda e Labriola. Musicofilo, frequentava assiduamente il San Carlo e la Scarlatti e, amante del teatro, ha seguito gli spettacoli della Primavera della prosa del 1958 agli ultimi del 2010 al Mercadante. Le frequentazioni degli ultimi decenni sono state anche con i vecchi compagni, amici carissimi: Mauri‑ zio e Litza Valenzi, Giorgio e Clio Napolitano, Carla e Gustavo Minervini, Sandro e Giuliana Rossi, Giovan‑ na e Sando De Val, Lucia e Giancarlo Cosenza. Muore il 17 gennaio 2011 La famiglia, il lavoro di ingegnere, il Partito, gli amici questi i suoi punti fermi, lo ricorderemo come un uomo ‘giusto’.


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DIMISSIONI DEL GOVERNO VERSUS SCIOGLIMENTO ANTICIPATO Pietro Ciarlo l decreto del Presidente della Repubblica per lo scioglimento anticipato delle Camere deve essere controfirmato dal Presi‑ dente del Consiglio dei ministri. Sen‑ za controfirma esso appare illegitti‑ mo. Tanto premesso è pur vero che ci troviamo dinanzi ad una situazione ormai insostenibile. Bisogna chie‑ dersi se la straordinaria emergenza possa portare a superare l’ostacolo della controfirma. Una maggioranza di nomina‑ ti, che mai sarebbero nuovamen‑ te in Parlamento senza Berlusconi, difende ad oltranza un Presidente del Consiglio ormai indifendibile da tutti i punti di vista. In verità, soste‑ nendo Berlusconi, i Parlamentari di maggioranza tutelano innanzitutto sé stessi, le proprie cariche, le pro‑ prie prebende. Il meccanismo della responsabilità politica, tra premio di maggioranza, investiture dall’al‑ to dei parlamentari e controllo delle televisioni si è completamente bloc‑ cato. Le sanzioni espressione del‑ la responsabilità politica in questa fase non funzionano. Qui sta la vera emergenza costituzionale. Nel corso di trenta anni, a parti‑ re dai cosiddetti “decreti Berlusconi” che sanarono l’occupazione abusiva dell’etere, fino alla vigente legge elettorale, pezzettino dopo pezzet‑ tino, con la colpevole acquiescenza di troppi, è stato costruito un siste‑ ma istituzionale del tutto atipico che una Costituzione normale come la nostra non è più in grado di regola‑ re. Ad esempio, la Costituzione non prevede l’impedimento del Presi‑ dente del Consiglio per malattia, nel presupposto che la sua sostituzione

avvenga attraverso gli ordinari ca‑ nali della responsabilità politica. Le norme costituzionali possono essere tirate per coprire le nuove fattispe‑ cie, ma al di là di un certo grado di tensione la norma stessa si rompe, facendo venir meno anche quel poco di garanzia che comunque, finanche in questa fase, assicura. Traducendo nello specifico dello scioglimento anticipato, è pur vero che firma e controfirma hanno un “valore istituzionale” diverso a se‑ conda dei differenti atti cui si riferi‑ scono o delle differenti circostanze in cui medesimi atti vengono adot‑ tati. Per chiarire meglio ciò che vo‑ glio dire utilizzo l’espressione “valore istituzionale” al fine di evidenziare quel fenomeno secondo cui anche atti a forma tipica, nonostante la tipi‑ cità della forma, possono avere una diversa capacità di produrre effetti a seconda del contesto politico nel quale essi vengono adottati. In defi‑ nitiva stiamo parlando di una area di tipica interferenza tra politica e dirit‑ to, come ce ne sono molte in ambito costituzionalistico. Dall’equilibrio tra questi diversi parametri deriva il “va‑ lore istituzionale” della firma e della controfirma. Come è noto, ove un go‑ verno si dimetta e non risulti possibi‑ le formare una nuova maggioranza, la decisione sostanziale dello sciogli‑ mento anticipato è tutta riferibile al versante governo-maggioranza tanto da potersi parlare di autoscioglimen‑ to. In una situazione di emergenza costituzionale come quella attuale le cose stanno in modo specularmente opposto. Ma questa constatazione non può indurre il Presidente della Repubblica a comportarsi come se


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l’istituto della controfirma non esi‑ stesse. Del resto soluzioni diverse delineano percorsi nei fatti imprati‑ cabili che, inoltre, potrebbero gene‑ rare mostri incoercibili ove la Pre‑ sidenza della Repubblica dovesse cadere in mani sbagliate. La progressiva delegittimazione politica del Presidente del Consiglio sta facendo assumere un sempre maggiore valore istituzionale ad un Presidente della Repubblica che, vi‑ ceversa, non ne sbaglia una. Ma qui si deve fare attenzione. Non bisogna spingere Napolitano all’emanazione di atti che non può fare e non è opportuno che faccia. Ove mai egli adottasse un decre‑ to di scioglimento anticipato chi e come ne curerebbe l’effettiva ese‑ cuzione? Certo non i “resistenti”, non quel Parlamento, quel Governo e quel Ministro degli interni che in‑

vocando l’assenza della controfirma avrebbero gioco facile a sostenere l’illegittimità del decreto presiden‑ ziale. Argomenti formali e forza di inerzia sarebbero tutti a favore di chi non volesse abbandonare gli in‑ carichi. Nel nostro sistema politico e costituzionale non c’è nessuno che ha il potere o la forza di dissolvere una maggioranza e un governo con‑ tro il loro volere. Bisogna costruire le condizioni politiche perché si arrivi alle dimissioni, come si dice con un eufemismo, “spontanee”, del Presi‑ dente del Consiglio. Anche in Egitto è andata più o meno così. Essere sconfitti da un regime agonizzante produce danni gravis‑ simi. Ero nettamente contrario alla presentazione di una mozione di sfi‑ ducia dall’esito incerto, lo ho detto con tutta la forza che avevo a chi pri‑ ma del 14 dicembre ha avuto la cor‑ tesia di chiedere la mia opinione, ma non ho convinto nessuno. Come nes‑ suno convinsi quando, nella passata legislatura, il governo Prodi presentò una questione di fiducia ad altissimo rischio e a benefici zero. Sorprende come ad un personale politico di grande esperienza parlamentare sia sfuggito che la presentazione di una mozione di sfiducia, come di norma, avrebbe spinto al compattamento la maggioranza. Questo grave errore di politica istituzionale ci ha riportato indietro e di molto. In verità, il centrosinistra, al governo o all’ opposizione, è pe‑ rennemente impegnato a guardarsi l’ombelico. L’opinione pubblica di centrosini‑ stra né, tanto meno, i costituziona‑ listi possono spingere il Presidente della Repubblica ad adottare atti suicidi che poi diventano dei veri e propri boomerang. Non si può co‑ stringere il diritto a fare le veci della politica. I processi a Berlusconi sono procedure giudiziarie che hanno im‑ portanti ricadute politiche. Abbiamo

una fortuna. Tutte le istituzioni del Paese, dal Presidente della Repub‑ blica alla Magistratura, dalla polizia giudiziaria alla Corte Costituziona‑ le, stanno facendo correttamente il loro mestiere e per questa ragione si stanno creando delle oggettive si‑ nergie che in modo sempre più effi‑ cace mostrano l’improponibilità poli‑ tica di questo governo. Le istituzioni stanno facendo la loro parte. È l’opposizione politica che non è adeguata. Conosciamo lo stato dell’informazione nel nostro Paese, sappiamo che l’ultima notizia scac‑ cia quella del giorno prima, ma l’in‑ capacità di costruire narrazioni da parte dell’opposizione è veramen‑ te sorprendente. I nomi di Previti, dell’Utri, Scaiola, Lunardi, Carboni, Verdini, Bertolaso, Anemone, o di sodali proposti come ministri solo per evitare una condanna, sembra‑ no provenire da un lontano passato. Finanche la descrizione di un vecchio malato fatta da una moglie avvilita, sembra consegnata all’oblio, nono‑ stante le turbe del comportamento appaiano sempre più evidenti. Per quel che ci riguarda più da vicino, anche noi giuristi, non riu‑ sciamo a narrare la destrutturazio‑ ne dell’ordinamento provocata da una legislazione incoerente, volta a nutrire di annunci l’opinione pubblica piuttosto che a creare effetti reali. In questa fase l’argomento giuridi‑ co può essere un importante valo‑ re aggiunto della politica, ma non può sostituirsi ad essa e se volesse farlo non ci riuscirebbe, anzi provo‑ cherebbe ricadute inevitabilmente dannose. La vita delle costituzioni si nu‑ tre di politica. Credo che in questa fase il compito precipuo dei costitu‑ zionalisti sia quello di fornire argo‑ menti per mostrare con la maggiore efficacia possibile che siamo dinanzi ad una presidenza del Consiglio dei ministri aliena ed alienata che ope‑

ra in modo sostanzialmente diffor‑ me dalla Costituzione a partire dalla permanente violazione del principio del buon andamento e dell’ impar‑ zialità della pubblica amministra‑ zione. Bisogna evidenziare meglio, nel merito, i disastri che questo go‑ verno sta compiendo e come sia lo spirito stesso della Costituzione ad esigere le dimissioni del presidente del Consiglio e del suo governo, che portino ad un altro esecutivo o allo scioglimento non rileva. Napolitano sta facendo benis‑ simo a mostrare la sostanza delle questioni, ma cerchiamo di non for‑ zarlo a decisioni costituzionalmente improprie e perciò, alla fine, auto‑ lesioniste.



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A cura di Carmine Zaccaria

RAPPORTI UE‑RUSSIA In questo approfondimento parliamo ancora di Energia . Total entra al 12% in Novatek, il più importante produt‑ tore privato di gas in Russia. La diffidenza cede il passo agli interessi occidentali. Questo è solo l’inizio e si prevede un rafforzamento della presenza Total a vari livelli. Le crisi in atto nei paesi produttori di idrocarburi accellerano il processo di avvicinamento. Il progetto Gnl Yamal nell’Artico interessa Exxon, Conoco, Shell. La Total arriva prima e acquista una quo‑ ta del 20% del progetto. Si tratta di uno dei maggiori giacimenti di gas naturale liquefatto. Christophe de Margerie, Presidente Total, firma l’accordo il 2 marzo a Novo Ogorevo. Il Primo Mini‑ stro Vladimir Putin ha avuto un ruolo importante nello sviluppo di questo accordo. Gennady Timchenko è il fondatore e proprietario del gruppo Novatek e rappresenterà un punto di riferimento im‑ portante nello scenario energetico mondiale. Vladimir Putin si conferma il riferimento più importante del Pianeta Russia nei rapporti internazionali che contano. I tentativi di indebolire le posizioni del Primo Ministro, in Russia e fuori dalla Russia, sono finiti miseramente e nuovi grandi scenari si apriran‑ no a breve nella storia della Russia e di questo Leader, Vladimir Putin, che, dal crollo dell’Unione Sovietica, ha scritto grandi pagine di storia. Bisogna lavora‑ re per aumentare i punti di contatto tra Russia e America, tra Russia e Occidente. L’ instabilità in Nord Africa e in Medio Oriente orienta i maggiori gruppi energetici internazio‑ nali verso la Russia che si confer‑ ma il più affidabile produtto‑ re a livello mondiale. Commet‑

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te un gra‑ ve errore di valuta‑ zione chi evoca scenari arabi e nordafricani per la Russia. È pre‑ occupante che a fare ciò sia stato an‑ che un nome storico del Paese. Divagazioni senili o altro, il tempo forse chiarirà i motivi che hanno ispirato queste dichiarazioni poco accorte e pericolose. Mosca non è Tripoli e Putin non è Ghed‑ dafi. Chi pensa di incamminarsi su questa strada non si rende conto dei pericoli che correrebbe l’umanità se venisse posto in essere un tentativo di destabilizzazione in territorio russo, ai confini dell’Europa. La punizione se‑ vera subìta dalla Georgia che ha scatenato una guerra civile nei suoi territori dovrebbe servire da monito. L’Unione Euro‑ pea ha riconosciuto la responsabilità di Tbilisi e dobbiamo rin‑ graziare vari leaders europei e la stessa America se il conflitto non è degenerato ulteriormente coinvolgendo altri paesi. Solo l’Ucraina di Yushchenko e Timoshenko perse l’occasione per ta‑ cere e rischiò scenari di guerra più estesi nel Mar Nero. Il nuovo governo dell’Ucraina ha provveduto, rinnovando il contratto che regola la presenza della Flotta Russa a Sebastopoli, alla stabiliz‑ zazione dell’Area. Se non ci saranno colpi di coda del Presidente della Georgia, con una riapertura delle ostilità, si potrà lavorare al consolidamento di una pace duratura. Il Presidente Medvedev apre a San Pietroburgo una conferenza nella quale si ricorda l’abolizione della servitù della gleba. 150 anni sono passati ma è bene ricordare l’opera dello Zar Alessandro II che, con l’abolizione della servitù della gleba, precede l’abolizione della schiavitù in America. Alessandro II e Abramo Lin‑ coln avviarono un carteggio e questo contatto andreb‑ be esaminato con studi approfonditi. Il Presidente Medvedev parla di una politica riformatrice e che l’idea di libertà non può essere rinviata, che non può esservi un secondo tempo per la libertà. Il discorso è complesso e il Presidente di certo guarda con amore e partecipazione al fu‑ turo del proprio Paese.   >>


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>>  L’unico pericolo è che questa giusta idea di libertà possa essere travisata dai nemici della Russia, dentro e fuori la Russia. Libertà e Democrazia sono ormai parole abusate ne‑ gli scenari geopolitici mondiali e dietro que‑ ste parole molte volte si nascondono insidie e tentativi di cambiare il corso della storia. La democrazia non è esportabile e quando si parla di libertà e democrazia in Russia dob‑ biamo tenere ben presente di cosa parliamo. Dobbiamo tenere presente usi e costumi che scaturiscono da storia e cultura complesse. E

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poi la vastità del territorio. Quando a Roma sono le 12.00 a Mosca sono le 14.00. La dif‑ ferenza tra Mosca e San Pietroburgo è di 2 ore. Tra Roma e Samara è di 3 ore, se siamo a Yekaterinburg o a Perm è di 4 ore, 5 ore per Novosibirsk e Omsk, 6 ore per Kranoyarsk e Kemerovo, 7 ore per Irkutsk, 8 ore per Chita, 9 ore per Vladivostok, 10 ore per Magadan e 11 ore per la Kamchatka. Dobbiamo percepi‑ re queste distanze per capire la necessità di un potere centralizzato. Per capire l’esigenza della nomina diretta dei governatori delle im‑

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mense regioni di questo sconfinato Paese, così lontano ma a noi così vicino. Alla luce di que‑ sti dati semplici si può aprire un confronto sui temi delle libertà e della democrazia. Non pos‑ siamo misurare i livelli di democrazia se non comprendiamo quanto diversa è la realtà che circonda questi popoli e questa terra. Grazie a Mezzogiorno Europa che ci consente di par‑ lare ancora di Russia. Grazie al Direttore An‑ drea Geremicca che segue con amore questo nostro viaggio nelle terre russe e nei rapporti della Russia con la nostra Europa.

Conclusioni Si spegne, per ora, al crepitio delle mitragliatrici, il sogno mediterraneo. Il petrolio non corre più dalle condotte libiche alle nostre coste. I prezzi del bari‑ le sono risaliti a livelli alti, come non si vedeva da tempo. Da anni anticipiamo gli scenari del mondo dell’Energia. Vorremmo sorridere agli interlocuto‑ ri che non hanno creduto alle nostre analisi ma la tragedia che stiamo vivendo non ci consente questo. Una tragedia inattesa. Egitto, Libia e tanti altri paesi di quell’area che c’interessa da vicino impiegheranno anni per ritrovare una incerta sta‑ bilità. Saif al‑Islam Gheddafi ha parlato di guerra civile e la guerra civile, come tutte le cose, ha un inizio certo ma una fine inprevedibile, un risultato imprevedibile. Se questi grandi stavolgimenti in corso hanno avuto un’origine spontanea o meno lo dirà la storia. Per ora è solo cronaca, cronaca nera. Perché parliamo di questo nel Focus Perma‑ nente Ue‑Russia? Non solo perché Unione Euro‑ pea e Federazione Russa sono attori importanti in questo scenario globale. Ne parliamo perché la Federazione Russa, con le sue risorse energe‑ tiche, è l’alternativa possibile a questi paesi in fiamme. Il fuoco della rivolta in Libia incontra una risposta feroce da parte del colonnello Muammar Gheddafi. Solo analisti sciocchi potevano ipotizza‑ re per la Libia le soluzioni adottate in Egitto. Non esiste in l Libia un buen retiro come quello di Mu‑ barak a Sharm el Sheik e poi il colonnello non ha intenzione di andare al mare. Predilige altri bagni

e i fatti di questi giorni lo confermano. Ballate e divertitevi ha detto a Tripoli a quello che resta del suo Popolo. In queste parole c’è la vera sfida all’Europa, al mondo e a tutto l’Occidente. L’Eni di Scaroni e la Gazprom di Miller hanno firmato accordi importanti e di lungo periodo. Sulla sce‑ na Gazprom si affaccia Andrej Akimov, Presidente di Gazprombank, una delle più grandi banche rus‑ se, che a breve entrerà nel Comitato dei Direttori di Gazprom. Ne sentirete parlare, ma i rapporti con l’Italia resteranno inalterati e potranno solo avere ulteriori sviluppi. Scaroni, Amministratore Delegato del nostro Ente Nazionale Idrocarburi ha riferito al Copasir, Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica, e ha fatto bene. Bene ha fatto il Presidente del Copasir Massimo d’Alema a interessarsi della vicenda. Emma Mar‑ cegaglia lancia l’allarme sotto il profilo della spe‑ sa. Ogni rialzo di dieci dollari dell’Oro Nero, costa all’Italia tre miliardi di euro, questo il senso delle sue parole. La Federazione Russa cosa prevede sotto il profilo del grande mercato che gira intor‑ no alle sue risorse energetiche? Aleksej Miller, Amministratore Delegato di Gazprom, durante un convegno a Mosca, ha ipotizzato un accordo con la Ue per le forniture di metano fino al 2050. Se ne discuterà al prossimo vertice Russia‑Ue a Bruxelles. Si discuterà sull’affidabilità delle for‑ niture all’Unione Europea e soprattutto all’Italia. La Russia rappresenta la sicurezza energetica

dell’Europa per i prossimi decenni e oltre. La Libia e in parte l’Algeria non garantiscono questa sicu‑ rezza ed è ora di prenderne atto. La Federazione Russa ha dove convogliare il suo petrolio e il suo gas, lo abbiamo detto e ripetuto. Se spingiamo la Federazione Russa verso la Cina, in particolare, causiamo un grave danno all’Europa e qualcuno deve assumersi questa responsabilità. Suona strano sentir parlare ancora di Cina quale pae‑ se emergente e ci chiediamo quali saranno gli scenari previsti se dovesse emergere ancora. Ci chiediamo cosa dicono e cosa pensano in Euro‑ pa gli addetti ai lavori. I signori dell’Energia della UE vogliono intensificare i rapporti con la Russia sotto questo delicato profilo? Vogliono lavorare alla costruzione di accordi di lungo periodo tali da garantire la sicurezza del nostro sviluppo che passa anche dalle pipeline russe? Basterà segui‑ re le strategie dell’Eni e conservarla integra. I grandi accordi per l’Italia firmati Eni, potrebbero e dovrebbero estendersi all’Europa tutta. Questa è l’unica politica intelligente che l’Europa dei Po‑ poli potrebbe e dovrebbe portare avanti. Se poi ha altri interessi geopolitici che non le consento‑ no queste scelte lo dica, e li motivi, spiegando ai popoli dell’Europa e agli uomini delle sue indu‑ strie in che direzione si vuole andare e perché. Il resto è cortina fumogena, cattiva e interessata informazione e non è verità. Niè Pravda, come si dice in lingua russa.

31


32 Dopo la crisi economica e sociale,

la ricerca. Sempre entro il 2014 dovremmo avere uno “spazio europeo della ricerca”, adeguando le regole e stimolando i finan‑ ziamenti privati di innovazione e ricerca. la crisi mediterranea La spesa statale dovrebbe essere pro‑ prizia alla crescita sostenibile. È certo che le questioni centrali del di‑ Sulla questione della politica este‑ battito europeo restano in questo perio‑ ra dobbiamo constatare senza molte do la crisi economica e sociale e la crisi difficoltà che gli Stati membri, o, almeno mediterranea. di Andrea Pierucci alcuni di essi hanno perso male i loro sco‑ Sulla prima riveniamo ormai da modi alleati e se ne sono, per di più, accor‑ anni, da quando nel 2008 è scoppia‑ ti assai tardi. Le “visite” private della ministra ta la bolla immobiliare americana. degli esteri francese in Tunisia, nel contesto del L’Europa ha reagito, nonostante clan di Ben Ali, il sostegno ambiguo dell’Italia a quel tutto, con qualche coerenza ed governo, l’incertezza totale italiana per quel che riguarda efficacia, ma si è limitata, forse la Libia sono un segno grave di debolezza dei governi di que‑ con l’eccezione della Germania, ad sti paesi nella politica internazionale. L’Europa come tale ha mes‑ occuparsi dell’emergenza, del modo so un bel po’ di tempo per reagire utilmente (si fa per dire!). All’inizio si per arginare crisi analoghe per il futuro. è semplicemente insistito sulla libertà di manifestazione! Se non troviamo A dicembre, come si è visto, si è giunti fino a prevedere modifiche del Trattato per vincolare ulteriormente gli Stati Euro una strada europea efficace, capiterà che, paradossalmente, l’Europa sarà al patto di stabilità ed alle regole di Maastricht. Regole quasi federali sono sconfitta nel Mediterraneo dal ritorno della libertà e del rispetto dei diritti state stabilite per assicurarsi preventivamente del carattere virtuoso dei (speriamo) e dalla perdita di alcuni feroci dittatori, alla faccia della politica bilanci nazionali e per sottoporre a stretto controllo ed a regole rigidissime del rispetto dei diritti fondamentali, predicata dall’Europa. L’assenza di una gli Stati che, rischiando la propria “bancarotta”, mettono in crisi l’Euro. In politica europea diventa davvero un problema drammatico per ciascuno questi termini il successo mi sembra discreto. Manca in modo clamoroso un degli Stati membri, specie per quelli con governi non particolarmente effi‑ vero progetto per rilanciare l’economia. Siamo ancora vittima delle ideolo‑ caci e sovente coinvolti in affari non trasparenti con i medesimi dittatori. È gie che non vogliono “l’ingerenza” dello Stato nell’economia reale: il rilancio un po’ la tesi di Lutwack, il celebre scrittore di politica e di strategia, che dell’economia è una pura questione di mercato. L’unica strategia di prospet‑ si indigna in televisione che i dittatori sostenuti dagli americani finiscano tiva resta la strategia Europa 2020, che succede alla strategia di Lisbona. male e gli altri sopravvivano! Forse i “nostri” dittatori sono più buoni per In sé è una buona idea e, in parte, rappresenta un’iniziativa alternativa alle contagio o per analogia! L’Ungheria presiede il Consiglio dell’Unione. citate ideologie. L’Unione cerca di stabilire un quadro di riferimento entro il Come si ricorderà, il Trattato di Lisbona ha scisso la presidenza del Con‑ quale il mercato potrà agire. Basta in un’economia “globalizzata”? Non cre‑ do. Tuttavia il Consiglio europeo di febbraio ha insistito sulla concreta realiz‑ siglio europeo, che è attribuita per due anni e mezzo ad una personalità poli‑ zazione della strategia, fissando alcune scadenze. In particolare, il Consiglio tica, da quella del Consiglio dell’Unione (quello che ha il compito essenziale europeo ha preconizzato la realizzazione del mercato interno dell’energia di svolgere l’attività legislativa), che resta attribuita agli Stati membri, se‑ entro il 2014. Corollario di questa scelta è l’indicazione che entro quell’an‑ condo una rotazione semestrale. Resta fuori il Consiglio degli affari esteri, no, i sistemi energetici debbono essere interconnessi, affinché non si veri‑ presieduto dall’Alto rappresentante della politica estera (C. Ashton attual‑ fichino crisi nazionali alle quali non si può rispondere con la solidarietà eu‑ mente). La presidenza del Consiglio tocca dunque da gennaio all’Ungheria. ropea. Di nuovo, tuttavia, si è fatto un fondamentale “omaggio” al mercato: Come a suo tempo per la Polonia, retta (allora, non oggi, per fortuna) da un i finanziamenti dovranno venire dal mercato e saranno ripagati con le tariffe governo antieuropeo e di destra quasi estrema, ci sono stati problemi, poi‑ dell’elettricità o del gas. E se il mercato nicchia? Mah, se si tratta di una ché il governo ungherese ha introdotto una legge sulla stampa considerata questione di sicurezza gli Stati possono “stimolare” gli investimenti. Si è poi da molti liberticida e, come tale, oggetto di un’inchiesta della Commissione ritornati sulla necessità di sviluppare l’efficienza energetica e poi le energie europea. Il Parlamento europeo, o almeno una buona parte di esso, non ha alternative. Si è, infine, introdotta l’idea di sviluppare lo sfruttamento degli esitato a far sapere il suo punto di vista particolarmente critico; meno male scisti e degli scisti bituminosi per estrarre gas in Europa. Infine si è rivenuti che il Parlamento europeo si scandalizza ancora; da noi la libertà di stam‑ sulla necessità di occuparsi delle relazioni esterne. L’altro tema della stra‑ pa è assai compromessa dal peso del danaro di chi comanda. Non abbiamo tegia 2020 sulla quale il Consiglio europeo è intervenuto è stato quello del‑ neanche bisogno di una legge per contrastare la libertà di stampa!

Euronote


33 Brevetto europeo: Italia e Spagna fuori

Dopo il Consiglio, anche il Parlamento europeo ha approvato una “coo‑ perazione rafforzata” in materia di brevetto europeo. Si tratta di una decisione che, secondo molti osservatori, dovrebbe ave‑ re un impatto economico molto positivo per le imprese europee. L’Italia e la Spagna si sono chiamate fuori per una ragione linguistica, in quanto le loro lingue, diversamente dal tedesco, per esempio, non sono lingue nelle quali si possa presentare un brevetto. In effetti, si tratta di un bel pastic‑ cio. Da un lato, la questione di principio circa l’uso delle lingue (che è anche una questione concreta per le imprese che debbono lavorare con i brevetti) è giusta: perché discriminare lingue come l’italiano o lo spagnolo? D’altro canto, restare fuori da questa iniziativa può avere effetti disastrosi sulle nostre imprese e sulla nostra ricerca. È difficile dire se vi è stata carenza negoziale o se, effettivamente, il ri‑ sultato era davvero compromesso fin dall’inizio. È anche vero che le nostre imprese e la nostra ricerca non possono pensare alla loro internazionaliz‑ zazione “in italiano”. Recentemente, la Corte di giustizia, in una questione di personale ha dato ragione all’Italia, che si considerava discriminata per il poco (nullo) rilievo che si dava all’eventuale conoscenza della lingua ita‑ liana nella procedura di nomina dei segretari generali di alcune istituzioni. Vedremo come si concluderà la vicenda del brevetto e se vi saranno manie‑ re per recuperare la situazione. Interessanti sono anche alcune discussioni del Parlamento europeo re‑ lativamente alle nuove adesioni. Quel che vorrei mettere in rilievo non è tanto il dibattito parlamen‑ tare – comunque sempre interessante in materia. Preferisco ricordare la situazione del capitolo ampliamento. Cinque Stati, la Croazia, l’Islanda, il Montenegro, l’ex repubblica Iugoslava di Macedonia e la Turchia sono im‑ pegnati nel percorso di adesione. Quattro, Albania, Bosnia, Serbia e Kosovo sono a vario titolo citati come possibili candidati in base al patto di stabilità e ad altri rilevanti impegni internazionali, più o meno formali. Fra i candidati ufficiali, il dibattito ha messo in luce il percorso demo‑ cratico della Turchia, giudicato buono, ma ancora incompleto, nonché la si‑ tuazione del Montenegro. Per questo Stato di recentissima (e pacifica) indi‑ pendenza si è messo in evidenza il rischio criminalità e corruzione, fenomeni considerati assai gravi. Resta il fatto che la stazione di partenza per l’Unione

europea è affollata di treni Anche se non c’è la fretta degli anni novanta e dei primi anni 2000, è chiaro che la politica dell’ampliamento resta un dos‑ sier importantissimo della politica dell’Unione. È ancora vero che l’Unione tratta i singoli candidati, come si dice, per i loro meriti. Ma non può sfuggire che la politica generale delle adesioni andrebbe rivisitata e eventualmente rinnovata, specie dopo la crisi mediterranea. L’Unione è un po’ ostaggio di alcuni governi che hanno fatto delle adesioni un vero tabù elettorale e dunque si segue un po’ la strategia che ebbe Blair circa l’adesione britannica alla politica sociale a metà degli anni ’90 dopo il rifiuto britannico del protocollo sociale del Trattato di Maastricht nel ’92: OK, ma non parliamone troppo e facciamo poco! Non so se basta.

Comitati

Il Comitato economico e sociale europeo sta ancora adattandosi al cam‑ bio di presidenza avvenuto in ottobre e prende la misura della sua politica. Più attivo sembra essere il Comitato delle Regioni, che, sotto la presidenza di Mercedes Bresso, ha fortemente sviluppato una politica di iniziative di consultazione di grande impegno, per esempio sul clima, sulla Costituzione (iniziativa assai coraggiosa!), sul futuro della ricerca o, ancora, sull’appli‑ cazione della Carta dei diritti fondamentali.

L’anno europeo

del volontariato

Il 2011 è l’anno europeo del volontariato, che succede all’anno europeo di lotta contro la povertà. Gli anni europei non servono, ovviamente, a ri‑ solvere i problemi, ma creano occasioni di discussione e di consultazione assai importanti. In pratica, consentono alle istituzioni di riflettere seriamente sul pro‑ blema, di sentire le parti interessati e di avviare o modificare una politica. L’anno scorso, per esempio, a fronte di poche iniziative di grande vigore (ri‑ cordo per tutte l’iniziativa del CESE a Firenze in maggio) c’è stata una forte iniziativa della commissione, voluta proprio da Barroso, che ha “obbligato” gli Stati a fissare obiettivi cifrati a scadenze prefissate per ridurre il tas‑ so di povertà al loro interno ed ha fissato un obiettivo europeo globale. Un grande passo avanti contro il liberismo imperante.


E

ela Russo ani  D

A cu ra d i

2 marzo 2011

Riunione, a Bruxelles, del Coreper II e del Coreper I.

A Nicosia, giornata de‑ dicata a Life+, strumen‑ to finanziario promosso dall’Ue per azioni desti‑ nate all’aggiornamen‑ to della politica e della legislazione nel settore dell’ambiente.

A Bruxelles, incontro setti‑ manale dei Commissari eu‑ ropei. L’appuntamento sem‑ pre cade di mercoledì, solo in occasione della Plenaria del Parlamento si svolge a Strasburgo, il martedì.

Incontro, a Bruxelles, dei venti Comitati del Parlamen‑ to europeo. Al via a Berlino la due giorni “Promozione della Salute mentale e del Be‑ nessere sul Lavoro”, or‑ ganizzata dalla Commis‑ sione Eu e dal Ministero federale della Sanità, in collaborazione con quel‑ lo del Lavoro e degli Af‑ fari sociali e il sostegno della Presidenza Ue. La conferenza è frutto del Patto europeo per la Sa‑ lute mentale e il Benes‑ sere (2008). A Budapest, dal 3 al 4 marzo: “Implementing Single European Sky

34

(SES)”, promosso dalla Presidenza ungherese dell’Ue e dalla Commis‑ sione. L’incontro consen‑ tirà di fare un bilancio delle misure adottate per migliorare l’efficienza nella gestione del traf‑ fico aereo e definire le azioni per la realizzazio‑ ne del SES. A Francoforte si riunisce il Consiglio direttivo del‑ la Banca centrale europea (Bce).

R 11 marzo, del Consiglio per la Competitività.

Incontro, il 3 e 4 marzo, a Gödöllö (Ungheria), del Bu‑ reau del Comitato delle Re‑ gioni. 4 marzo 2011

3 marzo 2011

U

A Bruxelles si riunisce il Co‑ reper I.

Al via, a Bruxelles, la due giorni dedicata alla Sta‑ tistica promossa dall’Eu‑ rostat. A Clermont‑Ferrand (France) si riunisce, il 10 e 11 marzo, la Commissione tematica per le Risorse naturali (Nat) del Comitato delle Regioni. “Fare di più con meno: il ruolo dei partenariati lo‑ cali per la ripresa”, è il tema del settimo Forum organizzato dall’Ocse, a Vienna dal 10 all’11 marzo. L’evento coinvol‑ gerà rappresentanti di partenariati locali, delle istituzioni, dell’universi‑ tà, dell’impresa e della ri‑ cerca per fare il punto su sviluppo locale e ripresa economica.

7 marzo 2011

Plenaria, a Strasburgo dal 7 al 10 marzo, del Parlamento europeo. Contestualmente si svolgeranno gli incontri dei Comitati del Parlamento. Incontro a Bruxelles, del Consiglio Epsco (Occupazio‑ ne, Politica Sociale, Salute e Consumatori).

Giornata internazionale del‑ le Donne. Riunione, a Bruxelles, del Coreper II e del Coreper I. 10 marzo 2011

Incontro a Bruxelles, il 10 e

Giornata europea dedica‑ ta alle vittime del terro‑ rismo. La data ricorda gli attentati alle stazioni della metropolitana di Madrid, in cui persero la vita, nel 2004, 191 persone. Incontro informale, a Bu‑ dapest e Gödöllö, l’11 e 12 marzo, dei Ministri degli Af‑ fari esteri europei. 14 marzo 2011

9 marzo 2011

Incontro, dal 14 al 17 marzo, a Bruxelles, dei Comitati del Parlamento europeo. Riunione dell’Eurogroup a Bruxelles.

Incontro dell’Consiglio per l’Ambiente. 15 marzo 2011

Riunione, a Bruxelles, dell’Ecofin. 16 marzo 2011

Riunione, a Bruxelles, del Coreper II (anche il 17 mar‑ zo) e del Coreper I (anche il 18 marzo).

A Bled (Slovenia), dal 16 al 18 marzo, la conferen‑ za “Quale futuro per la Politica di Coesione?”. Al centro del dibattito i risultati della “Quinta re‑ lazione della Commissio‑ ne sulla coesione econo‑ mica e territoriale”. 17 marzo 2011

Si riunisce a Bruxelles, il 17 e 18 marzo, il Consiglio dell’Agricoltura e della Pe‑ sca.

A Francoforte si riunisce il Consiglio direttivo del‑ la Banca centrale europea (Bce).

11 marzo 2011

8 marzo 2011

O

20 marzo 2011

Cena informale dei Ministri europei del Commercio, a Bruxelles. 21 marzo 2011

Dal 21 al 22 marzo, riunione, a Bruxelles, dei Comitati del Parlamento europeo.

Incontro, a Bruxelles, del Consiglio per gli Affari esteri e del Consiglio per gli Affari generali.


d

ate

22 marzo 2011

Incontro del Coreper I, a Bru‑ xelles.

A Birmingham (Uk), dal 22 al 23 marzo, il decimo Forum Etap sull’Eco‑Inno‑ vazione. Sarà l’occasione per presentare casi azien‑ dali, favorire l’innovazio‑ ne sostenibile attraverso l’incontro di discipline diverse e fissare le prio‑ rità e le azioni che Gover‑ ni e Ue dovranno portare avanti. 23 marzo 2011

Sessione Plenaria, da 23 al 24 marzo, a Bruxelles, del Parlamento europeo. In occasione dell’ultima giornata di lavori si terrà l’incontro dei Comitati del Parlamento.

28 marzo 2011

Riunione, a Bruxelles, del Consiglio europeo, dal 24 al 25 marzo.

A Bruxelles, si riunisce la Commissione tematica per le Politiche di coesione ter‑ ritoriale (Coter) del Comitato delle Regioni.

Riunione, a Bruxelles, del Coreper II e del Coreper I.

Dal 30 marzo al 1 aprile, a Madrid, la VI edizione di Aerodays: due giorni europea dedicata all’ae‑ ronautica. L’evento è or‑ ganizzato dal Cdti (Cen‑ tre for the Development of Industrial Technology in Spain) e dalla Commis‑ sione europea.

Incontro informale, a Budapest e Gödöllö, dal 27 al 29 marzo, dei Ministri europei della Cul‑ tura e dell’Educazione.

Riunione, a Bruxelles, del Coreper I.

Ad Atene, giornata dedi‑ cata a Life+.

“L’innovazione nell’assisten‑ za sanitaria: dalla ricerca al mercato”, è il tema della con‑ ferenza, in programma dal 30 al 31 marzo, a Bruxelles, per la promozione della ricerca. Bureau del Comitato delle Regioni, a Bruxelles.

Incontro a Bruxelles dei Comi‑ tati del Parlamento europeo. Dal 31 marzo al 1° aprile, inol‑ tre, si svolge anche la Plenaria del Comitato delle Regioni. Riunione a Bruxelles del Con‑ siglio per i Trasporti, le Tele‑ comunicazioni e l’Energia.

Riunione informale, dall’11 al 13 aprile, del Consiglio per la Competitività, a Budapest e Gödöllö.

Al via la Settimana euro‑ pea dedicata all’Energia sostenibile. Si discuterà di fonti rinnovabili, best practices, impresa e am‑ biente. Numerose con‑ ferenze si svolgeranno a Bruxelles e nel resto d’Europa saranno pro‑ mosse diverse iniziative per l’Energy Day.

04 aprile 2011

o

31 marzo 2011

27 marzo 2011

“4th Nano Safety for Suc‑ cess Dialogue: Assessing the science and issues at the science/regula‑ tion interface”, la confe‑ renza, organizzata dalla Commissione europea, si svolge a Bruxelles, il 29 e 30 marzo.

Incontro informale, a Budapest e Gödöllö, dei Ministri europei per le Politiche per la Famiglia, dal 31 marzo al 1o aprile. 01 aprile 2011

30 marzo 2011

Incontro informale del Consi‑ glio per l’Ambiente, a Buda‑ pest e Gödöllö, dal 14 al 26 marzo. 25 marzo 2011

Incontro a Bruxelles dei Comi‑ tati del Parlamento europeo. 29 marzo 2011

24 marzo 2011

Dal 4 al 7 aprile si svolge, a Strasburgo, la Plenaria del Parlamento europeo. Contestualmente si riuni‑ scono i venti Comitati. Incontro informale, dal 4 al 5 aprile, a Budapest e Gödöl‑ lö, dei Ministri per la Salute europei.

13 aprile 2011

Riunione, a Bruxelles, del Co‑ reper I. L’incontro del Coreper II prosegue anche il 14 aprile.

“International Congress on Energy Efficiency and Renewable Energy Sources for South‑Ea‑ stern Europe”, a Sofia dal 13 al 15 aprile. Tre giorni dedicati alle energie rin‑ novabili e alle relative tecnologie innovative.

06 aprile 2011

Riunione, a Bruxelles, del Co‑ reper II e del Coreper I. 07 aprile 2011

Incontro informale, dal 7 al 9 aprile, a Budapest e Gödöl‑ lö, dell’Ecofin.

A Francoforte si riunisce il Consiglio direttivo del‑ la Banca centrale europea (Bce). 08 aprile 2011

Riunione, a Bruxelles, del Coreper I. 11 aprile 2011

14 aprile 2011

18 aprile 2011

A Bruxelles, dall’18 al 21 aprile, incontro dei Comitati del Parlamento europeo

Incontro, a Lussemburgo, del Consiglio per gli Affari esteri e del Consiglio per gli Affari generali.

A Bruxelles, dall’11 al 14 aprile, incontro dei Comitati del Parlamento europeo. A Lussemburgo si riunisce, l’11 e 12 aprile, il Consiglio per la Giustizia e Affari Interni.

Incontro a Lussemburgo, il 14 e 15 aprile, del Consiglio per l’Agricoltura e la Pesca.

20 aprile 2011

A Francoforte si riunisce il Consiglio direttivo della Ban‑ ca centrale europea (Bce).

35



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Towards a safer world.

Voliamo ogni giorno in tutti i cieli del mondo Alenia Aeronautica è un leader globale negli aerei regionali e un costruttore indipendente di livello mondiale nelle aerostrutture. La famiglia ATR domina il mercato dei turboelica. Tra breve entrerà in servizio il nuovissimo Superjet, basato su un’ampia collaborazione con Sukhoi. Il contributo al Boeing 787 e all’Airbus A380 conferma Alenia Aeronautica come vero “small prime” in campo civile. Alenia Aeronautica ha contribuito in modo significativo ai più importanti aerei di linea Boeing e McDonnell Douglas. Una vasta gamma di aerostrutture e componenti Alenia Aeronautica è sugli Airbus, sui jet d’affari Dassault e sul futuro Bombardier C-Series. La controllata Alenia Aermacchi è un importante fornitore di gondole motore ad Airbus, Boeing, Dassault, Embraer e altri costruttori.

Quando le idee volano

www.alenia.it


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